StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
Clemente SPARACO*
Crisi delle ideologie e “rivincita” di Dio
Crisi delle ideologie e fine della modernità
I
l 1989 ha segnato la fine dell’epoca dei grandi contrasti
ideologici, della guerra fredda e del mondo diviso in blocchi
contrapposti. In un senso più lato ha segnato la fine delle
ideologie. Ma la fine delle ideologie era stata già teorizzata.
È sintomatico, infatti, che dalla fine degli anni Sessanta si
cominciassero ad usare definizioni accomunate dal prefisso
post: “società post-industriale”, “società post-capitalistica”,
____________________
Clemente Sparaco (1963), dopo la laurea in Filosofia presso
l’Università degli Studi di Napoli, ha iniziato ad insegnare nei Licei,
diventando docente di ruolo nel 1987. Dal 1994 ha collaborato come
cultore presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di
Salerno, cattedra di Filosofia Teoretica, e dal 2000 al 2001 con
contratto di collaborazione didattica. Nel 2012 ha conseguito il
dottorato in Etica. Ha fatto parte della redazione della rivista «Scienza
e Sapienza» e scrive per diverse riviste e quotidiani on line. Dopo gli
studi giovanili su Agostino, cui ha dedicato due volumi, ha
approfondito lo studio del pensiero postmoderno (La fine della
postmodernità, Edisud, Salerno 2003) e della filosofia dialogica (Oltre la
solitudine dell’Io, Aracne, Roma 2013).
93
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
“ordine post-borghese”1. Nel ‘79 Lyotard in La condizione postmoderna2 scrisse che il presente era contraddistinto dalla
molteplicità dei discorsi in contrapposizione all’uniformità
moderna. «Semplificando al massimo – affermava –, possiamo
considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle
metanarrazioni»3. Qualche anno dopo, Vattimo nella crisi
dell’idea di progresso, riscontrabile tanto nelle arti, quanto nelle
scienze e nella filosofia, individuò quella che definì come fine
della modernità4.
1
) L’epoca tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni
Settanta «è l’età del “post”. Daniel Bell configura la società postindustriale (1973), Ralf Dahrendorf la società post-capitalistica,
George Lichtheim un ordine post-borghese, un seguace di Marshall
McLuhan annuncia la nascita della “post-Literature Culture” e
Sidney Ahlstrom “cerca di cogliere il cambiamento della scena
religiosa come una trilogia di ‘post’: post-puritana, post-protestante,
post-cristiana” ‒ una vera sparatoria!» (Livio SICHIROLLO, La fine di
tutte le cose, in «Belfagor», anno 49 (1994), fasc. III, pag. 325). «Nel
momento in cui ci definiamo postmoderni, il nostro primo dilemma,
politico e culturale, riguarda l’indeterminatezza dello stesso termine
“post”. Il pensiero contemporaneo abbonda di categorie la cui
differentia specifica è fornita da questo prefisso. Abbiamo, ad esempio,
un “post-strutturalismo”, società “post-industriali” e “postrivoluzionarie”, perfino una “post-histoire”» (Agnes HELLER Ferenc FEHÉR, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova
1992, p. 7).
2
) Jean François LYOTARD, La condizione post-moderna. Rapporto sul
sapere, Feltrinelli, Milano 1981. Sulla questione si vedano: Tomás
MALDONADO, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987, p.
15-20 e Michela NACCI, Postmoderno, in Paolo ROSSI (diretta da), La
filosofia, vol. IV, Stili e modelli teorici del Novecento, UTET, Torino 1995,
p. 361-363.
3
) LYOTARD, La condizione post-moderna. Rapporto sul sapere, cit., p.
6.
4
) Gianni VATTIMO, La fine della modernità. Nichilismo ed
ermeneutica nella cultura postmoderna, Garzanti, Milano 1985.
94
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
In tale contesto, l’espressione “fine delle ideologie” si
riferisce al declinare delle visioni universali ed omologanti.
Ancora più in profondità indica l’epoca del tramonto degli
assoluti morali, politici e religiosi, e quindi di tutti quei discorsi
aventi la presunzione di valere al di là dei contesti e delle
differenze. Ne consegue che il termine ideologia è inteso come
sinonimo di sapere forte, piantato nell’autoconsapevolezza
dell’uomo circa le proprie capacità e possibilità. Indica il
modello di sapere a fondamento tanto del sapere etico-politico,
quanto del sapere scientifico, tanto della visione della storia
lineare e progressiva, quanto della pretesa teorica della scienza
di disegnare un quadro di certezze assolute ed incontrovertibili.
Quanto alla post-modernità, essa coinciderebbe col
compimento del nichilismo5, con il venir meno dei punti di
riferimento.
In effetti, nel crollo di un modello di sapere e di una
visione della storia qualcosa di epocale effettivamente era
accaduto. Era venuta meno non tanto, o soltanto, un’ideologia,
ma la stessa matrice illuministica a fondamento di tutte le
ideologie, quel modo di vedere la storia come segnata da un
necessario ed indefettibile progresso, che era proprio del
marxismo. Si era entrati in un’epoca ancora indefinita, ma che
comunque era avvertita come situantesi al tramonto della
5
) Con l’annuncio della morte di Dio, Nietzsche afferma non solo la
fine della credenza in Dio, ma anche il declinare di tutti gli assoluti.
Ne consegue il vertiginoso senso di un’assenza totale di riferimenti in
quello che configura come eterno precipitare: «Che mai facemmo, a
sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove
ora? Dov’è che ci muoviamo noi ora? Via da tutti i soli? Non è il
nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da
tutti i lati? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito
nulla?» (Friedrich NIETZSCHE, La gaia scienza, in Opere, a cura di
Giorgio Colli e Mazzino Montinari, vol. V, tomo II, Adelphi, Milano
1991, p. 150-151 [aforisma 125]).
95
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
modernità6. Scriveva Marcello Pera: «molti insistono nel dire
che siamo entrati nel “post-moderno”, che siamo “dopo la
filosofia”, “dopo la virtù”, “dopo l’obiettività”, “dopo le
ideologie”, “dopo la perdita del mondo”. E così il nichilismo, il
pensiero negativo, il decostruttivismo sarebbero le guide
migliori per accompagnarci nel terzo millennio»7.
Ma, prima ancora di indicare la crisi di una visione della
storia o del mondo, il post-moderno denunciava la crisi di una
visione dell’uomo.
All’origine della modernità non c’era, infatti, solo un’idea
di sapere o di storia, ma un’idea di uomo, che aveva cominciato
a delinearsi con l’Umanesimo e si era affermata definitivamente
con l’Illuminismo. Ora, nella misura in cui la modernità era
dominata dall’idea di un soggetto forte, a sua volta portatore di
una ragione forte, la post-modernità, sembrava andare incontro ad
un soggettivismo relativistico negante ogni fondamento e valore.
Si profilava, conseguentemente, un’incredulità verso tutti i
progetti teorici, pratici o tecnici basantesi sulla pregiudiziale
fiducia nell’uomo e nella sua ragione. L’uomo non pareva più
capace di dare ordine al mondo né di dirigere la storia. Il suo
procedere lungo il corso storico somigliava ormai ad un
addentrarsi in un intrico di vie rapido e frenetico8, ma senza
meta9, qualcosa di simile alla “ragnatela” del web.
6
) «Il destino della nostra generazione è di trovarsi fra i tempi. Noi
non siamo mai appartenuti al tempo che oggi volge alla fine. Forse
apparterremo una volta al tempo che verrà? e anche ammesso che da
parte nostra si sia in grado di appartenergli, esso verrà tanto presto?
Così ci troviamo nel mezzo. In uno spazio vuoto [...]. Noi ci troviamo
fra i tempi» (Friedrich GOGARTEN, Fra i tempi, in Le origini della
teologia dialettica, a cura di Jürgen Moltmann, Morcelliana, Brescia
1976, p. 502.508).
7
) Marcello PERA, Il mondo incerto, Laterza, Roma - Bari 1994, p. XI.
8
) «L’accelerazione dei processi storici, che caratterizza il nostro
secolo, acutizza questo senso del divenire e sembra mettere in
discussione ogni appiglio sicuro. La seduzione del nuovo, connessa al
ritmo frenetico della vita, sembra rendere inconcepibile ogni idea di
96
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
La condizione post-moderna era quella di chi si trova a
convivere con le angustie e le idiosincrasie del presente, in un
orizzonte di tramonto, senza entusiasmi e senza speranza: «per
chi viva il presente come postmoderno la questione primaria sta
dunque nel fatto che egli vive nel presente, ma allo stesso
tempo, dal punto di vista spazio-temporale, viene dopo»10.
Le radici remote della crisi
La crisi ha radici remote e radici più prossime.
Le radici remote sono da ricercarsi nell’esperienza della
guerra, del terrore nucleare, dei campi di sterminio, che hanno
segnato nel senso di un’interruzione il corso storico, facendo
avvertire una negatività insopprimibile ed insuperabile, al di là
e fuori del progetto moderno di emancipare l’uomo e
razionalizzare la storia.
Scrivendo appena dopo la fine della seconda guerra
mondiale, Romano Guardini esprimeva così queste
inquietudini: «lo spirito dell’uomo è libero di fare il bene ed il
male, di costruire e di distruggere. E gli elementi negativi non
sono antitesi necessarie nel processo generale, ma sono negativi
in senso proprio: sono ciò che si fa sebbene non sia necessario
farlo sebbene si abbia la possibilità di far diversamente, di far
ciò che è giusto. Ed è proprio quello che e avvenuto nelle cose
essenziali e su vastissima scala. Le cose hanno seguito un
cammino sbagliato ed i fatti lo dimostrano. Il nostro tempo lo
avverte e ne è inquieto nella sua intima profondità»11.
verità eterne ed immutabili» (Bruno FORTE, Gesù di Nazaret. Storia di
Dio, Dio della storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1985,
p. 46).
9
) Cfr. Gaetano CHIURAZZI, Il postmoderno, Bruno Mondadori,
Milano 2002, p. 10.
10
) HELLER - FEHÉR, La condizione politica postmoderna, cit., p. 7.
11
) Romano GUARDINI, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana,
Brescia 1999, p. 77-78
97
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
Gli elementi negativi della storia si sono dimostrati
negativi in senso assoluto. C’è un male radicale dentro l’uomo
che attende una redenzione che non può venire dall’uomo,
male che i filosofi della scuola di Francoforte avevano
individuato nell’olocausto. Esso era il punto di non ritorno, che
marcava la fine dell’illuminismo e del suo modo ottimistico di
guardare
alla
storia12:
«Auschwitz
ha
dimostrato
inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse
succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte
e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo
spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini»13.
Nessuna conciliazione fra realtà e ragione: ad Auschwitz,
nell’Europa della ragione e della civiltà, l’irrazionalità ha
trionfato e le pretese plasmatrici della cultura si sono rivelate
false.
Ad
Auschwitz
sono
morti
la
fiducia
e
l’autocompiacimento dell’uomo, la fede nel progresso e nella
storia.
D’altra parte, Auschwitz non può essere interpretata come
puro e semplice ritorno delle barbarie nel bel mezzo di
un’Europa culturalmente raffinata. La barbarie che ritorna lo fa
nelle forme e nei modi della scienza e della tecnica. Lo
sterminio degli ebrei non è stato frutto, infatti, di una violenza
cieca ed impulsiva, ma è stato pianificato, calcolato e messo in
atto con consequenziale lucidità. Non un caso o un’anomalia,
dunque, ma il frutto nefasto di una cultura. E ciò dimostra che
la scienza non solo non ha migliorato l’uomo, ma gli ha fornito
12
) Con Illuminismo Adorno e Horkheimer intendono un «pensiero
in continuo progresso» (Theodor W. ADORNO - Max
HORKHEIMER, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p.
11). Perciò, essi estendono la portata del termine oltre i limiti storici
dell’Illuminismo, intendendo con esso la critica rivolta dalla ragione
alla fede e alla superstizione, che ha lo scopo di rendere gli uomini
padroni di sé e della natura, togliendo loro la paura dell’ignoto e
dell’irrazionale.
13
) Theodor W. ADORNO, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1982,
p. 330-331.
98
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
una nuova ed inaudita potenza distruttiva. I moderni strumenti
di morte hanno prodotto, quindi, le camere a gas, le armi
chimiche e le armi nucleari. Non è l’assenza di progresso,
dunque, ma «lo sviluppo scientifico, artistico, economico e politico
che ha reso possibili le guerre totali, i totalitarismi»14.
La scienza non mette al riparo dal male. La crudeltà può,
al contrario, essere esercitata in modo scientifico e la distruzione
essere spinta fino all’autodistruzione. Pertanto, come scrisse
Romano Guardini: «il problema centrale attorno a cui dovrà
aggirarsi il lavoro della cultura futura e dalla cui soluzione
dipenderà non solo il benessere o la miseria, ma la vita o la
morte, è la potenza. Non il suo aumento, ché questo avviene da
sé, ma la via di domarla e di farne un retto uso. Le forze
selvagge nella loro forma primitiva sono vinte: la natura
immediata è resa obbediente. Ma quelle forze riappaiono nel
seno della cultura ed il loro elemento è appunto quello che ha
vinto la primitività selvaggia: la potenza stessa»15.
Le radici prossime della crisi
Le radici prossime della crisi sono da ricercare negli
avvenimenti che hanno contraddistinto gli anni della protesta
giovanile, in particolare nel Sessantotto, negli ideali che
l’animarono e nelle delusioni che alla fine ne seguirono.
L’ideologia nazifascista era già stata sepolta dalla miseria e
dall’orrore dei campi di sterminio, ma i giovani di quegli anni
14
) Jean François LYOTARD, Il Postmoderno spiegato ai bambini,
Feltrinelli, Milano 1987, p. 95-96.
15
) GUARDINI, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1954,
p. 89. Sul problema della potenza dell’uso politico della scienza così si
è espresso Lyotard: «…per il discorso dei finanziatori contemporanei,
esiste un solo gioco credibile, quello della potenza. Non si assumono
scienziati e tecnici, né si acquistano apparecchiature per sapere la
verità, ma per accrescere la potenza» (La condizione post-moderna.
Rapporto sul sapere, cit., p. 84).
99
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
credettero ancora all’ideologia. Il marxismo, in particolare,
rappresentò per molti di essi un ideale di libertà e di
uguaglianza capace di realizzare un mondo nuovo.
Esso, come le ideologie che lo avevano preceduto,
custodiva un progetto antropologico. Prometteva di forgiare un
uomo nuovo, libero in un senso diverso da come il liberalismo
intendeva. Vedeva, infatti, la libertà come indissolubilmente
legata al collettivismo, un’impresa comunitaria più che una
conquista individuale.
Lo sfruttamento senza scrupoli sopravvive incontrastato e
il senso di ingiustizia derivante dal sussistere di grandi
sperequazioni sociali è forte. La sensazione dell’inutilità, della
superfluità, angoscia le persone non meno della povertà
materiale. Ora, rispetto a tutto questo, il marxismo prometteva
di coniugare libertà e giustizia sociale16.
La generazione del Sessantotto non aveva conosciuto la
guerra e nemmeno l’indigenza. Piuttosto aveva sperimentato il
boom economico «con l’allargamento delle possibilità sociali che
aveva comportato». Ma «proprio perché aveva profondamente
assorbito l’ideologia dell’abbondanza, questa generazione si
ribellava contro l’autocompiacimento del progresso industriale
e dell’opulenza, rivendicando un senso e un significato per la
propria vita»17.
Questa insofferenza, mossa inizialmente da desiderio di
giustizia, fu però presto sviata e la contestazione sfociò in un
conformismo di nuovo genere. Ha scritto Emmanuel Lévinas:
«nel bagliore di alcuni istanti privilegiati del 1968 ‒ subito
spenti in un linguaggio non meno conformista e parolaio di
quello che esso avrebbe sostituito ‒ la giovinezza è consistita nel
contestare un mondo denunziato da tempo»18.
16
) Cfr. Joseph RATZINGER, La via della fede, Ares, Milano 2005, p.
15.
17
) Heller - FEHÉR, La condizione politica postmoderna, cit., p. 152.
) Emmanuel LÉVINAS, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo,
Genova 1998, p. 156.
18
100
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
La denunzia del vecchio non servì a costruire il nuovo. Il
movimento fu critico, ma non seppe poi indicare un nuovo
ordine. L’immaginazione non bastò.
In particolare, di fronte al degradare delle istanze ideali in
politica reale del terrore (il comunismo reale) e al fallimento dei
progetti antropologici di un’umanità nuova, si evidenziò che le
ideologie sono capaci di offrire risposte, ma a partire da
posizioni intolleranti e violente. Pretendono, infatti, in nome di
principi astratti, imposti come capestro alla realtà, di omologare
tutto e tutti, azzerando diversità e differenze. Predicano il
rinnovamento e la libertà, ma impongono l’uniformità. Non
tollerano il dissenso e soffocano le libertà fondamentali. Così, il
marxismo si rivelò un grande sistema di schiavitù, in cui la
distruzione di ogni forma di libertà procede insieme alla
distruzione dell’uomo come tale19.
Nel 1989, col crollo del comunismo, l’esperienza della fine
delle ideologie è divenuta, quindi, acquisizione condivisa e
sembra indicare anche storiograficamente uno spartiacque fra
due epoche. Ormai nella società e nella cultura «la grande
narrazione» ideologica, portatrice della convinzione che «il
mondo, tutto il mondo, potesse essere permeato (e vincolato) da
un ideale processo di formazione unitario»20. «Nella società e
nella cultura contemporanee, la grande narrazione ha perso
credibilità – scriveva Lyotard –, indipendentemente dalle
19
) «Nondimeno, che il sistema marxista non funzionasse come era
stato promesso, è evidente. Che questo presunto movimento di
liberazione fosse, accanto al nazionalsocialismo, il più grande
sistema di schiavitù della storia contemporanea, nessuno può in
realtà negarlo: le dimensioni della cinica distruzione dell’uomo e del
mondo vengono invero spesso vergognosamente taciute, ma
nessuno può più contestarle» (RATZINGER, La via della fede, cit., p.
15).
20
) MALDONADO, Il futuro della modernità, cit., p. 57.
101
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
modalità di unificazione che le vengono attribuite: sia che si
tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo»21.
In questa disillusione, inscritta nel periodo segnato da due
anni, il Sessantotto e l’Ottantanove, si disegna quella che può
definirsi come la parabola delle ideologie. Ha scritto a tal proposito
Joseph Ratzinger: «il 1968 è legato all’emergere di una nuova
generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di
ingiustizia, piena di egoismo e di brama di possesso, l’opera di
ricostruzione del dopoguerra, ma che guardò all’intero
svolgimento della storia, a partire dall’epoca del trionfo del
cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di
migliorare la storia, di creare un mondo di libertà, di
uguaglianza e di giustizia, questi giovani si convinsero di aver
trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero
marxista. L’anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi
socialisti in Europa, che lasciarono dietro di sé un triste
strascico di terre distrutte e di anime distrutte»22.
Postmoderno e fine della storia
Al fondo della crisi dell’ideologia si individua una più
generale crisi di fiducia nell’uomo e nella storia. È venuta meno
la matrice narrativa e progressiva delle ideologie, che dava ad
esse la certezza di sé e delle proprie possibilità. Questa matrice
fa da sfondo a tutto il sapere moderno, costituendo
21
) LYOTARD, La condizione postmoderna, cit., p. 69. Riflessioni
analoghe possiamo rinvenire in Heller e Fehér: «la “crisi del
marxismo”, dibattuta a lungo e in modo sempre più sterile, le
controversie successive, e peraltro assai più stimolanti, circa la
pluralità dei “microdiscorsi”, la percezione di un revival religioso per
frammenti, la comprensione dell’esigenza di una concezione
incompleta della giustizia etico-politica tutti questi nuovi sviluppi ci
indicavano la «fine della grande narrazione» (HELLER - FEHÉR, La
condizione politica postmoderna, cit., p. 17).
22
) Joseph RATZINGER, Introduzione al Cristianesimo, Queriniana,
Brescia 1974, p. 7.
102
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
l’autoconsapevolezza presente nella Rinascenza, come
nell’Illuminismo, nell’Idealismo come nel Positivismo. In
funzione di essa la modernità si è connotata come trionfo della
razionalità sul pregiudizio, come trionfo del nuovo ordine sul
vecchio.
Quell’idea oggi – come ha scritto Alain Touraine – «ha
perso la propria forza di liberazione e di creazione»23. Siamo
ormai alla fine delle illusioni illuministiche, delle presunzioni e
delle supponenze, dell’autocompiacimento dell’uomo e dei suoi
propositi di indirizzare il corso storico.
Tramontati i grandi racconti che avevano per protagonisti i
partiti, le masse, lo Spirito, è tramontata non solo l’attesa
messianica di una trasformazione rivoluzionaria, ma anche la
fiducia nel nuovo24. È tramontata la storia stessa, intendendo col
termine storia qualcosa di collegato ad un progresso necessario
ed inderogabile. In relazione a questo, il post-moderno si
caratterizza «come esperienza di “fine della storia”»25.
23
) «Dalla sua forma più dura alla sua forma più debole, più
modesta, l’idea di modernità, quando è definita mediante la
distruzione degli antichi ordini e mediante il trionfo della razionalità
oggettiva o strumentale, ha perso la propria forza di liberazione e di
creazione. Essa stenta a resistere alle forze avverse almeno quanto il
generoso richiamo ai diritti dell’uomo fatica a resistere all’ascesa del
differenzialismo e del razzismo» (Alain TOURAINE, Critica della
modernità, Il Mulino, Bologna 1993, pag. 14).
24
) «Dall’architettura al romanzo alla poesia alle arti figurative, il
post-moderno mostra come suo tratto comune e più imponente lo
sforzo di sottrarsi alla logica del superamento, dello sviluppo e
dell'innovazione» (VATTIMO, La fine della modernità, cit., p. 114).
25
) «Il postmoderno si caratterizza non solo come novità rispetto al
moderno, ma anche come dissoluzione della categoria del nuovo,
come esperienza di “fine della storia”, piuttosto che come presentarsi
di uno stadio diverso, più progredito o più regredito, non importa,
della storia stessa» (Ibidem, p. 12). Secondo Vattimo, bisogna prendere
atto che non esiste più un unico tempo storico, lineare e progressivo e
che l’idea che il tempo sia una freccia che dal passato va verso il
103
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
Di conseguenza, l’uomo postmoderno sente di venire «dopo
la totalità della storia, con le sue origini sacre e mitologiche, la
sua stretta causalità, la teleologia segreta, il narratore
onnisciente e trascendente e la promessa di un lieto fine, in
chiave cosmica o storica»26. Non presume più di sapere quale sia
la direzione della storia né di sapere se essa abbia una direzione
unitaria, lineare, razionale. Non crede più nel nuovo né lo
desidera, perché lo ha sostituito con un desiderio di novità
inessenziale e superficiale27.
Sono del pari venute meno le antropologie totali di cui
erano portatrici le ideologie. Perché le ideologie, prima ancora
di proporre una visione della storia, proponevano una visione
dell’uomo. E questa era una visione totale ed uniformante.
Prendeva, come è avvenuto nell’educazione fascista, nazista,
futuro passando attraverso il presente va abbandonata. Se «non c’è
una storia unitaria, portante, e ci sono solo le diverse storie, i diversi
livelli e modi di ricostruzione del passato nella coscienza e
nell’immaginario collettivo, è difficile vedere fino a che punto la
dissoluzione della storia come disseminazione delle “storie” non sia
anche una vera e propria fine della storia come tale» (Ibidem, p. 17). Il
post-moderno, quindi, non sarebbe uno stadio diverso, più
progredito della storia, ma l’esperienza della dissoluzione della
storia, o almeno di ciò che la modernità aveva inteso per storia. Da
questo punto di vista il post di post-moderno è presa di congedo dalla
modernità innanzitutto perché è un sottrarsi alle sue logiche di
sviluppo (cfr. ibidem, p. 11).
26
) HELLER - FEHÉR, La condizione politica postmoderna, cit., p. 8.
27
) Cfr. VATTIMO, La fine della modernità, cit., p. 110. Osserva
Marramao che il «venir meno delle grandi ideologie
trasformazioniste (e del concetto enfatico di Storia a esse correlato)
non dà luogo, per i postmoderni, a una istituzionalizzazione adattiva
e fredda del processo innovativo, ma piuttosto a una nuova apertura
del pensiero e delle pratiche alla dimensione del possibile e del
contingente: a una disponibilità a contemplare la fluttuazione, la
discontinuità e il coup innovativo dentro una sorta di antimodello del
sistema stabile» (Giacomo MARRAMAO, Cielo e terra. Genealogia della
secolarizzazione, Laterza, Roma - Bari 1994, p. 156-157).
104
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
comunista, l’uomo dalla culla e lo inquadrava all’interno delle
sue organizzazioni, per forgiarlo, per ammaestrarlo, per
uniformarlo. Antropologie esclusiviste le si potrebbero anche
definire, perché nell’indicazione di un modello di uomo c’era
anche l’esclusione del diverso, del differente, per razza,
religione, classe.
Erano forme di umanesimo del soggetto, intendendo per
soggetto qualcosa di marcatamente identitario, ma non
dell’altro uomo, dell’escluso, del diverso, di colui che non si
confaceva al modello. Potremmo pensare al personaggio dello
scroccone di Divisione cancro di Solženicyn28, che non si uniforma
al pensiero unico. In questo la modernità con i suoi miti della
ragione, dell’autodeterminazione, della scienza, della storia,
etc., rivelava il suo lato oscuro, distruttivo, violento. In questo
l’umanesimo progressista sfociava nel totalitarismo violento,
che conculcava gli stessi valori fondamentali che aveva
propalato.
Forme di antropologie totali le ideologie sono anche
perché hanno escluso di principio la trascendenza dall’ordine
dell’umano. Hanno inteso che l’uomo vivesse di solo pane, ossia
nella sola dimensione del sociale, del politico, etc., e hanno
escluso dalla storia la dimensione religiosa, giudicandola
secondaria, se non irrilevante.
Ciò si è tradotto in una stretta ancor più soffocante, che ha
schiacciato gli uomini su un orizzonte di immanenza senza
residui, senza speranze ultraterrene e senza rimandi. Hanno
prodotto, quindi, una «devastazione delle coscienze»29,
un’oppressione che è andata ad intaccare qualcosa di profondo,
una violenza ancora più disumanizzante della stessa violenza
fisica.
28
) Aleksandr Isaevi• SOLŽENICYN, Padiglione cancro, Newton
Compton Editori, Roma 2005.
29
) Karol WOJTYLA, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2004, p. 147.
105
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
Il nuovo disordine mondiale e la globalizzazione
Il crollo del comunismo si è realizzato in modo
sorprendente e repentino. Alla fine degli anni Ottanta le
economie socialiste si sono dimostrate incapaci di creare
sviluppo e di reggere il passo delle economie capitaliste. Nel
contempo i sistemi di potere del socialismo reale sono apparsi
irrimediabilmente oppressivi e totalitari. Perciò, il marxismoleninismo non è sembrato più capace di offrire una valida
alternativa al modello di sviluppo delle società democratiche.
Caduto nel 1989 il muro di Berlino, è crollato tutto un
ordine internazionale ed un’epoca è finita. Questo ha fatto
sorgere la convinzione che anche i grandi conflitti internazionali
sarebbero finiti e che si sarebbe instaurato un mondo più
armonioso e pacifico. Col tramonto dei blocchi e con la fine
della divisione in due del mondo, in Occidente si è creduto che
la democrazia liberale avesse definitivamente trionfato e che di
lì a poco si sarebbe diffusa dappertutto. È in questo clima che
Francis Fukuyama ha formulato l’ipotesi suggestiva di fine della
storia. Scrisse allora: «è possibile che siamo giunti [...] alla fine
della storia in quanto tale; vale a dire al capolinea
dell’evoluzione ideologica dell’umanità e all’universalizzazione
della democrazia liberale occidentale quale forma ultima di
governo dell’umanità»30.
Alcuni fatti sembravano suffragare tale tesi. La scienza e la
tecnica avevano reso ormai omogenee molte società, quanto a
stili di vita, e parallelamente le democrazie liberali si erano
estese in tutto il mondo. Il capitalismo appariva ormai come
l’assetto economico prevalente e la democrazia il regime
politico meglio compatibile con esso. La loro diffusione su scala
globale sembrava l’unico scenario possibile per il futuro.
Dietro questa tesi, senz’altro semplicistica, si nascondeva
quello che Samuel Huntinghton ha definito il «sofisma dell’unica
30
) Francis FUKUYAMA, The End of History, in «The National
Interest», n. 16, Summer 1989, p. 4
106
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
alternativa», e cioè la convinzione, generatasi storicamente
nell’epoca della guerra fredda, che «l’unica alternativa al
comunismo sia la democrazia liberale e che la scomparsa del
primo comporti automaticamente la diffusione su scala
universale della seconda»31.
L’ipotesi Fukuyama è stata drammaticamente smentita nei
fatti già negli anni Novanta. Una spirale tragica di guerre e di
odio, di rivalse e di contrasti insanabili, ha impresso agli
avvenimenti un’accelerazione imprevista. Al posto di un
mondo rimasto stabile per mezzo secolo è subentrato un mondo
privo di una struttura ben definibile, non ancora inquadrabile
in una logica coerente, ma proprio per questo più sinistro.
Oggi il mondo non è più diviso in blocchi contrapposti, ma
non per questo appare più unito ed armonico. Oggi
l’eventualità di una conflagrazione mondiale fra potenze
nucleari non si pone più nei termini dell’epoca della guerra
fredda, ma non per questo sono scomparse le contrapposizioni
e i pericoli nucleari. Questi, anzi si ripresentano in forme ancora
più insidiose. L’imprevedibilità di ciò che può accadere,
nell’epoca che viene dopo l’11 settembre, configura, quindi, un
«nuovo disordine mondiale»32.
Fattori di civiltà e rinascita religiosa
Proprio il fattore civiltà sembra diventato l’elemento chiave
del quadro geopolitico. Nel mondo post guerra fredda le
principali contrapposizioni non paiono, infatti, di carattere
ideologico, ma di civiltà: «la fine della guerra fredda non ha
posto fine alla conflittualità, ma ha piuttosto fatto emergere
nuove identità radicate nella cultura e nuovi canoni di
31
) Samuel HUNTINGHTON, Lo scontro delle civiltà, Garzanti,
Milano 1997, pag. 16
32
) Di vedano in particolare le considerazioni fatte a tal proposito
da Zygmunt BAUMAN, Il disagio della postmodernità, Bruno
Mondadori, Milano 2002, p. 27-28.
107
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
conflittualità tra gruppi di culture diverse e, a livello più
generale, di civiltà diverse»33.
Le civiltà e le identità culturali si sono dimostrate qualcosa
di più radicato e sedimentato delle differenze economiche o
ideologiche. Ed è a questo punto che si inserisce la tesi di
Huntington in Lo scontro delle civiltà34: «la tesi di fondo di questo
saggio è che la cultura e le identità culturali siano alla base dei
processi di coesione, integrazione e conflittualità che
caratterizzano il mondo post guerra fredda…»35. Sono questi
fattori, più che quelli economici, a muovere gli odierni processi
di integrazione e conflittualità mondiale. In tempi di
sconvolgenti mutamenti sociali, economici, di abitudini di vita,
le questioni di identità assumono, sostiene Huntington, priorità
rispetto a quelle di interesse. Gli uomini sentono il bisogno di
rispondere alle basilari domande di appartenenza. Lo fanno nel
modo tradizionale, facendo riferimento cioè alle cose che per
loro hanno maggior significato: progenie, religione, lingua,
storia, valori, costumi. Lo fanno identificandosi con gruppi
culturali, etnici, tribù, comunità religiose, etc..
La religione, in particolare, si rivela la più possente arma
di resistenza all’omologazione culturale. Essa, infatti, offre
risposte soddisfacenti ai problemi di identità assediate. Spesso
veste i panni di una protesta contro il laicismo relativista e della
sua pervasiva influenza culturale.
La religione, sia quella tradizionale che quella
fondamentalista, ritorna con i suoi simboli e con i suoi riti.
33
) HUNTINGHTON, Lo scontro delle civiltà, cit., p. 184.
) Il libro di S. Huntington Lo scontro delle civiltà è stato accusato di
fomentare lo scontro fra le civiltà. Si è detto che esso è vittima di
un’ossessione di fondo: l’urgenza di mobilitare il “mondo
occidentale” contro le nazioni di un fantomatico asse confucianoislamico (la Cina, l’Iran, l’India, la Turchia, ec.) per stabilire il
controllo sull’immensa regione euro-asiatica in cui sono stanziati tre
quarti della popolazione mondiale.
35
) HUNTINGHTON, Lo scontro delle civiltà, cit., p. 14.
34
108
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
Croci, mezzelune tornano a contare. Si dimostrano capaci di
motivare e mobilitare masse. Suscitano sentimenti profondi e
reazioni radicali. La religione «penetra probabilmente in misura
sempre maggiore negli affari internazionali»36. Va a riempire lo
spazio lasciato libero dalla crisi delle ideologie, dimostrandosi
tutt'altro che una forza in declino. Lo scontro fra identità
religiose diverse alimenta la lotta politica in luogo di quello che,
nell’epoca della divisione del mondo in blocchi, era lo scontro
ideologico.
A tal proposito, si è parlato di ritorno del sacro, di
desecolarizzazione del mondo o, con suggestione maggiore, di
rivincita di Dio37. Sta di fatto che «il fallimento della profezia
della privatizzazione del religioso è sotto gli occhi di tutti»38.
36
) Edward MORTIMER, Christianity and Islam, in «International
Affaire», n. 67, January 1991, p. 7.
37
) Con revanche de Dieu si è indicato l’inversione di tendenza
verificatasi a metà degli anni Settanta rispetto al laicismo. In
particolare, Kepel sostiene che allora sia venuto alla luce un nuovo
approccio religioso, non più volto ad un adeguamento ai valori laici,
ma al recupero della sacralità come fondamento dell’organizzazione
della società (cfr. Gilles KEPEL, La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano
1991).
38
) «Per una parte della cultura europea d’oggi, lo spazio pubblico
deve essere impermeabile al fatto cristiano. E questo deve essere
reciso dall’insieme della civiltà europea in cui ha le sue radici e a cui
dà linfa. Invece, è proprio il contrario che accade oggi nel mondo,
Europa compresa: ovunque c’è un impetuoso ritorno del religioso
nello spazio pubblico. Dove per religioso si intendono le corpose
Chiese storiche: la cattolica, rinvigorita dalla politicità carismatica di
papa Karol Wojtyla e dalla guida teologica di Benedetto XVI; le
protestanti d’impronta americana evangelica; le ortodosse, con il loro
modello bizantino di congiunzione fra trono e altare. Più l’ebraismo
intrecciato al destino concretissimo di Israele, un popolo, una terra,
uno Stato. Più l’islam, in cui fede, politica e legge sacra tendono a fare
tutt’uno e, dovunque oggi si voti, il consenso va a partiti fortemente
ispirati dalla legge coranica, ultimo caso eclatante quello della
Palestina. Il fallimento della profezia della privatizzazione del
109
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
La rinascita religiosa appare particolarmente forte nel
mondo musulmano, dove il richiamo alla religione corre di pari
passo con il rifiuto di valori, istituzioni e modelli di sviluppo
occidentali. Al fondo s’individua il problema di armonizzare
Islam e modernità. Il mondo islamico, rinnovando l’adesione
all’islam quale unica guida culturale, religiosa, sociale e politica,
sembra, quindi, riaffermare orgogliosamente la propria
identità39.
La rivincita di Dio
La tesi di Huntington è in controtendenza rispetto ad un
modo ideologico di leggere i fatti, pregiudizialmente teso a
misconoscere il peso dei fattori di civiltà nei processi storici.
Rompe con una sorta di sclerosi culturale laicista, che è il
prodotto della ragione illuminista, per la quale il progresso
della storia coincideva con l’emancipazione dai miti del passato,
religioso è sotto gli occhi di tutti. […] L’esistenza di ordinamenti
politici con qualificazione religiosa non appartiene solo al passato, ma
è il presente e il futuro delle società mondiali» (Sandro MAGISTER, I
cristiani, l’islam e il futuro dell’Europa, in www.chiesa.espressonline.it,
20.2.2006).
39
) Lo slogan degli islamisti è semplice e diretto: “la soluzione è
l’islam”. Ciò vuole significare di fronte alla complessità e molteplicità
del mondo moderno un richiamo alla religione quale fonte unica di
orientamento, stabilità e legittimità. Il risveglio del mondo islamico è
pensato, conseguentemente, prima di tutto come risveglio religioso,
purificazione dell’islam da pericolose contaminazioni provenienti
dall’esterno. Questo risveglio, come ha scritto Al-Turabi, «non
riguarda solo la fede individuale, non è solo intellettuale e culturale,
o solo politico. È tutte queste cose insieme: una ricostruzione
generale, da cima a fondo, della società» (Hassan AL-TURABI, The
Islamic Awakening’s Second Wave, in «New Perspectives Quarterly», n.
9, Summer 1992, p. 52). Presenta poi uno politico verso la
ricostituzione di una comunità islamica universale (Louis GARDET, La
cité musulmane, Vrin, Paris 1981, p. 27-29).
110
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
e fra questi miti c’era innanzitutto quello religioso. Sancisce il
venir meno di una visione dell’uomo, quella dell’uomo adulto,
che è tale perché si è emancipato dalle autorità, e tra queste la
più importante è la religiosa.
La visione illuministica della storia aveva, infatti, il suo
cardine nella secolarizzazione, nell’estromissione cioè della
religione dalle vicende degli uomini e nel suo relegamento alle
coscienze dei singoli.
Per capirne la portata, bisogna considerare che ancora
negli anni Sessanta e Settanta le élite intellettuali occidentali
erano convinte che la modernizzazione avrebbe comportato
inevitabilmente la marginalizzazione ed estinzione della
religione. Per i laicisti sembrava, di conseguenza, indubbio che
la scienza, il razionalismo e il pragmatismo avrebbero spazzato
via le superstizioni e i rituali alla base delle religioni. «La società
del futuro sarebbe stata tollerante, razionale, pragmatica, progressista,
umanistica e laica»40.
Ciò che è avvenuto dagli anni Settanta in poi ha
dimostrato l’infondatezza di quelle analisi. Un fenomeno
inverso ed imprevisto si sta profilando: la modernizzazione sta
stimolando un ritorno alle radici religiose. Il mondo si sta
modernizzando economicamente, socialmente e quanto a
diffusione della tecnologia, ma sta anche riscoprendo radici
religiose e identità culturali. Ma la modernizzazione, mettendo
in discussione antiche regole e certezze ha ingenerato una
reazione di segno opposto: l’arroccamento sulle proprie radici
identitarie.
Ora, in questo contesto, il ritorno della religione significa
un richiamo alla fonte stessa di identificazione di una civiltà.
Essa risponde al bisogno di appartenenza, offrendo punti saldi
e valori di riferimento. Dimostra, nel contempo, quanto
l’identità culturale sia importante sia a livello di folle che di
individui. Dimostra quanto era falsa la pretesa illuministica di
aver capito la direzione della storia. Dimostra la fragilità di un
40
) HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà, cit., p. 131.
111
StoriaLibera
anno IV (2018) n. 7
progresso imperniato sulla secolarizzazione e il fallimento
dell’idea che all’uomo basti un benessere meramente materiale
per estirparne dal cuore il desiderio di trascendenza.
112