VISIONI
SCIENZE DEL TERRITORIO. ISSN 2284-242X. n. 5 STORIa DEL TERRITORIO, pp. 12-18, DOI: 10.13128/Scienze_Territorio-22225. © 2017 Firenze University Press
Visioni
La storia alla prova del territorio
Rossano Pazzagli*, Piero Bevilacqua†, Giuliana Biagioli‡, Saverio Russo§
University of Molise, associate professor of Modern history; mail: rossano.pazzagli@unimol.it.
“Sapienza” University of Rome, professor of Contemporary history.
‡
University of Pisa, professor of Economic history.
§
University of Foggia, professor of Modern history.
*
†
Abstract. Territory is the product of history, a history understood as a process in which man and nature constantly interact, both as active subjects. As a common good, especially in its visible dimension represented by
landscape, territory is also the clearest expression of the identity of a place and of its social groups. For local
communities, territory is the main connection between past and future and, therefore, the basis for social,
economic, planning policies. There is indeed a deep connection between environmental history and the future
of a population or a place, which gives rise to a full awareness of the importance of territorial heritage as a
unique and non-reproducible resource. In the globalisation processes, however, the increasing detachment of
the ends of economic growth from social welfare and the inability of the dominant economic system to organically deal with territorial problems have led to the marginalisation, degradation and de-contextualisation of
places, landscapes, people’s living environments. In the light of these considerations, the paper illustrates the
contribution of historical research towards the re-composition of diferent disciplines around a ‘humanistic’
approach to territorial planning, closer to the culture of the places. It describes and analyses the principles, the
ields and also the future risks for historical research applied to territory and, in particular, to the relationship
between urban and rural environment in the local dimension.
Keywords: territorialist historical research; territorialisation processes; town/countryside; local dimension;
community.
Riassunto. Il territorio è il prodotto della storia, di una storia intesa come processo in cui interagiscono costantemente, entrambi come soggetti attivi, uomo e natura. In quanto bene comune, soprattutto nella sua dimensione
visibile costituita dal paesaggio, esso inisce per essere anche l’espressione più evidente e immediata dell’identità
di un luogo e dei rispettivi gruppi sociali. Per le comunità locali, il territorio è la principale connessione tra passato
e futuro e, dunque, la base delle politiche relative alla società, all’economia, all’urbanistica. C’è infatti un legame
profondo tra la storia ambientale e il futuro di un popolo o di un luogo, da cui discende la necessità di una piena
consapevolezza dell’importanza del patrimonio territoriale come risorsa esclusiva e non riproducibile. Nei processi di globalizzazione, tuttavia, il crescente distacco dei ini della crescita economica da quelli del benessere
sociale e l’incapacità del sistema economico dominante di integrare organicamente le problematiche territoriali
hanno determinato la marginalizzazione, il degrado e la de-contestualizzazione dei luoghi, dei paesaggi, degli
ambienti di vita delle popolazioni. Partendo da queste considerazioni, il contributo illustra l’apporto della ricerca
storica verso la ricomposizione dei diversi saperi intorno ad un approccio ‘umanistico’ nella pianiicazione del
territorio, più attento alla cultura dei luoghi. Esso descrive ed analizza i principi, gli ambiti ed anche i rischi futuri
per la ricerca storica applicata al territorio e, in particolare, al rapporto tra urbano e rurale nella dimensione locale.
Parole-chiave: ricerca storica territorialista; processi di territorializzazione; città/campagna; dimensione locale; comunità.
Nell’ambito della ripresa del dibattito sul ruolo del territorio e del locale nei processi di
trasformazione, cioè in quelli che a lungo si sono chiamati ‘processi di sviluppo’ (ancorati alla crescita) e che oggi – nell’orizzonte della crisi – attendono di essere rideiniti e
perino rinominati, anche le discipline storiche sono sollecitate a ripensare il loro ruolo
e a rilettere sulle categorie di ‘territorio’ e di ‘ambiente’ in un’ottica interdisciplinare.
Il territorio è in efetti il prodotto della storia, di una storia intesa come processo in
cui interagiscono costantemente, entrambi come soggetti attivi, uomo e natura.
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In quanto bene comune, soprattutto nella sua dimensione visibile costituita dal paesaggio, esso inisce per essere anche l’espressione più evidente e immediata dell’identità di un luogo e dei rispettivi gruppi sociali.
Come tale quindi deve essere trattato, e non come un supporto isico su cui appoggiare
in modo incessante i manufatti e le deiezioni delle attività antropiche. Per le comunità
locali, il territorio è la principale connessione tra passato e futuro e, dunque, la base delle
politiche relative alla società, all’economia, all’urbanistica. C’è infatti un legame profondo
tra la storia ambientale e il futuro di un popolo o di un luogo, da cui discende la necessità
di una piena consapevolezza – prima di tutto da parte dei suoi abitanti – della forza del
patrimonio territoriale e della sua importanza come risorsa esclusiva e non riproducibile.
Strutture sociali e culture non esisterebbero senza il territorio; la città non esisterebbe, e
non avrebbe potuto nascere, senza l’agricoltura. Non è un caso che tra le diverse derivazioni etimologiche della parola ‘territorio‘ troviamo chiari rimandi alle attività rurali: da
terere (arare, triturare le zolle) a tauritorium, cioè terreno lavorato dai tori.
Come è noto, il manifesto della Società dei territorialisti, a cui si aggiunge il volume
che raccoglie gli atti del suo congresso fondativo (MAGNAGHI 2012), propone una ricomposizione dei saperi intorno ad un approccio ‘umanistico‘ attento alla cultura dei
luoghi, caratterizzato da una molteplicità di fattori critici tra cui: il crescente distacco,
nei processi di globalizzazione, dei ini della crescita economica da quelli relativi alla
realizzazione del benessere sociale; l’incapacità del sistema economico dominante di
integrare organicamente le problematiche territoriali; l’insuicienza dei tradizionali
indicatori della ricchezza per misurare il benessere degli individui e della società; l’allontanamento crescente dei centri decisionali dalla capacità di controllo e governo
delle comunità locali; la marginalizzazione, il degrado e la decontestualizzazione dei
luoghi, dei paesaggi, degli ambienti di vita delle popolazioni.
a questa lunga serie di criticità, chiaramente interconnesse tra di loro, fa seguito l’enucleazione dei principi guida dell’approccio territorialista, a partire dalla inscindibilità di natura e cultura e da quella tra territorio e storia (PAZZAGLI 2011).
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1. Storia del processo di territorializzazione
Il territorio visto nella sua dimensione processuale di lunga durata, frutto dell’incontro
tra insediamento umano, natura e cultura, dovrebbe tornare ad essere – secondo questa ottica – un basilare campo di studi per noi storici, variamente impegnati negli insegnamenti universitari di storia del territorio e dell’ambiente o di storia dell’agricoltura.
Il processo di territorializzazione, iniziato con la pratica dell’agricoltura e scandito
poi nei secoli dal ruolo delle città e, a partire dall’Ottocento, dalla nascita della civiltà industriale, è il primo obiettivo degli studi storici territorialisti. Esso richiede
certamente lavori di sintesi, ma deve incentrarsi soprattutto sulla scala regionale
e/o locale, partendo dalle risorse, le vocazioni, le potenzialità, i caratteri identitari
di fondo, le trame isiche e biologiche dei contesti territoriali. anche in Italia c’è la
necessità di articolare il discorso sui diversi contesti, in primo luogo per quanto
concerne il territorio rurale: da quello produttivo di pianura a quello dei territori
montani e di buona parte di quelli collinari, secondo una lettura che vada oltre
il dualismo nord-sud per adottare – con riferimento alla vecchia espressione di
Manlio Rossi Doria (2005) – una prospettiva binaria su “la polpa e l’osso” delle campagne italiane. Emerge così una griglia più articolata di contesti, evidenziando come
in Italia esistano in realtà molti Sud e come in vari casi le diferenze tra urbano e rurale,
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così come l’altitudine e le speciiche condizioni ambientali, abbiano pesato assai più
della latitudine. Quei molti Sud sono da intendersi non tanto nel connotato negativo
di una irrimediabile arretratezza (in tal caso bisognerebbe sempre domandarci: arretratezza rispetto a che cosa?), quanto piuttosto come espressioni di peculiarità e di
possibili rinascite verso nuovi orizzonti, nella direzione indicata dal “pensiero meridiano” (CASSANO 1996). Questo ragionamento può valere, specularmente, anche per i vari
Nord. Sono considerazioni che ci spingono verso la necessità di superare modelli di
sviluppo ‘copiati’ da altre aree europee (che hanno e hanno avuto, a loro volta, i loro
Nord e i loro Sud) per arrivare a un racconto originale tenendo conto delle condizioni
ambientali, dei fattori produttivi, degli agenti (economici, politici, sociali) sulla scena.
Si possono ipotizzare modelli di crescita/cambiamenti/diferenze per regioni, tenendo conto anche delle separazioni politiche delle stesse nei secoli, che permettano di
cogliere le peculiarità e le diversità anche all’interno delle singole regioni (montagna/
pianura, coste/entroterra, ma anche città/campagna, capoluogo/periferia…).
2. Gli ambiti della ricerca storica territorialista
L’agricoltura e la ruralità, le forme dell’insediamento e del popolamento, i paesaggi, la iliera del cibo, l’approvvigionamento energetico, l’integrazione tra urbano e rurale, la pratiche
sociali e culturali, le forme di accesso alle risorse naturali, le istituzioni, i fattori economici,
gli attori in scena e le loro trasformazioni sono gli obiettivi privilegiati del lavoro storico.
Si tratta di temi che richiedono un approccio di lungo periodo, che abbandoni la
rigidità delle convenzionali periodizzazioni (età antica, medievale, moderna, contemporanea) per recuperare una visione unitaria e complessa del percorso storico con
studi e ricerche mossi dall’emergenza strategica del presente per quanto concerne il
rapporto tra uomo e natura, tra uomo e località, tra luoghi e non luoghi. La centralità
del ruolo delle risorse è evidente, e tra le risorse una particolare attenzione deve essere riservata proprio al suolo e al paesaggio.
Il paesaggio non può che essere inteso, anch’esso, come bene comune e come risorsa
di interesse collettivo, soggetta ad una incessante trasformazione che richiede di essere governata dalle politiche pubbliche e studiata tramite un’analisi approfondita e
multidisciplinare se vogliamo comprenderne appieno l’evoluzione, i valori e i linguaggi:
dal paesaggio isico a quello immaginato (o percepito), da quello agrario a quello industriale. I paesaggi antropizzati si possono intendere tutti ormai come paesaggi culturali, compreso appunto quello agrario e quello industriale. Quello agrario in particolare
ha in Italia una consolidata tradizione di studi, soprattutto da Emilio Sereni in poi. Si
può dire che è stato in questo ambito tematico, più che altrove, che si è annunciato
l’approccio territorialista: “Entro quali forme di organizzazione del territorio si è venuto
svolgendo, nei diversi ambienti naturali e storici della penisola, lo sfruttamento agricolo
della terra?” Così si apriva la Storia dell’agricoltura italiana curata da Piero Bevilacqua,
che rispondeva sintetizzando nella cascina padana, nel podere dell’Italia centrale e nel
latifondo meridionale il quadro dei sistemi agrari, che pure erano a loro volta articolati
in una signiicativa combinazione di varianti locali (BEVILACQUA 1989). L’agricoltura, come
sappiamo, è uno dei principali strumenti del processo di territorializzazione.
Se il paesaggio – come il territorio – è una risorsa, termine che anche etimologicamente implica il concetto di costante rigenerazione, allora la sua tutela e la sua riproducibilità devono essere considerate un elemento cardine degli studi e della connessione tra questi e le politiche che riguardano il territorio (TOSCO 2009).
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3. Città e campagna
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Il rapporto città/campagna è un tratto caratteristico della storia d’Italia, particolarmente accentuato nelle regioni centro-settentrionali del Paese, e la storiograia non
ha mancato di focalizzare l’attenzione su di esso. Ma il tema è da riprendere in forme
nuove, che ci aiutino a comprendere e ricostruire le reti funzionali e il legame tra
componenti territoriali diverse (non solo città/campagna, ma anche montagna/pianura, costa/entroterra, ecc.). Declinato in questa maniera, il rapporto città/campagna
deve rappresentare quindi un obiettivo speciico degli studi storici territorialisti.
La città, specialmente la città manifatturiera-commerciale, ha signiicato nel tempo la
presenza di una molteplicità di funzioni sul territorio, autonomia politica e vicinanza
del potere (Italia comunale), organizzazione di contadi e di sistemi agricoli in funzione
dell’approvvigionamento alimentare e delle materie prime (es. la mezzadria nell’Italia
centrale, ma anche tutte le altre forme speso connesse con il possesso collettivo e gli
usi civici sulla terra) e un frequente contatto culturale degli abitanti della campagna
con la vita urbana. Profondi legami che non hanno impedito una chiara distinzione
dei ruoli e dell’immagine urbanistica. In un sistema unico, la città doveva fare la città
e la campagna la campagna. Per stare insieme e perché il sistema funzionasse, i ruoli
dovevano essere chiaramente distinti e come tali percepiti. Contavano le relazioni e
l’integrazione delle funzioni. Con i processi di industrializzazione e di globalizzazione,
la progressiva distruzione del locale e del rurale ha determinato un bypass: la città può
vivere senza la sua campagna e la campagna può morire senza più alcun rapporto
con i centri urbani di riferimento. ad un certo punto della storia si è spezzato – come
ha messo in luce Piero Bevilacqua (2008) – il circolo energetico, ma anche il legame
economico e culturale tra città e agricoltura contadina sempre più marginalizzata.
Evidenziare questa rottura per superare la contrapposizione e costruire un’alleanza
tra urbano e rurale recuperando funzionalità integrate, così come tra tutte le altre
diverse componenti dei sistemi territoriali, deve essere oggi un obiettivo a cui tendere. Nell’ambito di strategie generali di resistenza al processo di globalizzazione, o
della sua declinazione in forme glocali, il ritorno al territorio da parte degli storici può
costituire un punto di forza per dare corpo al “progetto locale” di cui parla alberto
Magnaghi (2010) nella prospettiva della coscienza di luogo.
4. Due nuove o ritrovate centralità: territorio e dimensione locale
Un punto focale degli studi territorialisti è assumere l’ottica locale, partendo dai luoghi
e dalle comunità, anche dalle più piccole. Può un piccolo centro, una realtà senza un
vero e proprio statuto urbano, e quindi somigliante più alla comunità rurale che alla
città, essere considerato un buon campo di osservazione? a questo tipo di interrogativo, che investe i rapporti tra storia e antropologia, Fernand Braudel (1987, 231) rispondeva afermativamente, a condizione però che il piccolo mondo non venisse studiato
solo in sé e per sé, secondo le regole troppo spesso seguite dall’indagine etnograica, ma ricondotto a molteplici piani di comparazione, sia nel tempo che nello spazio.
Il nostro campo di indagine è dunque una comunità, vista nella sua isionomia isica
(il luogo e i relativi caratteri ambientali), storica, come entità amministrativo-giuridica
di base dello Stato nelle sue diverse conigurazioni, e sociale, vale a dire come una
collettività i cui membri dividono un’area territoriale comune che costituisce la base
di operazioni per le attività quotidiane.
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a partire dagli studi della scuola di antropologia culturale americana, e dal lavoro di
Robert Redield in particolare, le ricerche su singole comunità si sono venute conigurando sempre più come occasioni ricche di implicazioni teoriche per lo studio di una
data società. È invece nella tradizione sociologica, da Tönnies (1979) a Weber (1968) a
Parsons (1965), che possiamo ritrovare una costante rilessione sulla comunità come
entità generatrice di solidarietà spontanea, in cui l’agire sociale dei membri è in gran
parte orientato dall’appartenenza reciproca e la collettività si fonda sulla condivisione di un territorio e di valori comuni. La comunità - è stato anche detto - è come la
salute, di cui si acquista coscienza solo quando viene a mancare o comunque si manifestano delle diicoltà (GIANNOTTI 1967, 525); ciò spiegherebbe, tra l’altro, la crescente
attenzione dedicata alle comunità nel momento in cui queste correvano il rischio di
essere spazzate via da fenomeni dirompenti, tipici del mondo contemporaneo, come
l’industrializzazione e l’urbanizzazione, a partire dallo stesso Tönnies, le cui tesi sull’opposizione comunità/società lasciavano trasparire il sentimento post-romantico per il
paradiso perduto dei rapporti comunitari. Su queste basi, il concetto di comunità ha
conosciuto una grande fortuna non tanto come concetto scientiico, quanto come
immagine utile sul piano analitico, ino a far parlare di un “myth of community studies”
(STACEY 1969). L’ambito comunitario (in senso sociale, territoriale, politico, ecc.) ha così
inito per essere considerato un campo di studio nel quale far convergere discipline
e metodologie diverse e sul quale sperimentare approcci e metodi comuni (MACFARLANE 1977). Non pochi studi di carattere storico e antropologico rispondenti a questa
ottica sono stati avviati, in particolare, per le regioni mediterranee del continente europeo, al punto da far parlare di una Europa del Sud come campo di ricerca speciico
e privilegiato (cfr. WOOLF 1992).
In Italia il panorama storiograico appare ormai costellato da numerosi lavori sulle comunità di antico regime. Le comunità locali italiane del basso Medioevo e
dell’età moderna, pur studiate in modo variegato e secondo approcci diferenziati, a tal punto che resta diicile parlare di una storia di comunità come peculiare
genere storiograico, sono diventate, specialmente negli ultimi venti anni, punti
nodali per la storia delle formazioni statali. Il loro studio, in alcuni casi sensibile e in
altri diidente verso l’approccio microanalitico, ha comunque teso ad aggiungere
alla storia degli aspetti politico-istituzionali quella della famiglia e della parentela,
dell’economia, dell’amministrazione della giustizia, della sociabilità religiosa, della
mentalità. L’avere spostato l’attenzione per le comunità da un’ottica essenzialmente
politica, legata ai rapporti tra potere locale e potere centrale, ad altri tipi di relazioni
e di interdipendenze è collegato all’inluenza esercitata sugli storici da metodologie mutuate da altre discipline, in primo luogo dall’antropologia. Ciò ha generato
un dibattito tra chi ha continuato a guardare alle comunità con l’ottica inglobante
dello Stato e chi, invece, ha proposto di studiarle adottando un punto di vista interno, microstorico, privilegiando il campo delle strategie e delle pratiche sociali, non
escludendo i ritmi della grande storia politica, ma osservandoli dal basso o dalla
periferia (TOCCI 1989).
Un punto d’incontro di queste diverse tendenze può essere ravvisato, se vogliamo,
nell’adozione abbastanza generalizzata dei concetti di struttura e di lunga durata
come idee-guida da applicare alla ricerca su comunità, inalizzata non più soltanto a
decifrare un sistema di relazioni politiche ed economiche con un mondo più vasto, ma
anche a riconoscerne le dinamiche interne, il sistema di valori, i criteri dell’agire sociale
(POVOLO 1984). Certamente, se l’attenzione focalizzante della microstoria aiuta a leggere
più in profondità le varie forme di aggregazione della vita locale (GRENDI 1978; LEVI 1981),
resta sempre necessario non perdere di vista la questione dei rapporti tra la comunità
studiata e la società più ampia, sia quest’ultima deinita come il sistema dei rapporti politici e della forma-Stato di cui la comunità fa parte, o come la rete dei lussi economici e
demograici nei quali è inserita. Più che ad un compatto microcosmo, l’idea di comunità
che dobbiamo privilegiare rimanda quindi alla metafora della rete (GRIBAUDI 1992).
L’articolazione interna di una comunità costituisce già di per sé un livello di analisi, alla
base del quale si colloca lo studio delle strutture sociali e delle dinamiche familiari. Ma
nell’approccio storiograico territorialista non possiamo prescindere dall’analisi degli spazi
comunitari, dell’identità sociale e culturale dei luoghi, e inine – ma non per ultima – della
loro dimensione istituzionale. Occorre ricostruire e comprendere i meccanismi della produzione di località, nel senso che i luoghi non sono contenitori inerti di legami e sentimenti; sono invece costruzioni sociali e culturali frutto di una produzione continua da parte dei loro abitanti che interagiscono comunitariamente con l’ambiente isico e le risorse
circostanti. La località viene così a conigurarsi, forse più del concetto ambiguo di identità,
come un orizzonte territoriale comprendente forme istituzionali di pratiche e valori condivisi, modi di fare, di lavorare, di scambiare che creano dei diritti, il cui godimento sta alla
base del senso di appartenenza e di benessere (TORRE 2011). Il ruolo dei municipi assume
qui una importanza basilare come struttura istituzionale di base che connette autogoverno e rappresentanza, autonomia e integrazione territoriale, società e classi dirigenti.
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5. Per una ricognizione degli studi storici territorialisti
Il progetto territorialista non prescinde, né potrebbe farlo, dalla fase di crisi strutturale
che il mondo cosiddetto sviluppato sta vivendo. Se la crisi è strutturale e per certi versi
epocale, allora essa deve essere afrontata costruendo pazientemente non tanto nuovi
modelli (visto che la ricerca storica rivela spesso proprio il pericolo dei ‘modelli’, che
anzi, a diferenza di altre discipline sorelle, tende a demolire anziché a costruire), ma
certamente nuovi sentieri, nuove forme di società, di economia, di politiche e stili di
vita. Gli storici non partono da zero: hanno una tradizione di impegno civile e alcuni di
loro hanno alle spalle tradizioni storiograiche che possono essere rivisitate, reinterpretate e ricomposte nell’ottica territoriale (storia agraria, storia di comunità, microstoria,
storia del paesaggio). Operativamente, possiamo fare da subito una ricognizione delle
esperienze che negli ultimi anni sono maturate in ambito storiograico seguendo, più
o meno consapevolmente, una impostazione territorialista. Tra queste possiamo ricordare qui, a solo titolo di esempio, i casi dei primi corsi di insegnamento di storia del territorio (quasi sempre associato con l’ambiente) introdotti in alcuni atenei (Pisa, Molise,
ecc.), la nascita in dal 2002-2003 a Pisa dell’Istituto di ricerca sul territorio e l’ambiente
IRTa e di qualche rivista (Locus. Rivista di cultura del territorio; Glocale. Rivista molisana di
storia e scienze sociali) che sono andati ad aggiungersi all’attività della scuola territorialista. In Puglia e in Toscana, inoltre, il lavoro per la redazione del Piano paesaggistico
territoriale si è avvalso di difuse competenze territorialiste (v. Marson 2016). Tuttavia,
ci sono gravi pericoli per il futuro: da un lato, con la modiica del regolamento sui
Dottorati di ricerca, le esperienze di formazione organizzate tra vari atenei con un’impostazione tematica e diacronica sono state quasi del tutto annullate, a vantaggio di
corsi di dottorato di sede, che propongono un assemblaggio incoerente di discipline.
Dall’altro, per motivi più generali che attengono anche alle questioni del reclutamento, va segnalato il pericolo che, per il mancato ricambio, importanti tradizioni di ricerca
territorialista possano rapidamente esaurirsi nei prossimi anni.
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Rossano Pazzagli is associate professor of Modern history at the University of Molise and founding member
of Società dei Territorialisti.
Piero Bevilacqua is full professor of Contemporary history at Sapienza University in Rome, after teaching at
the Universities of Salerno and Bari. He founded the Istituto meridionale di storia e scienze sociali (IMES) and
the journal Meridiana. Research areas of interest: history of the contemporary landscape, history of recent
changes in territories.
Giuliana Biagioli is full professor of Economic history at the Department of History, University of Pisa. She is
the President of Leonardo-IRTA, Research institute on territory and environment.
Saverio Russo is full professor of Modern history at the University of Foggia. He works on the economic and
social history of southern Italy in the modern era, on landscape history, and on policies for the protection and
valorisation of cultural heritage.
Rossano Pazzagli è professore associato di storia moderna all’Università degli Studi del Molise e membro ino
dalla fondazione della Società dei Territorialisti.
Piero Bevilacqua è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Roma “La Sapienza” e ha
insegnato negli atenei di Salerno e Bari. È il fondatore dell’Istituto meridionale di storia e scienze sociali (Imes)
e della rivista Meridiana. Aree d’interesse: storia del paesaggio contemporaneo, storia delle trasformazioni recenti dei territori.
Giuliana Biagioli è professore ordinario di Storia Economica presso il Dipartimento di Storia dell’Università di
Pisa ed è Presidente di Leonardo-IRTA, Istituto di ricerca sul territorio e l’ambiente.
Saverio Russo è professore ordinario di Storia moderna all’Università di Foggia. Si occupa di storia economica
e sociale del Mezzogiorno in età moderna, di storia del paesaggio, dell’ambiente e del territorio, di politiche di
tutela e valorizzazione dei beni culturali.
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