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IL NOVECENTO LETTERARIO ITALIANO

1. IL NOVECENTO LETTERARIO ITALIANO: DEFINIZIONI E RIFLESSIONI Novecento = si intende convenzionalmente il XX secolo, ma questo periodo deve essere comunque considerato in modo molto elastico poiché bisogna tener conto anche di ciò che c'è stato prima. Quindi si può prendere come riferimento il 1861 (anno dell'Unità nazionale): momento in cui si può iniziare a ragionare di lingua italiana e quindi di letteratura italiana. Il punto di arrivo di questo periodo va al di la della data di fine secolo, ovvero il 31 dicembre 1999; infatti giunge fino ai primi decenni del Duemila, con un rinnovamento portato ad una dimensione sempre più multiculturale, multi linguistica e multi etnica. Letterario = ci si chiede cosa si intende per 'letteratura'; questa parola fa subito pensare all'insieme dei romanzi, novelle e poesie ma ciò fa confondere le idee su quella che in realtà dovrebbe essere la nostra idea di letteratura. La definizione di letteratura comprende tutti quei testi scritti che esprimono la visione della vita dell'autore attraverso la creatività. Italiano = questo aggettivo non vuole sottolineare che la letteratura in lingua è più importante di quella in dialetto. Se noi per letteratura italiana intendessimo solo quella scritta in lingua italiana resterebbero escluse le opere dialettali e anche quei testi che autori italiani hanno scritto originariamente in un'altra lingua per ragioni personali o storiche. C'è anche da tener conto anche di quegli scrittori stranieri che, trasferitisi in Italia, hanno imparato l'italiano per poter scrivere e pubblicare i loro libri. Tutte queste osservazioni ci permettono di intendere la letteratura italiana non tanto quella scritta in lingua italiana, ma quella nata all'interno della cultura italiana, che quindi comprende anche autori espatriati. 2. DALL'UNITA' NAZIONALE AL NUOVO SECOLO: DALLA TRAZIONE AL RINNOVAMENTO DELLA POESIA La svolta culturale (e quindi anche letteraria), conseguente a quella avvenuta in Italia dal 1861, nacque nell'Europa centro-settentrionale dopo la prima metà del 700 quando avvenne la frattura della storia moderna (dopo la prima rivoluzione industriale-> mutamento economico). A seguito ci fu una rivolta contro una secolare tradizione culturale. All'inizio del secondo millennio prese forma e forza una tradizione letteraria fondata su un linguaggio molto diverso da quello parlato e rivolto soprattutto ad un pubblico di nobili ed ecclesiastici (ricordiamo il petrarchismo, cioè l'imitazione della poetica di Petrarca). Questa tradizione però si spezzò soprattutto in Francia, Germania e Inghilterra dopo la metà del 700, quando la borghesia reclamò un'arte che sapesse rappresentare con un linguaggio attuale i sentimenti e gli ideali degli uomini contemporanei. In Italia la tradizione si spezzò nell'800 con il movimento romantico che cercò di allargare il suo pubblico e di avvicinarsi sempre più alla prosa. Per raggiungere questi obiettivi però occorreva intervenire sul linguaggio che incominciò piano piano ad

IL NOVECENTO LETTERARIO ITALIANO 1. IL NOVECENTO LETTERARIO ITALIANO: DEFINIZIONI E RIFLESSIONI Novecento = si intende convenzionalmente il XX secolo, ma questo periodo deve essere comunque considerato in modo molto elastico poiché bisogna tener conto anche di ciò che c’è stato prima. Quindi si può prendere come riferimento il 1861 (anno dell’Unità nazionale): momento in cui si può iniziare a ragionare di lingua italiana e quindi di letteratura italiana. Il punto di arrivo di questo periodo va al di la della data di fine secolo, ovvero il 31 dicembre 1999; infatti giunge fino ai primi decenni del Duemila, con un rinnovamento portato ad una dimensione sempre più multiculturale, multi linguistica e multi etnica. Letterario = ci si chiede cosa si intende per ‘letteratura’; questa parola fa subito pensare all’insieme dei romanzi, novelle e poesie ma ciò fa confondere le idee su quella che in realtà dovrebbe essere la nostra idea di letteratura. La definizione di letteratura comprende tutti quei testi scritti che esprimono la visione della vita dell’autore attraverso la creatività. Italiano = questo aggettivo non vuole sottolineare che la letteratura in lingua è più importante di quella in dialetto. Se noi per letteratura italiana intendessimo solo quella scritta in lingua italiana resterebbero escluse le opere dialettali e anche quei testi che autori italiani hanno scritto originariamente in un’altra lingua per ragioni personali o storiche. C’è anche da tener conto anche di quegli scrittori stranieri che, trasferitisi in Italia, hanno imparato l’italiano per poter scrivere e pubblicare i loro libri. Tutte queste osservazioni ci permettono di intendere la letteratura italiana non tanto quella scritta in lingua italiana, ma quella nata all’interno della cultura italiana, che quindi comprende anche autori espatriati. 2. DALL’UNITA’ NAZIONALE AL NUOVO SECOLO: DALLA TRAZIONE AL RINNOVAMENTO DELLA POESIA La svolta culturale (e quindi anche letteraria), conseguente a quella avvenuta in Italia dal 1861, nacque nell’Europa centro-settentrionale dopo la prima metà del 700 quando avvenne la frattura della storia moderna (dopo la prima rivoluzione industriale -> mutamento economico). A seguito ci fu una rivolta contro una secolare tradizione culturale. All’inizio del secondo millennio prese forma e forza una tradizione letteraria fondata su un linguaggio molto diverso da quello parlato e rivolto soprattutto ad un pubblico di nobili ed ecclesiastici (ricordiamo il petrarchismo, cioè l’imitazione della poetica di Petrarca). Questa tradizione però si spezzò soprattutto in Francia, Germania e Inghilterra dopo la metà del 700, quando la borghesia reclamò un’arte che sapesse rappresentare con un linguaggio attuale i sentimenti e gli ideali degli uomini contemporanei. In Italia la tradizione si spezzò nell’800 con il movimento romantico che cercò di allargare il suo pubblico e di avvicinarsi sempre più alla prosa. Per raggiungere questi obiettivi però occorreva intervenire sul linguaggio che incominciò piano piano ad avvicinarsi a quello parlato. Tra gli scrittori italiani del primo 800 ricordiamo: Leopardi e Manzoni che cercavano di scrivere in un linguaggio che potesse essere capito anche da coloro che non avevano compiuto studi avanzati; infatti per esempio Leopardi nelle sue poesie tendeva spesso a rappresentare la quotidianità e la normalità, mentre Manzoni affidava i ruoli principali a figure modeste, non a nobili. C’era anche chi, come per esempio gli illuministi (col giornale “Il Caffè”, o “il Conciliatore”), cercava di farsi conoscere attraverso i propri scritti e quindi scriveva con un linguaggio che potesse essere capito da più lettori possibili. Si impegnano quindi a scrivere e a diffondere un linguaggio più comunicativo e moderno, indispensabile per far circolare i principi politici liberali. NB: inizia ad avere molto importanza il giornalismo. Grazie al giornalismo, vi è un aumento del numero dei lettori e la diffusione di un nuovo genere letterario, il romanzo in prosa; mentre in Italia prevale ancora la letteratura in poesia classicheggiante. La poesia inizierà ad essere messa in discussione dopo la metà dell’800 quando in Italia si diffonderà la moderna poesia francese simbolista: la poesia non sarà più solo ispirata ad ideali classici, ma comincerà a diffondersi una poesia anticonformista fondata quindi sulle cose e sui valori minimi, che porterà alla poesia delle piccole cose di Pascoli. Sarà grazie a Pascoli che si aprirà la stagione nuova della poesia italiana; infatti Pascoli segna l’inizio della poesia contemporanea italiana. Sarebbe però un errore considerare dimenticata e accantonata la tradizione che, all’inizio del 900, rimaneva ancora diffusa e molto apprezzata in Italia. Il passaggio dalla tradizione, come troviamo in Carducci, alla modernità, come possiamo trovare in Pascoli, lo notiamo nei testi in cui questi due artisti parlano del ruolo del poeta: Carducci per prima cosa definisce il poeta per ciò che non deve essere (per esempio il poeta non deve essere un vagabondo lontano dalla realtà); per Carducci (fa sintesi fra razionalità e sentimenti) il poeta è civile, è un modello di alti valori e guida della società. Per Pascoli invece il poeta è solitario e nemico della mondanità. Per Pascoli il poeta non ha bisogno di particolari abilità tecniche e non ha bisogno nemmeno di argomenti ‘innovativi’ di cui parlare: il compito del poeta è quello di scoprire significati nascosti nella realtà quotidiana (l’impiego del disvelamento sarà una delle qualità più costanti della poesia italiana del primo 900). 3. I PROSATORI TRA OTTO E NOVECENTO A partire dalla seconda metà dell’800 iniziò a diffondersi il romanzo. Il romanzo nacque nel 700 nell’Europa centro-settentrionale ed era rivolto a lettrici della borghesia e ciò spiega perché le protagoniste spesso erano femmine e solitamente si parlava di una donna che veniva continuamente amata, e del suo riscatto sociale. Prima della metà dell’800 il romanzo continuava però ad avere poco successo in Italia. Per cercare di capire il perché di questo scarso successo si può far riferimento alle parole scritte nelle lettere che Ruggero Bonghi scrisse a Celestino Bianchi (1855): “Quella solitudine dell’ordine de’ letterati abbandonati a se medesimi dal pubblico, è stata una cagione principale di molti de’ loro difetti e della nessuna popolarità effettiva delle loro opere. Così chiusi, si sono ordinati da sé come a modo di casta: e non attingendo a quella ch’io direi mente comune letteraria d’un popolo, non avendo coscienza dei nuovi bisogni delle menti moderne, scostando sempre più il loro stile dalla naturalezza e la loro lingua da quella che sentivano parlare e che parlavano essi stessi, si sono in grandissima parte o persi in soggetti per lo più inutili sotto ogni aspetto, o gli hanno trattati senza saper dar loro nessun interesse, ed hanno scritto, quasi sempre, in una maniera insopportabile. Dell’inutilità de’ soggetti puoi fartene un’idea dal numero di scritti puramente accademici dei quali è colma la nostra letteratura. Questi soggetti non comportano se non una merito puramente di parole e di frasi, e quando faccian la principale occupazione dei letterati, gli rendono inetti a pensare.” Nonostante la presenza di una letteratura lontana dai problemi, dai sentimenti e dal linguaggio del popolo (come detto da Bonghi), si cominciò a diffondere la convinzione della necessità di dar vita ad una nuova produzione scritta che stia al passo con i tempi e che quindi interpreti anche le diverse vicende sociali e politiche dell’Italia: ciò lo troviamo appunto nel romanzo. Nel 1861 il 75% degli italiani (su 30 milioni) erano analfabeti: quindi non più del 10% degli italiani erano lettori. Per quanto riguarda la lingua nazionale la borghesia e la nobiltà erano accordati sull’uso scritto dell’italiano solo per argomenti scientifici, giuridici, filosofici e letterari, mentre per l’uso orale si doveva parlare italiano nei tribunali, alle assemblee politiche e alle lezioni nelle scuole superiori e all’università. Il romanzo ebbe poco successo anche perché era un genere lontano dal gusto letterario predominante, che era aristocratico-classico. In famiglia però nobili, borghesi, colti e analfabeti continuavano a parlare i loro dialetti: ciò era il risultato dell’assenza di un’aggregazione politica (fino al 1861). Il romanzo ebbe poco successo all’inizio anche perché era un genere lontano dal gusto letterario predominante dell’epoca, che era ancora quello aristocratico. La questione della lingua, che fu una delle cause principali del ritardo della diffusione in Italia di una letteratura popolare e quindi anche del romanzo, consisteva nel rendere l’italiano una lingua viva adatta ad esprimere in modo completo e chiaro sia le nuove realtà della vita comune, sia ad essere parlata, scritta e compresa dalle diverse componenti della neonata collettività nazionale. Così Manzoni propose di estendere a tutta l’Italia la lingua parlata dai fiorentini colti e per fare ciò utilizzò i Promessi Sposi. L’impegno ad affrontare e a risolvere il problema della lingua portò ad aumentare la produzione di libri per bambini. Nel 1877 con la Legge Coppino i primi due anni della scuola primaria diventarono gratuiti e obbligatori e i genitori che non iscrivevano e non mandavano i loro figli a scuola venivano puniti. Il progetto di Manzoni venne contestato dai sostenitori della tradizione e dal Classicismo, sia da coloro che non volevano abbandonare il dialetto d’appartenenza. Prevalse però ciò che viene chiamato ‘liberalismo linguistico’ il quale è caratterizzato dal rifiuto di modelli fissi, dall’uso di un linguaggio limpido e semplice, da una sintassi agile e fondata su un lessico di base toscana ma arricchito con dialetti: questa lingua divenne lo strumento espressivo degli scrittori che volevano rivolgersi ad un pubblico formato non solo dall’alta borghesia e dai nobili ma anche della media e piccola borghesia e dal popolo. Nella seconda metà dell’800 il romanzo italiano si sviluppò: era oramai entrato a far parte della produzione letteraria italiana e tutto ciò fu merito anche della stampa che anch’essa si diffuse molto soprattutto grazie alla borghesia. Tuttavia questa esigenza di sapere era ostacolata da forze conservatrici, come i Gesuiti. La diffusione del romanzo fu grazie ai giornali e ai periodi , soprattutto grazie all’appendice narrativa che si trovava nella parte inferiore dei giornali e riportava le puntate di romanzi. Uno dei sottogeneri del romanzo erano Misteri, romanzi liberatori e anticlericali; anche in Italia ebbero molta fortuna tanto che vennero scritti i diversi ‘Misteri’ riguardanti l’Italia e spesso questi romanzi erano opera di scrittori modesti, ma troviamo anche romanzi scritti per esempio da Lorenzini, Collodi, Barrili. La rilevante proliferazione in Italia dei ‘misteri’ fu il fenomeno più appariscente che nei primi due decenni del secondo 800 legò i giornali alla letteratura per diversi motivi: per la scelta tematica, per il linguaggio e per la voglia di stabilire un rapporto di complicità con il lettore sia per rivolgersi a lui direttamente, sia nell’utilizzo di proverbi, sia nel proporre facili riferimenti culturali così che anche il lettore poco acculturato si senta gratificato. Per definire quindi lo scrittore italiano di successo nella seconda metà dell’800 dobbiamo porre come condizione indispensabile la sua attività giornalistica. CARLO COLLODI: Nato a Firenze nel 1826 (muore nel 1890) il suo vero nome è Carlo Lorenzini, ma venne chiamato Collodi dal nome del paese di provenienza della madre. Fu lo scrittore italiano che per primo raggiunse un notevole successo editoriale. Nel 1848 fondò “Il Lampione”, un giornale di satira politica che venne però soppresso l’anno dopo la granduca di Toscana. Collodi divenne un famoso giornalista a Firenze e nel 1856 si cimentò nel genere letterario e scrisse “Un romanzo in vapore. Da Firenze a Pisa.”, il suo secondo libro uscì nel 1857 con il titolo “I misteri di Firenze”. Dopo l’esperienza militare, Collodi si dedicò alla narrativa per bambini: così nel 1876 diede vita al personaggio Giannettino, un ragazzo sveglio e spigliato protagonista di diversi suoi libri che davano nozioni di storia e grammatica. Divenne poi collaboratore di “Giornale per i bambini” e dal 1881 ci pubblicò a puntate “Storia di un burattino”: si dice che fece tutto ciò per pagare debiti di gioco. Questo romanzo a puntate venne però poi pubblicato nel 1883 in un unico volume con il titolo “Le avventure di Pinocchio” al cui interno c’erano molte illustrazioni fatte da Enrico Mazzanti: la presenza di immagini erano fondamentale e importante per grandi e piccoli che non erano abituati a leggere. Questa era una delle caratteristiche che portavano ad un totale coinvolgimento del lettore; altre caratteristiche erano: il dialogo diretto con il lettore, l’uso di vocaboli che esprimevano oggetti riconoscibili della realtà quotidiana (esempio: fuoco, bottega,..), l’uso anche di modi di dire e proverbi, inoltre i messaggi educativi diretti ai bambini erano molto evidenti e chiari. La favola di Pinocchio ebbe molto successo sia tra grandi che tra piccini, ancora oggi. ANTON GIULIO BARRILI: era uno degli scrittori di romanzi per adulti più diffuso nella seconda metà dell’800. Era un Garibaldino e un giornalista. Iniziò a scrivere nel 1865 con la pubblicazione, sul suo giornale, del romanzo “Capitan Dodero” e proseguì poi scrivendo “Misteri di Genova”. Dopo gli impegni militari diede vita ad un genere storico-risorgimentale molto gradito ai lettori d’Italia. Barilli riesce a fondere i motivi patriottici con i nuovi sentimenti. Barrili è inoltre l’autore più venduto e apprezzato per tutti i suoi romanzi, come “L’olmo e l’edera” e “Come un sogno”. GIOVANNI VERGA: era un naturalista (Naturalismo: nato grazie a Emilie Zola il quale sentì la necessità di una narrativa fondata su basi scientifiche per compiere l’analisi dell’uomo e della società concentrandosi sullo studio oggettivo della realtà). Alle idee naturaliste aggiunse poi una serie di esperienze umane e culturali avviate da studi privati affrontati con la guida di religiosi. Dopo la sua esperienza militare, fondò il settimanale “Roma degli Italiani”. Nel suo primo romanzo “Amore e Patria” si capisce quanto sia legato alla patria. Nei primi anni settanta iniziò a pubblicare romanzi romantici, ma dopo aver letto “L’assomoir” di Zola decise di scrivere un ciclo di romanzi che potessero rappresentare diversi esempi di lotta per la vita. Questo ciclo di romanzi sarà chiamato “Ciclo dei vinti” e il primo titolo sarà “I Malavoglia” che saranno poi inseriti nella raccolta “Vita dei campi”. Verga nei suoi romanzi assumeva il ruolo di osservatore esterno che non si permetteva di giudicare e insegnare, inoltre era molto preciso nelle indicazioni storiche e geografiche e la sua scrittura era molto facile, comunicativa e diretta, pochi dialettismi. Dopo l’uscita di “Mastro Don Gesualdo” il progetto “Cicli dei vinti” non fu portato a termine e ciò fa pensare che questa sua idea di progetto non conquisto il pubblico. EDMONDO DE AMICIS: Fu militare e giornalista presso la rivista dell’esercito, con il suo primo libro “La vita militare” cercò di diffondere un’immagine dell’esercito molto positiva e di grande tutela per il popolo. Il suo libro di maggiore successo fu “Cuore”: un libro strutturato come fosse un diario scritto da Enrico, un alunno di terza elementare (1881) il quale su un quaderno scriveva tutto ciò che sentiva, vedeva, pensava dentro e fuori dalla scuola. Successivamente il padre di Enrico corresse tutti questi scritti del figlio cercando di non alterarne il pensiero: e già qua troviamo delle positività per esempio nel fatto che il padre assiste il figlio. Attraverso il libro “Cuore”, De Amicis voleva convincere gli italiani sull’importanza della scuola. E qui si può sottolineare un duplice scopo della lettura: divertire e giovare! Il libro Cuore aveva come finalità quella di convincere gli italiani sull’importanza della scuola. L’iniziale quadro positivo di questo libro si completerà nelle pagine successive in cui troviamo personaggi come: la madre che sollecita Enrico, il maestro che è molto sensibile, e tutti i compagni di scuola. Inoltre in questo romanzo De Amicis introdusse dei racconti mensili che il maestro proponeva ai suoi alunni: in questi racconti i protagonisti erano sempre diversi ed erano sempre dei giovani che di racconto in racconto provenivano da paesi diversi. De Amicis per scrivere si avvaleva di una struttura semplice e di una facile scrittura, i personaggi si riconoscevano subito persino nei loro dettagli. Il libro “Cuore” ottenne molto successo. Il romanzo nacque nel 700 e a quel tempo le protagoniste erano soprattutto donne coraggiose. Successivamente però le donne non erano più solo le protagoniste, ma iniziarono anche loro a scrivere romanzi: per esempio ricordiamo Ann Redeliffe e le sorelle Bronte. Questo fenomeno iniziò a diffondersi anche in Italia verso la seconda metà dell’800 e tra le scrittrici più famose ricordiamo Matilde Serao la quale iniziò a scrivere romanzi dopo aver compiuto un lungo lavoro da giornalista. Alcuni dei suoi romanzi più famosi parlano della conoscenza rispetto alle condizioni della femmina di quel tempo (ricordiamo i romanzi: “La virtù di Checchina” e “La ballerina”). Il romanzo dell’800 rispecchiava quindi la vita e i lettori si rivedevano molto in diversi libri poiché in essi potevano soddisfare la volontà di uscire dal proprio quotidiano e di vivere storie credibili attraverso la creatività dello scrittore. Questo tipo di romanzo era in stretto contatto con la realtà sociale e culturale di quel tempo, realtà in cui il romanzo stesso si era affermato. A partire dal XIX secolo ci furono però una serie di mutamenti e di problemi (QUESTIONI SOCIALI) per esempio: - il proletariato cresceva e le classi privilegiate ne avevano disprezzo e paura tanto che i proletari, dopo anni di sfruttamento, avevano cominciato a formare delle organizzazioni per farsi valere. In questa situazione anche gli scrittori dovettero schierarsi: o dalla parte del proletariato e di un presente aperto al progresso, o dalla parte della borghesia e di un rimpianto verso il passato; - il problema femminile: la donna inizia ad entrare nel mondo del lavoro dopo secoli di obbligo a stare in casa a fare mestieri e a badare ai figli. La donna inizia a prendere coscienza della sua misera situazione. Uno dei primi testi che parla della sottomissione della donna venne scritto da Hennik Ibsen e si chiama “Casa di bambola”: la protagonista, Nora, dopo essere stata trattata come un bambola per anni, trova il coraggio di abbandonare figli e marito e di pensare a se stessa e alla sua vita; - il settore tecnologico era in continuo sviluppo: treno, piroscafo, cinema, bicicletta, telefono, automobile, l’aereo, la luce elettrica, il gas. Tutte queste novità avevano sconvolto tutte le abitudini che oramai erano presenti da una vita. Anche per ciò gli scrittori dovettero schierarsi: c’era chi voleva abbandonare il passato, c’era chi invece aveva paura del futuro e della novità, come Carducci; - c’era inoltre un sempre maggiore senso di inquietudine: non c’erano certezze, non c’erano punti di riferimento e tutto iniziava ad essere messo in discussione. In tutto ciò però un dato positivo ci fu: l’analfabetismo dal 75% andò al 50%, esito della nuova politica scolastica italiana. LUIGI PIRANDELLO: Nacque ad Agrigento nel 1867 e morì a Roma nel 1936. Il suo romanzo più importante fu il “Fu Mattia Pascal” che venne prima pubblicato a puntate su un giornale e poi pubblicato sotto forma di volume. Il ruolo veniva affidato ad un personaggio o ad una serie di personaggi che, attraverso le varie esperienze vissute, erano veri e propri esempi di valori o disvalori. Questo romanzo è rapportato alla realtà sociale ed economica di primo 900: famiglia in crisi, importanza del denaro, esigenza di spogliarsi della propria identità piena di disagi e insicurezze per costruirsene un’altra destinata però ad essere peggiora della precedente. In questo romanzo si capisce che la verità si maschera e la realtà non è una e assoluta ma è aperta e sfuggente proprio come l’identità umana. Il “Fu Mattia Pascal” può essere considerato il romanzo che suggella l’impossibilità dell’uomo di indirizzare il suo destino anche perché il destino stesso non ha certezze. (Partendo dalla irreale situazione in cui Mattia si trova “in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita”, il protagonista rientra nel flusso della vita attraverso le sue miserie (le liti con la suocera, il denaro sempre più scarso), sullo scenario deprimente di un paesello-carcere dal quale la fuga diventava la soluzione migliore. E quando il caso consentirà a Mattia di andare via e di vivere a Roma, una serie di disavventure legate alla sua doppia identità lo spinsero a tornare al suo paese dove si trovò a vivere peggio che al momento nella sua partenza, quando ancora non si era creato questa seconda identità. In questo romanzo, tutto è all’insegna del paradosso, della negazione dell’apparentemente certo in un disegno della società nel quale questa è una trappola cui l’uomo non può sfuggire neppure quando la buona sorte sembra volerlo soccorrere). Per riassumere: il Fu Mattia Pascal è un’opera molto lontana dal romanzo dell’800: Basato sulla narrazione ironica; Senso innovativo dato dal paradosso dei casi umani; dall’impossibilità dell’impossibile e quindi porta ad una situazione assurda e imprevedibile che diventa realtà come accade alla fine del romanza, quando Il Fu Mattia Pascal porta i fiori sulla tomba di Mattia Pascal; È tutto all’insegna del paradosso, in una società che intrappola l’uomo che non sfuggire e quindi non può indirizzare il proprio destino -> la verità si smaschera e la realtà non è una sola e assoluta (tema questo approfondito in “Uno, Nessuno e Centomila”) 4: POETI DI PRIMO NOVECENTO: GOZZANO, MORETTI, PALAZZESCHI E CAMPANA La stessa società borghese priva di valori che troviamo negli scritti di Pirandello, la troviamo anche nella poesia del primo 900. Giudo Gozzano ha ambientato infatti molti dei suoi versi nel piccolo mondo borghese della provincia. Caratteristica di Gozzano è l’uso dell’ironia nel descrivere il paesaggio borghese. Si può prendere come esempio “L’amica di nonna Speranza” (pagina 52): il racconto parla di una visita che Carlotta fa alla sua compagna Speranza che abita in una bella villa sul lago Maggiore; su questa visita si intreccia la visita che gli zii di Speranza fanno ai suoi genitori ed è così che questa poesia diventa un’occasione per fare una rassegna sull’arredamento e sull’abbigliamento delle due ragazze. Il momento successivo è dedicato invece alla conversazione tra lo zio e la moglie; infine la scena passa di nuovo alle due ragazze che sognano e soffrono per amori impossibili. Il mondo borghese rappresentato da Gozzano sconvolge l’abitudine della descrizione d’ambiente centrata sulla bellezza dei luoghi e sull’esemplarità positiva dei personaggi; lo scrittore capovolse anche la tradizione della poesia d’amore: per esempio in “La signorina Felicita” la ragazza protagonista viene presentata in ‘cattivo’ modo (“sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue vesti quasi campagnole”). Quindi con Gozzano l’oggetto femminile d’amore viene quasi svilito in un quadro generale di mediocrità che contagiava anche il piano estetico. Un altro importante scrittore che parla del vuoto della vita borghese è Marino Moretti che già nelle sue prime raccolte rilevava la natura della sua poesia destinata ad essere facilmente cancellata. Moretti è considerato uno dei maggiori rappresentati del crepuscolarismo: i versi non solo vengono organizzati in ampi periodi, la lingua parlata e i dialetti erano nella poesia in modo lineare e semplice e ciò porta all’avvicinarsi sempre di più alla prosa. Moretti aveva preso da Pascoli l’attenzione per il particolare quotidiano e l’uso di alcuni sfondi per esprimere stati d’animo, come pioggia-grigio. Per esempio “A Cesena”, che inizia con “Piove. È mercoledi.” -> indica un tempo atmosferico uggioso (sinonimo di tristezza) e un qualsiasi giorno della settimana. Moretti si trasferì poi a Firenze, tappa obbligatoria per coloro che avevano ambizioni letterarie, dove conobbe Aldo Palazzeschi. I due avevano in comune una vita molto lunga segnata dal loro impegno letterario e anche la volontà di abbandonare la poesia tradizionale: Moretti era più vicino al versante pascoliano-crepuscolare, mentre Palazzeschi era più vicino al futurismo. Palazzeschi nelle sue opere voleva divertirsi: nei suoi versi non rispettava le regole della metrica poiché era convinto che la sua poesia non era altro che “la…spazzatura delle altre poesie” e a lui piacere fare così; la sua poesia era pura creatività e divertimento e perciò Palazzeschi viene insultato dal potere costituito della cultura. All’origine della concezione di Palazzeschi rispetto alla poesia c’è la sua esperienza del futurismo. Già nel suo primo manifesto, dichiarava il suo rifiuto del passato e la sua adesione ad ogni manifestazione del presente: alla civiltà delle macchine e al culto di un dinamismo sfrenato che arriverà ad esaltare la guerra la quale viene definita ‘la sola igiene del mondo’. nell’ambito della poesia il futurismo affermò alcuni punti fermi che lasceranno tracce durature in molti poeti italiani del 900: - l’obbligo di distruggere la sintassi, disponendo i sostantivi a caso, come nascono - l’uso del verbo all’infinito perché si adatti al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva e immagina - l’abolizione dell’aggettivo, dell’avverbio e della punteggiatura - la necessità di ricorrere al sostantivo doppio. Non verrà ricordato molto delle opere del futurismo anche perché poi verrà fatto proprio del fascismo per i suoi principi antiborghesi e rivoluzionari; quest’esperienza di avanguardia (=movimento letterario e artistico che sostiene nuove poetiche, spesso contro quelle tradizionali) ha significato un ulteriore e probabilmente definitivo stacco dalla tradizione e così al centro della produzione artistica ci sarà l’ispirazione tratta dal presente. Infine bisogna parlare di Dino Campana che nella sua vita ha scritto solo un libro, “Canti orfici”, innovativo nel mondo letterario italiano. Quest’opera è composta da versi e prose e richiama ad Orfeo che fu il creatore di una misteriosa religione nell’antica Grecia e fu anche un poeta che tramite il suo canto riusciva a commuovere animali e piante. Il vocabolario utilizzato da Campana è molto raffinato e si ispira molto al modello dannunziano (esempio: nella poesia “La chimera” – pagina 66 – troviamo un susseguirsi di immagini e di particolari accumulati fra di loro che portano a definire la mitica figura di donna che rappresenta il mistero di una femminilità affascinante). 5. DA UMBERO SABA A SANDRO PENNA Umberto Saba fu uno dei poeti dei primi anni del 900 che scriveva le sue opere basandosi sulla quotidianità. Saba fu autodidatta a Trieste (che a quel tempo era sotto l’impero austro-ungarico) dove, a quel tempo, l’italiano non era molto diffuso e il quadro culturale non era molto vivace. Trieste era una città dove si incontravano diverse persone che erano ‘separate’ da forti contrasti: contrasti che si sentivano anche nella famiglia del poeta. La madre di Saba era ebrea, severa e attiva, mentre suo padre era molto fantasioso e avventuriero tanto che abbandonò la moglie in attesa di Umberto che conoscerà quando il figlio avrà vent’anni: perciò Saba scrisse “Mio padre fu per me ‘l’assassino’” (pagina 75). Quando Saba iniziò a scrivere poesie risentì molto degli autori che a quel tempo godevano di molta notorietà come Carducci e D’Annunzio: Umberto però si accorse che loro scrivevano versi magnifici ma falsi, mentre lui voleva scrivere delle poesie oneste poiché era convinto che il poeta non deve forzare la sua ispirazione per puntare solo al successo. Quando iniziò a scrivere Saba dovette subito affrontare il problema della lingua: doveva trovare uno strumento linguistico adeguato al suo tono e ai suoi temi e così scelse un vocabolario comune e essenziale. Le ‘principali caratteristiche’ delle opere di Saba sono: la semplicità e l’immediatezza lessicale, la sintesi estrema di ‘facilità’ rispetto la scelta dei temi trattati e la sintesi estrema di ‘difficoltà’ rispetto l’esigenza di scavare al di sotto delle apparenze per trovare una spiegazione al mistero della vita. La forte componente quotidiana della poesia di Saba motiva il suo frequente autobiografismo: il “Canzoniere” (sua principale opera, scritto in versi e composta da diverse raccolte, con un linguaggio essenziale e comune) può infatti essere visto come un lungo racconto della sua vita. L’attenzione alla quotidianità autobiografica ha determinato in Saba delle scelte tematiche molto ‘ristrette’. Nelle sue opere hanno un importante ruolo gli affetti e i paesaggi familiari (esempio: in “Trieste e una donna” si manifesta il profondo legame che il poeta ha con l’ambiente e con le persone della città). - Saba tratterà come tema anche quello degli affetti familiari. Per esempio in “A mia moglie” la donna viene presentata “come una giovane, / una bianca pollastra”, che “nell’andare, ha il lento / tuo passo di regina” e poi, via via, riconosciuta “in tutte le femmine di tutti / i sereni animali / che avvicinano a Dio” in un confronto tra il destino umano e quello animale (possiamo far riferimento per questo anche alla poesia “La capra” – pagina 73). - Trattando il tema degli affetti familiari, Saba arriva a parlare anche del contrasto tra sua madre e suo padre. Umberto prese dal padre una forte indole avventurosa che sarà segno della sua ‘vivacità’ come troviamo scritto nell’opera “Ulisse” (pagina 78) nel quale lo scrittore traccia un bilancio della sua vita. Saba fu anche uno dei primi poeti italiani a scrivere versi ispirati al calcio che a quel tempo non era ancora un sport molto diffuso: scrisse “Goal” (pagina 76) che racconta gli stati d’animo contrastanti del portiere che ha appena subito una rete e dell’altro che, da lontano, esulta con i suoi compagni che stanno vincendo. - Saba tratterrà anche dei paesaggi famigliari, nelle poesie “Trieste” e “Città Vecchia”. Saba è l’unico caso nella poesia del 900 per la sua poesia: APPARENTEMENTE semplice, ma in realtà profonda e complessa. Umberto Saba è stato un modello di riferimento per diversi autori, per esempio per Sandro Penna. Penna è nato a Perugia ma ha vissuto molta parte della sua vita a Roma. Penna prese da Saba la leggerezza e la chiarità del verso; la sua è poesia di sentimenti teneri e delicati e di forme essenziali che tendono all’epigramma (=breve componimento poetico, di vario argomento e di tono satirico e mordace), ritagliato su uno sfondo che non ha bisogno di precisazioni storiche e geografiche; gli scenari sono all’interno della città dove però è possibile incontrare “cari visi”, così come aggettivi “gentile”, “fresco” e “dolce” danno indicazioni nette sui toni teneri della sua poesia. 6. LA SVOLTA DI UNGARETTI Con Ungaretti la poesia italiana del 900 conosce nuovi modi e temi innovativi. Ungaretti nacque nel 1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori emigrati; rimase nella sua città natale fino ai 22 anni e poi andò a Parigi per poter entrare in contatto con gli esponenti dei movimenti artistici d’avanguardia. A Parigi, Giuseppe approfondì la conoscenza di diversi poeti francesi, soprattutto Mallarmé. Si trasferì poi a Milano dove divenne amico di Carlo Carrà e si schierò così tra gli interventisti: venne così mandato a combattere nell’esercito italiano. Proprio nei giorni del conflitto, nacque la sua vocazione per la poesia: infatti, dopo il primo anno di guerra, pubblicò la sua prima raccolta composta da 33 poesie scritte al fronte tra il dicembre del 1915 e l’ottobre del 1916: quest’opera si chiama “Il porto sepolto” e ricorda la costruzione del porto di Alessandria d’Egitto che era stata l’origine dell’emigrazione del padre e quindi della sua nascita in Africa. Infatti il componimento di apertura di quest’opera ricordata la sua traumatizzante esperienza dell’emigrazione che nell’opera non viene però trattata in chiave autobiografica: Ungaretti si rifà alla storia del suo amico Moammed Sceab che andò con lui a Parigi dove si suicidò nell’estate del 1913 per non essere riuscito ad integrarsi nella società parigina; Moammed aveva fatto il possibile: aveva cambiato nome (si faceva chiamare Marcel) e abbandonò anche le sue tradizioni e le sue origini. A Giuseppe successe la stessa cosa, ma lui non arrivò a suicidarsi poiché riuscì a trovare nella poesia un aiuto fondamentale e confortante. Nell’opera “Il porto sepolto”, Ungaretti offre la sua definizione della poesia. Questa definizione la possiamo trovare anche nell’opera “Commiato” (parte del porto sepolto) dove la poesia viene intesa come la somma dei fenomeni cosmici ed intimi che acquistano senso solo grazie alla parola capace di rappresentarli. Quindi per Giuseppe all’interno della poesia c’è la ‘parola scavata’, e così diede vita ad una poesia del tutto nuova nel panorama italiano per l’impossibilità di collegarla a possibili precedenti e contemporanei modelli. Questa ‘nuova poesia’ creata da Ungaretti poteva al massimo risentire di Mallarmé per la continua presenza del senso del mistero e della tensione verso la scoperta; oltre a ciò, è l’aspetto formale dei versi che risulta molto originale: per l’assoluta essenzialità e concisione, tanto che persino il titolo è parte integrante del componimento; la lingua utilizzata è costituita da un lessico parlato che il poeta carica di significati lontani dal quotidiano; i versi liberi spesso sono diseguali tra loro: alcuni sono composti da una sola parola, così da darle un’importanza evidente; inoltre Ungaretti dispone i versi sulla pagina con stacchi, spazi bianchi e varie soluzioni grafiche. Tutte queste qualità segnano l’originalità della prima fase della poesia di Ungaretti. E, siccome Ungaretti è un poeta-soldato che ha raccontato l’orrore della guerra vissuta in modo diretto, possiamo raccontare agli componimenti della raccolta “Il porto sepolto”: - “Veglia” (pagina 90) composta il giorno dopo un combattimento che aveva causato la morte di un soldato, il cui cadavere rimase a lungo accanto al poeta come fosse un oggetto inanimato. Proprio davanti alla morte, nel poeta era scattato l’attaccamento alla vita che trovata la sua salvezza nella scrittura e nell’amore. Si può notare quindi il fatto che il poeta non vuole sottolineare e parlare dell’orrore della guerra, ma vuole dare importanza al fatto che lui ama di più la vita e accetta ancora di più la sfida della guerra. - “Fratelli” (pagina 91) in cui si parlare dei sentimenti come la solidarietà e la fratellanza davanti al comune destino e alle comuni fragilità. - “Soldati” in cui troviamo anche sentimenti come la fragilità: ci sarà l’immagine della foglia autunnale che sta per cadere dall’albero se solo si alza un soffio di vento, così come la vita del soldato può essere stroncata da un momento all’altro. - “Sono una creatura”: in quest’opera sembra quasi che il poeta vada alla ricerca di diversi aggettivi per rappresentare uno stato d’animo desolato. In questa poesia i versi vogliono offrire al lettore un ragionamento finale legato ai sentimenti provati dal poeta. Ungaretti nell’agosto del 1916 scrisse “I fiumi” (pagina 92): la più ampia poesia del porto sepolto che rappresenta il bilancio dell’intera vita del poeta, nella quale ci descrive le fasi più importanti della sua vita seguendo il corso dei fiumi che le hanno caratterizzate. Inizialmente si parla dell’esperienza militare che viene rappresentata dal fiume Isonzo cioè il fiume che ha rappresentato, per tutti gli uomini presenti in guerra, quel senso di fragilità e quel destino che diventerà uno dei motivi principali della poesia del 900. Il fiume Serchio, il fiume della Garfagnana dove scorre il Nilo che ha visto nascere e crescere il poeta invece, rappresenta l’emigrazione dei genitori. Il fiume Senna invece è torbido e sta a significare il fatto che la vita nelle grandi città (come Parigi) era segnata da eventi e sentimenti poco edificanti, ma solo lì un giovane come Ungaretti poteva conoscere se stesso a contatto con la gente più diversa. Successivamente si avrà un ritorno a moduli lirici più distesi e disposti secondo criteri tradizionali; prendiamo come esempio “La madre” (pagina 96): qui il tema doloroso della scomparsa della madre non apparirà doloroso quanto la guerra, anzi, la figura materna sarà posta nella quieta compostezza di “una statua davanti all’Eterno” che, in un estremo atto d’amore, cercherà di intercedere per il figlio peccatore presso il giudice supremo (l’amore materno continua nell’aldilà). La vera svolta di Ungaretti nella poesia italiana parte dall’esperienza umana del soldato e dall’esperienza intellettuale del giovane che a Parigi scopre e vive in prima persona il rinnovamento delle arti e della poesia. 7. I LIGURI: DA SBARBARO E BARILE A MONTALE Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, che fece da cerniera tra la poesia classicheggiante della tradizione e il simbolismo francese, e Mario Novaro, autore di un solo libro di poesie (ricco di risonanze) e fondatore della rivista antologica più ricca del primo 900 “Riviera ligure”, furono indicati da Carlo Bo come poeti che avevano favorito il deciso rinnovamento della nuova poesia del 900. Camillo Sbarbaro pubblicò nel 1914 la sua raccolta di poesie intitolata “Pianissimo”: anche per lui il riferimento culturale più evidente era il simbolismo francese, sul quale aveva innestato i temi che maggiormente gli stavano a cuore: l’assenza di certezze, lo scorrere del tempo, la città come solitudine, la natura come sola occasione di salvezza, il rifugio nei sentimenti familiari. Per rappresentare tutti questi temi, la sua poesia era composta da una scrittura essenziale e disposta in strofe ampie e ben costruite e voleva verso un tono dimesso. Esaminiamo il primo testo della raccolta pianissimo, “Taci” (pagina 100): qui il poeta impostava un dialogo intimo con la propria anima “stanca di godere / e di soffrire” e “rassegnata”, quindi sconfitta e piegata dalla misera realtà, senza “rimpianto per la miserabile / giovinezza”, senza speranza per il futuro e tuttavia in questa totale assenza di ragione per vivere, ancora “camminiamo io e te come sonnambuli” e quindi in assoluta estraneità a tutto ciò che è attorno e che non mi/ci appartiene, in una disperata mancanza di comunicabilità, senza che sia possibile stabilire un minimo e reale rapporto con cose e persone in quello che è dunque un ‘deserto’ di sentimenti e di passioni anche perché nessun ideale, nessun obiettivo da raggiungere si manifesta. La stessa immagine dell’inutile vivere tornerà anche nella successiva poesia della raccolta. L’affanno del vivere e la solitudine che condannava l’uomo moderno cittadino, erano i temi centrali della poesia di Sbarbaro: il solo conforto possibile era dato dagli affetti familiari. Angelo Barile: nei suoi versi troviamo una visione profondamente religiosa, in cui i sentimenti di serena compartecipazione alla vita vincevano sulla solitudine e il dolore veniva inteso come preparazione alla felicità eterna. Questa sua visione positiva è rappresentata nella poesia “Osteria della Bella Brezza” (pagina 105): viene utilizzato un tono molto cordiale e lo scenario è un borgo marinaro (minutamente descritto); tutto è all’insegna della concordia e della laboriosa armonia di un paese accomunato dalla fatica dell’andare per mare. Barile trasmette al lettore lo stesso senso d’attesa dell’aldilà nella poesia “Lamento per la figlia del pescatore” (pagina 107): qui viene affrontato il tema doloroso della morte di una giovane; quella sventura sconvolgente viene mitigata della certezza che “ora canti sull’altra tua riva” e suo padre affida la sua sofferenza ad un semplice gesto di pescatore: “ha dipinto / le sue barche di un filo di lutto”, così che pensa sempre a sua figlia. Con Barile ci troviamo davanti ad uno dei pochi poeti del 900 che ha una visione positiva della vita e della sua prosecuzione anche dopo la morte. Da Sbarbaro a Montale, è una continuità segnata principalmente da due cose: dalla dedica di Montale del suo primo libro “Ossi di seppia”(opera rappresentativa di Montale, nella quale ritroviamo come paesaggio predominante quello ligure della riviera assolata e incolta, che rispecchia il sofferto mondo interiore dello stesso autore) a Sbarbaro, inoltre i due hanno in comune il motivo ispiratore della loro maggiore poesia: il male di vivere dell’uomo moderno che di giorno in giorno si scopre sempre più fragile e privo di certezze, mentre intorno avanza l’apparente progresso che lo soffoca. Questo è in particolar modo il primo Montale che si dedicò al bel canto; aveva vissuto l’esperienza della guerra e si era dedicato sempre più alla poesia. “Spesso il male di vivere ho incontrato” (pagina 113) si basa sul contrasto tra il male connaturato alla vita, rappresentato da tre metafore: il ruscello ostacolato dai detriti, la foglia arsa dal caldo e il cavallo stroncato dalla fatica; si basa anche sul bene apparente, rappresentato anch’esso da tre metafore: una statua nella canicola, una nuvola lontana e un falco che vola in alto. “Meriggiare pallido e assorto” (pagina 114): il poeta usando dei verbi all’infinito avverte il fastidio fisico procurato dal calore delle ore centrali della giornata e subisce una natura ostile e per nulla consolatrice, simbolo della condizione di solitudine dolorosa e di isolamento dell’uomo moderno, ribadita l’immagine finale della ‘muraglia’ (simbolo di separazione) sopra la quale ci sono dei ‘cocci aguzzi di bottiglia’ così nessuno può scavalcarla. Montale manifesta la sua idea di poesia e si interroga sul suo ruolo e su ciò che la poesia può valere nel suo tempo e Montale perciò, facendo riferimento al concetto espresso da Palazzeschi nella conclusione della poesia “Lasciatemi divertire”, dice di non avere messaggi, ma ha solo la certezza di non poter offrire certezza. Nella poesia successiva ad “Ossi di seppia” troviamo un Montale ‘diverso’ poiché si preoccuperà del mondo esterno, anche rispetto alla situazione della guerra; infatti Montale sarà interprete del grande dramma della Seconda Guerra Mondiale vissuto dall’umanità. Nella raccolta “Le occasioni” passerà un messaggio meno immediato. Per esempio guardiamo “Casa dei doganieri” in cui il destino incerto dell’anonima donna protagonista renderà tutto indecifrabile tanto che non sarà possibile capire chi morirà veramente, chi è partito e chi è invece rimasto nel mondo ingannatore di ciò che appare vivo ed è invece retto da un ingovernabile destino. Nel dopo guerra Montale si trasferisce a Milano e lavorerà per il “Corriere della sera”. Dopo scritte un terzo libro in cui raccolse tutte le poesie riguardanti la guerra. Per esempio “Primavera hitleriana” (pagina115): poesia ultimata nel 1946, ma suggerita dalla visita compiuta a Firenze nel 1938 da Hitler, accolto dalla popolazione con favore e comunque senza che nessuno assumesse posizioni critiche nei suoi confronti, tanto da risultare così indirettamente tutti complici poiché ‘più nessuno è incolpevole’. Con quest’affermazione Montale volle significare che non solo il consenso ma anche l’indifferenza nei confronti del male è una forma di scelta e dunque nessuno può ritenere di non aver avuto responsabilità nell’aver favorito il nazifascismo e tutti coloro che non vi si opposero nei fatti furono dei ‘miti carnefici’. La salvezza sarà portata da una donna-angelo che si sacrificherà per l’umanità portando “un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio”, mentre l’immagine iniziale che aveva accompagnato la visita di Hitler era quella delle falene impazzite attorno ai fanali che cadevano stordite per terra formando un tappeto. Quindi se il Montale maturo sarà interprete del grande trauma Seconda Guerra Mondiale, il vecchio Montale sarà interprete anche dei sentimenti più intimi e privati anche se troviamo sempre il tema riguardante il senso dell’indefinibile, la consapevolezza dell’assenza di certezze. 8.SOCIETA’ E CULTURA TRA LE DUE GUERRE, LE RIVISTE FIORENTINE E L’ERMETISMO La Grande Guerra, con i suoi 600.000 soldati italiani morti, era stata un’esperienza sconvolgente per tutta l’Italia: una vicenda collettiva tanto straordinaria aveva permesso a molti artisti di raccontare la propria versione su diverse vicende che durante la guerra non era permesso raccontare. Già nel 1919 uscirò molti diari e memoriali scritti da per esempio da professori, studenti, medici, giornalisti, .. che per far si che tutti leggessero i loro scritti, scrivevano in modo semplice, veloce e chiaro. Ricordiamo alcuni libri: “Le scarpe al sole” di Monelli, “Rubè” di Borgese, “Notturno” di D’Annunzio, “Viva Caporetto!” di Malaparte, “La prova del fuoco” di Pastorino, “Soldato Cola” di Puccini, “Un anno sugli altipiani” di Lussu. Nacque poi la rivista “La Ronda” fondata in particolar modo da Emilio Cecchi: questa rivista sosteneva la necessità del recupero della prosa accurata e l’importanza dell’attenzione per una scrittura ricercata. In quegli anni di disorientamento post-bellico, quando il fascismo prese il potere senza avere un progetto culturale preciso (1922), il più costruttivo dibattito culturale si svolse sulle pagine delle riviste, cercando di dare nuovi indirizzi all’attività letteraria di quel tempo. Nel 1924 furono fondati due importanti periodici: - “Il Baretti”, nacque a Torino grazie a Gobetti, era in favore dell’indipendenza del giudizio estetico - “Il selvaggio”, fondato da Maccari nel paese toscano di Colle val d’Elsa e battagliero portavoce di quel fascismo rozzo che, riunitosi attorno al movimento di “Strapaese”, esaltava la tradizione popolare e contadina. A Strapaese si oppose il movimento “Stracittà” che tendeva ad accettare la dimensione delle grandi città abbandonando il provincialismo e guardava con attenzione anche ciò che veniva scritto all’estero. Del movimento “Stracittà” ricordiamo la rivista “900” fondata da Bontempelli, pubblicata a Parigi con redattori di tutta Europa e con scritti di varie lingue orientali: questa rivista fu costretta a chiudere per queste sue caratteristiche poco ortodosse. Ma questa vicenda non fu vana perché da qui esordirono scrittori come Moravia e perché da qui partì il progetto di Solaria. “Solaria” è un mensile fondato da Carocci nel 1926 (un anno dopo l’emanazione delle leggi sulla stampa). Già dal titolo fa venir in mente una ‘città del sole’ che con la sua luminosità si contrappone al fascismo. Questo mensile veniva pubblicato a Firenze, che al tempo era la capitale culturale dell’Italia per le sue numerose riviste, per le diverse case editrici e per i caffè letterari. A tutto ciò si aggiunse e si contrapposero i redattori/autori del “Frontespizio” che raccoglieva nelle sue pagine scrittori di orientamento cattolico, ed era destinato a diventare il foglio rappresentativo dell’ermetismo. Questo movimento nato all’inizio degli anni trenta, era sostenuto dall’esigenza di creare una poesia non solo in antitesi con il dannunzianesimo e con il pascolismo, ma soprattutto fondata sulla parola evocativa, portata al dire non diretto delle metafore e delle analogie e al di fuori dei richiami espliciti alla storia, tanto che alcuni supposero che questa ‘poesia pura’ fosse anche un espediente per sottrarsi ai compromessi con il fascismo. L’ermetismo fu dunque un modo di scrivere in versi negato alla comunicazione diretta e facile, e quindi rivolta a lettori di raffinata sensibilità, quasi fosse un salto indietro verso la tradizione. Ciò non significa però che alcuni poeti ermetici non abbiano avuto notorietà; possiamo quindi parlare di Quasimodo: nato a Modica nel 1901 e morto a Napoli nel 1968. Nella sua prima raccolta “Acque e terre” e poi “Oboe sommerso” aveva realizzato in forma di poesia i principali teorici dell’ermetismo senza però chiudere il tutto in scritti di difficile comprensione. L’ermetismo è stato per Quasimodo un momento di transito poiché successivamente lui tornerà a misurarsi con la storia della seconda guerra mondiale e perciò scrisse diversi testi come “Alle fronde dei salici” (pagina 123) dove le immagini del “piede straniero sopra il cuore” e della “madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo” hanno una forza diretta e sconvolgente che denuncia il superamento della precedente poesia ermetica. Nel testo “Uomo del mio tempo” Quasimodo partecipa direttamente alle vicende politiche dell’Italia e scopre che l’uomo rimane comunque “ancora quello della pietra e della fionda”, rimane quindi ancora un barbaro capace di sentimenti primitivi. Percorso analogo rispetto a Quasimodo è stato compiuto da Alfonso Gatto, nato nel 1909 e morto a Grosseto nel 1976. Le sue prime raccolte, “Isola” e “Morto ai paesi”, segnavano la sua ricerca di un’assolutezza naturale espressa con linguaggio allusivo come nella tenerissima poesia “Alla mia bambina” dove l’emozione della paternità si esprime attraverso la partecipazione ad essa. Anche per Gatto, l’arrivo della guerra sarà un’occasione per lasciarsi alle spalle una poesia privata e per pochi (poesia ermetica) e per dar vita ad una poesia che interpreta i sentimenti collettivi. Inoltre parliamo anche di Mario Luzi nato a Firenze nel 1914 e morto nel 2005, i cui versi esprimono una forte tensione religiosa che si misura con la vita vissuta e con uno sguardo sensibile e sofferto verso i mali del mondo. Il suo esordio poetico è “La barca”: da qui inizia il suo percorso verso l’avvicinamento ad una scrittura più limpida, composta da un linguaggio diretto e più comunicativo. Negli anni trenta, oltre all’ermetismo, possiamo trovare altri tipi di rinnovamento della poesia e perciò bisogna parlare di Cesare Pavese nato nella campagna piemontese nel 1907: si era laureato, aveva poi lavorato come traduttore e iniziò poi a scrivere poesia. Ricordiamo la sua poesia “I mari del sud” (pagina 128): racconto favoloso di un emigrato arricchitosi faticando in giro per il mondo, e infine ritorna sulle sue colline della Langhe; con questi versi Pavese si era posto nella linea della poesia-racconto nella quale tutto è dichiarato ed esplicato e tutto è circostanziato nei tempi e nei luoghi e le cose sono nominate nella loro bellezza. 9. I PROSATORI NEGLI ANNI VENTI E TRENTA Italo Svevo, che ebbe una formazione culturale diversa da quella italiana, conobbe i primi consensi sulla rivista “Solaria”, in particolar modo per “La coscienza di Zeno”. Nacque a Trieste nel 1861 (e morto a Treviso nel 1928). Dopo lo scarso successo dei suoi primi due romanzi, “Una vita” e “Senilità”, decise di abbandonare la sua ambizione letteraria per dedicarsi alla sua azienda di vernici. Scrisse poi “La coscienza di Zeno” prendendo ‘ispirazione’ da Pirandello per quanto riguarda la società (il mondo borghese dominato dal denaro), ma si interessò anche della psicanalisi appresa sia dalle teorie di Freud sia dalla frequentazione di James Joyce. Svevo voleva raggiungere l’inconscio, la zona oscura e più profonda dell’individuo che può riemergere solo con la creazione artistica, tanto che Zeno dice “scrivendo credo che mi netterò più facilmente del male che la cura m’ha fatto”. Il romanzo “La coscienza di Zeno” fu composto dal novembre del 1918 all’estate del 1922 e pubblicato poi nel 1923 ottenendo scarso successo. Solo dopo che Montale fu favorevole a questo romanzo, iniziò ad essere in qualche modo apprezzato anche dal popolo. Già dal titolo (elemento già di per se innovativo) capiamo che all’autore non interessa tanto la storia cronologica vissuta dal protagonista, ma è interessato alla sua vicenda coscienziale e intima quindi il romanzo non sarà composto da eventi vissuti in modo lineare e ordinato, ma troveremo episodi anche saltuari della vita di Zeno che lo avevano segnato nel profondo. Il romanzo può essere diviso in cinque momenti: - vengono raccontati in chiave ironica i tentativi di Zeno di liberarsi dal vizio del fumo - vengono riportate in tono drammatico le incomprensioni tra il protagonista e il padre, culminate con lo schiaffo del padre a Zeno poco prima che quest’ultimo morisse - il protagonista racconta le sue visite all’affarista Giovanni Malfenti del quale intende sposare la figlia Ada, però Ada preferisce il più raffinato Giudo Speier, quindi Zeno va con la sorella di Ada, Augusta a cui rivolge un’appassionante dichiarazione d’amore pensando però ad Ada - la relazione extraconiugale di Zeno con Carla, che però lo lascia per un maestro di musica, restituendo così l’uomo alla famiglia - (episodio più paradossale) Giudo e Zeno fondano una società che però fallisce e Giudo per avere aiuti economici, inscena un finto suicidio a seguito del quale muore davvero. Zeno, sempre inconsciamente ostile a Guido, tanto da non partecipare al suo funerale perché sbaglia chiesa e assiste ad un altro funerale. Zeno inizierà poi a giocare in borsa e per fortuna riesce a rimediare alla situazione economica della famiglia, conquistando la stima di Ada che però dovrà andarsene in Argentina. Sta per iniziare la guerra che Zeno vivrà come una fastidiosa complicazione della sua vita. Così finisce il racconto terapeutico di una nevrosi che sintetizza la fragilità della borghesia e il paradosso della vita quando oramai il XX secolo aveva fatto propria, oltre al progresso delle macchine, anche l’esperienza ancor più sconvolgente portata da quella ‘macchina’ fino ad allora sconosciuta che era la guerra combattuta con le armi più moderne e letali, capaci di ammazzare centinaia di migliaia di persone. Alberto Moravia: anche lui compare su “900” e “Solaria”. Il suo romanzo “Gli indifferenti” narra la storia di una dissoluta famiglia borghese dominata dall’ipocrisia e dalla corruzione che nutre i più torbidi sentimenti. Questo romanzo offre un affresco convincente di una società in sfacelo, quindi lontana dall’immagine ottimista che il fascismo voleva diffondere, ed è raccontato in una lingua vicina al parlato e spesso poco curata. Altri autori si sono impegnati a rappresentare altri aspetti problematici della realtà di quel tempo. Ricordiamo per esempio “Gente di Aspromonte” di Corrado Alvaro e “Tre operai” di Carlo Bernari. In quegli anni uno dei libri più venduti fu la biografia di Mussolini di Giorgio Pini e perciò non dobbiamo meravigliarci del fatto che ci sarà un costante successo di pubblico incontrato da libri firmati da professionisti della narrativa d’evasione, come Guido da Verona e Pittigrilli autori di romanzi che ‘intrecciano’ romanticismo e erotismo, oppure come Virgilio Brocchi e Salvator Gotta specialisti nel dar vita a saghe interminabili di famiglie esemplari per sventure. Il pubblico femminile seguiva comunque le sue rare autrici: ricordiamo Aleramo con “Una donna”, Carolina Invernizio e Grazia Deledda. Altri generi: - romanzi polizieschi, definiti “gialli” dal colore della collana fondata nel 1929 da Mondadori - libri di viaggio, che spesso celebravano le bellezze dell’Italia, messe a confronto anche con luoghi stranieri Dino Buzzati, nato a Belluno nel 1906 e morto a Milano nel 1972, era dotato di una fantasia surreale. Nel 1940 scrisse il suo primo romanzo “Il deserto dei tartari”: Giovanni Drogo consuma tutta la sua vita nella sperduta fortezza Bastiani ad aspettare ipotetici nemici (i tartari del titolo) per poter dimostrare le sue grandi qualità. Troviamo quindi la metafora rispetto lo spreco della vita, del tempo bruciato non per agire ma per aspettare e per assistere l’agire altrui. Giovanni aspettava in continuazione finché un giorno questi tartari (nemici) arrivarono, ma lui era oramai senza forze per affrontarli; verrà fatto così allontanare dalla fortezza dove era diventato solo un peso, e finì la sua vita in una squallida locanda, rivelando però anche in questa occasione lo stesso coraggio e la stessa dignità che avrebbe messo in mostra se avesse avuto occasione di affrontare i nemici. Questo romanzo chiude un periodo segnato dall’attenzione dei nostri scrittori per la crisi esistenziale dell’uomo moderno, qui messo a nudo nella vanità dei suoi sogni di effimera gloria e costretto a interrogarsi, quando oramai è troppo tardi, sul senso dato ad una vita consumata entro rigide regole. 10. VITTORINI E IL NEOREALISMO Tra gli scrittori di Solaria uno dei più versatili fu Elio Vittorini: nato a Siracusa nel 1908 (morto a Milano nel 1966), giunse a Firenze nel 1929 con la determinazione di volersi affermare nella letteratura. Studiò inglese e ciò gli permise di appassionarsi anche alla letteratura inglese: iniziò così a leggere di narratori nord-americani e iniziò a fare anche traduzioni. Nel frattempo su Solaria pubblicò il suo primo romanzo “Il garofano rosso” (uscito tra il 1933 e il 1936 per i deversi ostacoli posti dalla censura fascista che sequestrò il romanzo nel 1934): si parla di Alessio Mainardi, un giovane borghese giunto al fascismo non per convinzioni ideologiche, ma solo perché ‘odiava’ il padre socialista. Dietro la storia di questo giovane non è però difficile riconoscere situazioni politiche poco ortodosse come l’assassinio di Matteotti, alcune pagine del romanzo che parlano della formazione sentimentale e sessuale di Alessio (il protagonista) che si spinge sempre più verso la trasgressione, inoltre il protagonista è attratto dalla schiettezza del mondo operaio il quale è ovviamente dalla parte del socialismo (con simbolo il garofano rosso, dal titolo). Nella seconda metà degli anni trenta Vittorini si interesserà sempre di più all’attività di traduttore e divulgatore della letteratura nord-americana. Questo suo interesse lo porterà a trasferirsi a Milano dove collaborerà con Mondadori e Bompiani (per conto del quale allestirà un’antologia americana che verrà ‘censurata’ perché considerata troppo favorevole ad un paese nemico). Ciò che portava Vittorini ad interessarsi degli scrittori nord-americani era la loro stessa identità di uomini che prima sperimentavano la vita e poi sentivano la necessità di raccontarla (ricordiamo: “Piccolo campo” di Caldweel e “Benito Cereno” di Melville). Vittorini scrisse il romanzo “Conversazione in Sicilia” nel quale, sotto la finzione narrativa del viaggio di ritorno nella terra d’origine siciliana del protagonista Silvestro, si delinea una galleria di personaggi simbolici che, di volta in volta, rappresentano la repressione poliziesca o lo spirito di sacrificio, la spinta rivoluzionaria o la pacifica tradizione del compromesso in una sequenza di situazioni ricche di suggestione e di significati allusi ma non per questo non evidenti. Nel romanzo “Uomini e no”, dedicato alla lotta di liberazione, Vittorini parla di un partigiano milanese e del suo impegno resistenziale che si intreccia con la sua storia d’amore con Berta, lui è talmente innamorato che per aspettarla, va incontro alla morte. Dietro tutto ciò Vittorini ha saputo raccontare gli ideali civili dei partigiani, la violenza dei nazi-fascisti e la grande Milano colpita dalla guerra. Quest’ultimo romanzo uscì pochi mesi prima che Vittorini pubblicasse il primo numero del nuovo settimanale da lui diretto e ideato: “Il Politecnico”. Tramite questo settimanale, Elio voleva diffondere il suo progetto per una nuova cultura che non si limitasse a consolare nelle sofferenze, ma che sapesse anche proteggere dalle sofferenze eliminandone le cause e le gravi ingiustizie sociali. Questa nuova cultura doveva quindi fondarsi sulla solidarietà, andando ‘contro’ i fascisti e cercando di raccogliere insieme marxisti, idealisti, cattolici e mistici perché “occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’anima”. Dalle pagine del Politecnico, Vittorini cercava di sostenere la sua idea di letteratura, ma anche la sua idea di cinema, teatro e pittura come impegno civile e come partecipazione diretta degli artisti e degli intellettuali alla costruzione di una nuova società libera dalle ingiustizie e dalle indifferenze che avevano portato alla più disastrosa delle guerre. Questi erano in sostanza anche gli obiettivi del neorealismo: un movimento spontaneo che intendeva rifiutare nell’arte ogni espressione artificiale e strutturata, favorendo invece la spontaneità, i toni, i linguaggi e i temi popolari per far si che ‘tutti’ potevano capire e leggere così da poter anche diffondere maggiormente le loro idee. Soprattutto è stato il cinema a farsi interprete di tutti questi principi; perciò ricordiamo: Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Giuseppe De Sanctis. Il ritorno del cinema fu uno dei fenomeni più vistosi della rinascita nazionale, nel dopo guerra; inoltre ci fu anche la ricomparsa dei giornali. In questa situazione di ripresa, anche la letteratura attraversa un momento di rilancio: la distinzione per generi era molto elastica. (nel dopo guerra, il libro che ha avuto maggiore successo è stato “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi). In questo contesto di ridefinizione dei generi letterari, nel dopoguerra si iniziano a diffondere libri che riguardano le vicende appena vissute dagli autori. Per esempio Vasco Pratolini nel 1947 intitolerà un suo lungo racconto “Cronaca familiare” precisando che il libro non era da considerarsi come opera di fantasia mentre di fatto lo era. Proprio questa volontà di sottrarsi a una prosa strutturata che potesse apparire come un’alterazione della realtà, determinò nel dopo guerra una copiosa e prevalente produzione di racconti. E fu “Il Politecnico” uno dei periodici che incoraggiò la produzione di racconti riguardanti la guerra appena conclusa o il dopoguerra. Su questo giornale vennero pubblicati racconti di Calvino, Caproni, Venturi, Del Boca i quali rappresentarono gli esiti migliori del dopoguerra narrativo italiano. Dopo la maggior attenzione verso il racconto, i narratori tornando ad ‘affezionarsi’ al romanzo. Così Calvino diventa autore del “Sentiero dei nidi di ragno” dove la rappresentazione della Resistenza si fonde con l’invenzione del favoloso mondo infantile del giovane protagonista Pin. Contemporaneamente a questo romanzo, uscirono altri libri riguardanti la guerra: “Se questo è un uomo” di Primo Levi, “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò e “Le terre del Sacramento” di Francesco Jovine. Infine, con Vasco Pratolini e la sua opera “Metello” si considera chiuso il neorealismo letterario; pochi anni dopo finì anche il neorealismo cinematografico. Prima di lasciare il neorealismo bisogna però tornare a Vittorini e ad una sua iniziativa presa dopo l’esperienza del Politecnico (il giornale): nel 1951 Vittorini fondò, presso la casa editrice Einaudi, una collana narrativa chiamata “I Gettoni” chi si proponeva di presentare nuovi scrittori giunti alla letteratura dopo aver maturato precedenti esperienze di vita (qui Vittorini sottolinea il suo orientamento, che lo aveva portato anche ad interessarsi per gli scrittori nord-americani). Cito alcuni degli autori che compariranno nell’iniziativa di Vittorini: Pirelli, Tobino, Venturi, Bonaviri, .. con i quali comincia la seconda metà del novecento letterario italiano. 11. LA LETTERATURA NEGLI ANNI DELLA RICOSTRUZIONE E DELL’INDUSTRIA CULTURALE Già è stato detto che, negli anni successivi alla fine della guerra, la produzione libraria ebbe un forte incremento (lo stesso si può dire anche per il settore cinematografico): tutto ciò indica un ritorno alla normalità, e anche un grande interesse verso la cultura. Ciò si può spiegare anche per l’innalzamento a 14 anni dell’obbligo scolastico (stabilito dalla Costituzione repubblicana emanata nel 1948) che portò esiti positivi, tanto che nel 1951 la percentuale degli analfabeti era del 14%. Però, un altro dato dello stesso anno indicava un paese ancora scarsamente acculturato poiché su 1000 ragazzi solo 181 continuavano gli studi e inoltre, meno della metà della popolazione adulta aveva dimestichezza con la stampa e solo il 30% della popolazione aveva la radio. Tutti questi dati vanno inseriti nel più ampio contesto della qualità della vita degli italiani di quel tempo, i quali erano ancora molto lontani dal benessere. Questa realtà socio-economica nel giro di dieci anni cambiò, in particolar modo nelle aree industriali del nord e nelle grandi città del centro, beneficiate da quello che sarà definito BOON economico italiano poiché ci fu un grande sviluppo nel campo dell’edilizia e dell’industria (soprattutto dell’industria automobilistica – fiat). All’interno di tutta questa situazione, verso la metà degli anni cinquanta, prese avvio in Italia quel fenomeno che trasformerà tutti i settori della vita nazionale: nel 1954 iniziarono le trasmissioni televisive da parte della RAI (si parlava dei campionati mondiali di calcio). Inizialmente i programmi tv prevedevano poche ore: trasmissioni dedicate all’informazione (affidata a due edizioni del telegiornale), alle riduzioni televisive di popolari romanzi, alla produzione di commedie recitate dai più popolari attori italiani e a giochi/quiz (esempio: “Lascia o raddoppia?”). La tv cominciava piano piano a rivelare forti potenzialità e di ciò se ne accorsero i pubblicitari e i politici. Visto che la tv stava riscontrando un forte successo, piano piano le ore di trasmissione erano sempre di più e iniziarono anche a trasmettere programmi di tipo scolastico. In soli 5 anni la tv era presente in 12 famiglie italiane su 100; pochi anni dopo la percentuale salirà a 49. Fu proprio la tv, diffondendo su tutto il territorio un linguaggio chiaro e semplice, a risolvere il problema della lingua: diede anche un forte contributo culturale, molto rilevante, proponendo programmi in cui erano presenti anche diversi scrittori; infatti in alcuni programmi venivano proposti diversi romanzi fatti sotto forma di sceneggiatura (venivano trasmessi la domenica sera). Che cosa si fece per conquistare tanti nuovi potenziali lettori? Naturalmente l’impegno prevalente era l’individuazione dei libri che dovevano essere centrati su temi e valori consolidati e scritti in modo agevole per il lettore medio. Questa fu la ricetta seguita dal primo best seller italiano: “Il Gattopardo” scritto da Giuseppe Tomasi. Altri due best seller di successo nei primi anni sessanta furono: “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola e “Il giardino dei Finzi Contini” di Giorgio Bassani. Qui gli autori avevano scelto come tempo il periodo vicino alla seconda guerra mondiale: il primo parla della storia resistenziale dove prevalevano però i risvolti sentimentali (infatti il protagonista è una femmina), mentre il secondo racconta della storia di una famiglia ebrea che abita in una città tra il tempo delle leggi razziali e l’entrata in guerra, senza però affrontare il tema dell’olocausto. I temi della resistenza non furono però sempre affrontati solo in chiave di disimpegno anzi, all’inizio degli anni sessanta uscirono alcuni romanzi di grande forza rappresentativa e di notevole qualità stilistica. Per esempio, nel 1963 vennero pubblicati: “I giorni veri” di Giovanna Zangrandi, un diario crudo e convincente riguardante la lotta partigiana al femminile; “Bandiera bianca e Cefalonia” di Marcello Venturi, una ricognizione sull’isola greca del figlio di uno dei novemila soldati trucidati dai tedeschi dopo l’8 settembre in uno degli episodi militari più crudeli e fino ad allora praticamente sconosciuto e portato all’attenzione pubblica proprio da questo romanzo; “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, già dal titolo possiamo capire che all’interno della lotta di liberazione le ragioni individuali prevalevano su quelle ideologiche. Leonardo Sciascia per primo scrisse un romanzo (“Il giorno della civetta”) sulla mafia e sulle sue collusioni con la politica governativa, riprendendo questa tematica in molti altri suoi libri. Sciascia si interessò anche ad altri problemi; per esempio nel suo scritto “pamphlet L’affaire Moro” cerca di far luce sul fenomeno del terrorismo, tema non molto trattato dagli altri scrittori. Altri scrittori che si concentrarono sui problemi furono: “Donnarumma all’assalto” di Ottiero Ottieri che parla dell’alienazione della vita operaia; “Memoriale” di Paolo Volponi; “Un borghese piccolo piccolo” di Vincenzo Cerami che parla del disagio nelle grandi città. Il mondo conformista della provincia lombarda era lo scenario drammatico della trilogia di Lucio Matronardi, una trilogia formata da: “il calzolaio di Vigevano”, “il maestro di Vigevano” e “il meriodionale di Vigevano”. Anche Fulvio Tomizza con “Materada” si interessò delle problematiche delle inquiete terre di confine, mentre Giuseppe Berto con “Il male oscuro” parla dei problemi senza frontiere del profondo e della psiche perturbata. Il panorama narrativo italiano, negli anni sessanta e poi negli anni settanta era molto vario e ricco di argomenti. Nel 1968 e nel 1969 i romanzi italiani più venduti furono: “L’airone” di Bassani e “L’occhio di gatto” di Alberto Bevilacqua. Con il grande successo del romanzo “La storia” di Elsa Morante (uscito in edizione tascabile), inizierà ad esserci un forte interesse per il libro, in particolar modo per il libro di narrativa, infatti nacquero alcune colonne di libri tascabili. Con questo sempre maggior consumo di libri, nel 1975 nascerà, come supplemento del quotidiano “La stampa”, il settimanale d’informazione “Tuttolibri” che ebbe molto successo anche perché i primi due numeri di questo settimanale erano usciti contemporaneamente a due avvenimenti molto importanti: l’assassinio di Pasolini e la consegna del premio Nobel a Montale. Tuttolibri visse autonomamente fino al 1980, quando la produzione libraria era calata e si era orientata diversamente anche perché il sempre più drammatico dilagare del terrorismo aveva spostato l’interesse della narrativa ai testi di attualità e analisi politica e storica. Infatti per tutto questo interesse verso l’attualità, nacquero due nuovi quotidiani d’informazione: “Il giornale” di Montanelli e “la Repubblica” di Scalfari; nacquero anche due settimanali di approfondimento politico e culturale: “L’espresso” e “Panorama”. Tutto ciò spiega l’accresciuto ruolo dei giornalisti anche in ambito librario (per esempio: “Lettera ad un bambino mai nato” e “Un uomo” di Oriana Fallacci, oppure libri di Camilla Cederna, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, … In questo quadro di libri di successo potevano anche capitale testi di autori sconosciuti che hanno saputo ‘indovinare’ ciò che un lettore voleva leggere: prendiamo come esempio il romanzo di Rocco e Antonia “Porci con le ali”. Il lettore italiano alla fine degli anni settanta è un lettore piuttosto raffinato, di gusti non banali e orientato verso il nuovo e ciò è dimostrato dal grande successo avuto dal romanzo “Se una notte d’inverno un viaggiatore” di Italo Calvino. 12. LA POESIA NEL SECONDO NOVECENTO TRA CAPRONI E LA NEOAVANGUARDIA Negli stessi anni trenta, quando Quasimodo e Gatto esordivano in poesia, Giorgio Caproni pubblicò i suoi primi versi. Nacque nel 1912 a Livorno e nel 1922 si trasferì a Genova dove morì nel 1990. Non si legò all’ermetismo che a quel tempo era diffuso. La sua poesia si rivelò molto discorsiva, rapportata ad un preciso ambiente e centrata sui motivi domestici degli affetti familiari. La maturazione di Caproni avverrà nel dopoguerra e darà il suo primo frutto con la raccolta “Il passaggio di Enea” dove il motivo centrale dei suoi versi sarà l’abbandono di Genova e la rievocazione dei suoi anni giovanili trascorsi nella città ligure contrapposti agli anni romani della maturità. Genova sarà molto presente nelle poesie di Caproni, il quale le ha dedicato due delle sue poesie più note: “Le stanze della funicolare” (dove il nascere viene espresso attraverso l’immagine della funicolare che dopo un lungo percorso esce dalla galleria e vede la luce) e “l’ascensore” (pagina 163 - in cui il tema della morte viene affrontato in modo leggero). Ritroviamo la stessa leggerezza nell’affrontare il tema della morte anche nella poesia “Il congedo del viaggiatore cerimonioso” (pagina 166) dove con la metafora del viaggio in treno viene rappresentata la parabola della vita. Se parliamo invece della poesia “Lasciando Loco” (pagina 169) vediamo che lo stesso destino di solitudine e di abbandono è anche comune ai paesi di campagna tagliati fuori dal moderno progresso. Nella raccolta “Il franco cacciatore” Caproni va alla ricerca di Dio, della sua assenza che rende incomprensibile la presenza dell’uomo sulla terra e ne causa il dolore del vivere, che il poeta riesce a sdrammatizzare con una sottile ironia. La ricchezza dei temi e il timbro originale nell’affrontare i temi, fanno di Caproni il poeta attivo nel secondo 900. Nel secondo 900, oltre a Caproni, dobbiamo ricordare anche altri poeti. Andrea Zanzotto che ha affidato la sua creatività e la profondità dei suoi pensieri a scelte stilistiche ardue. Altri poeti invece parlano dei problemi del presente interpretati in termini di impegno civile e politico per esempio: Vittorio Sereni che in “Diario d’Algeria” parla della sua esperienza di prigioniero di guerra in toni tra il diaristico e l’allegorico; Franco Fortini nel suo primo libro in versi “Foglio di via” esprime la tensione politica sua e della sua generazione dopo la fine della guerra; Giovanni Giudici che nella raccolta “La vita in versi” si manifesta come poeta antilirico. All’inizio degli anni sessanta prese forma un nuovo fenomeno poetico collettivo ovvero quello costituito dagli sperimentali della neoavanguardia del Gruppo 63, spesso protagonisti di tentativi innovativi, con esiti provocatori e rivolto ad un pubblico ristretto di iniziati. L’artefice massimo di questo fenomeno è Edoardo Sanguineti che sin da “Laborintus” ha segnalato la sua felice inclinazione allo smontaggio dei soliti codici della poesia, per giungere poi con “Postkarten” e “Stracciafoglio” ad un registro ironico-parodistico spesso ancorato alla registrazione diaristica delle occorrenze quotidiane. E proprio un elenco di oggetti distribuiti a caso sopra un tavolo, o di nozioni riportate da un’enciclopedia, offrono lo spunto per allargare il discorso della concretezza delle cose di uso comune, alla riflessione sulla società consumistica dominata dal denaro e spesso dalla forza. Un altro poeta del Gruppo 63 che ha scritto un testo sperimentale è Elio Pagliarani che in “La ragazza Carla” (pagina 173) ha mischiato linguaggi diversi e apparentemente incomunicabili per rappresentare l’esistenza di contrasti di una giovane impiegata beneficiata dall’apparente miracolo economico milanese, ma di fatto sfruttata e costretta a sacrificarsi per conto dell’azienda, che la prosciuga dalla sua individualità. La certezza della paga a fine mese chiede in cambio la rinuncia alla propria libertà e l’arrendersi ad un ruolo anche psicologicamente duro che la porta a sottostare agli altri. L’attenzione verso i problemi portati dalla trasformazione della società nel secondo 900, è al centro della poesia di Nicola Ghiglione. I suoi versi, raccolti nel poemetto “I canti civili” avevano rivelato un autore di grande visionarietà e di un gusto surreale. “I canti civili” rappresentano un esito atipico per la poesia italiana: i versi sono dominati da immagini espressive e inusuali, gli elementi sonori e visivi rompono invece la logica sintattica e la razionalità della rappresentazione per raggiungere una sensazione di sofferenza e miseria. 13. SOCIETA’ E CULTURA NELL’ERA TELEVISIVA: DAL NOME DELLA ROSA A CAMILLERI, AGLI ULTIMI BEST SELLER Nel 1980 esce il libro “Il nome della rosa” di Umberto Eco: il libro più venduto in Italia dal 1980 al 1985. Eco scrisse questo libro per far interessare un pubblico vasto e vario e perciò era rivolto a tre categorie: “la prima sarà avvinta dalla trama e dai colpi di scena, e accetterà anche le lunghe discussioni libresche, e i dialoghi filosofici, perché avvertirà che proprio in quelle pagine svagate si annidano i segni, le tracce, i sintomi rivelatori. La seconda categoria si appassionerà al dibattito di idee e tenterà connessioni con la nostra attualità. La terza si renderà conto che questo testo è un tessuto di altri testi, un ‘giallo’ di citazioni, un libro fatto di libri” Alla base dell’interesse per “Il nome della rosa” (ambientato nel Medio Evo) c’era il ricorso ai meccanismi di uno dei più fortunati generi letterari: il romanzo poliziesco, con le classiche figure dell’investigatore e del collaboratore. Sottraendosi alla classica conclusione dei romanzi polizieschi, i cui elementi costitutivi sono il reato, l’indagine e la cattura del colpevole, “Il nome della rosa” intende far capire che neppure l’ingegno umano più sottile e allenato può mai prescindere dal potere superiore rappresentato dalle forze del caso, con le quali l’uomo non può farci nulla. Inoltre, il romanzo di Eco presenta un’altra caratteristica: la sua dimensione internazionale. La vicenda si svolge nell’abbazia collocata nell’alta Italia (tra Piemonte e Liguria), i personaggi vengono invece da tutto il mondo (Inghilterra, penisola iberica – senza contare che nella nota introduttiva l’autore ricostruisce la storia del suo manoscritto partendo da Praga per passare poi a Salisburgo, Parigi, Buenos Aires). Il 1980, oltre ad aver segno l’apice dell’industria editoriale italiana, aveva dato l’avvio anche all’era televisiva. La RAI-TV era sempre più presente all’interno della società. Nel 1961 venne aperto un secondo canale. Nel 1962 venne fanno il primo collegamento in diretta con gli Stati Uniti (in seguito fu possibile seguire in tempo reale lo sbarco sulla luna – 1968). Nel 1973 cominciarono le trasmissioni a colori. Nel 1980 era nata una terza rete che aveva l’obbiettivo di coprire l’informazione regionale. Sempre nel 1980, Canale 5 riuscì a ottenere la possibilità di coprire l’intero territorio nazionale con le sue trasmissioni. Cosi nacque una lotta per il dominio televisivo e di conseguenza nacquero sempre più programmi di intrattenimento. L’informazione sia nazionale che locale venne potenziata, anche con trasmissioni in diretta che permettevano di vedere avvenimenti in tempo reale. il settore dei film, dei giornali iniziò un po’ ad andare in crisi visto che ora era diventato possibile vedere in tv diversi programmi. In questo quadro generale, in rapida trasformazione, anche il libro e la letteratura ‘persero di importanza’ poiché la gente guardava la tv e quindi non aveva più tempo da dedicare alla lettura. Così l’editoria italiana assunse una connotazione sempre più commerciale, con poteri di scelta dei libri da pubblicare sempre più affidati ad esperti di marketing e non di letteratura. Da ricordare il best seller “Va dove ti porta il cuore” di Susanna Tamaro. (Ecco perché i grandi editori italiani puntano al singolo libro da pubblicare e da consumare subito). Tra i libri più venduti in Italia tra il settembre del 1998 e il luglio del 1999 notiamo subito che su 50 best seller, ben 39 sono romanzi. La maggior parte di questi romanzi sono stranieri. Al primo posto troviamo: “Storia di una gabbanella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepùlveda, dopo il quale troviamo libri di John Grisham, Stephan King, Ken Follett: tutti libri di narrazione rapida e in parte omologa al gusto televisivo. In questa classifica troviamo più indietro anche due scrittori italiani: Alessandro Baricco con “Novecento” e Andrea Camilleri con “Un mese con Montalbano”. Baricco e Camilleri possono essere considerati tra i più rappresentativi scrittori di questo periodo. Baricco è un narratore raffinato e fantasioso, abile nel fondere l’invenzione con la storia. Camilleri esordì con il suo fortunato personaggio del commissario Montalbano nel romanzo poliziesco “La forma dell’acqua”, con un grande successo. Camilleri raggiunse la sua notorietà a settant’anni e da allora ogni suo libro trova decine di migliaia di lettori appassionati. Camilleri ha dato però un’interpretazione del tutto originale al genere poliziesco, non solo per la credibilità del poco convenzionale e moderno investigatore, ma anche per il linguaggio adottato: una miscela di siciliano e italiano, con vocaboli di per sé fortemente dialettali e tuttavia resi comprensibili dal contesto anche per chi non conosce il siciliano. All’origine del successo di Camilleri c’è stata la sua invenzione di linguaggio, ma anche la forte componente di essenzialità del suo narrare, qualità di diretta derivazione dalla sua lunga esperienza di linguaggio televisivo dal qualche ha preso i modelli più efficaci per la comunicazione. E non sembra un caso quindi che gli scrittori italiano di maggiore successo degli ultimi due decenni del 900 sono Eco e Camilleri, i quali sono arrivati alla narrazione scritta dopo aver vissuto esperienze televisive. I primi due anni del 2000 hanno presentato altri autori molto diversi tra di loro: - Federico Moccia: autore molto letto soprattutto dai giovani poiché ha scritto romanzi di amori adolescenziali, centrati su una visione semplificata dei rapporti sentimentali e scritti in una prosa molto diretta, quasi elementare, con periodi brevi e un linguaggio comune. - Roberto Saviano: che ha scritto un romanzo drammatico “Gomorra” che parla della violenta realtà del territorio napoletano dominato dalla camorra. Il libro è crudo e viene visto anche come un atto di denuncia che ha raggiunto con efficacia lo scopo di smascherare il potere della criminalità organizzata nel napoletano, la quale ha minacciato lo scrittore. - Paolo Giordano scrisse il romanzo italiano di maggiore successo nel 2008 “La solitudine dei numeri primi”. In questo libro Giordano riesce a coniugare i sentimenti con la razionalità in una storia che parla della condizione esistenziale delle nuove generazioni, sulle quali grava l’incognita minacciosa di un futuro senza speranze. Quindi sia Saviano che Giordano hanno scritto due libri diversi tra loro ma entrambi problematici e fortemente legati nel nostro tempo e nei nostri problemi e siccome questi due scrittori hanno avuto un grande successo questo ci fa capire che il lettore italiano ricomincia ad apprezzare il romanzo che pone interrogativi e aiuta a capire se stesso e il proprio tempo. Se si scorre le classifiche di opere di autori stranieri, primeggia sicuramente la Rowling, artefice e inventrice del mago Harry Potter. 14. UN FENOMENTO LETTERARIO E DI COSTUME DI FINE NOVECENTO: IL SUCCESSO DELLA NARRATIVA FEMMINILE bisognerà aspettare il 1963 per il primo libro di una scrittrice italiana destinato ad un grandissimo successo: “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg. Con questo libro si aprirà un nuovo sottogenere narrativo: quello delle memorie domestiche, raccontate con una piccola descrizione di luoghi e di personaggi e perfino del linguaggio gergale. Il movimento femminista aveva conquistato sempre più emancipazione della donna nella società, tanto che la donna inizia ad avere ruoli più prestigiosi: nel 1976 Tina Anselmi fu il primo ministro donna in un governo della Repubblica Italiana, e dal 1979 al 1992 Nilde Jotti fu la prima donna Presidente della Camera dei Deputati. Anche nelle case editrici si inizia a dare importanza anche alle scrittrici, forse anche perché i maggiori consumatori continuano ad essere delle lettrici e così la narrativa italiana prese a parlare al femminile, non solo con alcuni libri ma anche con frequenti affermazioni nei più prestigiosi premi letterari. Ovviamente sarebbe inutile cercare tratti comuni/somiglianze tra le personalità femminili che spesso sono molto diverse tra di loro. Alle scrittrici dell’ultimo 900 va il merito di aver affrontato tematiche riguardanti i problemi della famiglia (che è spesso una famiglia in crisi) e dei difficili rapporti famigliari (quelli della donna, quelli del rifiuto delle convenzioni borghesi in nome della poesia nascosta nelle piccole cose, quelli delle diverse generazioni a confronto e perciò spesso in crisi fra di loro). In Italia, in 900 si è chiuso con la prevalenza femminile per quanto riguarda il quadro letterario che sin dalle sue origini ha guardato la donna come sua principale destinataria e all’estero la donna veniva inoltre vista anche come una creatrice della letteratura. Questa tendenza si è confermata in Italia nei primi anni del 2000, e per questo ricordiamo: Dacia Maraini. Ma la scrittrice che ha avuto più successo nel fine 900/inizio 2000 è stata Margaret Mazzantini che ha raggiunto una grande notorietà nel 2001 con il romanzo “Non ti muovere”, nel quale ha raccontato una storia di sofferenze e di passioni centrata sulla vitalità dei sentimenti che avvicinano un uomo e una donna diversissimi, mentre le convenzioni di una coppia più ‘normale’ finiscono spesso per seppellire le emozioni e gli affetti. Da questo libro è stato poi girato il film, interpretato dal marito della scrittrice e da Penelope Cruz, e con la canzone “Un senso” di Vasco Rossi come sottofondo musical: tutti questi elementi hanno contribuito a rinnovare il successo del libro. 15. LA POESIA – E LA CANZONE D’AUTORE – VERSO IL NUOVO MILLENNIO Nella seconda metà del 900 alcuni poeti hanno confermato il loro spessore, la loro importanza senza però essere presi come punti di riferimenti per i nuovi poeti italiani attivi già dall’ultima parte del 900. La poesia italiana di fine 900 non è rappresentata da un movimento che esprime comuni pensieri e obbiettivi, ma è rappresentata da singole voci e da singoli testi; ma è anche vero che c’è questa necessità di singolarità poiché sono sparite istituzioni che raccoglievano attorno a sé nuclei attivi: prendiamo come esempio i caffè letterari o le case editrici di poesia. E per potersi orientare in questa poesia contemporanea bisogna soffermarsi su autori di grande rilievo. Bisognerà quindi parlare di poeti molto diversi tra di loro ma accomunati da due dati importanti: la chiarezza della comunicazione e la scelta di argomenti nei quali il lettore di oggi possa riconoscersi. Bruno Lauzi è stato uno dei fondatori di quella che viene chiamata ‘scuola genovese’ dei cantautori. All’inizio degli anni sessanta, in Liguria, avevano cominciato a scrivere musica: bisognava tener presenti i ritmi del jazz e di altre esperienze straniere, e nei testi bisognava evitare la retorica dei sentimenti e di raccontare la realtà più comune. Così la scuola genovese dei cantautori cominciò a farsi conoscere e apprezzare attraverso canzoni che ebbero un gran successo: per esempio “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli (ispirata ad un’esperienza vissuta in un bordello); “Il nostro concerto” di Umberto Bindi (che esprimeva i sentimenti amorosi più quotidiani anche se omosessuali); Luigi Tenco, le cui canzoni esprimevano il malessere esistenziale che nel 1967 lo portò al suicidio. Di questo gruppo Bruni Lauzi era la figura centrale. Bruno era figlio di un imprenditore emigrato in Africa e amava contaminare parole e musiche e infatti prima del suo maggior successo scrisse “O frigideiro” nel quale il testo in genovese-portoghese si fondeva con un ritmo brasiliano. Un altro personaggio di questo gruppo fu Fabrizio De André che seppe unire l’attenzione per la rappresentazione dei sentimenti, all’ironica celebrazione delle debolezze umane (la rivendicazione della dignità degli emarginati, e la denuncia della violenza della guerra). Intanto si cominciarono a diffondere anche in Italia le canzoni che parlano dei problemi di attualità: la canzone era dunque diventata un’arma di denuncia. E così ci si chiede (parlando di De André): le parole che compongono una sua canzone, possono essere considerate poesia? De André rispetto a ciò aveva le idee molto chiare: credeva che scrivere poesie e scrivere parole per musica erano due attività artistiche diverse, senza che l’una fosse più importante dell’altra ma considerando che alla fine ci sono poesie belle e poesie brutte, e ci sono testi belli e testi brutti delle canzoni. De Andrè riuscì ad unire la rappresentazione dei sentimenti all’ironia delle debolezze umane. Il fenomeno della poesia d’autore ha dimostrato che sono state le parole accompagnate dalla musica quelle che hanno avuto più presa nel raccontare del presente; quindi i cantautori hanno in qualche modo sostituito i poeti nel ruolo di coscienza critica nella società italiana di fine 900. La stessa opinione di De André sulla differenza tra poesia e parole per musica ce l’aveva anche Bruno Lauzi che, dopo aver scritto testi per molte canzoni e aver tradotto in italiano diversi testi di autori stranieri, si dedicò alla composizione di poesie. Comporre una poesia è più difficile che comporre le parole per una canzone: le parole di una canzone traggono molta forza dal suono degli strumenti, mentre le parole di una poesia devono aver una forte qualità per poter ‘raggiungere’ chi le legge sulla pagina bianca del libro (invece i testi delle canzoni sono accompagnati anche da immagini e videoclip). Anche nelle poesie Lauzi cerca armonia e musicalità nelle parole. Prendiamo per esempio la poesia “La mano” (pagina 196) che scrisse ispirandosi alla malattia che lo colpì negli ultimi anni della sua vita e che lui prende come fosse uno sberleffo al destino e uno scherzare col dolore: quindi un’accettazione alla vita che va vissuta ancora, anche se ci sono difficoltà o dolori. La stessa leggerezza, la troviamo nella poesia “Arma di Taggia” (pagina 197) nella quale Lauzi affronta il tema della morte sdrammatizzandola: il poeta immagina il momento della fine della sua vita nello scenario gioioso delle vacanze, inteso come l’inizio di un sonno lieve compiutosi quasi senza disturbare l’umanità che intorno continua i suoi riti quotidiani. Rodolfo Di Biasio, originario di un paesino di campagna del Lazio, ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’emigrazione e quindi del ritorno alla terra delle proprie radici, dove a Formia ha insegnato e svolto un’intensa attività letteraria fondando le riviste culturali “L’argine letterario” e “Rapporti” e collaborando ai programmi culturali della RAI. All’interno di tutti questi impegni intellettuali troviamo anche il suo percorso poetico: scrisse soprattutto dei poemetti perché gli permettevano di articolare il suo pensiero in versi, che è un pensiero segnato dalla sensibilità per gli elementi rivelatori della natura, nutrito com’è dalla sua originaria civiltà contadina, rivestiti di una componente formale accuratamente ancorata al rinnovamento della tradizione. I suoi versi riportavano anche le tracce irripetibili di una società povera, nata e nutrita dalla terra della campagna e dai suoi miti e tuttavia non priva di quella dimensione umana oggi perduta. Lucio Zinna è nato nel 1938 in Sicilia; quasi tutta la sua produzione poetica porta tracce del suo forte legame con la sua terra. La poesia di Zinna è dominata dalla cruda realtà sua e della sua gente, proprio come possiamo vedere nella sua opera “Mio padre” (pagina 200) segnata dal racconto di un’emigrazione, della guerra, di una nuova patria e di una nuova famiglia nella dimenticanza della precedente e di quel figlio nato in sua assenza e conosciuto già da giovincello. Il padre della poesia di Zinna è l’esito di una società condannata alla miseria e che dunque non prevede che siano i sentimenti a dettare le scelte di vita, ma piuttosto le opportunità materiali. E di ciò se ne parla nella poesia “Funerale all’Albergheria”: storia di violenza, di miseria che distrugge le coscienze e il rispetto umano. Giuseppe Conte, nato ad Imperia nel 1945. (torniamo nella Liguria della grande tradizione poetica del 900) Soprattutto nelle sue prime raccolte egli esprime un forte legame con il paesaggio della sua regione, all’interno del quale non mancano le aperture al sociale e ai problemi drammatici portati dal disagio, soprattutto giovanile. Enrico Testa: nella diretta interpretazione del mondo familiare esprime la consapevolezza amara dell’imminente ‘devastazione’ cui si può opporre solo quel minuto inventario di presenza vegetali vive e consolatrici e un indeterminato “tu” che avvia ad una “destinazione duale”, a quel calore degli affetti evidentemente ancora, e nonostante tutto, considerato possibile. Il tema amoroso torna nelle poesie di Fabio Scotto che ‘tende’ verso l’armonia e l’intima riflessione spesso partendo da episodi di poca rilevanza che riescono a motivare la necessità dei suoi versi con l’accumulo di luoghi, figure, paesaggi. L’amore è anche passione, è anche sesso, è anche nudità di corpi e di anime e nella poesia riportata tutto ciò emerge con delicata forza. Bisogna anche parlare di alcuni voci poetiche femminili e ricordiamo quindi Vivian Lamarque: nacque nel trentino ma venne poi adottata da una famiglia di Milano dove esordì con il poemetto “L’amore mio è buonissimo” che venne apprezzato per il linguaggio infantile, elementare e quasi favoloso, con il quale racconta in tono ironico anche i rapporti più complessi con i maschi: la figura maschile viene vista come un archetipo negativo come possibile eco autobiografica di un padre che rifiuta la figlia; ci sarà un intreccio di sentimenti amorosi che dalla passione scivolano nella delusione e in un gioco di specchi emotivi, nel quale il sogno della felicità si confonde con la realtà della sofferenza. Antonella Anedda, nacque a Roma nel 1958 e esordì in poesia nel 1992 con la raccolta “Residenze invernali”. Si fa apprezzare soprattutto per l’attenzione rivolta al tema dei rapporti familiari: ricordiamola poesia “Figlia (a mia figlia)” (pagina 211). La poesia di Anedda è fatta di ‘cose’, di nomi e di gesti colti nella minuta quotidianità e tuttavia rivelatori di emozioni profonde, in uno stile essenziale, in una visione moderna della poesia che riesce meglio a entrare in sintonia col lettore. Non sempre i poeti hanno avvertito l’impegno a calarsi nel cuore del nostro tempo. Sembra opportuno raccogliere e proporre i versi sulla necessità della poesia provocatoria, scritti da Mauro Macario, il quale spera che la voce del poeta venga ascoltata con l’inizio di questo nuovo secolo dominato più dagli interessi materiali che dall’amore per ciò che è giusto ed è bello. Nacque a Santa Margherita Ligure nel 1947 in una famiglia dedita all’arte e alla creatività, e dopo aver lavorato nel mondo dello spettacolo, nel 1990 si avvicina alla poesia. La poesia di Macario è protestataria, nata dalle tante ingiustizie e violenze che quotidianamente avvengono sotto i nostri occhi o che ci vengono riportate da strumenti di informazione (per il voler apparire). L’antidoto di tutto ciò per Macario è rappresentato da quel sogno fatto di parole che si chiama poesia e dal richiamo che essa può rivolgere a chi vuole ascoltarla, ricoprendo così quel ruolo di coscienza critica della società affidato all’opera degli artisti. PAGE \* MERGEFORMAT23