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Le forme dell'esilio, tra Dante e Montale

università degli studi di firenze dipartimento di lettere e filosofia Biblioteca Palazzeschi Collana coordinata dal Consiglio Direttivo del Centro di Studi «Aldo Palazzeschi» 17 Studi di letteratura italiana in onore di Gino Tellini a cura di Simone Magherini Volume 1 Società Editrice Fiorentina © 2018 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-454-2 issn: 2036-3516 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina Filippo De Pisis, Canale a Venezia, olio su cartone, 1931, Firenze, Museo Novecento (proprietà Università di Firenze) indice Premessa del curatore xiii studi di letteratura italiana in onore di gino tellini volume i Paolo Carrara, Ulisse cercatore di verità tra Cicerone e Dante 3 FRANCESCA FONTANELLA, Il provvidenziale Cesare della «Commedia» e il fatale Napoleone del «Cinque maggio» 17 Riccardo Bruscagli, Messe di suffragio (e due “grossi” proverbi) per Farinata degli Uberti 33 Giovanni Capecchi, Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 53 SERGIO CRISTALDI, Corpi e anime nella «Commedia» di Dante 75 Roberto Fedi, Baci rubati 103 ALESSANDRO DURANTI, Il cavaliere inesistente. Le ragioni di un’assenza nel «Decameron» 115 Pasquale Sabbatino, La «Genealogia degli Dei» di Boccaccio tradotta da Betussi e le poesie di Tiziano «Venere e Adone», «Diana e Atteone» 131 Paolo Orvieto, Tre schede pulciane 149 Marco Villoresi, La «Storia dei quattro cavalieri di Francia» di Lorenzo Olbizi 171 Paolo Valesio, Mistica e poesia: “intorno a” San Giovanni della Croce 179 Salvatore Bancheri, Analisi dei copioni del «Riscatto d’Adamo» di Filippo Orioles (1687-1793) 195 simone magherini, Tra natura e scienza: l’empirismo dei «Consulti medici» di Redi 217 Clara Domenici, paola luciani, Noterella alfieriana: ancora sulla palazzina Gianfigliazzi 233 ANGELO FABRIZI, Alfieri epigrafista 249 roberta turchi, Anche Alfieri leggeva le gazzette. Note su «L’America libera» 257 Winfried Wehle, Nazione ed emozione. Sulle difficoltà di far politica con la letteratura. Il caso di Foscolo 277 Giuseppe Langella, «I promessi sposi», i cavalieri dell’Apocalisse e la «grande tribolazione» 293 laura diafani, Leopardi e il metodo della «Crestomazia italiana» di prosa 315 Sara Gelli, I «Versi» del 1826: un capitolo poco noto della produzione leopardiana 337 Francesca Mecatti, L’impossibile arte di vivere 349 Marc Föcking, «Fede e bellezza» di Niccolò Tommaseo e la materialità del mondo 363 Enrico Ghidetti, Il caso Guerrazzi: letteratura militante e romanzo nero 383 Ricciarda Ricorda, Geremia Bonomelli, un vescovo in viaggio «in vari paesi e in vari tempi» 409 Irene Gambacorti, Un congedo: «Una capanna e il tuo cuore» 427 Andrea Manganaro, La critica degli scrittori e Giovanni Verga 441 Gian Paolo Marchi, La battaglia di Custoza nelle novelle di Giovanni Verga e di Edmondo De Amicis 459 Pasquale Guaragnella, Una novella di guerra di Federico De Roberto. «All’ora della mensa» e la verità di una «povera vita» 479 RAFFAELE GIGLIO, Pasquale De Luca (1865-1929) ovvero l’arte della mutazione 507 Michele Monserrati, Poesia e pittura nel «Paulo Ucello» di Giovanni Pascoli 521 ERNESTO LIVORNI, La critica di Svevo su Joyce: risvolti narrativi del loro sodalizio letterario 537 William Spaggiari, «Divenire uno scrittore»: sull’«Ariosto governatore» di Italo Svevo 555 volume ii Maria Teresa Girardi, Piccola antologia metapoetica del Novecento italiano 581 Willi Jung, La Sicilia nella letteratura, la letteratura della Sicilia 593 ELISABETTA DE TROJA, L’ultimo canto del cigno: il delitto Notarbartolo 613 Aldo Maria Morace, Stratigrafia di un “Epilogo” deleddiano 629 Matteo Palumbo, Il matrimonio nel «Fu Mattia Pascal» 651 mariarosa masoero, «L’immagine di me voglio che sia». Guido Gozzano cento anni dopo 667 Andrea Aveto, Documenti per i «Discorsi militari» di Giovanni Boine 679 Laura Desideri, Giuseppe Prezzolini lettore al Vieusseux: tracce 1900-1914 691 Stefania Alessandra Bottini, La prima recensione a «Il Codice di Perelà» 707 giorgina colli, Frammenti di corrispondenza futurista. Tre lettere disperse di Govoni a Marinetti (1910-1915) 719 ARNALDO DI BENEDETTO, La storia senza aureola: la Grande Guerra di Guido Morselli 739 Mimmo Cangiano, Ardengo Soffici e il “classicismo” di guerra 745 Antonio Saccone, «I miei antenati»: gli «auctores» di Giuseppe Ungaretti 765 Gloria Manghetti, Dietro le quinte di «Solaria»: gennaio 1929 Raffaello Franchi e Giuseppe Ungaretti si scrivono 779 Michael Schwarze, Sul realismo ambiguo di Ignazio Silone. La prima edizione di «Fontamara» (1933) 799 NICOLÒ MINEO, Statuti e quadri della letteratura in Sicilia: gli anni Quaranta del Novecento 821 Marino Biondi, Commento a Gadda: «Quer pasticciaccio brutto de via Merulana» 843 Andrea Dini, «Hemingway è stato uno dei miei primi modelli». Calvino e i «moduli stilistici» dell’esordio 861 Anna Nozzoli, Montale, 21 giugno 1968: un giorno a Mantova 885 GUIDO SANTATO, Tra palinsesto e palinodia. La «Seconda forma de “La meglio gioventù”» di Pasolini 905 Marco Marchi, Tre per tre. Artisti per Luzi, Zanzotto e Pasolini (Francesconi, Pierre e Gubinelli) 921 Antonio C. Vitti, Osservazioni sul cinema etnografico mediterraneo di Rossellini e Pasolini 943 Filippo Grazzini, La badessa, la monaca e le brache del prete tra pagina e schermo: «Decameron» IX 2 in un film dei fratelli Taviani 959 Franco Contorbia, Per Andrea Camilleri genovese 975 FLORA DI LEGAMI, Dispositivi pittorici nella narrativa di Vincenzo Consolo 985 Elizabeth Leake, Medicina narrativa e studi sulla disabilità: alcune riflessioni teoriche 999 Antonello Borra, Consapevolezza ambientale nella poesia italiana contemporanea 1019 Helmut Meter, La semantica del viaggio nei racconti di Tabucchi 1029 Ernestina Pellegrini, Claudio Magris e la critica letteraria 1045 †Paul Colilli, Prolegomeni a un uso postmedievale dell’angelologia (su Giorgio Agamben) 1057 Enza Biagini, L’«incanto della letteratura» 1075 Anthony Julian Tamburri, «Una quieta pazienza», ovvero poesia in viaggio. «La poesia itinerante» di Rita Dinale 1089 Giuseppe Nicoletti, Sergio Givone: cinque “lezioni” sul dialogo 1107 Michael Lettieri, Sulle tracce in Nord America dell’alto magistero di Gino Tellini 1129 Indice dei nomi 1145 Giovanni Capecchi Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 1. Il tema dell’esilio attraversa la letteratura di tutti i tempi. Queste pagine, che non pretendono certo di esaurire l’argomento e che vorrebbero essere una raccolta di appunti e il nucleo iniziale per uno studio da approfondire, si sviluppano come un itinerario attraverso le forme dell’esilio in cinque tappe, ciascuna delle quali è dedicata a un poeta o a un’opera, tra Dante e Montale, passando da Petrarca, Foscolo e Pascoli. Esiste, nella storia umana, l’esilio politico e civile, che ha coinvolto gli scrittori; ma nella letteratura, quando si parla di esilio, si fa spesso riferimento a qualcosa che va oltre l’allontanamento forzato dalla propria terra. L’esilio dei poeti diventa una metafora dell’esistenza (con la perdita di un “centro”, e quindi di certezze, di equilibrio e di serenità); implica lo smarrimento di qualcosa di diverso – o di ulteriore – rispetto alla Patria. Il punto di partenza per un ragionamento sull’esilio nella letteratura italiana appare quasi obbligato. La Commedia di Dante è il poema dell’esilio: scritto in esilio1, dell’esilio parla e dall’esilio è ispirato. È il poeta che ha perduto la sua città – e che l’ha perduta per ragioni politiche – quello che manifesta tutto il suo rancore e il suo sdegno nei confronti dei fiorentini del presente, dominati dall’invidia, dall’orgoglio e dalla bramosia di denaro; è l’esule ferito nel profondo e allontanato dall’amata città quello che constata e denuncia, con dolore e con rabbia, le divisioni che hanno lacerato Firenze (e che lacerano l’Italia), parlando con Ciacco della «città partita», o intrattenendosi con Farinata degli Uberti a ragionare del comune luo1 Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 77-103. 54 Giovanni Capecchi go natio, tra passato presente e futuro. L’incontro con Farinata testimonia come l’attaccamento alla propria città e alla propria terra sia uno dei temi che ricorrono nella Commedia: il capo dei ghibellini, orgoglioso e tutto ancora compreso in riflessioni politiche sulla contemporaneità (tanto da dolersi più per la notizia della sconfitta della sua parte che per la pena alla quale è eternamente dannato), si presenta a Dante appena sente il suo accento toscano, sperando di aver notizie di Firenze (l’inizio del suo discorso resta memorabile: «La tua loquela ti fa manifesto | di quella nobil patrïa natio | a la qual forse fui troppo molesto», Inf. x, 25-27); e, in altra cantica e in diverso contesto, sarà ancora il nome di una città (Mantova) a far abbracciare Virgilio e Sordello da Goito e a far scaturire una delle più note e violente invettive di Dante contro l’Italia divisa e senza guida (Purg. vi, 72-78). L’esilio, ispiratore della Commedia, è anche il fatto reale che alcune anime profetizzano a Dante, per quella discrasia temporale tra viaggio nell’oltretomba (immaginato nella primavera del 1300) e condanna dell’Alighieri (agli inizi del 1302) che costringe a parlare solo al futuro dell’impossibilità di tornare a Firenze da parte di un guelfo bianco. Al canto X dell’Inferno occorre affiancare almeno il canto xvii del Paradiso, nel quale Dante incontra il trisavolo Cacciaguida. Si tratta di canti dichiaratamente correlati tra loro («quel parlar che mi parea nemico» di Inf. x 123 trova finalmente una spiegazione in Par. XVII 55-60) e attraverso Cacciagiuda non solo Dante offre una definizione straordinaria della sua Commedia (sarà «un grido», capace di sconvolgere gli uomini e, soprattutto, i potenti della terra), ma condensa, in due terzine, ciò che si perde una volta cacciati dalla propria città: Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l’arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale. Anche il canto viii del Purgatorio è un canto sull’esilio. Si chiude con la profezia di Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che torna ad annunciare a Dante la sua prossima sventura e si apre con sei versi di straordinaria suggestione poetica, sulla lontananza e sul- Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 55 la malinconia di chi si trova lontano dalla propria terra2. All’interno di questa cornice, il canto viii del Purgatorio presenta la scena del serpente che – come ogni giorno – giunge nella piccola valle e viene cacciato da due angeli. È «una biscia, | forse qual diede ad Eva il cibo amaro»: il richiamo esplicito al Genesi rammenta, nel canto che si apre e si chiude con il tema dell’esilio reale, che esiste, nella storia dell’uomo, un altro esilio, quello legato alla perdita del Paradiso terrestre. È il canto dei due esili, questo del Purgatorio, come ha giustamente sottolineato Anna Maria Chiavacci Leonardi3, ponendo l’accento su un tema trascurato da altri lettori e commentatori4 e rendendo più complessa la riflessione sull’esilio in Dante che non può esaurirsi sul piano della storia e della reale vicenda biografica dell’autore della Commedia. La Commedia è il poema degli esili. Di quello terreno (sul quale si concentrano tutte le letture e le interpretazioni) e di quello ultraterreno, di quello legato al percorso orizzontale dell’uomo e di quello che si intreccia al suo cammino verticale: anche l’esilio è osservato da due diverse prospettive, che costituiscono poi le due dimensioni del poema «al quale han posto mano e cielo e terra». Dante racconta la perdita di Firenze, la città terrena; ma racconta anche l’allontanamento dalla dimensione spirituale, l’esilio dalla città di Dio. Il cammino che il pellegrino intraprende, discendendo e – successivamente – ascendendo, calandosi nelle tenebre più profonde e avviandosi verso una luce sempre più intensa, attraversando il peccato e l’errore, espiando negli altri e con gli altri i propri limiti umani e le proprie colpe, facendosi aiutare in questa sua ricerca («da me stesso non vegno», dice a Cavalcante in Inf. x riferendosi alla sua guida, Virgilio), è un percorso dell’esule che vuole recuperare la patria divina. E, a differenza di quanto accade per l’esilio terreno (Dante non «Era già l’ora che volge il disio | ai navicanti e ’ntenerisce il core | lo dì ch’han detto ai dolci amici addio; || e che lo novo peregrin d’amore | punge, se ode squilla di lontano | che paia il giorno pianger che si more» (Purg. viii, 1-6). 3 Si veda l’edizione della Divina Commedia commentata da Anna Maria Chiavacci Leonardi, in tre volumi, dal 2005 edita anche negli “Oscar Mondadori”. Sul tema del significato dell’esilio, la Chiavacci Leonardi si sofferma fin dall’Introduzione che apre l’Inferno (Milano, Mondadori, 2005, p. 38). 4 Nessun accenno a questo doppio esilio, per esempio, nelle lecturae Dantis dell’viii canto del Purgatorio svolte da Eugenio Donadoni (in Letture dantesche. II. Purgatorio, a cura di Giovanni Getto, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 161-180) e da Giuseppe Petronio (in Lectura Dantis Scaligera. Purgatorio, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 261-285). 2 56 Giovanni Capecchi rivedrà più Firenze), le porte della città di Dio finiranno per accoglierlo e la frattura che si è generata su un piano spirituale potrà essere ricomposta. L’uomo esule (perché nella Commedia, come scriveva Dante nell’Epistola a Cangrande, «subiectum est homo»: non solo l’uomo-Dante o l’uomo dei suoi tempi, ma un uomo senza nome e senza tempo, onnicomprensivo; «everyman», per utilizzare la parola adoperata da Ezra Pound all’altezza del 1910) ha la possibilità di mettere fine alla sua erranza, accolto da un Dio che – a differenza degli uomini – è misericordioso. Non mancano, nella Commedia, così ricca di riferimenti all’esilio terreno di Dante (quell’esilio che lo porta ad autodefinirsi, nella firma di alcune epistole, «exul immeritus»5), i passi in cui si osserva l’esilio da questa prospettiva spirituale. Le anime costantemente oranti del Purgatorio, con lo sguardo assorto e completamente perso verso l’alto, intonano nel vii canto – quasi preparazione del successivo canto del doppio esilio – il Salve Regina, salmo dell’erranza dell’uomo nella valle di lacrime, spartito biblico dell’esilio. Nella bolgia degli ipocriti, di fronte alla pena tremenda inflitta a Caifa (al membro del Sinedrio che condannò a morte Gesù, viene riservata una pena esemplare rispetto a quella prevista per gli altri dannati del suo cerchio: non una cappa pesantissima, fuori dorata e dentro di piombo, ma una crocifissione in terra, con pali di legno), Dante coglie la meraviglia di Virgilio «sovra colui ch’era disteso in croce | tanto vilmente ne l’etterno essilio» (Inf. xxiii 126): e se etterno è aggettivo che caratterizza le pene e il dolore infernale, essilio rimanda evidentemente alla cacciata dalla città di Dio, da quella città che non aprirà mai le porte al dannato. Anche nel Paradiso si possono trovare immagini e passaggi che fanno riferimento alla perdita (e alla riconquista) della città di Dio: l’anima di Boezio, per esempio, «da essilio venne a questa pace» (Par. x, 129). Ma forse il verso più importante a questo proposito è quello contenuto in Inf. xv (vv. 49-54). Dante attraversa la bolgia dei sodomiti e incontra il maestro Brunetto Latini, orribilmente trasfigurato dalle ustioni. Con reverenza, percorre un breve tratto di strada insieme a lui e – rispondendo a una sua domanda – spiega all’autore del Tesoretto come mai si trovi in quel luogo e quale sia la meta del suo viaggio: 5 Su questo si veda anche Carlo Ossola, Introduzione alla Divina Commedia, Venezia, Marsilio, 2012, p. 142. Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 57 «La su di sopra, in la vita serena», rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle, avanti che l’età mia fosse piena. Pur ier mattina le volsi le spalle: questi m’apparve, tornand’ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle». «E reducemi a ca per questo calle»: il sentiero che Dante percorre è quello che conduce nuovamente a casa. La Commedia è il viaggio dell’uomo che ritorna nella città celeste, mettendo fine al suo esilio spirituale. Non sembrano restare dubbi su questa interpretazione, spesso trascurata nei commenti e anche nelle letture dantesche6, ma confortata da un passo del Convivio (iv, xxviii 7) in cui Dante ricorda che per il cristiano la casa è Dio, e sostenuta da alcuni commentatori antichi: Benvenuto, come ricorda la Chiavacci Leonardi, annotava a proposito di a ca: «idest ad celestem patriam»; e Giovanni Boccaccio, che tra il 1373 e il 1374 inaugurava a Firenze (la città – che è anche la sua città – contro la quale, nel Trattatello in laude di Dante, lanciava una violenta invettiva per aver messo al bando l’autore della Commedia7) la tradizione delle letture dantesche, commentava il verso in questione con le seguenti parole: E riducemi a ca, cioè a casa; e ottimamente dice “e riducemi a casa”, per farne vedere qual sia la nostra casa, la quale è quella donde noi siamo cittadini, e noi siamo tutti cittadini del cielo, per ciò che in quello l’anime nostre, per le quali noi siamo uomini, come altra volta è stato detto, furon create in cielo, e però, mentre in questa vita stiamo, ci siamo sì come pellegrini e forestieri8. 2. Quando i Guelfi Neri prendono il potere a Firenze, nel 1301, viene mandato in esilio, oltre a Dante, anche il padre di Francesco Pe6 Si veda per esempio la spiegazione data da Umberto Bosco: «Dante risponde alla prima domanda, sommariamente rievocando la vicenda del canto i; come si smarrisse in una valle, come Virgilio lo riportasse “a ca’”, lo facesse tornare in sé attraverso la difficile via dell’oltremondo» (Umberto Bosco, Canto XV, in Lectura Dantis Scaligera, cit., pp. 492-493). 7 Giovanni Boccaccio, Vita di Dante o Trattatello in laude di Dante, a cura di Bruno Maier, Milano, Rizzoli, 1965, pp. 48-53. 8 Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, Volume sesto: Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di Giorgio Padoan, Milano, Mondadori, 1965, p. 671. 58 Giovanni Capecchi trarca. Arezzo – la città governata da Uguccione della Faggiola, antico ghibellino9 – diviene così il luogo natale dell’autore del Canzoniere pur non essendo la sua città. Una condizione simile la vivrà, molti anni dopo, un lettore di Petrarca come Giuseppe Ungaretti che, ripensando all’abbandono di Alessandria d’Egitto, nella poesia intitolata 1914-1915 raccolta in Sentimento del tempo, condensa il suo senso di sradicamento – non dissimile da quello petrarchesco – in due versi: «La delusione che tu sia, straniera, | La mia città natale»10. La nascita in esilio (che ritorna anche in altri passaggi della sua opera e, ad esempio, nella lettera Posteritati) viene ricordata fin dalla prima delle Familiares: «io, generato nell’esilio, nell’esilio nacqui (Ego, in exilio genitus, in exilio natus sum)11». In questa epistola, il riferimento alla nascita in esilio serve a Petrarca per spiegare come mai – a differenza di altre raccolte di epistole della classicità – la sua non possa contenere missive rivolte a un solo interlocutore: avendo trascorso la vita in continui viaggi, sono molte le persone con le quali è stato in corrispondenza; ha la funzione di legare il peregrinare dell’autore del Canzoniere alla più solida tradizione di erranti, che ha come capostipite Ulisse (un Ulisse «che incarna per lui non solo il modello dell’eroe temerario del sapere, come quello dell’Inferno dantesco […], ma anche l’archetipo del pellegrino che vaga apolide e senza meta»12), ma appare fondamentale anche per segnalare un destino. Chi è stato generato ed è nato in esilio non può che essere un uomo senza città e senza radici: un uomo che ha portato con sé le proprie inquietudini, ha vissuto lacerato tra opposti sentimenti e passioni, tra essere e dover essere, tra terra e cielo, tra Laura e Dio, senza riuscire ad arrivare a una sintesi rasserenante degli opposti, tanto che il suo Canzoniere continua a rappresentare l’espressione 9 Dino Compagni, Cronache delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, a cura di Guido Bezzola, Milano, Rizzoli, 2008, p. 162. 10 Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Carlo Ossola, Milano, Mondadori, 2009, p. 201. Sul rapporto tra Ungaretti e Petrarca si veda tra l’altro Carlo Ossola, Ungaretti lettore del Petrarca, in Tra storia e simbolo. Studi dedicati a Ezio Raimondi, Firenze, Olschki, 1994, 281-300 e Floriana Calitti, Dante esule e Petrarca peregrinus ubique nelle letture di Giuseppe Ungaretti, in Già troppe volte esuli. Letteratura di frontiera e di esilio, cit., i, pp. 44-63. 11 Francesco Petrarca, Le familiari, Introduzione, traduzione e note di Ugo Dotti, Urbino, Argalia, 1974, 2 voll., I, pp. 82-83. 12 Loredana Chines, Introduzione, in Francesco Petrarca, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 25. Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 59 «della disarmonia e della confusione dei sentimenti»13, rimane – nonostante lo sforzo di dare un ordine ai frammenti della sua anima – «sostanzialmente in bilico tra diverse opzioni irrisolte», facendo persistere nel lettore l’idea complessiva «di una grande, seppur strutturata, contraddizione»14. Un uomo che è nato in esilio ha di fronte a sé una strada maestra già tracciata prima della sua comparsa sulla terra: quella che lo porterà a essere un «viaggiatore fatale»15. Di naufragio in naufragio Petrarca trascina la propria esistenza. Sono presenti, nella sua vita, alcuni luoghi nei quali fermarsi a lungo, spesso anche desiderati come approdo di quiete, da Valchiusa (dove pure finirà per sentirsi esule e straniero: «Sorgae dicam peregrinus an exul»16) ad Arquà, scelta come stazione conclusiva per il proprio movimentato viaggio. Ma resta, in lui, una costante inquietudine, la smania di cambiare luogo, il senso di non appartenere a nessuna terra, la consapevolezza di non avere patria. Manca, in Petrarca, una città che possa svolgere il ruolo che ha avuto Firenze per Dante: il suo esilio non è quello di chi ha realmente perduto una terra e non è neppure quello di chi – in una visione spirituale della vita – ha smarrito la città di Dio. Petrarca è incurabilmente e drammaticamente esule, dovunque si trovi, in qualunque luogo fermi i suoi passi. Esule nella vita. In una delle sue lettere (Familiares xv 4), «una lettera-manifesto sul suo moto incessante»17, rivolgendosi ad Andrea Dandolo, Doge di Venezia, che lo ha invitato a mettere fine al suo girovagare e a fermarsi finalmente in qualche luogo, Petrarca scrive: io so che farei cosa grata se dopo aver qua e là trascorsa la milizia della vita m’inducessi a porre il campo in qualche luogo vicino a te, per passarvi in ozio quel che mi resta da vivere. Nulla anche a me sarebbe più gradito e più desiderabile, ma nulla più difficile; da un pezzo io dirigo il timone a questo porto, ma sempre altrove mi spinge contro mia voglia una violenta marea. […] Ma che fare? Mi creda chiunque ha fiducia in me: se sotto il cielo mi fosse dato trovare un luogo qualunque non dirò buono, ma non Roberto Fedi, Invito alla lettura di Petrarca, Milano, Mursia, 2002, p. 124. Marco Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 222. 15 Natascia Tonelli, Viaggiatore di penna, in Francesco Petrarca, Lettere di viaggio, a cura di Natascia Tonelli, Palermo, Sellerio, 1996, p. 9. 16 Ivi, p. 13. 17 Ibidem. 13 14 60 Giovanni Capecchi cattivo, o almeno non pessimo, volentieri e per sempre mi fermerei; ma ora come in un duro giaciglio io mi volto e mi rivolto, né con tutta la buona volontà riesco a trovare il bramato riposo; e così alla mia stanchezza, non potendo con la morbidezza del letto, provvedo col continuo mutare; vado vagando e sembro un eterno viandante (vagar igitur et sine fine peregrinus videor). Quando sono stanco della durezza d’un luogo, mi reco in un altro, che non è meno duro, ma cui la novità diminuisce per un poco la durezza. Così io sono sbattuto qua e là, pur sapendo che nessun luogo sulla terra è tranquillo, ma che attraverso a molti travagli si deve anelare alla quiete18. L’«eterno viandante» definisce la propria inquietudine, sempre nella lettera al Doge di Venezia, come una vera e propria malattia: «Lo ripeto, sono malato (Iterum dico […]; eger sum), e si vede anche se non lo dico: se fossi sano, mi comporterei con più fortezza; ma non per questo il mio lettuccio diventerebbe morbido e piano – intendo dire il lettuccio della mia vita, nel quale stanco io giaccio –; è un letto aspro, spiacevole, sporco, cattivo, pieno di bitorzoli, che anche i più sani tormenta»19. Lo stesso motivo ritorna in altre lettere e, per esempio, in Familiares xv 8: «nessun luogo al mondo mi piace; dovunque volgo l’egro fianco, non trovo che triboli e spine»20. E se nel Canzoniere non mancano riferimenti al tema dell’esilio (ma si tratta di un tema osservato dalla prospettiva amorosa: «duro exilio» come lontananza da Laura [RVF 37], cuore esule perché bandito dalla sua sede naturale e non accolto dalla donna amata [RVF 21], «misero exilio» del poeta respinto dal cuore della sua donna [RVF 42]), è ancora una epistola (quella metrica a Barbato da Sulmona, scritta intorno al 1354) a contenere l’immagine che meglio di ogni altra riassume il senso dell’esilio petrarchesco. Petrarca, parlando di sé, si definisce peregrinus ubique, «straniero ovunque»: Ciascuno è chiamato dalla propria sorte. A me si ordina di attraversare le gelide Alpi mentre il sole non ha ancora sciolto, con i suoi raggi, le nevi. Ahimè, qual dio volge il mio destino? Quale muove astri a me sì avversi? Se la fortuna nega a me stanco una tomba in patria, almeno io possa giacere in pace sotto il polo artico, o dove abitano i serpenti, dove nasce l’Austro. […] Nulla di più, fra tutte le cose del mondo io ti chiedo, o fortuna; ma neghi anche questo: ora qua ora là tu mi aggiri, e nessuna terra ormai, nes- 18 19 20 Francesco Petrarca, Lettere dell’inquietudine, cit., p. 147. Ivi, pp. 147-149. Ivi, p. 149. Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 61 sun cielo mi accoglie costantemente; come di nessun luogo io sono abitatore, così sono straniero dovunque (peregrinus ubique)21. 3. Carlo Cattaneo, tra le euforie patriottiche del 1860, ha scritto una frase rimasta celebre a proposito dell’espatrio foscoliano: «Ugo Foscolo diede all’Italia una nuova istituzione: l’esilio!»22. Giuseppe Mazzini, fuggito a Londra nel 1837, si metteva subito sulle tracce dell’autore delle Ultime lettere di Jacopo Ortis e, rintracciando e dando alle stampe manoscritti rimasti inediti (tra i quali quello della Lettera apologetica), sottolineava il destino tragico del grande italiano, condannato alla fuga da un Paese diviso e oppresso dallo straniero e concentrato nello studio dell’esule per eccellenza, Dante Alighieri23. Francesco De Sanctis salutava nel 1871 il ritorno dei resti dell’esule, rimasti troppo a lungo nel cimitero di Chiswick e accolti finalmente, nel decimo anniversario della proclamazione del Regno d’Italia, nel tempio dei Sepolcri, accanto alle tombe degli altri grandi italiani: «Come uomo lungamente amato e desiderato che torna in patria, l’Italia rivede Ugo Foscolo. Il grande esule viene a prendere il suo posto accanto a Vittorio Alfieri, nel tempio de’ suoi Sepolcri, nella città delle sue Grazie»24. Le parole di Cattaneo, di Mazzini, di De Sanctis, rappresentano tre tasselli fondamentali nella costruzione del mito dell’esilio foscoliano: un esilio politico, un esilio come scelta patriottica da parte di un intellettuale che non poteva adattarsi a vivere nell’Italia della Restaurazione. Naturalmente questa lettura è legittimata da numerosi elementi concreti: Foscolo ha dedicato molti suoi testi al tema della Patria e alla passione politico-patriottica (dall’Ortis ai Sepolcri) e ha partecipato attivamente a momenti del Risorgimento italiano. Ma 21 Francesco Petrarca, Opere, a cura di Emilio Bigi, commento di Giovanni Ponte, Milano, Mursia, 1963, pp. 425-427. 22 Carlo Cattaneo, Ugo Foscolo e l’Italia [1860], in Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, raccolti e ordinati da Agostino Bertani, Firenze, Le Monnier, 1948, i, p. 304. 23 Su questo tema cfr. tra l’altro Luca Beltrami, Introduzione, in Giuseppe Mazzini, Scritti sul romanzo e altri saggi letterari, a cura di Luca Beltrami, Roma, Edizioni di storia e Letteratura, 2012, pp. xi-lxxii. 24 Francesco De Sanctis, Ugo Foscolo [1871], in Saggi critici, a cura di Gerolamo Lazzeri, Milano, Sonzogno, [1923], iii, pp. 126-127. 62 Giovanni Capecchi solo in parte il suo esilio ha queste caratteristiche25. Basterebbe, per comprendere la complessità del tema anche nel percorso dell’autore che più di ogni altro – dopo Dante – appare un esule nel senso tecnico del termine, tenere presenti alcuni aspetti. È vero che la nuova esperienza fatta lontano dall’Italia lascia tracce significative nella sua opera: ripubblicando l’Ortis nel 1816 (con la falsa indicazione «Londra 1814») aggiunge, com’è noto, la lettera del 17 marzo, che «è fattura ed espressione dell’esilio»26 (intrecciandosi per altro all’elaborazione dei discorsi, non compiuti, Della servitù dell’Italia, nel cui proemio è perentoriamente confermata la scelta dell’espatrio: «Mi sono eletto l’esilio»27); rivedendo la Notizia intorno a Didimo Chierico in occasione della ristampa londinese introduce una annotazione esplicitamente riferita all’esilio28; con il riferimento all’esilio si apre quello «zibaldone affollato di temi eterogenei»29 che sono le Lettere scritte dall’Inghilterra («Lettore | Queste mie sono lettere d’uomo esule […]»)30 e attorno alla condizione di esule (e di «esule perpetuo») ruota la Lettera apologetica, immaginata come testo da preporre al non ultimato commento dantesco, orgoglioso e veemente atto d’accusa nei confronti dell’Italia e, soprattutto, del servilismo e della malignità dei suoi intellettuali; già nel 1816, in Svizzera, aveva pubblicato (in tre soli esemplari, destinati a tre diverse figure femminili)31 i Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno MCC al MDCCC, che si aprono con una dedica «Alla donna gentile Quirina Mocenni Magiotti» che a questa nuova condizione fa riferimento (è datata Per un approfondimento su questo tema rimandiamo a un nostro contributo: Foscolo e l’esilio, in Giovanni Capecchi, Le ombre della Patria. Capitoli ottocenteschi tra Foscolo e Carducci, Firenze, Le Lettere, 2015, pp. 9-34. 26 Giovanni Gambarin, Introduzione, in Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, edizione critica a cura di Giovanni Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1970 (EN, iv), p. 115. 27 Ugo Foscolo, Della servitù dell’Italia, in Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, edizione critica a cura di Luigi Fassò, Firenze, Le Monnier, 1972 (EN, viii), p. 156. 28 Id., Notizia intorno a Didimo Chierico, in Opere. II. Prose e saggi, edizione diretta da Franco Gavazzeni, con la collaborazione di Gianfranca Lavezzi, Elena Lombardi e Maria Antonietta Terzoli, Torino, Einaudi-Gallimard, 1995, p. 909. 29 Cfr. Matteo Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo, Napoli, Liguori, 1994, p. 167. 30 Ugo Foscolo, Prose varie d’arte, edizione critica a cura di Mario Fubini, Firenze, Le Monnier, 1951 (EN, v), p. 239. 31 Per la storia e l’interpretazione dei Vestigi cfr. Maria Antonietta Terzoli, I ‘Vestigi della storia del sonetto italiano’ di Ugo Foscolo, Roma, Salerno, 1993. 25 Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 63 «Hottingen, 1 gennaro 1816» e vi si legge tra l’altro: «[…] io vivo in paese dove i poeti italiani sono noti appena di nome; né ho libri che m’accompagnino nell’esilio»32) e che sono tramati dal motivo dell’esilio (dalle righe che presentano l’esule Guido Cavalcanti33 al sonetto – sull’esilio, sulla lontananza, sull’erranza34 – che chiude la silloge, Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo). Ma è anche vero che il tema dell’esilio entra nell’opera di Foscolo molto prima del marzo 1815 e che tutte le principali tappe della sua vita sono state raccontate come perdita della propria città e della propria Patria. Come esilio è stato descritto l’abbandono dell’isola natale in A Zacinto; come esilio è stata presentata la successiva fuga da Venezia, dopo la conclusione della Municipalità repubblicana e il ritorno degli austriaci (nel sonetto In morte del fratello Giovanni e nell’Ortis); ma esilio è anche l’abbandono di Milano alla volta di Firenze35, quello di Firenze per andare a combattere a Genova tra il 1799 e il 180036, quello dell’Italia per raggiungere le Fiandre dove le truppe napoleoniche preparano l’impresa inglese37. Foscolo non inizia dunque a sentirsi esule dopo il 1815: appare nato all’esilio, «votato naturaliter alla condizione di esule»38. Ma non è solo la cronologia dell’esilio a rendere più complessa la riflessione 32 Ugo Foscolo, Vestigi della storia del sonetto italiano dall’anno MCC al MDCCC, in Prose politiche e letterarie, cit., p. 121. 33 Ivi, p. 124. 34 Vincenzo Di Benedetto, Come si sviluppa un motivo: l’andare errando, in Lo scrittoio di Ugo Foscolo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 81-92. 35 Nel 1812, quando deve lasciare Milano alla volta di Firenze, scrive all’amico Michele Ciciliani parlando di sé in terza persona: «E l’Aiace fu proibito, e l’autore fu per essere esiliato» (cfr. Giuseppe Nicoletti, Foscolo, Roma, Salerno, 2006, p. 209); e nella Lettera apologetica adopererà lo stesso termine, esilio, per indicare quel preciso momento: cfr. Ugo Foscolo, Lettera apologetica, in Prose politiche e apologetiche (18171827), a cura di Giovanni Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1964 (EN, xiii, parte seconda), p. 99. 36 Id., Poesie e carmi, a cura di Francesco Pagliai, Gianfranco Folena e Mario Scotti, Firenze, Le Monnier, 1985 (EN, i), p. 92. 37 Id., Epistolario. Volume secondo (luglio 1804-divembre 1808), a cura di Plinio Carli, Firenze, Le Monnier, 1952, EN, xv, p. 24 e Tragedie e poesie minori, a cura di Guido Bezzola, Firenze, Le Monnier, 1961, EN, ii, pp. 345-346. 38 Giuseppe Nicoletti, Introduzione, in Ugo Foscolo, Lettera apologetica, Torino, Einaudi, 1978, p. ix. Lo stesso concetto in Giuseppe Nicoletti, Foscolo, cit., p. 16. Anche Sandro Gentili ha parlato di Foscolo (e di Foscolo-Jacopo) come di un «esule per vocazione» (cfr. Sandro Gentili, «Quaedam divina voluta atque horror» e altri studi foscoliani, Roma, Bulzoni, 2006, p. 179). 64 Giovanni Capecchi su questo tema; anche il carattere del suo esilio si trasforma negli anni. Appare significativo, da questo punto di vista, che i topoi della letteratura dell’esilio (la nostalgia per la patria perduta, il pensiero rivolto alla madre anziana che è rimasta a casa e vive quindi lontana, la sepoltura illacrimata in terra straniera39) accompagnino soprattutto i testi scritti prima del 1815, quasi a sottolineare la letterarietà del tema prima che la perdita definitiva dell’Italia diventi una condizione reale, discendendo dal cielo della poesia alla cronaca autobiografica40. Ma anche dopo il 1815 la vita di Foscolo attraversa fasi diverse. In un primo momento, almeno fino al 1823, l’esule continua a scrivere e a occuparsi costantemente della sua opera, tra stampe e ristampe, collabora a giornali e a riviste, partecipa alla vita sociale. In Inghilterra è accolto a braccia aperte nei salotti liberali e la sua fama di patriota gli permette di frequentare da protagonista il salotto di Holland House41. Del resto lo stesso autore dell’Ortis e dei Sepolcri era ben consapevole del fatto che la sua storia gli aveva attribuito la patente di patriota in esilio. Questo suo ruolo era stato sottolineato anche da alcuni giovani patrioti, in fuga dall’Italia dopo il fallimento dei moti del 1820-1821, pronti a spostarsi in Europa raggiungendo gli Stati in cui veniva promulgata una Costituzione liberale o in cui si lottava per l’indipendenza dall’occupazione straniera e desiderosi di raggiungere Londra, scelta come città d’esilio dal poeta che era stato per loro maestro di patriottismo, Ugo Foscolo. La reazione dei giovani patrioti di fronte a Foscolo incontrato oltre Manica rappresenta un passaggio fondamentale per comprendere l’ultima fase della vita dell’autore dei Sepolcri e quindi il significato del suo esilio nella stagione dell’estremo tramonto. Coloro che desiderano riscaldarsi al calore dell’amor patrio dialogando con Foscolo si trovano di fronte un uomo ormai lontanissimo dall’Italia e dalla sua situazione politica. Non solo il “malevolo” Niccolò Tommaseo sottolineava la distanza che si era venuta a creare tra Foscolo e la sua Patria42, ma 39 Su questo tema cfr. «Ascoltate degli esuli il canto». Un’antologia tematica della poesia risorgimentale, a cura di Alessandro Viti, Cuneo, Nerosubianco, 2010. 40 Sebastiano Aglianò, L’esilio del Foscolo, in «Argomenti», i, 5-6, luglio-agosto 1941, p. 78. 41 Eric Reginald Vincent, Ugo Foscolo esule fra gli inglesi, Firenze, Le Monnier, 1954, p. 40. 42 Luigi Carrer, Vita di Ugo Foscolo, in Scritti critici, a cura di Giovanni Gambarin, Bari, Laterza, 1969, p. 696. Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 65 anche altri intellettuali cresciuti nel mito di Foscolo erano costretti a misurare la distanza tra questo mito e la realtà di un uomo amareggiato nei confronti dell’Italia, in fuga dai propri connazionali dei quali non sopporta più il servilismo e le maldicenze, sulla strada di un congedo crescente dalla propria contemporaneità43. Esule, sì, anche negli anni estremi della vita, quando si nasconde sotto sotto falsi nomi (Mr. Merriat prima, Mr. Emerytt dopo), quando trascina le giornate tra la miseria e la malattia, riducendo il mondo a un piccolissimo gruppo di amici che lo accompagneranno fino alla tomba44 e scrivendo lettere che raccontano un tristissimo allontanamento dal mondo, come capivano perfettamente i curatori del terzo volume delle sue epistole, Orlandini e Mayer, che nell’Avvertenza datata «1853» non riuscivano a nascondere un certo imbarazzo di fronte all’impoliticità delle missive che si apprestavano a pubblicare45. Ma esule, oramai, dalla vita. Gli anni estremi dell’esistenza di Foscolo capovolgono il senso del suo esilio46. Foscolo, che – quasi a voler chiudere il cerchio dell’esistenza – spera di poter tornare a morire a Zante, che ha ridotto all’essenziale la sua biblioteca (mantenendo sempre con sé due libri: la Divina Commedia e l’Iliade), in quell’esilio nell’esilio che diviene il soggiorno a Thurnam Green47, fugge il consorzio umano e, soprattutto, i suoi compatrioti, che non smettono di rimproverargli – con toni e modalità diverse – un «disimpegno politico» per loro inaccettabile48. Sceglie la via dell’eclissi nell’esilio, come spiega in una lettera del 26 settembre 1826 a Gino Capponi49 e come ribadisce nella Lettera apologetica. Questo scritto rimasto inedito, pubblicato postumo da Mazzini, 43 Su questo tema cfr. Sandro Gentili, «Quaedam divina voluta atque horror» e altri studi foscoliani, cit., p. 119 e segg. 44 Giuseppe Chiarini, La vita di Ugo Foscolo, nuova edizione con un discorso sul Foscolo e un’appendice di note bibliografiche, a cura di Guido Mazzoni, Firenze, Barbèra, 1927, pp. 437-460. 45 Cfr. Opere edite e postume di Ugo Foscolo. Epistolario, a cura di Francesco Silvio Orlandini e Enrico Mayer, i, Firenze, Le Monnier, 1923, p. ii. 46 Una ricostruzione degli ultimi anni di Foscolo, tra giudizi moraleggianti e sottolineatura delle note più cupe e tristi, anche in Francesco Viglione, Ugo Foscolo in Inghilterra, Catania, Muglia, 1910. 47 Adriana Flamigni, Rossella Mangaroni, Ugo Foscolo, la passione dell’esilio, Milano, Camunia, 1987, p. 324. 48 Cfr. anche Giuseppe Nicoletti, Foscolo, cit., p. 67. 49 Ivi, p. 238. 66 Giovanni Capecchi è (come comprendeva uno dei lettori del manoscritto, Santorre di Santarosa, che invitava Foscolo a modificare il testo50) un atto d’accusa nei confronti dei propri connazionali, certifica la morte delle speranze di risorgimento (non solo politico ma anche umano e intellettuale: «Quanto all’Italia d’oggi, a me par fatta cadavere»51), non accenna mai alla volontà di tornare su quella terra dove ha combattuto e sofferto e scava anzi un abisso tra se stesso e gli altri italiani, con il ricorso costante alla contrapposizione tra io e voi, tra mio e vostro, collocando quest’ultimo aggettivo possessivo anche a fianco dei termini patria – «vostra patria», scrive più volte riferendosi all’Italia – e concittadini – gli abitanti della penisola sono «vostri concittadini». L’Apologetica risulta un testo chiave per tentare di decifrare il senso dell’esilio foscoliano. Pur rivendicando l’amore di patria che ha ispirato tutte le sue pagine (ma collocandolo, significativamente, nel passato52), finisce per trasferire su piani diversi da quello politico-patriottico una scelta radicale, convinta e, soprattutto, perpetua. È in queste pagine che Foscolo conferma il bisogno di occultarsi53 e che, nell’illustrare le ragioni dell’esilio, fa riferimento anche alla non appartenenza al presente (Nicoletti ha parlato, non a caso, di «disperante rinuncia per il presente»54), al senso – chiarissimo – di essere fuori dal suo tempo: la inquietudine sospettosa de’ vostri occhi d’Argo, o Italiani; e le orecchie libidinose degli altrui vituperi; e le lingue crudeli; e le penne, armi uniche vostre a guerreggiare d’invidia: – queste furono le cagioni che mi avevano disposto a guardarvi da più di dieci anni come se voi non foste miei contemporanei55. Cfr. Opere edite e postume di Ugo Foscolo. Epistolario, cit., p. 468 Ugo Foscolo, Lettera apologetica, cit., p. 130. 52 Ivi, pp. 136 e 140. 53 «Adunque da che il desiderio di fuggirmi dalla discordia calunniatrice e servile mi confortava a contentarmi dell’esilio perpetuo, io mi sono deliberato oggimai di non udire più voce, né vedere più volto mai d’italiano. Di pochi d’essi non m’era, e né pure oggi non mi sarebbe discara la conversazione. Se non che dopo la prova come a’ pochissimi non può mai venir fatto di trafugare il secreto della mia vita all’inquietudine de’ tanti occhi d’Argo, e m’arrivava pur sempre il rumore di vituperi e di scandali; io da più d’un anno mi vivo occultissimo a tutti» (ivi, pp. 209-210). 54 Giuseppe Nicoletti, Introduzione, in Ugo Foscolo, Lettera apologetica, cit., p. xlviii. 55 Ugo Foscolo, Lettera apologetica, in Prose politiche e apologetiche (1817-1827), cit., p. 84. 50 51 Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 67 4. Anche Pascoli può essere letto come poeta dell’esilio. Non tanto perché – soprattutto nei progettati Poemi del Risorgimento e nei discorsi pronunciati intorno al cinquantesimo anniversario dell’Italia unita56 – dedica i suoi versi e le sue parole a patrioti italiani costretti all’espatrio, da Antonio Mordini a Giuseppe Garibaldi, o perché si sofferma a raccontare le vicende di illustri esuli del passato: primo fra tutti Dante, ma anche Ulisse, Enea e il suo cantore Virgilio, che – secondo il poeta di Myricae – diventa guida ideale per il viaggio ultraterreno di Dante proprio perché condivide con il fiorentino l’esperienza della cacciata dalla propria terra57. Neppure il fatto che Pascoli adoperi per se stesso la definizione di «esule» nel definire i suoi rapporti con San Mauro, soprattutto quando, all’altezza del 1899, coltiva per qualche mese il sogno di poter riacquistare la casa dove era nato58, esaurisce la riflessione sulla perdita della Patria nella sua vita e nella sua opera. Pascoli diviene poeta dell’esilio soprattutto perché cerca di definire il senso di esclusione, di perdita di radici, che condanna a errare senza meta, in un mondo dominato dal mistero e dalle tenebre59. Ciò che l’uomo ha perso, lo spazio o il tempo dai quali è stato estromesso, possono assumere connotati diversi. Pascoli racconta la perdita di una dimensione sicura e protetta come quella del “nido” e della famiglia; ma l’esclusione riguarda anche l’amore e, addirittura, la vita. Una lettera a Maria del 9-10 maggio 1895, scritta da Sogliano durante le trattative per definire il matrimonio di Ida, appare di notevole importanza, associando amore e vita, e quindi rinuncia all’amore con rinuncia alla vita: «lasceremo la vita a chi vuol viverla»60. In questa prospettiva si inseriscono i testi che raccontano l’estraneità riSu Pascoli e il Risorgimento cfr. Marino Biondi, La tradizione della patria. ii. Carduccianesimo e storia d’Italia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2010. 57 Giovanni Pascoli, Una festa italica, in Prose. I: Pensieri di varia umanità, Mondadori, Milano 1946, p. 315. Su Virgilio poeta dell’esilio cfr. anche Id., Nuovi poemetti, a cura di Renato Aymone, Mondadori, Milano 2003, p. 516. 58 Si vedano, in particolare, le lettere inviate al segretario comunale del paese romagnolo, Pietro Guidi detto Pirozz (Luigi Ferri, Lettere del Pascoli a Pietro Guidi, in «Lettere italiane», xiii, 4, ottobre-dicembre 1961, pp. 473 e 477). 59 Su questo rimandiamo al nostro Pascoli e l’esilio, in Giovanni Pascoli a un secolo dalla sua scomparsa, a cura di Renato Aymone, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2013, pp. 165-178. 60 Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Memorie curate e integrate da Augusto Vicinelli, Milano, Mondadori, 1961, p. 422. 56 68 Giovanni Capecchi spetto al mondo dell’eros (dal «non so che felicità nuova» del Gelsomino notturno a «Ell’era andata a chi sa qual martirio!» di Chiù, nei Nuovi poemetti), le poesie sull’esclusione dalla paternità, dalla condizione di albero che dà frutti, che germoglia nuove foglie, che muore meno perché sopravvive nei figli (da Il vischio a Il vecchio castagno e a I vecchi di Ceo), i componimenti che presentano la situazione di isolamento del poeta, la sua condizione di segregato (da Passero solitario di Myricae a I due orfani dei Primi poemetti e a La piada dei Canti di Castelvecchio), senza dimenticare l’importanza che in Pascoli assume la figura del carcerato, che diventa sostituto proiettivo dell’io poetante, come Re Enzio, «prigioniero, reietto e abbandonato da tutti, dal padre morto, dal fratello sconfitto, dai sudditi in fuga, solo e incatenato in un mondo di nemici, con l’unico conforto delle canzoni di gesta o dei canti popolari, e quindi della poesia»61. Se ciò che si è perduto, la dimensione dalla quale l’uomo è estromesso, può assumere diverse connotazioni, ciò che diviene pervasivo è il senso della perdita tout court. Tra le figure attraverso le quali Pascoli racconta la condizione umana, quella del pellegrino appare la più importante. Esiste, certo, anche il fratello-pellegrino di una poesia del 1882, che torna, dopo gli anni bolognesi, dalle sorelle e ai propri doveri familiari, e non manca – in concomitanza con l’approdo sulla cattedra bolognese appartenuta al maestro Carducci – il pellegrino orgoglioso di aver raggiunto, in solitudine e senza aiuti, un gradino elevato sulla scala sociale e professionale (è il pellegrino, per esempio, delle odi La piccozza e L’aurora boreale); ma molto più spesso il pellegrino è l’errante, l’uomo che non smette di camminare per le strade della vita, che ha perso una patria e non la ritrova, che si è smarrito, che non riesce a orientarsi. Il giorno dei morti, che apre Myricae a partire dal 1894, presenta l’immagine di un pellegrino che «vaga in mezzo alla tempesta», che cammina «e non ha pietra ove posar la testa»; ma il camminare ininterrottamente, senza meta, caratterizza anche il viandante di Il bordone (che inizia il suo viaggio da un cimitero e che al cimitero, alla fine, fermerà i suoi passi, recuperando dal Purgatorio dantesco un oggetto, il «bordon»62, 61 Giuseppe Nava, Giovanni Pascoli, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, viii, Tra l’Otto e il Novecento, Salerno, Roma 1999, pp. 701-702. 62 Giovanni Pascoli, Primi poemetti, a cura di Odoardo Becherini, Milano, Mursia, 1994, p. 235. Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 69 messo in mano a numerosi erranti pascoliani, fino al poema italico Tolstoi), l’uomo invisibile di Nella nebbia («E tu chi sei, che sempre vai?»), la «gente che va né dove sa né donde» di Il focolare, con il suo «vagolare» continuo, in mezzo all’oscurità e al mistero, l’uomo che cammina nella notte di In viaggio (dove, significativamente, l’errare del pellegrino all’aperto si contrappone alla quiete, al posare, interno alla casa: «Si chiude, la casa; e s’appanna | d’un tratto il vocerìo che c’è; | si chiude, restringe, accapanna, | per parlare tra sé e sé»). Questo senso di disorientamento è concentrato nell’interrogativa («dov’ero?») presente in una poesia composta tra il 1892 e il 1893, inizialmente intitolata Estate e poi, significativamente, Patria; e in questi versi il senso di estraneità è sottolineato da due immagini destinate a restare nel repertorio delle poesie pascoliane incentrate sullo stesso argomento: quella delle campane e quella del cane che latra al forestiero63. Sono anche questi i testi di Pascoli poeta dell’esilio. Di Pascoli che può raccontare il senso di esclusione, di dolorosa espulsione, attraverso la storia di un uomo gettato ai margini del mare, collocato dalle onde sulla riva, come avviene con Il naufrago, apparso per la prima volta sul «Marzocco» del 9 dicembre 1906 e raccolto nei Nuovi poemetti: mentre le onde del mare vanno e vengono, il corpo di un naufrago giace, senza vita, sulla riva, espulso dal mare (prima degli Ossi di seppia di Montale), insieme a «mucchi d’alga» (oggetti-simbolo che si accompagnano a questa condizione di espulsione e che non a caso erano già stati adoperati in Giovannino, il testo del Ritorno a San Mauro che indica l’impossibile ricongiungimento con i propri morti, sia per il poeta adulto che per il se stesso bambino, «un mucchiarello d’alga presso il mare»). L’antefatto autografo del testo, pubblicato da Aymone, appare quanto mai significativo perché ricostruisce la vicenda dell’uomo prima del naufragio e definisce il carattere di esule del protagonista: «Stando sopra uno scoglio alto sul mare | l’esule, con la rossa chioma al vento, | sentì col mare l’anima ondeggiare»; «E il vento soffiò più forte, e l’esule vide l’onde già […]»64. Non si tratta di un esilio politico, come quello che ha caratterizzato le esistenze degli eroi del Risorgimento, di Dante, di Virgilio e di Id., Poesie e prose scelte, progetto editoriale, introduzioni e commento di Cesare Garboli, Milano, Mondadori, 2002, i, p. 1002. 64 Id., Nuovi poemetti, cit., pp. 101-102. 63 70 Giovanni Capecchi Enea, né di un emigrante che è esule poiché costretto ad abbandonare la propria casa. L’esilio, per Pascoli, diviene la condizione esistenziale dell’uomo. Ma prima ancora di un testo come Il naufrago, Pascoli è tornato a raccontare lo stato di esclusione in una poesia dei Canti di Castelvecchio, scritta intorno al 1902 e intitolata Il croco. A rappresentare il poeta è, in questo caso, il pallido fiore reciso, sradicato e collocato in un vaso d’argilla, ancora capace di aprirsi ai raggi del sole che gli fanno pensare di essere stato restituito alla sua zolla. E la parola che ci ha guidato in questo percorso (esule65) ricorre nella poesia proprio per definire l’uomo e la sua condizione di perdita: tu pallido, e fiso nel raggio che accora, nel raggio che piace, dimentichi ch’ora sei esule, lacero, ucciso. 5. Con la sua prima raccolta poetica, Ossi di seppia, pubblicata nel 1925, Eugenio Montale racconta una storia di esclusione: un’esclusione anche conoscitiva (e per questo un testo come Non chiederci la parola è giustamente divenuto il manifesto dell’incapacità da parte del poeta di poter spiegare il mondo e l’animo umano), ma soprattutto un’esclusione dalla possibile felicità, da una dimensione – e da un luogo – in cui l’uomo avrebbe potuto raggiungere la serenità. C’è un muro che separa il nostro cammino da questa che Ungaretti avrebbe chiamato terra promessa: ed è la «muraglia» del testo più antico degli Ossi, Meriggiare pallido e assorto, datato 191666. Il senso di esclusione che trama gli Ossi di seppia viene però raccontato da Montale soprattutto attraverso la storia del rapporto tra se stesso e il mare. È un tema, questo, lungamente trattato dalla criPer l’elaborazione del testo e la comparsa della parola «esule» che sostituisce un iniziale «profugo», cfr. Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, edizione critica a cura di Nadia Ebani, ii, La Nuova Italia, Firenze 2001, pp. 740-747. Su Il croco cfr. anche il commento di Ivanos Ciani e Francesca Latini, in Giovanni Pascoli, Poesie. MyricaeCanti di Castelvecchio, a cura di Ivanos Ciani e Francesca Latini, Introduzione di Giorgio Bárberi Squarotti, Torino, Utet, 2002, pp. 710-713. 66 Enrico Testa, Montale, Torino, Einaudi, 2000, p. 19. 65 Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 71 tica, anche in virtù della sua centralità nella prima raccolta del poeta ligure. Ma vale la pena ripercorrerlo, sia pure in maniera sintetica. Il mare è il regno del poter essere, la terra – desolata, sassosa, battuta dal sole – è il regno dell’essere. La distesa azzurra rappresenta la dimensione in cui l’uomo potrebbe raggiungere quella felicità che nasce dal sentirsi in armonia con la natura: ma al poeta non è concessa questa condizione di benessere. Falsetto, quarto componimento della raccolta, introduce mirabilmente questo tema, con il contrasto tra Esterina – la fanciulla minacciata dai suoi vent’anni, l’«equorea creatura», sorridente alla vita, che non si lascia turbare dai dubbi tormentosi, che procede verso l’azzurro delle onde, abbattendosi poi, felice, fra le braccia del suo «divino amico» mare – e il poeta, che appartiene invece alla categoria degli uomini esclusi dalla gioia di un ricongiungimento con il mare, di quegli uomini che possono solo guardare – tra stupore, invidia e ammirazione – la scena che si svolge davanti ai loro occhi: «Ti guardiamo noi, della razza | di chi rimane a terra». Questo tema costituisce la trama di fondo di tutti gli Ossi di seppia, ripreso, nella parte finale del volume, in L’agave sullo scoglio («ora son io | l’agave che s’abbarbica al crepaccio | dello scoglio | e sfugge al mare da le braccia d’alghe | che spalanca ampie gole e abbranca rocce»), in Casa sul mare («Il viaggio finisce a questa spiaggia | che tentano gli assidui e lenti flutti»; «Il cammino finisce a queste prode | che rode la marea col moto alterno»), fino al conclusivo Riviere, che contiene l’immagine che dà il titolo alla raccolta («[…] sballottati | come l’osso di seppia dalle ondate») e che, carica di significati, rimanda soprattutto alla condizione esistenziale di uomini espulsi dal mare, cacciati dalle onde, gettati sulla riva. La storia del rapporto tra uomo e mare67 è al centro di “Mediterraneo”, poemetto in nove movimenti strettamente legati tra loro68, Luperini, aprendo la sua Storia di Montale, ha ricordato il racconto scritto dal poeta ligure nel 1943, Ricordo di una spiaggia (poi ristampato con il titolo Una spiaggia in Liguria: vedi anche Eugenio Montale, Prose e racconti, a cura e con introduzione di Marco Forti, Note ai testi e varianti di Maria Luisa Previtera, Milano, Mondadori, 1995, pp. 657-661), che collega il tema dell’espulsione a un aspetto autobiografico: il quattordicenne Montale viene riportato a riva da due amici con i quali era uscito in barca perché ha mal di mare. «Anche in esso [nel racconto], come in numerosi componimenti di Ossi di seppia, il protagonista è espulso dal mare, esiliato dal suo seno» (Romano Luperini, Storia di Montale, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 4). 68 Romano Luperini, Il “significato” di «Mediterraneo», in Montale o l’identità negata, Napoli, Liguori, 1984, pp. 30-40. 67 72 Giovanni Capecchi tessere di un’unica storia, momenti di una vicenda che si snoda (anche dal punto di vista dei tempi verbali) tra passato, presente e speranze future. È legata al passato la possibilità di una fusione con il mare, che ha sempre provocato un senso di sgomento nel poeta («Come allora oggi in tua presenza impietro | mare […]»), ma che durante l’infanzia si traduceva comunque in una armonia che si è rotta («[…] ma non più degno | mi credo del solenne ammonimento | del tuo respiro»); nel quinto movimento la rottura appare ormai insanabile, si è creata una disarmonia tra uomo e mare («Dalla mia la tua musica sconcorda») e il poeta è rassegnato a vivere sulla terra («Mia vita è questo secco pendio»), provando nei confronti del mare un rancore che assomiglia a quello del figlio nei confronti del padre: «E questa che in me cresce | è forse la rancura | che ogni figliuolo, mare, ha per il padre». Le speranze per il futuro sono riposte nella possibilità di portare comunque sempre con sé un’eco della voce del mare, piccolo refrigerio nell’arsura della vita: «Lontani andremo e serberemo un’eco | della tua voce, come si ricorda | del sole l’erba grigia | nelle corti scurite, tra le case»; e nel possibile ricongiungimento finale (in quell’ultimo movimento che si apre con fiducia al futuro e che è costruito su una «matrice biblica», ricorrendo «alla retorica tipica della preghiera religiosa, rivolta al mare affinché questi lo accolga nel suo “circolo”»)69: «M’attendo di tornare nel tuo circolo». La voce del mare di quest’ultimo movimento – la «dolce risacca» che si ascolta sulla riva – suscita memorie da un tempo passato, che si pensava perduto e dimenticato, come avviene a «uno scemato di memoria | quando si risovviene del suo paese». Il mare è dunque un «paese» perduto. Anzi, per adoperare le immagini di Ho sentito talvolta nelle grotte…, quarto movimento di “Mediterraneo”, chiave di volta del poemetto, è la «città» dalla quale l’uomo è stato cacciato, «la patria sognata», il paese nel quale «l’esiliato» potrebbe porre fine alla sua inquieta erranza. Dietro a questo componimento – come accade per ogni testo montaliano e per l’intera sezione “Mediterraneo” – si affollano riferimenti e rimandi, per analogia o per contrasto70. Ma ciò che ci sembra importante sottoliQueste osservazioni sono state sviluppate in Massimiliano Tortora, L’«esiliato» e «la patria» sognata in “Mediterraneo” di Eugenio Montale, in «Già troppe volte esuli». Letteratura di frontiera e di esilio, cit., ii, pp. 173-174. 70 Per la presenza dannunziana si veda Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale, Milano, Feltrinelli, 1975; sulla presenza dan69 Le forme dell’esilio, tra Dante e Montale 73 neare è anche il fatto che, nei primi versi, incentrati sul racconto della vista del mare dall’interno di una grotta e sull’immaginazione della «città di vetro» che sorge sopra le onde (una città «di fattura rimbaudiana […], favolosa eppure estremamente reale come le città delle Illuminations»71), Montale sceglie di adoperare le parole chiave del dizionario degli esuli, un dizionario che, dall’autore della Commedia fino ai patrioti del Risorgimento, può ancorarsi su poche voci, che sono appunto «città», «patria» e «esilio» (qui nella forma «esiliato»): Ho sostato talvolta nelle grotte che t’assecondano, vaste o anguste, ombrose e amare. Guardati dal fondo gli sbocchi Segnavano architetture Possenti campite nel cielo. Sorgevano dal tuo petto Rombante aerei templi, guglie scoccanti luci: una città di vetro dentro l’azzurro netto via via si discopriva da ogni caduco velo e il suo rombo non era che un sussurro. Nasceva dal fiotto la patria sognata. Dal subbuglio emergeva l’evidenza. L’esiliato rientrava nel paese incorrotto72. Questa prima parte di Ho sostato talvolta nelle grotte… coincide con il sogno a lungo coltivato, con l’aspirazione dell’esule che vorrebbe approdare alla sua terra, riconquistare la patria perduta. Ma il mare, che per questo è «padre»73, pronuncia nel presente la sua «legge severa». È una legge di esclusione, di divieto; una legge che connunziana e ungarettiana in questo testo cfr. Elio Gioanola, Mediterraneo, iv (da “Ossi di seppia”), in Letture montaliane in occasione dell’80° compleanno del Poeta, Genova, Bozzi Editore, 1977, pp. 53-68; sul legame con Svevo (conosciuto attraverso Bobi Bazlen, al quale era dedicata la sezione “Mediterraneo”) e con la poesia simbolista francese si veda Romano Luperini, Il “significato” di «Mediterraneo», cit., pp. 41 e segg. 71 Gaetano Mariani, Linee compositive di un poemetto montaliano: lettura di «Mediterraneo», in Poesia e tecnica nella lirica del Novecento, Nuova edizione aggiornata e accresciuta, Padova, Liviana, 1983, p. 263. 72 Eugenio Montale, Ossi di seppia, Edizione a cura di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely, con un saggio di Pier Vincenzo Mengaldo e uno scritto di Sergio Solmi, Milano, Mondadori, 2010, p. 135. 73 «Il mare è padre perché ammonisce, detta leggi severe, propone l’evidenza» [Elio Gioanola, Mediterraneo, iv (da “Ossi di seppia”), cit., p. 60]. 74 Giovanni Capecchi danna a una condizione rappresentata, in questi versi, dal duplice correlativo-oggettivo: «un ciottolo | róso sul mio cammino, | impietrato soffrire senza nome» (non il ciottolo lisciato dal mare al quale veniva paragonata Esterina in Falsetto) e «l’informe rottame» gettato fuori dal fiume dell’esistenza, allontanato dal mare74. Il mare è movimento, la vita sulla riva riarsa è immobilità, sosta. Alla legge che il mare ripete – sia nei giorni di tempesta, sia nei momenti di bonaccia – non è possibile fuggire. La condizione dell’uomo (fatte salve le speranze di un possibile ricongiungimento futuro, rappresentate nella conclusione di “Mediterraneo”) resta quella del reietto, dell’esule. 74 Rottami era in un primo momento il titolo immaginato per la raccolta: cfr. Marco Villoresi, Come leggere “Ossi di seppia”, Milano, Mursia, 1997, p. 48.