L, ,
Direttori
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Università Cattolica del Sacro Cuore. Sede di Milano
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The Ohio State University
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Università della Valle d’Aosta
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Coloro per cui non è indicato l’ateneo di appartenenza sono da intendersi tutti
afferenti all’Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro.
L, ,
Linguaggi, diritti, storie è una collana per il dottorato di Istituzioni
pubbliche, sociali e culturali. Un dottorato interdisciplinare, internazionale e intersettoriale delle scienze umanistiche dell’Università
degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. La comunità
di ricerca intergenerazionale studia le tradizioni linguistiche, le istituzioni di autonomie, i servizi, i diritti e le scienze storiche, è aperta sia
alle altre scienze sociali, economiche e politiche sia a quelle naturali.
I temi studiati sono: multilinguismo e intercultura, retorica, editoria
critica, critica letteraria, endangered languages, diritto e letteratura, linguistica giuridica, traduzioni e filologia comparata, linguaggi
amministrativi, storie e culture amministrative, linguaggi e storia
della giustizia, historical jurisprudence, giornalismo giuridico, media
studies, storie e culture dei diritti, diritti culturali, diritto e memoria, storie costituzionali, istituzionali ed internazionali, autonomie
locali e culturali, diritto comparato, storia locale e territoriale, European Studies,World History, patrimoni culturali e ambientali, politica
costituzionale, filosofia e sociologia del diritto, ecc.
Oltre alle opere di docenti e tutor e alle tesi più pregevoli, la collana
ospita traduzioni, edizioni critiche di testi classici, lezioni magistrali,
atti di convegni e seminari, nonché opere di altri autori apprezzate
dal comitato scientifico.
Il procedimento di peer review è interno, nel rispetto delle competenze scientifiche rappresentate nel comitato, per le opere della comunità: altrimenti è esterno e anonimo, secondo regole e criteri
prestabiliti dallo stesso comitato.
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L’opera è stata pubblicata con il contributo dell’Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro – Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche
Economiche e Sociali.
Alimentare i diritti culturali
a cura di
Jörg Luther, Giovanni Boggero
Contributi di
Jörg Luther, Giovanni Boggero, Maria Bottiglieri, Giovanni Cavaggion,Giovanni
Boggero, Pratyush Kumar, Hilal Elver, Lorenza Mola, Cristina Poncibò, Elena
Grasso, Michele A. Fino, Vito Rubino, Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara
Fornabaio, Tomaso Ferrando, Piera Vipiana, Armando Giuffrida
Aracne editrice
www.aracneeditrice.it
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I edizione: giugno
Indice
9 Editoriale
Jörg Luther e Giovanni Boggero
Parte I
Questioni costituzionali
19 La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione
italiana
Maria Bottiglieri
47
99
135
149
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
Giovanni Cavaggion
«There is no such thing as a free lunch». Il pasto domestico
a scuola come diritto costituzionalmente garantito?
Giovanni Boggero
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
Pratyush Kumar
Alimentare la democrazia. Come il diritto all’alimentazione
“si adegua”
Jörg Luther
Parte II
Questioni internazionali europee
185
Suffering From Hunger in a World of Plenty
Hilal Elver
7
Indice
8
193
Il diritto ad un’alimentazione adeguata nel Patto sui diritti
economici, sociali e culturali delle Nazioni Unite
Lorenza Mola
215
Food Cultures and Law. The Case of Traffic Lights Labels
Cristina Poncibò, Elena Grasso
253
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione
inerente all’origine degli alimenti
Michele A. Fino
275
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali
dei vini. Quale bilanciamento delle competenze sulla loro
protezione fra Stati membri e Unione europea?
Vito Rubino
303
Food Governance to the Test of Internal Contradictions and
External Pressures
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
329
Il “sistema cibo bene comune”
Tomaso Ferrando
Parte III
Questioni amministrative culturali
353
Nutrirsi in città. Nutrire le città. Fonti per una storia del diritto
al cibo e del dovere di nutrire le città
Maria Bottiglieri
367
Profili pubblicistici dei cd. “Home Restaurants”
Piera Vipiana
389
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
Armando Giuffrida
453
Autori
Editoriale
Jörg Luther, Giovanni Boggero
“Alimentazione e diritti culturali” era il titolo originario di un progetto di ricerca locale finanziato dall’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” (a.a. 2016-2017) che traeva
origine dalla tesi di dottorato di Maria Bottiglieri e dal tentativo
di sviluppare un profilo di ricerca scientifica coerente e rispettosa
della vocazione dei territori e delle tradizioni del Basso Piemonte,
come retroterra anche dell’EXPO svoltosi a Milano nel 2015.
In mancanza di fondi di ricerca nazionale delle scienze giuridiche, la ricerca locale ha, innanzitutto, promosso l’attivazione
di un assegno di ricerca e di una serie di attività seminariali e
contributi di riflessione degli altri Atenei piemontesi (Torino e
Pollenzo), con apporti anche da parte di studiosi legati più alle
Università di Genova (Piera Maria Vipiana) e di Milano (Giovanni Cavaggion).
Idealmente si è cercato di sviluppare un percorso di ricerca
comune sulla scorta di una slow research lanciata già nel 2012 da
un convegno dei giuristi dell’ambiente, organizzato da Patrizia
Macchia ad Asti su “La persona e l’alimentazione”1. Già in quella
occasione era emersa l’interdisciplinarietà e la trasversalità delle scienze dell’alimentazione nei contributi delle scienze della
medicina e in una serie di contributi delle scienze culturali, di
antropologia, teologia, filosofia e comparazione giuridica, e delle
scienze economiche dedicate all’economia dell’azienda agro-alimentare.
1. P. Macchia (a cura di), La persona e l’alimentazione, Roma, 2014.
9
10
Jörg Luther, Giovanni Boggero
Nel contempo a Torino è stato avviato l’Atlante del Cibo, un
progetto interateneo coordinato dal geografo economico Egidio
Dansero2 che coinvolge l’Università di Torino, il Politecnico e
l’Università di Scienze Gastronomiche e si occupa delle Urban Food Policies nell’area metropolitana torinese. Nel 2017,
l’International Panel of Experts on Sustainable Food Systems
(IPES-Food) e l’International University College of Turin (IUC)
organizzavano una giornata di studio e dialogo sul tema “Trasformare le food policies sostenibili in realtà, dal livello locale fino a quello europeo: l’esempio di Torino”, coronata da una
lectio magistralis tenuta dal prof. Olivier De Schutter, già Special
Rapporteur delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, sulle modalità di costruzione di una democrazia alimentare transnazionale:
“Reinventing Food Democracy” .
La presente collettanea raccoglie e presenta lavori di giuristi,
una comunità specialistica ed intergenerazionale composta per
lo più da giovani, taluni con un’impostazione metodologica più
positivista, altri invece caratterizzati dal marcato utilizzo di categorie critiche. Allo stesso tempo, il volume cerca di integrare una
pluralità di scienze giuridiche che si occupano tradizionalmente
dell’alimentazione. La trasversalità del cd. diritto al cibo adeguato si riflette scientificamente in una trattazione diffusa del diritto
alimentare rispetto alla dicotomia diritto privato – diritto pubblico e rispetto al triangolo della giustizia civile, amministrativa
e penale, interessando per fonti e competenze in particolare il
diritto internazionale e dell’UE, per i contenuti il diritto agrario,
commerciale, dell’economia e del lavoro, il tributario e il diritto
delle religioni. Prevalgono tuttavia le scienze giuspubblicistiche
2. Cfr. già E. Dansero, G. Pettenati, A. Toldo, La città e le filiere del cibo:
verso politiche alimentari urbane, in: M. Faccioli (a cura di), Quali filiere per
un progetto metropolitano. Slow tourism. spazi comuni, città, Milano, 2015,
186-208.
Editoriale
11
(cfr. tuttavia i contributi di Cristina Poncibò, Elena Grasso e Tomaso Ferrando), anche perché delle sole 39 cattedre di diritto
agrario italiane in Piemonte, Liguria, Lombardia e Valle d’Aosta
non ne è presente nessuna (sic!).
I contributi del volume sono stati divisi in tre sezioni. La prima è dedicata alle questioni costituzionali, la seconda a quelle
di diritto internazionale europeo e la terza a questioni di diritto amministrativo culturale. La prima parte cerca di inquadrare
il tema nella trattazione più dei diritti all’alimentazione che in
quella dei poteri e dell’assetto delle competenze, in particolare
regionali ed europee. Questa sezione viene aperta da una sintesi dei risultati di una ricca tesi di dottorato alessandrina che
ricostruisce un identikit delle varie garanzie costituzionali che
rafforzano la tutela del diritto al cibo adeguato nell’ordinamento
costituzionale italiano (Maria Bottiglieri). Particolare attenzione
è dedicata ai doveri di solidarietà alimentari che possono essere letti tanto come doveri di solidarietà politica incombenti allo
Stato-comunità, quanto come di solidarietà sociale di matrice
innegabilmente anche cristiana e rappresentano forse sempre di
più un principio fondamentale proprio della cultura costituzionale italiana. Il secondo contributo, anch’esso frutto di una tesi
di dottorato sui diritti culturali ancora work in progress, cerca di
analizzare il diritto all’alimentazione adeguata nel contesto delle
controversie costituzionali relative ai diritti culturali (Giovanni
Cavaggion). Se il diritto all’alimentazione “adeguata” si conforma ai diritti culturali, spetta anche ai giuristi assumere una
propria responsabilità per la soluzione di conflitti che non sono
necessariamente violenti, ma nondimeno sono rilevanti per le
funzioni di integrazione sociale della Costituzione. Il terzo contributo in questa sezione affronta proprio uno di questi conflitti,
quello del “pasto domestico” a scuola (Giovanni Boggero), che,
in un mondo di risorse scarse, offre pane per i denti dei giudici
12
Jörg Luther, Giovanni Boggero
più che pasti gratis per tutti e richiede notevoli bilanciamenti nella realtà amministrativa delle scuole. Il quarto contributo interculturale approfondisce la dimensione religiosa e filosofica delle
norme alimentari nella società indiana che hanno portato anche
la Corte suprema indiana ad “inventare” un diritto al cibo (Pratyush Kumar). In questo contributo emerge una visione bioetica
e un legame con il diritto alla vita che lungi dall’essere diritto
naturale si presenta esso stesso come diritto culturale. La prima
sezione viene conclusa da una rassegna delle questioni più attuali
relative alla democrazia in materia alimentare, cioè il carattere
aperto e non aggressivo dei diritti fondamentali che sono sia diritti umani costituzionalizzati, sia diritti costituzionali internazionalizzati (Jörg Luther).
Nella seconda parte, la più consistente, si trovano contributi il cui baricentro è sia nel diritto internazionale, sia nel diritto
dell’Unione europea che nonostante le sirene del “glocalismo”
stentano a farsi rispettare in loco. La giurista di origine turca
Hilal Elver, fino a quest’anno Special Rapporteur delle Nazioni
Unite per il diritto al cibo e già resa partecipe dell’elaborazione delle Urban Food Policies torinesi3, si appella alla coscienza
umanitaria ricordando come a fronte di una crescita sostanziale della produzione mondiale capitalistica del cibo, la fame nel
mondo continui a uccidere circa 9 milioni di persone all’anno e
come la sicurezza alimentare nei grandi Stati costituzionali occidentali sia minacciata viceversa dall’obesità. Per rendere il diritto internazionale più umanitario, servirebbe non solo più pace
tra gli Stati della comunità e criminalizzazione di ogni violenza
che intenzionalmente crei fame, ma anche un nuovo sistema di
3. Cf. anche H. Elver, Resilienza urbana, diritto al cibo adeguato e diritto
alla città, in: Cibo, cittadini e spazi urbani. Verso un’amministrazione condivisa dell’Urban Food Policy di Torino, Quaderno Labsus, dicembre 2016, 26-29.
Editoriale
13
assistenza umanitaria che integri la gestione delle emergenze in
quella delle politiche di sviluppo, un’utopia concreta che tuttavia
sembra irrealizzabile se non si realizzano progressi – e forse miracoli - nella lotta alla corruzione e alla burocrazia internazionale. L’esame delle fonti pattizie (Lorenza Mola) dimostra come a
fronte della non diretta azionabilità delle garanzie legate al diritto
al cibo stia guadagnando sempre maggiore spazio la loro implementazione amministrativa a livello locale, peraltro costituzionalmente facilitata da clausole di competenza amministrativa
residuale (tra cui il principio di competenza generale o universal
jurisdiction principle), pur essendo ostacolata dalla carenza di
leggi e di garanzie di autofinanziamento adeguate.
L’odierna cultura alimentare è anche una cultura giuridica europea, in particolare con riguardo alle politiche di informazione
dei consumatori. Lo studio sul Traffic Light Nutrition-Labelling
Scheme in uso nel Regno Unito (Cristina Poncibò ed Elena Grasso) evidenzia come tra numeri e grafiche con colori, la differenziazione delle informazioni e la semplificazione delle raccomandazioni come strumenti di educativi non si escludono necessariamente a vicenda, ma anzi dimostrano che la sovranità alimentare
collettiva ed individuale deve essere appresa, assegnando al diritto una funzione di promozione culturale che arricchisce l’economia sociale di mercato come prima missione della stessa UE.
Il contributo successivo (Michele Fino) critica e decostruisce con
grande originalità la credenza diffusa e radicata che l’etichettatura dell’ambigua origine dei cibi sia segno di cultura e abbia valore di qualità. La cultura giuridica delle etichette non va confusa
con le culture produttive, agronomiche, pastorali, gastronomiche
ecc., come anche la verità dell’etichetta dei vini non sempre si
adegua al detto “in vino veritas”. Anche il contributo sul “bilanciamento” e sulla concorrenza tra le competenze in materia di
protezione delle denominazioni dei vini analizza puntualmente
14
Jörg Luther, Giovanni Boggero
l’interazione tra atti legislativi e fonti giurisprudenziali (Vito Rubino). Al di là della constatazione banale per la quale si considerano meno digeribili e vendibili vini provenienti da più paesi
europei, la conservazione dell’autonomia nazionale nella classificazione dei vini interessa certo più l’Italia che la Danimarca,
ma non è detto che il consumatore danese si fidi più della burocrazia italiana che non di quella UE. Il collegato problema della
frammentazione del diritto dell’alimentazione in senso oggettivo
è analizzato con particolare lucidità, partendo dall’ordinamento
euro-unionale e arrivando a una visione globalizzante, da uno
studio d’équipe (Eden Tafesework, Lara Fornabaio, Margherita
Poto) che prova a disegnare un quadro e un modello di (good)
“food governance”, capace non solo di riunire nella sicurezza
alimentare security & safety, ma anche di metabolizzare e distribuire equamente i frutti del progresso delle agro-biotecnologie.
Una visione forse più critica delle ineguaglianze esistenti in tale
sistema, ma anche più romantica delle opportunità di rivoluzione
verde orientata verso un nuovo paradigma di “bene-comunismo”
alimentare è opposto a quello “industriale-privatizzante” che
impoverisce l’hinterland rurale delle nostre città è offerta infine
dall’ultimo contributo di questa sezione (Tomaso Ferrando). Da
questa angolatura, il diritto al cibo dovrebbe diventare forse più
diritto che libertà culturale.
Venendo alla terza parte, alle questioni amministrative culturali, si torna pertanto alle amministrazioni locali. Per quanto
riguarda le politiche alimentari urbane, in particolare quelle metropolitane, si apre innanzitutto con una ricostruzione delle fonti
storiche locali e regionali della sicurezza alimentare (Maria Bottiglieri). Segue una disamina delle proposte di legge in materia
di “home restaurants” o, più correttamente, di ristorazioni domestiche (Piera Maria Vipiana), un’invenzione culturale creativa di
lavoro che probabilmente sarà oggetto di iniziative anche nella
Editoriale
15
XVIII legislatura del Parlamento italiano. Conclude un lungo
saggio sull’amministrazione della certificazione di conformità
del cibo “halal” (Armando Giuffrida), che approfondisce le esigenze pratiche di tutela dei diritti culturali con riguardo ai regimi
dietetici confessionali.
“Alimentare i diritti culturali” è il titolo che con un invisibile punto esclamativo cerca di definire un comune denominatore
contenutistico e un’idea comune a tutti questi contributi. Questo
vuol dire, innanzitutto, che l’alimentazione ha una funzione eminentemente culturale oltre che economica, ma anche che i diritti
culturali hanno una rilevanza finora sottovalutata negli studi giuridici della food law. Se la cultura non è fatta solo di tradizioni,
ma anche di creazioni e soprattutto di pluralismo e differenziazione, il “menù” di questo volume offre una prova della possibilità e forse anche della necessità di ragionare sui contributi che la
cultura giuridica può offrire all’“adeguatezza” del cibo.
La scienza del diritto deve alimentare pertanto non soltanto
gli stessi giuristi, ma anche contribuire alla cultura alimentare di
tutti. La ricerca scientifica dei giuristi deve mantenere l’universalità del diritto al cibo, ma può aver luogo solo se tiene anche
adeguatamente conto della relatività delle culture oltreché del
fatto che viviamo, per definizione, in un mondo di risorse scarse.
Questa relatività ha dimensioni temporali e spaziali. Per quanto
riguarda quelle temporali, la recente decisione tedesca del Bundesverfassungsgericht, pronunciata il 21 marzo 2018, ha richiesto un
limite temporale alla disseminazione delle informazioni pubbliche
che possono essere imposte per ragioni di tutela dei consumatori di
generi alimentari, evidenziando come i diritti culturali non esigono
prestazioni ripetitive a tempo indeterminato.
Scrutinando poi tutti i livelli delle fonti e della governance
alimentare, i contributi permettono forse di concludere con una
distinzione tanto sottile quanto significativa: si può presumere
16
Jörg Luther, Giovanni Boggero
che ogni cultura, anche quella alimentare “ha” (luogo in) un territorio. Viceversa si può solo pretendere (e non presumere) che
ogni territorio “abbia” anche una cultura.
Parte I
questioni costituzionali
Le garanzie costituzionali del diritto
al cibo adeguato
Maria Bottiglieri
Sommario: 1. Il diritto al cibo adeguato. 2. Le granzie costituzionali del diritto
al cibo adeguato. 2.1. Principi fondamentali. 2.2. Diritti nei rapporti civili.
2.3. Diritti nei rapporti etico-sociali. 2.4. Diritti nei rapporti economici. 3.
La prospettiva dei doveri. 3.1. I doveri pubblici dello Stato. 3.2. Dal dovere
pubblico di solidarietà alimentare ai doveri privati di fraternità conviviale.
3.3. L’interdipendenza tra doveri nel caso delle mense benefiche. 4. Le caratteristiche del diritto al cibo adeguato. 5. Prospettive regolatorie.
1. Il diritto al cibo adeguato
Il diritto al cibo è il diritto «ad avere un accesso regolare, permanente, libero, sia direttamente sia tramite acquisti monetari, a cibo
quantitativamente e qualitativamente adeguato, sufficiente, corrispondente alle tradizioni culturali della popolazione di cui fa parte
il consumatore e in grado di assicurare una vita psichica e fisica,
individuale e collettiva, priva di angoscia, soddisfacente e degna»1.
Il diritto al cibo è un diritto umano fondamentale, riconosciuto da
disposizioni giuridiche internazionali2 e da circa 100 Costituzioni
1. J. Ziegler, Dalla parte dei deboli. Il diritto all’alimentazione, Milano, Tropea, 2004 [Trad. it Ziegler 2003, Le droit à l’aliméntation, Paris: Mille et une nuits,
Librairie Arthème Fayard,] p. 49 e UN Commission on Human Rights (Commission), The Right to Food. Report by the Special Rapporteur on the Right to Food,
Mr. Jean Ziegler (7 February 2001), Doc.U.N. E/CN.4/2001/53, paragraph 14.
2. Cfr. art. 25 Dichiarazione universale dei diritti umani e art. 11 Convenzione internazionale dei diritti economici, sociali e culturali come interpretati dal General Comment N. 12 The Right to Adequate Food (12 May 1999
- E/C.12/1999/5). Sulla tutela internazionale di tale diritto cfr. amplius: O. De
19
20
Maria Bottiglieri
del mondo, di cui 24 proteggono tale diritto in modo diretto3. La
sua progressiva costituzionalizzazione ha permesso a molti Paesi di tradurre il generico “dovere di nutrire”, previsto dalle Carte
internazionali, in obblighi giuridici specifici, grazie ai quali tale
diritto è oggi soddisfatto pienamente in due modalità principali:
o mediante politiche pubbliche ad hoc4 o grazie a sentenze di rango costituzionale5. In Italia non esiste un autonoma formulazione
costituzionale del diritto costituzionale al cibo adeguato, verosimilmente perché il Costituente riteneva che assicurare il diritto al
lavoro fosse un sufficiente «mezzo per procurarsi il pane»6. Ma
nell’era in cui la disoccupazione è strutturale e il binomio lavoro
– sussistenza sembra essersi spezzato anche in Italia7, tutelare tale
Schutter, International human rights laws, CUP Cambridge, 2010, 242-253;
C. Golay, Droit à l’alimentation et accès à la justice, Bruxelles, Bruylant,
2011, 25-185; J. Ziegler – C. Golay – C. Mahon – S. Way, The Fight for the
Right to Food, Londra: Palgrave Macmillan, 2011, 13-108.
3 Alle 23 Costituzioni contate nel 2011 (L. Knuth – M. Vidar 2011, Constitutional and Legal Protection of the Right to Food around the World, Roma,
FAO, su: www.fao.org; e M. Bottiglieri, Il diritto ad un cibo adeguato: profili
comparati di tutela costituzionale e questioni di giustiziabilità, in: P. Macchia
(a cura di) La persona e l’alimentazione: profili clinici, giuridici, culturali ed
etico-religiosi – Atti del Convegno di Asti, 30 Novembre 2012, Aracne Roma
2014, 234-242), si può aggiungere la Costituzione egiziana del 2014 (art. 79).
4. Cfr. l’esperienza brasiliana in G. da Silva – M.E. Del Grossi – C. Galvão de França, The Fome zero (Zero hunger) program. The brazilian experience, FAO Brasilia, 2011, su fao.org; sulle politiche pubbliche sudafricane
cfr. Rapport du Rapporteur spécial sur le droit à l’alimentation, Olivier De
Schutter Additif - Mission en Afrique du Sud su: daccess-dds-ny.un.org o www.
ohchr.org; mentre sui programmi contro la fame promossi dal governo indiano
cfr.: J. Ziegler – C. Golay – C. Mahon – S. Way, op. cit., 274-276.
5. C. Golay, Droit à l’alimentation et accès à la justice, Bruxelles, Bruylant,
2011, 231-288; M. Bottiglieri 2014, Il diritto ad un cibo adeguato: profili comparati di tutela costituzionale e questioni di giustiziabilità, op. cit., 217-260.
6. Cfr. l’intervento dell’on. Valenti (DC) in Assemblea costituente, Atti del
29 aprile 1946 su www.nascitacostituzione.it
7. L. Ferrajoli 2007, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia.
Vol. II. Teoria della democrazia, Roma – Bari, Editori Laterza, Vol. II, 405.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
21
diritto tramite il solo diritto al lavoro non sembra più sufficiente.
Ecco perché occorre andare a riscoprire tra le pieghe della Carta
fondamentale tutte le numerose dimensioni del diritto al cibo che
risultano già altrimenti protette. A tal fine il presente contributo
propone una rilettura, “olistica”8 o “equilibrata”9, del testo costituzionale alla luce del right to food approach.
2. Le garanzie costituzionali del diritto al cibo adeguato
Una ricerca internazionale della FAO afferma che la Costituzione italiana protegge indirettamente il diritto al cibo mediante
l’adesione dell’Italia ai Trattati internazionali che lo garantiscono10. L’art. 117.1 Cost., infatti, riconosce la primazia delle fonti
internazionali sulla legislazione nazionale, costituendo così un
parametro speciale di costituzionalità delle leggi e il potenziale “punto d’accesso” nel nostro ordinamento delle disposizioni contenute dai Trattati internazionali diversi da quelli posti a
fondamento dell’Unione europea11. Trattati tra cui vi sono anche
quelli che, come la Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, tutelano il diritto al cibo. Tale tesi, pur
presentando profili di criticità, appare condivisibile ma non sufficiente a inquadrare il diritto in parola. Nella Costituzione italiana, infatti, l’obbligo di rispettare, proteggere e rendere effettivo
il diritto al cibo adeguato è basato anche su fondamenti giuridici
8. C. Petrini 2016, Buono, pulito e giusto, Milano-Firenze-Bra, Giunti-Slow Food editore, 275-283.
9. G. Zagrebelsky 2014, Due concetti costituzionali: sovranità alimentare
e olismo, in AA.VV., Carlo Petrini: la coscienza del gusto, Pollenzo, Slow
Food Editore 2014, 147-164.
10. L. Knuth – M. Vidar, op.cit., 28.
11. Cfr. Corte cost., sent. 22-10-2007, n. 348 e Corte cost., sent. 22-102007, n. 349.
22
Maria Bottiglieri
“autoctoni”, non solo sull’art. 117.1 Cost. In quest’ottica il presente contributo intende evidenziare come le disposizioni giuridiche che garantiscono il diritto al cibo adeguato siano distribuite
in molte parti della Costituzione e in particolare sulle seguenti:
principi fondamentali, rapporti civili, rapporti etico-sociali, rapporti economici.
2.1. Principi fondamentali
Il principio di dignità umana e dignità sociale, ricavabile principalmente dagli artt. 3, 36, 41 Cost., andrebbe considerato come
la chiave di lettura attraverso cui leggere le diverse dimensioni
del diritto al cibo tutelate dalla Carta costituzionale. Il diritto al
cibo, infatti, richiede che sia nutrita la dignità di ogni uomo, oltre che il suo corpo12. Questo significa che ogni volta in cui la
malnutrizione (sia la denutrizione che la sovralimentazione)13 è
tale da degradare l’essere umano a una cosa, è lì che la dignità
umana viene violata ed è lì che deve essere tutelata. Dal dettato
costituzionale sono desumibili almeno tre aspetti di connessione
tra principio di dignità e diritto al cibo14. In primo luogo il livello
di accesso al cibo di ogni persona dovrebbe essere tale da garan12. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012,
199.
13. La sovra-alimentazione concorre con la denutrizione a definire il concetto di “malnutrizione”, con cui si intende uno «stato di squilibrio tra rifornimento di nutrienti ed energia – troppo scarso (malnutrizione da carenza), incongruente (malnutrizione da squilibrio), eccessivo (malnutrizione da eccesso
alimentare) – e il fabbisogno del corpo per assicurare il mantenimento, la funzione, la crescita e la riproduzione». Cfr. in tal senso Malnutrizione (voce), in:
www.treccani.it/enciclopedia. In tale concetto rientrano dunque sia i problemi
di deficienza alimentare (come l’inedia) sia quelli di eccesso (come l’obesità).
14. Amplius M. Bottiglieri 2015, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit.
239-241.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
23
tirgli una pari dignità sociale nelle sue relazioni intersoggettive:
sia in quelle con i propri simili, nelle diverse formazioni sociali
dove si sviluppa la sua personalità, sia nelle relazioni con gli apparati pubblici. In secondo luogo, la retribuzione del lavoratore e
della lavoratrice (artt. 36 - 37 Cost.) - o le misure di assistenza e
previdenza previste (art. 38 Cost.)15 o prevedibili (come il reddito
di cittadinanza)16 – dovrebbero essere di un livello tale che sia
assicurata una dieta sufficientemente nutriente, sana, accettabile
da un punto di vista culturale o religioso e tale da non frustrare
altri bisogni primari, da non negare cioè il “diritto alla sopravvivenza”, le cui componenti principali sono appunto cibo, salute,
abitazione e istruzione17.
In una terza accezione, il diritto di accedere a un cibo adeguato in modo conforme alla “dignità umana” potrebbe essere
inteso come limite alla libertà di iniziativa economica, la quale
andrebbe ad esso conformata. Sulla base di queste considerazioni, la dignità nell’accesso al cibo non andrebbe considerata come
15. Ivi, 255-260.
16. Nella legislazione italiana, la mancanza di un’effettiva applicazione del
diritto al cibo è legata anche alla mancanza, su scala nazionale, di un istituto che
protegga le persone dalla povertà assoluta: in molti Paesi del mondo (dal Brasile a Regno Unito), il reddito di cittadinanza/reddito minimo/reddito di dignità
è invece adottato come misura centrale per combattere la fame e la povertà. Su
questi temi cfr. F. Pizzolato 2015, Il diritto all’alimentazione. Un bisogno fondamentale povero di tutele, in Aggiornamenti sociali, 2/2015, M. Bottiglieri
– F. Pizzolato 2015, Diritto al cibo: politiche, non riforme costituzionali/Right
to food: policies not constitutional reforms, in Centro Ecumenico Europeo per
la Pace Quaderni per il dialogo e la pace - Nutrire il pianeta: per un paradigma di sviluppo inclusivo e sostenibile/Feeding The Planet, An Inclusive And
Sustainable Development Paradigm 1/2015 (Supplemento a “Il giornale dei
lavoratori” n. 1/2015), su www.ceep.it, 41-45, M. Bottiglieri 2015, Il diritto
al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto
fondamentale “nuovo”, cit., 260-262.
17. L. Ferrajoli 2007, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia. Vol. II. Teoria della democrazia, Roma – Bari, Editori Laterza, 392-398 e
404-409.
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Maria Bottiglieri
un diritto fondamentale tra gli altri, né una “supernorma”, ma
come vicenda giuridica che integra altri «principi fondamentali
già consolidati facendo corpo con essi e imponendone una reinterpretazione in logica di indivisibilità»18.
Se la dignità umana può essere ritenuta la chiave di lettura di
tale diritto, il principio laburista (artt. 1 e 4 Cost.) è l’elemento
attorno al quale andrebbe inquadrato il sistema di tutela costituzionale del diritto al cibo. Dalla lettura dei lavori della Costituente, infatti, emerge che il diritto al lavoro sia stato pensato come la
via maestra o comunque la via preferenziale per rendere effettivo
l’accesso al cibo19. Il lavoro, infatti, è il diritto che consente di
accedere alla produzione di cibo, sia direttamente, attraverso il
lavoro della terra (così come tutelato dagli artt. 44 e 47 Cost. che
esprimono un favor per la proprietà diretta coltivatrice), sia indirettamente, atteso che il reddito da lavoro (dipendente e non) è
il principale strumento che consente di accedere al cibo “tramite
acquisti monetari”. Attorno alle disposizioni laburistiche, che costituiscono il nucleo forte della tutela costituzionale indiretta del
diritto al cibo, si irradiano tutte quelle che riconoscono le diverse
dimensioni del diritto al cibo adeguato.
È dunque alla luce di questo principio e della centralità della
tutela costituzionale della dignità umana, che si intende effettuare un sintetico excursus sulle diverse dimensioni del diritto al
cibo protette dalla Costituzione. La dimensione culturale di tale
diritto, ad esempio, può ritenersi tutelata dall’art. 9 Cost. su cui
si fonda sia la protezione della dimensione interculturale dell’accesso al cibo sia la tutela della sua dimensione paesaggistica e
18. S. Rodotà, op. cit., 199.
19. Cfr. supra nota 7. Cfr. Amplius M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale
“nuovo”, cit., 217-232. Cfr. inoltre M. Bottiglieri – F. Pizzolato, 2015, op.cit.,
41-45.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
25
di patrimonio dell’umanità (si pensi alla Dieta mediterranea,
riconosciuta nel 2013 patrimonio immateriale dell’Unesco o al
Paesaggio vitivinicolo della Langhe, Roero e Monferrato che dal
2014 è l’unico “paesaggio del cibo” italiano tutelato dall’Unesco). Se letto in combinato disposto con l’art. 32, l’art. 9 Cost.
tutela anche gli aspetti di sostenibilità ambientale di tale diritto (alla luce di tale norma vanno lette tematiche attuali come
l’agro-ecologia o la regolazione degli OGM)20. L’art. 10 Cost.
consente di individuare come titolare del diritto al cibo non solo
il cittadino ma anche lo straniero e il rifugiato21. L’art. 11 Cost.
consente di distinguere un diritto al cibo in tempo di pace (pace
intesa sia come assenza di guerra che pace positiva nel senso
della cooperazione internazionale) e uno in tempo di guerra22. Tra
i principi fondamentali vi sono anche due disposizioni che caratterizzano l’approccio costituzionale alla sovranità alimentare,
20. Ivi, 265-273. Sull’agroecologia cfr. Human Rights Council, Agroecology and the Right to Food. Report submitted by the Special Rapporteur on the
right to food, Olivier De Schutter, 2010.
21. M. Bottiglieri 2015, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale,
costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 277-280. Sui
soggetti beneficiari di tale diritto cfr. amplius infra par. 4.
22. In particolare, in tempo di guerra il diritto al cibo risulterebbe protetto
sotto almeno tre profili: 1) in qualità di basic right, il diritto al cibo non rientrerebbe tra quelli comprimibili né sospendibili; 2) affamare i civili durante i
conflitti armati va considerato un crimine di guerra (art. 8 dello Statuto di Roma
della Corte Penale Internazionale); 3) risulterebbero ammissibili operazioni di
ingerenza umanitaria, sia quelle militari che quelle non militari, se effettuate
per fornire di cibo, acqua e beni di prima necessità alla popolazione civile che
si trovi in teatri di guerra. Sul punto cfr. M. Bottiglieri 2015, Il diritto al cibo
adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 273-277. Sul diritto al cibo in tempo di pace e sul ruolo della
cooperazione decentrata in materia di Local Food Policy, cfr. A. Magarini – Y.
Nicolareu – E. Dansero – M. Bottiglieri Urban Food Policies: Decentralized
Cooperation and African Cities in Revue internationale des études du développement - 232/2017-4. Stratégies internationales des collectivités territoriales
(Sous la direction de Bernard Husson, Sadio Soukouna et Yves Viltard), 2017.
26
Maria Bottiglieri
ovvero l’art. 1 Cost. che costituisce il fondamento di una sovranità alimentare che spetta al popolo, il quale può esercitarla nelle
forme e nei limiti previsti dalla Costituzione e l’art. 5 Cost. che
costituisce il fondamento dell’autonomia alimentare di Regioni
ed enti locali23.
2.2. Diritti nei rapporti civili
Nel Titolo I della Parte I Cost., “Rapporti civili”, sono ravvisabili
disposizioni estremamente rilevanti in ordine alla tutela della dimensione civile del diritto al cibo.
L’art. 13 Cost. tutela la libertà di autodeterminarsi in campo
alimentare e attribuisce ad ogni persona, sia la facoltà di poter
scegliere il proprio stile di vita alimentare, sia il tipo di cibo da
consumare (cibo biologico, a km zero o proveniente da commercio equo e solidale), sia la scelta dei modelli di produzione che
quelli di distribuzione (si pensi a quelli proposti dai GAS - Grup23. M. Bottiglieri 2015, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale,
costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 236-239 e 426432. Secondo la Dichiarazione di Nyéléni del 2007, la “sovranità alimentare”,
va intesa come il diritto dei popoli ad alimenti sani e culturalmente appropriati
e a poter decidere il relativo sistema alimentare e produttivo (sulla natura di diritto collettivo della sovranità alimentare cfr. G. Zagrebelsky op.cit., 147-164).
Per “autonomia alimentare”, il cui fondamento costituzionale è rinvenibile negli art. 5 e 114 Cost., si intende la potestà degli enti territoriali di autodeterminare e autoregolare, con fonti diverse (leggi regionali, statuti, regolamenti, piani,
linee guida, capitolati), le attività e i servizi che consentono di tutelare le diverse dimensioni locali del diritto di accesso al cibo di cittadini e residenti. Sul
tema dell’autonomia alimentare municipale cfr. amplius M. Bottiglieri 2017,
L’autonomia alimentare locale di Torino per una Urban Food Policy “Right to
Food Oriented” in M. Bottiglieri, G. Pettenati, A. Toldo (a cura di)., Turin
Food Policy: Buone pratiche e prospettive, Franco Angeli, Milano, 2017, 1522; M. Bottiglieri, I Servizi pubblici locali di accesso al cibo e la Turin Food
Policy, in Amministrare 1/2016. Sul tema dell’autonomia alimentare regionale
cfr. amplius M. Bottiglieri, L’autonomia alimentare delle Regioni, in Diritti
Regionali 2017/1.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
27
po di acquisto solidale - e delle c.d. RES - Reti locali di economia
solidale). L’art. 13 costituisce altresì il fondamento del diritto di
autodeterminarsi in materia di scelte alimentari, anche quando
la libertà personale è limitata, in modo pieno, come negli istituti
carcerari, o in modo limitato come nei casi di soggezione speciale (si pensi agli ospedali)24.
Altre dimensioni rilevanti del diritto al cibo sono riscontrabili
negli art. 18, 19 e 21 Cost. Mentre l’art. 18 Cost. tutela la libertà di associazione attorno a una particolare cultura del cibo (si
pensi a Slow Food, alle ONG impegnate a lottare contro la fame
nel mondo o alle associazioni che lottano contro l’obesità)25, gli
artt. 19-20 Cost., letti alla luce degli artt. 7 e 8 Cost., tutelano
la dimensione religiosa del diritto al cibo adeguato. La libertà
di culto, infatti, estendendosi anche ai rituali, implica il dovere
dello Stato di rispettare e proteggere le RAR (regole alimentari
religiose) dei cittadini, sia singoli che associati26. L’art. 21 tutela
la libertà di manifestazione del pensiero sulle diverse concezioni
di cibo e di diritto al cibo27. Il fondamento costituzionale della
24. Su questi aspetti cfr. amplius M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato.
Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 280-296.
25. Amplius ivi, 304-308.
26. Amplius A.G. Chizzoniti – M. Tallacchini (a cura di), Cibo e religione:
diritto e diritti - Quaderni del Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma - Lecce, Libellula edizioni, www.olir.it,
2010; M. Bottiglieri, Diritto al cibo adeguato e libertà religiosa nella Costituzione italiana in Orientamenti sociali sardi 1/2015, 33-59.
27. M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 304-308. Va evidenziato che tale libertà rileva almeno sotto due profili: quella di informare sul
diritto al cibo e quella di essere informati. Dal punto di vista attivo tale libertà
comporta che ciascuno, sia come singolo, sia in forma associata, possa esprimere e manifestare il suo pensiero con ogni strumento a ciò preposto (art. 21
Cost.). Dal punto di vista passivo, sono due le principali attività tese a informare la cittadinanza sulle tematiche connesse al diritto al cibo: la sensibilizzazione
28
Maria Bottiglieri
responsabilità penale e amministrativa in materia di diritto all’alimentazione è rinvenibile negli artt. 23 e 25 Cost, mentre l’art.
27.3 può costituire il fondamento costituzionale del diritto al cibo
adeguato dei detenuti28.
2.3. Diritti nei rapporti etico-sociali
La dimensione sociale del diritto al cibo è tutelata da molte disposizioni dei “Rapporti etico-sociali” (Titolo II della Parte I della Costituzione).
Gli artt. 29-31 Cost. costituiscono il fondamento costituzionale del diritto al cibo nel diritto di famiglia (si pensi in particolare
agli obblighi di mantenimento, anche alimentare, che sussistono
tra coniugi e ai doveri dei genitori di nutrire i figli)29.
e la comunicazione sociale. La sensibilizzazione è quell’azione di educazione
allo sviluppo della cittadinanza (in particolare dei giovani e degli studenti) sui
temi della fame nel mondo da un lato e della salute alimentare e nutrizionale
dall’altro; la comunicazione sociale sui temi del diritto al cibo può avere invece
diversi obiettivi: promuovere un’idea (diminuire gli sprechi, evitare gli eccessi
alimentari), denunciare un abuso (ad esempio denunciare il land grabbing),
valorizzare un progetto (come i progetti solidali promossi dalle ONG per contribuire a sradicare la fame) o stimolare a un’azione, spesso, stimolare al dono.
28. Su cui si veda anche l’art. 9, L. 354/1975, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà:
«Ai detenuti e agli internati è assicurata un’alimentazione sana e sufficiente,
adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima».
Su questi temi, amplius, M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit.,
308-312 e M. Bottiglieri, Il “diritto al cibo adeguato” e l’alimentazione dei
detenuti: tra tortura e trattamento inumano degradante, in: M. Di Giovanni –
C.R. Gaza – G. Silvestrini (a cura di) Le nuove giustificazioni della tortura
nell’età dei diritti, Morlacchi editore, Perugia, 2017.
29. Tale disciplina è tesa ad assicurare che i diversi componenti del nucleo
familiare rispettino il diritto al cibo l’uno dell’altro o, in caso contrario, che
entrino in funzione, in via sussidiaria, gli appositi meccanismi istituzionali di
protezione a questo finalizzati. Su questa tematica cfr. amplius M. Bottiglieri,
Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
29
L’art. 32 Cost. tutela la dimensione sanitaria del diritto al cibo
costituendo la disposizione alla luce della quale leggere la normativa in materia di profilassi alimentare e igiene degli alimenti,
nonché quella in materia di Livelli essenziali di assistenza (LEA)
collegati agli aspetti nutrizionali, la disciplina della nutrizione e
idratazione artificiale (ospedaliera e domiciliare, enterale e parenterale) e la disciplina in materia di OGM30.
Gli artt. 33-34 Cost. tutelano sia il diritto a una educazione
alimentare e nutrizionale nelle scuole con la corrispondente libertà di insegnamento, sia la ricerca scientifica e tecnica nei diversi settori disciplinari che studiano il cibo: giuridico, religioso,
gastronomico, sociologico, medico31.
2.4. Diritti nei rapporti economici
Le disposizioni della costituzione economica che tutelano il “diritto al cibo adeguato” sono parimenti rilevanti.
L’art. 41 tutela la libertà di iniziativa economica di produrre,
distribuire, vendere, somministrare cibi e bevande, sia se esercitata nell’ambito dei sistemi tradizionali, sia nell’ambito dei nuovi
sistemi alimentari come i circuiti dell’equo e solidale o quelli
delle Reti di economia solidale. Tale disposizione garantisce andiritto fondamentale “nuovo”, 315-320.
30. Ivi, 320-334. In relazione ai fondamenti costituzionali della legislazione
alimentare cfr. P. Costato – S. Borghi – L. Rizzioli 2011, Compendio di diritto
alimentare, Padova, Cedam, 51-57 e 151.
31. M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 334-338 e 263265. Cfr. inoltre sulla questione del diritto al panino M. Bottiglieri, Il Comune
può escludere un diritto alla scelta tra mensa e panino. Nota alla sentenza del
TAR Piemonte del 31.07.2014, n. 1365. in OPAL 6/2015, Polis Working Papers
218/2015, 12-19; G. Boggero, “There is no such thing as a free lunch”. Il pasto
domestic a scuola come diritto costituzionalmente garantito?, in Osservatorio
Costituzionale, n. 3/2017, ora anche in questo volume.
30
Maria Bottiglieri
che i diritti dei consumatori a un cibo sano, che si pongono come
limite alla libertà di iniziativa economica nel settore alimentare;
è su questa base normativa che si giustifica l’intera legislazione
in materia di igiene degli alimenti32.
L’art. 42 Cost. costituisce la base costituzionale su cui delineare lo statuto proprietario del bene cibo, il quale è stato qualificato
come «bene patrimoniale», nella misura in cui eccede le capacità individuali di accesso al minimo vitale, e come «bene sociale»
nella misura sottostante, quella «necessaria all’alimentazione di
base». Tale distinzione è di estremo rilievo, perché è su questa base
che la dottrina è arrivata a qualificare il diritto al cibo come diritto
fondamentale, nella misura in cui coincide con il diritto alla sussistenza, e come diritto patrimoniale nella misura in cui non coincide
con esso33. Questa medesima disposizione, letta in combinato disposto con l’art. 118 Cost. ult. Co., costituisce il fondamento costituzionale della riflessione in materia di “cibo-bene comune”34.
L’art. 44 Cost. può costituire il fondamento costituzionale
del diritto di accedere “direttamente” al cibo mediante l’accesso
alla terra, esprimendo un favor per la piccola e media proprietà
fondiaria e per la coltivazione diretta del suolo (art. 47)35. L’art.
32. Amplius in M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 340-359.
33. L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia Vol.
II. Teoria della democrazia, cit. 599; L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del
diritto e della democrazia. Vol. I Teoria del diritto, 776-782 e 767-772.
34. Cfr. G. Arena, Il cibo, un bene comune “relazionale”, in Cibo, spazi
urbani, cittadini. Verso un’amministrazione condivisa dell’Urban food policy
di Torino - Primo Quaderno Labsus, Dicembre 2016 in: www.labsus.it, 83-85;
M. Bottiglieri, Dal diritto alla città del cibo, l’Urban Food Policy. Verso nuove forme di partnership pubblico-privata in Cibo, spazi urbani, cittadini. Cit.,
46-52. Cfr. T. Ferrando, Il sistema cibo come bene comune in: A. Quarta – S.
Spanò, Cibo 2.0., Mimesis, Milano 2016, 99-112.
35. M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 369-370.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
31
45 può offrire un fondamento costituzionale alla cooperazione
sociale in materia di produzione e distribuzione di cibo36, mentre
l’art. 47 Cost., da un lato, sembra poter tutelare indirettamente il
diritto al risparmio alimentare (e dunque la lotta agli sprechi di
cibo) e dall’altro sembra esprimere un favor per un sistema creditizio che, anziché speculare sui prezzi degli alimenti, decida di
investire sul cibo inteso quale bene sociale37.
3. La prospettiva dei doveri
La lettura della Costituzione italiana alla luce del right to food
approach risulterebbe incompleta senza tener conto della prospettiva dei doveri.
3.1. I doveri pubblici dello Stato
Il primo soggetto titolare del dovere di nutrire i cittadini è lo
Stato che, sulla base dei Trattati internazionali, è depositario di
doveri generali e doveri specifici38. Sono doveri specifici:
1. il dovere di rispettare il diritto al cibo, di astenersi cioè da
comportamenti che possono limitare l’esercizio del diritto
di accedere a un cibo adeguato: si tratta di un dovere negativo, che è ad esempio rispettato dalle disposizioni che,
riconoscendo la libertà di culto e i correlati rituali alimentari, impegnano lo Stato a rispettare un accesso al cibo accettabile dal punto di vista culturale e religioso;
36. Ivi, 404-405.
37. Ivi, 370-373.
38. C. Golay – J. Ziegler - C. Mahon – S. Way, op.cit., 18-22; Golay,
op.cit, 81-112 e 119-121; O. De Schutter, op. cit., 242-253.
32
Maria Bottiglieri
2. il dovere di proteggere il diritto al cibo richiede allo Stato di intervenire con misure ad hoc quando altri soggetti
privati neghino alle persone di realizzare tale diritto; si
pensi, ad esempio, alla legislazione sull’igiene degli alimenti che pone limiti alla libera iniziativa economica delle aziende alimentari nell’intento di proteggere il diritto
dei consumatori di accedere a un cibo sano39;
3. il dovere di soddisfare pienamente o rendere effettivo il
diritto al cibo richiede che lo Stato faciliti, con azioni positive, l’accesso al cibo adeguato da parte dei soggetti e
dei gruppi più vulnerabili; tale obbligo può essere attuato
sia con misure di sostegno del reddito che misure di assistenza alimentare (dalla social card all’organizzazione
del servizio di ristorazione delle mense pubbliche).
Di questi tre obblighi, i primi due, ovvero quelli di rispettare
e proteggere il diritto al cibo non hanno costi pubblici, e pertanto
non sussistono impedimenti teorici o pratici affinché sia data loro
effettività. L’unico obbligo finanziariamente condizionato è il
terzo, che, per le Convenzioni internazionali40, può essere adempiuto dallo Stato solo nei limiti delle risorse disponibili e, nel
caso italiano, nel rispetto del principio di equilibrio del bilancio
di cui agli artt. 81, 97 e 119 Cost.
Se per le fonti internazionali i diritti sociali, tra i quali è convenzionalmente inquadrato il diritto al cibo, sono tutelabili solo
nei limiti delle risorse disponibili, nella Costituzione italiana i
diritti sociali andrebbero garantiti esattamente come quelli civili,
ma limitatamente alla misura in cui risultino garantiti i “livel39. Cfr. Regolamento (CE) N. 852/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 Aprile 2004.
40. Cfr. in particolare l’art. 2 Convenzione internazionale suoi diritti economici, sociali e culturali.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
33
li essenziali delle prestazioni” (art. 117.3 lett m) Cost). Anche
per le diverse dimensioni del diritto al cibo, dunque, la questione della finanziabilità e il problema del bilanciamento tra questo
implicito diritto costituzionale e l’esplicito principio di equilibrio
finanziario dovrebbe porsi solo per la misura superiore al contenuto minimo e ai livelli essenziali delle relative prestazioni41.
Nel caso in cui risulti necessario garantire tale diritto nella misura superiore ai livelli essenziali, il problema della finanziabilità
della spesa potrebbe continuare ad essere escluso laddove i costi
per attivare i servizi di assistenza alimentare non siano a carico
delle Pubbliche amministrazioni ma siano “scaricabili” sul mercato. Si pensi, ad esempio, alle mense pubbliche (penitenziari, ospedali, scuole…): in questi casi la spesa pubblica resterebbe invariata
se, a parità di fondi pubblici stanziati, la pubblica amministrazione
procedente inserisse nei capitolati d’appalto, ex art. 2 Codice contratti pubblici, “clausole sociali” (con le quali si richieda ai fornitori di prevedere l’erogazione di pasti rispettosi delle tradizioni
alimentari religiose e culturali dei beneficiari) o “clausole verdi”
(nelle quali si richieda la fornitura di cibo biologico o a km zero).
Sulla base di queste considerazioni, dunque, il tema della finanziabilità del diritto al cibo dovrebbe porsi solo nel caso
di prestazioni che superano la misura dei livelli essenziali e in
quest’ambito solo nel caso in cui i relativi costi non siano altrimenti finanziabili con risorse diverse da quelle pubbliche42.
41. «Pur non essendo sovrapponibili il contenuto minimo essenziale di un
diritto e i livelli essenziali delle prestazioni tese a garantirlo – i livelli essenziali
delle prestazioni devono garantire almeno quel contenuto» (C. Tripodina, Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa. Sui fondamenti costituzionali del reddito
di cittadinanza, Torino, G. Giappichelli, 2013, 213).
42. Per un ulteriore proposta di lettura della finanziabilità degli obblighi
di garantire il diritto al cibo in tempo di crisi cfr. D. Fasciglione, La tutela del
diritto all’alimentazione in situazioni di crisi economico-finanziaria: alcune
riflessioni, in Diritti umani e diritti internazionali 2/2014, 429-449.
34
Maria Bottiglieri
3.2.Dal dovere pubblico di solidarietà alimentare ai doveri privati di fraternità conviviale
Il dovere pubblico di rendere effettive tutte le dimensioni costituzionali del diritto al cibo può essere descritto anche in termini
di solidarietà alimentare, qui intesa come quel dovere che ha la
Repubblica, così come composta ex art. 114 Cost., di “rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà di essere liberi dalla fame … impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione effettiva di tutti
all’organizzazione politica, economica e sociale di ogni Paese”
(per parafrasare l’art. 3 della Costituzione italiana).
Accanto a questo principio di solidarietà alimentare, ci sembra possa emergere un principio di fraternità conviviale, espressione con cui si intende evocare la dimensione della convivialità
della fraternità, quel mangiare alla stessa mensa che è la caratteristica dell’ambiente familiare, amicale, religioso, civico43.
Fraternità conviviale e solidarietà alimentare costituiscono
una proposta di declinazione del principio di solidarietà, sia di
quella fraterna o sociale - che si sviluppa tra pari, operando sul
piano orizzontale (fondata sull’art. 2 Cost.) - che di quella pubblica o paterna – operante invece sul piano verticale (fondata
sull’art. 3.2 Cost.)44.
Le misure che attuano il principio di fraternità conviviale sono
numerose e possono individuarsi almeno due tipologie: quelle
che attribuiscono obblighi giuridici (come l’obbligo di mantenimento alimentare tra coniugi) e quelle da cui scaturiscono doveri
non giustiziabili: si pensi alle associazioni di volontariato attive
43. M. Bottiglieri, Tra “solidarietà alimentare” e “fraternità conviviale”.
Il diritto al cibo e i nostri doveri, in Munera 2/2015, 65-75.
44. F. Pizzolato, Il principio costituzionale di fraternità, Milano, Città
Nuova, 2012, 110 e 124-124.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
35
nelle mense dei poveri o alle ONG che lottano contro la fame nel
mondo45.
3.3. L’interdipendenza tra doveri: il caso delle mense benefiche
Il caso studio delle mense benefiche della Città di Torino può
mostrare come il settore pubblico e privato possono contribuire
a rendere effettivo il diritto al cibo adeguato delle persone più
vulnerabili, in una logica di interdipendenza dei doveri46.
Le mense benefiche vivono grazie allo spirito di fraternità
conviviale di migliaia di volontari di associazioni non profit, laiche e d’ispirazione religiosa, e grazie alla responsabilità sociale
delle imprese che forniscono parte del cibo necessario a preparare i pasti (si pensi agli alimenti in scadenza nei supermercati
veicolati nelle mense anche tramite il sistema del Banco alimentare). In alcuni casi, come a Torino, a tali dinamiche si affiancano
politiche pubbliche locali di solidarietà alimentare, nelle quali
l’attività fraterna del volontariato è riconosciuta, valorizzata e
rivestita di dignità istituzionale. Questo riconoscimento si manifesta almeno in due modi: innanzitutto con un supporto, non
finanziario, ma alimentare, da parte del Comune, il quale, sulla
base di convenzioni ad hoc rifornisce le singole mense, di una
quota/parte dei pasti47. A questo supporto materiale se ne aggiunge uno organizzativo: il coordinamento, nel c.d. “tavolo mense”,
45. M. Bottiglieri 2015, Tra “solidarietà alimentare” e “fraternità conviviale” Cit., 65-75.
46. H. Shue, The Interdependences of Duties, in P. Alston - K Tomasevski
(a cura di), The Right to Food, Leiden, Martinus Nijhoff Publishers, 1984, 8395.
47. La Città di Torino ha investito per il biennio 2014-2016, circa due milioni di euro per approvvigionare le mense grazie ai quali fornisce 120.000
pasti annui ai senzatetto e i pasti destinati alle residenze per anziani. Sul punto
cfr. infra nota 47.
36
Maria Bottiglieri
tra mense diurne e asili notturni, mense feriali e festive, ha consentito di articolare il servizio in modo tale che non ci sia un solo
giorno della settimana, o una fascia oraria, in cui una delle mense
del territorio non sia aperta al pubblico48.
Gli elementi che caratterizzano il caso menzionato sono il meccanismo sussidiario, il carattere di mutuo-aiuto, i meccanismi di
relazionalità e interdipendenza, la partnership pubblico privata e
la sostenibilità finanziaria. Rispetto a quest’ultima, in particolare,
va evidenziato che se fossero gli enti pubblici a doversi accollare
l’intero onere economico per la gestione del servizio di assistenza
alimentare (si pensi se in luogo dei volontari occorresse assumere
personale), i costi non sarebbero sostenibili.
Questo caso dimostra che la solidarietà non è sempre un costo ma in taluni casi è un risparmio. Viceversa, è il non attivare
meccanismi di solidarietà che potrebbe costituire un incremento
della spesa pubblica.
Il servizio di assistenza alimentare delle mense benefiche non
è cogente per tutti i comuni italiani, ma è frutto dell’attività discrezionale della PA: rientra quindi nella disponibilità di ogni
municipalità scegliere questa o altra prestazione di contrasto alla
povertà. Il Comune di Torino ha attivato tale servizio sulla base
di una originale interpretazione dell’art. 22 D.lgs. 328/2000 e
della LR Piemonte 1/200449.
48. U. Moreggia, Cibo e fragilità sociali, in M. Baradello – M. Botti– L. Fiermonte – G. Mascia (a cura di), Cibo e città. Atti del I workshop
del progetto europeo “4cities4dev. Access to good, clean, fair food, Roma, Ancicomunicare, 2012, 55-57 e Torino per te. Guida ai servizi, su www.comune.
torino.it.
49. Si definisce tale interpretazione originale perché nessuna delle disposizioni legislative menzionate richiama in modo esplicito il dovere di nutrizione
dei più vulnerabili ma la più generica categoria delle misure di contrasto alla
povertà (art. 22.2. lett a) L. 328/2000) e il superamento delle carenze del reddito
familiare e contrasto della povertà (L.R. 1/2004 art. 18 comma 1lett. a). È quin-
glieri
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
37
Questo significa che se un servizio di assistenza alimentare
per gli affamati esiste50, non si tratta però di un servizio dovuto
ma di una mera facoltà, frutto della discrezionalità amministrativa di ogni singolo ente. In questo elemento risiede la principale
differenza tra il servizio di assistenza alimentare di affamati in
senso fisiologico e quello di assistenza sanitaria di indigenti in
carenza alimentare di tipo patologico: se il semplice affamato
non ha diritto a mangiare, ma un mero interesse, l’affamato che
si trovi in uno stato di patologica e cronica mancanza di cibo
adeguato ha, invece, diritto a cure appropriate e gratuite (laddove
ne ricorrano i presupposti). Consegue che se una malnutrizione
rimediabile con un semplice piatto di pasta non conferisce un
diritto a una prestazione di assistenza alimentare, una malnutrizione patologica attribuisce invece il diritto alla prestazione di
assistenza sanitaria. La contraddizione del sistema non risiede
solo nell’illogicità del paradosso ma sta anche nel fatto che i costi
delle prestazioni sanitarie tese a rimuovere le cause di malnutrizione sono certamente più alti di quelli della prestazione socio-alimentare tese a nutrire l’affamato in condizioni fisiologiche.
Tale aporia è uno degli indicatori più evidenti del fatto che
l’assenza di un presidio normativo di rilievo costituzionale, che
tuteli in modo esplicito il diritto al cibo, crea vuoti di tutela e
contraddizioni di un sistema in cui è tutelato il diritto alla salute
ma non la sua precondizione, cioè il diritto ad essere nutriti.
di una scelta amministrativa della municipalità individuare nelle mense benefiche una misura di contrasto della povertà urbana, scelta esplicitata e motivata
nella determina di indizione della gara che approva il capitolato per il servizio di
ristorazione in tali mense (det. 2013 05180/005): «Il servizio oggetto del presente
provvedimento è da intendersi obbligatorio in quanto previsto espressamente dalle
normative vigenti».
50. Contra A. Gusmai, op.cit., 18.
38
Maria Bottiglieri
4. Le caratteristiche del diritto al cibo adeguato
Sulla base di questo breve excursus sui fondamenti costituzionali
delle diverse dimensioni del diritto al cibo, si intende descriverne
le caratteristiche, soffermandosi in particolare sui seguenti elementi: soggetto beneficiario, oggetto, interesse protetto, funzioni, soggetti obbligati, qualificazione51.
1. Soggetto beneficiario. A differenza della normativa internazionale, la Costituzione non tutela il diritto dell’affamato
tout court ma solo in quanto figlio, malato, credente, inabile
al lavoro52. Si tratta di un’assenza di tutela diretta e nominata, perché in via indiretta il diritto dell’affamato è ricavabile
dall’art. 3 Cost. (potendo considerarsi la fame una condizione personale da rimuovere) e dal principio personalista che
permea l’intera Carta costituzionale. Pur nell’apparente pluralità dei beneficiari di questo diritto (il malato, il detenuto,
il figlio il genitore, lo studente, l’agricoltore, l’imprenditore,
il consumatore, l’uomo, la donna, …) è tuttavia ravvisabile
un trait d’union che consente di individuare il beneficiario
di diritto al cibo come colui “che si trova nello stato di bisogno di cibo adeguato e dignitoso”. È questa caratteristica
che accomuna il malato di bulimia o epilessia con il bambino denutrito, il detenuto con lo studente.
2. Oggetto della tutela. L’oggetto di tale diritto appare complesso e a struttura multidimensionale53, ma con uno zoc51. Amplius M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 492-499.
52. Sul tema, cfr. A. Buonomo, Introduzione alla parte II Diritto al cibo,
cibo e diritti, in G. Mascia – D. Tintori (a cura di), Nutrire il pianeta? Per una
alimentazione giusta, sostenibile, conviviale, Milano, Bruno Mondadori, 2015.
53. Sulle dimensioni costituzionali del diritto al cibo cfr. supra par. 2.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
39
colo duro, rappresentato dall’unico interesse del beneficiario ad accedere al cibo in modo dignitoso e adeguato
alla propria personalità, cultura, religione, condizione personale o sociale. In tal senso il diritto al cibo può essere
definito come “formula sintetica” con la quale si esprime
la garanzia di una pluralità di situazioni.
3. Interesse protetto. L’oggetto proteiforme si riflette nella
pluralità dell’interesse protetto: l’accesso al cibo, in tal
senso, si manifesta sia come diritto soggettivo, sia come
interesse legittimo. È ad esempio un diritto soggettivo
quando presenta dimensioni ascrivibili alle libertà (libertà
religiosa) e ai diritti sociali (diritto alla salute). Invece la
sana ed efficace gestione di servizi pubblici relativi al cibo
(mense scolastiche, mense ospedaliere, mense benefiche)
configura un interesse legittimo.
4. Funzioni. Tre sono le possibili funzioni di questo diritto.
In primo luogo il diritto al cibo è un presupposto e una
precondizione per godere pienamente di altri diritti fondamentali come il diritto alla vita e il diritto a un’esistenza
libera e dignitosa: in tal senso esso è un basic right54; in secondo luogo, il diritto al cibo appare come il fine ulteriore
a cui sono preordinati altri diritti: il diritto al lavoro e a una
retribuzione equa come il diritto alla terra sono finalizzati
a garantire anche un miglior accesso al cibo del lavoratore
e dell’agricoltore; in terzo luogo, il diritto al cibo adeguato
si pone come limite di altre libertà costituzionali: il diritto
al cibo sano dei consumatori è, ad esempio, limite della libertà di iniziativa economica privata dei produttori di cibo.
54. Nel senso descritto da H. Shue, Basic Rights. Subsistence, Affluence
and U.S. Foreign Policy, II, Princeton (NY), Princeton University Press 1996,
17-18.
40
Maria Bottiglieri
5. Soggetti obbligati. I soggetti costituzionalmente obbligati a rispettare il diritto al cibo sono pubblici e privati: gli
obbligati pubblici ovvero la Repubblica intesa come autonomie locali (città, città metropolitana, province, regioni),
Stato (con tutte le sue articolazioni amministrative) fino
ad arrivare alle autonomie funzionali (come la scuola o
l’università); gli obbligati privati, tra i quali si distinguono
sia quelli che sono titolari di specifici obblighi di legge per
ragioni di prossimità all’affamato (si pensi agli obblighi in
materia di igiene degli alimenti degli OSA – gli operatori
del settore alimentare - nei confronti dei consumatori di
alimenti o dei genitori verso i figli) sia coloro che sono
titolari di meri doveri di fraternità alimentare, non giustiziabili (si pensi ai volontari delle mense benefiche e delle
ONG attive nei progetti contro la fame nel mondo).
6. Qualificazione. “Il cibo è il nostro più fondamentale bisogno e diritto”, è stato affermato in sede europea55. Nonostante il carattere fondamentale del diritto al cibo sia
ricavabile dal dato testuale di questa come di altre carte
internazionali, sussistono anche altri elementi che aiutano
a intendere le ragioni sulla cui base il riconoscimento della
fondamentalità del bisogno non costituisce l’unica motivazione su cui si basa la fondamentalità del corrispondente
diritto. Un diritto è definibile fondamentale quando il biso55. Cfr. Ris. 1957/2013 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa su cui J. Luther, Le scienze e le norme dell’alimentazione in una umanità
in crescita in Macchia (a cura di), La persona e l’alimentazione: profili clinici, giuridici, culturali ed etico-religiosi - Asti, 30 novembre 2012 - (Collana “
Diritto e Ambiente” dell’Univ. di Pavia diretta dal Prof. G. Cordini), Aracne,
Roma, 2014, 379-383 e M. Bottiglieri, Le autonomie locali sono tenute ad attuare il diritto al cibo adeguato dei cittadini europei? Commento a risoluzione
assemblea parlamentare del Consiglio D’Europa n. 1957/2013 adottata il 3
ottobre 2013, in Opal 4/2014 - Polis working papers 213/2014, 65-87.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
41
gno sia tale non solo in senso soggettivo ma anche in senso
oggettivo. Occorre cioè che la pretesa non sia particolare
ma universale56. E nel bisogno di cibo di circa 800 milioni
di persone affamate, tale universalità è sembrata ravvisabile. Un altro criterio di individuazione della fondamentalità
dei diritti è stata ravvisata nella loro attitudine a costituire
la tecnica normativa più idonea a conseguire l’eguaglianza, la democrazia, la pace, la tutela del più debole57. In tal
senso, il diritto al cibo adeguato sembra costituire tecnica
normativa idonea a perseguire tutti e quattro tali criteri assiologici: soprattutto l’eguaglianza e la tutela del soggetto
giuridicamente più debole.
Come noto, le classificazioni dei diritti fondamentali sono differenti: parte della dottrina ha distinto i diritti in prima, seconda
e terza generazione, altra parte in diritti civili e politici, sociali
economici e culturali. Le Carte internazionali qualificano il diritto al cibo come diritto sociale o diritto di seconda generazione.
Dalla disamina appena effettuata, invece, emerge che la Costituzione italiana non si limita a tutelare la dimensione sociale di
questo diritto ma ne protegge tutte le dimensioni: civile (si pensi
alla libertà personale di autodeterminarsi in materia alimentare),
sociale (si pensi all’assistenza alimentare nelle mense benefiche),
economica (si pensi ai diritti del consumatore di alimenti) e di
terza generazione (si pensi al tema della sostenibilità ambientale della produzione agroalimentare). Probabilmente sul diritto al
cibo si manifesta con particolare evidenza la tesi di quanti ritengono sterili le suddivisioni dei diritti in diverse categorie. Ecco
56. M. Cartabia, Gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali in Iustitia
4/2008, 399 e ss.
57. L. Ferrajoli, I diritti fondamentali, Roma – Bari, Editori Laterza, 2001,
300.
42
Maria Bottiglieri
perché non si ritiene utile ascrivere il diritto al cibo a una specifica categoria mentre invece si ritiene appropriato evidenziarne
la sua multidimensionalità. In quest’ottica si preferisce definirlo, più che nuovo diritto, un “diritto costituzionalmente nuovo”
poiché in nessuna delle sue dimensione, costituirebbe un nuovo
diritto in senso sostanziale. Esso, invece, è nuovo perché tale nel
nostro ordinamento ne sarebbe la sua autonoma formulazione,
attesa l’assenza di una sua esplicita configurazione. Si tratterebbe, cioè, di un nuovo modo di proteggere vecchi bisogni.
5. Prospettive regolatorie
Dall’analisi delle dimensioni costituzionali del diritto al cibo e
dei doveri di rispettarlo emergono alcune proposte regolatorie di
valenza costituzionale, utili a colmare i vuoti di tutela ravvisabili
nell’ordinamento italiano.
Sebbene una migliore tutela giuridica di questo diritto appaia
come indifferibile, non si ritiene necessaria una sua costituzionalizzazione esplicita58.
Le ragioni sono numerose, qui se ne segnalano alcune. In primo luogo l’argomento comparato, che mostra come il diritto al
cibo sia diversamente collocato nei testi costituzionali, sulla base
delle differenti culture dei diritti fondamentali: vi sono Costituzioni che riconoscono questo diritto tra quelli fondamentali, altre
tra i diritti civili, altre ancora tra i diritti sociali, altri tra i principi
direttivi, altre infine nell’ambito di principi identitari ancestrali
(come il boliviano o ecuadoregno principio del buen vivir)59. Il
58. M. Bottiglieri – F. Pizzolato op.cit, 41-45.
59. M. Bottiglieri, Il diritto ad un cibo adeguato: profili comparati di tutela costituzionale e questioni di giustiziabilità 2014, 217-260.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
43
diritto al cibo, pertanto non può essere aggiunto nella Costituzione italiana ex abrupto, ma occorrerebbe un previo processo di
riponderazione di questo diritto all’interno del sistema di tutela
degli altri diritti fondamentali. Tuttavia, riconsiderare l’intero sistema di tutela dei principi e diritti costituzionali significherebbe
entrare nella riconsiderazione degli stessi fondamenti su cui si
poggia il patto costituente.
La costituzionalizzazione del diritto al cibo, inoltre, non appare necessaria anche perché le sue numerose dimensioni risultano
già altrimenti protette o proteggibili dalla Carta costituzionale,
come si è tentato fin qui di evidenziare.
D’altra parte è in questo quadro costituzionale che si sono
iscritte alcune recenti leggi regionali che promuovono esplicitamente il diritto al cibo o ne regolano alcuni suoi aspetti rilevanti
(come quello degli sprechi alimentari)60. Ed è sempre a partire
da questa cornice costituzionale che sono state emanate sentenze del Giudice delle Leggi che ne ha recepito o enucleato alcuni rilevanti aspetti61, proprio come già avvenuto per altri diritti
fondamentali di estrema rilevanza (si pensi al diritto alla vita o
all’ambiente o alla privacy), la cui assenza di tutela testuale non
ha impedito alla giurisprudenza costituzionale o alla legislazione
di offrir loro garanzie adeguate.
60. Cfr. art. 5 Statuto Regione Abruzzo o LR Lombardia 94/2015 “Legge di
riconoscimento, tutela e promozione del diritto al cibo.
61. Si pensi al diritto agli alimenti nel diritto di famiglia definito dalla giurisprudenza costituzionale come un “nuovo diritto” rispetto a quelli costituzionalmente previsti (così Cort cost 37/1985 ma cfr. anche Cort cost 209/1984) o
alla pretesa giuridica del neonato, nato da madre sieropositiva, ad ottenere dal
SSN la prestazione, essenziale, di nutrizione con latte artificiale (Cort. cost.
467/2005 n. 3.4. e 4 dei considerata in diritto), o ancora al diritto a “prestazioni
imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno alimentare” fondato
sul combinato disposto degli artt. 2, 3.2. 38 Cost. e art. 117 lett m) (Cort. cost.
10/2010).
44
Maria Bottiglieri
Ciononostante, un intervento legislativo, non di livello costituzionale, ma di dignità costituzionale, è tuttavia indifferibile sia
per colmare quegli inaccettabili vuoti di tutela dovuti all’assenza
di un presidio normativo esplicito che sottolinei la fondamentalità
del diritto, sia per razionalizzare l’opposto fenomeno di iper-normazione nelle materie di dettaglio che regolano le sue diverse
dimensioni (dalla macellazione rituale all’igiene pubblica, dalla
normativa in materia agraria a quella in materia ambientale).
Diverse sono le possibili prospettive regolatorie, se ne segnalano due:
1. la Legge–quadro, particolarmente raccomandata in sede
internazionale, per la sua capacità di affrontare una materia multi-settoriale come quella del cibo: essa infatti dovrebbe limitarsi a definire obblighi e principi generali da
implementare, mentre lascerebbe alle autorità competenti
(per il caso italiano sia quelle statali che quelle regionali)
il compito di definire le specifiche misure che li rendano
effettivi62;
2. Il Testo unico complesso che potrebbe costituire l’esito della
revisione della legislazione vigente in materia di alimentazione, secondo la metodologia proposta nelle linee guida
della FAO63. Il Testo Unico del diritto al cibo dovrebbe tener
conto della pluralità delle materie afferenti alle molteplici
62. General Comments n. 12 par. 29: “Gli Stati dovrebbero prendere in
considerazione l’adozione di una legge quadro come un importante strumento
per l’attuazione della strategia nazionale relativa al diritto al cibo. La legge
quadro dovrebbe prevedere disposizioni che ne definiscano le funzioni, il target, gli obiettivi da raggiungere e l’arco di tempo entro cui raggiungere tali
finalità” (traduzione dell’autrice). Sul tema della legge-quadro, cfr. FAO Guide
on legislating for the right to food, Roma, Fao, 2009, all’indirizzo: www.fao.
org, 51-181.
63. Ibidem 186-269.
La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana
45
dimensioni del diritto al cibo e della diversità delle fonti (regionali, nazionali ed europee e, nell’ambito di ogni livello,
fonti di tipo diverso come regolamenti e leggi).
Qualunque sia la tipologia che il legislatore vorrà prescegliere, deve restar fermo l’obiettivo regolatorio: sistematizzare
la materia per rafforzare le tutele. In altri termini occorrerebbe
realizzare un’operazione analoga è quella che è stata effettuata
con il Codice del consumo. Anche in quel caso, pur essendo palese che i diritti dei consumatori fossero già latenti nel sistema e
avessero già un loro fondamento costituzionale, è innegabile che
l’aver tipizzato i diritti fondamentali dei consumatori all’art. 2
del d.lgs 206/2005 ha sistematizzato le tutele e ha reso tali diritti
finalmente effettivi e soprattutto pienamente giustiziabili.
E il diritto al cibo, nell’ordinamento giuridico italiano, ha proprio bisogno di questo: non tanto o non solo di essere giustificato
quanto di essere protetto64.
64. N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 2005, 16.
Sul diritto all’alimentazione come diritto
(anche) culturale
Giovanni Cavaggion
Sommario: 1. I molti possibili volti del diritto al cibo. 2. Cibo e diritti culturali:
la libertà di scegliere come alimentarsi. 3. Diritto al cibo e libertà religiosa.
4. Diritto al cibo e diritto a mantenere la propria cultura (alimentare). 5. Il
possibile conflitto tra l’anima “biologica” e quella “culturale” del diritto al
cibo: il caso della dieta vegana. 6. Conclusioni.
1. I molti possibili volti del diritto al cibo
Alimentarsi non è un fatto meramente biologico: al contrario, si
tratta di un fatto anche (e forse soprattutto), sociale e culturale, al
punto che si è sostenuto che ogni attività umana che abbia a che
fare con il cibo, dalla produzione dello stesso fino alla sua consumazione, rappresenti una pratica culturale1. Del resto, il modo
in cui ci si approccia al cibo e all’alimentazione contribuisce alla
definizione dell’identità culturale della persona in una duplice
prospettiva: interna soggettiva, rafforzando il senso di appartenenza a un gruppo attraverso la condivisione delle scelte alimen1. Si veda: M. MOLINARI, Food is culture, New York, Columbia University
Press, 2006. Sul rapporto tra cibo, filosofia e cultura, si vedano, senza alcuna pretesa di esaustività, almeno: M. HARRIS, Good to eat: Riddles of food and culture, London, Allen & Unwin, 1986; P.G. KITTLER, K.P. SUCHER, M. NELMS,
Food and culture, Belmont, Wadsworth, 2012; C. COUNIHAN, P. VAN ESTERIK, Food and culture: a reader, New York, Routledge, 2013; M. FIORILLO, S.
SILVERIO (a cura di), Cibo, cultura, diritto, Modena, Mucchi, 2017.
47
48
Giovanni Cavaggion
tari2, ed esterna comunicativa, contribuendo a determinare come
gli altri ci percepiscono3.
A partire dal Secondo Dopoguerra, il cibo è divenuto l’oggetto
di uno specifico diritto umano, generalmente noto come “diritto
al cibo”, riconosciuto in numerose fonti del diritto internazionale
convenzionale. Nonostante la locuzione “diritto al cibo” possa
apparire, a prima vista, sufficientemente chiara, essa nasconde in
realtà un’ampia gamma di possibili significati, a seconda di come
si ritenga di aggettivare la parola cibo: il cibo può infatti essere inteso come cibo sufficiente, cibo adeguato, cibo qualificato,
cibo particolare, così mutando la portata e il contenuto del diritto
in esame. Ciò che si intende indagare in questa sede non è quindi
certo il complesso rapporto tra cibo e diritto, tema amplissimo
e già oggetto di approfonditi studi dottrinali, ma piuttosto se lo
stretto legame tra alimentazione e cultura possa fondare l’ascrivibilità del diritto al cibo (o almeno di una delle sue possibili
forme) alla categoria dei diritti culturali oltre o prima che a quelle
dei diritti economici e sociali.
Occorre peraltro precisare in via preliminare che, nonostante
nell’ambito dottrinale italiano si utilizzi prevalentemente la locuzione “diritto al cibo”, appare corretto intendere il diritto in
esame come riferito non soltanto al “cibo” in senso stretto, ma
altresì all’acqua e a ogni altro tipo di sostanzia abitualmente ingerita dall’essere umano.
L’origine del riconoscimento del diritto al cibo viene storicamente ricondotta all’articolo 25 della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo del 1948, per cui ogni individuo ha diritto
2. Si veda V. PACILLO, Nutrire l’anima. Cibo, diritto e religione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. speciale 1, 2014, 3.
3. Si vedano: P. G. KITTLER, K. P. SUCHER, M. NELMS, Food and culture, cit., 3; G. FILORAMO, A tavola con le religioni, in Quaderni di diritto e
politica ecclesiastica, n. speciale 1, 2014.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
49
a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere
propri e della sua famiglia, “con particolare riguardo all’alimentazione”4. Come noto, la Dichiarazione non è strumento giuridico
vincolante, ma il diritto al cibo nel senso appena menzionato ha
nondimeno fatto il suo ingresso nel diritto internazionale convenzionale a partire dal patto sui Diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966, che all’articolo 11 riconosce, oltre al diritto a un’alimentazione adeguata, il «diritto fondamentale di ogni individuo
alla libertà dalla fame»5. Negli anni successivi, alla tutela internazionale generalizzata di cui al Patto si sono affiancati livelli di
tutela più elevati per determinate categorie di individui ritenute
meritevoli di una più solida protezione, come ad esempio le donne in stato di gravidanza (articolo 12 della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle
4. Così l’articolo 25: «Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con
particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure
mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di
disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di
perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».
5. Così l’articolo 11: «Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto
di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia,
che includa un’alimentazione, un vestiario, ed un alloggio adeguati, nonché al
miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita. Gli Stati parti prenderanno misure idonee ad assicurare l’attuazione di questo diritto, e riconoscono
a tal fine l’importanza essenziale della cooperazione internazionale, basata sul
libero consenso. Gli Stati parti del presente Patto, riconoscendo il diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla fame, adotteranno, individualmente
e attraverso la cooperazione internazionale, tutte le misure, e fra queste anche
programmi concreti, che siano necessarie: a) per migliorare i metodi di produzione, di conservazione e di distribuzione delle derrate alimentari mediante
la piena applicazione delle conoscenze tecniche e scientifiche, la diffusione di
nozioni relative ai principi della nutrizione, e lo sviluppo o la riforma dei regimi agrari, in modo da conseguire l’accrescimento e l’utilizzazione più efficaci
delle risorse naturali; b) per assicurare un’equa distribuzione delle risorse alimentari mondiali in relazione ai bisogni, tenendo conto dei problemi tanto dei
Paesi importatori quanto dei Paesi esportatori di derrate alimentari».
50
Giovanni Cavaggion
donne del 1979)6 e i minori (articoli 24 e 27 della Convenzione
sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989)7. Il diritto in
esame è stato successivamente riconosciuto in un ampio numero
di fonti ulteriori del diritto internazionale e, soprattutto, in varie
fonti di soft law8.
Con riferimento al diritto costituzionale, è stato osservato
come il diritto al cibo abbia trovato riconoscimento prevalentemente nelle Costituzioni degli Stati nati dalla dissoluzione degli imperi coloniali ottocenteschi, caratterizzati da bassi livelli
di reddito e di sviluppo economico (i cosiddetti Stati “in via di
sviluppo”), mentre esso di norma non viene di norma menzionato nelle Costituzioni degli Stati appartenenti al cosiddetto “Occidente”, che evidentemente avvertivano il problema in misura
6. Così il comma 2 dell’articolo 12: «Nonostante quanto disposto nel paragrafo 1 del presente articolo, gli Stati parti forniranno alle donne, durante
la gravidanza, al momento del parto e dopo il parto, i servizi appropriati e, se
necessario, gratuiti, ed una alimentazione adeguata sia durante la gravidanza
che durante l’allattamento».
7. Così l’articolo 24: «Gli Stati parti riconoscono il diritto del minore di
godere del miglior stato di salute possibile e di beneficiare di servizi medici
e di riabilitazione. Essi si sforzano di garantire che nessun minore sia privato
del diritto di avere accesso a tali servizi. Gli Stati parti si sforzano di garantire
l’attuazione integrale del summenzionato diritto e in particolare adottano ogni
adeguato provvedimento per: [...] c) lottare contro la malattia e la malnutrizione, anche nell’ambito delle cure sanitarie primarie, in particolare mediante
l’utilizzazione di tecniche agevolmente disponibili e la fornitura di alimenti nutritivi e di acqua potabile, tenendo conto dei pericoli e dei rischi di inquinamento dell’ambiente naturale”. Così il comma 3 dell’articolo 27: “Gli Stati parti
adottano adeguati provvedimenti, in considerazione delle condizioni nazionali
e compatibilmente con i loro mezzi, per aiutare i genitori e altre persone aventi
la custodia del fanciullo ad attuare questo diritto e offrono, se del caso, un’assistenza materiale e programmi di sostegno, in particolare per quanto riguarda
l’alimentazione, il vestiario e l’alloggio».
8. Per una ricognizione delle diverse fonti del diritto internazionale che
riconoscono il diritto al cibo si veda M. BOTTIGLIERI, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale
“nuovo”, in POLIS Working Papers, n. 222, 2015, 69 ss.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
51
molto inferiore9. Pertanto, il fondamento del diritto al cibo è stato
storicamente ricondotto, nel costituzionalismo europeo, all’ambito di applicazione di altri diritti fondamentali espressamente
riconosciuti.
Anche con riferimento all’ordinamento costituzionale italiano le intersezioni tra diritto al cibo e diritti costituzionali fondamentali sono molteplici, al punto che non risulta del tutto chiaro
fino a che punto esso possa essere considerato come diritto provvisto di una sua autonomia ontologica e, per converso, se esso
non possa essere invece ricondotto, a ben vedere, a situazioni
giuridiche già tutelate da diritti costituzionali espressamente riconosciuti. In questo, senso, secondo un approccio riduzionista,
il diritto al cibo potrebbe essere ricondotto, a seconda delle diverse accezioni secondo le quali esso viene inteso, al diritto alla
vita, al diritto alla salute, al diritto alla libertà di espressione, al
diritto alla libertà religiosa.
In primo luogo, il diritto al cibo può essere ricondotto al diritto
alla vita laddove esso venga inteso come diritto al cibo sufficiente
per il mantenimento delle funzioni vitali dell’essere umano. Il diritto alla vita non è espressamente menzionato dalla Costituzione
repubblicana, ma il suo riconoscimento nell’ordinamento è ritenuto pacifico nella misura in cui esso rappresenta il presupposto
per il godimento di ogni altro diritto umano o fondamentale10. Se
9. In questo senso F. ALICINO, Il diritto al cibo. definizione normativa e
giustiziabilità, in Rivista AIC, n. 3, 2016, 3. Per un’ampia rassegna dei livelli di
tutela costituzionale del diritto al cibo nelle diverse Costituzioni si vedano: L.
KNUTH, M. VIDAR, Constitutional and legal protection of the right to food
around the World, Roma, FAO, 2011; M. BOTTIGLIERI, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale
“nuovo”, cit., 117 ss.
10. Cfr., per tutte: Corte Cost., n. 54/1979; Corte Cost., n. 223/1996. La
Consulta ha precisato che il diritto alla vita è “il primo dei diritti inviolabili
dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Costituzione”.
52
Giovanni Cavaggion
così configurato, il diritto al cibo dovrebbe essere quindi interpretato come il diritto “a non morire di fame”, e dunque configurerebbe in capo allo Stato un obbligo positivo di attivarsi affinché
ogni individuo disponga del nutrimento necessario e sufficiente
per vivere. È evidente che tale accezione rappresenta il limite
assolutamente minimo della possibile tutela del diritto in esame,
il suo nocciolo duro e incomprimibile che, se dovesse essere violato, finirebbe per privarlo di ogni significato, trasformandolo in
un “diritto di carta”, dichiarato ma non implementato.
In secondo luogo, il diritto al cibo può essere ricondotto al
diritto alla salute di cui all’articolo 32 Cost. laddove esso venga
inteso come diritto al cibo adeguato ai fini della conservazione
di uno stato di salute accettabile per l’essere umano11. Esso non
coprirebbe pertanto solo quel quantum di alimentazione necessario per il mantenimento delle funzioni vitali, ma tutelerebbe
altresì il diritto dell’individuo a nutrirsi con alimenti di qualità
sufficiente a garantire la permanenza in un buono stato di salute.
L’interpretazione in esame complica evidentemente il quadro, se
si considera che da un lato si pone in capo allo Stato un obbligo
positivo considerevolmente aggravato rispetto a quello di cui al
livello di tutela minimo sopradescritto, e dall’altro che quale sia
il livello di alimentazione adeguato per una piena implementazione del diritto alla salute è questione che si presta necessariamente a valutazioni di tipo soggettivo e relative a contesti storici,
sociali ed economici, oltre che (e forse soprattutto) geografici. Se
inteso nel senso appena descritto, il nucleo incomprimibile del
diritto al cibo subisce una evidente espansione: va peraltro osser11. In questo senso T. CERRUTI, La tutela del diritto ad un cibo adeguato
nella costituzione italiana, in G. Cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L.
Petrillo (a cura di), Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, vol. I, tomo II, Firenze, Fondazione CESIFIN
Alberto Predieri, 2016, 80 ss.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
53
vato che le due letture sinora analizzate non si pongono necessariamente in antitesi, nella misura in cui si potrebbe ipotizzare il
diritto al cibo sufficiente come livello minimo della tutela che lo
Stato deve necessariamente accordare, e il diritto al cibo adeguato come livello di tutela ulteriore suscettibile di bilanciamento (e
dunque comprimibile) in sede legislativa e giurisdizionale.
In queste prime due accezioni il diritto al cibo è riconducibile al tema del diritto a un’esistenza libera e dignitosa, e dunque
alla presa di coscienza del fatto che, a prescindere dalla pretesa
universalità dei diritti fondamentali e dall’eguaglianza dichiarata
tra gli individui, una molteplicità di fattori economici, sociali e
culturali ancora oggi ostano ad un pieno godimento dei diritti e
ad un’eguaglianza effettiva tra le persone12. In questo senso, la
lotta alla fame (che del resto non è altro che una delle manifestazioni, se non la manifestazione principale, della lotta alla povertà) diviene scopo quasi necessario dello Stato e del legislatore,
nella misura in cui essa è imposta ai fini di una reale rimozione,
ai sensi dell’articolo 3 Cost., di quegli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese13.
Si potrebbe pertanto argomentare che, ai fini di garantire appieno la dignità dell’essere umano, non basti il riconoscimento
del diritto al minimo vitale dell’alimentazione: se una vita dignitosa impone che l’essere umano sia in salute, il diritto al cibo non
12. Si veda S. RODOTÀ, Il diritto al cibo, Milano, Corriere della Sera,
2014.
13. Si veda A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’alimentazione, in G. Cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. Petrillo (a
cura di), Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo
sviluppo sostenibile, cit., 40.
54
Giovanni Cavaggion
può che essere un diritto al cibo adeguato. Tramite una lettura del
diritto al cibo attraverso il prisma della dignità umana si addiviene, pertanto, a un ampliamento del suo nucleo incomprimibile,
all’innalzamento del livello minimo di tutela che ricomprenda
non solo il cibo necessario a sopravvivere, ma anche il cibo necessario a vivere pienamente (dignitosamente). In questo senso
sembra del resto essere inteso il diritto al cibo nel diritto internazionale convenzionale, come chiarito dallo UN Committee on
Economic, Social and Cultural Rights, che ha precisato che il
diritto in esame non può dirsi tutelato tramite l’accesso a livelli
minimi di sostanze nutrienti (calorie, proteine, ecc.), ma solo tramite l’accesso a cibo che sia realmente adeguato secondo canoni
economici, sociali, sociali, climatici ed ecologici14.
La Corte Costituzionale ha assunto una posizione analoga ritenendo, con la sentenza n. 10/2010, che il «diritto a conseguire
le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo
bisogno in particolare, alimentare» sia riconducibile nel novero
dei diritti sociali «di cui deve farsi carico il legislatore nazionale». È quindi preciso compito dello Stato «garantire il nucleo irriducibile di questo diritto fondamentale», «che comprende anche
la previsione della appropriata e pronta erogazione di una determinata provvidenza in favore dei singoli», anche individuando i
livelli essenziali di prestazione di cui all’articolo 117 comma 2
lettera m) Cost. La Consulta peraltro, dopo avere condivisibilmente rinvenuto il fondamento del diritto in esame negli articoli
14. Cfr. UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights (CESCR),
General Comment No. 12: The Right to Adequate Food (Art. 11 of the Covenant), 12 maggio 1999, per cui «the right to adequate food is realized when
every man, woman and child, alone or in community with others, have physical
and economic access at all times to adequate food or means for its procurement.
The right to adequate food shall therefore not be interpreted in a narrow or restrictive sense which equates it with a minimum package of calories, proteins
and other specific nutrients».
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
55
2 e 3 Cost. (e dunque nei principi personalista, solidarista e di
eguaglianza sostanziale), abbastanza sorprendentemente non lo
riconduce al diritto alla salute di cui all’articolo 32 Cost., bensì al
diritto all’assistenza sociale di cui all’articolo 38 Cost.
2. Cibo e diritti culturali: la libertà di scegliere come alimentarsi
I possibili contenuti del diritto al cibo non si esauriscono tuttavia con
le letture “biologiche” sinora sommariamente descritte. Il diritto al
cibo può infatti assumere significati ulteriori man mano che, secondo un criterio di socialità progressiva15, si allarga l’ambito dell’indagine dalla sfera più ristretta delle libertà e dei diritti della persona
alla tutela delle manifestazioni esterne della personalità, e dunque
declinando il diritto in esame nella sfera della cultura. Del resto, la
stretta connessione, anche etimologica (la parola cultura deriva dal
latino colere, che significa coltivare) tra i concetti di cibo e cultura
è evidente: l’essere umano attribuisce particolari significati culturali
e sociali all’attività di produrre, preparare e consumare il cibo, che
non a caso è uno degli oggetti di studio principali dell’antropologia
culturale16. In questo senso si è detto che il cibo è la “cifra di una
esperienza sociale”, proprio perché è (anche) attraverso gli usi e le
pratiche alimentari che è possibile identificare un gruppo di individui secondo i loro valori, i loro usi e le loro abitudini17.
15. Si veda E. CHELI, Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia,
Bologna, Il Mulino, 1978, 32 ss.
16. Si veda sul tema M. FIORILLO, Quale ordine normativo per l’universo
alimentare nazionale, M. Fiorillo, S. Silverio (a cura di), Cibo, cultura, diritto,
cit., 9 ss.
17. Si veda A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’alimentazione, cit., 33.
56
Giovanni Cavaggion
Il cibo viene pertanto in rilievo, in primo luogo, nella misura
in cui esso è riconducibile all’ambito di tutela di cui all’articolo
9 Cost. nella sua interpretazione estensiva, e dunque allargata
sino a ricomprendere, oltre al patrimonio culturale “statico”,
le cosiddette attività culturali18. Si è sostenuto quindi che le
tradizioni alimentari, in quanto espressive di tradizioni e consuetudini culturali, sarebbero certamente provviste delle caratteristiche tipiche di quelle “testimonianze di memoria” che il
legislatore non deve soltanto tutelare, ma altresì promuovere
attraverso interventi proattivi19. Le tipicità agroalimentari e la
dieta mediterranea sono quindi da considerarsi, a tutti gli effetti, manifestazioni dell’identità culturale meritevoli di tutela
costituzionale20. L’impostazione in esame ha goduto di una sua
indubbia espansione in anni recenti, con l’introduzione di molteplici strumenti giuridici, a livello locale, statale e sovranazionale, volti a individuare, proteggere, conservare e valorizzare le
eccellenze enogastronomiche italiane, ritenute dei veri e propri
beni culturali21. In questo senso, il cibo e le tradizioni enogastronomiche divengono altresì una componente del complesso
insieme di beni che consente la promozione e la valorizzazione,
18. Sull’evoluzione dell’interpretazione dell’articolo 9 Cost. si vedano M. AINIS, M. FIORILLO, L’ordinamento della cultura, Milano, Giuffrè, 2015, 311 ss.
19. In questo senso M. FIORILLO, Quale ordine normativo per l’universo
alimentare nazionale, cit., 33 ss.
20. Si veda A. DENUZZO, Cibo e patrimonio culturale: alcune annotazioni, in Aedon, n. 1, 2017.
21. Il riferimento è a strumenti come ad esempio i marchi italiani DOC,
DOCG e IGT e i marchi europei DOP e IGP. Sul tema e per un’analisi dei diversi
strumenti in esame si vedano: S. SILVERIO, Il valore culturale delle eccellenze
enogastronomiche italiane, in M. Fiorillo, S. Silverio (a cura di), Cibo, cultura,
diritto, cit., 39 ss.; E. C. RAFFIOTTA, La protezione multilivello delle tipicità
agroalimentari tra diritto globale e legislazione nazionale, in: G. Cerrina Feroni,
T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. Petrillo (a cura di), Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo sostenibile, cit., 45.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
57
anche in chiave turistica, dell’intero patrimonio culturale italiano22.
È tuttavia evidente che le pratiche alimentari non possono essere ridotte alla semplice tutela del bene che ne costituisce l’oggetto, e dunque al cibo e alle metodologie della sua produzione
come mero oggetto di tutela e promozione. Se è vero come è vero
che la produzione e il consumo del cibo investono un’amplissima gamma di attività umane, oggetto di tutela secondo un’attenta lettura dell’articolo 9 Cost. che valorizzi altresì il portato
del principio personalista di cui all’articolo 2 Cost. non potrà
essere solo il cibo come bene culturale, ma altresì la posizione
giuridica soggettiva dell’individuo che lo produce o lo consuma.
Infatti, l’articolo 9 potrebbe essere letto come rafforzamento ed
integrazione costituzionale della garanzia dei diritti umani culturali sancita all’articolo 223. Il diritto culturale al cibo non potrà
quindi coincidere, come pure è stato proposto, con la sola tutela
del cibo in quanto manifestazione dell’identità culturale24, tutela
che sembra riconducibile piuttosto ad un interesse costituzionalmente rilevante. Se infatti la natura e il paesaggio sono la “forma
del Paese”, cibo e alimentazione concorrono alla definizione della “forma della persona”, e la loro protezione integra un vero e
proprio valore costituzionale25.
22. Si veda A. PAPA, Il turismo culturale in Italia: multilevel governance
e promozione dell’identità culturale locale, in Federalismi.it, n. 4, 2007, 1 ss.
23. Si vedano in questo senso: J. LUTHER, Articolo 9, in G. Neppi Modona (a
cura di), Stato della Costituzione, Milano, Il Saggiatore, 1998; P. BILANCIA, La
disciplina italiana dei beni culturali, in AA. VV., Problemas derivados del régimen
de protección de los bienes culturales en el País Vasco, Vitoria-Gasteiz, Ararteko,
2017.
24. Si veda F. POLACCHINI, Il diritto al cibo come diritto (anche) culturale, in G. Cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. Petrillo (a cura di),
Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo
sostenibile, cit., 175 ss.
25. Si veda A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’ali-
58
Giovanni Cavaggion
E così, in terzo luogo, il diritto al cibo può essere ricondotto
al diritto alla libertà di espressione di cui all’articolo 21 Cost.,
nella misura in cui il cibo diventa il veicolo dell’esternazione
comunicativa (e dell’espansione) della personalità dell’individuo. Nella società contemporanea, infatti, sempre più spesso
il cibo diviene oggetto di studi e ricerche, al punto che la cucina, la produzione di cibo, viene ormai paragonata, quando
esercitata ai più alti livelli, a volte ad una scienza, a volte ad
una vera e propria forma d’arte. Secondo l’interpretazione in
esame il diritto al cibo integrerebbe un diritto a produrre cibo,
e detta attività di produzione potrebbe essere ricondotta all’attività dell’artista o dello scienziato, e dunque essere ritenuta una
delle espressioni costituzionalmente rilevanti della personalità
tutelate dall’articolo 33 Cost., con ogni conseguenza in time di
libertà delle arti e delle scienze, e in particolare con ogni necessaria tutela contro forme di censura o di limitazione delle forme
di espressione in esame.
Si pensi, ad esempio, alla performance dell’artista cinese Zhu
Yu, che ha inscenato l’atto di mangiare dei feti26, o alle opere
dell’artista austriaco Hermann Nitsch, che utilizza carcasse di
animali mutilati e crocifissi ai fini di realizzare scene sanguinose
che simulano dei rituali nell’ambito dei quali i partecipanti sono
invitati, tra le altre cose, a mangiare la carne degli animali “sacrificati”27. Se inteso in questo senso, il diritto al cibo incontrerà
i limiti generali previsti per la libertà di espressione artistica, e
dunque andrà esente dal limite espresso del buon costume altrimentazione, cit., 38 ss.
26. Cfr. J. WILSON, Channel 4 to show artist eating dead baby, in The
Guardian, 30 dicembre 2002.
27. Cfr. E. MURGESE, Hermann Nitsch, l’artista che mutila e crocifigge
gli animali in mostra a Palermo: una petizione online per fermarlo, in Il Fatto
quotidiano, 25 giugno 2015.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
59
menti previsto in via generale per le altre forme di manifestazione del pensiero28.
Infine, il diritto al cibo può essere ricondotto al più generale
diritto alla cultura, inteso come diritto a mantenere la propria cultura e come protezione contro interventi assimilazionisti o discriminatori da parte del legislatore29. Se inteso in questo senso il diritto al cibo diventerebbe un diritto al cibo particolare, e dunque
il diritto a conservare determinate pratiche e tradizioni alimentari
espressive di una determinata cultura minoritaria, nonostante esse
non siano in uso, o addirittura siano vietate, nella cultura maggioritaria nell’ordinamento. Il tema intreccia evidentemente le
questioni complesse del multiculturalismo e della tutela che deve
necessariamente essere accordata ad ogni minoranza (e dunque
alle minoranze storiche così come alle “nuove minoranze”) nello Stato democratico e pluralista, caratterizzato da una diversità
culturale sempre crescente nell’era della globalizzazione. Laddove poi le pratiche alimentari, anche di digiuno o non consumo,
dovessero essere imposte dalle prescrizioni di una determinata
religione, si verserebbe in un caso particolare rispetto a quello
generale del diritto alla cultura, essendo la religione (e dunque la
posizione soggettiva tutelata dal diritto alla libertà religiosa) una
28. Sui limiti della libertà di espressione si veda S. CURRERI, Lezioni sui
diritti fondamentali, Torino, Giappichelli, 2012, 514 ss.
29. Il diritto in esame, pur non espressamente menzionato dalla Costituzione repubblicana, deve ritenersi costituzionalmente tutelato nella misura in
cui risulta corollario degli articoli 2, 3, 8, 19 e 21 Cost. Si vedano in questo
senso: P. BILANCIA, Diritto alla cultura. Un osservatorio sulla sostenibilità
culturale, in P. Bilancia (a cura di), Diritti culturali e nuovi modelli di sviluppo,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015; T. MAZZARESE, Diritto, diritti, pluralismo culturale. Un’introduzione, in T. Mazzarese (a cura di), Diritto,
tradizioni, traduzioni. La tutela dei diritti nelle società multiculturali, Torino,
Giappichelli, 2013, 10; F. SCUTO, Diritti culturali e multiculturalismo nello
Stato costituzionale, in P. Bilancia (a cura di), Diritti culturali e nuovi modelli
di sviluppo, cit.
60
Giovanni Cavaggion
delle molteplici possibili manifestazioni della cultura. Si potrebbe quindi sostenere che le pratiche alimentari religiose godano di
una protezione qualificata rispetto alle pratiche alimentari “solo”
culturali, nella misura in cui determinate espressioni culturali
(quali la religione e la lingua) godono nella tradizione costituzionale europea, per ragioni storiche, di una tutela rafforzata rispetto
alla cultura in senso lato.
Se si vuole ipotizzare un diritto al cibo come diritto culturale,
occorre poi fare riferimento alla distinzione tra diritti culturali negativi e diritti culturali positivi, poiché la categoria dei diritti culturali deve ritenersi trasversale rispetto alle categorie di diritti “classiche”30. Occorre inoltre fare riferimento alla nozione di diritto alla
cultura, inteso nella sopraccitata accezione di diritto a mantenere
la propria cultura, e dunque come diritto negativo individuale che
protegge la persona da ingerenze statuali nella propria identità culturale, come limite all’assimilazionismo e all’assorbimento delle
minoranze culturali nella cultura dominante nell’ordinamento.
E così se per diritto culturale al cibo si intende il diritto a
consumare determinati alimenti ovvero a produrre determinati
alimenti senza ingerenze da parte dello Stato, e dunque sostanzialmente un limite alla possibilità per lo Stato di vietare determinati cibi ovvero vietare determinati metodi di produzione o
preparazione dei cibi, a venire in rilievo è il diritto alla cultura (a
mantenere la propria cultura).
L’esempio evidente di questa prima interpretazione è rappresentato dalla regolamentazione, spesso restrittiva, della macellazione rituale praticata dalle minoranze musulmane e da quelle
ebraiche, su cui si tornerà a breve. L’istanza culturale avanzata è,
30. Si veda J. LUTHER, Le frontiere dei diritti culturali in Europa, in G.
Zagrebelsky (a cura di), Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Roma-Bari, Laterza, 2003, 226.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
61
in questi casi, semplicemente che lo Stato non si ingerisca delle
questioni in esame, e dunque non proibisca pratiche alimentari
profondamente radicate e, in alcuni casi, addirittura imposte da
prescrizioni religiose o culturali cogenti. In subordine, si chiede
che lo Stato riconosca il diritto a mantenere la propria cultura
nella forma di una specifica eccezione, e dunque introducendo un
diritto particolare e differenziato consentendo, per le sole minoranze, pratiche vietate per la generalità dei consociati.
Se si ritiene invece che il diritto culturale al cibo imponga allo
Stato non solo degli obblighi di astensione, ma anche degli obblighi
positivi di intervento, a venire in rilievo sono dei veri e propri diritti
culturali positivi. È questo il caso, ad esempio, laddove si ritenga
che lo Stato non debba limitarsi a non intervenire vietando o ostacolando pratiche culturali alimentari, ma debba altresì garantire che
per le minoranze culturali interessate sia sempre possibile accedere
ad alimenti particolari o prodotti secondo gli specifici metodi di preparazione richiesti. La questione in esame diviene particolarmente
rilevante con riferimento a individui che non possano liberamente
scegliere il loro regime alimentare proprio perché sottoposti a limitazioni più o meno significative della propria libertà presso strutture
statali, come sono ad esempio le strutture carcerarie, ospedaliere o
scolastiche. È stato infatti rilevato che sono proprio questi casi a costituire il “vero banco di prova” della tenuta dei principi costituzionali con riferimento alla libertà religiosa dell’individuo31.
Diverso è il discorso, poi, con riferimento al mondo del lavoro, e dunque vi è da chiedersi se esista un obbligo, per il datore di
lavoro, di accomodare le convinzioni e le esigenze alimentari del
dipendente, magari esentandolo da mansioni con esse contrastan31. Si veda in questo senso A. CESERANI, Cibo ‘religioso’ e diritto: a
margine di quattro recenti pubblicazioni, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 2, 2016, 375.
62
Giovanni Cavaggion
ti o rendendo disponibili scelte alimentari diversificate presso le
mense aziendali32.
Il caso in esame, infine, ricorre anche laddove si ritenga che
lo Stato possa e debba direttamente sovvenzionare le pratiche
culturali alimentari delle diverse minoranze presenti nell’ordinamento. Quello che si invoca è, di nuovo, un diritto differenziato,
che garantisca un trattamento particolare alle minoranze in attuazione del principio di eguaglianza sostanziale, dal momento
che esse si troverebbero in una situazione oggettivamente svantaggiata proprio in virtù dell’adesione a pratiche culturali non
condivise dalla maggioranza culturale nell’ordinamento.
Se su quest’ultima impostazione il dibattito è forse possibile,
sembra invece impossibile negare l’esistenza di un diritto a cibarsi secondo la propria cultura, e pertanto il contenuto minimo
o essenziale del diritto al cibo come diritto culturale deve necessariamente essere individuato nella libertà di scegliere il proprio cibo33. La scelta del cibo che si ingerisce è infatti certamente
scelta personalissima dell’individuo, al punto da far dubitare che
lo Stato possa interessarsene finanche nei casi più estremi. Basti
pensare, ad esempio, al dibattito filosofico sul cannibalismo, e in
particolare sull’opportunità (o finanche la possibilità) di vietare
la pratica in esame laddove essa non si traduca in una lesione dei
diritti fondamentali dell’individuo.
Laddove il cannibalismo venga praticato per necessità, come
conseguenza dell’impulso naturale a preservare la propria vita,
32. Sul tema si veda R. BOTTONI, Le discriminazioni religiose nel settore
lavorativo in materia di alimentazione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 1, 2013, 107 ss.
33. In questo senso si vedano anche: A. MORRONE, Ipotesi per un diritto
costituzionale dell’alimentazione, cit., 39; L. CHIEFFI, Scelte alimentari e diritti della persona: tra autodeterminazione del consumatore e sicurezza sulla
qualità del cibo, in Diritto pubblico europeo - rassegna online, n. 1, 2015, 6 ss.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
63
si versa nel campo di applicazione del diritto alla vita ovvero del
diritto alla salute. Nel noto caso del 1884 R v Dudley and Stephens, in cui nel corso di un naufragio due marinai sopravvivevano uccidendo e mangiando un compagno ormai caduto in stato
comatoso, pur a fronte di una pena formalmente severissima (la
condanna a morte) e di una sentenza che retoricamente negava
l’efficacia scusante dello stato di necessità, affermando che per
un uomo è un dovere sopravvivere ma è un dovere ancor più
grande sacrificarsi, il contesto sociale e il favore dell’opinione
pubblica portavano alla commutazione della pena in soli sei mesi
di reclusione34.
Tuttavia, il cannibalismo può anche essere praticato non per
necessità, ma per motivi culturali, per libera scelta di un soggetto
agente che non sia in pericolo di vita. Del resto, sono molti gli
studi che evidenziano come il cannibalismo sia stato praticato, in
vari periodi storici, da diverse culture35: è evidente che laddove il
cannibalismo implichi l’uccisione di un essere umano esso debba ritenersi vietato per violazione del fondamentale diritto alla
vita, non essendo certo configurabile un esercizio del diritto culturale al cibo, bensì un caso di omicidio puro e semplice. Cosa
fare però, laddove il cannibalismo sia praticato per libera scelta
dell’agente su soggetti che siano già morti, ovvero su soggetti
che abbiano prestato il loro consenso alla pratica? Il problema
34. Cfr. R v Dudley and Stephens (1884) 14 QBD 273 DC. In altri casi analoghi dell’epoca, in cui la persona che doveva essere uccisa e mangiata era stata
scelta tirando a sorte, le Corti avevano ritenuto che la necessità potesse esimere
i responsabili dalla pena. Si veda per una ricognizione A. W. B. SIMPSON,
Cannibalism and the common law: The story of the tragic last voyage of the
Mignonette and the strange legal proceedings to which it gave rise, Chicago,
University of Chicago Press, 1984.
35. Si vedano sul tema, per tutti: P. R. SANDAY, Divine hunger. Cannibalism as a cultural system, Cambridge, Cambridge University Press, 1986; L. F.
PETRINOVICH, The cannibal within, Piscataway, Transaction Publishers, 2000.
64
Giovanni Cavaggion
non è di immediata soluzione: mangiare carne umana non integra di per sé una fattispecie di reato, ma l’atto di cannibalismo
potrebbe essere ricondotto al vilipendio di cadavere (se praticato
su di un morto), alle lesioni personali (laddove la “vittima”, seppur consenziente, compia atti di disposizione vietata del proprio
corpo), o finanche all’omicidio del consenziente (laddove la “vittima” perda la vita).
La questione è giunta all’attenzione dell’opinione pubblica
(e dell’autorità giudiziaria) nel 2002, con il noto caso di Armin
Meiwes, uomo di nazionalità tedesca che uccideva e mangiava
un connazionale che aveva, del tutto liberamente, risposto a un
annuncio su internet con cui si cercavano possibili “vittime” disponibili ad essere consumate. I due uomini si incontravano e
davano seguito al proposito, e addirittura la vittima ingeriva delle
parti del suo stesso corpo, sicché il consenso alla pratica permaneva immutato sino alla sua morte, procurata in ultimo con
il taglio della gola. Gli eventi venivano integralmente ripresi, e
Meiwes conservava il corpo in un congelatore, seguitando a nutrirsene per i dieci mesi successivi, quando il fatto veniva scoperto in occasione di una perquisizione. L’uomo veniva inizialmente condannato a otto anni e mezzo di reclusione, non già per
omicidio del consenziente, né per omicidio qualificato da motivi
ulteriormente censurabili (Mord), bensì per omicidio semplice
(Totschlag)36. Tuttavia, la sentenza di cassazione, negando sia
la genuinità del consenso espresso dalla vittima che la mancata
censura ulteriore delle motivazioni dell’imputato, comminava la
pena dell’ergastolo37.
36. Cfr. BGH 2 StR 310/04 - 22 aprile 2005 (LG Kassel).
37. Cfr. BVerfGE 2 BvR 578/07 - 7 ottobre 2008, Sul caso si vedano: C. J.
REID Jr., Eat what you kill: or, a strange and gothic tale of cannibalism by consent, in North Carolina journal of international law and commercial regulation,
vol. 39, 2014, 423 ss; L. M. FRIEDMAN; N. AROLD, Cannibal rights: a note
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
65
Nonostante la complessità della questione, appare ragionevole ritenere, in accordo con autorevole dottrina in materia, che
nutrirsi di carne umana, laddove ciò non cagioni una lesione dei
diritti fondamentali dell’individuo, e dunque laddove questi non
venga ucciso a tal fine e presti un consenso valido all’atto, non
rappresenti di per sé una condotta illegale o incompatibile con la
dignità della persona38, salvo voler ricostruire la dignità umana in
chiave morale e, dunque, interpretando in senso massimamente
restrittivo il divieto kantiano di utilizzare un’altra persona alla
stregua di un oggetto.
A prescindere da casi estremi come quelli appena descritti,
appare innegabile che all’individuo debba essere riconosciuto un
pieno diritto al cibo particolare, e dunque a scegliere come nutrirsi sulla base delle proprie convinzioni culturali, religiose, filosofiche e morali. In altre parole, l’individuo può legittimamente
pretendere che, in assenza di una reale esigenza di tutela di un
diverso interesse costituzionale che sia minacciato in concreto
(da valutarsi in senso massimamente restrittivo), non sia lo Stato
a imporgli un determinato regime alimentare, a stabilire cosa egli
può o non può mangiare.
In questa prospettiva, non sfuggirà il paradosso per cui i diritti culturali al cibo risulterebbero, in ogni caso, provvisti di una
più facile giustiziabilità rispetto al diritto ad un’alimentazione
adeguata riconosciuto dal diritto internazionale convenzionale.
Se infatti l’estrema difficoltà nell’azionare quest’ultimo diritto
dinnanzi all’autorità giudiziaria rappresenta un notevole ostacolo
on the modern law of privacy, in Northwestern interdisciplinary law review, n.
4, 2011, 235 ss.
38. Si vedano, in questo senso, per tutti: W. MCQUILLAN, Challenging
our aversion to anthropophagy, in UCL Jurisprudence Review, n. 12, 2005, 180
ss.; J. J. WISNEWSKI, A defense of cannibalism, in Public affairs quarterly,
vol. 18, n. 3, 2004, 265 ss.
66
Giovanni Cavaggion
al suo divenire diritto effettivo e affrancarsi dal carattere prevalentemente programmatico che lo ha in origine caratterizzato, il
problema non sembra porsi negli stessi termini con riferimento alle letture culturali dei diritti alimentari39. Se è vero infatti
che questi ultimi presentano, come si è cercato di argomentare,
una forte componente negativa, posta a tutela della libertà individuale, è evidente come essi potranno essere più facilmente
azionati dinnanzi all’autorità giudiziaria, venendo invocati non
già in chiave pretensiva, bensì come limite invalicabile a singoli
interventi normativi o esercizi del potere costituito.
Alla luce della sua stretta connessione con le vicende della
vita di ogni essere umano, non stupisce pertanto constatare come
il diritto “culturale” al cibo sia già giunto in diverse occasioni
all’attenzione dei principali organi del sistema multilivello di tutela dei diritti, venendo peraltro invocato proprio come diritto
posto specificatamente a tutela delle minoranze.
3. Diritto al cibo e libertà religiosa
Le intersezioni tra cibo e religione sono evidenti e molteplici, a
partire dalle prescrizioni religiose, più o meno note, che impongono di astenersi dal mangiare determinati cibi. E così, ad esempio, la religione ebraica, con riferimento alla carne, consente di
cibarsi solo di animali ruminanti che abbiano lo zoccolo spaccato, di animali aquatici con pinne e squame e di volatili domestici,
la religione musulmana vieta di cibarsi della carne del maiale, di
animali che abbiano zanne e di sostanze alcoliche, mentre diver-
39. Sulla difficile giustiziabilità del diritto al cibo si veda F. ALICINO, Il
diritto al cibo. definizione normativa e giustiziabilità, cit., 9 ss.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
67
se confessioni buddhiste prescrivono una dieta vegetariana40. Lo
stesso cattolicesimo, del resto, impone dei giorni di astensione
obbligatoria dalle carni (i cosiddetti “giorni di magro”).
Le religioni hanno quindi, da sempre, disciplinato in modo
estremamente dettagliato le regole della produzione e del consumo del cibo, ponendo un insieme di precetti che devono necessariamente essere rispettati dai credenti41. Non si verificano,
normalmente, particolari questioni problematiche con riferimento alle prescrizioni alimentari poste dalla religione maggioritaria
in un dato ordinamento, atteso che esse sono condivise, in virtù
del vantaggio strutturale che la loro ampia diffusione comporta,
dalla generalità dei consociati. Al contrario, numerose questioni
problematiche possono nascere laddove dette prescrizioni siano
poste da religioni minoritarie, in quanto esse ben possono entrare
in contrasto con norme o convenzioni espressive della cultura
maggioritaria nell’ordinamento. La questione si collega, evidentemente, al più ampio tema del multiculturalismo, e in particolare
alla tutela delle cosiddette “nuove minoranze” per il tramite dei
diritti culturali42.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato, con numerosi arresti giurisprudenziali, che il diritto alla libertà religiosa
di cui all’articolo 9 della Convenzione tutela le scelte alimentari
che siano espressione di una determinata fede, soprattutto con
40. Per una panoramica si vedano: R. BOTTONI, Le discriminazioni religiose nel settore lavorativo in materia di alimentazione, cit.; G. FILORAMO, A
tavola con le religioni, cit., 17 ss.; V. PACILLO, Nutrire l’anima. Cibo, diritto
e religione, cit., 4 ss. Quest’ultimo evidenzia, in particolare, come le religioni
creino, rafforzino e strutturino i “food use patterns” che animano le nostre società.
41. Si veda A. CESERANI, Cibo ‘religioso’ e diritto: a margine di quattro
recenti pubblicazioni, cit., 371.
42. Si veda A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale dell’alimentazione, cit., 33 ss.
68
Giovanni Cavaggion
riferimento agli individui che non siano completamente liberi di
procurarsi cibo di loro scelta, come ad esempio i carcerati43. Così,
nel caso Jakóbski v. Poland, la Corte ha ritenuto che il rifiuto da
parte dello Stato di accomodare le esigenze alimentari (vegetariane) di un detenuto di fede buddhista costituisce una violazione
dell’articolo 944. In senso sostanzialmente analogo il caso Vartic v. Romania45, che peraltro conferma che la possibilità per lo
Stato di rifiutare il regime alimentare particolare sulla base di
una verifica in merito alla genuinità del sentimento religioso del
richiedente incontra dei limiti particolarmente stringenti. Unico
caso in cui doglianze quali quelle in esame non sono state accolte
è il risalente X v. United Kingdom46, nel quale tuttavia il ricorso
veniva giudicato infondato solo perché le autorità penitenziarie
avevano offerto al ricorrente, di religione ebraica, una valida alternativa, nella forma di una dieta kosher vegetariana (approvata
addirittura dal rabbino capo della comunità di riferimento), che
egli aveva tuttavia rifiutato.
La Corte ha altresì ammesso che, in alcuni casi, possono rilevarsi delle violazioni dell’articolo 9 della Convenzione laddove lo Stato imponga dei divieti su alcune specifiche modalità
di preparazione degli alimenti prescritte da una religione. Nel
caso Cha’are Shalom Ve Tsedek v. France47, infatti, il divieto di
macellare la carne secondo le modalità prescritte dall’ortodossia
ebraica è stato astrattamente ricondotto ad una violazione della
libertà religiosa, nonostante nella fattispecie concreta non sia sta43. Per una rassegna della giurisprudenza in esame si veda M. C. MAFFEI,
The right to ‘special food’ under Art. 9 of the European Convention on Human
Rights, in Diritti umani e diritto internazionale, n. 1, 2012, 101 ss.
44. Cfr. Jakóbski v Poland, Application no. 18429/06, 7 dicembre 2010.
45. Cfr. Vartic v. Romania, Application no. 14150/08, 17 dicembre 2013.
46. Cfr. X v. United Kingdom, Application no. 5947/72, 5 marzo 1976.
47. Cfr. Cha’are Shalom Ve Tsedek v. France, [GC], Application no.
27417/95, 27 giugno 2000.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
69
ta ritenuta violata la Convenzione per via della finalità legittima
del divieto (la tutela della salute pubblica), ma soprattutto per via
della agevole reperibilità di soluzioni alternative (tra cui l’importazione della carne ritualmente preparata dal vicino Belgio,
ovvero l’approvvigionamento da esercizi similmente specializzati nella specifica tecnica di preparazione e gestiti da comunità
appartenenti alla stessa religione).
Dal canto suo l’Unione europea riconosce la riconducibilità
delle questioni del cibo al diritto alla libertà religiosa di cui all’articolo 10 della Carta dei Diritti Fondamentali e perciò, all’articolo 13 TFUE, pur riconoscendo l’interesse alla tutela del benessere degli animali, ne impone il bilanciamento con le consuetudini
in tema di riti religiosi e di tradizioni culturali48. L’Unione ha
pertanto espressamente normato il tema della macellazione rituale, da ultimo per il tramite del regolamento n. 1099/2009 che, nel
disciplinare le modalità per la macellazione, pur riconoscendo
agli Stati membri un ampio margine di discrezionalità in materia49, ammette una specifica deroga all’obbligo di stordire l’animale prima di abbatterlo in caso di uccisioni rituali prescritte da
specifiche religioni, a condizione che esse avvengano in un macello50. Unica condizione a cui l’esercizio della deroga in esame
48. Così l’articolo 13: «Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche
dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati
membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli
animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda,
in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e il patrimonio regionale».
49. Sulla regolamentazione della macellazione rituale nei singoli Stati
membri si veda R. BOTTONI, La macelleria rituale nell’Unione europea e nei
paesi membri: profili giuridici, in A. G. Chizzoniti, M. Tallacchini (a cura di),
Cibo e religione, diritto e diritti, Roma, Libellula, 2010.
50. Così il comma 4 dell’articolo 4: «Le disposizioni di cui al paragrafo 1
non si applicano agli animali sottoposti a particolari metodi di macellazione
70
Giovanni Cavaggion
è sottoposta è, quindi, che le uccisioni rituali avvengano in una
struttura riconducibile alla nozione di macello così come definita
dal regolamento n. 853/2004.
La normativa in esame sarà peraltro a breve sottoposta al
vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione europea in seguito
alla questione pregiudiziale sollevata da un tribunale belga, che
sospetta l’incompatibilità della stessa con il diritto alla libertà
religiosa di cui all’articolo 9 CEDU e 10 CDFUE, oltre che con
l’articolo 13 TFUE, proprio nella parte in cui essa impone che
le uccisioni rituali avvengano in un macello autorizzato, così
causando numerosi problemi pratici in occasione dell’aumento
della domanda durante particolari ricorrenze sacre, per via della
carenza di strutture specializzate in macellazione rituale51. In merito, e dissentendo parzialmente dalle conclusioni dell’Avvocato
generale nel caso di specie, occorrerà chiedersi se l’interesse a
garantire la salute pubblica sia idoneo a comprimere, in sede di
bilanciamento, il diritto fondamentale alla libertà religiosa, e più
precisamente se la macellazione effettuata in strutture in parte
difformi da quelle di cui al regolamento n. 853/2004 rappresenti
un pericolo in concreto, e non solo in astratto, per il bene salute
pubblica. In questo senso, appariva ragionevole e proporzionata
la soluzione inizialmente adottata e poi abbandonata (proprio per
via di una sua presunta incompatibilità con il diritto dell’Unione)
in Belgio: la concessione di autorizzazioni per adibire temporaneamente a macello (nel rispetto delle necessarie prescrizioni
igieniche) strutture terze che normalmente non esercitano detta
attività.
prescritti da riti religiosi, a condizione che la macellazione abbia luogo in un
macello».
51. Cfr. caso C-426/16. Sul caso si veda M. TOSCANO, Normativa europea e macellazione rituale: le conclusioni dell’Avvocato generale davanti alla
Corte di giustizia, in Eurojus.it, 12 dicembre 2017.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
71
Con riferimento all’ordinamento italiano, l’unico caso di diritto al cibo particolare espressamente riconosciuto dal legislatore è quello di cui all’articolo 7 della legge n. 101 dell’8 marzo
1989, che recepisce l’intesa con le Comunità ebraiche italiane,
per cui gli appartenenti alla fede ebraica che prestino servizio
nelle forze armate o di polizia, che siano ricoverati in strutture
sanitarie ovvero in istituzioni carcerarie (e affini), hanno il diritto
di osservare, dietro espressa richiesta, le prescrizioni alimentari
della loro fede52. Il diritto in esame si configura come una specificazione del diritto alla libertà religiosa di cui all’articolo 19
Cost., e il suo riconoscimento è accompagnato da una clausola
che espressamente ne prevede il “costo zero” per le istituzioni
statali, circostanza che induce a qualificarlo alla stregua di un
diritto prevalentemente negativo, e non già come diritto positivo:
la circostanza per cui l’appartenente alla fede ebraica non possa
in effetti pretendere l’erogazione della prestazione alimentare a
spese dello Stato solleva infatti dubbi sulla portata effettiva della
tutela in esame.
La norma così interpretata potrebbe risultare peraltro, per
certi versi, discriminatoria, se si considera che essa accorda un
livello più elevato di tutela della libertà religiosa individuale
all’appartenente alla minoranza ebraica rispetto agli appartenenti ad altre minoranze che pure impongono particolari regimi
alimentari (come ad esempio quella musulmana o quella buddhista). Lo strumento dell’intesa dovrebbe tuttavia limitarsi alla
52. Così l’articolo 7: «L’appartenenza alle forze armate, alla polizia o ad altri servizi assimilati, la degenza in ospedali, case di cura o di assistenza pubbliche, la permanenza negli istituti di prevenzione e pena non possono dar luogo
ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento
delle pratiche di culto. È riconosciuto agli ebrei che si trovano nelle condizioni
di cui al comma 1 il diritto di osservare, a loro richiesta e con l’assistenza della
Comunità competente, le prescrizioni ebraiche in materia alimentare senza oneri per le istituzioni nelle quali essi si trovano».
72
Giovanni Cavaggion
regolamentazione dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, e
appare pertanto problematica l’introduzione per il suo tramite di
livelli disomogenei di tutela di diritti costituzionali fondamentali
in assenza di un criterio ragionevole di differenziazione. Né si
può sostenere che detto criterio ragionevole sarebbe rappresentato proprio dalla stipula dell’intesa, se si considera che, in virtù
del potere discrezionale pressoché illimitato goduto dal Governo
in materia53, ciò equivarrebbe ad affermare che l’esecutivo può
discrezionalmente espandere, in favore di alcune confessioni, la
tutela dei diritti fondamentali dei fedeli, senza che all’autorità
giudiziaria sia dato di sindacare la corrispondenza di detto trattamento differenziato ai principi di eguaglianza e non discriminazione.
In assenza di interventi normativi organici in materia, secondo una tendenza tipica del modello di integrazione italiano54,
sorprende constatare che le istanze volte al riconoscimento del
diritto a conservare e praticare determinate abitudini alimentari
non sono giunte più frequentemente all’attenzione dell’autorità
giudiziaria. La giurisprudenza sul tema specifico si presenta, infatti, piuttosto scarna: in uno dei pochi casi documentati la Corte
di Cassazione ha affermato, con una sentenza del 2013, che le
prescrizioni alimentari sono da ritenersi un “corollario di pratica rituale”, e che pertanto, dinnanzi all’istanza di un detenuto
buddhista che chiede di poter consumare dei pasti vegetariani, il
magistrato di sorveglianza non può limitarsi a menzionare un ge53. Si veda I. NICOTRA, Le intese con le confessioni religiose: in attesa
di una legge che razionalizzi la discrezionalità del Governo, in Federalismi.it,
n. 8, 2016.
54. Si vedano: F. SCUTO, Diritti culturali e multiculturalismo nello Stato
costituzionale, cit., 54 ss.; G. CERRINA FERONI, V. FEDERICO, Introduzione, in G. Cerrina Feroni, V. Federico (a cura di), Società multiculturali e percorsi di integrazione. Francia, Germania, Regno Unito ed Italia a confronto,
Firenze, Firenze University Press, 2017, 6.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
73
nerico provvedimento dell’amministrazione carceraria in materia
di adeguatezza del vitto, dovendo invece esaminare la doglianza
nel merito, nella misura in cui essa risulta riconducibile alla violazione di un diritto fondamentale della persona tutelato dagli
articoli 2 e 19 Cost.55.
Al contrario, la giurisprudenza risulta essersi occupata più
frequentemente, come si vedrà ai paragrafi successivi, di istanze
culturali volte al riconoscimento di un diritto a nutrirsi secondo
le proprie convinzioni filosofiche e morali.
4. Diritto al cibo e diritto a mantenere la propria cultura (alimentare)
Come si è anticipato, non vi è sovrapposizione perfetta tra le
posizioni giuridiche tutelate da un diritto al cibo “religioso” e
quelle tutelate da un diritto al cibo “culturale”, poiché sovente le
abitudini alimentari sono il risultato di convinzioni etiche, morali
e filosofiche che prescindono dalle prescrizioni di una qualsiasi
confessione religiosa. È questo il caso, ad esempio, dei divieti
alimentari che trovano il loro fondamento non già in una fede,
ma in tradizioni e pratiche profondamente radicate nelle coscienze e tramandate di generazione in generazione per motivi prevalentemente sanitari: si pensi alla cultura navajo, che vieta di consumare, tra le altre cose, animali addomesticati, rettili, pesci, o
frutti di mare. È questo il caso, inoltre, del vegetarianesimo o del
veganesimo (ovviamente laddove non prescritti da una religione), che impongo l’astensione dalla consumazione di determinati
alimenti in virtù del riconoscimento di una particolare dignità
all’esistenza animale, che non consentirebbe forme di “sfrutta55. Cfr. Cass. Pen, Sez. I, sentenza n. 41474 del 25 settembre 2013.
74
Giovanni Cavaggion
mento” da parte dell’essere umano56. Oltre alle due appena menzionate diete, sicuramente più note, si sono poi diffusi sempre
più, in tempi recenti, ulteriori regimi alimentari come ad esempio
quello fruttariano, quello crudista o quello macrobiotico.
Occorre chiedersi, pertanto, se il ragionamento sinora svolto
con riferimento alle pratiche alimentari “religiose” sia applicabile
anche ad altre pratiche alimentari culturali, che trovino quindi il
loro fondamento non già in una prescrizione dettata da una determinata fede, ma in una filosofia o in un convincimento personale,
cioè in una prescrizione o consuetudine aconfessionale. Sembra
preferibile la soluzione affermativa, e dunque l’equiparazione della tutela riservata alle pratiche alimentari religiose e a quelle culturali, nella misura in cui sia la religione che la cultura possono essere elementi costitutivi dell’identità, entrambe risultano espressive
del fondamentale principio pluralista, ed entrambe possono fondare discriminazioni che lo Stato deve impegnarsi a rimuovere, tanto
che le scienze antropologiche riconducono, in effetti, la religione
ad una delle molteplici manifestazioni della cultura57. Appare quindi opportuno superare l’impostazione che riconosce una posizione
privilegiata alla religione rispetto alla cultura in virtù del radicamento storico della prima quale principale fattore di differenza
culturale nelle società europee58, poiché in un ordinamento che
accoglie il principio fondamentale di laicità non dovrebbe esservi
spazio per argomenti che accordino una posizione privilegiata alle
pratiche religiose a discapito di quelle “meramente” culturali59.
56. Sul tema dei diritti degli animali si vedano: S. DONALDSON, W.
KYMLICKA, Zoopolis: a political theory of animal rights, Oxford, Oxford
University Press, 2011; F. RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a soggetti,
Torino, Giappichelli, 2005.
57. Si veda I. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costituzione e tecniche di
composizione dei conflitti multiculturali, cit., 60 ss.
58. Ivi, 63 ss.
59. Sulla riconducibilità delle scelte di alimentazione vegana o vegetariana
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
75
La stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha del resto
riconosciuto la riconducibilità delle pratiche alimentari sopraccitate alla tutela di cui all’articolo 9 della Convenzione, e in particolare ai concetti di “conscience” e di “belief” ivi recepiti (ma,
significativamente, non a quello di “religion”)60.
Dovrebbe pertanto ritenersi valido, con riferimento al cibo
“culturalmente adeguato”, quanto argomentato al paragrafo
precedente circa il cibo “religiosamente adeguato”, e dunque la
sussistenza da un lato di un diritto a scegliere il proprio regime
alimentare, per ragioni culturali, liberamente da ingerenze statali, e dall’altro di un obbligo positivo in capo allo Stato, che
dovrebbe finanziare l’implementazione di diete diversificate secondo le varie esigenze culturali almeno nelle diverse strutture
pubbliche, e soprattutto in quelle nelle quali l’individuo viene
a trovarsi a prescindere dalla propria volontà (carceri, ospedali,
scuole dell’obbligo). Come si è già visto, tuttavia, un intervento
positivo siffatto non si registra in modo pieno e soddisfacente
neppure con riferimento a pratiche alimentari prescritte da credo
religiosi profondamente radicati nella società, e ciò addirittura a
prescindere dalla stipula di intese ai sensi dell’articolo 8 Cost. La
situazione non è di molto diversa per quanto riguarda le pratiche
alimentari culturali non religiose.
Anche la giurisprudenza sembra lontana da approdi pienamente soddisfacenti, e infatti proprio quest’anno il TAR Bolzano si è
espresso, rigettandolo, sul ricorso di una coppia che impugnava il
diniego dirigenziale della richiesta che alla figlia venissero serviti,
all’asilo nido, dei pasti pienamente compatibili con la dieta vegaai principi pluralista e di laicità si veda L. CHIEFFI, Scelte alimentari e diritti
della persona: tra autodeterminazione del consumatore e sicurezza sulla qualità del cibo, cit., 1.
60. Cfr. C.W. v. United Kingdom, Application no. 18187/91, 10 febbraio
1993.
76
Giovanni Cavaggion
na61. I genitori ritenevano in particolare che il diniego contrastasse
con i precetti costituzionali posti a tutela dei diritti fondamentali
della persona (articolo 2 Cost.), con il principio di uguaglianza sostanziale (articolo 3 Cost.), con il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21 Cost.) con il diritto dei genitori di
educare i figli secondo le proprie convinzioni morali e filosofiche
(articolo 30 Cost.), e con il diritto alla salute (articolo 32 Cost.).
Il TAR ha argomentato in primo luogo che la tutela di diritti sociali quale quello invocato dai ricorrenti deve essere necessariamente bilanciata con ragioni di contenimento della spesa degli enti pubblici, che possono far fronte alle relative richieste solo nei limiti delle
risorse ad essi attribuite. L’argomentazione appare problematica in
primis perché il Tribunale, qualificando le istanze culturali in esame
alla stregua di richieste di diritti sociali, omette di considerare che le
stesse risultano altresì inerenti a diritti di libertà, e in particolare ai
diritti culturali e al diritto al mantenimento della propria cultura, alla
libera manifestazione del pensiero e all’educazione dei figli secondo
le proprie convinzioni filosofiche e morali. Se letti in questa seconda
chiave i diritti in esame potrebbero ben risultare lesi nel loro nucleo
incomprimibile dal rifiuto di assecondare le esigenze alimentari della minore, nella misura in cui, come si è detto, il diritto a scegliere
cosa mangiare è diritto personalissimo e inviolabile dell’individuo.
In questo senso, se pure è vero che ragioni di equilibrio di bilancio
possono condizionare i livelli di tutela di alcuni diritti sociali (e non
a caso il Tribunale richiama la sentenza n. 248/2011 della Corte Costituzionale), il Collegio omette di rilevare che dette ragioni di bilancio non possono mai incidere sul dovere statale di garanzia dei diritti
incomprimibili (come di recente affermato dalla stessa Consulta con
la sentenza n. 275/2016)62.
61. Cfr. TAR Bolzano, sentenza n. 35 del 31 gennaio 2018.
62. La Corte ha specificato che “è la garanzia dei diritti incomprimibili ad
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
77
In secondo luogo, il TAR rigetta il ricorso sulla base della
constatazione per cui sarebbero
proprio i principi costituzionali su cui poggiano le richieste di parte
ricorrente, e segnatamente i principi di uguaglianza sostanziale e di proporzionalità, a frapporsi alla possibilità di assecondare ciascuna, singola richiesta di dieta personalizzata, quando la stessa non sia motivata da
ragioni di salute ovvero non si iscriva nel novero delle quattro tipologie
di menù alternativi maggiormente richiesti.
La motivazione adottata ricorda, per certi versi, quella del noto
caso Lautsi63, per cui il Tribunale, non senza una certa deriva pedagogica, spiega al ricorrente che egli ha travisato a tal punto il
significato dei principi costituzionali fondamentali da non rendersi
nemmeno conto che sono proprio questi ultimi a negargli il bene
della vita a cui aspira. Anche in questo caso l’argomento è problematico, nella misura in cui riduce la pretesa di una dieta vegana ad
una sorta di “capriccio”, riducendo la scelta filosofica del veganesimo, a cui aderisce in Italia quasi l’1% della popolazione adulta64, ad una «singola richiesta di dieta personalizzata», slegata da
qualsiasi fondamento etico o filosofico condiviso. L’affermazione
del Tribunale per cui le scelte alimentari in questione «meritano la
stessa considerazione che va riconosciuta anche a ciascuno degli
altri utenti del servizio in questione» sembra pertanto trascurare la
riconducibilità delle stesse al medesimo livello di tutela di cui gode
incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa
erogazione”. Si vedano sul tema almeno: S. GAMBINO, Crisi economica e
costituzionalismo contemporaneo. Quale futuro europeo per i diritti fondamentali e per lo Stato sociale? in Astrid rassegna, n. 5, 2015; C. SALAZAR, Crisi
economica e diritti fondamentali, in Rivista AIC, n. 4, 2013.
63. Cfr. Cons. di Stato, Sez. VI, sentenza n. 556 del 13 febbraio 2006.
64. Dati EURISPES riferiti all’anno 2018.
78
Giovanni Cavaggion
la libertà religiosa, secondo la strada indicata anche dalla Corte
EDU con la sopraccitata sentenza C.W. v. United Kingdom e secondo una corretta interpretazione degli articoli 19 e 21 Cost.
La vicenda presenta, inoltre, evidenti collegamenti con il dibattito circa la configurabilità di quello che è stato definito come “diritto al panino”, e dunque con il diritto per gli studenti delle scuole
dell’obbligo a consumare, presso i locali scolastici, un pasto preparato a casa, che troverebbe il suo fondamento (anche secondo recente giurisprudenza di merito in materia) anche nel diritto alla gratuità
dell’istruzione inferiore di cui all’articolo 34 Cost.65. Le questioni si
differenziano tuttavia per due ordini di motivi. In primo luogo, nel
caso del diritto culturale al cibo la pretesa ha ad oggetto un obbligo
di prestazione positivo in capo all’ente pubblico, consistente nella
predisposizione di pasti culturalmente adeguati, mentre nel caso del
diritto al pasto domestico la pretesa è che l’ente pubblico non ne vieti l’introduzione nei locali scolastici. In secondo luogo, la pretesa del
pasto culturalmente adeguato si fonda, appunto, su ragioni culturali,
e dunque si attaglia primariamente sul diritto a mantenere la propria
cultura, e solo “di riflesso” sul diritto all’istruzione, mentre il diritto
al pasto domestico si fonda su ragioni di tipo forse prevalentemente
economico (vista la ormai quasi invariabile non gratuità della refezione scolastica), e dunque si attaglia direttamente e saldamente al
diritto sociale all’istruzione.
In ogni caso, il diritto al pasto domestico potrebbe forse rappresentare una sorta di soluzione di compromesso per le vicende
come quella decisa dal TAR Bolzano, consentendo la tutela del
diritto alla cultura laddove le istituzioni statali non possano o non
vogliano accomodare, con prestazioni positive, le richieste di
65. Sul diritto in esame e sulla relativa giurisprudenza si veda G. BOGGERO, “There is no such thing as a free lunch”. Il pasto domestico a scuola come
diritto costituzionalmente garantito? in Osservatorio costituzionale, n. 3/2017,
ora anche in questo volume.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
79
cibo culturalmente adeguato: le famiglie potrebbero infatti fare
leva sul diritto in esame per sopperire, anche solo temporaneamente, all’indisponibilità di alimenti compatibili con la propria
cultura, consentendo una riespansione del diritto culturale al cibo
altrimenti irrimediabilmente compresso.
I casi di contrasti di natura culturale vertenti sul cibo sembrano inevitabilmente destinati ad aumentare in futuro, atteso che la
multiculturalità è ormai una caratteristica strutturale delle società
e degli ordinamenti europei contemporanei per effetto della globalizzazione e delle migrazioni. Il confronto con culture diverse
può portare a risultati imprevedibili, con cui il legislatore e l’autorità giudiziaria dovranno imparare a confrontarsi. Un esempio
è rappresentato dal consumo, in altre culture, di animali che nel
cosiddetto “mondo Occidentale” non vengono, per motivi diversi, mangiati. E così, con riferimento agli animali “da compagnia”,
celebre è il caso californiano del 1989 che vedeva due individui
appartenenti alla minoranza cambogiana imputati di crudeltà sugli animali per avere ucciso, per poi mangiarlo, un cucciolo di
cane che gli era stato donato pochi giorni prima66. I due venivano
assolti dall’accusa perché non risultava che all’animale fossero
state inflitte particolari sofferenze, maggiori di quelle che avrebbe subito in un qualsiasi macello autorizzato: il semplice fatto di
mangiare un cane non era infatti proibito dalla legge, e non poteva essere certo ritenuto di per sé una “crudeltà”. L’assoluzione
nel caso di specie ha dato vita ad un acceso dibattito legislativo e
mediatico, che è culminato nell’approvazione di una legge che ha
introdotto nel codice penale della California delle sanzioni (seppur lievi) per chiunque uccida, ai fini di mangiarlo, un animale
66. Cfr. D. HALDANE, Judge clears Cambodians who killed dog for food,
in Los Angeles Times, 15 marzo 1989.
80
Giovanni Cavaggion
tradizionalmente considerato “da compagnia” negli Stati Uniti67.
Nel dibattito interveniva addirittura l’allora Governatore della
California George Deukmejian che, nel commentare l’adozione
della legge in esame, dichiarava di non essere favorevole all’introduzione di sanzioni penali in casi del genere, riconoscendo la
necessità di mezzi di bilanciamento più sensibili di fronte a pratiche culturalmente radicate nelle “nuove minoranze”68.
L’Italia, al contrario di altri (per la verità non molti) ordinamenti europei, non ha recepito questo modello, e pertanto deve
ritenersi che mangiare carne proveniente da animali di compagnia sia, astrattamente, una condotta legale. La norma di riferimento potrebbe essere individuata nell’articolo 544 bis del codice penale, che punisce con la reclusione da tre a diciotto mesi
chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un
animale: tuttavia non sembra potersi sostenere che chi uccida un
animale per mangiarlo lo faccia “per crudeltà o senza necessità”.
E del resto la particolare protezione che si vorrebbe accordare,
per motivi evidentemente culturali, a determinate specie animali,
non sembra trovare un attaglio costituzionale idoneo a limitare
67. Così i commi 1 e 2 dell’articolo 598b: «Every person is guilty of a
misdemeanor who possesses, imports into, or exports from, this state, sells,
buys, gives away, or accepts any carcass or part of any carcass of any animal
traditionally or commonly kept as a pet or companion with the intent of using
or having another person use any part of that carcass for food. Every person
is guilty of a misdemeanor who possesses, imports into, or exports from, this
state, sells, buys, gives away, or accepts any animal traditionally or commonly
kept as a pet or companion with the intent of killing or having another person
kill that animal for the purpose of using or having another person use any part
of the animal for food».
68. Si veda: A. D. RENTELN, The Cultural Defense, Oxford, Oxford University Press, 2004, 104 ss. Il Governatore dichiarava, in particolare: «I do not
believe it is appropriate to impose criminal penalties for a violation of this law.
If the killing of pets for food is a cultural practice that new arrivals to our country have as a custom, their assimilation to accepted practices can be accomplished with more sensitivity».
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
81
finanche diritti fondamentali dell’individuo, impedendo la libera
scelta del regime alimentare.
Con riferimento invece ad animali normalmente ritenuti non
edibili nella cultura europea, si pensi al caso degli insetti, comunemente ritenuti commestibili in altre culture, specie asiatiche.
La pratica si colloca attualmente in un quadro normativo complesso e fluido, venendo a volte vietata senza che sia dato rinvenire delle motivazioni realmente convincenti, con un’Unione
europea che lascia un amplissimo margine di discrezionalità agli
Stati membri nel regolamentare la questione69.
In Italia la commercializzazione di insetti destinati alla consumazione non è mai stata ammessa, e una circolare ministeriale
del gennaio 2018 ha chiarito che, in seguito all’entrata in vigore
del regolamento europeo 2283/2015, tale situazione è da ritenersi
cristallizzata, in quanto da quella data la necessaria autorizzazione va ottenuta al livello europeo, venendo meno la possibilità
per gli Stati membri di applicare regimi derogatori transitori70.
Anche in questo caso il divieto appare, almeno in parte, fondato
su considerazioni culturali, che hanno provocato una sostanziale
inerzia del legislatore che, normando compiutamente la materia,
avrebbe fatto venir meno qualsiasi preoccupazione circa pericoli
(per la verità di dubbia concretezza) per la salute pubblica.
Altro caso problematico è, infine, il consumo culturale di sostanze stupefacenti, che peraltro è già stato esaminato dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, un caso deciso dalla Corte
di Cassazione nel 2003 vedeva una donna appartenente alla mi69. Si veda sul tema V. PAGANIZZA, “Vecchi” e “nuovi” alimenti: gli
insetti edibili. Aspetti giuridici e profili di sicurezza alimentare ed ambientale,
in G. Cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. Petrillo (a cura di),
Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo
sostenibile, cit., 157 ss.
70. Cfr. circolare Ministero della Salute D.G.S.A.N. Uff.IV/ I.5.i.h.5/.
82
Giovanni Cavaggion
noranza somala imputata per avere importato delle sostanze stupefacenti, e più precisamente 24 chilogrammi di foglie di khat71.
La donna si era difesa riferendo di stare portando le foglie a un
matrimonio, dove sarebbero state consumate dagli invitati nel
corso dei festeggiamenti, in virtù del fatto che il khat, per le sue
proprietà euforizzanti, nella cultura somala è assunto normalmente
in determinate occasioni della vita sociale. La Corte ha assolto la
donna rilevando che il khat è tradizionalmente consumato, nella
minoranza in esame, tramite la masticazione, e che dal momento
che nelle tabelle ministeriali delle sostanze stupefacenti non era
presente il khat, ma solo la catina, ottenibile dalle foglie mediante
un procedimento chimico, il legislatore aveva ritenuto che
il consumo normale (mediante masticazione) delle foglie di tale essenza vegetale, pur producendo un effetto euforizzante, non costituisca un
pericolo per la salute, non diversamente da quanto avviene con riferimento agli effetti indotti dal consumo di sostanze, largamente diffuse,
quali il caffè, il tè, il tabacco ecc.
La sentenza risulta interessante in virtù dell’apertura alla diversità culturale che la sua motivazione dimostra, dando espressamente rilievo alle modalità di consumo tradizionali della sostanza
stupefacente in esame quale fattore decisivo per escludere l’illiceità della condotta, operando addirittura un paragone tra la funzione del khat nella cultura minoritaria e quella del caffè, del tè o
del tabacco nella cultura maggioritaria. Da allora, in ogni caso, la
sostanza in esame è stata introdotta nelle tabelle ministeriali con
il d.l. n. 272 del 30 dicembre 2005, convertito con la legge n. 49
71. Cfr.: Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 34072 dell’8 agosto 2003. Sul
caso si veda F. BASILE, Panorama di giurisprudenza europea sui c.d. reati
culturalmente motivati, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, febbraio
2008, 52 ss.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
83
del 21 febbraio 2006, è poi fuoriuscita dalle stesse per effetto della
sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, e vi è stata da ultimo reintrodotta con il D.P.R. n. 36 del 20 marzo 2014. Anche in
questo caso, pertanto, si rinviene una disparità di trattamento con
riferimento alla libertà religiosa, atteso che, come noto, la Corte
di Cassazione ha ritenuto che i praticanti la religione rastafariana
possano possedere quantitativi di sostanza stupefacente eccedenti
il dato ponderale del normale uso personale72.
5. Il possibile conflitto tra l’anima “biologica” e quella “culturale” del diritto al cibo: il caso della dieta vegana
Le diverse accezioni descritte ai paragrafi precedenti aiutano a
chiarire la complessità del problema dell’autonoma configurabilità di un diritto al cibo nell’ordinamento costituzionale. Dette
accezioni sono peraltro estremamente eterogenee, e spaziano da
questioni più strettamente “biologiche”, relative alla soddisfazione dei bisogni umani legati a funzioni primarie, strettamente
connesse alla sopravvivenza dell’organismo, a questioni marcatamente “culturali”, attinenti a scelte personalissime dell’individuo circa come soddisfare detti bisogni attraverso uno specifico
regime alimentare adottato per ragioni morali, filosofiche o religiose. Le due accezioni in esame presentano però un profilo
sostanziale di differenziazione: mentre infatti non è possibile
scegliere di non soddisfare le esigenze alimentari “biologiche”
(scelta qualificabile come patologica o suicida, nonostante essa
sia prevista da alcune pratiche rituali controverse, come ad esempio il “suicidio per inedia” previsto dalla religione giainista), è
72. Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 28270 del 3 giugno 2008. Gli adepti
di detta religione consumano abitualmente l’“erba sacra” a fini meditativi.
84
Giovanni Cavaggion
invece possibile scegliere come soddisfarle, in particolare facendo ricorso a un regime di alimentazione che, pur essendo differente da quello culturalmente preferito, ottenga ugualmente lo
scopo di soddisfare il bisogno primario di nutrirsi.
Le posizioni giuridiche che si intrecciano con riferimento alla
materia in esame sono quindi tante e tali per cui appare preferibile tenerle distinte, nella misura in cui esse risultino riconducibili ad altri diritti costituzionalmente rilevanti. In realtà, alcune
definizioni del diritto al cibo hanno tentato di tenere insieme le
sue diverse anime, sostenendo, ad esempio, che esso sarebbe il
diritto al cibo sufficiente, liberamente accessibile, sano, nutriente
e culturalmente appropriato73. Un’espansione siffatta della tutela
rischia, tuttavia, di renderla in ultima analisi inefficace, includendovi una pluralità di posizioni giuridiche soggettive eccessivamente eterogenee, e perciò difficilmente giustiziabili in concreto.
Appare pertanto preferibile differenziare dette posizioni quantomeno tra quelle che afferiscono alla salute dell’individuo e quelle
che invece afferiscono alla sua sfera culturale.
A riprova dell’opportunità di operare una distinzione tra la
componente “culturale” e quella “biologica” del diritto al cibo, si
consideri inoltre che esse sembrano fare riferimento a situazioni
giuridiche non omogenee74: infatti il diritto alla vita e alla salute,
73. Si vedano in questo senso: Si vedano in questo senso: S. Rodotà, Il diritto al cibo, cit.; F. Alicino, Il diritto al cibo. definizione normativa e giustiziabilità, cit., 2; M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale,
costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 33; C. Drigo,
Il ruolo degli enti locali nell’implementazione del “diritto al cibo adeguato”,
in G. Cerrina Feroni, T. E. Frosini, L. Mezzetti, P. L. Petrillo (a cura di),
Ambiente, energia, alimentazione. Modelli giuridici comparati per lo sviluppo
sostenibile, cit. 111; A. Rinella, H. Okoronko, Sovranità alimentare e diritto al
cibo, in Diritto pubblico comparato ed europeo, n. 1, 2015, 104.
74. Sul bilanciamento di situazioni giuridiche eterogenee si veda A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enciclopedia del Diritto, Annali, Vol. II, Milano, Giuffrè, 2008.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
85
del quale il diritto al cibo quantitativamente e qualitativamente
sufficiente e adeguato è presupposto e specificazione, è propedeutico all’effettiva fruizione di ogni altro diritto dell’individuo,
e dovrà pertanto godere di una posizione privilegiata in sede di
bilanciamento. La eterogeneità delle due “anime” del diritto al
cibo è del resto emersa in modo dirompente in alcuni casi recenti,
che hanno evidenziato come il diritto “biologico” al cibo e il diritto “culturale” al cibo possano addirittura arrivare a confliggere
tra loro, innescando una competizione che prima i medici e, da
ultimo e in misura sempre crescente, anche l’autorità giudiziaria,
sono stati chiamati a dirimere. Il riferimento è ai numerosi casi
di minori che seguono, per volere dei genitori, una dieta vegana
ovvero vegetariana, che abbia finito per cagionare, a causa dello
scarso apporto di determinati nutrienti, conseguenze anche gravi
dal punto di vista medico, al punto da rendere necessario l’intervento dei giudici per assicurare la tutela dei fondamentali diritti
alla vita e alla salute75.
Un caso di questo tipo è stato deciso dal Tribunale di Roma
nel 201676, e aveva ad oggetto il ricorso di un padre che lamentava, tra le altre cose, il fatto che la moglie avesse unilateralmente
sottoposto la figlia minore (affidata a entrambi i coniugi nell’ambito della loro separazione) a una dieta di tipo vegano, che si
estendeva anche all’ambiente scolastico. L’uomo produceva peraltro certificati medici che evidenziavano uno sviluppo ponderale e in altezza della figlia inferiore alla media per la sua età. La
madre, dal canto suo, replicava di seguire una dieta vegetariana e
75. Per un’approfondita rassegna della giurisprudenza in esame si veda A.
MUSIO, Scelte alimentari dei genitori e interesse del minore, in Rivista di diritto alimentare, n. 2, 2017.
76. Cfr. Tribunale di Roma, Sez. I, ordinanza del 19 ottobre 2016. Sul caso
si veda anche E. ANDREOLA, Dieta vegana per il figlio tra interesse del minore e responsabilità genitoriale, in Famiglia e diritto, n. 6, 2017, 578 ss.
86
Giovanni Cavaggion
non vegana, e che la scelta era dovuta a ragioni etico-morali oltre
che alla convinzione che la dieta “normale” fosse meno salubre
per la minore, e produceva dei certificati medici che evidenziavano il buono stato di salute complessivo di quest’ultima.
Il Tribunale, nel risolvere la questione, ha mosso dalla premessa per cui la scelta del regime alimentare del figlio minore
rientra certamente tra quelle scelte di «maggiore interesse per i
figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta
della residenza abituale del minore» che, ai sensi dell’articolo
337 ter comma 3 c.c., devono essere necessariamente assunte in
accordo tra i genitori77. Detta impostazione appare del resto coerente con un’interpretazione costituzionalmente orientata della
norma in esame, in particolare alla luce dell’eguaglianza morale
e giuridica dei coniugi di cui all’articolo 29 Cost., del dovere di
mantenere, educare e istruire i figli di cui all’articolo 30 Cost.,
oltre che del diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni filosofiche, morali e religiose di cui all’articolo
14 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea e
all’articolo 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo78. Non essendo la scelta condivisa tra
i genitori nel caso di specie, è il Tribunale a dover provvedere,
77. Così il comma 3 dell’articolo 337 ter: La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione
naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al
giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il
giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà
detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità di affidamento.
78. Pur non essendo espressamente riconosciuto dalla Costituzione italiana,
l’articolo in esame è stato ricondotto dalla dottrina al combinato disposto degli
articoli 2, 3, 8, 19, 21 e 30 Cost. Si veda, per tutti, F. CUOCOLO, Lezioni di
diritto pubblico, IV ed., Milano, Giuffrè, 2006, 190.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
87
dichiarandosi peraltro vincolato al criterio della scelta migliore
per la tutela del diritto alla salute del minore.
Sotto questo profilo veniva rilevato che, in effetti, nonostante
uno stato generale di salute buono, la minore presentava un accrescimento ponderale e in altezza inferiore alla media. In assenza di particolari indicazioni mediche (quali ad esempio allergie
o intolleranze) che possano indurre a preferire la dieta vegana, il
Tribunale riteneva pertanto di doversi conformare a un criterio
di normalità statistica, per cui la scelta operata dalla maggioranza dei genitori è quella della dieta senza restrizioni. Il Tribunale
corroborava detta impostazione rilevando che la dieta “normale”
è altresì quella ritenuta corretta sia dal Ministero della Salute che
dal Ministero della Pubblica Istruzione, con una sorta di “presunzione di salubrità” delle scelte operate dagli enti statali, tale
da scongiurare “i rischi prospettati dalla resistente che la minore
possa essere pregiudicata nella corretta crescita inserendo nella
dieta carne, pesce o cibi confezionati, poiché aderendo a tale prospettazione dovrebbe ritenersi che nelle mense scolastiche venga
compromessa la salute di tutti i bambini che seguono un «normale» regime alimentare”.
Il Tribunale disponeva pertanto che la minore dovesse seguire
una dieta priva di restrizioni alimentari.
Una decisione del Tribunale per i minorenni di Milano del
2014 è giunta, in un caso analogo, a conclusioni sostanzialmente
equiparabili79.
Caso simile ma soluzione diversa invece per la vicenda giunta all’attenzione del Tribunale di Bergamo nel 2015, in cui due
genitori separati sottoponevano il figlio minorenne a due distinti
regimi alimentari nei periodi che egli passava con loro: dieta ma79. Cfr. Tribunale per i minorenni di Milano, decreto del 18 novembre
2014.
88
Giovanni Cavaggion
crobiotica (priva di carne) durante la settimana, con la madre, e
dieta a base di carne nel fine settimana, con il padre80. Quest’ultimo si rivolgeva al Tribunale denunciando che la dieta imposta
dalla madre avrebbe privato il figlio di alcuni nutrienti essenziali:
il Tribunale (a quanto risulta ratificando un accordo sopravvenuto tra i coniugi), disponeva che il minore avrebbe dovuto consumare almeno un pasto a base di carne nei giorni settimanali con
la madre, mentre non più di due pasti a base di carne nei fine
settimana con il padre81.
Di tenore analogo il caso, ben più grave, deciso nel 2016 dal
Tribunale per i minorenni di Milano82, in cui un infante veniva
cresciuto, sin dalla nascita, secondo una rigida dieta vegana, che
lo portava al ricovero ospedaliero d’urgenza (peraltro contro la
volontà dei genitori e su iniziativa della Procura), in condizioni
di forte sottopeso (il bambino di un anno pesava come uno di
tre mesi) e di valori del sangue “ai limiti della sopravvivenza”,
oltre ad essere afflitto da “grave ipotonia, ipotrofia generalizzata
e ritardo psicomotorio”83. La dieta vegana in questo caso era peraltro controindicata per via di una malformazione cardiaca del
minore, e non era stata integrata dai genitori con calcio e ferro
come invece prescritto dai medici. Il Tribunale, anche alla luce
del rifiuto dei genitori di collaborare con la struttura ospedaliera,
disponeva l’affido del minore ai servizi sociali del Comune di
Milano, collocandolo presso la casa dei nonni materni.
Quest’ultimo caso è peraltro rappresentativo di numerosi episodi simili, con bambini in tenera età, sottoposti dai genitori a
80. Cfr. Tribunale di Bergamo, Sez. I, ordinanza del 16 aprile 2015.
81. Cfr. sul caso V. ATTANÀ, Per la dieta del figlio vanno in Tribunale, in
L’Eco di Bergamo, 29 maggio 2015.
82. Cfr. Tribunale per i minorenni di Milano, decreto del 16 luglio 2016.
83. Cfr. sulla vicenda E. ANDREIS, Il dilemma del bimbo sottopeso sottratto ai genitori vegani, in Corriere della sera, 9 luglio 2016.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
89
diete “vegane”, giunti in condizioni anche gravissime negli ospedali, a causa di gravi carenze di nutrienti necessari per un corretto
sviluppo. E così a Genova, nel 2016, una bambina di due anni
veniva ricoverata in rianimazione a causa di bassi livelli di emoglobina nel sangue, sottopeso e scarsa reattività84, a Belluno nel
2015 un bambino di due anni veniva ricoverato a causa di “gravi carenze” nutrizionali in “condizioni difficili”85, a Firenze nel
2015 un bambino di neppure un anno veniva ricoverato a causa
di una “grave carenza di vitamine”, con possibili danni permanenti86. In molti di questi casi sono state effettuate dalle strutture
sanitarie segnalazioni agli assistenti sociali e al Tribunale per i
minorenni, e in alcuni i genitori sono stati addirittura iscritti nel
registro degli indagati per la verifica della sussistenza di eventuali reati in virtù dei danni provocati ai figli con la loro condotta.
Va comunque rilevato che, in quasi tutti i casi sopraccitati, le
conseguenze negative per la salute dei minori erano cagionate
da un’applicazione scorretta della dieta vegana, la cui lesività in
assoluto non è scientificamente dimostrata, specie laddove essa
venga attuata con i debiti accorgimenti.
In questo senso, il Tribunale di Monza ha statuito, nel 2016, che
laddove sia accertato con consulenza tecnica d’ufficio che la dieta
vegana, pur dannosa nelle modalità attuate in concreto dai genitori,
consentirebbe invece un buono stato di salute per il minore se integrata debitamente, essa non debba essere vietata87. Nel caso di specie
il minore presentava un valore di prealbumina insufficiente e una
84. Cfr. sul caso M. BOMPIANI, M. PREVE, Genova, bimba di due anni
in rianimazione per la dieta vegana, è salva, in Repubblica, 29 giugno 2016.
85. Cfr. sul caso A. CIPRIAN, Dieta vegana per il bimbo di 2 anni. Ricoverato in ospedale e salvato, in Il Gazzettino, 15 ottobre 2015.
86. Cfr. sul caso Firenze, fuori pericolo il neonato figlio di vegani ricoverato per denutrizione, in Il Messaggero, 3 luglio 2015.
87. Cfr. Tribunale di Monza, Sez. IV, sentenza del 5 luglio 2016.
90
Giovanni Cavaggion
malnutrizione proteica dovute proprio a un’applicazione scorretta
della dieta vegana: il Tribunale tuttavia, evidenziando che il perito
da esso nominato aveva escluso uno stato generale di malnutrizione
e fornito rassicurazioni circa la positiva risoluzione delle problematiche sopraccitate previa integrazione della dieta, disponeva che il
minore potesse seguire detto regime alimentare anche a scuola, attenendosi strettamente alle indicazioni del perito stesso, e sottoponendosi a regolari controlli con cadenza semestrale.
In senso analogo una recente decisione del Tribunale per i
minorenni di Cagliari, che ha ritenuto che non sussista violazione dei doveri inerenti alla responsabilità genitoriale da parte dei
genitori che scelgano una dieta vegana per il figlio, ove questa sia
correttamente eseguita secondo le indicazioni degli specialisti, sì
da non creare alcun pregiudizio per la crescita del minore88.
In definitiva, l’approccio giurisprudenziale sembra essere pervenuto a un bilanciamento ragionevole tra le due diverse accezioni del
diritto al cibo, individuando nella sua anima “biologica” il limite
all’anima “culturale”. L’imposizione di una dieta vegetariana, vegana o macrobiotica ai figli minori da parte dei genitori è pertanto
sicuramente legittima, essendo riconducibile al diritto (culturale) dei
genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni morali e
filosofiche, a patto che da detta imposizione non scaturisca la lesione di un diritto fondamentale del minore stesso, e dunque che
la dieta non provochi un danno per il diritto alla vita o il diritto alla
salute, sulla base di specifici accertamenti medici. Il bilanciamento
operato risulta del resto coerente con quello di norma adottato, più
in generale, con riferimento al diritto a mantenere la propria cultura,
che ha costantemente trovato il proprio limite nel rispetto del nucleo
incomprimibile dei diritti fondamentali dell’individuo89.
88. Cfr. Tribunale per i minorenni di Cagliari, decreto del 9 giugno 2017.
89. Sia consentito sul tema il rinvio a G. CAVAGGION, Diritto alla liber-
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
91
Non sembra pertanto potersi condividere la tesi per cui i genitori dovrebbero astenersi dall’imporre ai figli regimi alimentari fondati sulle proprie convinzioni culturali nel corso dei primi
anni di vita90. Laddove infatti sia accertato che detti regimi alimentari non sono pregiudizievoli per il minore, e laddove essi
siano adottati sotto l’osservazione di un medico esperto (quale
è ad esempio il pediatra di fiducia), non si vede perché essi dovrebbero essere vietati, in assenza di una lesione o finanche di un
rischio per un diritto fondamentale del bambino.
Se è certamente vero che in un ordinamento come il nostro,
animato da un vero e proprio “principio puerocentrico”, l’interesse superiore del minore deve sempre assumere rilievo preminente91, e che pertanto i genitori non sono pienamente liberi nella
scelta del regime alimentare dei figli92, non si può giungere sino
alla totale compressione dei diritti culturali dei genitori in virtù
di una presunzione di lesività di tutte le pratiche divergenti da
ciò che è considerato statisticamente normale. Diverso sarebbe
ovviamente il discorso nel caso in cui detta presunzione fosse
fondata su di un consolidato orientamento della scienza medica,
caso in cui risulterebbe ragionevole il divieto di diete potenzialmente pregiudizievoli.
tà religiosa, pubblica sicurezza e “valori occidentali”. Le implicazioni della
sentenza della Cassazione nel “caso kirpan” per il modello di integrazione
italiano, in Federalismi.it, n. 12, 2017.
90. Tesi sostenuta, ad esempio, da A. MUSIO, Scelte alimentari dei genitori
e interesse del minore, cit., 12.
91. Si veda P. BILANCIA, Società multiculturale: i diritti delle donne nella
vita familiare, in Astrid rassegna, n. 2, 2010, 10.
92. Come condivisibilmente osserva A. MUSIO, Scelte alimentari dei genitori e interesse del minore, cit., 13.
92
Giovanni Cavaggion
6. Conclusioni
La ricostruzione sinora svolta restituisce un quadro complesso, che
potrebbe addirittura indurre a dubitare che il diritto al cibo, per
come esso viene tradizionalmente definito, sia provvisto di una sua
piena autonomia ontologica rispetto ad altri diritti già pienamente riconosciuti dalla Costituzione repubblicana. In particolare, si
evidenzia come il cibo potrebbe essere ritenuto non già l’oggetto
della tutela, bensì il mezzo attraverso cui detta tutela si invera in
concreto. In questo senso, la posizione giuridica tutela non sarebbe
il diritto al cibo ma, di volta in volta, il diritto alla vita attraverso
un’alimentazione sufficiente, il diritto alla salute attraverso un’alimentazione adeguata, il diritto alla libertà di espressione attraverso la produzione artistica o scientifica di cibo, il diritto alla cultura
attraverso il mantenimento di pratiche alimentari particolari.
Se inteso come strumento per la piena espansione di altri diritti costituzionalmente riconosciuti, il cibo viene del resto in gioco altresì con riferimento al godimento di alcuni diritti sociali, e
si pensi ad esempio al diritto all’istruzione, e dunque ai servizi di
refezione scolastica, che consentono agli studenti di fruire appieno della prestazione positiva che lo Stato eroga ai sensi dell’articolo 31 Cost. E ancora, il cibo viene in gioco con riferimento ai
delicati temi del cosiddetto “fine vita”, per cui il diritto alla salute
nella sua componente negativa (il diritto a rifiutare le cure) e il
diritto all’autodeterminazione dell’individuo non possono che
evocare le altrettanto complesse questioni, per molti versi ancora
aperte, circa la configurabilità di un diritto a rifiutare (o sospendere, laddove essa sia già iniziata) l’alimentazione artificiale93.
93. Si veda sul tema F. G. PIZZETTI, Alle frontiere della vita. Il testamento
biologico tra valori costituzionali e promozione della persona, Milano, Giuffrè,
2008, 272 ss.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
93
D’altro canto, il riconoscimento di un diritto al cibo quale
diritto autonomo presenta delle indubbie potenzialità con riferimento alla giustiziabilità di situazioni giuridiche che, come si è
visto, vengono troppo spesso ignorate o sottovalutate dal legislatore e dall’autorità giudiziaria. Detto riconoscimento presupporrebbe, evidentemente, la lettura del catalogo dei diritti costituzionali come catalogo aperto, poiché la Costituzione repubblicana
non riconosce, almeno espressamente, un diritto siffatto94. In questo senso il diritto al cibo sarebbe un diritto fondamentale a rango
costituzionale, recepito nell’ordinamento attraverso l’articolo 2
Cost. Laddove si opti per questa soluzione ermeneutica, tuttavia,
appare indispensabile operare una distinzione tra le componenti
“biologica” e “culturale” del diritto al cibo, attesa la profonda
diversità delle posizioni giuridiche soggettive ad esse sottese, e
in particolare ai fini di garantire la prevalenza della prima sulla
seconda in caso di contrasto.
Una soluzione intermedia potrebbe essere il riconoscimento
del diritto al cibo quale specificazione di altri diritti costituzionalmente riconosciuti, finalizzata all’innalzamento del livello minimo di tutela riservato ad alcune loro manifestazioni qualificate,
in virtù della centralità dell’alimentazione con riferimento a tutte
le attività umane. Se inteso in questo senso, il diritto al cibo può
sicuramente integrare un diritto (anche) culturale, nell’accezione
di diritto a scegliere liberamente il proprio regime alimentare. Un
diritto culturale siffatto risulterebbe recessivo rispetto alla necessità di tutelare il nucleo incomprimibile del diritto alla salute e
degli altri diritti fondamentali dell’individuo (incontrando perciò
il medesimo limite di ogni altra istanza culturale fondata sul di94. Si vedano, per tutti: A. BARBERA, Art. 2, in G. Branca (a cura di),
Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, Zanichelli, 1975, 50; F. MODUGNO, I “nuovi diritti” nella giurisprudenza costituzionale, Torino, Giappichelli, 1995.
94
Giovanni Cavaggion
ritto a mantenere la propria cultura)95, ma potrebbe ben prevalere,
in sede di bilanciamento, su interessi come l’igiene pubblica o il
benessere degli animali (e si pensi ai già menzionati casi della
macellazione rituale o del consumo di animali “da compagnia”).
Il riconoscimento di un diritto culturale in questi termini risulterebbe particolarmente opportuno, poi, ai fini di rinforzare la
tutela del diritto alla libertà religiosa e del diritto alla cultura dei
“soggetti deboli”, con particolare riferimento agli individui che
non possano liberamente scegliere il proprio regime alimentare in quanto sottoposti, per diversi motivi, al pubblico potere. È
questo il caso delle mense nella scuola dell’obbligo, nelle carceri
e negli ospedali: in questi casi appare infatti necessario e opportuno un rafforzamento del livello di tutela dei diritti culturali,
nella misura in cui essi servono a proteggere individui privati
(parzialmente) della libertà di autodeterminarsi e pertanto strutturalmente sottoposti a un assimilazionismo anche solo indiretto.
Con riferimento a dette situazioni, appare ragionevole ritenere
che sussista un obbligo “rafforzato” per lo Stato di accomodare le
diverse richieste alimentari fondate sull’esercizio del diritto alla
cultura, e dunque il riconoscimento di una componente positiva
del diritto culturale in esame.
Detto riconoscimento non sembra tuttavia potersi spingere sino ad imporre obblighi positivi anche in capo ai datori di
lavoro, diversamente da quanto accade per lo Stato. Nel nostro
ordinamento, infatti, non può ritenersi sussistente un obbligo positivo per i datori di lavoro di accomodare le esigenze religiose
o culturali del dipendente, in particolare laddove detto accomodamento non sia “a costo zero”96. Esiste tuttavia, anche per il da95. Si veda P. BILANCIA, Società multiculturale: i diritti delle donne nella
vita familiare, cit., 1 ss.
96. Si veda sul tema R. BOTTONI, Le discriminazioni religiose nel settore
lavorativo in materia di alimentazione, cit.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
95
tore di lavoro, un obbligo di non discriminazione nei confronti
dei dipendenti al quale potrebbe essere ricondotta, per alcuni
aspetti, l’istanza culturale relativa a particolari regimi di alimentazione. Anche in questo caso tuttavia, lo scrutinio dovrà essere
particolarmente rigoroso: si potrebbe infatti argomentare che, in
analogia con quanto deciso dalla Corte di Giustizia dell’Unione
europea con riferimento ai simboli religiosi97, sarebbe legittimo,
in quanto neutrale, il divieto di ogni regime alimentare fondato
su convinzioni religiose o culturali (divieto che dovrebbe tuttavia
essere altresì proporzionato rispetto alle finalità perseguite).
Altro tema aperto è se tra i possibili limiti che l’individuo
incontra nella scelta della propria alimentazione, possa essere incluso il limite di una scelta responsabile, e dunque di un dovere
di alimentarsi in modo sano98. La questione rientra in quella più
generale della disponibilità del proprio corpo e del diritto alla
salute: risolverla nel senso della sussistenza di un dovere dell’individuo a compiere scelte alimentari responsabili risulta problematico nella misura in cui tale opzione ermeneutica potrebbe
giustificare una sanzione per il mancato adempimento di un dovere siffatto. Quale sanzione per chi per libera scelta danneggi
sé stesso, tramite l’alimentazione, il fumo, la droga? Certamente
l’intervento statale sul tema non potrà che essere limitato alla
promozione di modelli di vita salutari, ma non potrà mai sconfinare, come invece ipotizzato da alcune voci nel dibattito politico e sociale, nell’imposizione o addirittura nella presa d’atto
di una sorta di “abdicazione implicita” del diritto da parte di chi
ne faccia un uso ritenuto “scorretto”99. Se i diritti fondamentali
97. Cfr. le sentenze nei casi C-157/15 e C-188/15.
98. Tesi sostenuta da A. MORRONE, Ipotesi per un diritto costituzionale
dell’alimentazione, cit., 39.
99. Appaiono pienamente condivisibili, in questo senso, le osservazioni di
L. CHIEFFI, Scelte alimentari e diritti della persona: tra autodeterminazione
96
Giovanni Cavaggion
sono inalienabili e irrinunciabili, non si potrà quindi disporre,
ad esempio, che l’obeso o il fumatore siano penalizzati economicamente o che debbano provvedere direttamente alle proprie
cure100, poiché da ciò deriverebbe una discriminazione nel livello
effettivo di tutela di un diritto costituzionale fondamentale. Del
resto, una piena valorizzazione del principio personalista non
può che comportare la più ampia libertà del singolo di interpretare finanche la dignità della propria esistenza secondo le proprie
convinzioni personali101.
In ogni caso, per quanto sinora argomentato, è evidente che il
diritto al cibo, inteso come diritto culturale, non può prescindere
da specifiche politiche proattive da parte del legislatore nazionale
e locale. In questo senso, si rilevano alcuni interventi positivi negli ultimi anni. Sicuramente apprezzabile è, ad esempio, la stipula della Convenzione interministeriale di sostegno all’iniziativa
“Halal Italia”, volta a promuovere e diffondere nella società e
nel mondo dell’imprenditoria il marchio “halal”102. Similmente,
apprezzabili appaiono le politiche volte a sensibilizzare le scelte
in materia alimentare, ai fini di consentire che esse siano prese in
modo realmente informato103. Molto tuttavia resta ancora da fare,
come evidenziato dal panorama normativo e giurisprudenziale,
che continua a presentare numerosi vuoti di tutela con riferimendel consumatore e sicurezza sulla qualità del cibo, cit., 7.
100. Tesi che è invece sostenuta, ad esempio, da T. CERRUTI, La tutela del
diritto ad un cibo adeguato nella Costituzione italiana, cit., 84.
101. Si veda C. TRIPODINA, Il diritto nell’età della tecnica. Il caso
dell’eutanasia, Napoli, Jovene, 2004, 254 ss.
102. Si veda sul tema A. GIUFFRIDA, La certificazione di conformità del
c.d. “Halal Food”, ora anche in questo volume.
103. Questione evidentemente connessa al tema più ampio del “diritto alla
sicurezza alimentare”. Si veda sul tema J. LUTHER, Le scienze e le norme
dell’alimentazione di un’umanità in crescita, in P. Macchia (a cura di), La persona e l’alimentazione. Profili clinici, giuridici, culturali ed etico-religiosi,
Roma, Aracne, 2014.
Sul diritto all’alimentazione come diritto (anche) culturale
97
to a situazioni che, negli anni a venire, sono inevitabilmente destinate a divenire sempre più frequenti.
In conclusione, non si possono che condividere le osservazioni formulate dal Comitato Nazionale per la Bioetica già nel
2006, per cui “nelle istituzioni pubbliche, una persona non deve
mai essere posta di fronte all’alternativa di cibarsi o di violare le
proprie convinzioni religiose o filosofiche” e, tuttavia, “la garanzia di questo livello minimale costituisce soltanto il primo passo:
nella prospettiva di una bioetica realmente interculturale è infatti
possibile, rimanendo nell’ambito di costi sostenibili, individuare
percorsi che consentano non soltanto di poter rivendicare il diritto a mantenere inalterate le proprie tradizioni alimentari, ma
anche di proporle come elemento di arricchimento per l’intera
comunità”104. Vi è da auspicarsi che le posizioni in esame, rimaste
ad oggi in gran parte inattuate, vengano recuperate da legislatore
quale fondamento di politiche alimentari culturalmente orientate
che possano contribuire, garantendo un adeguato livello di tutela dei diritti fondamentali, ad assicurare la coesione sociale e la
convivenza pacifica nell’ordinamento costituzionale.
104. Cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, parere “Alimentazione differenziata ed interculturalità” del 17 marzo 2006.
«There is no such thing as a free lunch»
Il pasto domestico a scuola
come diritto costituzionalmente garantito1?
Giovanni Boggero
Sommario: - 1. Inquadramento della questione e della vicenda giudiziaria – 2.
L’accertamento del diritto al pasto domestico a scuola – 2.1. Il diritto al pasto domestico a scuola: una modalità di esercizio del diritto all’istruzione
inferiore ex art. 34, co. 2 Cost.?; 2.2. Il riconoscimento del diritto al pasto
domestico a scuola come limitazione della discrezionalità amministrativa –
3. Modalità e problemi di esercizio del diritto nella prassi amministrativa – 4.
Quale adattamento per la legislazione in materia di ristorazione scolastica?
Alcune proposte di legge della XVII legislatura – 5. Conclusioni: la Costituzione italiana non garantisce pasti gratis per tutti.
1. Inquadramento della questione e della vicenda giudiziaria
La discussione circa la sussistenza di un diritto a consumare un
pasto diverso da quello erogato tramite il servizio di refezione
all’interno delle strutture scolastiche pubbliche ha iniziato ad
animare il mondo dei giuristi almeno sin da quando la Corte
1. Il presente lavoro costituisce una versione parzialmente rivista e aggiornata
di un contributo sottoposto a referaggio e poi pubblicato nel fascicolo n. 3/2017
dell’Osservatorio Costituzionale AIC. Il saggio costituisce l’esito di una ricerca
svoltasi tra ottobre 2016 e marzo 2017 nell’ambito del progetto “Alimentazione
e diritti culturali”, insediato presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Scienze
Politiche, Economiche e Sociali (DiGSPES) dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Desidero sinceramente ringraziare la dott.
ssa Laura Delbono (già Procuratore dello Stato presso l’Avvocatura distrettuale
dello Stato di Torino) per l’ampio e prezioso confronto sul tema. Secondo costume e logica, ogni errore resta responsabilità esclusiva dell’autore.
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100
Giovanni Boggero
d’appello di Torino, con la “sentenza pilota” del 21 giugno 2016,
n. 1049 (R.G. 391/2015, rel. Grosso), lo ha qualificato come diritto soggettivo, ricavabile «dall’ordinamento costituzionale e
scolastico», segnatamente dall’art. 34, co. 2 Cost., che tutela il
diritto all’istruzione primaria, nonché da alcune disposizioni della legislazione scolastica.
Le altre pronunce susseguitesi dopo quella data2 e il dibattito perlopiù giornalistico hanno mantenuto vivo l’interesse per la
vicenda, tanto da rendere ora possibile uno scritto che indaghi
origine, natura e prassi di esercizio di tale diritto, avuto particolare riguardo ai diversi aspetti di interesse giuspubblicistico
della questione, dall’applicazione diretta delle norme costituzionali da parte del giudice comune, alla corretta interpretazione dei
parametri costituzionali evocati fino a toccare, ancora, i limiti
posti alla discrezionalità dell’azione amministrativa dalla cd. democrazia partecipativa e soprattutto dalla garanzia dello Stato di
diritto e dei diritti fondamentali.
A partire dalla asserita natura socio-educativa del cd. tempo-mensa, lo scritto esaminerà l’argomentazione attraverso la
quale i giudici della Corte d’appello, in riforma dell’ordinanza
di primo grado, hanno ricavato un diritto “al panino” o, meglio,
al consumo del pasto domestico nelle strutture scolastiche, pur
in assenza di un chiaro presidio normativo che disponesse in tal
senso (§ 2). L’accertamento di tale diritto soggettivo ha determinato, sul piano amministrativo, una serie di problemi inerenti
2. Ci si riferisce alle ordinanze cautelari emesse dal Tribunale di Torino in
data 13 agosto 2016 (R.G. 20988/2016, dott. Ciccarelli) e in data 9 settembre
2016 (R.G. 21250/2016, dott. Astuni), nonché all’ordinanza cautelare del 20 dicembre 2016 del Tribunale di Genova (R.G. 14227/16, dott.ssa Cresta), all’ordinanza cautelare del 25 maggio 2017 del Tribunale di Napoli (R.G. 7159/17,
dott.ssa Gargia), nonché a quella del 27 ottobre 2017 del Tribunale di Potenza
(R.G. 3119/17, dott.ssa Gesummaria).
«There is no such thing as a free lunch»
101
il suo esercizio, riferibili tanto a ragioni organizzative e igienico-sanitarie, quanto a profili di responsabilità scolastica, che rischiano di produrre nuovo contenzioso sia in sede di giurisdizione amministrativa, sia in sede ordinaria (§ 3).
A questo punto, in pendenza del giudizio avanti alla Suprema Corte di Cassazione, taluni hanno invocato un intervento del
legislatore statale, il quale sarebbe chiamato o a positivizzare il
diritto accertato dai giudici comuni oppure a modificare le modalità di affidamento del servizio pubblico di refezione, rendendolo
un servizio a rilevanza sociale da gestire in proprio e finanziare
integralmente con la fiscalità generale da parte dei Comuni (§ 4).
Si concluderà osservando che l’aspirazione di alcuni genitori parrebbe riconducibile alla teoria in base alla quale il “diritto
al panino” si impone quale spontaneo e inevitabile rimedio alla
qualificazione normativa della refezione come servizio pubblico
economico a domanda individuale e non come livello essenziale
delle prestazioni concernenti l’esercizio dei diritti sociali. A tale
approccio, si contrappone quello di chi scrive che contesta ex se
il diritto al consumo del pasto domestico, da un lato affermando il principio della discrezionalità dell’azione amministrativa
nell’organizzazione del servizio scolastico e dall’altro evidenziando come la rivendicazione di un tale diritto sia, in realtà, il
sintomo latente di una scarsa, o comunque insufficiente, concorrenza tra operatori del settore in talune aree del Paese (§ 5).
2. L’accertamento del diritto al pasto domestico a scuola
La vicenda giudiziaria da cui è scaturito il riconoscimento del
cd. diritto al panino prende le mosse dall’atto attraverso il quale,
il 30 settembre 2013, su proposta dell’Assessore alle Politiche
Educative, il Consiglio comunale della Città di Torino deliberava
102
Giovanni Boggero
la rimodulazione delle tariffe del servizio di refezione scolastica
al fine di contribuire ad una maggiore copertura dei costi dell’amministrazione locale per le scuole materne, elementari e medie da
parte degli utenti, a fronte del drastico taglio dei trasferimenti
statali e regionali destinati al finanziamento di tale servizio.
Il ricorso al T.A.R. Piemonte, sollevato da alcuni genitori
quale risposta alla straordinaria onerosità delle tariffe ed evidentemente volto a trasformare la refezione scolastica in un servizio
pubblico senza contribuzione da parte dell’utenza, ha finito per
dare più che altro visibilità all’azione di accertamento circa la
sussistenza del cd. diritto al panino, questione sollevata in via
residuale come quinto e ultimo motivo di ricorso, con la quale si
chiedeva di accertare il diritto di scelta dei discenti a consumare
un pasto domestico a scuola, anziché usufruire del servizio di
ristorazione.
Con riferimento a tale aspetto, nella sentenza 31 luglio 2014, n.
13653, il T.A.R. Piemonte, pur esprimendo in un obiter numerose
perplessità circa la fondatezza della pretesa (§ 3.2 del Considerato
in Diritto), dichiarava la propria carenza di giurisdizione, atteso
che il preteso diritto soggettivo «esula, in mancanza di presidio
normativo, dall’ambito del rapporto di pubblico servizio intercorrente tra l’Amministrazione e gli utenti del servizio». In altre
parole, la cognizione in ordine a siffatta pretesa sarebbe sfuggita
alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133,
co. 1 lett. c) c.p.a., dal momento che sarebbero mancati provvedimenti dell’autorità scolastica che dessero attuazione a disposizioni
di carattere generale riconducibili all’esercizio di un potere amministrativo. Infatti, i ricorrenti «non impugnano provvedimenti
3. Sulla sentenza pronunciata dal T.A.R. Piemonte si veda il commento a
prima lettura di: M. Bottiglieri, Il Comune può escludere un diritto alla scelta
tra mensa e panino. Nota alla sentenza del TAR Piemonte del 31.07.2014, n.
1365, in: Polis Working Papers - Osservatorio OPAL n. 6/2015.
«There is no such thing as a free lunch»
103
con cui l’amministrazione comunale abbia negato il preteso diritto», sicché, in assenza di essi, alla luce di quanto previsto dall’art.
34, co. 2 c.p.a., «il giudice non può pronunciare con riferimento
a poteri amministrativi non ancora esercitati». A tal proposito, i
ricorrenti avrebbero forse potuto impugnare il divieto all’introduzione di cibi dall’esterno se e in quanto conseguente a clausole
contrattuali di appalto o se contenuto nel regolamento di qualche
istituto scolastico torinese o in una deliberazione di un consiglio
d’istituto. Solo in tal caso, si sarebbe posta per il giudice amministrativo la questione se la situazione soggettiva rivendicata potesse
qualificarsi come diritto soggettivo o, quantomeno, come interesse
legittimo (§§ 9.1 e 9.2 del Considerato in Diritto).
Al riguardo, giova rilevare che, pur in assenza di una espressa
previsione legislativa impositiva di un obbligo, ad eccezione del
r.d. 30 aprile 1924, n. 965, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, nell’ordinanza 10 luglio 2006, n. 15614, avevano ritenuto che
sussistesse la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in
un caso riguardante il rifiuto dell’autorità scolastica di rimuovere
un crocifisso da un’aula scolastica, dal momento che la contestazione inerente l’arredo scolastico da parte dei genitori era avvenuta
sulla base di provvedimenti adottati dall’autorità amministrativa
attinenti le modalità di esecuzione del servizio scolastico. Del pari,
in passato, si era attribuita alla giurisdizione del giudice amministrativo una controversia che coinvolgeva il potere amministrativo in ordine all’organizzazione e alle modalità di prestazione del
servizio scolastico e in particolare il potere dell’Amministrazione
di impartire lezioni di educazione sessuale (Cass. Civ., S.U. sent.
5 febbraio 2008, n. 2656). Nel caso in esame, si sarebbe pertanto
potuto sostenere che la questione inerente la legittimità della scelta operata dall’autorità scolastica di erogare soltanto un servizio
di refezione per i discenti del “tempo pieno”, senza autorizzare
esplicitamente il consumo di altri cibi nelle strutture scolastiche
104
Giovanni Boggero
durante il “tempo-mensa” investisse in via diretta ed immediata
l’esercizio del potere amministrativo in ordine all’organizzazione
e alle modalità di prestazione del servizio scolastico e rientrasse
quindi nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo4.
Tuttavia, nel caso in esame non veniva in realtà dedotta da parte
dei ricorrenti alcuna lesione di diritti fondamentali come effetto
di comportamenti espressione di un potere autoritativo della p.a.,
bensì si agiva in giudizio, inter alia, per il mero accertamento di
un diritto soggettivo, azione ad oggi non contemplata dal Codice
del processo amministrativo5. Di tenore del tutto diverso è, invece,
la recente vicenda di Benevento, dove il Comune aveva adottato
un regolamento sul servizio di ristorazione scolastica che rendeva
tale servizio obbligatorio per tutti gli iscritti alle scuole materne
ed elementari, impedendo esplicitamente la consumazione di pasti
introdotti dall’esterno. In tal caso, sussisteva chiaramente la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, oltreché quella
di legittimità, dal momento che era coinvolto l’esercizio di poteri
autoritativi da parte dell’Amministrazione con riferimento all’organizzazione di un servizio pubblico6.
Tanto premesso, la difesa dei ricorrenti torinesi ha così preferito incardinare innanzi alla giurisdizione ordinaria un nuovo
4. Di questo avviso è, d’altra parte, anche l’ordinanza n. 17037/2017 del
Tribunale di Napoli, Sez. X, che ha accolto il reclamo contro la già menzionata
ordinanza emessa dal Tribunale in composizione monocratica sulla base della
questione di giurisdizione sollevata d’ufficio all’udienza del 20 luglio 2017.
5. Circa il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sull’ammissibilità di
un’azione di accertamento autonomo si veda inter alia: M. Mignone – P. Vipiana (a cura di), Manuale di giustizia amministrativa, Padova, 2012, 126 ss. In
proposito si veda anche più di recente: R. Chieppa – R. Giovagnoli, Manuale di
diritto amministrativo, Milano, 2017, 1167 ss.
6. Al riguardo si veda T.A.R. Campania, Sez. VI, sent. 7 marzo 2018, n.
1566 (R.G. 3651/17), con la quale il regolamento del Comune di Benevento è
stato dichiarato illegittimo e perciò annullato. Il Consiglio di Stato ha respinto
l’appello del Comune di Benevento con sent. 3 settembre 2018, n. 5156.
«There is no such thing as a free lunch»
105
procedimento, forse anche nella convinzione che il giudice civile
fosse più sensibile alle esigenze di tutela dei diritti fondamentali
rispetto a quello amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. Di seguito, oltre ad esaminare l’iter logico-argomentativo
delle sentenze dei giudici torinesi (§ 2.1), se ne verificherà l’impatto con riguardo alla configurazione del diritto all’istruzione
inferiore e, in particolar modo, ai rapporti intercorrenti tra genitori e Amministrazione (§ 2.2).
2.1. Il diritto al pasto domestico a scuola: una modalità di esercizio del diritto all’istruzione inferiore ex art. 34, co. 2 Cost.?
La questione ha trovato soluzione positiva, anche se per ora soltanto temporanea, presso la Corte d’appello di Torino, la quale, in
riforma dell’ordinanza di primo grado, ha accertato il diritto soggettivo di alcuni genitori di alunni di scuole materne, elementari
e medie torinesi a scegliere tra il servizio di refezione scolastica
e il pasto preparato in famiglia7.
Il Collegio ha desunto il diritto de quo dal più ampio diritto
soggettivo al “tempo-mensa”, a sua volta ritenuto corollario del diritto costituzionale alla gratuità dell’istruzione inferiore8. Il concet7. All’esito del giudizio di merito, l’Ufficio scolastico regionale e gli Assessorati regionale e comunale all’Istruzione, con una comunicazione inviata agli
istituti scolastici piemontesi, precisavano che solo per i 58 alunni ricorrenti le
scuole erano tenute a predisporre la fruizione del pasto domestico, atteso che
l’accertamento del diritto contenuto nella sentenza non poteva certo automaticamente estendersi a terzi. Tale comunicazione provocava l’immediata proposizione di alcuni ricorsi d’urgenza ex art. 700 c.p.c. al Tribunale ordinario di
Torino, cui facevano seguito analoghi ricorsi in altre Regioni italiane, tra cui la
Liguria e la Lombardia, ma anche la Basilicata, da parte di altri genitori di alunni di scuole primarie diverse per ottenere, a loro volta, l’accertamento e l’anticipazione degli effetti del loro diritto di scelta, atteso che l’amministrazione ne
aveva negato la sussistenza per coloro che non avevano preso parte al giudizio.
8. Il Collegio non distingue tra “diritto allo studio” e “diritto all’istruzio-
106
Giovanni Boggero
to di “istruzione”, di cui all’art. 34, co. 2 Cost., non sarebbe, infatti,
riducibile ad «attività del docente diretta ad impartire nozioni»,
ossia ad attività a carattere strettamente didattico, ma andrebbe
qualificato come un più ampio processo che coinvolge una serie di
attività anche socio-educative, nelle quali è possibile ricomprendere persino quelle relative al “tempo-mensa”, atteso che, durante la
pausa-pranzo, il personale docente svolge non mera sorveglianza,
bensì attività di educazione alimentare. Il “tempo-mensa” rappresenterebbe, peraltro, un momento significativo di condivisione e
socializzazione, oltreché di confronto tra i discenti con i limiti imposti dal rispetto delle regole della civile convivenza.
L’inclusione del “tempo-mensa” nel Piano di offerta formativa
(P.o.f.) per coloro i quali scelgono il “tempo pieno” è operata dai
giudici torinesi non soltanto a partire dalle norme costituzionali,
bensì anche interpretando le disposizioni vigenti della legislazione
scolastica alla luce di un atto amministrativo interno, la circolare
M.I.U.R. n. 29 del 5 marzo 2004, emanata a seguito dell’entrata in
vigore del d.lgs. 19 febbraio 2004, n. 59 (Definizione delle norme
generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione). Tale circolare definisce il “tempo-mensa”, così come
peraltro pure il “dopo-mensa”, quale segmento orario rientrante
nel monte ore complessivo di erogazione del servizio scolastico.
Così, del resto, parrebbe doversi opinare anche con riferimento
all’art. 130, co. 2 del d.lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative
ne”, questione dibattuta invece nella dottrina e risolta dalla giurisprudenza costituzionale nel senso di ricondurre il primo al comma 3 dell’art. 34, definibile
come diritto volto a garantire l’assistenza scolastica ai discenti meritevoli privi
di mezzi. Cfr. V. Atripaldi, Il diritto allo studio, Napoli, 1974, 13 ss.; F. Bruno, Prime considerazioni sui soggetti attivi del diritto allo studio, in: AA.VV,
Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, Milano, 1977, 172 ss.
«There is no such thing as a free lunch»
107
alle scuole di ogni ordine e grado), non menzionato nelle pronunce in esame, il quale stabilisce che l’orario settimanale complessivo, ivi compreso il tempo-mensa, non superi le quaranta ore. Per i
giudici torinesi ne discenderebbe, allora, che «il permanere presso
la scuola nell’orario della mensa costituisce un diritto soggettivo
perfetto proprio perché costituisce esercizio del diritto all’istruzione nel significato appena delineato».
Allo stesso tempo, però, il riconoscimento del diritto al “tempo-mensa” non implicherebbe che il servizio di refezione scolastica diventi obbligatorio per ogni famiglia, ma anzi «la facoltatività rappresenta una caratteristica intrinseca di tale servizio che
non può mutare a seconda delle circostanze». Ciò che costituisce
un diritto soggettivo dei genitori sarebbe, invece, la permanenza
a scuola degli alunni durante il tempo-mensa, in quanto momento
rientrante nel progetto complessivo di istruzione ed educazione
dei minori9. Se ciascun genitore fosse obbligato a prelevare il
figlio e riaccompagnarlo a scuola dopo il pranzo, come asserito
dalla difesa erariale, o se fruisse della refezione scolastica per
necessità e in assenza di alternativa, tale diritto al “tempo-mensa”, che allora sarebbe stato forse più appropriato qualificare
come “tempo-pranzo”, verrebbe non soltanto limitato, ma anche
leso, considerato che il diritto all’istruzione inferiore, la cui gratuità è sancita dall’art. 34, co. 2 Cost., risulterebbe condizionato
all’adesione di un servizio a pagamento. Ne discenderebbe che
il diritto al “tempo-mensa”, inteso come corollario del diritto costituzionale all’istruzione inferiore, può essere garantito non solo
9. Al contrario, la Corte dei Conti, Sez. Regionale di controllo per la Sardegna, nel suo parere 20 dicembre 2010, n. 112 aveva invece affermato che non
fosse di per sé il tempo-mensa, bensì il servizio di mensa «a favorire la frequenza degli alunni della scuola dell’infanzia e a garantire il diritto allo studio degli
studenti della scuola del Primo Ciclo o scuola dell’obbligo, anche attraverso
momenti di aggregazione costituiti per l’appunto dalla riunione nei refettori».
108
Giovanni Boggero
attraverso l’erogazione del servizio di refezione, ma anche attraverso il consumo di un pasto preparato a casa, dal momento che
l’interesse giuridico tutelato è, in via generale, la predisposizione
di tempi e luoghi idonei per rifocillarsi al fine di garantire ai discenti la “riproduzione” della forza di studio.
Tale diritto non esprimerebbe, infine, soltanto una «modalità di esercizio del diritto allo studio», ma troverebbe il proprio
fondamento anche nel principio costituzionale di uguaglianza e
pari dignità dei cittadini (art. 3, co. 1 Cost.). Infatti, non sarebbe
ragionevole subordinare il diritto all’istruzione inferiore al pagamento del servizio di refezione da parte di alcuni genitori soltanto e costringerne un’altra parte a rinunziarvi, al fine di evitare il
pagamento di una retta. Dalla desunta irragionevolezza del trattamento differenziato deriverebbe quindi anche un vulnus all’uguaglianza sostanziale, così come tutelata dall’art. 3, co. 2 Cost.
In tal modo, la Corte d’appello di Torino ha fatto prevalere il
diritto soggettivo dei discenti alla gratuità dell’istruzione in una
situazione slegata dall’obbligo di frequenza scolastica, ritenendo
che il pieno sviluppo della persona umana cui il diritto all’istruzione è preordinato non potesse essere ostacolato da sperequazioni di ordine economico-sociale ancorché attinenti a un servizio,
quale quello di refezione, che coopera soltanto indirettamente al
raggiungimento dello scopo dell’attività di insegnamento e che,
come tale, non sarebbe coperto dalla garanzia del diritto all’istruzione, almeno stando all’interpretazione più restrittiva dell’art.
34, co. 2 Cost. Sposata sino ad oggi dalla Corte costituzionale
(sent. n. 7/1967, § 3 del Considerato in Diritto)10.
In particolar modo in sede cautelare, i giudici torinesi hanno
infine verificato se esistessero altri diritti o interessi costituzio10. Così anche: V. Onida e M. Pedrazza Gorlero, Compendio di diritto
costituzionale, II ed., 2009, 132.
«There is no such thing as a free lunch»
109
nalmente protetti che giustificassero una compressione del diritto
all’istruzione così come fino allora interpretato. A tal proposito,
le eccezioni addotte dalla difesa erariale e da quella comunale in
ordine alle ragioni organizzative e igienico-sanitarie che ne avrebbero impedito l’esercizio, sono state dichiarate infondate, atteso
che, mentre le prime non sarebbero state comunque d’ostacolo al
riconoscimento di tale diritto, le seconde avrebbero avuto natura
del tutto generica, non essendo stata indicata la fonte normativa
che vieta l’introduzione a scuola di cibi dall’esterno. Né il diritto
soggettivo riconosciuto dalla Corte d’appello avrebbe potuto risultare inficiato dal Regolamento europeo in materia di “igiene dei
prodotti alimentari” (CEE Reg. 29 aprile 2004, n. 852), stante la
sua applicabilità alle sole imprese e non ai privati e considerata,
comunque, la sua non applicabilità con riferimento «alla preparazione, alla manipolazione e alla conservazione domestica di alimenti destinati al consumo domestico privato» (art. 1.2).
A questo proposito, risulta a dir poco singolare che il Tribunale di Torino in sede cautelare abbia ricavato dall’assenza di
un presidio normativo l’insussistenza di un rischio per la salute
degli alunni, quando proprio dall’assenza di un esplicito riferimento normativo esso ha, invece, desunto un diritto soggettivo
all’introduzione del pasto domestico a scuola. A maggior ragione
in sede cautelare, le eventuali contaminazioni tra cibi o il loro
deterioramento andrebbero valutate non tanto sulla base dell’esistenza di una norma che autorizzi o vieti l’introduzione di cibi
nelle strutture scolastiche, quanto piuttosto sulla base dei rischi
per la salute che dal riconoscimento di un tale diritto si possono
produrre. Di questi rischi ha tenuto conto finora soltanto il Tribunale di Napoli nella sua ordinanza cautelare del 25 maggio
2017, con la quale, sulla scorta di un parere dell’ASL 1 Napoli
Centro, ha sottolineato la «mancanza di strutture adeguate per la
corretta conservazione dei cibi, rischi alla sicurezza dei minori
110
Giovanni Boggero
per l’assenza di personale ad hoc, assicurato e adeguatamente
formato, per la vigilanza degli alunni e l’assistenza al pasto e soprattutto rischi per la salute degli altri minori, fruitori del servizio
di refezione scolastica, connessi al non improbabile scambio di
alimenti e contaminazione alimentare», operando così un diverso
bilanciamento tra il diritto dei discenti alla fruizione del pasto
domestico a scuola e il diritto alla salute degli altri alunni.
Di diverso avviso, invece, il T.A.R. Campania, chiamato a pronunciarsi in sede di giurisdizione esclusiva e di legittimità su un
regolamento del Comune di Benevento, che aveva vietato l’introduzione e il consumo di pasti che non fossero quelli preparati dal
gestore appaltatore. Stando al giudice amministrativo partenopeo,
il Comune non avrebbe potuto escludere a priori la sicurezza igienica degli alimenti esterni attraverso un regolamento comunale,
questione che sarebbe rimessa, invece, a prudenti apprezzamenti
dei singoli direttori didattici, i quali saranno chiamati a valutare
la idoneità dei locali e la disponibilità di personale addetto alla vigilanza (con particolare riguardo ai bambini affetti da allergie e intolleranze
alimentari), senza escludere eventuali misure ad hoc mirate a garantire
la provenienza sicura dell’alimento (es. scontrini di acquisto, come di
consueto avviene nelle ipotesi di eventi festosi).11
2.2. Il riconoscimento del diritto al pasto domestico a scuola
come limitazione della discrezionalità amministrativa
In via generale, è ben possibile sostenere che il “tempo-mensa”
e persino il “dopo-mensa” siano momenti funzionali al concreto
esercizio del diritto all’istruzione inferiore, ai sensi dell’art. 34,
11. Si veda: T.A.R. Campania. Sez. VI, sent. 7 marzo 2018, n. 1566 (R.G.
3651/17).
«There is no such thing as a free lunch»
111
co. 2 Cost., atteso che il concetto di istruzione può includere anche uno specifico momento di educazione alimentare, oltreché di
socializzazione finalizzata all’apprendimento e al rispetto delle
regole della civile convivenza. Esso non contribuisce, tuttavia, a
identificare il cd. nucleo indefettibile del diritto fondamentale in
parola, di fronte al quale il potere discrezionale dell’Amministrazione si deve arrestare (cfr. inter alia: Corte costituzionale, sentt.
nn. 8/2011, 80/2010, 251/2008), ma, per espressa ammissione
dei ricorrenti, rappresenta piuttosto l’espressione di un momento
educativo ulteriore, atteso che “tempo-mensa” e “dopo-mensa”
sono sottratti de lege lata all’obbligo di frequenza scolastica e
la scelta di usufruirne o meno costituisce una mera facoltà del
genitore o dell’esercente la responsabilità genitoriale.
A fronte dell’esercizio di tale facoltà, l’ordinamento italiano ha
apprestato l’erogazione di un servizio di refezione scolastica a livello comunale, in ordine al quale il genitore avrà, tutt’al più, un diritto
di eguale e libero accesso. Il fatto che la normativa non preveda che
tale facoltà possa essere esercitata secondo modalità diverse e altre
rispetto al menzionato servizio di refezione o ristorazione - ad es. attraverso il pasto domestico - rientra nell’ampio margine di discrezionalità riservato alla p.a. per organizzare le modalità di fruizione del
“tempo-mensa”. Così, del resto, ha osservato anche il Tribunale di
Torino, Sez. I, nell’ordinanza di primo grado (R.G. 31531/14, dott.
ssa Orlando), poi riformata in appello: «La sfera di discrezionalità
che disciplina l’istituzione e l’organizzazione del servizio non consente di ravvisare un diritto soggettivo, sia questa diretta ad esigere
il servizio mensa o la prestazione alternativa oggetto di causa». Può
rientrare, al massimo, nell’esercizio dell’autonomia organizzativa di
ciascun istituto scolastico, secondo criteri di comune buon senso,
prevedere l’esercizio di questa facoltà.
A voler essere più precisi, ad oggi, il “tempo-mensa” coincide
in realtà con la fruizione del servizio di refezione, nel senso che
112
Giovanni Boggero
il primo è stato istituito in funzione dell’erogazione del secondo. Di talché, la pretesa dei genitori di far consumare ai figli un
pasto confezionato a casa determinerebbe un mutamento della
natura del “tempo-mensa”, visto che, da specifico momento di
educazione inquadrato nel piano di offerta formativa e uguale
per tutti, diventerebbe, a seconda dei casi, o un semplice momento di soddisfacimento dei bisogni nutrizionali inerente la tutela
della salute di cui all’art. 32, co. 1 Cost. oppure un momento nel
quale è più che altro la famiglia e non l’istituzione scolastica a
impartire la propria educazione alimentare12. Con ciò è possibile
dunque affermare che il cd. diritto al panino trovi fondamento
più nell’art. 30, co. 1 Cost., che protegge il diritto dei genitori ad
educare i propri figli che nell’art. 34, co. 2 Cost., il quale garantisce, invece, il diritto dei discenti “a ricevere un insegnamento”13.
Non potrebbe, quindi, evocarsi alcuna violazione degli artt.
3 e 34 Cost. Infatti, atteso che non vige alcun obbligo per i genitori di avvalersi del “tempo-mensa”, allo stesso modo non esiste
nemmeno il corrispondente obbligo di fruire del servizio di ristorazione scolastica.14 A siffatta situazione giuridica soggettiva,
12. Altrettanto problematico sarebbe inquadrare il diritto soggettivo de quo
tra i corollari del diritto costituzionale al cibo adeguato, dal momento che consumare il pasto confezionato a casa non equivale di per sé alla garanzia di accesso a un cibo qualitativamente adeguato ad assicurare una vita soddisfacente
e degna. Per una prima sistematica inerente tale diritto in lingua italiana si veda:
M. Bottiglieri, La protezione del diritto al cibo adeguato nella Costituzione
italiana, in: www.forumcostituzionale.it, 2 marzo 2016.
13. Secondo la categorizzazione proposta da U. Pototschnig, Istruzione
(diritto alla), in: Enc. Dir., Vol. XXIII, Milano, 1973, 98 ss.
14. Il Giudice di prime cure aveva ripetuto che la normativa in vigore consente, infatti, ai genitori di evitare i costi della refezione scolastica prelevando i
figli a scuola durante la pausa pranzo, in tal modo non potendosi ravvisare una
violazione dell’art. 34, co. 2 Cost., quale garanzia posta a presidio della gratuità
dell’istruzione scolastica. Parimenti, la tutela del lavoro ex art. 35 Cost. non
implica il riconoscimento al lavoratore del diritto a un “tempo-scuola” per i figli
di durata corrispondente all’orario lavorativo. Né, infine, potrebbe dirsi violato
«There is no such thing as a free lunch»
113
ascrivibile al novero delle “facoltà”, non può allora far riscontro, in assenza di una norma positiva che stabilisca altrimenti,
alcun “obbligo” giustiziabile nei confronti della pubblica amministrazione, volto a garantire ai discenti modalità alternative di
soddisfazione dell’interesse, o meglio dell’aspirazione, in esame. Diversamente, ad ogni facoltà dei privati di avvalersi di una
certa prestazione inerente l’esercizio di un diritto fondamentale,
sebbene non il suo nucleo essenziale e intangibile, conseguirebbe automaticamente anche il corrispondente diritto soggettivo
a conformare l’azione amministrativa alla scelta delle modalità
con le quali tale facoltà si vuole che sia esercitata.
Prima di oggi non risultano in Italia analoghe iniziative giudiziarie per mezzo delle quali sia stato riconosciuto in sede giurisdizionale il diritto dei genitori di pretendere dall’Amministrazione
una determinata organizzazione del servizio scolastico. A questo
proposito, la sussistenza di un tale diritto in altri ordinamenti è
stata oggetto di alcuni giudizi anche dinanzi alla Corte europea
dei diritti dell’uomo (Corte EDU), sulla base della cui consolidata giurisprudenza l’art. 2 del Protocollo I CEDU, che sancisce
la libertà dei genitori di educare i propri figli, non può essere
interpretato nel senso di permettere loro di esigere dallo Stato che
esso organizzi, ad esempio, un dato insegnamento, dal momento
che la sistemazione dell’ambiente scolastico e così anche la definizione e la pianificazione dei programmi di studio rientrano nel
“margine di apprezzamento” di cui gode ciascuno Stato membro
del Consiglio d’Europa15. Ciò non significa che uno Stato parte
il principio di cui all’art. 3, co. 1 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, dal
momento che il trattamento differenziato tra alunni è basato su libere scelte dei
rispettivi genitori e non è imposto dalla legge.
15. Corte EDU, Caso linguistico belga (No. 2), 23 luglio 1968, App. No.
1474/62; 1677/62; 1691/62; 1769/63; 1994/63; 2126/64; Bulski c. Polonia,
App. No. 46254/99 e 31888/02. E in precedenza, in punto di ammissibilità del
114
Giovanni Boggero
della Convenzione non possa liberamente decidere di strutturare
il diritto dei genitori così da pretendere una particolare sistemazione dell’ambiente scolastico o una determinata offerta formativa, ma soltanto che, allo stato attuale, non esiste un “consenso
europeo” che permetta un’interpretazione di questo tipo dell’art.
2 del Protocollo I CEDU. Né, d’altra parte, è possibile giungere a
una simile conclusione a partire dall’interpretazione dell’art. 34,
co. 1 e co. 2 Cost.16.
Siffatto riconoscimento avrebbe, d’altronde, conseguenze significative in ordine alla definizione dell’anzidetto piano d’offerta formativa, che finirebbe per essere oggetto in ogni suo aspetto
di molteplici pretese dei genitori, si pensi alla scelta dei libri di
testo o alle modalità di svolgimento della ricreazione. Tale attitudine, volta a intaccare la sfera di discrezionalità della pubblica
amministrazione in senso, per così dire, partecipativo, emerge
in maniera eclatante in questa vicenda. Il caso in esame mette in
evidenza quelli che il Presidente onorario aggiunto del Consiglio
di Stato, Salvatore Giacchetti, in passato definì gli “interessi legittimi del futuro”17, ossia quegli interessi partecipativi per i quali
i cittadini non si limitano più, passivamente, a fruire dei servizi
pubblici come erogati dalla pubblica amministrazione, ma contribuiscono anzi a influenzare le modalità di esecuzione della legge attraverso un loro inserimento, anche proattivo, in questo caso
filtrato persino dall’autorità giudiziaria, nei circuiti decisionali
della p.a. Anche in tal modo i connotati dell’amministrazione
mutano: da attività volta alla mera e formale esecuzione della
ricorso, si veda anche l’ordinanza della Commissione europea dei diritti umani:
Family H c. Regno Unito, App. No. 10233/83.
16. A. Roccella, Il diritto all’istruzione nell’ordinamento italiano, in:
Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, Anno IV, N. 1, 1990, 20.
17. S. Giacchetti, La giurisdizione esclusiva tra l’essere ed il divenire, in:
Studi per il centenario della IV Sezione, Vol. II, Roma, 1989, 658.
«There is no such thing as a free lunch»
115
legge essa diventa un’attività volta a garantire innanzitutto l’effettività dei diritti fondamentali18.
In tal caso, tuttavia, l’inserimento degli utenti nei circuiti decisionali avviene non nell’ambito del procedimento amministrativo, secondo i canoni tradizionali della partecipazione consacrati
dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, bensì attraverso la limitazione
della discrezionalità della pubblica amministrazione da parte di
pretese individuali o meglio di “interessi pretensivi”, riconosciuti in tale vicenda come diritti soggettivi dall’autorità giudiziaria
ordinaria. Si tratta, cioè, di una peculiare forma di quell’ampio
fenomeno di “democratizzazione” dell’azione amministrativa di
cui si parla da tempo, che assume qui tratti di novità, in quanto
mediata dal potere giurisdizionale. D’altra parte, non deve sorprendere più di tanto che tale istanza di democrazia amministrativa trovi compimento nel settore dei servizi pubblici, ambito nel
quale l’amministrazione pubblica contemporanea è chiamata a
operare un delicato bilanciamento tra interessi rilevanti tra loro
contrapposti. È in particolar modo in questo ambito, infatti, che
la democrazia deliberativa e partecipativa possono offrire una
garanzia di legittimazione aggiuntiva all’azione della p.a.19.
Tuttavia, nel caso di specie sembra arduo poter qualificare il
riconoscimento del diritto in esame come l’esito di una partecipazione procedimentale all’organizzazione del servizio scolastico, trattandosi piuttosto dell’accertamento di una posizione
18. Sul paradigma sostanzialista della cd. “amministrazione dei risultati” si vedano: A. Police e M. Immordino (a cura di), Principio di legalità e
amministrazione di risultati, in: Atti del Convegno – Palermo 27-28 febbraio
2003, Torino, 2004; L. Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio
amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in: Dir. Proc. Amm.,
1998, 299; A. Romano Tassone, Sulla formula “amministrazione di risultati”,
in: Scritti in onore di Elio Casetta, Napoli, 2001, 813 ss.
19. R. Bifulco, Democrazia deliberativa (voce), in: Enciclopedia del Diritto, Annali, Vol. IV, Milano, 2011, 289.
116
Giovanni Boggero
giuridica soggettiva che surroga la partecipazione, ma non serve
a incanalarla o formalizzarla. Tale “surroga giudiziaria”, giustificata dalla garanzia sostanziale dei diritti fondamentali e quindi
dalla tutela dello Stato di diritto, è la cartina di tornasole di una
carenza di coinvolgimento procedimentale “a monte”, tale per
cui se i genitori fossero adeguatamente coinvolti – ad es. attraverso le Commissioni Mensa – nel procedimento amministrativo
attinente la stesura dei capitolati d’appalto o, ancora, nella programmazione delle modalità di fruizione del cd. “tempo-mensa”
ed, eventualmente, anche nel procedimento legislativo inerente
la disciplina del sistema di istruzione20, la giurisdizionalizzazione del fenomeno non necessariamente arretrerebbe, ma avrebbe
quantomeno ad oggetto il rispetto formale dei canoni procedimentali di partecipazione, anziché la sussistenza di pretese prive
di alcun presidio normativo21.
3. Modalità e problemi di esercizio del diritto nella prassi amministrativa
Che gli interessi partecipativi filtrati dalla mano della giurisdizione ordinaria abbiano effettivamente conformato l’azione ammi20. Che il diritto all’istruzione inferiore ex art. 34 Cost. non consista soltanto nel godimento di una prestazione amministrativa, ma anche nella partecipazione alla programmazione e alla gestione del servizio è affermato già nella
dottrina costituzionalistica più risalente: A. Mura, Artt. 33-34, in: A. Branca,
Commentario alla Costituzione, Bologna-Roma, 1976, 257.
21. Sulle potenzialità dei processi partecipativi inerenti il servizio di refezione scolastica in Italia si veda ad esempio lo studio di: E. Santanera - E.
Pagliarino, Exploring the Role of Parents in Sustainable School Food Procurement, IFSA-Conference, Harper Adams University, 2016, reperibile al seguente indirizzo web: http://archive.harper-adams.ac.uk/events/ifsa-conference/papers/5/5.9%20Santanera.pdf (ultimo accesso 31 agosto 2017).
«There is no such thing as a free lunch»
117
nistrativa diventa ancora più perspicuo, osservando i vincoli che
i giudici torinesi hanno finito per porre all’organizzazione del
servizio scolastico in funzione del concreto esercizio del diritto
soggettivo accertato.
Per quanto l’autorità giudiziaria ordinaria non possa imporre
alle amministrazioni statale e locale un facere specifico in ordine
alla concreta attuazione del diritto accertato e quindi non si sia
espressa con riguardo alla richiesta di parte ricorrente che il diritto di consumare il pasto domestico fosse esercitato nei locali
adibiti al servizio di refezione, è di tutta evidenza che il diritto a
consumare un pasto diverso da quello preparato dal servizio di
refezione implichi una diversa organizzazione di quest’ultimo e,
in ogni caso, del “tempo-mensa” da parte dell’Amministrazione.
Dopo aver inizialmente negato che con l’azione di accertamento dinanzi al giudice ordinario i ricorrenti avessero formalmente chiesto di organizzare un nuovo e diverso servizio di refezione scolastica, è stata la stessa Corte d’appello di Torino ad
ammettere che, in realtà, l’accertamento di tale diritto «potrebbe
comportare l’adozione di un sistema di refezione almeno in parte
diverso».
A questo proposito, la Corte si premura, allora, di precisare
che l’esercizio del diritto da parte degli appellanti «non può risolversi nel consentire indiscriminatamente agli alunni di consumare il pasto domestico presso la mensa scolastica», ma richiede che
il Ministero dell’Istruzione, di concerto con il Ministero della Sanità, adotti una serie di misure organizzative, anche aventi natura
igienico-sanitaria, che tengano conto «della specifica situazione
logistica dei singoli istituti interessati». Tali valutazioni rientrano
nell’attività discrezionale dell’Amministrazione ed esulano dalla
cognizione del giudice ordinario, sicché ai ricorrenti sarà possibile pretendere un adempimento della p.a., anche per mezzo di
un ricorso per ottemperanza innanzi al giudice amministrativo.
118
Giovanni Boggero
Pur tenendo fermo il principio per cui le scelte organizzative spettano all’Amministrazione, il Tribunale di Torino, in sede
cautelare, ha, tuttavia, chiarito che quest’ultima dovrà adottare
soluzioni tecnico-organizzative tali da non snaturare il diritto
al “tempo-mensa” e al “dopo-mensa”, il quale non può che sostanziarsi nell’educazione al rapporto con gli altri22. Ciò significa
che l’utilizzo per i discenti che consumano il pasto domestico di
locali diversi da quelli in uso per la refezione scolastica costituirebbe un’impropria modalità di attuazione del diritto soggettivo
in questione23. L’Amministrazione dovrebbe allora «stabilire regole di coesistenza» al fine di chiarire «l’ambito entro cui la ditta appaltatrice del servizio può essere chiamata a rispondere per
il cibo somministrato in mensa», qualora il cibo confezionato a
casa sia consumato negli stessi locali. Tra tali regole il Tribunale
individua, a mero titolo esemplificativo, la «divisione in due ali
del refettorio» o un non meglio specificato «avvicendamento di
gruppi di utenti». Così è effettivamente avvenuto, ad esempio,
22. Non rientra evidentemente tra le modalità funzionali all’esercizio del
diritto de quo il consumo del pasto domestico da parte del discente in un’aula
diversa dal refettorio (ribattezzata dagli organi di stampa con il singolare epiteto di “stanza del panino”) o comunque lontano dagli altri compagni di classe.
Tale modalità, inizialmente adottata in alcuni istituti scolastici milanesi, è stata
infine abbandonata. Si veda: Milano, via libera alla schiscetta in mensa: abolita la ‘stanza del panino’, La Repubblica Milano, 20 dicembre 2016.
23. Nel caso risolto con provvedimento ex art. 700 c.p.c. dal Tribunale di
Genova in data 20 dicembre 2016, i ricorrenti chiedevano che la propria figlia
potesse consumare il pasto domestico nell’ambito della struttura scolastica e
nell’orario destinato alla refezione e non nel breve tempo successivo ad essa,
utilizzato dagli alunni per il consumo della frutta. Il giudice stabiliva la carenza
di giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, atteso che le modalità organizzative di fruizione del pasto domestico spettano discrezionalmente alla dirigenza scolastica e possono essere sindacate soltanto dinanzi al giudice amministrativo. Peraltro, nella fattispecie, il giudice riteneva che le modalità adottate
dall’istituto scolastico non potessero comunque considerarsi tali da svuotare di
contenuto la scelta dei genitori.
«There is no such thing as a free lunch»
119
nel Comune di Guidonia Montecelio, dove l’Amministrazione
locale è intervenuta con proprio provvedimento a distinguere l’area di competenza del gestore, all’interno della quale vengono
serviti i pasti preparati dalla mensa, dall’area posta sotto la sorveglianza del personale scolastico, nella quale i bambini che non
usufruiscono del refettorio possono consumare il pasto preparato
a casa, così escludendo qualsiasi responsabilità del gestore per
eventuali rischi sanitari indipendenti dalla corretta esecuzione
degli obblighi contrattuali24.
Per ragioni organizzative proprie di ciascun istituto scolastico sembrerebbe, infine, tollerata «l’indisponibilità di dispositivi
scaldavivande o refrigeranti», essendo la soddisfazione del diritto de quo possibile anche in loro assenza. Tale ultima osservazione risulta, tuttavia, alquanto peregrina, se si considera che
per la conservazione e somministrazione di talune vivande, pena
il loro deterioramento, l’oggettiva mancanza di apparecchiature
frigorifere o per il riscaldamento del cibo da parte dell’istituto
scolastico rende di fatto di difficile esercizio il diritto in oggetto.
Discorso analogo vale per la predisposizione di caraffe di acqua
potabile o di appositi cestini per il riciclo dei materiali di rivestimento e conservazione degli alimenti. A questo proposito, il Giudice napoletano ha, quindi, negato la sussistenza del diritto de
quo, ritenendo che la propria decisione non potesse determinare
un aggravio di oneri finanziari e di personale in capo all’Amministrazione, atteso che una siffatta scelta sarebbe semmai spettata
al legislatore.
A fronte del quadro qui descritto, in data 3 marzo 2017, il
Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione del Ministero dell’Istruzione ha diramato la propria circolare
n. 348 indirizzata ai Direttori degli Uffici Scolastici Regionali,
24. Al proposito si veda: T.A.R. Lazio, sent. n. 1641/2018 (R.G. 613/18).
120
Giovanni Boggero
con la quale ha innanzitutto dato comunicazione dell’avvio di
un «confronto con tutti i soggetti istituzionali al fine di adottare
possibili linee di condotta uniformi su tutto il territorio nazionale» e ha poi informato dell’iniziativa del Ministero della Salute,
presso il quale sarebbe in via di costituzione un tavolo tecnico
che dovrà procedere alla revisione delle Linee Guida sulla ristorazione scolastica, ai sensi dell’art. 144, co. 2 d.lgs. 50/2006,
al fine di assicurare le condizioni igienico-sanitarie e tutelare il
diritto alla salute degli alunni. In altre parole, per via di alcuni
pronunciamenti dell’autorità giudiziaria ordinaria, l’Amministrazione statale, centrale e decentrata, è stata obbligata a predisporre interventi volti a modificare l’organizzazione del servizio
di ristorazione scolastica25.
Complessivamente, occorre rilevare come fossero dunque
pertinenti i rilievi della difesa erariale, secondo la quale il riconoscimento di tale diritto soggettivo avrebbe inevitabilmente comportato l’adozione di un sistema di refezione scolastica almeno in
parte diverso da quello originariamente previsto. In altre parole,
con tali decisioni, la giurisdizione ordinaria ha in tutta evidenza
vincolato la p.a. ad adottare scelte organizzative di un certo tipo
al fine del soddisfacimento di un “interesse pretensivo” che inerisce ex se all’organizzazione del servizio scolastico.
25. A questo riguardo, pare essersi affermata la prassi amministrativa,
in base alla quale molti istituti scolastici, sulla base di proprie circolari interne, richiedono ai genitori la sottoscrizione di una liberatoria con la quale essi
sono invitati a sollevare l’Amministrazione da ogni responsabilità in relazione
a eventuali episodi di contaminazione alimentare che dovessero verificarsi in
cagione dell’introduzione dei cibi preparati dalle famiglie. Resta ovviamente
impregiudicata la questione, di natura squisitamente civilistica, se tali liberatorie abbiano un qualche valore giuridico.
«There is no such thing as a free lunch»
121
4. Quale adattamento per la legislazione in materia di ristorazione scolastica? Alcune proposte di legge nella XVII legislatura
Parallelamente, anche il legislatore statale, nell’ambito della propria
competenza esclusiva a fissare norme generali sull’istruzione (art.
117, co. 2, lett. n. Cost.), nonché in quella a determinare i livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art.
117, co. 2, lett. m) Cost.), ha reagito ai pronunciamenti della giurisprudenza di merito, nonché alle sollecitazioni di taluni operatori del
diritto che ne richiedevano un rapido intervento al fine di riformare
la ristorazione collettiva, non soltanto in ambito scolastico.
In particolare, nella XVII legislatura debbono segnalarsi due
disegni di legge di analogo tenore giacenti nell’uno e nell’altro
ramo del Parlamento. Il primo è il d.d.l. n. 2037, incardinato
presso il Senato della Repubblica il 4 agosto 2015 su iniziativa
dei senatori Pignedoli ed altri (Partito democratico), volto a una
riforma complessiva dei servizi di ristorazione collettiva attraverso una puntuale definizione dei criteri e dei parametri per le
procedure di selezione delle offerte. All’art. 5, il d.d.l. in oggetto
recava inizialmente la seguente formulazione: «I servizi di ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica, in quanto contribuiscono a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla salute, all’assistenza e all’istruzione,
sono considerati servizi pubblici essenziali, ai sensi dell’articolo
1, comma 1, della legge 12 giugno 1990, n. 146». Un emendamento della relatrice durante il passaggio nella IX Commissione
(Agricoltura e produzione agroalimentare) ha rimosso il riferimento alla natura di servizio essenziale, stabilendo un principio
del tutto diverso, ad oggi ricavabile nell’ordinamento soltanto a
partire da fonti secondarie e cioé tale per cui: «I servizi di ristorazione scolastica sono parte integrante delle attività formative ed
educative erogate dalle istituzioni scolastiche».
122
Giovanni Boggero
Secondo i sostenitori del diritto al consumo del pasto domestico, una simile disposizione avrebbe lo scopo di impedire ai genitori che scelgono il “tempo pieno” di potersi avvalere dell’alternativa inter partes riconosciuta ai ricorrenti dai giudici torinesi. Se
per alcuni la disposizione in esame potrebbe in realtà avere soltanto valore di principio, volto ad affermare la funzione educativa
del “tempo-mensa” al pari delle altre ore curricolari, è altrettanto
vero che la disposizione non si limita genericamente a parlare di
“tempo-mensa”, bensì menziona proprio il “servizio di ristorazione scolastica”, con ciò quindi sovrapponendo del tutto il secondo
al primo. Qualora la legge entrasse in vigore, resterebbe allora da
chiarire se una tale disposizione possa essere interpretata nel senso di escludere, rectius vietare l’introduzione di cibi dall’esterno
nell’orario del “tempo-mensa” o se, invece, in quanto ricavabile
direttamente dalla Costituzione, il diritto in parola continui a trovare immediata applicazione al caso concreto a prescindere dalla
lettera della legge. Se fino a quel momento l’impiego diretto delle
norme costituzionali avverrebbe in carenza di una previsione legislativa, a partire dall’entrata in vigore di questo testo di legge
tale impiego da parte dei giudici potrebbe continuare sulla base
di un’“interpretazione adeguatrice” attraverso la quale la legge de
qua sarà reinterpretata al di là del suo tenore letterale per consentire la piena estrinsecazione del diritto all’istruzione primaria così
come interpretato dalla Corte d’appello di Torino.
Il secondo d.d.l. è il n. 2308, incardinato presso la Camera
dei Deputati il 16 aprile 2014, su iniziativa dei deputati Scuvera e altri (Partito democratico). A differenza di quello approvato dal Senato, il d.d.l. in questione non intendeva stabilire
alcuna equazione tra “tempo-mensa” e “servizio di refezione
scolastica”, tuttavia, definisce quest’ultimo all’art. 1 come un
livello essenziale delle prestazioni ai sensi dell’art. 117, co. 2,
lett. m) Cost., oltreché un servizio da erogare in attuazione della
«There is no such thing as a free lunch»
123
Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (art. 27, co.
3), premurandosi poi di fissarne le modalità di accesso. Mentre
l’art. 2, co. 2 stabiliva che i «i regolamenti comunali prevedono
fasce di esenzione per i meno abbienti nonché forme di rateizzazione delle rette relative al servizio», il co. 3 reca il divieto
di «impedire l’accesso al servizio di mensa scolastica ai minorenni, fatti salvi documentati motivi di salute e riservatezza
riguardanti il minorenne interessato». Tale ultimo comma sembrava pensato per porre rimedio a una prassi ormai endemica
per cui la dirigenza scolastica, in caso di reiterata morosità da
parte dei genitori, impedisce l’accesso alla mensa da parte del
fanciullo. In tal modo, il legislatore avrebbe voluto promuovere
il servizio di refezione, allo stesso tempo rischiando, tuttavia,
di comprometterne il regolare funzionamento. L’art. 3 stabiliva,
infine, un regime di agevolazioni ai Comuni che, sulla base di
pareri delle ASL su criteri definiti dai Ministeri del Lavoro e
delle Salute, si distinguessero «per livello di accessibilità, fruibilità e qualità del servizio», consentendo loro di finanziare
anche in deroga ai vincoli di finanza pubblica il servizio in parola. Anche questa disposizione, studiata evidentemente al fine
di ripristinare o attivare in talune aree del Paese l’erogazione
gratuita del servizio di refezione, rischiava di ingenerare in enti
locali già strutturalmente deficitari comportamenti improntati a
una gestione contabile non particolarmente sana.
5. Conclusioni: la Costituzione italiana non garantisce pasti
gratis per tutti
Questo scritto ha cercato di indagare origine, natura e modalità di
esercizio del diritto soggettivo di consumare un pasto domestico,
anziché usufruire del servizio di refezione scolastica.
124
Giovanni Boggero
Tale diritto, accertato soltanto da una parte della giurisprudenza di merito ormai maggioritaria, è stato riconosciuto all’esito di una peculiare operazione di bilanciamento tra interessi
costituzionalmente rilevanti, ossia tra il diritto allo studio letto
alla luce del principio di uguaglianza sostanziale, da un lato, e il
diritto alla salute di tutti gli alunni, dall’altro. I giudici torinesi, in
particolar modo, hanno risolto il conflitto, statuendo che, laddove
si neghi il diritto di introdurre il pasto domestico nelle strutture
scolastiche, l’Amministrazione violerebbe il nucleo essenziale del diritto all’istruzione, che, quantomeno per gli alunni frequentanti il “tempo pieno”, include anche il cd. “tempo-mensa”.
Nessun pregiudizio è stato, invece, ravvisato con riferimento alla
tutela della salute degli altri alunni, atteso che non esisterebbe
alcuna norma igienico-sanitaria che vieti l’introduzione di cibi
dall’esterno.
Al di là dell’esito dell’operazione di bilanciamento, meritano
una riflessione conclusiva:
1. la qualificazione e la titolarità del diritto soggettivo riconosciuto;
2. l’iter giudiziario che ha condotto al suo accertamento da
parte del giudice ordinario e le conseguenze per l’Amministrazione;
3. il regime e la natura del servizio di refezione scolastica.
Per quanto attiene al diritto accertato, si tratta di un diritto
soggettivo a parziale copertura costituzionale, del quale sono titolari i fanciulli discenti e che deve essere fatto valere dai genitori in rappresentanza dei diretti beneficiari dell’attività di istruzione, cioè i figli minori, i quali sono privi di capacità di agire e,
conseguentemente, di legittimazione attiva. L’ambiguità di fondo inerente la titolarità del diritto soggettivo rimane quindi ben
«There is no such thing as a free lunch»
125
presente. Benché esso sia stato formalmente ricavato dal diritto
costituzionale alla gratuità dell’istruzione inferiore (art. 34, co. 2
Cost.) e sia qualificabile come diritto soggettivo dei discenti, la
libertà di scegliere la refezione o il panino, in quanto motivata
principalmente da ragioni socio-economiche, è innanzitutto un
diritto dei genitori degli alunni e ha a che vedere, più che altro,
con la loro libertà di educare la prole (art. 30, co. 1 Cost.) ed
eventualmente anche con la salvaguardia del loro diritto al lavoro
(art. 35 Cost.). In questo nodo non del tutto sciolto circa la reale
titolarità del diritto soggettivo in questione si coglie quella tradizionale contrapposizione tra diritti del fanciullo e diritti dei genitori, che le Carte dei diritti (nazionali e internazionali) tendono,
invece, a stemperare, quasi che gli interessi del fanciullo fossero
sempre coincidenti con quelli dei genitori26.
A destare un certo interesse è, poi, il fatto che il riconoscimento di un tale diritto sia avvenuto in sede di giudizio di accertamento di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria e non di fronte
al giudice amministrativo, che pure ha poi raccolto il testimone
in un secondo tempo. Ancora oggi, la magistratura amministrativa che giudica in sede di giurisdizione generale di legittimità
e non in sede di giurisdizione esclusiva ha una certa riluttanza a
svincolarsi dal tradizionale paradigma autoritativo dell’Amministrazione, applicando direttamente norme della Costituzione.
In passato, ciò è avvenuto proprio con riguardo ai diritti sociali,
la cui piena tutela nei confronti dell’Amministrazione è stata a
lungo negata dal giudice amministrativo e ha trovato un rimedio
26. Sui rischi derivanti da un’enfasi eccessiva circa la legittimazione dei
fanciulli ad essere titolari di diritti si veda il ricco volume curato da J. Fortin,
Children’s Rights and the Developing Law, 3rd ed., Oxford, 2009, 10, secondo
la quale, in taluni casi, «the language of rights becomes a form of political
correctness used to mask claims made by adults on behalf of children» e ancora
189, 411-412.
126
Giovanni Boggero
soltanto nella giurisdizione ordinaria, la quale, «stante la forza
del diretto aggancio con la Costituzione, ha assicurato ad essi
un adeguato strumentario di garanzie attraverso l’ampio impiego
della tutela cautelare e l’esercizio di poteri conformativi nei confronti delle amministrazioni coinvolte che sono stato condannate
a rimborsare, a rimuovere e a fare»27. Anche nel caso di specie,
che atteneva a un diritto sociale condizionato, è stata la magistratura ordinaria e non quella amministrativa a soddisfare le pretese
di tutela di un diritto fondamentale, asseritamente posto a rischio
dall’esercizio della discrezionalità amministrativa.
Una delle conseguenze principali delle decisioni dei giudici
torinesi è, del resto, proprio la forte limitazione della discrezionalità amministrativa nell’organizzazione dei servizi scolastici di
fronte a pretese dei genitori suscettibili di essere qualificate come
diritti fondamentali, anziché come interessi legittimi. In luogo di
un controllo di proporzionalità sulla correttezza del bilanciamento operato dall’Amministrazione, la magistratura ordinaria ha
invece sostituito il proprio apprezzamento a quello dell’Amministrazione, la quale rischia così di divenire oggetto di un infinito
numero di pretese soggettive. Meglio sarebbe se alcune decisioni
attinenti l’organizzazione del servizio di ristorazione potessero
essere sì condivise, cioè ispirate al principio della democrazia
amministrativa, ma in base ad un iter procedimentale definito a
priori e non mediato dall’intervento di una magistratura afflitta
da “populismo giudiziario”28.
27. A. Pioggia, Giudice amministrativo e applicazione diretta della Costituzione: qualcosa sta cambiando?, in: Diritto Pubblico, nr. 1, gennaio-aprile
2012, 66-67.
28. Per la definizione di populismo giudiziario si veda: G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in: Criminalia, 2013, 105 ss., secondo
il quale si tratta di un fenomeno che ricorre «tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere il ruolo di autentico rappresentante o interprete dei
veri interessi e delle aspettative di giustizia del popolo. (…) Questa sorta di
«There is no such thing as a free lunch»
127
Attualmente, in pendenza del giudizio di Cassazione, innanzi
alla quale hanno proposto ricorso il Comune di Torino e il Ministero dell’Istruzione, l’Amministrazione centrale e le Amministrazioni periferiche sono impegnate a garantire l’esercizio del
diritto accertato secondo le diverse modalità operative cui si è
fatto finora cenno. Allo stato, tuttavia, occorre domandarsi se, a
fronte dell’eccessiva onerosità del servizio mensa in alcune aree
territoriali del Paese, sia ipotizzabile che l’esercizio di un diritto
con parziale copertura costituzionale da parte di alcuni determini
un aggravio di spesa per l’intera collettività29. A questo proposito,
per evitare che il consumo del pasto domestico diventi soltanto
uno sgradevole esempio di “free lunch”30, attraverso il quale i
genitori, alleggeriti dal peso del servizio di refezione, pongono in
capo alla collettività, rectius ai fruitori del servizio, il pagamento
delle spese di sorveglianza e di pulizia conseguenti all’esercizio
del diritto accertato, si potrebbe ipotizzare la corresponsione in
favore degli istituti scolastici di un contributo minimo applicabile a tutti i discenti che usufruiscano del “tempo-mensa” o, per
meglio dire, del “tempo-pranzo”. Viceversa, se ne dovrebbe demagistrato tribuno, che pretende di entrare in rapporto diretto con i cittadini,
finisce col far derivare la principale fonte di legittimazione del proprio operato,
piuttosto che dal vincolo alle leggi scritte così come prodotte dalla politica, dal
consenso e dall’appoggio popolare».
29. Sul necessario bilanciamento tra diritto all’istruzione ed esigenze di bilancio si vedano tra le altre: Corte costituzionale, sentt. nn. 151/1969, 125/1975
e 208/1996, citate anche in: A. Poggi, Art. 34, in: R. Bifulco, A. Celotto, M.
Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, 707.
30. L’espressione secondo la quale «non esistono pasti gratuiti» si deve
all’economista e Premio Nobel, Milton Friedman. Egli sosteneva che, anche
laddove si fornisse un bene o si erogasse un servizio senza richiedere un prezzo,
ciò non significava che esso non avesse un costo (detto “costo-opportunità”)
per la società, la quale, in assenza di quelle risorse, avrebbe dovuto rinunciare
a produrre altri beni o a erogare altri servizi. Cf. M. Friedman, There’s No Such
Thing as a Free Lunch, Illinois, Open Court, 1975, in italiano: Nessun pasto è
gratis, Torino, Centro di ricerca e documentazione “Luigi Einaudi”, 1978.
128
Giovanni Boggero
durre una violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.,
atteso che il trattamento differenziato nell’usufruire del “tempo-mensa” non potrebbe essere giustificato in punto di scrutinio
di ragionevolezza31.
A questo riguardo, giova però ricordare che la sentenza 29
aprile 2008, n. 10828 pronunciata dalle Sezioni Uniti Civili della
Corte di Cassazione (Pres. Carbone; Est. Amatucci)32 ha statuito
che l’applicazione da parte di un Comune di un “contributo spese
pasto” generalizzato, tale da pretenderne il pagamento a prescindere dal fatto che l’alunno fruisca o meno di quel servizio, sia
in contrasto con l’art. 1 della legge 18 marzo 1968, n. 444, che
prevede la gratuità per la frequenza delle scuole materne. Nel
presente caso, tuttavia, la diversa situazione di fatto e di diritto,
determinatasi sulla base dell’accertamento del diritto soggettivo
al consumo del pasto domestico, non produrrebbe alcuna discriminazione tra discenti, dal momento che il “contributo spese”
sarebbe effettivamente pagato da coloro i quali usufruiscono del
“tempo-mensa”, o per meglio dire, del “tempo pranzo”, e quindi
anche da chi, pur non godendo del servizio di ristorazione, si
avvale pur sempre della sorveglianza, della pulizia e della predisposizione delle eventuali apparecchiature frigorifere o per il
riscaldamento dei cibi da parte del personale dell’istituto scolastico. A tal proposito, non sembra si possa eccepire che le attivi31. Del tutto diversa e giustificata sulla base dell’art. 34, co. 4 Cost., oltreché
dell’art. 38, co. 1 Cost. è, invece, l’ipotesi di esenzione dal pagamento di qualsivoglia contributo minimo o retta per tutti i bambini provenienti da famiglie sotto
la soglia di povertà. Allo stato attuale, come risulta da una ricerca realizzata da
Save the Children, un quarto dei Comuni capoluogo considerati dall’indagine
non prevede l’esenzione totale dal pagamento della retta per reddito, né per composizione del nucleo familiare, né per motivi di carattere sociale. https://www.
savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/non-tutti-mensa-2017
32. E in precedenza si veda già: Cass. Civ., Sez. Un., 4 dicembre 1991, n.
13030.
«There is no such thing as a free lunch»
129
tà menzionate rientrino tra le mansioni per le quali il personale
scolastico è stipendiato, trattandosi piuttosto di compiti i cui costi
sono coperti in parte attraverso le tariffe di refezione scolastica,
in parte attraverso contributi-extra33.
Per il resto, la vicenda de qua è emblematica del conflitto che
governa il rapporto tra il cittadino e l’Amministrazione: da un
lato v’è la crescente pretesa di riconoscimento di (nuovi) diritti
soggettivi a parziale copertura costituzionale, a fronte dell’esonero dall’obbligo di pagare per l’erogazione di un servizio pubblico
locale, dall’altro lato, v’è il carattere ancora prevalentemente autoritativo dell’Amministrazione, orientata a salvaguardare la discrezionalità della propria azione, più che a rendere quest’ultima
un modo di essere dello Stato democratico.
All’origine del conflitto in esame, si cela un problema inerente la natura di un servizio pubblico locale che svolge una eminente funzione socio-assistenziale e socio-educativa, ma che, ad
oggi, non è annoverato tra i livelli essenziali delle prestazioni
inerenti i diritti sociali da garantire su tutto il territorio nazionale
ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m) Cost. Al contrario, si tratta di
un servizio pubblico a domanda individuale ai sensi del D.M. 31
dicembre 1983 (Individuazione delle categorie dei servizi pubblici locali a domanda individuale), emanato di concerto dal Ministero dell’Interno con i Ministeri del Tesoro e delle Finanze in
attuazione dell’art. 6, co. 1 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n.
55 (Provvedimenti urgenti per il settore della finanza locale per
l’anno 1983), convertito, con modificazioni, nella legge 26 aprile
1983, n. 131. Per servizio pubblico a domanda individuale il decreto ministeriale intende tutte quelle attività gestite direttamente
dall’ente locale, che siano intraprese non per obbligo istituzio33. Al proposito si veda: Torino, sovrattassa per gli alunni che pranzano
con il panino della mamma, La Repubblica Torino, 12 settembre 2017.
130
Giovanni Boggero
nale, che vengano svolte su richiesta dell’utenza e che non sono
state dichiarate gratuite da una legge statale o regionale.
Così stando le cose, l’ente locale non soltanto non ha l’obbligo di erogare il servizio di mensa scolastica in regime di completa gratuità, rectius attingendo interamente alle risorse di cui
al bilancio pubblico cittadino, ma, ai sensi dell’art. 6, co. 1 del
menzionato decreto-legge e dell’art. 172, co. 1, lett. c) T.U.E.L.,
il Comune che decida comunque di istituirlo è anzi obbligato a
coprirne il costo di gestione con proventi tariffari e con contributi
a carico dell’utenza al fine di rispettare il principio del pareggio
di bilancio. La legge non prevede una soglia minima di copertura
del costo per la generalità degli enti locali. Soltanto l’art. 243, co.
2 lett. a) T.U.E.L. stabilisce la misura del 36 percento per gli enti
strutturalmente deficitari34.
Non è chiaro, invece, se per gli enti dotati di capienza di
bilancio sia ipotizzabile l’erogazione del servizio anche in regime di gratuità. A questo proposito, nella sua sentenza 31 luglio
2014, n. 1365, il T.A.R. Piemonte ha osservato come «il Comune potrebbe certamente decidere di finanziare per intero il servizio di refezione scolastica con risorse proprie, garantendone
la fruizione gratuita da parte della popolazione scolastica cittadina». Diversamente, la Corte dei Conti – Sez. Regionale per
la Campania, nella sua delibera n. 7/2010, aveva statuito come
non fosse concesso egli enti locali «procedere alla generalizzata
erogazione gratuita, cui va assimilata l’ipotesi della previsione
34. Tale misura è stata interpretata come soglia minima applicabile agli
enti locali in stato di dissesto e non come soglia massima dalla quale derivare
un regime più favorevole automaticamente applicabile agli enti dotati di capienza di bilancio. Al contrario, gli enti locali sono ampiamente liberi, rectius
autonomi nel modulare la misura della copertura, al limite facendo gravare
interamente sull’utenza il costo del servizio. Nel caso di specie, ad esempio,
il Comune di Torino pone a carico dell’utenza circa il 79 percento del costo
complessivo del servizio di refezione scolastica.
«There is no such thing as a free lunch»
131
di tariffe o contribuzioni di importo talmente irrisorio da dover
essere considerate nummo uno»35, facendo leva sulla lettera del
D.M. che escluderebbe l’erogabilità gratuita per tutti quei servizi non esplicitamente definiti dalla legge come tali, oltreché
sull’art. 3 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, in base
al quale gli enti locali «sono tenuti a richiedere la contribuzione
degli utenti» per servizi di questo tipo. Allo stesso modo si è
espressa anche la Corte dei Conti – Sez. Regionale per il Molise
nel suo parere 14 settembre 2011, n. 80, in base al quale l’ente
locale deve pur sempre farsi carico dell’obbligo di una percentuale minima di copertura36.
Diversa è, invece, la questione circa la rilevanza economica
della refezione scolastica, inerendo essa alle modalità di affidamento del servizio e non alla sua onerosità o gratuità. Il servizio
di refezione scolastica ha ad oggetto la preparazione e la fornitura (trasporto e distribuzione) dei pasti agli alunni e al personale delle scuole primarie, incluso il riassetto, la pulizia e la
sanificazione dei refettori. La distinzione tra servizi a rilevanza
economica e servizi che ne sono privi è stata introdotta dal decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito nella legge 24
novembre 2003, n. 326 al fine di applicare le norme di diritto UE
sulla concorrenza ai servizi pubblici locali. La rilevanza economica va intesa come possibilità che dalla gestione del servizio si
ricavi un profitto e come contendibilità sul mercato37 e ad essa si
ricollegano conseguenze precise in termini di modalità di affidamento del servizio.
35. Corte dei Conti, Sez. Regionale di controllo per la Campania, parere
n. 7 del 25 febbraio 2010.
36. Corte dei Conti, Sez. Regionale di controllo per il Molise, parere n. 80
del 14 settembre 2011.
37. Consiglio di Stato, Sez. VI, 18 dicembre 2012, n. 6488.
132
Giovanni Boggero
In passato, si è ritenuto che il servizio di refezione scolastica,
in quanto servizio socio-educativo, non avesse carattere industriale e fosse privo di rilevanza economica, dal momento che
non recava vantaggi economici all’amministrazione e non era
svolto in competizione con altri operatori sul mercato38. Tuttavia,
la rilevanza economica di un servizio non può essere definita a
priori una volta per tutte, ma abbisogna di una valutazione caso
per caso39. In presenza di una limitata dimensione quantitativa del
servizio e di una scarsa redditività, il servizio è in effetti ritenuto privo di rilevanza economica e viene tendenzialmente gestito
mediante affidamento diretto in house40 oppure in economia o per
il tramite di aziende speciali o di società a capitale interamente
pubblico. Laddove, tuttavia, sia redditizio e sia svolto in regime di concorrenza con altri operatori, anche un servizio come
la refezione scolastica deve essere affidato tramite procedura ad
evidenza pubblica41. A tal proposito, non è quindi affatto un caso
se la refezione scolastica a Torino sia oggetto di affidamento secondo le modalità tipiche dei servizi a rilevanza economica e ciò
vale, più in generale, quantomeno per lo specifico contesto territoriale di tutti i principali capoluoghi di Regione e delle Città metropolitane, dove la refezione ha assunto ormai una dimensione
industriale e redditizia, stante anche il potenziale relativamente
alto di ingresso di nuovi competitori sul mercato42.
38. Consiglio di Stato, Sez. V, 3 febbraio 2005, n. 279 e ancora Consiglio
di Stato, Sez. V, 10 settembre 2010, n. 6529.
39. Consiglio di Stato, Sez. V, 27 agosto 2009, n. 5097; Corte dei Conti,
Sez. Regionale di controllo per la Lombardia, parere 31 marzo 2011, n. 163.
40. Ad esempio, per il tramite di una gestione associata tra Comuni confinanti mediante il modello dell’istituzione: T.A.R. Bologna, Emilia-Romagna,
Sez. I, sent. 23 settembre 2009, n. 1645.
41. T.A.R. Sardegna, Sez. I, sent. 2 agosto 2005, n. 1729.
42. Con la declaratoria di incostituzionalità che ha travolto l’art. 113-bis
T.U.E.L. per violazione della competenza residuale delle Regioni in materia di
«There is no such thing as a free lunch»
133
Nella misura in cui gli operatori che svolgono il servizio
di refezione scolastica agiscono però in regime oligopolistico,
sulla base della stesura di capitolati di appalto che premiano lo
status quo e le prestazioni standardizzate anziché la qualità e
l’innovazione, i prezzi rimarranno però inevitabilmente alti e la
qualità mediocre. Proposte come quelle di Cittadinanza Attiva
per una non meglio specificata “uniformazione delle tariffe per
aree territoriali” dimostrano che il problema viene ancora affrontato in termini non economici, ma puramente politico-elettorali. In assenza di studi approfonditi sul comparto industriale43, la ristorazione scolastica pare oggetto di una forte concentrazione che, in particolare nell’area vasta di Torino, ma anche
in diverse realtà dell’Emilia-Romagna, spinge molti genitori a
scegliere il pasto domestico come primo e più immediato rimedio ai prezzi elevati.
A tale stato di cose si deve aggiungere che le tariffe stabilite
dai Comuni non includono solo il costo del servizio, ma assorbono talora anche altri costi indiretti, alcuni dei quali del tutto
assimilabili a tasse comunali44. Compito della politica nazionale,
come di quella locale, dovrebbe essere allora garantire un magservizi pubblici locali (Corte costituzionale, ord. n. 272/2004), l’affidamento
dei servizi a rilevanza non economica avviene secondo un principio di libertà
di forme, nel rispetto dell’autonomia regionale o locale. Si vedano le nota di F.
Casalotti, Il riparto della potestà legislativa “alla prova” della disciplina dei
servizi pubblici locali, in: Le Regioni, 2005, n. 1, 262 ss. e di C. Deodato, Luci
ed ombre sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni in materia di
servizi pubblici locali, in: www.federalismi.it, n. 21/2004.
43. Allo stato, è possibile rinviare soltanto al recente rapporto di Cittadinanza Attiva (ottobre 2016) sulle tariffe della ristorazione scolastica Provincia
per Provincia e Regione per Regione. A questo proposito, manca però uno studio che verifichi la correlazione esistente tra livello delle tariffe e concentrazione industriale Provincia per Provincia.
44. Torino, dodici milioni in più: è la “tassa” pagata dalle famiglie per le
mense scolastiche, La Repubblica Torino, 1 settembre 2016.
134
Giovanni Boggero
gior grado di liberalizzazione del settore e, al tempo stesso, una
definizione delle tariffe non politicamente dettata da mere esigenze di cassa45.
45. Sulla violazione dei principi di tutela della concorrenza per irragionevole restringimento della platea dei concorrenti nel settore della refezione
scolastica si veda inter alia: T.A.R. Abruzzo – Pescara, Sez. I, sent. 22 luglio
2011, n. 476.
The Right to Food as Right to Life
under Classical Hindu Law
Pratyush Kumar
Classical Hindu Dharmasastra literature contains sophisticated
rules of what food ought to be consumed and what not to be consumed1. Food rules, ritualistic sacrifices and cultural patterns and
responses to food intake are all specified in the Dharmasastras.
The most important of Hindu Dharmasastra’s, the Manavadharmasastra commonly called the Manu Smriti, or Manu’s code of
law’s attitude to bhakshya/abhakshya (permitted and forbidden
food)2 and bojya/abhojya (fit and unfit food)3; were influenced
in large measure by non-killing and non-violence to animals as
propagated by Buddhism and Jainism memorialized for antiquity
in the Ashokan edicts4. In his Rock Edict IV, adopted as part of
his royal principle for propagation of Dharma, the principle of
1. Dharmasastras are ancient and early medieval legal and social texts
for the Hindus containing detailed principles, rules and practices covering all
aspects of human life including legal and social behaviour. The major Dharmasastras are Manusmriti or Manavadharmasastra; Yajnavalkaya Smriti; Narada
Smriti and Vishnu Smriti. The Dharmasastras are themselves expositions and
commentaries on Dharmasutras, which are of earlier vintage. The four major
Dharmasutras are: Apastambha, Gautama, Baudhayana and Vashishta.
2. P. Olivelle, Food and Dietary Rules: abhaksya, abhojya, pgs. 189-196
at p. 193 in P. Olivelle and D. R. Davis, Jr. (eds.), HINDU LAW: A NEW HISTORY OF DHARMASASTRA, Oxford University Press (2018).
3. Ibid. at p. 193.
4. P. Olivelle, Food and Dietary Rules: abhaksya, abhojya, pgs. 189-196
in P. Olivelle and D. R. Davis, Jr. (eds.), HINDU LAW: A NEW HISTORY OF
DHARMASASTRA, Oxford University Press (2018).
135
136
Pratyush Kumar
non-violence, including non-killing of animals, became a state
policy, where it is both a symbol and assertion of State practice as
well as propagating a normative adherence. «King Priyadarsi’s
inculcation of Dharma has increased, beyond anything observed
in many hundreds of years, abstention from killing animals and
from cruelty to living beings, kindness in human and family relations, respect for priests and ascetics and obedience to mother
and father and elders……For instruction in Dharma is the best
of actions.»5.
By the early years of the first millennium CE, the cultural
attitude of vegetarianism or rather non-eating of cattle (more specifically cow) as the preferred and even legally and ritualistically
sanctioned form of food became more or less established6. Buddhism and Jainism and other eclectic forms of Vaishnavism as
their ideological by-product informed these choices7.
Vegetarianism was both in the realm of encouraged social and
state practice along with an ideational aspiration. More importantly, there was a massive growth of agriculture during the middle of the first millennium B.C.E. that continued until well into
the twentieth century where Indus, Yamuna and Gangetic plains
together perhaps constituted the largest arable land in the world8.
5. N.A. Nikam and Richard McKeon (edited and translated), THE EDICTS
OF ASOKA, p. 31, University of Chicago Press, 1959.
6. P. Olivelle, Food and Dietary Rules: abhaksya, abhojya, pgs. 189-196
in P. Olivelle and D. R. Davis, Jr. (eds.), HINDU LAW: A NEW HISTORY OF
DHARMASASTRA, Oxford University Press (2018); R.C. Majumdar, ANCIENT INDIA, Motilal Banarsidass, 2017.
7. P. Olivelle, Food and Dietary Rules: abhaksya, abhojya, pgs. 189-196 in P.
Olivelle and D. R. Davis, Jr. (eds.), HINDU LAW: A NEW HISTORY OF DHARMASASTRA, Oxford University Press (2018); R.S.Sharma, INDIA’S ANCIENT
PAST, Oxford University Press, 2006; R.S.Sharma, MATERIAL CULTURE AND
SOCIAL FORMATIONS IN ANCIENT INDIA, Macmillan, 2007.
8. R.S. Sharma, INDIA’S ANCIENT PAST, Oxford University Press, 2006;
R. Thapar, EARLY INDIA: FROM THE ORIGINS TO AD 1300, Penguin,
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
137
This growth in agriculture certainly informed and sacralised
some animals associated with agriculture and most importantly
cows and bulls and affected the notions of a complex selection
of eatables and non-eatables. Another social practice of burning
of dead humans as compared to burying them reflects both the
availability of wood and purified butter made from cow’s milk
increasing its social significance9. This is in addition to leaving
fertile land for agriculture and productive use rather than for burying the dead.
The older Dharmasastras are more accepting of a non-vegetarian diet as compared to the later Dharmasastras, which have
a vegetarian bias10. This vegetarian bias seems to derive from
Buddhism, Jainism and growth of Vaishnavism and other folk
traditions11. The sacralization of different kinds of animals is certainly of a folk and non-Brahmanical lineage contrary to popular
perceptions of it today12. Jainism, because of its extreme form of
vegetarianism, also has a complex set of selection of eatables and
non-eatables.
The earliest of Vedas, the Rig Veda (15th century BCE)13, was
already setting the tone of sacredness of the cows by declaring
her to be ‘aghnya’-meaning ‘one that does not deserve to be
killed’14 and by the time of the last of the Vedas, the Atharva
2003.
9. Ibid.
10. Ibid.
11. Ibid.
12. Ibid.
13. S. Radhakrishnan, INDIAN PHILOSOPHY (Vol. I), p. 67, George Allen
and Unwin Ltd., London, 1962. («The Rig Veda is the oldest of the four Vedas,
the others being Sam, Yajur and Atharva. These four Vedas are considered to be
revealed knowledge with no single authorship and are the first of the major texts
of Hinduism having a pride of place in its canon»).
14. P.V.Kane, HISTORY OF DHARMASASTRA (ANCIENT AND MEDIEVAL RELIGIOUS AND CIVIL LAW) VOL II PART II (2nd edn.), p.772,
138
Pratyush Kumar
Veda, the cult of the holiness of the cow was fully recognised.
However, sacrifice of animals including cows for specific rituals
and consumption continued until the advent of Buddhism and
Jainism and the reign of Mauryan Emperor Ashoka15.
The veneration of cows (cow veneration rituals are still performed in all rural, agricultural communities) for example became nearly universal and is an example of the practices of the
lower social orders of Shudras (constituting the bulk of working
and peasant population) which permeated into the Brahmanical
social custom as well to form the collective cultural expression
of the Hindus. This cultural expression expressed through the selective abstention from eating cow’s meat is so central to Hinduism that the invading Muslim ruler Babur in 1526 who set up the
Mughal Empire (1526-1857) also left in his will that if Hindustan
(India) had to be ruled then Muslims should respect the Hindu
custom of not eating cows and not destroying their temples16.
Contrary to popular perception among Hindus, the much-contested founder of Mughal Empire, Babur wrote: «3. Above all,
abstain from sacrificing cows, thus will the hearts of Hindustanis
be won and the peasants be made loyal by the royal bounty.»17.
Canadian Muslim intellectual Tarek Fatah believes that cows are
eaten only by Muslims in the subcontinent to spite the Hindus
that they are a defeated community18. According to him, eating
Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1974.
15. P.V. Kane, HISTORY OF DHARMASASTRA (ANCIENT AND
MEDIEVAL RELIGIOUS AND CIVIL LAW) VOL II PART II (2nd edn.),
pgs.772-781, Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1974.
16. For more, See: Kishore Kunal, AYODHYA REVISITED, New Delhi,
Ocean Books (P.) Ltd., 2016, pgs. 97-118.
17. Cf. Kunal at p. 113.
18. ‘Prophet Muhammad had asked Muslims not to eat beef’, The Week,
January 16, 2016. Cf. https://www.theweek.in/content/archival/news/world/
prophet-muhammad-had-asked-muslims-not-to-eat-beef.html (last accessed:
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
139
cow was never part of the Arab world’s diet and the Prophet Mohammad had prohibited eating cows because it causes illness19.
There are many prohibited set of food-items which by their ‘reverse engineering’ betray their availability in the Indian sub-continent during the times in which these restrictions were imposed
in the Dharmasastras and which still determine food preferences20. And these are food-items which are commonly consumed
in most other cultures, civilizations and religions in the times
in which these restrictions were written in the Dharmasastras.
For example: One of the major Dharmasutra of Gautama (period
earlier than 600 BCE)21 adds that, «one should avoid flesh of all
animals with two rows of teeth in the two jaws, of hairy animals,
of hairless animals (like snakes), of village cocks and hogs and of
cows and bulls.»22. Food preferences and culinary delights have
been developed around these restrictions. It is difficult to imagine
death due to starvation during the time of Dharmasastras when
culturally and religiously there were so many food-items, which
were restricted and prohibited though being largely monsoon
dependent there were instances of famines leading to massive
migration of people. Death due to starvation is a colonial legacy
with its systematic destruction of rural India and the trend of the
colonial state continues in post-colonial India with the officials
10th April, 2018); ‘Prophet Muhammad was against cow slaughter, never ate
beef’, Zeenews, January 15, 2016. Cf. http://zeenews.india.com/news/india/
prophet-muhammad-was-against-cow-slaughter-never-ate-beef_1845642.html
(last accessed: 31th May, 2018).
19. Ibid.
20. Id at n. 1.
21. P.V.Kane, HISTORY OF DHARMASASTRA (ANCIENT AND MEDIEVAL RELIGIOUS AND CIVIL LAW) VOL I PART I (2nd edn.), p.36,
Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1990.
22. P.V.Kane, HISTORY OF DHARMASASTRA (ANCIENT AND MEDIEVAL RELIGIOUS AND CIVIL LAW) VOL II PART II (2nd edn.), p.777,
Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1974.
140
Pratyush Kumar
and administrators functioning just for their employment as “colonial officials” in sheer disregard of the teeming millions who
are wallowing in poverty and deprivation23.
The symbolism of food is exemplified by Manu, when he exhorts not to kill animals except for madhuparka (in sacrifices),
rites for gods and manes and when one’s life is in danger (owing
to famine or disease), otherwise the person himself is killed for
as many births as there are hair on the body of the slaughtered
animal24. According to Ancient Indian thought, food also leads to
the kind of gunas (qualities and constituents) that a person would
develop in this life, namely: sattva (purity); rajas (passion) and
tamas (dullness)25. An explanation comes from the Samkhya
school of philosophy,
Samkhya uses the term guna to refer to the three fundamental constituents of Prakriti: sattva, ‘purity’; rajas, ‘passion’; and tamas, ‘dullness’.
Sattva is characterised by pleasure, has illumination as its purpose,
and is buoyant and illuminating; rajas is characterised by displeasure,
has activity as its purpose, and is stimulating and mobile; and tamas
is characterised by dejection, has restraint as its purpose, and is heavy
and obstructive… Teleologically motivated by Purusa, the gunas inseparably undergo transformation and interaction by mutually supporting
or repressing each other. Sattva and tamas are opposed in being light
versus dark; yet they are alike in being inactive as opposed to rajas,
which is active. Hence virtue, knowledge, dispassion and power are the
23. For more, See: Amartya Sen, POVERTY AND FAMINES, Oxford University Press, 1998; Shashi Tharoor, AN ERA OF DARKNESS: THE BRITISH
EMPIRE IN INDIA, Aleph, 2016.
24. P.V. Kane, HISTORY OF DHARMASASTRA (ANCIENT AND MEDIEVAL RELIGIOUS AND CIVIL LAW) VOL II PART II (2nd edn.), p.778,
Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1974.
25. D. Cush, C. Robinson and M. York (eds.), ENCYCLOPEDIA OF HINDUISM, pgs. 279-280, Routledge, London, 2010.
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
141
pure form of the intellect, while vice, ignorance, passion and infirmity
are its dull form; that is, the buddhi (mind) with sattva predominant is
virtuous, knowledgeable, dispassionate and powerful, but with tamas
predominant is bad, stupid, emotional and weak.26
The idea is: A man is what he eats affecting the qualities of
sattva, rajas and tamas27.
Defining Hinduism through an Abrahamic lens (one God, one
Prophet and one Book) would prove to be baffling as there are
many books contesting for primal importance, many schools of
philosophy both material and this worldly and more transcendental and other worldly, and the like.
The crucial aspect of charity and giving food to the hungry
which is institutionalized in Islam and Christianity is present in
Hinduism. «Ashtadash Puraneshu Vyasasya Vachanadwayam,
Paropkaraya Punyaya, Papay Parpidanam», meaning that the essence of all the eighteen puranas according to the sage Vyasa is
to do good to others, including charity as food, which is the only
punya, loosely translated as virtue - or good karma. And those
who hurt others (including mentally) including by not giving
food to hungry commit paap or loosely translated as bad karma
or wrong-doing. All the monastic orders, monks, homeless, poor
people, wandering minstrels and temples received foodgrains
and agricultural products from farmers during all harvest seasons
and poor were served with free food outside temples and Hindu
monasteries. The duty to help with food was not restricted to
feeding the sacred people.
One of the most important thinkers and articulators of Hindu
26. Ibid at p. 279-280.
27. A. Pelissero, Valenze simboliche del cibo nella prospettiva dell’hinduismo, in: P. Macchia (a cura di), LA PERSONA E L’ALIMENTAZIONE, Roma
2014, 183ss.
142
Pratyush Kumar
philosophy and way of life, Swami Vivekanand ‘rearticulated’ it
as, «So long as the millions live in hunger and ignorance, I hold
every person a traitor who, having been educated at their expense,
pays not the least heed to them!»28, dispels doubts that Hinduism is
just other-worldly and does not emphasize on service and feeding
the poor. In fact, Hindu philosophers like Swami Vivekanand are
often hailed as a Vedantic Socialist (a synthesis of ancient Indian
values with modern socialist ideology)29. Later, the progenitor of
the first organized peasant movement in India, Swami Sahajanand
Saraswati indegenized Marx and radicalized the Srimad Bhagwat
Gita when he emphasized that food is God and the peasant who
grows it is God30. Sri Aurobindo, another Hindu philosopher emphasized that serving the poor and feeding the hungry is the first
step towards containing the ego.31 But as Hinduism itself does not
have a uniform and all-embracing institution, a lot of its charity
and feeding the poor does not appear in a standardized uniform
format like it does for Islam or Christianity.
A more cynical and critical view could be that it is the Hindu
consciousness which makes people so focussed on spiritual and
28. Cf. Swami Shantatmananda, Swami Vivekanand and Nation Building,
Press Information Bureau, Government of India, (accessed at: http://pib.nic.in/
newsite/PrintRelease.aspx?relid=114520; last accessed: 7th April, 2018).
29. A. Kumar Biswas, SWAMI VIVEKANANDA AND THE INDIAN
QUEST FOR SOCIALISM, Firma K.L.Mukhopadhyaya, 1986.
30. For more, See: Raghav Sharan Sharma, SWAMI SAHAJANAND
SARASWATI, Builders of Modern India Series, Publications Division, Government of India, 2008; Arun Kumar, REWRITING THE LANGUAGE OF
POLITICS: KISANS IN COLONIAL BIHAR, Manohar, 2001. (“The Srimad
Bhagwat Gita is a major text of Hinduism containing preachings of Lord Krishna to Arjuna in the Mahabharata, which is one of the two major epics in Sanskrit
literature. The Srimat Bhagwat Gita being more accessible than the Vedas are
held dear by the majority of Hindus.)
31. Santosh Krinsky, READINGS IN SRI AUROBINDO’S ESSAYS ON
THE GITA, Vol. 1, Lotus Press, USA, p. 183.
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
143
other-worldly pursuits which makes the richer Hindus not see
how people are starving to death. Whether Hinduism or Hindu
consciousness historically promoted this worldly indifference or
not, the truth of the matter is that, there are certainly deaths due
to starvation in India, which has been a national shame32.
Only in the last years, a right to food campaign has been held
successfully in India and is an example of a proactive Supreme
Court of India reading the “right to food” as a Fundamental Right
under “right to life” guaranteed under Article 21 of the Constitution of India. The first of the cases was Chameli Singh v. State of
U.P., where a three-judge bench of the Supreme Court of India
held, “Right to live guaranteed in any civilised society implies
the right to food, water, decent environment education, medical
care and shelter. These are basic human rights known to any civilised society...”33.
A watershed was reached with the People’s Union for Civil
Liberties (PUCL) v. Union of India, popularly known as the Right
to Food case decided in 2007, but interim orders were granted in
2001 itself, where the Supreme Court of India observed,
In our opinion, what is of utmost importance is to see that food is provided to the aged, infirm, disabled, destitute women, destitute men, who
are in danger of starvation, pregnant and lactating women and destitute
children, especially in cases where they or members of their family do
not have sufficient funds to provide food for them. In case of famine,
there may be shortage of food, but here the situation is that amongst
plenty there is scarcity. Plenty of food is available, but distribution of
32. India 100th on Global Hunger Index, trails North Korea, Bangladesh, The
Hindu, October 12, 2017 cf. http://www.thehindu.com/news/national/india100th-on-global-hunger-index-trails-north-korea-bangladesh/article19846437.
ece (last accessed: 31th May 2018).
33. 1995 Supp(6) SCR 827.
144
Pratyush Kumar
the same amongst the very poor and the destitute is scarce and non-existent leading to malnourishment, starvation and other related problems.34
This is an example of judicial legislation expanding the scope
of Article 21 (“Right to Life”) granted by the Indian Constitution
interpreting and expanding its meaning much beyond the initial
understanding of the framers of Indian Constitution35. The Economic, Social and Cultural rights have found their way through
judicial interpretation (some might say even legislation) making
“right to life” as a fundamental principle and not just a fundamental right, making it a judge made human rights mechanism36.
It shows the dynamism of both the constitution as a ‘living constitution’ and the apex court as the harbinger of people’s human
rights.
The latest decision on 13th May, 2016 by the Supreme Court
of India reiterated, «there is undoubtedly a distinction between a
statutory obligation and a constitutional obligation but there can
be no doubt that the right to food is actually a constitutional right
and not merely a statutory right.»37.
In India, every rural household gets a certain measure of
food-grain at subsidized price under the National Food Security
34. Interim order on: Monday, July 23, 2001; accessed at: http://admin.indiaenvironmentportal.org.in/content/order-supreme-court-india-regarding-issue-food-security-india-23072011 (last accessed: 12th April, 2018); Final Judgement: 2007(1) SCC 719.
35. L. Birchfield, J. Corsi, Between Starvation and Globalization: Realizing
the Right to Food in India, Michigan Journal of International Law, Volume 31,
Issue 4, 2010, pgs. 690-764 (at pgs. 709-715).
36. Ibidem.
37. Swaraj Abhiyan vs Union Of India And Others on 13 May, 2016 (accessed at: https://indiankanoon.org/doc/19199787/; last accessed: 12th April,
2018).
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
145
Act, 2013 which will go a long way in removing starvation or
starvation related deaths38. It has created legal entitlements on
food and all existing government programmes, like Public Distribution System, Mid-day meals in schools, are bound by them39.
The right to food has become part of an “actus positivus” of the
overwhelming majority of people supporting it (thus by default
an overwhelming majority of Hindus supporting it) makes the
cultural and political expression of Hinduism clear. Most political leaders whose religious affiliation is also Hinduism support
the right for food programme and the judiciary, which is also
largely Hindu, supports it.
Not living under the reign of Babur, but under the constitution
of India as a relic of the recent British rule over India, which has
the much contested and maligned “secularism” as one of its goals,
can cultural mores determine the Indian state’s determination of
what an individual person eats? Individual liberty and rights have
to be not just respected but also protected lest it becomes the
tyranny of the masses. People should be free to decide what to
eat and what not to eat. People’s choice would be determined by
their upbringing, cultural mores, geographical regions, religious
and spiritual convictions and environmental considerations. This
is what Hinduism is after all, leaving it to the individual to do
what assuages his mind, body or soul.
A restriction on the choice of food is a restriction on the right
to food acknowledged under the Indian constitution apart from
falling under the exceptions provided under Hindu Law, specifically Manusmriti, which allows people to eat the restricted food
38. Salient Features of the National Food Security Act 2013, Department of
Food and Public Distribution, Ministry of Consumer Affairs, Food and Public
Distribution, Government of India, cf. http://dfpd.nic.in/Salient-features-National-Food-Security-Act.htm (last accessed: 7th April, 2018).
39. Ibid.
146
Pratyush Kumar
items when in famine or starvation as otherwise it would endanger life itself40. Though there is a provision (Article 48, The
Constitution of India) in Part IV (Directive Principles of State
Policy) to protect cows and calves, it is perhaps only a sentimental duty to give respect to the Dharmic traditions including
Hinduism. Resonating the Muslim Mughal emperor Babur’s
will, Article 48 of the Constitution of India reads:
The State shall endeavour to organise agriculture and animal husbandry on modern and scientific lines and shall, in particular, take steps for
preserving and improving the breeds, and prohibiting the slaughter, of
cows and calves and other milch and draught cattle.41
It is couched in a mild and non-religious language. In a modern
economy, working under the precepts of postcolonial modernity it
might become impractical and unimplementable. Therefore, it also
betrays an element of hypocrisy when India is one of the biggest exporters of beef in the world42. The only possible restriction on eating
cow’s meat or any non-vegetarian food can be framed in an environmental language because it increases each individual’s ecological
40. P.V. Kane, HISTORY OF DHARMASASTRA (ANCIENT AND MEDIEVAL RELIGIOUS AND CIVIL LAW) VOL II PART II (2nd edn.), p.778,
Bhandarkar Oriental Research Institute, Poona, 1974.
41. The Government of India website: https://www.india.gov.in/sites/upload_files/npi/files/coi_part_full.pdf (last accessed: 17th May, 2018).
42. In terms of quantity, India was the third largest exporter in 2016 and the
second largest exporter in 2017 even when most of the meat comes from the domestic water buffaloes instead of cows. Cf. India is world’s third-biggest beef
exporter: FAO report, The Indian Express, July 29, 2017 (accessed at: http://
indianexpress.com/article/world/india-third-biggest-beef-exporter-fao-report-4772389/, last accessed: 31th May, 2018); Near-record volume for global
beef exports in 2017; value highest since 2014 (http://www.beefmagazine.com/
exports/near-record-volume-global-beef-exports-2017-value-highest-2014,
last accessed: 31th May, 2018).
The Right to Food as Right to Life under Classical Hindu Law
147
foot printing and leads to ecological damage. In other words, choice
of food should be left to an individual due to a variety of sources
including classical and folk traditions under the Hindu Law and
culture apart from how India’s constitution has been framed and
read by its highest courts.
Alimentare la democrazia
Come il diritto all’alimentazione “si adegua”
Jörg Luther
Sommario. 1. Il diritto all’alimentazione “adeguata” come diritto economico,
sociale e culturale di difficile implementazione 2. I buoni propositi dell’umanità: porre fine alla fine 3. Le brutte statistiche della fame e dell’insicurezza alimentare mondiale 4. Garanzie amministrative e penali del diritto al
cibo in ambito nazionale ed internazionale 5. I mali della carenza con i mali
dell’abbondanza sono compensabili solo in loco? 6. La sicurezza alimentare
inquina? 7. L’ideale della food democracy romana: panem et circenses? 8.
Conclusione. La sacralizzazione del cibo.
1. Il diritto all’alimentazione “adeguata” come diritto economico, sociale e culturale di difficile implementazione
I diritti economici, sociali e culturali hanno tuttora uno status
particolare nel diritto internazionale. Anche il diritto all’alimentazione fu dichiarato settant’anni fa nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (DUDU) come diritto individuale «à
un niveau de vie suffisant […] notamment pour l’alimentation».
Proveniente dalla dichiarazione americana dei diritti umani e
recepito nelle fonti internazionali africane ed asiatiche, ma non
nelle dichiarazioni europee e solo ina una ventina di Costituzioni
più recenti (in Europa: Bielorussia, Ucraina e Moldavia), è stato
riformulato come diritto ad un’alimentazione adeguata nell’art.
11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e cul149
150
Jörg Luther
turali (ICESCR) del 1966 ed arricchito di fonti di soft law. Le
più importanti sono gli standards tecnici e le direttive relative
alla sicurezza alimentare della Commissione del Codex Alimentarius1 di WHO/FAO e le Voluntary Guidelines to support the
progressive realization of the right to adequate food in the context of national food security della FAO (2005) che richiedono,
tra l’altro, di sostenere a livello locale la “diversità dietetica” e
“consuetudini alimentari sane”2 e di creare “Food Insecurity and
1. Cf. art. 1 del relativo Statuto: «The Codex Alimentarius Commission
shall, subject to Article 5 below, be responsible for making proposals to, and
shall be consulted by, the Directors- General of the Food and Agriculture Organization (FAO) and the World Health Organization (WHO) on all matters
pertaining to the implementation of the Joint FAO/WHO Food Standards Programme, the purpose of which is: (a) protecting the health of the consumers
and ensuring fair practices in the food trade; (b) promoting coordination of all
food standards work undertaken by international governmental and non governmental organizations; (c) determining priorities and initiating and guiding the
preparation of draft standards through and with the aid of appropriate organizations; (d) finalizing standards elaborated under (c) above and publishing them
in a Codex Alimentarius either as regional or worldwide standards, together
with international standards already finalized by other bodies under (b) above,
wherever this is practicable; (e) amending published standards, as appropriate,
in the light of developments».
2. GUIDELINE 10 Nutrition. 10.1 If necessary, States should take measures to maintain, adapt or strengthen dietary diversity and healthy eating habits
and food preparation, as well as feeding patterns, including breastfeeding, while ensuring that changes in availability and access to food supply do not negatively affect dietary composition and intake. 10.2 States are encouraged to take
steps, in particular through education, information and labelling regulations, to
prevent overconsumption and unbalanced diets that may lead to malnutrition,
obesity and degenerative diseases. 10.3 States are encouraged to involve all relevant stakeholders, in particular communities and local government, in the design, implementation, management, monitoring and evaluation of programmes
to increase the production and consumption of healthy and nutritious foods,
especially those that are rich in micronutrients. States may wish to promote gardens both at home and at school as a key element in combating micronutrient
deficiencies and promoting healthy eating. States may also consider adopting
regulations for fortifying foods to prevent and cure micronutrient deficiencies,
in particular of iodine, iron and Vitamin A.
Alimentare la democrazia
151
Vulnerability Information and Mapping Systems (FIVIMS) (13)
nonché un “social safety and food safety net”(14). Trattandosi di
un bisogno primario di ogni essere umano, l’alimentazione “adeguata” fa parte di uno “standard adeguato di vita” e si colloca
subito dopo il diritto economico al lavoro e quello alla sicurezza
sociale, ancora prima del diritto alla salute e all’istruzione.
Una riflessione preliminare merita il valore categoriale di
questo diritto umano, non universalmente trasformato in diritto fondamentale. Innanzitutto è un diritto individuale (right of
everyone) preceduto dalla riconferma del diritto all’autodeterminazione dei popoli che include il libero perseguimento del
proprio «sviluppo economico, sociale e culturale». Lo sviluppo
economico può essere garantito dalla scelta di un’economia di
mercato la quale tuttavia non deve pregiudicare lo sviluppo sociale e culturale, ragione per la quale il commentario generale
n. 24 ha dedicato particolare attenzione agli obblighi degli stati
nei confronti delle “business activities”, in particolare l’obbligo
di garantire un’efficace protezione contro violazioni dei diritti
umani da parte delle imprese3. Questo obbligo vale anche con
riguardo al diritto al cibo: «States should adopt measures such as
imposing due diligence requirements to prevent abuses of Covenant rights in a business entity’s supply chain and by subcontractors, suppliers, franchisees, or other business partners». Questo
significa anche che le filiere della produzione alimentare devono
essere libere da violazioni dei diritti sociali e culturali.
Il diritto al cibo adeguato è un diritto economico, ma anche
sociale e culturale. È innanzitutto un diritto “economico” partico3. UN, Committee on Economic, Social and Cultural Rights (2017): General Comment No. 24 (2017) on State obligations under the International
Covenant on Economic, Social and Cultural Rights in the context of business
activities. 10 August 2017, UN Doc. E/C.12/GC/24. Cfr. già general comment
No. 12 (1999) on the right to adequate food, paragrafi. 19, 20.
152
Jörg Luther
lare perché l’alimentazione presuppone beni e servizi quali generi alimentari, acqua ed energia e la loro preparazione al consumo.
In una definizione ONU del 1999 so si interpreta come un diritto
di accesso fisico ed economico a tali beni, da fare garantire ai
mercati: «The right to adequate food is realized when every man,
woman and child, alone or in community with others, has physical and economic access at all times to adequate food or means
for its procurement». Il consumo trasforma i beni alimentari da
proprietà privata in parti del corpo della persona umana salvo
quanto viene espulso. Questi beni possono essere resi oggetto
di servizi di cura e specifici lavori di produzione e commercio e
sono pertanto anche protetti dai diritti socio-economico al lavoro
dei lavoratori coinvolti.
Il cibo è tuttavia anche diritto sociale, innanzitutto della stessa
categoria dei lavoratori. Essendo il cibo fonte di riproduzione della forza di lavoro, non solo il diritto ad un salario proporzionato
esclude letteralmente “salari da fame” nel senso della income poverty, anche l’accesso al cibo in una pausa pranzo potrebbe considerarsi un diritto fondamentale del lavoratore. Inoltre i servizi
relativi all’accesso al cibo possono essere qualificabili nel diritto
UE come servizi di interesse economico generale (art. 36 CFREU)
e richiedono un livello elevato di protezione dei consumatori (art.
37 CFREU). La food safety garantita dall’apposita autorità europea istituita dall’art. 22 (1) del regolamento CE n. 178/2002 che
stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa
procedure nel campo della sicurezza alimentare” lega l’adeguatezza dell’alimentazione soprattutto, ma non esclusivamente al diritto
alla salute: «La legislazione alimentare persegue uno o più fra gli
obiettivi generali di un livello elevato di tutela della vita e della salute umana, della tutela degli interessi dei consumatori, comprese
le pratiche leali nel commercio alimentare, tenuto eventualmente
Alimentare la democrazia
153
conto della tutela della salute e del benessere degli animali, della
salute vegetale e dell’ambiente.» (art. 1)
L’alimentazione adeguata può pertanto diventare anche diritto a prestazioni sociali per categorie di persone vulnerabili bisognose di assistenza quali “lattanti”, bambini piccoli, persone con
malattie o portatori con disabilità specifiche o anziani non autosufficienti o per categorie di persone che vivono in condizioni di
estrema povertà. Al riguardo, in una conferenza stampa del 1994,
il Presidente Casavola aveva formulato a proposito della povertà
delle pensioni “il diritto a togliersi la fame”. Nella sentenza n.
10/2010 sulla social card, la Corte ha poi desunto dall’art. 38
Cost. (alla luce dell’art. 2 Cost.) un «diritto a conseguire le prestazioni imprescindibili per alleviare situazioni di estremo bisogno, in particolare alimentare».
Se questi pochi cenni dimostrano già la complessità del diritto
all’alimentazione adeguata, occorre tuttavia anche aggiungere la
qualificazione del diritto all’alimentazione adeguata come diritto culturale complesso. Jean Ziegler, il primo relatore speciale
dell’ONU su questo diritto, aveva messo in luce come l’adeguatezza non richiede solo criteri quantitativi, come ad es. il fabbisogno di calorie del corpo, ma anche criteri qualitativi, includendo
nella definizione il passo «corrispondente alle tradizioni culturali del popolo al quale la persona appartiene.» Sarebbe tuttavia,
riduttivo interpretare il diritto culturale dell’alimentazione solo
come un diritto allo slow food4, o come un diritto alla conservazione della diversità culinaria. Innanzitutto comprende un diritto all’educazione alimentare che non sia limitato alle norme
di igiene o alle buone maniere a tavola e non perpetui clichés
circa l’essenziale responsabilità delle donne per la cucina. Inoltre
implica il diritto di partecipare alla vita culturale alimentare e in
4. Cf. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma 2012, 127ss.
154
Jörg Luther
particolare un diritto al godimento dei benefici della ricerca delle
scienze alimentari naturali che si traduce nella legislazione europea nel principio della valutazione scientifica dei rischi. In senso
più ampio è diritto culturale particolari anche il diritto all’informazione alimentare, in particolare al corretto food labelling da
parte dei produttori e dei commercianti e agli avvisi pubblici su
situazioni di rischio da parte delle autorità pubbliche (art. 11 CE
178/20025).
Se queste sono le dimensioni del diritto all’alimentazione
adeguata, resta tuttavia da vedere in che misura possa essere implementato nei vari ordinamenti, cioè sia in quelli inter- e sovranazionali, si in quelli nazionali. Al riguardo meritano di essere
approfonditi innanzitutto gli aspetti globali della lotta alla fame
(2.) e all’insicurezza alimentare (3.), in particolare nelle situazioni di conflitto armato (4.). Questi aspetti vanno poi confrontati
con le politiche alimentari locali (5.) e con l’impatto ambientale
delle politiche della sicurezza alimentare nazionali (6.). Infine
saranno tentate alcune conclusioni sull’ideale della food democracy, cioè sui modi in cui il diritto all’alimentazione si adegua
alla democrazia (7.).
2. I buoni propositi dell’umanità: porre fine alla fame
Dopo aver raggiunto nel primo dei millennium goals quello di
dimezzare la povertà e la fame del mondo,6 il secondo degli
5. «… nel caso in cui vi siano ragionevoli motivi per sospettare che un
alimento o mangime possa comportare un rischio per la salute umana o animale, in funzione della natura, della gravità e dell’entità del rischio le autorità pubbliche adottano provvedimenti opportuni per informare i cittadini della natura
del rischio per la salute …».
6. http://www.un.org/millenniumgoals/2015_MDG_Report/pdf/MDG%20
Alimentare la democrazia
155
obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda 2030, approvata
con risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il
25 settembre 2015, propone subito dopo la lotta contro le forme più estreme di povertà: «Porre fine alla fame, raggiungere
la sicurezza alimentare, migliorare la nutrizione e promuovere
un’agricoltura sostenibile.» A tal fine si propone tra l’altro entro
il 2020 di conservare la diversità genetica delle sementi, delle
piante coltivate, degli animali da allevamento e domestici e delle
specie selvatiche affini, di raggiungere entro il 2025, i traguardi
concordati a livello internazionale contro l’arresto della crescita
e il deperimento nei bambini sotto i 5 anni di età, ed entro il
2030 di “garantire a tutte le persone, in particolare ai poveri e le
persone più vulnerabili, tra cui neonati, un accesso sicuro a cibo
nutriente e sufficiente per tutto l’anno”, ponendo fine a tutte le
forme di malnutrizione, di
raddoppiare la produttività agricola e il reddito dei produttori di cibo
su piccola scala, in particolare le donne, i popoli indigeni, le famiglie
di agricoltori, i pastori e i pescatori, anche attraverso un accesso sicuro
ed equo a terreni, altre risorse e input produttivi, conoscenze, servizi
finanziari, mercati e opportunità per valore aggiunto e occupazioni non
agricole.7
La Carta di Milano, promossa dall’EXPO del 2015, ha ulteriormente sviluppato questo obiettivo attraverso una serie di
impegni personali e civili, asserendo cioè essenzialmente doveri
dei consumatori e della società civile
2015%20rev%20(July%201).pdf: «The proportion of undernourished people
in the developing regions has fallen by almost half since 1990, from 23.3 per
cent in 1990–1992 to 12.9 per cent in 2014–2016.»
7. A/RES/70/1, http://www.unric.org/it/images/Agenda_2030_ITA.pdf
156
Jörg Luther
— di informarsi sull’origine di prodotti e di valutare l’impatto dei consumi di alimenti,
— di evitare sprechi e contaminazioni di cibo e di acqua, anche tramite forme di riciclaggio,
— di promuovere l’educazione alimentare e valorizzare i piccoli produttori locali, nonché attraverso impegni delle imprese e azioni politiche impegnate
— a garantire e rendere effettivo il diritto al cibo e la sovranità̀ alimentare,
— a tutelare il suolo agricolo, a creare condizioni per una migliore sicurezza alimentare globale,
— a considerare il cibo un patrimonio culturale e in quanto
tale difenderlo da contraffazioni e frodi, proteggerlo da inganni e pratiche commerciali scorrette,
— a sostenere e diffondere la cultura della sana alimentazione,
— a promuovere un patto globale riguardo le strategie alimentari urbane e rurali in relazione all’accesso al cibo
sano e nutriente, che coinvolga sia le principali aree metropolitane del pianeta che le campagne,
— a introdurre o rafforzare nelle scuole e nelle mense scolastiche i programmi di educazione alimentare”,
— a sviluppare misure e politiche nei sistemi sanitari nazionali che promuovano diete sane e sostenibili e riducano il
disequilibrio alimentare ecc.
Trattasi tuttavia solo di obiettivi concordati in fonti di soft
law, non coercibili, ma oggetto di procedure di monitoraggio, in
particolare da parte del relatore speciale per il diritto al cibo creato nel 2000 - in passato Jean Ziegler e Olivier de Schutter, ora
Hilal Elver - il cui mandato era stato ridefinito dal Consiglio dei
diritti umani di Ginevra e prorogato ultimamente con Risoluzione del 30 giugno 2016. Furono soprattutto i commenti generali,
Alimentare la democrazia
157
alcune risoluzioni del Consiglio e queste relazioni a sviluppare la
riflessione interdisciplinare sui diritti relativi al cibo, riflessione
partecipata anche dalla FAO, la “Food and Agriculture Organization” o “Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione
e l’agricoltura” fondata nel 1945 a Ottawa e avente sede a Roma
sin dal 1951, e ulteriormente approfondita sin dal 2009 nel Comitato per la World Food Security (CFS)8.
Per effetto dei commenti generali e degli atti di monitoraggio,
lo stesso diritto all’alimentazione adeguata di cui all’art. 11 del
Patto sui diritti economici e culturali del 1966 ha ricevuto una
riformulazione ancora più promettente in termini di disponibilità
(General comment par. 12) e accessibilità (par. 13), cioè come
diritto «ad avere un accesso regolare, permanente e non ristretto,
diretto o tramite compravendite finanziate, a un’alimentazione
quantitativamente e qualitativamente adeguata e sufficiente che
corrisponda alle tradizioni culturali della gente cui il consumatore appartiene e che assicura una vita fisica e mentale, individuale
e collettiva, piena e dignitosa, libera da paura.»9.
Andando oltre il diritto sociale alla salute e rievocando la
rooseveltiana libertà dalla paura, il diritto al cibo promette non
solo sicurezza sociale, ma anche una economia e una cultura alimentare collettiva adeguata. L’umanità organizzata promette di
rispettare, proteggere e realizzare (fulfill) non più semplicemente
8. Cfr. gli ultimi lavori del 9-13 ottobre 2017 in http://www.fao.org/cfs/
home/plenary/cfs44/it/
9. http://www.ohchr.org/EN/Issues/Food/Pages/FoodIndex.aspx: « …to
have regular, permanent and unrestricted access, either directly or by means
of financial purchases, to quantitatively and qualitatively adequate and sufficient food corresponding to the cultural traditions of the people to which the
consumer belongs, and which ensure a physical and mental, individual and collective, fulfilling and dignified life free of fear.» Cf. C. Morini, Il diritto al cibo
nel diritto internazionale, Rivista di diritto alimentare XI, 1, 2017, http://www.
rivistadirittoalimentare.it/rivista/2017-01/MORINI.pdf
158
Jörg Luther
il cibo come bene vitale di consumo individuale o comune10, ma
anche le relative attività economiche e culturali di produzione,
preparazione e consumo alimentare.
Le promesse politiche internazionali del diritto all’alimentazione adeguata non equivalgono ancora a tutele giuridiche forti,
equiparabili a quelle di un diritto fondamentale dotato di garanzie costituzionali esplicite all’interno di tutti gli Stati11, ma sono
nobilitate da rivendicazioni di una “sovranità alimentare” che si
sono tradotte successivamente in teorie e movimenti politici propositivi di una “democrazia alimentare” nella quale tutti cittadini
hanno il diritto e dovere di partecipare al disegno del sistema
di alimentazione per controllare il potere delle corporazioni e
delle agroindustrie12. La promessa è in ultima analisi quella di
imbrigliare e mitigare i poteri di coloro che lucrano sui bisogni
primari, cioè sulla fame, anche attraverso una gestione autonoma
e diretta dei rapporti tra produttori e consumatori.
10. Per la qualificazione come bene vitale ma non come diritto fondamentale cfr. B. Vimercati, Il diritto ai beni vitali. Cibo e acqua: nuovi diritti fondamentali?, in: V. Baldini (a cura di), Cos’è un diritto fondamentale?, Napoli
2017, 241ss. Per la qualificazione come bene ed attività culturale più articolato.
M. Fiorillo, Quale ordine normativo per l’universo alimentare nazionale, in:
id., S. Silverio, Cibo, cultura, diritto, Modena 2017, 27ss.
11. Cfr. M. Bottiglieri, Il diritto ad un cibo adeguato, in: P. Macchia (a
cura di), La persona e l’alimentazione, Roma 2014, 217ss.
12. A. Rossi, G. Brunori, Towards a new food governance: Exploring the
development of an integrated urban food strategy (2014), .http://www.fao.org/
fileadmin/templates/ags/docs/MUFN/CALL_FILES_EXPERT_2015/CFP118_Full_Paper.pdf; O. De Schutter (2015), Food democracy South and North:
from food sovereignty to transition initiatives, Open Democracy / ISA RC-47:
Open Movements, 17 March 2015, https://opendemocracy.net/olivier-de-schutter/food-democracy-south-and-north-from-food-sovereignty-to-transition-initiatives; G. Zagrebelsky, Due concetti costituzionali: sovranità alimentare e
olismo, in B. Biscotti, E. Lamarque (a cura di), Cibo e acqua. Sfide per il
diritto contemporaneo. Verso e oltre Expo 2015, Torino, Giappichelli, 2015.
Alimentare la democrazia
159
3. Le brutte statistiche della fame e dell’insicurezza alimentare mondiale
La recente popolarità e passionalità del diritto al cibo e della
sovranità alimentare sono anche una conseguenza della paura
seminata dalla crisi finanziaria ed economica mondiale che si
è manifestata una decina di anni fa e si è tradotta in una vera
e propria “global food crisis” poco osservata. Tra il 2008 e
il 2009, il numero delle persone malnutrite è aumentato di
100.000.000 e ancora nel 2011, la Banca mondiale stimava
che nei precedenti 10 mesi 44.000.000 persone erano state ridotte in povertà da aumenti incontrollati dei prezzi degli alimentari13.
Ancora nel 2015, la “Carta di Milano” dell’Expo ha censurato i seguenti fatti globali:
— «circa 800 milioni di persone soffrano di fame cronica,
più di due miliardi di persone siano malnutrite o comunque soffrano di carenze di vitamine e minerali; quasi
due miliardi di persone siano in sovrappeso o soffrano
di obesità; 160 milioni di bambini soffrano di malnutrizione e crescita ritardata»;
— «ogni anno 1,3 miliardi di tonnellate di cibo prodotto
per il consumo umano sia sprecato o si perda nella filiera alimentare»;
— «più di 5 milioni di ettari di foresta scompaiano ogni
anno con un grave danno alla biodiversità e alle popolazioni locali, con gravi effetti anche sul clima»;
13. Cit. da P. Claeys, N. Lambek, Introduction, in: N. Lambek et al. (eds.),
Rethinking Food Systems, Dordrecht 2014, 2.
160
Jörg Luther
— «le risorse del mare siano sfruttate in modo eccessivo:
più del 30% del pescato soggetto al commercio è sfruttato oltre la sua capacità di rigenerazione».
Sono dati ricavabili innanzitutto dalle relazioni e statistiche
della FAO, in particolare “Lo Stato dell’insicurezza alimentare” (SOFI) e “Lo Stato dell’alimentazione e dell’agricoltura”
(SOFA). Il SOFA del 2017 ha cominciato a misurare gli indicatori del citato obiettivo (sustainable development goal SDG) 2
dell’agenda 2030.
Il risultato più allarmante è che la fame mondiale dopo una
lunga fase di discesa sembra nuovamente risalire. Il numero stimato di persone sottonutrite è salita da 777 milioni nel 2015 a
815 milioni nel 2016 (ca. 11 % della popolazione mondiale). Risultati analoghi evidenziano gli indicatori di “forte insicurezza
alimentare” che salgono da 8,8 % della popolazione mondiale nel
2015 a 9,3 % nel 2016. Uno dei fattori principali di questa crescita sarebbe l’aumento dei conflitti armati, anche riconducibili a
“climate-related shocks”, un altro le crisi economiche che rendono più difficile l’accesso al cibo dei poveri. Nonostante la discesa
della malnutrizione dei bambini fino ai 5 anni, il problema di un
arresto della crescita dei bambini (stunting) interessa ancora 1 su
4, cioè 155 milioni bambini e, nelle regioni più colpite come l’Africa subsahariana e il sudest asiatico, 1 su 3. A fronte dell’obiettivo di ridurre la quota dei bambini sottopeso (wasting) a 5 % nel
2025, nel 2016 il fenomeno intessa ancora ca. 52 milioni bambini
fino ai 5 anni (7,7 %). In forte crescita è anche il sovrappeso di 41
milioni bambini nel 2016 (6 % nel 2016 rispetto a 5,3 nel 2005) e
di ca. 600 milioni adulti nel 2014 (13 %), in particolare in America del Nord ed Europa (28%). Restano da arginare i fenomeni di
anemia delle madri (ca. un terzo della popolazione) e da aumentare l’allattamento al seno per migliorare la nutrizione infantile.
Alimentare la democrazia
161
Per quanto riguarda il rapporto tra insicurezza alimentare e
situazioni di conflitto armato, il SOFA 2017 stima che delle 815
milioni di persone che soffrono fame e delle 155 milioni di bambini che non crescono, rispettivamente 489 milioni di persone e
122 milioni di bambini vivono in paesi teatro di conflitti armati. Si
potrebbe concludere che l’obiettivo dell’agenda 2030 risulterà impossibile da realizzare se non si riescono a ridurre e regolare i conflitti armati in modo tale da escludere l’uso bellicoso della fame.
Per quanto riguarda le statistiche della pace, il positive peace
index converge con molti indici di sviluppo, in primis quello il
Global Food Insecurity Index. Il Global Peace Index 2017 ha
invece registrato nell’ultimo decennio una perdita del 2.14 %,
con 80 paesi in miglioramento e 83 paesi in peggioramento, in
particolare nell’Africa subsahariana e nel Medio oriente14. I conflitti armati possono interrompere la produzione agricola, deteriorare le condizioni economiche di un paese, creare problemi di
approvvigionamento delle persone in fuga (internally displaced)
e portare al blocco di rifornimenti di generi alimentari, anche
se mediate da organismi di assistenza umanitaria. Human Rights
Watch riferisce ad es. che il governo siriano ha fatto «continued
efforts to blockade international humanitarian groups seeking to
provide food and medicine to the besieged Syrian population».
4. Garanzie amministrative e penali del diritto al cibo in ambito nazionale ed internazionale
L’ultimo report del Relatore speciale per il diritto al cibo avanza
delle raccomandazioni concrete agli Stati, raccomandazioni che
14. Global Peace Index 2017, http://visionofhumanity.org/app/uploads/2017/06/GPI17-Report.pdf
162
Jörg Luther
sarebbero applicabili anche all’Italia. Innanzitutto la legislazione
nazionale dovrebbe riconoscere formalmente ed implementare
efficacemente gli obblighi di rispettare, proteggere e realizzare il
diritto all’alimentazione adeguata in tempi di pace e di conflitto15.
Al riguardo, l’art. 81 commi 29, 32ss. del d.lg. 112/2018,
convertito con modifiche dalla legge n. 133/2008 ha istituito innanzitutto un «Fondo speciale destinato al soddisfacimento delle
esigenze prioritariamente di natura alimentare e successivamente
anche energetiche e sanitarie dei cittadini meno abbienti». È stata
creata una carta d’acquisti
al fine di soccorrere le fasce deboli di popolazione in stato di particolare
bisogno e su domanda di queste, è concessa ai residenti cittadini italiani
o di Stati membri dell’Unione europea ovvero familiari di cittadini italiani o di Stati membri dell’Unione europea non aventi la cittadinanza
di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del
diritto di soggiorno permanente, ovvero stranieri in possesso di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, che versano in
condizione di maggior disagio economico (co. 32).
La Carta ha tuttavia solo un valore di 40 Euro e quindi potrebbe
essere non sufficiente a garantire l’alimentazione in situazioni di
povertà estrema.
Nell’ambito delle misure di lotta alla povertà coordinate
dall’Unione Europea, l’art. 58 del d.l. n. 83/2012, convertito
dalla legge n. 134/2012 ha qundi istituito presso l’Agenzia per
le erogazioni in agricoltura (AGEA) un fondo per l’efficientamento della filiera della produzione e dell’erogazione e per il fi15. Interim report of the Special Rapporteur on the right to food, 21. 7.
2017, UN General Assembly, A/72/188, http://ap.ohchr.org/documents/dpage_e.aspx?si=A/72/188.
Alimentare la democrazia
163
nanziamento dei programmi nazionali di distribuzione di derrate
alimentari alle persone indigenti nel territorio della Repubblica
Italiana. Le derrate alimentari sono distribuite agli indigenti mediante organizzazioni caritatevoli, conformemente alle modalità
previste dal Regolamento (CE) n. 1234/2007 del Consiglio del
22 ottobre 2007.
Si è aggiunto il fondo Fondo di Aiuti Europei agli indigenti
previsto dal Regolamento UE 2014/223, con un Programma Italiano di attuazione che si avvale di organizzazioni partner per distribuire gli aiuti alimentari tramite l’organizzazione di servizi di
mensa, la distribuzione di pacchi alimentari, la gestione di empori sociali, la distribuzione tramite unità di strada di cibi e bevande
e la loro distribuzione domiciliare). Di fronte all’aumento delle
situazioni di povertà, all’insufficienza delle garanzie di reddito
lavorativo e alle difficoltà fattuali dell’assistenza sociale, anche
questi strumenti amministrativi potrebbero offrire una garanzia
giuridicamente insufficiente e necessiterebbero di un monitoraggio da parte di istituzioni indipendenti.
Da ultimo, la legge 19 agosto 2016, n. 166 “Disposizioni concernenti la donazione e la distribuzione di prodotti alimentari e
farmaceutici a fini di solidarietà sociale e per la limitazione degli
sprechi” ha facilitato le attività della Fondazione Onlus Banco
Alimentare, ma resta pur sempre un obbligo sussidiario dello
Stato prestare un’assistenza sociale diretta tale da evitare situazioni di mancato rispetto, insufficiente protezione e realizzabilità
del diritto ad un’alimentazione adeguata, il cui contenuto essenziale potrebbe essere individuato nella libertà dalla fame.
Per quanto riguarda invece in particolare l’assistenza alimentare in aree di conflitto armato, il relatore speciale raccomanda di
“garantire” che arrivi all’intera popolazione senza discriminazioni, con particolare attenzioni a persone “displaced”, prevenendo
e punendo attacchi di gruppi armati contro le risorse di produzio-
164
Jörg Luther
ne del cibo e l’ostruzionismo a convogli con aiuti umanitari. A tal
riguardo, si raccomanda la codificazione di diritto penale
that absolutely prohibits the starvation of civilians as a method of warfare and forced displacement and recognizes the blocking of humanitarian assistance as a crime subject to prosecution individually, either in
national courts or, following extradition, international courts.
Il codice penale militare di Guerra contempla appositi reati di
omissione di provvedimenti per la tutela di edifici destinati alla
beneficenza (art. 179 c.p.m.g.), di saccheggio (art. 186 c.p.m.g.),
busca (art. 188 c.p.m.g.) e di maltrattamenti di prigionieri (art. 209
c.p.m.g.). Tuttavia non sanziona ad es. l’incendio di terreni agricoli e provviste di viveri (arg. art. 187 c.p.m.g.), l’autorizzazione
all’impossessamento di viveri in misura tale da non garantire più
l’alimentazione dei civili (arg. art. 188, 189 c.p.m.g.) l’uso delle
armi contro rifornimenti di viveri alla popolazione civile (arg. 191
c.p.m.g.), la violenza contro persone addette al trasporto di generi
alimentari per la popolazione civile (arg. art. 194 c.p.m.g.).
Infine, la relazione del relatore speciale si appella alla comunità internazionale, e quindi anche al governo italiano e all’Alto
rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, affinché tra l’altro
1. si crei un «workable early warning system designed to
warn of imminent famine conditions», forse istituzionalizzabile all’interno del citato Comitato per la sicurezza
dell’alimentazione,
2. si inizi un procedimento di emendamento dello Statuto di
Roma della Corte internazionale di giustizia penale per
inserire la riduzione in condizioni di fame in un crimine
internazionale contro l’umanità,
Alimentare la democrazia
165
3. si spinga il Comitato Internazionale della Croce Rossa o
convocare quanto prima una conferenza per revisionare le
norme del diritto internazionale umanitario al riguardo16.
La relazione riferisce vari appelli e missive dirette al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma resterebbe da analizzare l’azione
del Consiglio di sicurezza al riguardo, ad es. nelle risoluzioni
riguardanti le aree teatro di conflitto. La risoluzione n. 2393 del
19 dicembre 2017 si è limitata a un passo molto sintetico:
Noting that, despite ongoing challenges, the United Nations and their
implementing partners continue to deliver life‑saving assistance to
millions of people in need in Syria through humanitarian aid delivered
across borders, including the delivery of food assistance for on average
1 million people every month since 2016; non‑food items for 4 million
people; health assistance for 15 million treatments, and water and sanitation supplies for over 3 million people.17
5. I mali della carenza con i mali dell’abbondanza sono compensabili solo in loco?
Molteplici sono i problemi dell’economia e cultura alimentare in
Italia. Tra la Scilla della fame e la Cariddi dello spreco, il legislatore ha puntato innanzitutto sulla redistribuzione per mezzo delle
16. Cfr. per la responsabilità relativa ai basic relief supplies l’art. 3 delle
convenzioni di Ginevra, artt. 70, 71 del Protocollo Addizionale I e art. 18 (2)
del Protocollo addizionale II. Per il diritto consuetudinario ICRC “Rule 53:
starvation as a method of warfare”, https://ihl-databases.icrc.org/customary-ihl/
eng/docs/v1_rul_rule53.
17. https://www.un.org/press/en/2017/sc13127.doc.htm.
166
Jörg Luther
onlus, peraltro rafforzata da varie food policies locali18. Mentre la
carenza stenta a essere sradicata in diverse regioni dell’Africa e
dell’Asia nonché, in misura minore, nell’America latina, (incluso
il Messico) ed esiste ancora i nei paesi BRICS, lo spreco è problema particolarmente sentito in Italia e nell’Unione europea, ma
più in generale nei paesi più sviluppati del mondo. Uno studio
della FAO del 2013 sul fenomeno del food waste stima complessivamente che un terzo del cibo prodotto nel mondo viene perso
o sprecato.
L’organizzazione mondiale della sanità ha focalizzato alcuni
eccessi particolarmente negativi per la salute, raccomandando
una riduzione drastica del consumo di zuccheri che causano non
solo costi sproporzionati di cure dentistiche e di cure dell’obesità, ma anche l’aumento del diabete, di malattie cardiovascolari e
di molte altre malattie non infettive.
In both adults and children, WHO recommends reducing the intake of
free sugars to less than 10% of total energy intake (strong recommendation2). WHO suggests a further reduction of the intake of free sugars to
below 5% of total energy intake (conditional recommendation).19
18. Cf. da ultimo L. Giacomelli, Diritto al cibo e solidarietà. Politiche e
pratiche di recupero delle eccedenze alimentari (2018), in: Osservatorio AIC,;
M. Bottiglieri, G. Pettenati, A. Toldo (a cura di), Toward a Turin Food Policy. Good practices and visions, Milano, Franco Angeli, 2016; M. Bottiglieri, Il
diritto al cibo adeguato, Alessandria 2015, 397ss., http://polis.unipmn.it/pubbl/
RePEc/uca/ucapdv/polis0222.pdf; A. Calori, A. Magarini (a cura di), Food and
the cities. Food policies for sustainable cities, Milano, Edizioni Ambiente, 2015;
F. Pizzolato, Diritto al cibo: politiche, non riforme costituzionali, in: Nutrire il
pianeta: per un paradigma di sviluppo inclusivo e sostenibile, n. 1, 2015, 40 ss.
19. World Health Organisation, Guideline: sugars intake for adults and children, Genève 2015; http://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/149782/9789241549028_eng.pdf?sequence=1
Alimentare la democrazia
167
Per attuare queste raccomandazioni servirebbe innanzitutto
un adeguato food and nutrition labelling, educazione dei consumatori anche nell’autoregolamentazione delle azioni pubblicitarie, una regolazione più rigida della compravendita di dolci e bevande non alcooliche ad alto tasso di zucchero, incluse specifiche
fiscal policies. Il coraggio di tassare ad es. la Coca-Cola e le gazzose dolcificate è stato dimostrato nell’UE da Ungheria (2011),
Francia (2012), Regno Unito (“Soft Drinks Industry Levy” 2018)
e Irlanda, ma la Danimarca ha abolito una simile tassa esistente sind dal 1930 nel 2013. Anche l’Italia è stata contraria, forse
perché l’obesità è un problema minore, ma si stima che ben 224
mila decessi all’anno in tutta la Penisola, pari al 38,8% del dato
complessivo, sono causati dalle malattie in questione20. L’art. 32
Cost. impone misure di prevenzione che dovrebbero adeguare
i costumi alimentari al riguardo. Se le raccomandazioni sono
scientificamente valide, l’obbligo dello Stato di tutelare la salute
vieta di ignorarle, ma lascia ampia discrezionalità nel dosaggio
delle misure di prevenzione.
Particolarmente imbarazzante è poi l’impatto ambientale degli sprechi. Sempre secondo la FAO, gli sprechi ambientali producono ca. 3.3 gigatonnellate di CO2, solo poco di meno delle
emissioni degli Stati Uniti o della Cina. Il consumo annuale delle
risorse di acque è stimato in 250 km3, tre volte il volume del lago
di Ginevra. Il cibo prodotto, ma non consumato assorbe il 30 %
delle aree di agricoltura21. In Italia finora ogni anno finiscono tra i
rifiuti dai 10 ai 20 milioni di tonnellate di prodotti alimentari, per
un valore di circa 37 miliardi di euro. L’Osservatorio sugli sprechi stima che a livello domestico si sprecano in media il 17% dei
20. https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/alimentazione/
loms-limitare-gli-zuccheri-aggiunti-non-piu-di-12-cucchiaini-al-giorno
21. FAO, Food wastage footprint, 2013, http://www.fao.org/docrep/018/
i3347e/i3347e.pdf
168
Jörg Luther
prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15% di pesce, il 28% di pasta
e pane, il 29% di uova, il 30% di carne e il 32% di latticini. In
media, una famiglia perderebbe o sprecherebbe in questo modo
ben 1.693 euro all’anno22.
Il problema è innanzitutto un problema morale e una questione di educazione familiare a tavola ben nota ai più. Lo spreco
individuale di per sé non comporta una violazione diretta del diritto altrui al cibo adeguato, almeno fino a quando i mercati sono
in grado di produrre e commercializzare più cibo23. Semmai può
costituire una violazione di qualche dovere di solidarietà morale trasformabile in dovere giuridico. Nulla vieterebbe, ad es., di
multare il trattamento come rifiuto di cibi ancora non scaduti.
Nulla vieterebbe di ridurre le tasse sui rifiuti in ragione della
quantità di cibo ancora commestibile ceduto ai banchi alimentari. E nulla vieterebbe di ordinare la cessione alle onlus di cibi
non consumati e non riciclabili nelle mense pubbliche. Eventuali
sanzioni, obblighi di prestazione o privilegi tributari potrebbero
semmai esigere una sufficiente base legislativa (art. 23 Cost.).
Per quanto riguarda le politiche alimentari locali, si potrebbe
innanzitutto sostenere che la lotta agli sprechi alimentari richiede
una raccolta separata dei rifiuti alimentari come parte dei rifiuti organici. Al riguardo, la politica più efficace sarebbe tuttavia
una riforma dell’art. 182 ter del d.lgs. 192/2006, come modificato dall’art. 9 del d.lgs. n. 205/2010 e integrato dall’art. 38 l.
n. 221/2015. A distanza di 10 anni, la raccolta differenziata non
andrebbe più solo disciplinata ed incoraggiata, ma imposta e sanzionata. Non bastano più le ipocrisie di chi si appella al senso di
responsabilità del singolo e delle comunità locali, perché ha paura di non riuscire a costringere le città metropolitane a governare
22. Dati tratti da L. Giacomelli, op. cit., 14.
23. Contrario invece L. Giacomelli, op. cit., 16.
Alimentare la democrazia
169
i propri rifiuti. In tempi di risorse finanziarie strangolate da un
debito pubblico insostenibile, non è “cibo adeguato” quello per
il quale la lotta agli sprechi è delegata ad alleanze di volontari
che necessitano di fondi pubblici, se è possibile a costi minore
disporre divieti e farli osservare.
Senza sanzioni effettive non è nemmeno pensabile una prevenzione efficace, cioè la diffusione di pratiche che evitino o riducano i rifiuti alimentari. Al riguardo, il Ministero dell’Ambiente ha
prodotto nel 2013 un Piano Nazionale di Prevenzione dello Spreco
Alimentare (PINPAS) che punta su educazione, formazione, comunicazione, ricerca, donazioni, accordi volontari nonché «criteri
premianti nei badi di gara pubblica» secondo gli schemi del Green
Public Procurement. Questo piano di prevenzione è significativamente privo di obiettivi concreti di riduzione degli sprechi.
La Direzione Generale per l’Igiene e la Sicurezza degli alimenti
e la Nutrizione (ufficio 5) (DGISAN) del Ministero della salute ha
avviato alla fine del 2016 un accordo di collaborazione tra pubbliche
amministrazioni per la realizzazione di un Progetto di ricerca pilota
denominato “SPAIC- Cause dello spreco alimentare ed interventi
correttivi”, progetto illustrato anche al G 7 della salute nel 2017.
L’approccio metodologico del Progetto fa riferimento al concetto
di “nudging” per il quale la spinta verso un comportamento corretto
dev’essere gentile per non essere ricusata, e dunque efficace e acquisibile culturalmente; tale approccio al contrasto agli sprechi alimentari tratta di un modello psico-comportamentale da applicare alle scelte
consapevoli dei consumatori, percorso orientato su un modello educativo, che stimoli l’adozione di buone pratiche e comportamenti virtuosi
nella quotidianità: il ricorso a semplici, piccoli aggiustamenti, che possono però portare impatti enormi e influenzare le scelte delle persone.24
24.http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&i-
170
Jörg Luther
Dal punto divista strettamente giuridico, tali politiche nazionali
di prevenzione si affidano allo Stato funzioni educative non del
tutto coerenti con la ripartizione sociale delle funzioni di istruzione pubblica e di educazione famigliare e civile. Anche l’educazione scolastica più civile delle generazioni future non potrà
sostituire l’amministrazione di quelle governanti la democrazia.
Inoltre non consentono alcun monitoraggio pubblico sui risultati
e sull’efficienza della prevenzione degli sprechi. Il realismo repubblicano fa presagire che non saranno queste cartacee a cambiare le consuetudini dello spreco.
Resta infine il problema che gli sprechi in loco difficilmente
possono essere trasformati in donazioni che arrivino ai luoghi delle
carenze. Il World Food Programme, che ha sin dal 1963 quartiere
generale a Roma, come anche la Croce Rossa e la Mezzaluna o le
organizzazioni internazionali di aiuti umanitari, in particolare delle
varie confessioni (Caritas, Brot für die Welt), difficilmente possono
accettare donazioni di cibo. Ed i banchi alimentari locali non sono
finora nodi di reti transnazionali di cooperazione internazionale allo
sviluppo di sovranità alimentari nei paesi delle carenze.
6. La sicurezza alimentare inquina?
I legami funzionali tra il diritto al cibo e il diritto alla salute sono
particolarmente stretti nelle problematiche che interessano la sicurezza alimentare. Possono creare conflitti non solo tra ministeri
della salute e dell’agricoltura, ma anche con quelli dell’ambiente.
Al riguardo merita di essere approfondito, a titolo di esempio
attuale, il comunicato pubblicato in data 4 gennaio 2018 sul sito
del Ministero dell’Ambiente – peraltro senza numero di protod=4661&area=nutrizione&menu=ristorazione.
Alimentare la democrazia
171
collo – sotto il titolo giornalistico: «Shopper: ecco la circolare
ministeriale interpretativa»25.
Il documento trae origine da una riforma delle norme sulle borse
di plastica commercializzabili intervenuta in attuazione tardiva di
una direttiva UE, riforma entrata in vigore in data 13 agosto 2017
ma applicabile solo dal 1 gennaio 2018. La “direttiva 2015/720/
UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 29 aprile 2015
modifica la precedente direttiva 94/62/CE prescrive che
Gli Stati membri adottano le misure necessarie per conseguire sul loro
territorio una riduzione sostenuta dell’utilizzo di borse di plastica in
materiale leggero. Tali misure possono comprendere il ricorso a obiettivi di riduzione a livello nazionale, il mantenimento o l’introduzione
di strumenti economici nonché restrizioni alla commercializzazione in
deroga all’articolo 18, purché dette restrizioni siano proporzionate e
non discriminatorie. (…) Le misure adottate dagli Stati membri includono l’una o l’altra delle seguente opzioni o entrambe: a) adozione di
misure atte ad assicurare che il livello di utilizzo annuale non superi 90
borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31 dicembre
2019 e 40 borse di plastica di materiale leggero pro capite entro il 31
dicembre 2025 o obiettivi equivalenti in peso; b) adozione di strumenti
atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in
materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di
merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia.
Le borse di plastica in materiale ultraleggero fino a 50 micron
possono essere escluse da entrambi le misure.
Il decreto-legge 20 giugno 2017, n. 91, convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U. 12/08/2017,
25. http://www.minambiente.it/comunicati/shopper-ecco-la-circolare-ministeriale-intepretativa.
172
Jörg Luther
n. 188), ha disposto (con l’art. 9-bis, comma 1, lettera g)) l’introduzione dell’art. 226-bis nel d.lgs. 152/2006, mantenendo il
precedente regime di commercializzazione delle borse di plastica
non biodegradabili e compostabili, basato su un divieto generale
con deroghe per particolari tipi di borse di plastica per generi alimentari con determinate percentuali di plastica riciclata. Inoltre
ha stabilito che tutte le borse di plastica esentate dal divieto “non
possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di
vendita per singola unita’ deve risultare dallo scontrino o fattura
d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite”. La comunicazione del direttore generale omette di informare
sulle statistiche di utilizzo annuale delle borse di plastica. Non
menziona neppure che a norma del nuovo art. 219 co. 3 let. d-bis
d.lgs. 152/2006 le stesse borse devono informare sugli «impatti
delle borse di plastica sull’ambiente e le misure necessarie al raggiungimento dell’obiettivo di riduzione dell’utilizzo di borse di
plastica», obiettivo di prima 90 e poi 40 borse annue non specificato dalla legislazione italiana. Piuttosto si affretta a chiarire «la
possibilità, da parte del consumatore che non intende pagare la
borsa ultraleggera, di utilizzare, al posto della stessa, imballaggi
portati dall’esterno del negozio».
A questo punto si precisa che è consentito «l’utilizzo di sacchetti di plastica monouso, già in possesso della clientela, che
però rispondano ai criteri previsti dalla normativa sui materiali
destinati a venire a contatto con gli alimenti», cioè «non utilizzati
in precedenza».
Sul punto, il Ministero della salute ha poi addirittura ritenuto
indispensabile una conferma al Consiglio di Stato il quale con il
parere CS 859/2018 del 29. 3. 2018 ha aggiunto:
Ciascun esercizio commerciale sarà tenuto, secondo le modalità dallo
stesso ritenute più appropriate, alla verifica dell’idoneità e della con-
Alimentare la democrazia
173
formità a legge dei sacchetti utilizzati dal consumatore. (…) In quanto
soggetto che deve garantire l’integrità dei prodotti ceduti dallo stesso,
può vietare l’utilizzo di contenitori autonomamente reperiti dal consumatore solo se non conformi alla normativa di volta in volta applicabile
per ciascuna tipologia di merce, o comunque in concreto non idonei a
venire in contatto con gli alimenti.
Se pertanto siano utilizzabili anche contenitori non monouso portati dai consumatori resta un enigma.
In sostanza, il Ministero dell’Ambiente ha ignorato in ogni
caso le strategie di riduzione dell’uso delle borse di plastica che
vanno per la maggiore negli altri paesi UE e non UE. Negli Stati
Uniti si utilizzano ad es. imballaggi cartacei agevolmente riciclabili e compostabili. In altri paesi UE si utilizzano cartoncini,
gabbie e reti, borse di stoffa lavabili, anche equi-solidali perché
prodotti in paesi di povertà. Infine, non spiega se le norme si applicano solo ai supermercati o anche ai mercati locali.
Il problema affrontato dalla circolare è molto più generale
e richiederebbe una riflessione sostanziale anziché formale sul
diritto a un cibo reso “adeguatemente” sicuro. Per ridurre l’uso
della plastica non è certo sufficiente riciclare borse obbligatoriamente monouso, ma occorre cercare delle alternative. Secondo i
fautori della plastica, l’imballaggio di frutta e verdura in plastica facilita tuttavia la conservazione e quindi previene lo spreco.
Inoltre, e questo è forse l’aspetto più paradossale delle norme,
proprio nella misura in cui il diritto al cibo include un diritto
all’informazione alimentare, si pone il problema di come trasmettere le informazioni relative ai prodotti. Consistenza, peso,
origine e prezzo non necessariamente devono essere scritte sul
pomodoro. Le garanzie di origine e qualità, in particolare quelle
biologiche, ma anche le date di produzione o raccolta, imballaggio e scadenza, sono componenti di un’etichettatura più facile da
174
Jörg Luther
applicare alla plastica che al cibo direttamente. Sono paradossalmente proprio gli obblighi di informazione del consumatore a
contribuire all’inquinamento di plastica. Forse un alleggerimento
pratico potrebbe derivare dalla loro digitalizzazione.
7. L’ideale della food democracy romana: panem et circenses?
Nella satira X di Giovenale, si anticipa l’idea della liberazione
della plebe dalla paura tramite le istituzioni repubblicane della
lex frumentaria e dello spettacolo pubblico, una politica popolare
(e populista) che prelevava il grano dalle province delle isole,
asiatiche ed africane, in particolare dall’Egitto, e degradava i uomini a giocatoli viventi:
[…] duas tantum res anxius optat
panem et circenses
[...] due sole cose ansiosamente
desidera: pane e giochi circensi
Se si confronta questa massima sarcastica della politica repubblicana romana con la serietà delle rivendicazioni di food
democracy, qualche dubbio e interrogativo sulle differenze sorgono. Innanzitutto vi è una differenza del sistema economico diventato capitalista e basato sulla libertà di scelta individuale di
produttori e consumatori. In secondo luogo vi è una differenza
nel sorgere dello Stato territoriale moderno, la cui sovranità è
percepita di fatto in crisi multipla, ma non disgregata né dalle
società nazionali, né dalle comunità internazionali e solo trasformata in forme ritenute maggiormente democratiche. La cd.
sovranità alimentare è considerato un nuovo diritto collettivo,
apparentemente derivato da quelli allo sviluppo e all’ambiente
dell’ultima generazione e tuttora oggetto di lotta politica. Basta
ricordare non solo il movimento più culturale di Arcigola fondato
da Carlo Petrini nel 1986 e reso internazionale come slow food
Alimentare la democrazia
175
a difesa del “diritto al piacere” nel 198926. Sempre nel 1986 viene fondato anche la Food First Information and Action Network
(FIAN) come prima organizzazione mondiale a difesa del diritto
al cibo. Altre radici sono quelle di rivendicazione della sovranità
alimentare da parte della Via Campesina (1993)27 cui ha fatto eco
“Food Democracy Now” fondato nel 2008 negli Stati Uniti che si
definisce «grassroots community dedicated to building a sustainable food system that protects our natural environment, sustains
farmers and nourishes families»28.
Il nesso funzionale tra democrazia e diritto all’alimentazione
adeguata era stato scoperto già da Amartya Sen nel lontano 1981:
No major famine has ever occurred in a functioning democracy with
regular elections, opposition parties, basic freedom of speech and a relatively free media (even when the country is very poor and in a seriously adverse food situation).29
Non si muore semplicemente per la mancanza di cibo, ma per carenza di politiche pubbliche (re-)distributive e per disastri umani.
Sotto il profilo delle pratiche di ragione e di passione politica, la
stessa democrazia si rivela in questa ottica una garanzia procedurale del diritto a non morire di fame, e forse anche del più ampio
26. Su cui cf. la critica mite di G. Zagrebelsky, Due concetti costituzionali: sovranità alimentare ed olismo, in: di B. Biscotti,El. Lamarque, Cibo e
acqua. Sfide per il diritto contemporaneo, Torino 2015, 1ss., cui ha replicato
C. Petrini, Cibo e diritto mite, in: A. Giorgis, E. Grosso, J. Luther (eds.), Il
costituzionalista riluttante, Torino 2016, 159ss.
27. Via Campesina, The right to produce and access to land. Food Sovereignty (Statement for World Food Summit), Rome 1996: «the right of each nation
to maintain and develop its own capacity to produce its basic foods respecting
cultural and productive diversity».
28. https://www.fooddemocracynow.org/about/
29. Cit. da A. Sen, The Idea of Justice, London 2009, 338 ss., 389 ss.; id.
Poverty and Famines: An Essay on Entitlement and Deprivation, Oxford, 1981.
176
Jörg Luther
diritto ad un’alimentazione “adeguata” attraverso gli stessi ragionamenti che reggono in modo non meccanico la democrazia.
Si tratta di una visione ottimistica della democrazia alimentare
come democrazia anche non asociale, anzi di una democrazia inclusiva, ma questa visione potrebbe anche privilegiare una prospettiva
più “étatiste” o stato-centrica delle politiche alimentari. Le politiche
alimentari dell’Unione Europea e i vincoli del commercio internazionale sono notoriamente percepite come dotate di minore legittimazione democratica e restrittive per gli spazi della responsabilità
politica nelle democrazie nazionali. Sen è lucido nel vedere nello
Stato non solo il salvatore dalla fame ma anche un malfattore che
minaccia con i propri poteri normativi le libertà ed abilità di autoalimentazione. Poteva prevedere magari l’ascesa dei partiti verdi nelle
democrazie europee, ma forse non le insidie della post-democrazia,
le difficoltà di legittimazione e di responsabilità democratica delle
politiche alimentari che producono montagne di latte, sdoganano
OGM e non riescono ad arginare il land grabbing da parte di imprese multinazionali, anche a livello supra- e internazionale.
Olivier de Schutter ha cercato di approfondire ulteriormente
gli ideali della food democracy, individuando alcune caratteristiche e tendenze di sviluppo dei sistemi alimentari sviluppatesi30.
Innanzitutto, costruirebbe ponti comunicativi tra il mondo degli
agricoltori e dei consumatori attraverso sistemi locali autodeterminati e opposti alle logiche della globalizzazione. Le scelte dei
consumatori partecipano al disegno di sistemi alimentari («People seek to co-design food systems, to participate in shaping
them, to recapture them»). Attraverso le scelte delle politiche
alimentari a scuola e nei consigli locali si creerebbe una nuova
30. O. De Schutter, Food Democracy North and South (2015), reperibile
all’indirizzo: http://www.milanfoodlaw.org/wp-content/uploads/2015/03/1503-22-Food-Democracy-South-And-North1.pdf
Alimentare la democrazia
177
cittadinanza sociale, si premierebbe la resilienza al posto dell’efficienza e si compierebbe una sorta di rivoluzione verde “agro-ecologica”. Se i cittadini reclamano e riprendono il controllo sui
sistemi alimentari, «Food democracy is both an end in itself, a
way to deepen democracy beyond the ritual of elections, and a
means to ensure that the general interest shall not be sacrificed on
the altar of narrowly defined economic interests.»31.
Forse la realtà politica globale non può non rimanere indietro rispetto a questi ideali ottimisti di una democrazia verde da
costruirsi come democrazia partecipativa oltre che elettorale e
identitaria, non solo in loco ma su tutti i livelli di governo.
De Schutter aveva esaltato un “modello romano” realizzato
dalla riforma del “Committee on World Food Security” del 2009
che aveva riconosciuto il cibo come un nuovo bene pubblico
globale, creando un apposito “Civil Society Mechanism” come
strumento di monitoraggio. e apprendimento collettivo. La food
democracy sembrava una conseguenza del diritto allo sviluppo e
del progresso nella realizzazione di tre garanzie dei diritti umani
anche sul piano del diritto internazionale:
1. l’elaborazione di indicatori di standards sostanziali di tutela, da implementare anche agli obblighi extraterritoriali
degli Stati e alle responsabilità delle imprese,
2. la istituzionalizzazione di discorsi e dialoghi idonei a promuovere la realizzazione piena dei diritti,
3. una governance capace di elaborare concreti piani di azione32.
31. O. De Schutter, A Food Policy for Europe (26.9.2017), reperibile
all’indirizzo: https://www.greeneuropeanjournal.eu/a-food-policy-for-europe/
32. O. De Schutter, The Reform of the Committee on World Food Security: the Quest for Coerence in Global Governance, in: N. Lambek et al. (eds.),
Rethinking Food Systems, Dordrecht 2015, 219ss.
178
Jörg Luther
L’ideale della multilevel food democracy sembra implicare una democrazia partecipativa, terza o mista rispetto a quelle
rappresentative ed identitarie, e una democrazia potenzialmente anche “transnazionale”. Si può istituzionalizzare attraverso
strumenti di indirizzo e controllo di un “pubblico” di cittadini
con vocazioni anche cosmopolitiche, volonterosi di partecipare
attivamente al disegno dei sistemi alimentari in loco, statu vel
mundo, capaci di decifrare indices e linguaggi tecnici, con una
rappresentanza istituzionale di interessi mediati in consigli aperti
ad associazioni ed alleanze di piccoli produttori e consumatori.
Una rappresentanza che forse potrebbe farsi anche senza o contro
i partiti politici, superare le ineguaglianze e la frammentazione
delle istituzioni, snellire le istituzioni e prevenire la corruzione
dei politici e professori che fanno buffet a spese della collettività? Forse anche questo “ottimismo di scopo” della democrazia
alimentare rischia di fidarsi troppo della volontà della pancia e di
non riuscire a scardinare lo scetticismo della ragione.
Infatti, la “democrazia alimentare” rischia di illudere. Non solo
la democrazia da sola non nutre, anche il diritto al cibo non necessariamente alimenta la democrazia. Il diritto al cibo “adeguato”
lascia margini di discrezionalità alla democrazia, ma difficilmente
l’adeguatezza del cibo potrà essere decisa a maggioranza. La stessa democrazia può adeguarsi alla fame, ma l’esperienza romana
insegna che la fame non necessariamente alimenta la democrazia.
8. Conclusione. La sacralizzazione del cibo
L’alimentazione si adegua ai contesti economici e culturali non
solo attraverso la democrazia, ma anche attraverso processi lavorativi e culturali autonomi. Le diverse lavorazioni e le diverse
culture alimentari hanno peraltro da sempre radici religiose, tan-
Alimentare la democrazia
179
to profondi quanto ignorate. Anche per questa ragione, le particolari fonti religiose del diritto alimentare sono state fatte rientrare
sotto l’ombrello della libertà religiosa dell’art. 9 CEDU33. Non
solo per effetto delle religioni, anche per effetto dei diritti umani,
la sacralizzazione del cibo può dare luogo a controversie giuridiche. Questo è evidente quando i precetti religiosi rischiano
di collidere con un’altra sacralizzazione, quella dei diritti della
natura e del welfare degli animali. In una visione più globale
dei problemi del diritto al cibo in una umanità ancora destinata a
cresce demograficamente fino alla soglia dei 10 miliardi, anche
lo sviluppo delle tecnologie agroalimentari genera conflitti tra
nuove profezie apocalittiche che paventano la distruzione della
terra e dell’ambiente naturale e nuove magie di miracoli mefistofelici sul modello degli organismi geneticamente modificati34
che promettono la fine delle paure e i conflitti di distribuzione del
cibo stesso.
Nell’induismo, l’alimento è sin dall’epoca vedica simbolo
della materia organica prima dalla quale le creature nascono, si
mantengono e nella quale ritornano. L’uomo è ciò che mangia.
Il cibo condiviso si moltiplica, ma più si sale nella gerarchia sociale, più esige segregazione… e apre le cucine dei tempi Sikh.
La purezza del brahmano si basa sulla pratica vegetariana e l’astensione dall’alcool, mentre chi mangia carne sarà esso stesso
mangiato nell’aldilà. Il sacrificio è oblazione nel fuoco di sostanza alimentare e gli uomini mangiano solo i resti del pasto delle
divinità. Si può scegliere un percorso ascetico che può portare
fino alla sua morte, altrimenti occorre farsi cremare come se fosse una cottura per i dei35.
33. Corte EDU, sent. 17 marzo 2014, Vartic c. Romania, ric. 14150/08.
34. Cf. da ultimo P. Costanzo (a cura di), Organismi geneticamente modificati, Genova University Press, 2016.
35. A. Pelissero, Valenze simboliche del cibo nella prospettiva dell’hin-
180
Jörg Luther
Nell’ebraismo, il cibo è dono di Dio (Gen, 1, 29; Es 16, 1415) che esige una benedizione (berakah). La terra promessa d’Israele è «dove scorre latte e miele». Le norme di quello che è
kasher, cioè del cibo “adatto” nei libri del Levitico e del Deuteronomio impongono una dettagliata disciplina del mangiare e del
digiunare, vietando innanzitutto di mangiare la carne con la sua
vita, cioè con il suo sangue, e il grasso degli animali36. La ritualità della macellazione ebraica fu oggetto nel 1855 di un primo
processo penale a carico di un macellaio ebreo per crudeltà nei
confronti degli animali37.
Nel cristianesimo, il padrenostro invoca il dono divino del
pane quotidiano, ma vede nel Vangelo di Giovanni (Gv. 6) anche
Cristo come «pane vivo disceso dal cielo». Le regole alimentari
sono superate attraverso la loro critica: «Non capite che tutto ciò
che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché
non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?»
Si degradano in raccomandazioni sociali quando si offrono carni
sacrificate agli idoli da altre religioni (Cor. 8, 9-13). «Perciò è
bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la quale
il tuo fratello possa scandalizzarsi» (Rom. 14, 21). Si rafforza
invece il dovere sociale della condivisione del cibo nell’unico
miracolo cristiano – forse ripetuto per i pagani – della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 15, 32-39, Marco 8, 1-10). Si
sacralizza infine nell’eucarestia di pane e vino, nella tradizione
duismo, in: P. Macchia (a cura di), La persona e l’alimentazione, Roma 2014,
183ss.
36. Cf. C. Martone, Le norme alimentari ebraiche, P. Macchia (a cura di),
La persona e l’alimentazione, Roma 2014, 161ss.
37. Cit. da A. Ferrari, Cibo, diritto, religione. Problemi di libertà religiosa
in una società plurale, in: Stato, Chiese e pluralismo confessionale 15/2016;
www.statoechiese.it; A.G. Chizzoniti, La tutela della diversità: cibo, diritto,
religione, in: A.G. Chizzoniti e M. Tallacchini (a cura di), Cibo e religione:
diritto e diritti, Roma 2010, 19ss.
Alimentare la democrazia
181
ebraica del sedere sul modello dell’ultima cena (Mt 26, 26-28;
Mc. 14, 22-24; Lu 22, 19-20; 1 Corinzi 11, 23-25), sulla cui interpretazione si sono successivamente divisi i riti cattolici, bizantini
e protestanti38.
Per l’islam infine, vanno rifiutati sia i precetti ebraici, criticati
perché non di fonte divina, ma sostituiti da altri quale il divieto
di carne di maiale (Corano II, 173), di sangue (II, 174) e di vino
(V, 90s.). A questi divieti si aggiunge l’obbligo di digiuno del ramadan (II, 183ss) e l’obbligo della certificazione halal, anche se
il Corano riconosce che «Vi è lecito il cibo di coloro cui fu dato il
libro» (V, 5). Il principio generale del diritto alimentare islamico
è sempre la moderazione: «Mangiate e bevete ma senza eccessi,
ché Allah non ama chi eccede» (VII, 31)39. Se si prescinde dai
datteri mangiati alla fine del Ramadan, forme di cibo sacralizzate
si trovano tuttavia più nelle culture islamiche asiatiche.
Sotto il denominatore multiculturale comune del “diritto al
cibo” (e dell’acqua) coesistono non solo varie consuetudini pagane e precetti religiosi più o meno ortodossi, ma anche visioni
religiose e filosofie laiche, a partire da quelle del cibo biologico.
Il cibo può essere strumento di una felicità immateriale, ma anche di un semplice piacere materiale. Il diritto all’alimentazione
adeguata deve garantire non già il successo, ma la libertà intesa come possibilità effettiva della ricerca di felicità e di piacere.
Questa garanzia deve pertanto offrire paletti robusti contro gli
ostacoli che rendono questa ricerca impossibile e che causano
l’infelicità della fame o i disagi dell’alimentazione inadeguata. In
ultima analisi, il diritto all’alimentazione “adeguata” così inteso
38. Cf. S. Sicardi, Protestantesimo ed alimentazione: libertà del cristiano e
morigeratezza, in: P. Macchia (a cura di), La persona e l’alimentazione, Roma
2014,123ss.
39. R. Aluffi, L’alimentazione nell’Islam, in: P. Macchia (a cura di), La
persona e l’alimentazione, Roma, 2014, 173ss.
182
Jörg Luther
sembra concorrere a quella sacralizzazione della persona che è
intesa dal riconoscimento della sua pari dignità sociale e che ha
come conseguenza procedurale lo stesso riconoscimento della
democrazia e un minimo di ottimismo nel suo consolidamento.
Parte II
questioni internazionali europee
Suffering from Hunger in a World of Plenty
Hilal Elver
sommario:
1. Introduction; 2. Hunger and War; 3. Food as a Weapon of War,
Famine as a Crime against Humanity; 4. Humanitarian Emergency System
1. Introduction
Despite decades of economic growth and development, the world
continues to be haunted by the specter of mass starvation. Food
insecurity and malnutrition remain a universal challenge for rich
as well as poor countries. In conflict-torn regions, famine is the
most severe form of food insecurity. Last year, the United Nations
added South Sudan to northeast Nigeria, Somalia and Yemen as
countries with catastrophic famine conditions. This marked the
first time since World War II that four countries were simultaneously under such threat. The number rose to five in 2018 when
the Democratic Republic of Congo was added to the list, along
with Burmese Rohingya in Bangladesh refugee camps. According to the 2018 Global Report of Food Crises, current food crises
requiring urgent humanitarian action reached 124 million people
in 51 countries, an increase of 40 percent since 2015.
While the nature of food crises differ greatly, they all stem
from man-made causes, such as armed conflict, political turmoil,
or extreme weather events. Hunger and starvation kill approximately nine million people every year, more than malaria, tuberculosis and HIV/AIDS combined. More than 1.5 million children
185
186
Hilal Elver
are at imminent risk of death, and five to six million children die
every year from malnutrition and related diseases. Child malnutrition, even for a short period, has lifelong consequences.
Famine is only the tip of the hunger and malnutrition iceberg.
Even in the richest countries, food insecurity is pervasive. For
instance, in the United States, 49 million people are food insecure and in the United Kingdom, after recent austerity measures
were instituted, food insecure people increased to approximately
five million. Obesity, misconstrued as the opposite of hunger, recently has come to be recognized as a form of malnutrition and a
universal epidemic. Approximately 1.9 billion people are obese,
and this is increasing in all regions, including Africa; in the United States, 40 percent of adults are obese.
Ironically, while hunger and malnutrition increase globally,
per capita food availability has also increased significantly. The
world produces enough to feed ten billion people—more than 1.5
times the food to feed everyone on the planet. But people making
less than $2 a day—most of whom are resource-poor farmers
cultivating small, unviable plots of land and fisher folks living in
highly vulnerable coastal zones—can’t afford to buy this food.
In a world of plenty, hunger and poverty are intertwined. In
poor countries, 60 to 80 percent of family budgets go to food, as
opposed to ten to 15 percent in richer countries. The poor suffer
not only the lack of money but also higher food costs. Half of the
world’s extreme poor live in rural areas of Sub-Saharan Africa,
mostly employed in the agricultural sector, and over half are under 18 years of age. Further, over 75 percent of the world’s poorest depend on natural resources to sustain their livelihoods, and
most of them are subsistence farmers, making them especially
vulnerable to climate change-related natural disasters. They are
typically more exposed to natural hazards, lose a greater portion
of their wealth, and are unable to draw on support from fam-
Suffering From Hunger in a World of Plenty
187
ily, friends, financial systems or even their governments. As a
result, natural disasters may exacerbate gender-based violence,
including sexual violence and the risk from diseases. The direct
and indirect impacts of extreme weather events such as floods,
droughts, desertification, hurricanes, wildfires, tsunamis and
earthquakes contribute to hunger and malnutrition. Almost 80
percent of the weather-related disasters are associated with climate change. The frequency and intensity of such disasters has
almost doubled in the past decade, now averaging 335 events
annually.
2. Hunger and War
Conflict, a major cause of food emergency, often leads to famine.
Rarely, however, does any one factor cause famine; instead, famine results from the convergence of multiple circumstances and
reflects the influence of political decision-making. Contrary to
popular belief, it is not casualties resulting directly from combat
but rather hunger and disease that are the greatest cause of death
in conflict zones, and the proportion of undernourishment in areas of protracted crisis is almost three times as high as in other
poor countries that have hunger and malnutrition. Moreover, the
effects of climate change on limiting supplies and access to food
can lead to armed conflicts as people fight for scarce resources in
devastated environments.
A 2017 World Food Program (WFP) study found that countries with the highest level of food insecurity, often a consequence of armed conflict, had the highest outward migration of
refugees. Globally, displacement levels are at the highest since
record-keeping began. Currently 65.6 million people have been
forced from their homes, including 22.5 million refugees. Some
188
Hilal Elver
28,300 people are forced to flee every day because of conflict
or persecution. Those fleeing conflict are often forced to leave
behind their assets, and host communities may also experience
strains on their food supplies, especially if they are already facing economic instability. In situations of massive displacement,
humanitarian agencies are often unable to fully meet food demand, leaving displaced communities in dire circumstances.
Conflicts hamper the human right to food in various ways.
Food shortages can undermine resilience to absorb or recover from other shocks, such as extreme weather events or new
forms of political unrest, which may lead to a spiral of conflict
and severe hunger. Farmers in conflict zones may be unable to
work owing to restrictions on their movement, or they might be
forcibly recruited into armed forces or militias. Crops are often
plundered, serious damage is inflicted on farming and fishing infrastructure and, as a result, vital food supplies are destroyed.
Pastoralists and herders are particularly vulnerable to losses of
livelihood in conflicts, being either forced to abandon their livestock, or if bringing them, facing challenges of gaining access to
food and water for their animals.
Conflict also affects household incomes and purchasing power. Mass unemployment and the breakdown of social services
limit people’s ability to gain access to food, while currency devaluation, price inflation, market disruptions and reliance on
costly food imports owing to shortages may render basic food
items prohibitively expensive.
Extreme food insecurity forces people to turn to negative coping mechanisms, including rationing or skipping meals, begging,
early marriage, child labor and transactional sex in exchange for
food. Access to information on the availability and accessibility
of food assistance is also limited, putting vulnerable groups at
increased risk of exploitation and abuse.
Suffering From Hunger in a World of Plenty
189
3. Food as a Weapon of War, Famine as a Crime against Humanity
In many contexts, parties to armed conflict deliberately undermine the food security of civilians by intentionally targeting markets and ports or looting or besieging communities with the aim
of causing hardship and starvation. Although starvation and famine historically have been used as tactics of warfare, contemporary international law experts contend that it is criminal to cause
starvation. Nonetheless, parties to current conflicts in Afghanistan, the Central African Republic, Iraq, South Sudan, Syria and
Yemen deprive civilians’ access to food. Frequently, states and
their adversaries use food as a weapon against opposing groups
by destroying or poisoning crops, blocking relief supplies and
displacing people from their homes with the aim of depriving
them of their livelihoods. In other cases, vulnerable groups, such
as women, children, the elderly and sick are subject to neglect or
left to starve. Such actions not only constitute violations of the
right to food, but also may constitute war crimes, crimes against
humanity or genocide.
Famine becomes a crime under international law if there is
sufficient evidence of an intentional or reckless effort to block
certain groups from access to food. The crime of famine could
result from acts of omission, but also from indirect action such as
blocking humanitarian assistance, failing to uphold the relevant
laws of war or failing to provide international relief systems with
the necessary resources in the context of famine conditions. Yet
there has never been a criminal case against people accused of
using starvation as a war tactic.
190
Hilal Elver
4. Humanitarian Emergency System
In recent decades, the international humanitarian response system has been essential in lowering death tolls and reducing the
negative impacts of conflict and weather-related causes of food
insecurity. Emergency aid plays a critical role in filling gaps in
situations where states are unable or unwilling to meet the basic
needs of their populations. However, the humanitarian assistance
response often faces serious political, security and infrastructure-related impediments that obstruct effective delivery of food
assistance. Countries suffering from long-standing conflict tend
to be particularly fragile and have poor governance and weak
infrastructure, which hampers the effective coordination and
delivery of food assistance. Interference by political forces and
cumbersome negotiations can also slow down the humanitarian
response.
Humanitarian assistance may also be seriously hindered by
fighting. For example, in April 2017, the forced relocation of 100
aid workers in South Sudan due to active hostilities stopped the
delivery of assistance to 180,000 people. In northeast Nigeria,
attacks by Boko Haram and military operations against the group
continue to limit humanitarian access to an estimated 700,000
people who remain extremely hard to reach. Access is further
restricted by the presence of mines and improvised explosive devices. An alarming number of such incidents were reported in
2017, killing 28 aid workers.
As part of the larger panoply humanitarian institutions—UN
agencies, charitable organizations like Save the Children, and national and regional organizations—food aid intrinsically suffers
from more general shortcomings that plague the system. Rather
than being carefully coordinated and deliberately engineered, the
humanitarian structure evolved from fragmentary endeavors and
Suffering From Hunger in a World of Plenty
191
is composed of a multitude of autonomous entities with separate
governance and accountability structures. Humanitarian assistance also suffers a serious financial shortfall. Donor countries
promised to spend 0.7 percent of their gross national income on
aid. However, most of them have failed to reach their agreed obligations. The WFP estimates that food aid expenditures more
than doubled between 2009 and 2016, from $2.2 billion to $5.3
billion. Despite this increase, international food assistance still
falls about $3 billion short. Almost all foreign food aid goes to
short-term relief operations just to keep people alive. Therefore,
there are no available funds for long term agricultural investment
and rural development that could raise the quality of food security and build resilience in regions vulnerable to climate change
and conflict crises.
This disparate humanitarian system, which lacks leadership
and coordination, is susceptible to inefficiencies, poor communication, bureaucratic restrictions, corruption and costly duplications that prevent rapid, flexible and effective responses to
changing needs. Poorly designed, charity-based food aid can do
more harm than good, can have negative effects on small farmers in recipient countries by exerting downward pressures on
domestic food prices and can adversely affect trade, production
incentives and labor markets. In some cases, food aid practices
might even violate the right to food, if it were distributed unfairly
or did not prioritize the most vulnerable. Food aid should serve
the best interests of a recipient country’s food and agricultural
policy, provide long-term livelihood for people and uphold environmental best practices. Root causes of food insecurity need
to be understood and addressed with other global problems.
Averting or substantially reducing such outcomes would require
timely and appropriate investments in agriculture. This would require both typical humanitarian “emergency” responses as well
192
Hilal Elver
as “development” and capacity-building activities. Even at the
earliest stages of an emergency response, when the emphasis is
on providing urgent life-saving food assistance, it is crucial to
strengthen the resilience of affected communities. In order to
achieve these goals, the common understanding among donor
communities that humanitarian responses are currently treated as
voluntary acts should be replaced by negotiating a legal obligation in the form of a comprehensive, multilateral treaty of general
application.
Il diritto a un’alimentazione adeguata
nel Patto sui diritti economici, sociali
e culturali delle Nazioni Unite
Lorenza Mola
sommario:
1. Premessa: Il diritto al cibo come diritto umano convenzionalmente tutelato a livello universale – 2. Il contenuto normativo del diritto ad
un’alimentazione adeguata (articolo 11 del Patto sui diritti economici, sociali
e culturali) – 3. Gli obblighi e le misure di attuazione del diritto ad un’alimentazione adeguata nel sistema del Patto sui diritti economici, sociali e culturali
– 4. Osservazioni finali: La dimensione locale nell’attuazione del diritto al
cibo internazionalmente tutelato
1. Premessa: Il diritto al cibo come diritto umano convenzionalmente tutelato a livello universale
Nel quadro normativo internazionale il cibo trova considerazione
da molteplici prospettive e nell’ambito di una pluralità di settori,
dal commercio internazionale al diritto allo sviluppo, ai diritti
umani1. Quest’ultimo approccio contempla il cibo come (componente di) un diritto inerente all’essere umano, che nel diritto
positivo non ha il proprio fondamento, bensì è oggetto di ricono1. Per una recente ricognizione anche bibliografica sul tema, v., oltre alle
indicazioni nelle note che seguono, L. Chiussi, Food for thought on the right to
food, in La Comunità internazionale, 2015, pp. 355–387. Sullo sviluppo parallelo di norme internazionali aventi ad oggetto l’acqua, cfr. per tutti A. Tanzi,
Reducing the Gap Between International Water Law and Human Rights Law:
The UNECE Protocol on Water and Health, in International Community Law
Review, 2010, pp. 267–285.
193
194
Lorenza Mola
scimento e tutela, tramite corrispondenti obblighi2. Tale approccio si può dire oggi affermato nel diritto internazionale3, anche se
per taluni aspetti non risulta ancora pienamente compiuto.
In primo luogo, il riconoscimento dell’alimentazione adeguata
quale bene giuridico da tutelare nell’ottica dei diritti umani è fenomeno relativamente recente nel diritto internazionale, ove rimane
aperta la questione dell’esistenza stessa di un autonomo diritto umano al cibo. Le fonti normative internazionali prospettano soluzioni diverse4. In generale, l’alimentazione adeguata viene in rilievo
nell’ambito di altri diritti, quali il diritto alla vita, il diritto alla salute,
il diritto ad un livello di vita adeguato. In alcuni trattati sui diritti
umani, il testo non ne fa menzione ed è ricostruito dalla giurisprudenza: in tale prospettiva, possono essere citati il Patto internazio2. F. Pocar, Generazioni di diritti umani e diritti delle generazioni future,
in C. Ricci (a cura di), La tutela multilivello del diritto alla sicurezza e qualità
degli alimenti, Milano, 2012, pp. 3–9, p. 6.
3. Si veda: Centre for Human Rights, Right to Adequate Food as a Human
Right, United Nations, New York, 1989; A. Eide, Origin and Historical Evolution of the Right to Food, in Derecho a la alimentación y soberanía alimentaria,
Cordoba, 2008, 3 ss.; M. Gestri, Il diritto fondamentale al cibo: quale il contributo della Carta di Milano?, in M. Gestri (a cura di), Cibo e diritto: dalla
Dichiarazione Universale alla Carta di Milano, Mucchi, 2015, pp. 7–32.
4. W. Barth Eide, U. Kracht, The Right to Adequate Food in Human Rights Instruments: Legal Norms and Interpretations, in W. BARTH EIDE (ed.),
Food and human rights in development, vol. 1: legal and institutional dimensions and selected topics, Intersentia, Antwerpen, 2005, pp. 99–118. Per una
raccolta delle disposizioni degli atti che contemplano implicitamente o esplicitamente il cibo, nell’ottica sia del diritto internazionale dei diritti umani sia del
diritto internazionale umanitario, v. Nazioni Unite, Ufficio dell’Alto Commissario dei diritti umani, “Your Rights – Food – International standards” (http://
www.ohchr.org/EN/Issues/Food/Pages/Standards.aspx). Si tratta per lo più di
diritti cd. di “seconda generazione”, ovvero quei diritti economici, sociali e
culturali il cui riconoscimento compare nelle fonti giuridiche successivamente
alla enunciazione dei diritti civili e politici: considerazioni critiche nei confronti
della classificazione dei diritti umani in “generazioni” sono state ampiamente
elaborate in dottrina (cfr., ad es., F. Pocar, op. cit.).
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
195
nale sui diritti civili e politici5 e strumenti pattizi regionali, tra cui la
Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali
(CEDU)6 e la Carta africana dei diritti degli uomini e dei popoli7.
Altri strumenti internazionali contemplano esplicitamente il cibo
come componente di diritti più ampi: in tal senso, si evidenziano la
Dichiarazione universale dei diritti umani8, il Patto sui diritti economici, sociali e culturali9 ed alcuni trattati universali sui diritti umani
5. V. l’articolo 6 sul diritto alla vita.
6. Con riferimento al diritto alla vita ex art. 2 CEDU, v. Corte europea dei diritti umani, Affaire Centre de Ressources Juridiques au nom de Valentin Câmpeanu c. Roumanie, ricorso n. 47848/98, sentenza del 17 luglio 2014, parr. 143–144;
cfr. Consiglio d’Europa/Corte europea dei diritti umani, Thematic report: Health–related issues in the case law of the European Court of Human Rights, 2015.
Nell’ambito del Consiglio d’Europa, la Carta sociale europea del 1961 e la Carta
sociale europea riveduta del 1996 non menzionano espressamente un diritto al
cibo, ma riconoscono diritti nel cui contenuto normativo è stato ricondotto il cibo
adeguato, quali il diritto alla salute e il diritto all’assistenza sociale e medica ma
anche diritti economici dei lavoratori (cfr. Consiglio d’Europa, Digest of the case
law of the European Committee of Social Rights, Strasburgo, 2008, reperibile su
www.coe.int). Si segnala il rilievo attribuito al diritto al cibo adeguato nella Risoluzione n. 1957/2013, Food Security – a parmanent challenge for us all, dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, sulla quale si v. M. Bottiglieri, Le
autonomie locali sono tenute ad attuare il diritto al cibo adeguato dei cittadini
europei? Commento a risoluzione assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa n. 1957/2013 adottata il 3 ottobre 2013, in OPAL n. 4–5/2014, e C. Drigo,
Il diritto al cibo adeguato: fra strumenti normativi vaghi e difficile giustiziabilità,
quale ruolo per gli enti territoriali? «Federalismi.it», 2016, 3, pp. 1–24.
7. Articolo 16 sul diritto alla salute, nonché articolo 22 sul diritto dei popoli
allo sviluppo.
8. Ai sensi dell’Articolo 25, «[o]gni individuo ha diritto ad un tenore di vita
sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con
particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di
mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà. La maternità
e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel
matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale».
9. Firmato nel 1966, entrato in vigore nel 1976. Si veda una traduzione italiana in http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Patto-in-
196
Lorenza Mola
di determinate categorie di persone10. Infine, si segnala il Protocollo di San Salvador, che nell’ambito regionale americano riconosce
formalmente un autonomo “right to food”11. Inoltre, il cibo risulta
componente fondamentale dei diritti da riconoscere alle comunità
indigene con riferimento allo sfruttamento delle terre ancestrali e
all’espressione delle pratiche e delle identità culturali12.
In secondo luogo, nell’approccio del diritto internazionale dei
diritti umani, il cibo risulta ricondotto prevalentemente nell’alveo dei diritti economici, sociali e culturali, cui corrispondono
obblighi in capo gli Stati non già di realizzarli immediatamente,
ma di compiere ogni sforzo per raggiungere, progressivamente,
il loro pieno godimento. È nota altresì la problematica ricostruzione di elementi di giustiziabilità di tali diritti13.
ternazionale-sui-diritti-economici-sociali-e-culturali-1966/12.
10. Cfr. Convenzione sui diritti del fanciullo, articolo 24 sul diritto alla salute – mentre il cibo non è esplicitamente contemplato all’articolo 27 sul diritto
ad un livello di vita adeguato; Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, articolo 25 sul diritto alla salute ed articolo 28 sul diritto ad un livello di
vita adeguato ed alla protezione sociale; Convenzione sull’eliminazione di ogni
forma di discriminazione nei confronti delle donne, articolo 12 su ed articolo
14 sui diritti delle donne nelle zone rurali (diritto ad un livello di vita adeguato).
11. Additional Protocol to the American Convention on Human Rights in the
Area of Economic, Social and Cultural Rights, 16 November 1999, A-52, art.
12: «1. Everyone has the right to adequate nutrition which guarantees the possibility of enjoying the highest level of physical, emotional and intellectual development. 2. In order to promote the exercise of this right and eradicate malnutrition, the States Parties undertake to improve methods of production, supply
and distribution of food, and to this end, agree to promote greater international
cooperation in support of the relevant national policies».
12. Il tema è amplissimo, con riferimento tanto alle fonti giuridiche quanto
alla dottrina, e può essere qui solo accennato: ad es., v. Dichiarazione delle
Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, adottata dall’Assemblea generale
delle Nazioni Unite il 23 settembre 2007, UN Doc. A/RES/61/295.
13. V., per tutti, C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo,
Giappichelli, Torino, 2013; R. Pisillo Mazzeschi, Sulla natura degli obblighi internazionali di tutela dei diritti economici, sociali e culturali, in G. Venturini, S. Bariatti (a cura di), Liber Fausto Pocar, vol. 1, 2009, Giuffrè, Milano, pp. 715–733.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
197
In terzo luogo, peraltro, al di là del diritto pattizio, l’esistenza di
obblighi internazionali sulla tutela di un ‘diritto al cibo’, dalla cui
violazione sorga la responsabilità internazionale in capo agli Stati, è
ancora oggi oggetto di contestazione nella Comunità internazionale. Il governo statunitense ha recentemente ribadito, nell’ambito del
Consiglio dei diritti umani14, la posizione espressa dagli Stati Uniti
nel 1996 in occasione dell’adozione della Dichiarazione di Roma
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO)15: nel diritto internazionale, il cibo adeguato o la
libertà dalla fame si porrebbero come obiettivi o aspirazioni per gli
Stati che non si siano vincolati a convenzioni internazionali.
Nei confronti di un tema così ampio quale la tutela internazionalmente garantita ad un diritto umano al cibo, il presente lavoro intende svolgere alcune osservazioni circoscrivendo l’analisi all’ambito normativo del Patto sui diritti economici, sociali e
culturali, e indagando il rilievo che venga ad assumere il livello
sub–statale, locale, per l’azione di governo volta ad attuare gli
obblighi derivanti dal Patto. Da un lato, come si vedrà, questo
trattato istituisce una tutela del diritto al cibo a livello quasi–universale e dal contenuto articolato. Dall’altro lato, in prima battuta,
è evidente come, ove esistenti in base all’assetto costituzionale di
uno Stato, anche le comunità territoriali di governo regolamentino, se non quando gestiscano in maniera diretta, le modalità
di acceso al cibo da parte degli individui, fermo restando che la
responsabilità internazionale è imputata allo Stato unitariamente
considerato pure nel caso di violazioni di obblighi internazionali
compiuti da entità sub–statali di governo.
14. Explanation of Vote by the United States of America, A/HRC/34/L.21
(The Right to Food), Human Rights Council 34th session, Ginevra, 23 marzo
2017.
15. FAO, Report of the World Food Summit, 13–17 novembre 1996, Allegato II.
198
Lorenza Mola
Nei paragrafi che seguono verranno tratteggiati il contenuto
normativo del diritto al cibo e la natura degli obblighi e delle
misure di attuazione richiesti agli Stati ai sensi del Patto, al fine
di individuare se da essi risulti un rilievo specifico dell’azione di
governo ai livelli sub–statali, ovvero se e quali politiche normative e regolamentari, sussunte sotto la nozione e gli obblighi di
tutela del diritto umano ad un’alimentazione adeguata, “tocchino” il livello locale di governo. Infine, alcune osservazioni più
generali proveranno ad inquadrare quanto esposto, verificando
la possibilità di prospettare l’allocazione di azione di governo a
livello locale come un aspetto dell’obbligo di tutela del diritto al
cibo nel diritto internazionale.
2. Il contenuto normativo del diritto ad un’alimentazione
adeguata (articolo 11 del Patto sui diritti economici, sociali
e culturali)
Come evidenziato dal Comitato sui diritti economici, sociali e
culturali (CDESC) — il gruppo di esperti indipendenti preposto
al monitoraggio dell’attuazione degli obblighi degli Stati parti
—, il Patto è la fonte internazionale che tratta nel modo più completo del diritto al cibo16. L’articolo 11 traduce aspirazioni e preoccupazioni esistenziali nella forma giuridica di diritti umani (e
corrispondenti obblighi)17, enunciando il «diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la sua famiglia, che
16. Comitato sui diritti economici, sociali e culturali (CDESC), General
Comment (GC) No. 3 (The nature of States parties’ obligations (art. 2, para. 1,
of the Covenant)), in UN Doc. E/1991/23.
17. B. Saul, D. Kinley, J. Mowbray, The International Covenant on economic, social and culturali rights, Commentary, cases and materials, Oxford
University Press, Oxford, 2014, pp. 861–976, p. 863.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
199
includa alimentazione, vestiario, ed alloggio adeguati, nonché al
miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita» (par.
1) e il «diritto fondamentale di ogni individuo alla libertà dalla
fame» (par. 2). Anche dal punto di vista dell’ambito di applicazione soggettiva, il Patto vanta una partecipazione molto estesa,
pur con notevoli assenze tra cui gli Stati Uniti18.
L’analisi del diritto tutelato nell’ambito del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali non può prescindere
dai Commenti generali adottati dal CDESC. Vengono in rilievo
in particolare il Commento generale (CG) n. 12 espressamente
dedicato al diritto ad un’alimentazione adeguata19 ed il Commento generale n. 3 sulla natura degli obblighi derivanti dal Patto20.
Se per tali documenti va osservato che costituiscono ausilî interpretativi con riferimento alle disposizioni del Patto, si può altresì
sostenere che documenti prodotti in altri ambiti istituzionali e
normativi vengono in rilievo per collocare l’analisi del diritto al
cibo ai sensi del Patto nelle più ampie tendenze in corso di affermazione nella Comunità internazionale21.
18. Il Patto è stato ratificato da 167 Stati, mentre 4 Stati, tra cui Cuba e gli
Stati Uniti, l’hanno firmato ma non ratificato ed altri 27 Stati, tra cui Buthan,
Malesia, Singapore, alcuni Paesi della Penisola arabica ed alcuni Paesi dell’Africa non hanno manifestato alcun comportamento volto all’adesione: cfr. http://
indicators.ohchr.org/. Il Patto è entrato in vigore per l’Italia nel 1978 (legge n.
881 del 25 ottobre 1977 (Gazzetta Ufficiale n. 333 S.O. del 7 dicembre 1977)).
19. CDESC, General Comment No. 12 (The Right to Adequate Food), UN
Doc. E/C.12/1999/5, 12 maggio 1999.
20. Id., GC No. 3, cit. Il Comitato ha inoltre adottato uno Statement sulla
crisi alimentare mondiale nel maggio 2008
21. Peraltro, si noti come la redazione del CG n. 12, cit., ha visto la stretta
collaborazione tra il Comitato e la FAO (F. Seatzu, The UN Committee on Economic, Social and Cultural Rights and the Right to Adequate Food, in Anuario
Espanol de derecho internacional, vol. 27, 2011, pp. 573–590, p. 576), ed è stata supportata dal lavoro svolto da alcune organizzazioni non governative, che
hanno redatto l’International Code of Conduct on the Human Right to Adequate
Food (FIAN, WANAHR, Jacques Maritain, 1997).
200
Lorenza Mola
Per quanto riguarda il diritto contemplato al paragrafo 1 dell’articolo 11 (“diritto ad un’alimentazione adeguata” quale elemento del
«diritto ad un livello di vita adeguato»), si evidenziano innanzitutto
due implicazioni della formulazione lì adottata. In primo luogo, la
nozione di adeguatezza importa nel contenuto del diritto gli aspetti
qualitativi del nutrimento, precludendo quindi la possibilità di intendere il diritto al cibo in maniera restrittiva, unicamente in relazione
assunzione da parte degli individui di un “pacchetto minimo” di sostanze nutritive22. In secondo luogo, ed allo stesso tempo, il concetto
di adeguatezza prospetta per il diritto al cibo una valenza relativa,
dal momento che il significato preciso di un’alimentazione “adeguata” risulterà dalle condizioni sociali, economiche, culturali, climatiche, ecologiche, ed altre, “prevalenti”23. Inoltre, nell’enunciare il
“core content” di tale diritto, il Comitato ha sostenuto che il cibo è
adeguato se accettabile “within a given culture”24.
Ciò su cui qui interessa soffermarsi è l’individuazione della
sfera, del livello a cui vanno considerate le “prevalenti condizioni” e la “determinata cultura” da cui dipende il carattere di
adeguatezza dell’alimentazione. In particolare, nella prospettiva
di uno strumento pattizio a respiro universale le condizioni da
far valere per realizzare il diritto ad un’alimentazione adeguata
possono essere individuate da Paese a Paese; se rilevassero anche le differenze all’interno di ciascun Paese vincolato al Patto,
la dimensione locale sarebbe suscettibile di valorizzazione. Tali
aspetti non risultano oggetto di considerazioni esplicite da parte
del Comitato. Con riferimento alla variabile culturale, il Comitato precisa invece che occorre tener conto “as far as possibile”
dei valori, non legati agli aspetti nutritivi, percepiti in relazione
22. CDESC, GC n. 12, cit., par. 6.
23. Ivi, par. 7.
24. Ivi, par. 8.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
201
al cibo ed al consumo di cibo25: questo aspetto di “accettabilità
culturale” ovviamente prescinde dalla dimensione locale, anche
se può trovare espressione su base locale.
Il rilievo della dimensione locale può emergere in altri requisiti dell’alimentazione adeguata oggetto di tutela nel Patto: la sicurezza, intesa sia nel senso di “security” (disponibilità di cibo
in base ai “dietary needs”26 degli individui e “sustainable”27) sia
in quello di “safety” (“free from adverse substances”28); l’accessibilità, fisica (specialmente da parte delle persone fisicamente
vulnerabili, e di gruppi sociali svantaggiati, inclusi i popoli indigeni) ed economica (con particolare riguardo ai gruppi sociali
vulnerabili)29; la disponibilità, per mezzo di produzione diretta
o distribuzione commerciale30. A tal ultimo riguardo, il recente
studio del Gruppo di lavoro sul diritto al cibo (comitato consultivo del Consiglio dei diritti umani) ha evidenziato come settecento milioni di abitanti di zone rurali non godano del diritto al
cibo, individuandone le cause e proponendo l’adozione di una
Dichiarazione dei diritti degli agricoltori. L’articolo 3 del progetto di Dichiarazione («Right to life and to an adequate standard
of living») enuncia, al par. 4, che «[p]easants have the right to
adequate, healthy, nutritious, and affordable food, and to maintain their traditional food cultures»: si nota come il diritto degli
agricoltori al cibo risulta qui espresso in termini che riprendono
la disposizione del Patto ed il CG n. 12, consolidando la definizione che ne emana ma senza, invero, nulla aggiungere31.
25. Ivi, par. 11.
26. Ivi, para. 9.
27. Ivi, par. 7.
28. Ivi, par. 10.
29. Ivi, par. 13.
30. Ivi, par. 12.
31. Consiglio dei diritti umani, Final Study of the Human Rights Council
Advisory Committee on the Advancement of the Rights of Peasants and Other
202
Lorenza Mola
Al contrario, va rispettato indipendentemente dalla variabile
culturale, in quanto standard minimo universale, il diritto “fondamentale” alla libertà dalla fame, enunciato al secondo paragrafo
dell’articolo 11 del Patto32.
People Working in Rural Areas, UN Doc. A/HRC/19/75 del 24 febbraio 2012,
che in annesso riproduce il testo del progetto di Dichiarazione in parola. Per
un’analisi critica della Dichiarazione, S. Vezzani, Il progetto di Dichiarazione
sui diritti degli agricoltori: nuovi diritti germogliano?, in Diritti umani e diritto
internazionale, 2013, pp. 211–216; l’A. osserva in senso critico che il progetto
di Dichiarazione si spinge troppo in là nella tendenza a mettere in discussione
l’universalità dei diritti valorizzando le specifiche condizioni sociali della persona laddove afferma in capo ad un gruppo sociale specifico diritti che il diritto
internazionale riconosce a ciascun individuo.
32. La Comunità internazionale, com’è noto, ha posto forte enfasi sulla
lotta alla denutrizione e malnutrizione, da ultimo individuando l’obiettivo
dell’eradicazione della fame nel secondo, e più ampio, obiettivo dei Sustainable
Development Goals («End hunger, achieve food security and improved nutrition and promote sustainable agriculture») (Assemblea generale delle Nazioni
Unite, Transforming our world: The 2030 Agenda for sustainable development,
Risoluzione del 25 settembre 2015, Un Doc. A/RES/70/1). Si nota che il primo
obiettivo dei Millenium Development Goal sulla lotta alla povertà contemplava
non l’azzeramento ma il dimezzamento in percentuale delle persone che soffrivano la fame, entro il 2015 (Assemblea generale delle Nazioni Unite, United
Nations Millenium Declaration, Risoluzione dell’8 settembre 2000, Un Doc.
A/RES/55/2). Per un’analisi critica dell’azione adottata a livello internazionale
per lottare contro la fame, si veda L. Gradoni, La spettacolarizzazione della
lotta alla fame ovvero l’impotenza delle organizzazioni internazionali di fronte
alla sfida della sicurezza alimentare mondiale, in M. Vellano (a cura di), Il futuro delle organizzazioni internazionali: prospettive giuridiche, XIX Convegno
SIDI, Courmayeur, 26-28 giugno 2014, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015, pp.
237–279.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
203
3. Gli obblighi e le misure di attuazione del diritto ad un’alimentazione adeguata nel sistema del Patto sui diritti economici, sociali e culturali
L’articolo 11 del Patto, a differenza di altri articoli su singoli diritti del medesimo trattato, da una parte ribadisce quanto
già enunciato in maniera trasversale all’articolo 2, paragrafo 1
sull’obbligo di adottare misure idonee ad attuare i diritti sanciti e
sull’importanza della cooperazione internazionale, dall’altra parte espone in maniera piuttosto dettagliata i mezzi con cui gli Stati
devono provvedere a garantire il diritto alla libertà dalla fame, gli
ambiti e i fini delle misure da dispiegare. È dunque dalla lettura
congiunta dello stesso articolo 11 e dell’articolo 2, paragrafo 1
del Patto che il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali
enuclea la natura degli obblighi gravanti sulle Parti e le misure di
attuazione per quanto concerne il diritto al cibo.
Gli Stati sono gravati in particolare dell’obbligo di rispettare
l’accesso esistente a cibo adeguato evitando di adottare misure
che precludano tale accesso; dell’obbligo di proteggere l’accesso
al cibo per mezzo di misure che impediscano ad imprese o individui di privare altri individui dell’accesso al cibo; di agevolare
l’accesso al cibo, tramite l’adozione di azioni che sostengano
l’accesso e l’utilizzo di risorse da parte degli individui per assicurarsi il cibo; nonché di provvedere direttamente a fornire cibo
agli individui che non siano in grado di procurarselo per ragioni
che sfuggono al loro controllo, come le vittime di disastri33.
In capo agli Stati parti sono configurati obblighi di realizzazione progressiva dei diritti ivi riconosciuti, incluso il diritto ad
un’alimentazione adeguata, ovvero obblighi di compiere passi
deliberati, concreti e finalizzati alla piena realizzazione dei diritti
33. CDESC, GC n. 12, cit., par. 15.
204
Lorenza Mola
attraverso tutte le misure appropriate34. In tale ottica, regressioni
nella tutela di un diritto, come il diritto al cibo, non sono permesse se adottate deliberatamente e se non sono giustificate con
riguardo all’insieme dei diritti riconosciuti nel Patto, se lo Stato
non ha impiegato il massimo delle risorse disponibili, o se scarse
risorse disponibili non sono state indirizzate a favore dei gruppi
e degli individui vulnerabili35. Il Comitato individua il contenuto
minimo dell’obbligo di realizzare il diritto al cibo nella garanzia, per ogni individuo sottoposto alla giurisdizione di uno Stato,
dell’accesso al cibo minimo essenziale sufficiente, adeguato dal
punto di vista nutritivo e sicuro affinché sia assicurata la libertà
dalla fame36. Si tratta di un nucleo di tutela incomprimibile, il cui
mancato raggiungimento comporta una violazione dell’articolo
11. Lo Stato deve altrimenti sostenere la propria incapacità di
ottemperare agli obblighi del Patto per mancanza di risorse dimostrando di aver compiuto ogni sforzo per utilizzare le scarse
risorse disponibili in via prioritaria per soddisfare tale obbligo
minimo, inclusa la ricerca di supporto a livello internazionale37.
Infine, il Patto impone agli Stati di garantire che i diritti ivi riconosciuti siano esercitati senza discriminazione alcuna: il divieto
di discriminazione si configura come un obbligo di risultato, a
realizzazione immediata38.
Il sistema di protezione del Patto richiede che gli Stati adempiano a tali obblighi con «tutte le misure appropriate», sia attraverso la cooperazione internazionale sia tramite misure interne
(art. 2, par. 1 e art. 11, parr. 1 e 2). Relativamente all’attuazione
domestica, se da un lato l’art. 2, par. 1 del Patto menziona in
34. Id., GC n. 3, cit., par. 2.
35. Ivi, par. 10 e Id., GC n. 12, cit., par. 28.
36. Id., GC n. 12, cit., par. 14.
37. Id., CG n. 3, cit., par. 11 e Id., GC n. 12, cit., par. 17.
38. Id., GC n. 3, cit., par. 1.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
205
particolare l’adozione di misure legislative, il Comitato sottolinea l’importanza, ai fini della realizzazione del diritto al cibo,
dell’adozione di una legge quadro che fissi gli obiettivi da raggiungere e la relativa scansione temporale, i mezzi generali con
cui perseguirli, le istituzioni responsabili, nonché meccanismi di
monitoraggio e, se possibile, procedure di ricorso39. Il Comitato
ha anche avuto modo di precisare, nel Commento generale n. 3,
che devono essere considerati anche rimedi giurisdizionali, nonché provvedimenti amministrativi, fiscali, educativi e sociali40.
Inoltre, gli Stati devono monitorare il grado di realizzazione, o
piuttosto di non realizzazione, dei diritti riconosciuti nel Patto e
configurare strategie e programmi volti a promuovere tali diritti41.
Anche nei confronti dell’attuazione del diritto al cibo, il Comitato riconosce un margine di discrezionalità agli Stati nel determinare quali siano approcci e mezzi appropriati, senza peraltro
che ciò escluda la valutazione del Comitato sull’appropriatezza
delle misure adottate42. In ogni caso, gli Stati dovranno adottare
«a national strategy to ensure food and nutrition security for all,
based on human rights principles that define the objectives, and
the formulation of policies and corresponding benchmarks»43.
Il livello locale dell’azione di governo è esplicitamente considerato dal Comitato allorquando questi descrive le caratteristiche
della strategia nazionale. Preliminarmente, il Comitato sostiene
che la strategia deve essere basata sull’identificazione di misure
39. Id., GC n. 12, cit., par. 29.
40. Id., GC n. 3, cit., parr. 4–7.
41. Id., ivi, par. 11 e GC n. 12, par. 31. Per una ricognizione ampia delle
misure adottate dai Paesi latino–americani e caraibici, si v. O. De Schutter, The
Domestic Implementation of the Right to Food in Latin America and the Carribean, in H. Cantù Rivera (ed.), The Special procedures of the Human Rights
Council, Intersentia, Cambridge-Antwerp-Portland, 2015, pp. 25–51.
42. CDESC, GC n. 3, cit., par. 4 e Id., GC n. 12, cit., par. 21.
43. Id., GC n. 12, par. 21.
206
Lorenza Mola
e attività rilevanti alla situazione ed al contesto, così come risulta dal contenuto normativo del diritto ad un’alimentazione adeguata e dagli obblighi di protezione incombenti sugli Stati. Tale
operazione, secondo il Comitato, faciliterà il coordinamento tra
le autorità di governo ai diversi livelli, oltre ad assicurare che le
politiche e le decisioni amministrative di ciascuna autorità siano
conformi all’articolo 11 del Patto44. Dall’altro lato, così indicato
nel Commento generale in esame, nel formulare e nell’applicare
la strategia nazionale gli Stati devono seguire i principi, relativi
ai diritti umani, di accountability, trasparenza, partecipazione,
decentralizzazione, empowerment e indipendenza del potere giudiziario45.
Come sottolineato in dottrina, l’attuazione del diritto umano
al cibo viene ad inquadrarsi nell’ambito della politica di sicurezza alimentare perseguita dagli Stati, qualificandone contenuti e
procedure46. In proposito, a livello internazionale sono state elaborate le Voluntary Guidelines to support the progressive realization of the right to adequate food in the context of national food
security (“Voluntary Guidelines”), oggetto di adozione da parte
del Consiglio della FAO nel 200447. Il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali fa espresso riferimento alle Voluntary
Guidelines, nei termini della loro adozione e prevista adozione,
tra le informazioni che gli Stati devono includere nei rapporti
statali sottoposti al monitoraggio del Comitato stesso (v. infra)48.
44. Ivi, par. 22.
45. Ivi, par. 23.
46. F. Seatzu, op. cit., pp. 579–580.
47. Si v. il punto 1 della Guideline 3 “Strategies”: «States … should consider adopting a national human-rights based strategy for the progressive realization of the right to adequate food in the context of national food security as part
of an overarching national development strategy, including poverty reduction
strategies, where they exist».
48. Rapporto del Segretario generale delle Nazioni Unite, Compilation of
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
207
Dal testo delle Voluntary Guidelines emerge invero minore attenzione, rispetto a quanto riscontrato nel Commento Generale
n. 12, nei confronti dei livelli sub–statali: oltre al coordinamento
dei ministeri, delle agenzie e degli uffici governativi coinvolti
nella realizzazione del diritto al cibo nel contesto della sicurezza
alimentare nazionale, viene rivolto un invito generico al coinvolgimento delle “relevant communities” nella progettazione e
nell’esecuzione delle attività negli ambiti interessati49.
In ultima battuta, è opportuno accennare ad una componente
essenziale della tutela del diritto al cibo quale diritto umano, ovvero la disponibilità di un rimedio aperto all’individuo. Questo
involge invero le più ampie e dibattute tematiche dell’effettività
del sistema pattizio di tutela dei diritti umani e della giustiziabilità dei diritti economici, sociali e culturali. Nel sistema del
Patto, accanto al meccanismo dell’esame periodico dei rapporti
statali previsto dal trattato stesso del 1966, nel 2013 è entrato
in vigore il Protocollo opzionale che consente agli individui di
rivolgere un reclamo al Comitato contro uno Stato che abbia ratificato il Protocollo, previo esaurimento delle vie di ricorso interne. Sul versante interno, il Comitato accentua l’importanza di
provvedere, da parte degli Stati, a rimedi giurisdizionali contro
le violazioni dei diritti economici, sociali e culturali. Secondo il
Comitato la previsione di tali diritti a livello costituzionale ovvero l’incorporazione del Patto nell’ordinamento giuridico interno
consentirebbe al giudice interno di accertare le violazioni degli
obblighi minimi di tutela dei diritti (in questo caso, del diritto al
cibo), riferendosi al Patto in via interpretativa o come parame-
Guidelines on the form and content of reports to be submitted by States parties
to the international human rights treaties, HRI/GEN/2/Rev.6, 3 giugno 2009,
par. 47.
49. FAO Voluntary Guidelines, cit., punto 5.2.
208
Lorenza Mola
tro di legittimità dell’azione statale50. Tuttavia occorre notare che
nell’elenco (pur elaborato dal Comitato in termini non esaustivi) delle disposizioni del Patto aventi natura self–executing, suscettibili di applicazione immediata, non figurano le disposizioni
dell’articolo 1151.
4. O
sservazioni finali: La dimensione locale nell’attuazione
del diritto al cibo internazionalmente tutelato
La breve ricostruzione, nei paragrafi precedenti, del contenuto
del diritto al cibo e degli obblighi di attuazione previsti nell’ambito del Patto sui diritti economici, sociali e culturali permette di
svolgere alcune considerazioni più generali sulla rilevanza della
dimensione locale dell’azione di governo in ottemperanza agli
obblighi discendenti dal Patto.
In primo luogo, in effetti, l’azione dei livelli locali insiste in
special modo su alcuni aspetti del contenuto normativo del diritto ad un’alimentazione adeguata, quale delineato in riferimento
all’articolo 11 del Patto sui diritti economici, sociali e culturali. È
50. CDESC, GC n. 3, cit., par. 6 e GC n. 12, par. 33. La dottrina dà conto
di un crescente numero di costituzioni nazionali ove è riconosciuto il diritto
al cibo (cfr. Ricci, op. cit., p. 51; O. De Schutter, The Domestic implementation…, cit., p. 29 ss.) e di applicazione in sede giurisprudenziale nazionale degli
obblighi di tutela del diritto al cibo internazionalmente assunti (cfr. L. Chiussi,
op. cit., p. 376 ss.; Gestri, op. cit., p. 27 ss).
51. CDESC, cit., GC n. 12, par. 5. Sulla nozione di norma self–executing
nel diritto internazionale, cfr., tra molti, L. Condorelli, Il giudice italiano ed i
trattati internazionali. Gli accordi self–executing e non self–executing nell’ottica della giurisprudenza, Padova, 1974; G. Cataldi, La natura self–executing
delle norme della CEDU e l’applicazione delle sentenze della Corte europea
negli ordinamenti nazionali, in A. Caligiuri, G. Cataldi, N. Napoletano (cura),
La tutela dei diritti umani in Europa. Tra sovranità statale e ordinamenti sovranazionali, CEDAM, Padova, 2010, pp. 565–593.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
209
noto il ruolo degli enti locali nell’attuazione dell’obbligo di proteggere e agevolare l’adeguatezza del cibo sotto il profilo quantitativo e qualitativo, per particolari gruppi sociali, ad esempio
nelle scuole. La regolamentazione dei mercati locali costituisce
un altro ambito in cui gli enti locali sopportano la responsabilità
di assicurare la sicurezza alimentare (‘food safety’) e l’accessibilità al cibo. Anche la gestione dei richiedenti asilo da parte delle
collettività locali comporta la garanzia del godimento del diritto
al cibo a favore una categoria vulnerabile di individui52. Il Comitato sui diritti economici, sociali e culturali ha sollecitato sforzi
di coordinamento tra autorità centrali e locali, in particolare nei
settori decentralizzati, invero con riferimento non solo al diritto
ad un’alimentazione adeguata, ma anche, ad esempio, al diritto
ad un’abitazione adeguata53.
Vari altri organi di controllo di trattati sui diritti umani hanno evidenziato l’obbligo di tutti i livelli di governo di applicare
le norme sui diritti umani. Lo stesso Consiglio dei diritti umani
delle Nazioni Unite ha sottolineato l’importanza del ruolo delle
autorità locali nell’attuazione degli obblighi internazionali di tutela dei diritti umani54. È stato anche osservato come le strategie
52. UNESCO, Cities Welcoming Refugees and Migrant: Enhancing effective urban governance in an age of migration, 2016, p. 4.
53. CDESC, General Comment n. 4 (The right to adequate housing (Article
11(1) of the Covenant)), in UN Doc. E/1992/23, par. 12. Cfr. CDESC, GC n. 12,
cit., par. 22. V. altresì Id., Frequently Asked Questions on Economic, Social and
Cultural Right, FactSheet No. 33, p. 28: «Local governments are also responsible for guaranteeing all human rights, particularly when the provision of basic
services, such as education or health, has been decentralized». In dottrina, cfr.
altresì A. Kiefer, Human Rights: Local and Regional Authorities in Action, in:
W. Benedek et al. (eds.), European Yearbook on Human Rights, 2011.
54. Human Rights Council Advisory Committee on local governments and
human rights, Report, Role of local government in the promotion and protection
of human rights, Doc. A/HRC/30/49, 7 agosto 2015. Nella dimensione regionale europea, cfr. Statement by the Commissioner for Human Rights, Thomas
210
Lorenza Mola
e le politiche in materia di diritti umani vengono tradotte più direttamente in termini pratici, nell’erogazione di servizi di base
quotidiani, a livelli di governo infra–statali55.
Occorre a tal proposito richiamare l’assunto, nel diritto internazionale, secondo cui lo Stato soggetto di diritto internazionale
è considerato in quanto apparato di governo, cosicché tutti gli
organi dello Stato, anche quelli a livello locale, sono destinatari
degli obblighi internazionali, consuetudinari e pattizi, gravanti
sullo Stato56. Questo assunto è riflesso nell’articolo 4 del Progetto
di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati, ai sensi
del quale l’azione di tutti gli organi dello Stato, se contraria ad
una norma internazionale vincolante per quello Stato, fa insorgere la responsabilità internazionale in capo allo Stato, unitariamente considerato57. Si può quindi affermare che, sotto il profilo
Hammarberg, at the 20th Session of the Congress of Local and Regional Authorities, Bringing human rights home: human rights action at the local level, CommDH/Speech(2011)3, e Steering Committee on Local and Regional
Democracy (cdlr), Awareness–Raising of the Human–Rights Dimension in the
Local and Regional Governance, cdlr (2013) 12Addendum, 1 marzo 2013.
55. UNESCO, op. cit.
56. Corte permanente di giustizia internazionale, Certain Questions Relating to Settlers of German Origin in the Territory Ceded by Germany to Poland,
Parere, PCIJ Series B, No. 6 (1923), punto 22.
57. Commissione di diritto internazionale, Draft Articles on Responsibility
of States for Internationally Wrongful Acts, in Yearbook of the ILC, II (2001),
p. 31 ss. Si vedano l’articolo 4 («1. The conduct of any State organ shall be considered an act of that State under international law, whether the organ exercises
legislative, executive, judicial or any other functions, whatever position it holds
in the organization of the State, and whatever its character as an organ of the
central Government or of a territorial unit of the State») e il relativo commento,
in particolare ai parr. 8–10 (ivi, pp. 41–42). Per i fini portati avanti in questo
contributo è interessante sottolineare che il Progetto di articoli individua il sorgere della responsabilità internazionale di uno Stato anche per il comportamento di persone o enti che esercitano prerogative dell’autorità di governo, e per il
comportamento di persone o gruppi di persone che agiscono sotto la direzione
o il controllo di quello Stato (artt. 5 e 8). Sul complesso istituto della responsabilità internazionale degli Stati nel diritto internazionale consuetudinario e su
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
211
della soggettività internazionale dello Stato, gli enti locali, in
quanto organi dello Stato, fanno parte dello “Stato–apparato” cui
sono imputati diritti ed obblighi internazionali, in particolare gli
obblighi di tutela dei diritti umani economici, sociali e culturali.
Tuttavia, in secondo luogo, rilevare che anche l’azione di governo a livello locale si attaglia ai contenuti normativi e dispone
strumenti d’attuazione del diritto ad un’alimentazione adeguata,
non significa che il diritto internazionale sul diritto in parola ponga un obbligo di decentralizzazione in capo agli Stati58.
Cionondimeno, si possono individuare alcuni auspici di decentralizzazione dell’azione interna dello Stato nell’ambito del
diritto internazionale dei diritti umani, approccio con cui – come
valore e ruolo del Progetto di articoli, si v. ex multis R. Kolb, The international
law of State responsibility: an introduction, Edward Elgar Publishing, 2017; J.
Crawford, The law of international responsibility, Oxford University Press,
Oxford, 2010; M. Spinedi (a cura di), La codificazione della responsabilità internazionale degli Stati alla prova dei fatti: problemi e spunti di riflessione,
Giuffrè, Milano, 2006.
58. Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Declaration
on Principles of International Law concerning Friendly Relations and Co-operation among States in accordance with the Charter of the United Nations,
UN Doc. A/RES/25/2625, del 24 ottobre 1970, par. 4. A livello regionale, non
incide sulla scelta di uno Stato di decentralizzare il potere di governo la Carta europea delle autonomie locali, vero e proprio trattato internazionale in cui
sono piuttosto enunciati i principi che devono reggere l’autonomia locale negli
Stati parte; peraltro, la Carta, firmata nel 1985 ed entrata in vigore nel 1988, è
oggi ratificata da tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa (v. G. Boggero,
Constitutional Principles of Local Self-Government in Europe, Brill, Leiden,
2018). Un diritto ad avere una rappresentanza, su base elettorale, a livelli intermedi di governo rispetto al livello centrale non è invece rinvenibile nella
Convenzione europea dei diritti dell’uomo (M. Vellano, La cooperazione regionale nell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 2014, p. 65 ss.). La Carta
africana sui valori e i principi di decentralizzazione, governance locale e sviluppo locale, adottata dall’Assemblea dell’Unione Africana a Malabo (Guinea
equatoriale) il 27 giugno 2014, è invece strumento non vincolante esplicitamente finalizzato a «promote, protect and acta s a catalyst of decentralization, local
governance and local development in Africa» (art. 2, a)).
212
Lorenza Mola
si è visto – è anche considerato il cibo. Affrontare la tematica
della sicurezza alimentare nazionale con l’approccio proprio del
diritto dei diritti umani comporta l’applicazione di principi diretti all’inclusione delle comunità locali nella presa di decisioni
su questioni relative alla conservazione ed all’uso sostenibile di
risorse per il cibo e l’agricoltura59. La questione generale sottesa
a queste elaborazioni è dunque se la “localizzazione” dell’attuazione degli obblighi internazionali di tutela del diritto umano ad
un’alimentazione adeguata sia richiesta dai principi relativi ai
diritti umani. Olivier De Schutter, Special Rapporteur sul diritto
al cibo dal 2008 al 2014, nel suo rapporto finale intitolato «The
transformative potential of the right to food» indica la via da seguire per la piena realizzazione del diritto internazionalmente
tutelato: secondo il relatore, occorre ricostruire, accanto allo sviluppo di strategie nazionali, “sistemi locali del cibo” (ad esempio, gli orti comunitari, il sostegno al cibo locale negli appalti
pubblici di scuole e uffici comunali), per il cui successo sono
centrali i principi relativi ai diritti umani60.
Queste espressioni dell’importanza del livello di governo locale nella realizzazione del diritto ad un’alimentazione adeguata
sono certamente timide, presenti in strumenti di soft law o privi
di valore giuridico vincolante, non tali da configurare un obbligo
posto dal diritto internazionale in capo agli Stati, in particolare
relativamente al diritto ad un’alimentazione adeguata, sull’allocazione dell’autorità di governo verso entità sub–statali. Ciò non
toglie che le espressioni sviluppate nel sistema del Patto con riferimento al diritto ad un’alimentazione adeguata vogliano rappresentare un impulso alla decentralizzazione dell’azione di gover59. Con specifico riferimento alle risorse genetiche, v. FAO Voluntary Guidelines, op. cit., 8d).
60. Human Rights Council, Report of the Special Rapporteur on the right to
food, Olivier De Schutter, 24 gennaio 2014, A/HRC/25/57, pp. 15–16.
Il diritto ad un’alimentazione adeguata [...]
213
no, quale potenziale fattore di partecipazione, empowerment, trasparenza, accountability. In ogni caso, è perlomeno condivisibile
la considerazione svolta dall’Advisory Committee del Consiglio
dei diritti umani sul ruolo del governo locale nella promozione e
protezione dei diritti umani, secondo la quale lo Stato, laddove
organizzi i propri poteri in maniera decentrata, sia tenuto a dotare
gli enti locali di poteri e capacità finanziarie adeguate per la realizzazione dei diritti umani61.
61. Human Rights Council Advisory Committee on local governments and
human rights, op. cit., spec. punti 14 e 22.
Food Cultures and Law
The Case of Traffic Light Labels*
Cristina Poncibò, Elena Grasso
Sommario: 1. ‘Traffic Light’ Labelling - 1.1 The Puzzle of ‘Food Labels’ – 2.
The Legal Framework – 3. The EU and the Promotion of Healthy Lifestyles
– 4. Food Cultures – 5. Conclusions.
1. ‘Traffic Light’ Labelling
The history of Traffic Light Labelling (also referred to hereinafter as
‘TL Labelling’) can be traced back to a medical non-governmental
Organization (NGO), the Coronary Prevention Group, in the early
1990s. The UK Government agency responsible for food, the Food
Standards Agency (‘FSA’), took up the approach in the mid-2000s
in light of research showing that consumers found existing nutritional labelling information complex and difficult to understand.
Following extensive consultation, the FSA agreed a consistent approach for TL Labelling, with four core elements: separate
information on the key nutrients: fat, saturated fat, sugar and salt;
use of red, amber, or green colour coding to provide at a glance
information on the level (i.e. whether high, medium or low) of
the individual nutrients in the product. It also includes the provision of information on the levels of nutrients present in a portion
of the product and the use of nutritional criteria developed by the
FSA to determine the colour banding to be used.
215
216
Cristina Poncibò, Elena Grasso
Since the UK Government does not have the authority to regulate nutrition labelling (since this falls under EU law), the FSA
could not impose the scheme, but rather called on food retailers
and manufacturers to adopt the approach voluntarily. The adoption of the scheme is ‘recommended’ to business operators, i.e. it
has a voluntary nature and UK FSA also underlines that the TL
Labelling must meet the requirements of Regulation 1169/2011.
For example, the supermarket chain, Tesco, and the Coca Cola
Company have agreed to introduce TL Labelling on their products sold in the UK market1. On 19 June 2013, following discussions with the UK food industry, health organizations and the
interested actors, the UK Food Standards Agency launched the
TL Labelling, using traffic light colours (red, amber and green)
to highlight how much fat, saturated fat, salt, sugar and energy is
in a product.
In this case, the percentage reference daily intakes were not
included in the labels because research indicates that consumers find these values confusing2. Moreover, the red colour coding
means that the food or drink is high in this nutrient (salt, sugar,
fat, saturated fat), and should be consumed less often or only in
small amounts. Amber means ‘medium’ and if a food contains
amber nutrients, it can be consumed most of the time. Finally,
green means ‘low’ and the more green labels the products displays, the healthier the choice3.
1* Elena Grasso is the author of paragraphs 1 and 2, whereas Cristina Poncibò authored paragraphs 3 and 4. Paragraph 5 is co-authored.
2. K. Wilbur, The Informed Consumer is a Healthy Consumer? The American Obesity Epidemic and the Federal Menu Labeling Law, in 23 Loy. Consumer L. Rev. (2010-2011), p. 510 fs.
3. Initially, there was an opposition from some large retail chains to TL
Labelling because they were convinced that the disclosure of the levels of fat,
salt and sugar in their food would have persuaded the consumers to purchase
fewer products. On the contrary, consumers tend to purchase more quantities of
Food Cultures and Law
217
The colours foreseen by the UK scheme are calculated based
on the amount of nutrients contained in 100g of product4, irrespective of the reference intake of each nutrient and of the portions consumed.
In October 2013, the UK Government proposed the scheme
for adoption at EU level, citing evidence that the scheme could
help consumers make healthier choices and reduce obesity rates.
Nevertheless, the meeting of the Standing Committee on the
Food Chain and Animal Health held in Brussels on 4 October
2013 addressed a request from Italy for a discussion on the TL
Labelling recommended by the UK authorities5.
The concerns of Italy6 were shared by a number of Member
States recalling their position in favour of a harmonized system
and request on the European Commission’s views. The TL Labelling scheme recommended in the UK was questioned on different
grounds ranging from the voluntary character of the scheme7, and
the risks of generating negative effects on the free movement of
goods in the internal market, to the need to protect the traditional
regional food products bearing quality marks recognized by the
EU. The UK authorities replied that the scheme was based on
scientific studies and that companies were free to adopt it for one
or more of their products. In fact, the moral suasion exercised
products they perceive as healthy (i.e. this effect is also indicated as the health
halo effect).
4. I. Carreño, ‘The European Commission Considers the UK Traffic Light
Nutrition-Labelling Scheme as Voluntary Nutritional Information and nor as
a “Non Beneficial” Nutrition Claim’ 1, European Journal of Risk Regulation
(2014) 61, 64.
5. For a picture of the scheme see at <http://www.food.gov.uk/sites/default/
files/multimedia/pdfs/pdf-ni/fop-guidance.pdf>. Accessed 10 May 2018.
6. I. Carreño note 3, p. 61.
7. Italian delegation to the Council of the European Union, ‘Hybrid’ nutrition labelling system recommended in some Member States, Information Note
No 16575/13, 22 November 2013, 1, 4.
218
Cristina Poncibò, Elena Grasso
by the UK Government to make suppliers adhere to this scheme
may result in a form of ‘discrimination’ for manufacturers and
the sellers that do not adopt it8 and, ultimately, for the good quality products stigmatized by the new scheme with a red label9 that
could be perceived by consumers as being unhealthy.
Precisely, the first point concerns the scientific reliability of
TL Labelling in the United Kingdom, the classification of problem-nutrients as high, medium, or low is based on the dietary
recommendations of the Committee on Medical Aspects of Food
and Nutrition (COMA), and its successor, the Scientific Advisory
Committee on Nutrition (SACN)10. Foods with ‘green’ indicators
are healthier and to be preferred over those with ‘red’ indicators.
Pre-packaged food may be labelled with a TL Labelling showing
at a glance the proportions of fat, saturated fats, sugar, and salt
using traffic light signals for high (red), medium (amber) and low
(green) percentages for each of these ingredients.
However, the scheme is questionable by relying on dietary research: even nutritionists disagree about what constitutes healthy
levels of fats, added sugar, and salt. The truth is our bodies need
fat: saturated fat is a key component of our cells, needed for
hormone production and other biological processes and it acts
as a carrier for important vitamins and helps us absorb minerals. Therefore, anyone following TL Labelling too assiduously,
8. I. Carreño note 3, p. 63.
9. Case C–249/81 Commission v Ireland [1982] ECR 4005. The Court
stressed that ‘The implementation of a programme defined by the government
of a member state which affects the national economy as a whole, and which
is intended to check the flow of trade between member states by encouraging
the purchase of domestic products by means of an advertising campaign on a
national scale, and by organizing special procedures applicable solely to domestic products, (…) is to be regarded as a measure having an effect equivalent to
quantitative restrictions’.
10. English Ministry of Health, ‘Guide’ (19 June 2013).
Food Cultures and Law
219
avoiding red meat and other ‘red’ and ‘amber’ foodstuffs could
easily begin to lack essential fats, but also protein, iron and key
vitamins.
In addition, TL Labelling unjustifiably stigmatizes the nutrient-rich products that could be part of a healthy diet, for example, the products included in the ‘Mediterranean diet’11. Those
red lights risk stigmatizing in an unfair way perfectly healthy,
natural foods, while the green lights will offer false reassurance
to consumers, rewarding the food- processing companies that
contribute to an unhealthy diet. It may happen that the promotional activity of the professional affects the rational sphere of
consumers so much as to override the information element12.
Indeed, there is a risk of having a red label for extra-virgin
olive oil and a green label for diet Coke13. Accordingly, factually
correct information may actually be misleading and counterproductive to encouraging consumer to adopt a healthier diet14.
Under European Union (EU) legislation, the UK Government
can only make recommendations to industry on how to label their
products (See para 2), even if the importance of the marketing of
processed food has been recognized as crucial at international
11. Scientific Advisory Committee on Nutrition, Salt and Health (The Stationery Office 2003).
12. Euractiv, Mediterranean diet could suffer from UK traffic light labels,
Italy claims (October 2013) <http://www.euractiv.com/cap/uk-traffic-light-labels-damage-m-news-532447> accessed 10 May 2018.
13. I. Chalamon and L. Nabec, Les pratiques de lecture des étiquettes nutritionnelles : une analyse sémiotique des représentations des règles de nutrition,
70 Décisions Marketing (Avril-Juin 2013), pp. 59-74; C. Piotrowski, ‘Color
Red: Implications for applied psychology and marketing research’, 49 Psychology and Education: an Interdisciplinary Journal (2012), pp. 55-57.
14 K. Wilcox et al, ‘Vicarious goal fulfilment: when the mere presence
of a healthy option leads to an ironically indulgent decision’ 36(3) Journal of
Consumer Research (2009), 380, 393.
220
Cristina Poncibò, Elena Grasso
level15. After Brexit16, subject to any transitional arrangement that
may be contained in a possible withdrawal agreement, as of the
withdrawal date, EU food law will be no longer applies to the
United Kingdom. Consequently, any post-Brexit review of EU
food laws in the next years will give UK Government the opportunity to introduce legislation to standardise TL labelling.
1.1. The Puzzle of Food Labels
Food labels focusing on nutrition, like TL Labelling’, are ‘a fundamental instrument to promote healthy food to consumers’17.
Such labels are found on the food item itself, or on a display
device associated with the foodstuff, such as a menu or supermarket shelf. There are two broad types of nutrition label18.
The first (and traditional) type is the ‘nutrition facts table’, a
boxed table that lists the nutrients found in the foodstuff and their
amount. Government regulations around the world dictate when
nutrition facts tables (sometimes called ‘nutrition facts panels’
15. See in relation to the problem of factually correct information in relation
to alcohol G. G. Howells, J. M. Watson, ‘The role of information in pushing and
shoving consumers of tobacco and alcohol to make healthy lifestyle choices’
in A. Alemanno, A. Garde (eds), Regulating Lifestyle Risks, The EU, Alcohol,
Tobacco and Unhealthy Diets (Cambridge: Cambridge University Press 2015)
pp. 23, 45.
16. WHO, Global status report on non-communicable diseases 2010 (Geneva, World Health Organization, 2011).
17. The United Kingdom submitted on 29 March 2017 the notification of
its intention to withdraw from the Union pursuant to Article 50 of the Treaty
on European Union. This means that, unless a ratified withdrawal agreement1
establishes another date, all Union primary and secondary law will cease to
apply to the United Kingdom from 30 March 2019.
18. J. Albert (ed), Innovations in Food Labelling (FAO and Woodhead
Publishing 2010). B. Elbel et. Al, ‘Calorie Labeling and Food Choices: A
First Look at the Effects on Low-Income People in New York City’, in 28 Health
Affairs (2009), p.1110.
Food Cultures and Law
221
or ‘nutrition information panels’) are required, the nutrients that
must be listed, the reference quantifier and the foods to which
they must be applied.
Indeed, as of 13 December 2016, a nutrition declaration including the energy value and the amounts of fat, saturates, carbohydrates, sugars, protein and salt, expressed in tabular format (if
space permits) is mandatory on the labelling of foodstuffs according to point (1) of art 9(1) and art 55 Regulation No. 1169/2011.
The second approach is the graphical nutrition label, which
displays nutritional information in a graphical, interpretative
way1. TL labelling is an example of this approach. In particular,
graphical approaches to nutrition labelling aim to increase the
ability of consumers to see, read, interpret and act upon the nutritional information provided on the package. In this interpretative
approach, a graphic format is used, usually on the front of the
packet or elsewhere in the field of vision, to display and interpret
the nutrition information. Due to the emphasis on visibility, this
is sometimes referred to as ‘front-of-pack’ labelling (hereinafter
‘FOP’), though in fact graphical formats can be found in other
locations apart from the front of the food package.
Graphical formats are a relatively recent phenomenon, and
remain largely in the domain of Western Countries2. In particu1. European Food Information Council (EUFIC), Global Update on
Nutrition Labelling (The European Food Information Council 2013). Codex
Alimentarius Commission, Guidelines on Nutrition Labelling (2012) <www.
codexalimentarius.net/download/standards/34/CXG_002e.pdf> last accessed
10 May 2018. See, also, P. Borghi, ‘Rosso, giallo o verde? L’ennesima etichetta
alimentare “a semaforo”, l’ennesimo segno di disgregazione’, Rivista di diritto alimentare, XI, 2, (2017), p. 79; B. Salas e B.G. Simoes, ‘The European
Commission Initiates Infringement Proceedings against the UK over Its Traffic
Light Nutrition Labelling Scheme’, 5-4 European Journal of Risk Regulation
(EJRR), (2014), p. 531.
2. M. Čuk, Graphic alternatives to numerical representation of nutrition
facts on food labels (Dissertation, The University of Reading, September 2009)
222
Cristina Poncibò, Elena Grasso
lar, graphical nutrition labels are also mentioned under art 35(1)
Regulation 1169/2011, stating that, in addition to the mandatory
forms of expression and presentation defined by the EU Regulation, the energy value and the amount of nutrients may be expressed by other forms and/or presented using graphical forms or
symbols (See para 2). Food label consists of verbal parts (compulsory and voluntary) and figurative parts (always voluntary).
The problems related to the legibility and comprehensibility of
the label accentuate the phenomenon for which the figurative
part, often synthetized by graphical nutrition schemes, acquires
importance in the formation of consumers’ will.
Generally, there are four broad types of graphical nutrition
labels: i) guideline daily amount (also known as: ‘GDA’) labels,
ii) nutrition-scoring systems; iii) calorie labelling, and iv) traffic
light labelling.
In particular, GDA labelling involves presenting the amount
of energy and key nutrients in one portion of the foodstuff as a
percentage of the ‘guideline daily amount’ (i.e. the recommended
daily amount of energy/nutrients to be consumed by an average
person) in a graphical form, usually with some part of the label
on the front of the package.
For example, retailers in the United States use some nutrition
scoring systems. For example, a supermarket retailer initiated
the approach by entering the ‘Guiding Stars’ scheme whereby
foods are labelled with either one (‘good nutritional value’) or
two (‘better’) or three stars (‘best’). The foods score is estimated using a system based on the presence of vitamins, minerals,
fibre and/or whole grains and trans and/or saturated fats, cholesterol, added sugars and added sodium. New approaches to cal<www.mcuk.si/writing/graphic-alternatives-numerical-representation-nutrition-facts-food-labels> accessed 10 May 2018.
Food Cultures and Law
223
orie labelling are also being experimented in the United States:
for example, in one state and three large cities chain restaurants
are experimenting through labelling calories on their menus and
menu boards3.
Different FOP symbols are also in use in EU Member States:
two prominent example are the Traffic Light Labelling developed by the United Kingdom’s Food Standards Agency (FSA)
and the Choices Symbol, based on nutrition scoring, adopted,
for example, by Nordic countries, the Netherlands, and Poland.
Traffic Light Labelling is the most controversial.
For example, the Choices Symbol appears only on products
meeting nutrition standards developed by an independent scientific body4. In brief, the TL Labelling system highlights amounts
of total fat, saturated fat, sugar, and salt in foods, whereas the
Choices Symbol (usually a green label) appears only on the foods
meeting the dietary guidelines.
The adoption of the scheme is justified because of research suggesting that consumers spend only about one second looking at
nutrition information when making myriad choices5. This is why
consumers need a simple, standardized and truthful label on the
front of all packaged foods. They need simple, standardized icons
located in a consistent place that can be understood by a shopper
in a second or less. No higher mathematical or advanced nutrition knowledge should be required to grasp the icons’ meaning.
The information should reflect real serving sizes and interpretive
3. J. Albert, Introduction to innovations in food labelling, in J. Albert,
cit., 46, 50.
4. L. J. Harnack, S. A. French, Effect of point-of-purchase calorie labeling on restaurant and cafeteria food choices: A review of the literature, 5 International Journal of Behavioral Nutrition and Physical Activity (2008), p. 51.
5. M. Dötsch-Klerk, L. A.M. Jansen, The Choices Programme: a simple,
front-of-pack stamp making healthy choices easy, 17 Asia Pacific Journal of
Clinical Nutrition (2008), p. 383.
224
Cristina Poncibò, Elena Grasso
symbols telling shoppers simply whether an item is healthy or unhealthy. Some research finds that consumers want simple labels6,
and, according to some studies, TL Labelling may be helpful in
helping consumers to identify the healthier of two products7.
2. The European Legal Framework
The EU has established a detailed legal framework for nutrition
labelling schemes.
Council Directive 79/112/EC8 was the first on food labelling
with which the Community legislature intended to harmonize
national provisions relating to the labelling, presentation and advertising of foodstuffs. The purpose was to safeguard the transparency of information provided to consumers. The aim of the
legislation was to approximate the different labelling regulations
of Member States that could hinder the free movement of products within the common market. Differences in labelling could
represent an obstacle, such as a measure with equivalent quantitative restrictive effect on imports. Consequently, in pursuing
both goals – free movement of goods, and transparent information – Directive 79/112/EC provided a series of mandatory indications on the foodstuff label of all pre-packaged foods, recognizing it as tool of nutrition policy. Over the years, this discipline
has been modified, in order to ensure greater transparency and a
6. C. Hodgkins et al Understanding how consumers categorise nutritional labels: A consumer derived typology for front-of-pack nutrition labelling,
59 Appetite (2012), 806, 817.
7. S. Malam et al, Comprehension and use of UK nutrition signpost labelling schemes (UK Food Standards Agency 2009).
8. I. Borgmeier, J. Westenhoefer, Impact of different food label formats
on healthiness evaluation and food choice of consumers. A randomized-controlled study, 9 BMC Public Health (2009), pp. 184, 185.
Food Cultures and Law
225
more informed choice by the consumer. Afterwards, rules governing foodstuff labelling were firstly included in the Directive
2000/13/EC9 and secondly in the Food Information Regulation.
Directive 2000/13/EC underlines the need of attaining a higher level of comprehensibility, which made clear that the labelling and rules to be followed in providing information should not
mislead the purchaser, in particular with regard to the nutritional
characteristics of the product10.
With Regulation No. 1169/2011, the protection of the consumer and his right to act on informed choices became part of the
general objectives of the new legislation, which aims to gather
in a single text rules on labelling and advertising of the product11
and on the presentation of such information12. In fact, art 3(1) of
Regulation 1169/2011 makes the food labelling a tool to protect
the fundamental right to health, expressly including the provisions of food information among the means to ensure a high level
of protection of health and of consumer interests13.
The Food Information Regulation applies to food business
operators at all stages of the food chain and to all foods intended
9. Council Directive 79/112/EEC of 18 December 1978 on the approximation of the laws of the Member States relating to the labelling, presentation
and advertising of foodstuffs for sale to the ultimate consumer [1979] OJ L33/1.
10. Council Directive 2000/13/EC of 20 March 2000 on the approximation of the laws of the Member States relating to the labelling, presentation
and advertising of foodstuffs [2000] OJ L109/29, repealed with effect from 13
December 2014.
11. Among the main amendments introduced by this directive, we can number quantitative ingredient declarations where the label states that the product
contains certain ingredients and ‘use by’ date for perishable foodstuffs; see art
7(10) and 3(1) of Directive 2000/13/EC (n 27).
12. Council Directive 2000/13/EC (n 27).
13. Council Directive 2003/89/EC of 10 November 2003 amending Directive 2000/13/EC as regards indication of the ingredients present in foodstuffs
[2003] OJ L308/15.
226
Cristina Poncibò, Elena Grasso
for the final consumers, including foods delivered by mass caterers and foods intended for supply to mass caterers14. In terms of
responsibilities, it is determined that a guarantor of the accuracy
and of the truthfulness of information is the food business operator, with whose name or whose company name the product is put
on the market or, if that operator is not established in the Union,
the importer (art 8).
With the adoption of this new legislative act the label definition remains essentially unchanged. However, among mandatory
food information15, Regulation 1169/2011 has established a nutrition declaration that was previously optional. As under Directive
90/496/EEC, nutrition labelling was not compulsory16 unless a
nutrition claim17 was made in the label, presentation or advertis14. Art 169 TFEU.
15. Art 1(3) Food Information Regulation. See also, L. G. Vaqué, The New
European Regulation on Food Labelling: Are we Ready for the ‘D’ day on 13
December 2014?, 3 European Food and Feed Law Review, (2013), pp. 158167. J.L. Buttriss, Food Labelling: Changes associated with introduction of
new legislation, 38:4 Nutrition Bulletin, (2013), pp. 383-388; and A. Fransvea
et al., Food Labelling: a brief analysis of European Regulation 1169/2011, 3
Italian Journal of Food Safety, (2014), pp. 151-153.
16. Information include: the name of the food; the list of ingredients; any
ingredient or processing aid listed in Annex II or derived from a substance or
product listed in Annex II causing allergies or intolerances used in the manufacture or preparation of a food and still present in the finished product, even if in
an altered form; the quantity of certain ingredients or categories of ingredients;
the net quantity of the food; the date of minimum durability or the ‘use by’ date;
any special storage conditions and/or conditions of use; the name or business
name and address of the food business operator referred to in art 8(1); the country of origin or place of provenance where provided for in art 26; instructions
for use where it would be difficult to make appropriate use of the food in the
absence of such instructions; with respects to beverage containing more than
1,2% by volume of alcohol, the actual alcoholic strength by volume; a nutrition
declaration (art 9(1) Regulation 1169/2011).
17. Art 2 Council Directive 90/496/EEC of 24 September 1990 on nutrition
labelling for foodstuffs [1990] OJ L276/40.
Food Cultures and Law
227
ing of a foodstuff. It is questionable whether the coloured traffic
light can be qualified as nutritional labelling or rather as a nutrition claim ‘which states, suggests or implies that a food has
particular nutrition properties’. Consequently, if we consider the
traffic light as a nutrition claim it has to fall within the scope of
Regulation 1924/200618, whereas if we consider it as a nutrition
declaration expressed in a particular form it must be evaluated in
the light of the Food Information Regulation19.
The content of the mandatory nutrition declaration is established by art 30 of the Food Information Regulation. A set of seven pieces of information is fundamental: energy value, amounts of
fat, saturates, carbohydrate, sugars, protein, and salt. Regulation
1169/2011 maintains the reference to 100g/100ml to facilitate an
effective comparison of food substances20 and admit information
per serving size or consumption unit if they are easily identifiable
and the number of servings is printed on the package21.
The most remarkable innovation is contained art 35, which
allows Member States to recommend to food business operators
to use particular additional forms of expression and presenta-
18. Nutrition claim means any representation and any advertising message
which states, suggests or implies that a foodstuff has particular nutrition properties due to the energy (calorific value) it provides / provides at a reduced
or increased rate or/ does not provide, and/or due to the nutrients it contains/
contains in reduced or increased proportions or/does not contains (art 1(4)(b)
Directive 90/496/EEC).
19. Council Regulation (EC) 1924/2006 of 20 December 2006 on nutrition
and health claims made on foods [2007] OJ L404/09.
20. M. Holle, E. Togni & A. Vettorell, The Compatibility of National
Interpretative Nutrition Labelling Schemes with European and International
Law, 3 European Food and Feed Law Review (2014), 148, 160.
21. Art 32(1), (2) and (4) Regulation 1169/2011. A.N. Thorndike et al.,
Traffic-Light Labels and Choice Architecture: Promoting Healthy Food Choices, 46:2 American Journal of Preventive Medicine, (2014), pp. 143-149.
228
Cristina Poncibò, Elena Grasso
tion, such as graphical forms or symbols22: stringent conditions
are necessary for admissible alternative representations of data
and the ‘traffic light’ does not appear to comply with this rule23.
Indeed, it seems more correct to assess this tool as an implicit
nutrition claim.
Moreover, the consumer’s possibility to make conscious
choices is reached by implementing the effective comparison of
food information, which, however, it is not, equally sought. On
one hand, through the formal technical standards of the label,
Regulation no. 1169/2011 leads the requirement of comprehensibility to a measurable parameter. The readability of information
ceases to be restricted only in vague phrases, which may be interpreted differently from time to time. For example, expressions
such as ’easily visible’, ‘clearly legible’ and ‘indelible’24 are connected to visual accessibility criteria such as the size of the characters, the spacing between letters and lines, the thickness, the
type of the colour, the proportion between the width and height
of the letters, the surface of the material and the significant contrast between the print and background25. Furthermore, mandatory information must be ‘loyal’ and, if required, must be marked
in an evident place in the box. Other indications or images or any
other element must not interfere, hide, obscure, separate mandatory information or divert expressly the attention from it26. In
22. Art 33 Regulation 1169/2011.
23. Art 35 Regulation 1169/2011.
24. L. Cuocolo, The Questionable Eligibility of Traffic Light Labelling, 6
European Food and Feed Law Review (2014) 382, 390.
25. Art 13(1) Regulation 1169/2011.
26. In particular, the characters of the label must be such that their height
is equal to or greater than 1.2 mm, referred to the letter lowercase ‘x-height’,
while in the case of packaging with the largest surface area of less than 80
cm2, the ‘x-height’ shall be equal to or greater than 0.9 mm (art 13(2) and (3)
Regulation 1169/2011).
Food Cultures and Law
229
this regard, it seems useful to emphasize that food products are
packaged and presented to build customers’ loyalty27. The buyer,
accustomed to a particular composition and tested product, uses
the label as a useful tool to guide his choices, not only at the time
of purchase, but also the consumption. In addition, because of the
possibility of consulting the list of ingredients, consumers could
realize potential differences between an imported product and a
domestic product, although sold under the same sales description, which has been progressively accepted by Member States.
During the 1980s, the principle of mutual recognition, has been
progressively extended to the use of names. The Court of Justice
stated that a food product, sold in one Member State under a certain name, could be sold under the same name in any other Member State, even if it is not compliant with the national characteristics and qualities requested by the national law of the Member
State where it is imported28. The choice of pre-determining the
characteristics of the label encourages a regulatory model geared
to overcome consumers’ errors through their empowerment.
On the other hand, for facilitating informed and healthier
choices, Regulation 1169/2011 allows the adoption of national
interpretative nutritional symbols, in addition to mandatory nutritional labelling. Voluntary schemes may supplement compulsory information: such schemes cease to be considered as mere
information tools to ensure fair commerce and begin to be perceived as health indicator by consumers and marketing means by
global food industries.
It is therefore undeniable that nutritional information tools
have a relevant role in government-driven public health initia27. Art 13(1) Regulation no. 1169/2011.
28. T. Marteau et al, Judging nudging: can nudging improve population
health? 342 British Medical Journal (2011) pp. 263, 265.
230
Cristina Poncibò, Elena Grasso
tives, especially when Member States leave their producers free
to adopt their own interpretative nutrition labelling29. Different
national initiatives arise from a specific provision of Regulation
1169/2011 (Article 35) and from the fact that at European level
the actions aimed at approving a unified nutritional evaluation
model (foresee by EC Regulation no. 1924/2006) were not successful30. In Germany, for instance, the German Federation of
Food Law and Food Science (Bund für Lebensmittelrecht und
Lebensmittelkunde e. V.; BLL) rejected the proposal of adopting
a ‘traffic light’ labelling scheme because of the arbitrariness of
dividing food into bad and good31. In France32, the French Nutri-score model, following the approval of the ‘Décret établissant
la forme de présentation complémentaire à la déclaration nutritionnelle recommandée par l’État en application des articles L.
3232-8 et R. 3232-7 du code de la santé publique’, notified to
the EU Commission on 24 April 2017. This model provides for
an indication recommended by the French State and regulated
by a sort of technical regulation that imposes a set of standards
for calculating the nutritional score of the food and its classification. The scale is based on five colors: the French Nutri-score
is a more sophisticated interpretative tool, able to represent also
the positive presence of proteins and fibers, which are not always representable in other graphical systems. Unluckily, this
tool does not show valuable qualities of a food product such as
craftsmanship and tradition. France and Italy have traditionally
29. Case C–101/98 Union Deutsche Lebensmittelwerke GmbH and Schutzverband gegen Unwesen in der Wirtschaft eV [1999] ECR I-8857.
30. C. MacMaoláin, Regulating consumer information: use of food labelling and mandatory disclosures to encourage healthier lifestyles, in A. Alemanno, A. Garde, cit, pp. 46, 67.
31. P. Borghi, note 18, p. 79. B. Salas e B. G. Simoes, note 18, p. 531.
32. In Germany, each producer can adopt his system of labelling, and that is
not always beneficial for consumers.
Food Cultures and Law
231
expressed similar points of view in relation to various questions
concerning food law and food traditions, but at the same time
they are distinguished in other aspects, such as the role and development of large-scale retail distribution33.
3. The EU and the Promotion of Healthy Lifestyles
The multi-level system of the European Union is particularly
concerned with promoting the interests of consumers and with
ensuring a high level of consumer protection, including the protection of consumers’ health, safety and economic interests as
well as the promotion of their rights to information, education
and organization34.
Two Treaty provisions enshrine the adoption of lifestyle policy: art 9 TFEU, which expressly links EU policies to protection of human health, and art 168 TFEU, which attributes limited
and non-exclusive legislative competence to the EU35. Indeed, as
Member States have to take care of public health, the EU general policy is that information is provided in order to allow the
consumer to make an informed and conscious decision36. Con33. L. González Vaqué, EU Regulation of Nutrition Labelling: An Irreversible Factor in the Deterioration of the Single Food Market, 1 European Food
and Feed Law Review (EFFL), (2016), p. 1 fs
34. L. Bairati, E. Grasso, Lire ou regarder? Les couleurs dans l’etiquetage
alimentaire et l’information du consommateur, Revue européenne du droit de
la consommation (2018) in print.
35. Art. 169(1) of the Treaty on the Functioning of the European Union
(‘TFEU’). The Treaty of Lisbon amending the Treaty on European Union and
the Treaty establishing the European Community [2007] OJ C306/1 has introduced Art 169(1).
36. Art 168(1) TFEU states that the European Union is obliged to ensure a
‘high level of human health protection in the definition and implementation of
all Union policies and activities’.
232
Cristina Poncibò, Elena Grasso
sequently, labelling is also a leading concept within the area of
EU food law, more precisely consumer (health) protection. The
use of labelling can inform consumers about possible dangers
of certain foods and consumers, provided with adequate information, should be allowed to make (ir)rational choices37. In fact,
one of the main purposes of EU food law is to pursue ‘a high
level of protection of human life and health and the protection of
consumer’s interests’38. In this field, consumer law has particularly required nutrition labelling in an effort to help consumers to
make healthier food choices.
In fact, a consumer’s health can be jeopardized by the consumption of foods that contain dangerous microorganisms or that
are contaminated with harmful substances. For that reason, European institutions have, by adopting the Regulation 178/2002
(also known as ‘General Food Law’), implemented a detailed
and stringent set of rules intended to minimize such safety risks.
However, food safety in a narrow sense, understood as the absence or minimization of chemical, biological and physical risk,
does not ensure beneficial consumer health. Other food related
issues are relevant. The growing prevalence of obesity and certain related diseases, such as diabetes, cardiovascular conditions
37. O. Bar-Gill, Seduction By Contract: Law, Economics and Psychology in Consumer Markets (Oxford: Oxford University Press 2012); O. BarGill, ‘Regulatory Techniques in Consumer Protection: A Critique of European
Consumer Contract Law’ 50 Common Market Law Review (2013), p. 109;
M. J. Radin, Boilerplate, The Fine Print, Vanishing Rights, and the Rule of
Law (Princeton, New Jersey: Princeton University Press 2014). For a European
perspective, C. Poncibò, R. Incardona, ‘The Average Consumer, the Unfair
Commercial Practices Directive and the Cognitive Revolution’ 30(1) Journal
of Consumer Policy 21 (2007) p. 38.
38. K. G. Grunert et al, ‘Use and understanding of nutrition information
on food labels in six European countries’ 18 Journal of Public Health (2010),
pp. 261, 277.
Food Cultures and Law
233
and some types of cancers39 provides an important example of a
modern, food-related health challenge, which, from the outset,
seems difficult to fit into a narrow concept of food safety40.
Furthermore, it is widely acknowledged that the extent of unhealthy consumption patterns is directly related to the increasing availability of low-priced, low-nutrition processed foods and
ready-to-consume meals, which contain high levels of saturated
fats, salt and sugar41. The central question is to what extent the
EU is competent to protect consumers from the potential harmful health effects of the (over)consumption of foods that have
negative nutritional features, i.e. ‘unhealthy’ food42. As a rule,
public health and consumer protection need to be taken into
account when defining and implementing all other Union policies and activities43. Apart from the general legal bases in art
43 (agriculture) and art 114 (internal market), the TFEU offers
two steppingstones for Union competence to adopt harmonizing
measures in the field of consumer health protection: arts 16844
and 16945 TFEU. In addition, art 34 TFEU, in principle, prohibits
39. Art 5(1) of Council Regulation (EC) 178/2002 of 28 January 2002
laying down general principles and requirements of food law, establishing the
European Food Safety Authority and laying down procedures in matters of food
safety [2002] OJ L31/1.
40. S. H. Wild, C. Byrne, Risk factors for diabetes and coronary heart
disease, 333 British Medical Journal (2006) p. 1009, p. 1011.
41. Obesity is the source of several diseases, with consequent increases in
costs for public health services. See J. Cawley, C. Meyerhoefer, ‘The medical
costs of obesity: an instrumental variables approach’ 31(1) Journal of Health
Economics (2012), p. 219, p. 230.
42. See on this topic A. Alemanno, A. Garde, note 14, 23 fs.
43. W. Willemijn, H. Edinge, A Legal Perspective on EU Competence to
Regulate the “Healthiness” of Food, 1 European Food and Feed Law Review
(2014), 11, 19.
44. Art 12 and art 168(1) TFEU.
45. In the field of public health, art 168(5) TFEU prohibits the adoption of
harmonizing measures. Art 168(4) TFEU provides for an exception that allows
234
Cristina Poncibò, Elena Grasso
the adoption by Member States of measures that create disproportionate obstacles to intra-community trade.
In this respect, art 34 TFEU thus does not prevent Member
States from devising and implementing their own strategies. Indeed, some Member States have already adopted domestic strategies in this respect, in particular in the form of specific labels
focusing on nutrition. From a European perspective, however, the
proliferation of various nutrition labelling schemes in the Member
States, does not achieve the goal of EU-wide harmonization. National labelling systems may adopt schemes that, while respecting
Regulation (EU) no. 1169/201146 (‘Food Information Regulation’),
make the European legal landscape in this area very chaotic.
Within the said legal framework, the adoption of a food-labelling scheme represents a difficult synthesis to be achieved between
the simplification of nutritional information and the respect of food
cultures and internal markets rules. Indeed, nutritional traffic lights
are often presented as transparency tools but in reality they suggest consumers by inducing them to look rather than to read and
finally, to make emotional purchase choices. The idea behind any
signpost labelling approach is to present relevant information in an
easily understandable format in order to counter the health risks
to the population: this phenomenon is favoured by many factors,
for harmonisation in order to meet a number of ‘common safety concerns’.
From its formulation, art 168(4) (b) TFEU may appear to have been adopted
in order to provide for an explicit EU competence to regulate food safety in a
narrow sense only. It is questionable whether it could serve as a legal basis for
the adoption of measures that envisage protection from any health risk from
food, including those that are nutrition-related.
46. The EU can base its legislative competence in food health matters on art
169(2) TFEU, in conjunction with art 114 TFEU. The former provision expressly states that the EU shall contribute to protecting the health and safety of
consumers. For this purpose, the EU is to adopt, eg, measures pursuant to article
114 TFEU in the context of the completion of the internal market.
Food Cultures and Law
235
such as physical landscape of modern cities and social changes47.
It is therefore necessary to implement a combination of different
policy interventions, whereby an effective labelling system is only
one approach: healthy food options as defaults, extensive consumer awareness and educational campaigns about healthy eating can
serve as complementary alternatives48.
In this framework, the label can be seen as a useful bulwark
against irrational alimentary choices because citizens should use
it to buy the foods that best suit their individual nutritional needs.
However, traditional tabular forms of nutrition labelling are difficult to understand49. Interpretative nutrition labelling, such as
GDA-based systems, ‘Traffic Light’ scheme, Swedish keyhole50
or the Dutch ‘Choices’ logo, ‘’think’ for consumers in choosing
among different foodstuffs, because they express and synthetize
the nutritional content of the foodstuff. However, the intensity of
the recommendation changes accordingly to the scheme adopted.
As an example, the GDA-based system is less forceful than TL
schemes, because while the first just provides neutral data, the
47. Council Regulation (EU) 1169/2011 of 25 October 2011 on the provision of food information to consumers, amending Council Regulations
(EC) 1924/2006 and (EC) 1925/2006, and repealing Commission Directive
87/250/EEC, Council Directive 90/496/EEC, Commission Directive 1999/10/
EC, Council Directive 2000/13/EC, Commission Directives 2002/67/EC and
2008/5/EC and Council Regulation (EC) 608/2004 [2011] OJ L304/18.
48. C. Hector, Nudging Towards Nutrition? Soft Paternalism and Obesity-Related Reform, 67 Food & Drug Law Journal (2012), p. 103, p. 122 notes
that unhealthy food choices may be the results of environmental forces and lack
of personal responsibility.
49. American Dietetic Association on Vegetarian Diets, ‘Position’ 109 (12)
Journal of the American Dietetic Association (2009), pp. 2073, 2085. It states
that appropriately planned vegetarian diets, including total vegetarian or vegan
diets, are healthful, nutritionally adequate, and may provide health benefits in
the prevention and treatment of certain diseases.
50. C. Byrd-Bredbenner, A. Wong, P. Cottee, Consumer Understanding
of US and EU Nutrition Labels, 102:8 British Food Journal (2000), 615, 629.
236
Cristina Poncibò, Elena Grasso
second also elaborates thereupon to influence consumers’ choices. In this sense, TL scheme is considered to be semi-directive,
because consumers are nudged to jump to the correct nutritional
conclusion by the colours marked on the food label51. Limited
time in everyday life and purchases of little value seem to delegate labels a growing power of ‘directiveness’, increased by cognitive mechanisms that occur in case of snap decisions.
Among these mechanisms, we can mention the influence of
visceral factors such as hunger, thirst, and current moods, which
can lead people to compulsive eating or overeating and the general trend to overestimate instant smaller rewards over larger
gains later52. In the field of food consumption, these two factors
can be associated with one another: the immediate satisfaction in
buying a high caloric food prevails over the long-term benefit of
a proper and healthier diet, which can prevent consumers from
possible harm to their health53. Social psychology has demonstrated the importance of consumers’ decisions made on the basis
of ‘autonomous’ motivations instead of choices that are made
simply as a response to external constraints54.
51. The Keyhole is a food label that identifies healthier food products within a product group. Choosing foods with the Keyhole symbol makes it easier
and less time consuming to find healthier products in food stores. Foods labelled with the Keyhole contain less sugars and salt, more fiber and wholegrain
and healthier or less fat than food products of the same type not carrying the
symbol. The Keyhole system aims to stimulate manufactures to product reformulation and development of healthier products.
52. M. Holle, E. Togni, A. Vettorell, The Compatibility of National Interpretative Nutrition Labelling Schemes with European and International Law,
3 European Food and Feed Law Review, (2014) pp. 148-149; A. N. Thorndike
et al., Traffic-Light Labels and Choice Architecture: Promoting Healthy Food
Choices, 46:2 American Journal of Preventive Medicine (2014), pp. 143-149.
53. G. Lowenstein, Out of Control: Visceral Influences on Behavior, 65(3)
Original Behavior & Human Decision Processes (1996), pp. 272, 292.
54. Vegetarians tend to have an overall cancer rate lower than that of the
general population. See G.E. Fraser, ‘Associations between diet and cancer,
Food Cultures and Law
237
More generally, people are limited in their ability to make
decisions and these limits affect their choice in a negative way55.
behavioural economic sciences have replaced the theory of full
rationality with the concept of ‘bounded rationality’56. Hence, the
theory of soft paternalism aims to improve consumers’ choices
by nudging them, without forbidding but through the implementation of incentives57. Consumers make their choice by processing concepts and inducements and in so doing they operate a
selection from multiple alternatives.
The purpose of consumer protection regulations is indeed realized by removing obstacles and asymmetries that prevent citizens from making informed decisions about goods and services.
As underlined regarding the comparison between EU policies
towards alcohol and tobacco, the law is a proper instrument to
nudge citizens to make wiser lifestyle choices, but its effectiveness needs social acceptance.
ischemic heart disease, and all-cause mortality in non-hispanic with California
Seventh-day Adventists’ 70(3) American Journal of Clinical Nutrition (1999),
532, 538.
55. R.M. Ryan, E.L. Deci, Intrinsic and Extrinsic Motivation: Classic Definitions and New Directions, 25(1) Contemporary Educational Psychology
(2000), 54, 67. The same authors, Self-Determination Theory and the facilitation of Intrinsic Motivation, Social Development, and Well-Being, 55(1) American Psychologist (2000), pp. 68, 78.
56. C. R. Sunstein, R. H Thaler, Libertarian Paternalism is Not An Oxymoron, 70 (4) The University of Chicago Law Review (2003), pp. 1159, 1202; R. C.
Ellickson, Bringing Culture and Human Frailty to Rational Actors: a Critique
of Classical Law and Economics 65(23) Chicago-Kent Law Review (1989), pp.
23, 55. G. G Howells, The potential and limits of consumer empowerment by
information, 32 (3) Journal of Law and Society (2005), pp. 349, 370.
57 C. Camerer et al, Regulation for Conservatives: Behavioral Economics
and the Case for “Asymmetric Paternalism”’ 151(3) University of Pennsylvania Law Review (2003), pp. 1211, 1254. C. Jolls, ‘On Law Enforcement with
Boundedly Rational Agents’ in F. Parisi, V. Smith (eds), The Law and Economics of Irrational Behavior (Stanford: Stanford University Press 2004) pp.
268, 286.
238
Cristina Poncibò, Elena Grasso
In this context, nutrition labelling such as the TL scheme can
be configured as a nudge for consumers, because it not only simplifies the information provided to the consumers, but implicitly
suggests a judgment thereon. It is questionable whether the result
of assessments performed by consumers in choosing among similar goods is the synthesis of their cognitive faculties: their ability
of discernment is often affected by external factors, such as the
type of information available, and internal factors, such as the
psychological and physical condition of the person at the time
of purchase. Whether consumers pick out financial investments,
medical care or a foodstuff, overabundance of information and
misleading advertising techniques contribute to make a grey area
where it is more and more difficult to regulate the market efficiently58. In other words, there is thought to be the increased need
of a light approach to regulation, in order to address people’s
choices towards better solution without resorting to prohibitions.
The representation of information does not assume a negligible function to engrave on the ratings of consumers. Even if
people make different choices, the process underlying cognitive
mechanisms is homogeneous and is influenced by the relationship between the rationality of the person, the imbalanced information that in certain situations afflicts consumers, and the regulatory function of the law. In the construction of the European
integrated market, indeed, consumers were first protected as the
weak economic entities whose action is based on their supposed
58. R.H. Thaler, C. R. Sunstein, Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness, (New Haven: Yale University Press 2008). According to the authors: ‘A nudge, as we will use the term, is any aspect of the
choice architecture that alters people’s behavior in a predictable way without
forbidding any options or significantly changing their economic incentives. To
count as a mere nudge, the intervention must be easy and cheap to avoid. Nudges are not mandates. Putting fruit at eye level counts as a nudge. Banning junk
food does not’ (p. 6).
Food Cultures and Law
239
ability to take rational decisions59. The composition of the economic interests of professionals and those of consumers requires
that the ‘justice of the market’ is entrusted so that rules can produce a typical order and uniformity. In pursuing the purpose ‘of
the harmonious development of the economic activities within
the European Economic Community’60, the European legislature
has therefore opted for an extension of the protection in favour of
those who are considered to undergo the negative effects of the
asymmetry of contract61. Basically, rules that underpin the European market must comply with three principles: competition, fair
trading and the protection of consumer, which is implemented
through laws finalized to protect his physical integrity, health and
interests from negative consequences arising from poor or fraudulent goods or services. In this sense, the genesis of consumer
law is a case of contraction of private autonomy62, which traditionally is limited only by national laws, some general clauses
and the rules of economic politics. The rules conceived in Brussels bind the action of professionals from a double perspective:
the production, concerning his economic conduct, represented by
the discipline of competition, and the exchange, which is inherent to his responsibilities, to misleading advertising, to linguistic
and symbolic communication.
59. M. Nestle, D. S. Ludwig, Front-of Package Food Labels: Public Health or Propaganda? 303 The Journal of American Medical Association (2010)
p. 771.
60. See Case C–210/96 Gut Springenheide and Tusky v Oberkreisdirektor
des Kreises Steinfurt – Amt für Lebensmittelüberwachung [1998] ECR I–4657,
para 31; Case C–470/93 Verein gegen Unwesen in Handel und Gewerbe Koln
e.V. v Mars GmbH [1995] ECR I–01923, para 24.
61. Art 2 Treaty establishing the European Economic Community (EEC),
25 March 1957.
62. V. Roppo, From Consumer Contracts to Asymmetric Contracts: a Trend
in European Contract Law? 3 ERCL (2009), pp. 304, 349.
240
Cristina Poncibò, Elena Grasso
In this context, the transparency of information ensures its
clarity and truthfulness63. In Europe, the path to the assertion of
a right to full and transparent information begins in 1975, when
the Commission adopted the first action program for consumer protection64. It identifies the right to protection of health and
safety, the protection of economic interests, the right to damages
for defective goods, the provision of consumer information and
education, and the right of representation and consultation at institutional sessions in the framing of decisions affecting them;
the five categories of fundamental rights making up the ‘bill of
rights of consumers’65. Initially, European private law has solved
the problem of distinguishing people through the concept of
status: consumer law protects the right of the group of weaker persons vis-à-vis producers or suppliers of goods or services.
With the Treaty of Maastricht66 the phase dedicated to the consolidation the internal market ended and initiated the new phase
in which EU legislation focused on the consumer as a person in
addition to the consumer as mere market actor. However, it is
with the Treaty of Amsterdam that the protection of the rights
and interests of consumers is identified as one the immediate objectives of the Union67. The requirement for companies to communicate all relevant information to consumers is the objective
of the Green Paper on Consumer Protection in the European Un63. R. Caterina, Architettura delle scelte e tutela del consumatore, Consumatore, Diritti e Mercato (2012) 73, 80.
64. S. Grundmann, W. Kerber & S. Weatherill (eds.), Party Autonomy
and the Role of Information in the Internal Market (Berlin: De Gruyter 2012).
65. Council Resolution of 14 April 1975 on a preliminary programme of
the European Economic Community for a consumer protection and information
policy [1975] OJ C92/1.
66. G. Alpa, Introduzione al diritto dei consumatori (Roma: Laterza 2006).
67. Treaty on European Union, 7 February 1992, Treaty of Maastricht,
[1992] OJ C191/01.
Food Cultures and Law
241
ion68, which focused on the concept of ‘fair commercial practices’ and not only the narrower concept of ‘misleading practices’.
This Green Paper has been followed by the Communication on
the strategy for consumer policy 2002–200669, where the effective
autonomy of consumer choices is related to the enjoyment by the
public of accessible information and data, in attaining the objective
of ensuring a ‘better quality of life for everyone’70. The consumer
is granted the right to receive not only ‘communications’, but also
‘information’, through which he can choose a product in a conscious way: this allows him to not fall into error about the quality
of goods because he has the tool to decode messages and signs71.
This operation is delicate because, at the time of concluding the
contract, the consumer takes into account only some attributes of
the product, generally considered the most relevant, because of
the difficulty to process numerous notions at the same time72. His
limited cognitive resources involve factual choices that give rise
to solutions often not optimal in terms of rational weighting of
68. Art 17 of the Treaty of Amsterdam, amending the TEU, the Treaties
Establishing the European Communities and Certain Related Acts, 2 October
1997 [1997] OJ C340/1: ‘The Commission, in its proposals envisaged in paragraph 1 concerning health, safety, environmental protection and consumer protection, will take as a base a high level of protection, taking account in particular
of any new development based on scientific facts. Within their respective powers,
the European Parliament and the Council will also seek to achieve this objective’.
69. Commission ‘Green Paper on European Union Consumer Protection’
COM (2001) 531 final.
70. Commission ‘Consumer Policy Strategy 2002–2006’ COM (2002) 208
final.
71. E. Ferrante, Contractual Disclosure and Remedies under the Unfair
Contract Terms Directive, in G. Howells, A. Janssen, R. Schulze (eds), Information Rights and Obligations (Farnham, United Kingdom Ashgate 2005).
72. L. Arcelin-Lécuyer, La redondance informative ou le bon sense oublié,
in 5 Contrats, Concurrence Consommation (2011), p. 1. The author argues that
information minutely provided gives rise to a responsibility for the consumer
to be conscious of it.
242
Cristina Poncibò, Elena Grasso
the epistemological elements73: from this point of view, counting
on too much information would mean to have little information74.
The aforementioned reality is well known by the professional,
who often implements conduct aimed to take advantage of inattentive and emotional consumer. Where food is concerned, the reorganization of existing legislation and the enactment of new legislation
has been programmed with the White Paper on food safety of 12
January 200075, which subsequently led to the adoption of Regulation 178/200276. Here, the consumer, in reference to healthy and safe
nutrition, is the recipient of rules that protect him against fraudulent
or deceptive practices (art 8(1)(c)), or practices likely to mislead him
(art 8(1)(c) ). The protection is granted by a set of directives such as
those relating to unfair terms (see Directive 93/13/EEC77), misleading advertising (Directive 2005/29/EC78) and the sale of consumer
goods (Directive 1999/44/EC79). Security and information are the
principles that first affect food law and that will progressively affirm
the need for transparency and the duty to communicate information
relevant to the contract, giving rise to a general trend that pervades
many disciplines80. In a globalized society, in which the exchange of
73. R. Caterina, Psicologia della decisione e tutela del consumatore, 1
Analisi Giuridica dell’Economia (2012), pp. 67, 84.
74. D. Kahneman, Preface, in D. Kanheman, A. Tversky, Choices, values
and frames (Cambridge University Press 2000).
75. G. A. Miller, The Magical Number Seven Plus or Minus Two: Some Limits to our Capacity of Processing Information, 63 Psychology Review (1956),
pp. 81, 97.
76. Commission, ‘White Paper on food safety’ COM (1999) 719 final.
77. Regulation (EC) 178/2002 before.
78. Council Directive 93/13/EEC of 5 April 1993 on unfair terms in consumer contracts [1993] OJ L95/29.
79. Council Directive 2005/29/EC of 11 May 2015 concerning unfair business-to-consumer commercial practices in the internal market [2005] OJ
L149/1.
80. Council Directive 1999/44/EC of 25 May 1999 on certain aspects of the
sale of consumer goods and associated guarantees [1999] OJ L171/12.
Food Cultures and Law
243
goods does not presuppose a linguistic interaction, the label has an
important role, because it makes up for the lack of bargaining among
people, where the homo videns takes the place of homo loquens81.
Unlike financial markets, consumers’ choice in stores is performed
through the preference of one product over another. The importance
of the presentation of such product is clear and is constantly balanced
between the advertising strategies, marketing studies and legislative
requirements. The silent interaction between products and consumers, however, occurs through the label, whose function is twofold: it
makes the market transparent and safe, and it allows the consumer
to make choices that are more rational82. In the silent challenge of the
professional, in search of maximum profit often made by exploiting
the weakness of consumers, the label is a fixed point that is able to
conduct the competition on the tracks of greater equity. The words
and signs are the tool that transmits information from the producer
to the consumer. In this way, the law sets out the proper technical
standards in relation to the label83, so that words and signs constitute
a shared language, are clear, simple and straightforward84, and allow
rational choices to be made85.
81. R. Schulze, ‘Precontractual Duties and Conclusion of Contract in European Law’ 6 ERPL (2005) p. 841, 866. O. Bar-Gill, F. Ferrari, ‘Informing
Consumer about Themselves’ in A. Ogus, W. H. van Boom (eds), Juxtaposing
Autonomy and Paternalism in Private Law (Oxford: Hart 2011); B. Pasa, La
forma informativa nel diritto contrattuale europeo: verso una nozione procedurale di contratto (Napoli: Jovene 2008).
82. The expression belongs to N. Irti, Norma e luoghi: problemi di geo-diritto (Roma: Laterza 2001).
83. Case C–159/09 Lidl SNC v Vierzon Distribution SA [2010] ECR I–1176;
Case C–356/04 Lidl Belgium GmbH & Co. KG v Etablissementen Franz Colruyt NV [2006] ECR I–8501.
84. On the harmonization of technical standard, see: F. Weiss, C. Caupa,
European Union Internal Market Law (Cambridge: Cambridge University
Press 2014).
85. Commission, ‘Language use in the information of consumers in the
Community’ COM (93) 456 final.
244
Cristina Poncibò, Elena Grasso
4. Food Cultures
TL Labelling scheme is problematic because of its impact over
European food cultures and local food. One of the main areas
where EU Member States substantially differ, which presents a
source of their recognisability, and national pride is their culinary
and food traditions, determined by the local climate, as well as
social and cultural factors. French and Italian farmers would not
have stood for a moment for red lights on their meat or their
beloved full fat cheese. Nor, would the French and the Italian
public, who have been enjoying their rich but well-balanced diet
for centuries, and seem no worse for it.
‘Food cultures’ have led to a considerable amount of case law
at European level, initially, in the field of food and beverages.
The interlacing of EU market law and national traditions concerning alcoholic drinks can be found in early tax case law86. In
one case, wine in England was taxed more heavily than beer87.
The majority of cases do not concern the field of taxation, but national laws regulating the food ingredients and their presentation
to protect consumers’ health88.
In considering food cultures in litigation, it could also be
briefly mentioned the ECJ case concerning pasta. In Italy, special
86. P. Nelson, Information and consumer Behaviour, in 78(2) Journal of
Political Economy (1970), p. 311.
87. MacMaoláin (n 47) p. 67.
88. Case C–170/78 Commission v United Kingdom [1983] ECR 2265. We
may (dis)agree over the question of whether beer and wine are to be regarded
as substitutes. However, the Commission alleged that art 90 EC now art 110
TFEU) was being infringed, as wine was disproportionately more heavily taxed
than beer, considering that Britain had practically no domestic wine production.
The British Government, on the other hand, relied on traditional drinking patterns in Great Britain, claiming that beer was a popular beverage, whereas wine
is perceived as a luxury product, thereby denying the possibility to substitute
the two drinks. The Court did not accept this position.
Food Cultures and Law
245
durum wheat (‘grano duro’) was used to prepare pasta and Italian Law prohibited the marketing of any other kind of wheat. The
Italian Government, represented by Advocate General Mancini,
maintained that the prohibition was necessary to protect consumers from eating and buying low-quality pasta89. The ECJ did not
accept the reasoning and concluded that the law presented an unjustifiable measure having an equivalent effect to restriction on
trade in the internal market. The clash between national food culture and market integration also emerges when Member States
try to reserve certain designations of origin for products coming
from a certain region and, consequently, to refuse to import products with the same name. Famous is the feta cheese litigation.
Controversies over the use of the name feta arose before the ECJ
many years ago when a question was referred to the Court whether this name could be used for certain cheeses made from cow
milk90.
In addition, since 2012, many local foods benefiting from the
three European Union schemes of geographical indications and
traditional specialities, known as Protected Designation of Origin (PDO), Protected Geographical Indication (PGI), and Traditional Specialities Guaranteed (TSG)91. In particular, Regulation
89.Case C–178/78 Commission v Germany [1987] ECR 1227. For example, the German Government claimed that a national tradition was the reason
for hindering trade. The tradition involved the prohibition of selling beer that
contained additives, and permitting only beer that was produced in accordance
with the German Purity Law. The German Government claimed that German
consumers associated the designation beer with the traditional German beverage produced according to traditional methods since the time of Martin Luther.
The holding of the Court was national traditions may not be static and EU
Member States, such as Germany, should not regulate them in such a way that
they become so.
90. Case C–407/85 Drei Glocken v USL Centro Sud [1988] ECR 4233.
91. Case C–317/95 Canadene Cheese Trading AMBA cs v Ypourgou Emporiou [1997] ECR I–4681. Original feta is made from sheep or goat milk and
246
Cristina Poncibò, Elena Grasso
1151/2012 ensures that only products genuinely originating in
that region may be identified as such in commerce. The purpose
of the law is to protect the reputation of the regional foods, promote rural and agricultural activity, help producers obtain a premium price for their authentic products, and eliminate the unfair
competition and misleading of consumers by non-genuine products, which may be of inferior quality or have a different flavour.
There is clear tension between integration and national food
traditions where EU law has an impact on people’s way of life,
and in certain areas it interferes in the food cultures that are a
source of national pride. In this respect, national tradition and
culture compete with economic liberalization and market integration92.
Having considered the above, TL Labelling could contrast
with the European quality policies because some of these products protected under PDO, PGI, TSG – recognized as ‘quality
products’ at European level – risk to be identified in red as ‘bad
products’. It will discriminate many quality agro-food products
such as cheese, meat, marmalade, sweets, which would be labelled with a red traffic light due to their content of sugar, salt
and fat. Consumers could perceive this as discrimination towards
certain food and these conflicts with the said Regulation promoting certain traditional agro-food products93.
produced following a traditional process. Over the years, several imitations
have appeared and they were good enough to convince Greeks to import them.
Having conducted some research, the Court finally ruled that various natural
and human factors confirm that the characteristics of feta are an essential result
of a defined geographical area. The judgment protected the Greek food culture
over the interest of the majority of European countries where the famous cheese
was imitated.
92. Council Regulation (EC) 1151/2012 of 21 November 2012 on quality
schemes for agricultural products and foodstuffs [2012] OJ L343/1.
93. N. Carbonennelle, A. Cowper, A. Lim, F. Lotta, M. Oldfield, ‘Coun-
Food Cultures and Law
247
In October 2014, the European Commission sent a formal letter about TL Labelling to the United Kingdom, giving the UK
some months to reply. The Commission notes that the TL Labelling scheme may not be compatible with EU law, following the
complaint of Mediterranean countries that assume the practice
of adopting TL Labelling is, firstly, discriminatory against the
‘Mediterranean diet’ and, secondly, that it could be detrimental
to the free movement of goods, namely food products, in the internal market.
Over the next months, interested parties should observe
whether TL Labelling hinders intra-EU trade, in particular, by
following the development of the use of the scheme on the UK
market in order to avoid obstacles to trade. To date, the EU Commission has not taken formal steps to seek to block the scheme in
the UK, which will result in litigation before the CJEU.
5. Conclusions
The role that the EU may or should play to ensure that the food
we consume keeps us healthy and fit is not very clear: does EU
Food Law protect consumers’ health, in addition to consumers’
safety?
Food labels focusing on nutrition are a fundamental instrument to promote healthy food to consumers. In particular, new
graphical approaches to nutrition labelling aim to increase the
ability of consumers to see, read, interpret and act upon the nutritional information provided on the food packaging. Among the
most controversial approaches to nutrition labelling, ‘signpost latry of Origin Labelling Rules for Prepacked Foods and Ingredients-An International Perspective”, in 6 European Food and Feed Review (2016), p. 472.
248
Cristina Poncibò, Elena Grasso
belling’ particularly seeks to facilitate consumers’ ability in seeing, reading and interpreting nutritional information provided on
the package. For the purpose of this scheme, the colours used in a
set of ‘traffic lights’ are used for each key nutrient, with reference
to definitions of Regulation (EC) 1926/200694.
In this framework, one of these labels – the ‘Traffic Light’
adopted in the United Kingdom – has immediately been very
controversial for various reasons, and particularly regarding its
potential effects on the internal market. Such schemes are therefore scientifically questionable because they establish a distinction between ‘bad’ and ‘good’ foods, and they may affect the
internal market, consumers’ choice and the priceless value of European food cultures.
Originally, nutrition facts tables focused fundamentally on the
provision of information to consumers. The aim of this approach
was to provide consumers with information to enable them to
choose nutritious foods or to verify a nutrition claim made on
the label. TL Labelling, in contrast, aims in some way to promote and encourage the choice of ‘healthier’ foods, or at least
to contribute to initiatives with that aim. Furthermore, focusing
on a single food, the TL scheme cannot take into consideration
the overall diet of a person, which should vary according to the
needs of the individual.
Our conclusion underlines that labelling schemes are becoming different: some labels allow people to be informed in
a more effective way while some emerging schemes, such as
Traffic Light Labelling, are different because they nudge – on
an emotional level – consumers towards some type of food and
94. J. Hojnik, The EU Internal Market and National Tradition and Culture: Any Room for Market Decentralisation?, in 8 Croatian Yearbook of European Law and Policy (2012), pp.117, 142.
Food Cultures and Law
249
away from others. In this respect, given the uncertain compliance
with EU and international law, we note that a nudge consisting of
‘playing with peoples’ emotions’ by expressing through colours
a judgment on food, without taking into consideration the quantities of that food consumed and the lifestyle of the individual
consumer, is not convincing.
The development of graphical labelling thus represents an important shift from the provision of information to the understanding of that information and a nudge into the diets of Europeans.
TL Labelling has the goal to persuade the consumer and, thus,
it is both informative and normative because it expresses values
alongside facts. Persuasion is a result of this more sophisticated
labelling, including graphics, colours, or images that sometimes
may be capable to prey on the consumer’s emotions95.
For example, the TL Labelling scheme would have colour-coded icons for fat, calories, and other aspects of food products according to whether the levels are considered healthy or
unhealthy. Bickering over what red, amber, and green actually
mean is likely to be as difficult – if not more so – than actually
putting the system in place. Some of this bickering is political, of
course, but some will be due to disagreements among health experts over what a proper diet consists of, a debate that is unlikely
to be settled soon among the experts, much less by government.
The goal of TL Labelling is to make people eat healthier with
semi-conscious signals grounding on the use of colours96. This
system does not only inform about nutrition facts (fat, sugar etc.),
95. Council Regulation (EC) 1924/2006 of 20 December 2006 on nutrition
and health claims made on foods [2007] OJ L12/3.
96. E. P. Goodman, ‘Visual Gut Punch: Persuasion, Emotion, and the Constitutional Meaning of Graphic Disclosure’ 99 Cornell Law Review (2014) pp.
514, 567.
250
Cristina Poncibò, Elena Grasso
it influences our minds97. The doctrine of colour psychology studies colours as a determinant of human behaviour, especially in
the field of marketing. The general model of colour psychology
relies on few basic principles, for example: colour can carry specific meaning and the perception of a colour automatically causes
an evaluation by the recipient. The influence of colors on human
beings is in now clearly established. Firstly, the different color
tones affect the mood. Colors and shades of light act on the brain,
which triggers different chemical reactions that can increase or
decrease hormone production by stimulating moods such as sadness or cheerfulness98: red, for example, stimulates aggression,
thanks to increased testosterone and adrenaline production, while
green and blue slow the heartbeat99.
Red may indicate different means (lust, love, excitement), including, as in the case of TL Labelling, negative issues (such as
danger)100. Colour is used as a means to attract consumer attention and to influence his behaviour, but it deals with the subconscious, sometimes with the emotions of individuals.
Even TL Labelling has some some advantages101, the adoption
of the UK Traffic Light Labelling can challenge national food
97. C. Sunstein, R. Thaler (n 75).
98. N. Levy, Neuroethics (Cambridge: Cambridge University Press 2007).
99. M. Kido, ‘Bio-psychological effects of color’, 18 Journal of International Society of Life Information Science (2002), pp. 254-62.
100. J. Minguillon , M.A. Lopez-Gordo, D. A. Renedo-Criado, M. J. Sanchez-Carrion, F. Pelayo, Blue lighting accelerates post-stress relaxation: Results of a preliminary study, 12 (10) PLoS one, (2017), p. 1-16. W. Sroykham,
T. Promraksa, J. Wongsathikun, Y. Wongsawat, ‘The red and blue rooms affect
to brain activity, cardiovascular activity, emotion and saliva hormone in women’, paper presented at the Biomedical Engineering International Conference
(BMEiCON), 2014.
101. C. Piotrowski, Color Red: Implications for Applied Psychology and
Marketing Research 49(1) Psychology and Education: an Interdisciplinary
Journal (2012), pp. 55, 57.
Food Cultures and Law
251
cultures and may affect the shifting concept of healthy food; for
example, the consumer may consider as unhealthy the olive oil
labelled with a red colour, while, in adequate quantities, it has
notoriously positive properties for human health102. Furthermore,
it nudges consumers to buy products with the green symbol,
which implicitly suggests the idea of a conscious choice. Indeed,
it is questionable whether this tool is legitimate and effective.
Different answers can be given to these questions due to the interconnection of scientific, legal and cognitive perspectives. The
advantage of the latest developments in the field of food labelling
is that EU Member States have clearly thought about the legibility and clarity of nutritional labelling. Not only did they decide to
make the calorie count more visible, but also they made the information more prominent, immediately evident. However, what
instrument should they adopt in ensuring that the food we consume keeps us fit and healthy? The case of TL Labelling confirms
the significant difficulties in designing nudges for healthy eating
due to the potential failures of choice architects or regulators and
the complexity in capturing the heterogeneity of food cultures.
102. A. K. Draper et al, Front-of-pack nutrition labelling: are multiple
formats a problem for consumers, in: 23(3) European Journal of Public Health
(2011), pp. 517, 521.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori
e la legislazione inerente l’origine degli alimenti1
Michele A. Fino
Sommario: Introduzione – 1. Designazioni d’origine e denominazioni del formaggio nella Convenzione di Stresa 2. Le Denominazioni di Origine Semplice o di come è cambiato il mondo del vino in cinquant’anni 3. Una svolta
a partire dagli anni ’60 4. Il brodo di coltura e l’inoculo o delle condizioni
necessarie (ancorché non sufficienti) alla (ri)scoperta dell’origine e dei media fra loro 5. L’embrione dell’endiadi giuridica origine-qualità e il segreto
semantico del suo successo 6. Il moltiplicatore.
Introduzione
Negli ultimi decenni, in Italia senza dubbio ma in molti altri Paesi
altrettanto, seppure talora più lentamente, si è fatta strada l’idea
che la qualità di un cibo non possa essere indipendente dall’origine territoriale dello stesso. Assistiamo quotidianamente a una
comunicazione composita all’interno della quale l’origine (intesa
come un riferimento geografico) “fa la differenza” (per citare il
payoff di un noto marchio della salumeria del Nord Italia) come
se essa rappresentasse una metonimia infallibile: saputo il dove,
si può sempre desumere il come. Tale figura retorica fonda la sua
efficacia argomentativa (sempre più apodittica, col passare del
1. J. H. Dundee Millar et al, Double-blind Trial of Linoleate Supplementation
of the Diet in Multiple Sclerosis, in: 1 British Medical Journal (1973), pp. 765, 768.
253
254
Michele A. Fino
tempo, ma non senza sempre nuovi alfieri)2 sulla presunzione che
se si dice dove lo si produce è perché quel determinato alimento
ha una tradizione produttiva; quindi, in quanto aziende alimentari, si è trasparenti in quanto si nutre una motivata sicurezza delle
sue modalità di produzione e della loro efficacia. Viceversa, se si
lascia in ombra tale elemento questo equivale a un’ammissione
implicita di scarsa qualità. Trattasi di un incedere logico che si
iscrive in un filone ben preciso, che sin dalla Loi Chaptal del 28
luglio 18243, vede le produzioni di pregio rendersi riconoscibili
attraverso la rivendicazione della propria origine geografica, con
i conseguenti tentativi, delle produzioni meno pregiate di imitare
gli attributi geografici delle prime.
Scopo di queste note è quello di evidenziare come la relazione
fra qualità e origine abbia ormai assunto caratteri profondamente
tautologici: se un tempo indicare l’origine serviva a garantire la
qualità di un cibo, perché ci si riferiva, solo in casi ben precisi, a
un savoir-faire e a un ambiente con caratteri di specialità, oggi,
2. Il presente contributo ha conosciuto una pubblicazione preliminare, in
una forma meno concentrata sugli aspetti normativi e maggiormente attenta ai
risvolti sociologici, in Comunicazionepuntodoc, Vol. 16, p. 21-42.
3. È il caso del noto giornalista Roberto La Pira, che in un articolo pubblicato da Il Fatto Alimentare il 13 febbraio 2014 (Origine della pasta: perché non
viene indicata chiaramente in etichetta? Le riposte di Barilla, De Cecco, Granoro, Divella, La Molisana, Garofalo, http://www.ilfattoalimentare.it/origine-della-pasta-aziende.html [consultato in luglio 2017]) concludeva «Una cosa però
deve essere chiara a tutti, il “made in Italy” della pasta considerata una delle
migliori al mondo è strettamente collegato al grano duro importato», lasciando
volutamente nell’ambiguità se egli intendesse riferirsi all’origine geografica (il
che appare ovvio, a giudicare dal titolo dell’articolo) ovvero alla qualità del
grano duro, come avevano risposto unanimemente le aziende interpellate in
materia. La questione dell’origine del grano duro (ingrediente prevalente della
pasta, in cui la semola derivata dal cereale costituisce oltre l’80% del peso del
prodotto) è emblematica della vicenda che queste note intendono ripercorrere, ovvero l’ipostatizzazione del concetto di origine, compiuta dalle aziende e,
come visto, da parte di certa stampa di settore, allo scopo di renderla l’unico
elemento degno di apprezzamento da parte dei consumatori.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
255
sempre più spesso, è l’origine vantata l’unica caratteristica speciale di quel cibo.
Questo riflette, a nostro avviso, il compimento di un percorso
socialmente di notevole complessità, che sta peraltro producendo,
per lo meno negli ultimi venticinque anni, anche le sue rilevanti conseguenze giuridiche, sia sotto il profilo prettamente tecnico
che sotto il profilo del cd. “folklore giuridico” che, a dispetto dei
tecnicismi ufficiali, regge e regola le nostre vite come, e talora più,
dei precetti scolpiti negli articoli di legge e nelle norme che l’interpretazione ne ricava. Questo processo, tra le altre cose ha anche allontanato in maniera radicale la sensibilità degli Europei da
quella degli Americani e dei Canadesi, come stanno evidenziando
i negoziati (ovvero la fine dei negoziati) per arrivare al CETA4. E,
non va dimenticato, esso ha portato gli stessi Italiani (e in misura
analoga gli altri Europei del Mediterraneo) a perdere per strada
una visione mediana tra ciò che è generico, legato esclusivamente
4. Art. 1. «Quiconque aura, soit apposé, soit fait apparaître, par addition,
retranchement, ou par une altération quelconque, sur les objets fabriqués, le
nom d’un fabricant autre que celui qui en est l’auteur, ou la raison commerciale
d’une fabrique autre que celle où les dits objets auront été fabriqués, ou enfin
le nom d’un lieu autre que celui de la fabrication, sera puni des peines portées
en l’article 423 du code pénal, sans préjudice des dommages-intérêts, s’il y a
lieu». La norma francese, per la prima volta nell’era contemporanea, sanzionava non solo chi imitava i marchi altrui, ma anche chi dichiarava falsamente un
certo luogo di produzione (le nom d’un lieu autre que celui de la fabrication).
Analoga tutela negativa (la legislazione non imponeva in Francia di dichiarare
il luogo di produzione, ma puniva chi ne indicasse uno falso) era presente anche
negli Stati Uniti già all’inizio del XX secolo, come attesta la deliberazione del
Congresso datata I luglio 1902 (21 U.S.C. § 16, enacted 1902, https://www.loc.
gov/law/help/statutes-at-large/57th-congress/session-1/c57s1ch1357.pdf): «No
person or persons, company or corporation, shall introduce into any State or
Territory of the United States or the District of Columbia from any other State
or Territory of the United States or the District of Columbia, or sell in the District of Columbia or in any Territory any dairy or food products which shall be
falsely labeled or branded as to the State or Territory in which they are made,
produced, or grown, or cause or procure the same to be done by others».
256
Michele A. Fino
alla reputazione aziendale o al grado di confidenza pubblica in un
determinato processo - com’è il caso di un qualsiasi prodotto di
serie, industriale - e ciò che viceversa è biunivocamente legato alla
geografia di un territorio perché strettamente dipendente da fattori
che connessi alla sua peculiare ecologia umana.
Il tutto come se, da questa parte dell’Atlantico, fosse sempre
stato così, mentre i documenti testimoniano che una visione mediana - capace di riconoscere laicamente ruoli distinti e uguale
dignità a origine e processo, in modo da discriminare i casi in cui
l’origine doveva essere tutelata insieme al processo e i casi in cui,
invece ciò non era necessario o auspicabile - era viva e feconda
all’inizio degli anni 50, quando veniva approvata la Convenzione di Stresa (il trattato internazionale che fondava la tutela delle
produzioni casearie tipiche)5, e ancora produceva i suoi effetti
sul nostro primo testo normativo nazionale di carattere generale,
dedicato ai vini a denominazione: il D.P.R. n. 930 del 1963.
1. Designazioni d’origine e denominazioni del formaggio nella Convenzione di Stresa
Il 1 giugno 1951, alcuni paesi europei stringevano a Stresa, sul
Lago Maggiore, un patto per la tutela dell’arte casearia dei propri
paesi. Un atto politico di straordinaria lungimiranza se si pone
mente al fatto che la Seconda Guerra Mondiale era finita da poco
5. Cfr. B. O’Connor, The legal protection of Geographical Indications
in the EU’s Bilateral Trade Agreements: moving beyond TRIPS, in Rv. Dir.
Alim., VI.4, Dicembre 2012, 39 ss., http://www.rivistadirittoalimentare.it/rivista/2012-04/2012-04.pdf (consultato in luglio 2017) e il più recente B. O’Connor, Geographical Indications in CETA, the Comprehensive Economic and
Trade Agreement between Canada and the EU, in http://www.origin-gi.com/
images/stories/PDFs/English/14.11.24_GIs_in_the_CETA_English_copy.pdf
(consultato in luglio 2017).
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
257
più di un lustro e il problema avrebbe ben potuto essere derubricato a “secondario”, per un continente la cui autosufficienza alimentare era ancora una mera speranza (non a caso, sarebbe stata
questa la ragione del ruolo attribuito al sostegno all’agricoltura
nel bilancio della nascente CEE, sei anni più tardi)6 e quando il
piatto si riempiva, lo si doveva alla generosità del Piano Marshall, più che alla produzione alimentare europea.
Nella Convenzione di Stresa vengono finalmente messi a fuoco, in chiave di protezione, i nomi che la tradizione ha radicato
nei Paesi firmatari. Tuttavia, questi nomi sono suddivisi in due
categorie diverse corredate da livelli di protezione ben distinti.
Sgombriamo subito il campo da equivoci: nulla a che vedere con
la moderna dicotomia tra DOP e IGP, a cui da consumatori possiamo
essere avvezzi e che non è assimilabile, perché sia le Denominazioni
di Origine Protetta che le Indicazioni Geografiche Protette sono attualmente legate a un territorio e le produzioni che ne portano i segni
distintivi debbono avere almeno una fase produttiva (per le IGP) ovvero tutte le fasi produttive (nel caso delle DOP) svolte nel territorio
necessariamente individuato e delimitato dal disciplinare relativo7.
Nella convenzione di Stresa i nomi dei formaggi erano suddivisi in due categorie a seconda che i paesi firmatari volessero
riservarne al proprio territorio nazionale (e in particolare a quel
6. Per una panoramica sul contenuto e gli esiti della Convenzione di Stresa,
cfr. B. O’Connor, The Law of geographical Indications, Cameron May, London,
2004, 34 ss. Per un suo inserimento nella storia della tutela della proprietà intellettuale e delle Indicazioni Geografiche, cfr. M.A. Echols, Geographical Indications for Food Products: International Legal and Regulatory Perspectives,
Kluver Law International, Alphen aan den Rijn, 2008, 34 ss. Il testo della Convenzione può essere consultato su una pagina web della Confederazione Elvetica,
anche se essa non pubblica gli allegati alla convenzione stessa https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19510137/200503290000/0.817.142.1.pdf.
7. J.T.S. Keeler, Agricultural Power in the European Community: Explaining the Fate of CAP and GATT Negotiations, in: Comparative Politics, 28.2
(Jan. 1996), 127 ss (in particolare, 136 ss.).
258
Michele A. Fino
lembo di esso, in cui formaggio ebbe storicamente origine) la produzione: è il caso delle designazioni di origine. Questi formaggi
elencati nell’allegato A della convenzione non potevano venire
prodotti altrove; il loro nome era protetto sia contro l’abuso, da
parte di chi producesse al di fuori dell’area delimitata, ma anche
contro la sua rievocazione, mediante parole che riecheggiassero
l’originale parlando di “stile” o “tipo”8. L’Italia volle in questo
elenco Parmigiano Reggiano, Gorgonzola e Pecorino Romano.
I Paesi contraenti si promisero reciprocamente attività di prevenzione e contrasto delle violazioni e questo è certamente un
antesignano rilevante dell’attuale modello normativo continentale, che impegna gli Stati Membri dell’UE a tutelare le IGP e le
DOP degli altri paesi sul proprio territorio, ma anche un precedente che spiega adeguatamente il modello di tutela della Indicazioni Geografiche accolto nell’accordo TRIPs, nell’ambito della
World Trade Organization9.
Tuttavia, ai fini di questo saggio, le designazioni di origine
non sono la parte più interessante della Convenzione di Stresa,
anche perché il loro legame genetico con le DOP e le IGP attuali
non appare particolarmente bisognoso di approfondimenti. Assai
più interessanti in quanto ormai fossili giuridici, sono le denominazioni normate a Stresa.
8. Così prevede la definizione delle Denominazioni di Origine Controllata
e, rispettivamente, delle Indicazioni Geografiche Protette, contenute in Reg. CE
2081/1992 (art. 2 c.2 lett a) e b)) e confermate nelle loro linee costitutive sia nella riforma del 2006 (Reg. CE 510/2006) sia nell’ultima, importata dal Reg. UE
1151/2012.
9. Art. 3 Le «designazioni d’origine», il cui uso, sul territorio di una delle
Parti contraenti, è disciplinato da norme pubbliche interne e riservato ai formaggi tradizionalmente fabbricati o raffinati in determinate regioni conformemente agli usi leali e costanti del luogo, sono elencate per paese nell’Allegato
A3; esse sono esclusivamente riservate a detti formaggi tanto se sole quanto se
accompagnate da un aggettivo qualificativo o da una espressione che ne corregga il significato, come «tipo», «uso», «genere» o altro.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
259
Le denominazioni erano nella Convenzione i nomi tradizionali di formaggi che certamente derivavano da una storia certamente collocabile geograficamente, in uno dei Paesi firmatari.
Questo Paese, in virtù della sua metaforica paternità, aveva riconosciuto il diritto di definire le modalità produttive del formaggio, in maniera vincolante: allo stato firmatario che avesse visto
nascere sul proprio territorio un formaggio di cui desiderava tutelare la denominazione, era data la facoltà esclusiva di redigerne
la “legge-ricetta”.
Da questa “legge-ricetta” tuttavia, era espunta l’origine in
termini di territorio delimitato in cui solo potesse nascere il formaggio. Applicando la ricetta normata, in tutto il territorio dello
Stato firmatario di origine si poteva produrre quel formaggio e,
cosa ancor più rilevante, lo stesso avrebbero potuto fare tutti gli
altri Stati aderenti alla Convenzione. Unica cautela, per questi
ultimi: la denominazione avrebbe dovuto essere accompagnata
dall’aggettivo nazionale di provenienza effettiva. Così, ai sensi
della Convenzione di Stresa, diveniva possibile produrre fontina
francese ovvero camembert svizzero o emmenthal italiano, assicurando ai consumatori un’informazione adeguata.
L’elenco delle denominazioni che divenne possibile produrre
in tutti gli stati firmatari, purché nel rispetto del metodo normato
dal paese di origine, è iscritto nell’allegato B alla Convenzione
ed in esso compaiono molti nomi che, successivamente al 1992,
sarebbero diventati DOP e IGP dell’Unione Europea. Una circostanza che avrebbe determinato la fine della loro produzione al di
fuori dei territori rigorosamente delimitati nei disciplinari redatti a
norma del Reg. CE 2081 del 1992, non senza qualche residuo problema di coordinamento tra diritto comunitario e Convenzione10.
10. Basti un rapido confronto con i primi due comma dell’articolo 23
dell’Accordo TRIPs (che si riferisce alla protezione delle Indicazioni Geogra-
260
Michele A. Fino
La portata dell’impianto riservato alle denominazioni nella Convenzione di Stresa appare oggi tanto più rimarchevole se si pone
mente al fatto che l’accordo del 1951 era aperto: esso aveva cioè una
serie di Paesi che lo avevano voluto inizialmente, ma chi intendesse
accettarne le regole poteva sottoscriverlo successivamente, acquisendone gli oneri e gli onori da esso garantiti. La serietà di queste
denominazioni e della loro disciplina era misurabile grazie al fatto
che una designazione di origine poteva divenire una denominazione
(per volere del Paese di origine, evidentemente) ma non viceversa11:
era ammesso passare dallo speciale al generale, ma non viceversa.
2. Le Denominazioni di Origine Semplice o di come è cambiato il mondo del vino in cinquant’anni
Anche il DPR 930 del 1963, prima disciplina organica delle denominazioni di origine per il vino italiano, promulgato tredici
fiche relative agli alcolici): 1. Ciascun Membro prevede i mezzi legali atti a
consentire alle parti interessate di impedire l’uso di un’indicazione geografica
che identifichi dei vini per vini non originari del luogo indicato dall’indicazione geografica in questione, o di un’indicazione geografica che identifichi degli
alcolici per alcolici non originari del luogo indicato dall’indicazione geografica
in questione, anche se la vera origine dei prodotti è indicata o se l’indicazione
geografica è tradotta o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”,
“stile”, “imitazione” o simili. 2. La registrazione di un marchio per vini che
contenga o consista in un’indicazione geografica che identifichi dei vini o di un
marchio per alcolici che contenga o consista in un’indicazione geografica che
identifichi degli alcolici è rifiutata o dichiarata nulla, ex officio se la legislazione di un Membro lo consente o su richiesta di una parte interessata, per i vini o
gli alcolici la cui origine non corrisponda alle indicazioni.
11. Il riferimento è al caso Cambozola (C-87/97), deciso nel 1999 dalla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea e scaturito da un rinvio al giudice comunitario da parte dell’Handelsgericht viennese, che si interrogava rispetto alla
compatibilità fra il contenuto della protezione determinata dalla Convenzione
di Stresa e il diritto comunitario in materia di DOP e IGP, con specifico riguardo
al tema della libera circolazione delle merci.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
261
anni dopo la firma della Convenzione di Stresa, conteneva un
elemento con dei significativi tratti comuni alle “denominazioni”
della Convenzione di Stresa, sebbene al tempo stesso evidenziasse già come nel vino il legame biunivoco vitigno-territorio
delimitato rivestisse una tradizione di forza maggiore rispetto a
quello formaggio-territorio.
L’elemento a cui ci riferiamo è quello costituito dalle “denominazioni di origine semplice” che venivano normate dall’articolo 3 del D.P.R. 93012.
Oggetto della disciplina era un vino in cui l’elemento della
varietà di uva utilizzate era determinante, rispetto all’elemento
geografico, anche se quest’ultimo rimaneva un necessario corredo dei vitigni tradizionali impiegati, in un duplice modo: solo i
vini da vitigni tradizionali di un territorio avrebbero potuto dare
origine a vini a denominazione di origine semplice e comunque
tali vini sarebbero potuti venire da uve di quella cultivar tradizionale solo se coltivate in una zona che competeva al Ministero
dell’Agricoltura definire mentre, in mancanza di tale definizione,
avrebbe avuto come territorio quello del comune cui si riferiva la
denominazione di origine semplice.
Un dettato normativo pensato per dare un contenuto affidabile
ai tanti vini tipici di questo o quel comune, eredità della storia,
non prevedeva, però, un disciplinare che ne regolasse le modalità
di produzione e offrisse quindi ai consumatori un certo standard
qualitativo. A contribuire alla scarsa qualità definitoria della categoria (forse corresponsabile della scarsa fruizione storica della medesima e della sua scomparsa, per un sostanziale non uso,
prima ancora che la successiva l. 164/1992 non ne facesse più
12. Un rapporto analogo a quello che la legislazione europea instaura tra
DOP e IGP: una Denominazione di Origine Protetta può essere trasformata in
una Indicazione Geografica Protetta, ma non può accadere il contrario.
262
Michele A. Fino
menzione alcuna), anche il fatto che il concetto di “vitigno tradizionale” non trovava alcuna definizione nel DPR, limitando nei
fatti l’operatività della previsione normativa13.
A questo punto, da un parallelo tra le fonti esaminate ci sembra particolarmente utile. Se a Stresa, per il mondo della produzione casearia, si prevedeva espressamente, pur in una prima forma internazionale di riconoscimento delle specialità, il caso delle denominazioni che, benché originarie di un Paese, venivano
però espressamente ammesse alla produzione in qualsiasi altro
Paese firmatario, nel mondo del vino le cose, a livello nazionale,
appena 12 anni dopo, erano già ben diverse. Ogni attribuzione
di denominazione enologica - intesa come riferimento a un luogo, ancorché semplice e priva di attributi normativi relativi alla
produzione che ne garantissero una qualità superiore alla media,
vale a dire in assenza di una “legge-ricetta” - rimaneva connessa
a un territorio comunque individuato, anche se non propriamente
delimitato.
3. Una svolta a partire dagli anni ’60
Da quanto premesso, possiamo dedurre che la Convenzione di
Stresa e il DPR 930/1963 restituiscono alla lettura una sensibilità italiana, e in parte europea, che, all’indomani della Seconda
13. «La denominazione di origine semplice designa i vini ottenuti da uve
provenienti dai vitigni tradizionali delle corrispondenti zone di produzione,
vinificate secondo gli usi locali, leali e costanti delle zone stesse. Alla delimitazione di tali zone si provvede con decreto del Ministro per l’agricoltura e le
foreste di concerto con il Ministro per l’industria e commercio. In mancanza del
provvedimento ministeriale di delimitazione la zona di produzione si intenderà
costituita dall’intera circoscrizione dei Comuni ricadenti nel territorio cui si
riferisce il nome o qualificazione geografica assunto come denominazione di
origine del vino».
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
263
Guerra Mondiale, non aveva ancora intrapreso con decisione la
strada attualmente percorsa per la protezione delle specialità alimentari e, in particolare, non aveva ancora scavato il solco, oggi
assai profondo, tra la propria visione in tema di denominazioni e
quella che regge l’impianto normativo statunitense o canadese.
Le denominazioni generiche nel mondo del formaggio abbondavano, l’accordo Stresa aveva in qualche modo cercato di
regolarne l’uso, agganciandolo a un modus producendi normato
necessariamente dal paese d’origine: il prezzo della rinuncia di
quest’ultimo a rivendicarne la produzione esclusiva.
Ma anche nel mondo nel vino c’era ancora molto in comune
tra Vecchio e Nuovo Mondo: non si pensi solo ai vini a denominazione di origine semplice, ma anche ai molti “champagne” che
si producevano in luoghi diversi e lontani dalla Champagne e con
vitigni che nulla avevano a che vedere con Pinot Noir, Meunier
e Chardonnay, non diversamente da quanto continua ad accadere negli USA, dove la metà delle bottiglie stappate, che recano
la denominazione “champagne” non vengono dalla Francia14 e
possono non essere prodotte usando la “méthode champenoise”.
Che cosa è accaduto per interrompere una tradizione molto più
composita dell’attuale? Quale mutamento culturale è intervenuto,
capace di spostare in modo radicale l’attenzione sull’elemento ter14. Solo di recente, peraltro in conseguenza della tendenza che con queste poche pagine stiamo cercando di seguire, qualcosa di simile è nuovamente
entrato nella legislazione nazionale. Ci riferiamo all’art. 6 della l. 238/2016
che ha previsto la tutela del “vitigno autoctono italiano” o “vitigno italico”.
Anche in questo caso, le modalità scelte per individuare cosa sia autoctono non
lascia prevedere una facile applicazione della norma, pur teoricamente lodevole nell’obbiettivo, oltre a limitare all’etichettatura dei vini DOP e IGP l’esito
della tutela di cosa sia autoctono: una circostanza che non appare pienamente
congruente con l’obbiettivo di salvaguardare l’ancora imponente patrimonio di
biodiversità ampelografica italiana, solo in parte rientrante nei disciplinari di
produzione dei vini DOP e IGP.
264
Michele A. Fino
ritoriale da cui origina un prodotto, fino al punto da farlo diventare
assorbente di ogni altra prerogativa (addirittura del metodo di produzione) sì da spingere anche chi non produca specialità alimentari
a cercar di accreditare la propria produzione come tipica in virtù
del richiamo ad un areale, anche scapito di ogni considerazione per
le caratteristiche intrinseche del prodotto?
A nostro avviso, la contemporanea ossessione per l’origine e il
simmetrico e contrario calo di interesse per i protocolli produttivi
(o almeno la minore importanza attribuita questi ultimi) affondano
le radici, in un certo senso paradossalmente, nell’inurbamento e
nella massificazione della produzione alimentare industriale.
Nessun evento, comprese guerre, conquiste e invasioni del
passato, ebbe un impatto analogo sulle modalità di consumo di
cibo nel mondo occidentale prima della metà del XX secolo:
enormi masse di popolazione smisero di vivere in e di campagna
(per citare una felice espressione di Luigi Costato), per causa
dell’ormai globale industrializzazione e della contemporanea
“green revolution”.
Sempre meno contadini, anche gli Italiani iniziarono a dipendere, in misura crescente dalla produzione di massa di generi alimentari che sino a pochi anni prima era abitudine (ove non obbligo sociale
oltre che economico) produrre per conto proprio, a partire da materie
prime anch’esse, a loro volta, autoprodotte. Gli esiti di questo colossale cambiamento di costume investono oggi persino la frazione,
ormai minuscola, di Italiani rimasti dediti al lavoro dei campi: anche
nelle loro cucine i cibi nascono in misura preponderante da materie
prime acquistate al supermarket, quando non si tratta addirittura di
cibi pronti da consumare, acquistati dalla grande distribuzione organizzata per soddisfare le ordinarie esigenze quotidiane.
A livello alimentare, l’inurbamento è diventato, dagli anni ’60
in poi, culturalmente egemone e del tutto indipendente dall’effettivo trasferimento fisico nelle città.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
265
Ebbene, in questo terreno di coltura, è cresciuto un sentimento che certamente su basi romantiche, oltre che su una consistente necessità di (ri)costruzione dell’identità, ha riconosciuto nella
provenienza da un determinato luogo una prerogativa assolutizzante. Forse perché gli Italiani, ormai massicciamente conquistati da una modernità urbana, fisicamente o mentalmente, hanno
avuto così modo di riannodare i fili con una tradizione rurale, peraltro abbastanza spesso inventata ma tuttavia funzionale a dare
loro un’identità, capace di offrire riparo e sollievo dai marosi del
continuo cambiamento imposto dallo sviluppo.
4. Il brodo di coltura e l’inoculo o delle condizioni necessarie
(ancorché non sufficienti) alla (ri)scoperta dell’origine e
dei media fra loro
La scintilla capace di innescare il processo di cui ci stiamo occupando è scoccata quando si sono realizzate, fra le certamente
molte altre che possono essere investigate, due condizioni, legate
fra loro dallo sviluppo e dalla diffusione dei media. L’acciarino è
stato, comprensibilmente, l’aumento del benessere generale e del
reddito pro capite, condizioni necessarie, sebbene non sufficienti,
al moltiplicarsi degli stili di vita e di consumo, improntati alla
costruzione di nuove identità sociali.
La pietra focaia è stata rappresentata, a più riprese come in
ogni accensione che si rispetti, dai pionieri della riscoperta: da
Mario Soldati a Carlo Petrini, passando per Luigi Veronelli, l’Italia ha visto all’opera, fin dai giorni del “Viaggio sul Fiume Po
– Alla ricerca dei cibi genuini”, alcuni uomini, dapprima soprattutto di cultura, quindi sempre di più politici15, che hanno traccia15. Sul contrasto di opinioni e di condotte riguardo al nome “champagne”
266
Michele A. Fino
to come via del recupero necessario quella che conduceva alla
riscoperta del patrimonio gastronomico nazionale, inteso come
la sommatoria delle specialità gastronomiche locali.
Certo, molti altri nomi potrebbero essere fatti per illustrare
questo andamento culturale, ma i tre indicati hanno valicato i
confini della enogastronomia, divenendo campioni tout court
della difesa del cibo autentico agli occhi non di una platea di appassionati di settore, bensì di un pubblico generalista. Per questo
valgono una menzione in queste pagine.
L’onda lunga, che proprio il fortunatissimo programma di
Soldati ebbe modo di precorrere se non inaugurare agli occhi dei
più, ha portato nel tempo a un vero e proprio fiorire di ritrovamenti gastronomici locali, cresciuti in maniera geometrica dagli
anni ’90 in poi. Più o meno autenticamente tradizionali, più spesso semplicemente tipici e talora addirittura creati ad arte, essi
rispondono spesso alla necessità di distinguere un areale, da uno
ad esso magari assai prossimo, per il tramite di un prodotto magari sostanzialmente identico, ma che l’orgoglio campanilistico
vuole unico, nonostante manchino caratteristiche intrinseche o
storia di adeguata singolarità.
Tutto ciò, su un piano forse più propriamente etnografico, ha
preparato il terreno, tra le altre cose, a centinaia di sodalizi dai
fra Francia ed Europa da un lato e USA dall’altro, cfr. le utili ricostruzioni
di C. Robertson, The Sparkling Wine War: Pitting Trademark Rights Against
Geographic Indications, in Business Law Today, 18.5 (May/June 2009), pp. 18
ss. e, anche allo scopo di apprezzare l’evoluzione della sensibilità americana
rispetto al tema delle indicazioni geografiche, il datato ma efficace, A.P. Knoll,
Champagne¸ in The International and Comparative Law Quarterly, 19.2 (Apr.
1970), pp. 309 ss. A proposito dell’evolvere della sensibilità americana per le
indicazioni geografiche e delle questioni emerse con riferimento alle scelte operate, in particolar modo riguardo alle indicazioni geografiche del vino, cfr. M.
Maher, On vino Veritas? Clarifying the Use of Geographic References on American Wine Labels, in California Law Review, 89.6 (Dec. 2001), pp. 1881 ss.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
267
nomi più disparati, ma quasi sempre afferenti, per nome o simbologia, a un passato vagamente medievale (idealizzato, com’è
tipico dell’approccio romantico che, abbiamo già detto, è fra i
componenti di questo vasto movimento dagli anni ’60 del secolo
scorso in poi): confraternite, ordini cavallereschi, congregazioni
del tubero, del cacio o del grappolo.
Tuttavia, di ben maggiore momento ci appaiono altre conseguenze del successo di questo processo, sempre più imponente col
passare degli anni: in primis, vanno menzionate le mode passatiste in ambito alimentare (tutto ciò che è antico viene comunicato
assiomaticamente come più salubre di ciò che è moderno) e l’esaltazione delle autonomie culturali locali, a detrimento ove non
addirittura in contrapposizione a identità, sociali e politiche, più
vaste (ciò che gastronomicamente ha distinto fortemente l’evoluzione di Francia e Italia, negli ultimi decenni). In secundis, ed è ciò
che maggiormente qui interessa, sotto il profilo giuridico, a partire
dagli anni ’70, il substrato culturale preparato dai pionieri ha agevolato i primi passi verso il riconoscimento normativo, e la corrispondente tutela, delle specialità alimentari legate ad un territorio.
5. L’embrione dell’endiadi giuridica origine-qualità e il segreto semantico del suo successo
Nel 1970, con una legge di iniziativa parlamentare, viene tutelata
la denominazione di origine Prosciutto di Parma16. La norma nazionale chiaramente ricalca il modello della legge DOC del 1963,
nello stile e nei contenuti, oltre che nell’organizzazione interna.
16. Emblematica in questo senso la parabola di Luigi Veronelli, da giornalista, autore e conduttore a fautore di misure politiche, ancorché locali, particolarmente pregnanti e non prive di conseguenze problematiche sul piano giuridico, come le De.Co.
268
Michele A. Fino
Non è solo una curiosità constatare che l’areale produttivo,
per quanto concerne la trasformazione, è il medesimo che poi
sarà confermato alla concessione della DOP, nel 1996, arrivando
inalterato fino ai giorni nostri. Analogo discorso può farsi per il
divieto di conservanti, ad eccezione del sale, e trattamenti congelanti.
L’area di allevamento dei suini, invece, già nel 1970 era pari
all’intero territorio regionale di Piemonte, Lombardia, Veneto ed
Emilia, mentre oggidì a queste regioni sono aggiunte Toscana,
Umbria, Marche, Lazio Abruzzo e Molise. E questo particolare
svela l’ultimo arcano della più recente attenzione normativa per
l’origine, costruita sulla sua percezione sociale: essa non è (scil.
non può essere) che un concetto mutevole, una verità dinamica,
formata di volta in volta dal sentire sociale che fonda le scelte
giuridiche e molto poco, ovvero quasi per nulla, connotata da
caratteri omogenei e men che meno oggettivi.
L’origine, nel caso del prosciutto di Parma, dalla legge del
1970 alla DOP attuale17, si collega nel territorio dove le carni
si salano e si stagionano. Si tratta, chiaramente, di una convenzione, poiché in modo altrettanto legittimo si potrebbe (o si sarebbe potuto) affermare che l’origine sia da collocarsi nel luogo
dove i suini, oltre che lavorati, sono allevati (per analogia con il
Parmigiano Reggiano DOP, ad esempio, la cui origine si colloca
laddove il latte viene munto e non solo dove viene lavorato) o,
altrettanto legittimamente, si sarebbe potuta restringere l’area al
17. Si tratta della legge 506 di quell’anno, rubricata “Norme relative alla
tutela della denominazione di origine del prosciutto di Parma, alla delimitazione del territorio di produzione ed alle caratteristiche del prodotto” a prima firma
del deputato Pietro Micheli, nativo di Bedonia, nel cuore dell’area collinare
della provincia parmense, dove ab antiquo l’arte di usare l’aria proveniente dal
mar Tirreno attraverso i valichi appenninici, per asciugare le carni suine fino a
renderle degne del nome inequivocabile di persuctum, aveva trovato sviluppo
e tradizione.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
269
luogo dove non solo si lavorano e allevano i maiali ma vengono
anche prodotti gli ingredienti dei mangimi che la fisiologia del
maiale trasforma nelle proprie carni (per analogia ai vini a denominazione di origine, tali perché le uve da cui si ricavano sono
raccolte da piante coltivate in un ben delimitato areale).
Ogni scelta avrebbe avuto cittadinanza nel quadro legale europeo dal 1992 in poi e questo chiarisce un dato fondamentale:
l’opzione per un livello diverso di limitazione risponde a logiche
economiche, alle quali il significato, per di più prescrittivo, di
“origine” si adegua.
Apparentemente, questo rappresenta un’inconfessabile debolezza semantica del segno “origine”. Invece, a nostro parere, proprio la labilità del suo significato ha permesso al concetto di diventare ciò che è attualmente nell’attenzione del produttore come
del consumatore: all’origine si può attribuire il senso che si vuole,
stante la mutevolezza di ciò che essa è culturalmente, a seconda del
tipo di alimento e di produzione connessa. E questo non impedisce
nè riduce la possibilità di trattarla come un totem: a dispetto di un
significato non univoco, rimane facile attribuirle qualità taumaturgiche e addirittura meta-significati, secondo le proprie inclinazioni
e i propri bisogni. Tra questi ultimi si collocano, a pieno diritto, le
interpretazioni assolutizzanti della qualità di ciò che ci nutre come
effetto del sapere in quale luogo lo si produce.
4. Il moltiplicatore
Se gli effetti della tendenza ad individuare ed esaltare il valore
dell’origine, negli anni 70 e 80, potevano considerarsi limitati dal
fatto che la cultura gastronomica rimaneva un genere, appannaggio
di un ristretto novero di “connoisseurs” e ghiottoni, con l’esplosione di Internet negli anni ’90 - e, dieci anni dopo, con l’affermazio-
270
Michele A. Fino
ne dei social network, che dei contenuti di Internet costituiscono la
(per ora) definitiva democratizzazione/volgarizzazione - abbiamo
assistito all’inedito esperimento sociale consistente nell’inoculare un assioma (per comodità: l’origine fa la differenza), che per
gli esperti in grado di maneggiarlo presentava un basso livello di
rischio, nella cultura di massa. Ciò ha comportato una semplificazione estrema, così il segno “origine” e il suo corredo semantico si
sono avviati verso una straordinaria, generalizzata perdita di senso,
le cui conseguenze ultime non sono ancora nemmeno preconizzabili, anche se, sotto il profilo giuridico, possiamo evidenziarne
qualche inquietante segno premonitore.
Quando nel preambolo dell’attuale Regolamento Europeo
sull’etichettatura alimentare (Reg. UE 1169/2011) leggiamo che
i consumatori per fare scelte coerenti e consapevoli hanno diritto
a conoscere l’origine delle carni18, di qualsivoglia animale macellato, come del latte e di ogni ingrediente che superi da solo
il 50% del peso finito dell’alimento19 (com’è per il grano duro
nella pasta) stiamo assistendo all’esito ultimo dell’inoculo del
concetto indefinito di “origine” nel main stream culturale. Infatti, riflettendo sul testo normativo, è legittimo chiedersi se, tono
assertivo a parte, esista davvero questo nesso causale tra origine
geografica e possibilità di scelte consapevoli.
18. Il cui atto costitutivo è rappresentato dal riconoscimento della DOP
datato 12 giugno 1996: Regolamento (CE) n. 1107/96 della Commissione.
19. Considerando n. 31: «Come conseguenza della crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina, l’indicazione dell’origine è attualmente obbligatoria
per le carni bovine e i prodotti a base di carni bovine all’interno dell’Unione
(1) e ha creato aspettative nei consumatori. La valutazione d’impatto effettuata
dalla Commissione conferma che l’origine delle carni sembra essere la preoccupazione principale dei consumatori». La Commissione basa la proposta di
dichiarazione dell’origine delle carni sulla valutazione della considerazione dei
consumatori per questo elemento. La legislazione sul punto è quindi opinion
based, con tutto ciò che questo comporta.
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
271
E la risposta non può che essere negativa.
Per chiarirlo con un esempio: non vi è nulla nell’origine del
latte, all’interno di Paesi Membri dell’UE, che rappresenti di per
sé, ovvero in base agli stili e ai mezzi di produzione attuali, una
sostanziale differenza di standard produttivo: sia che si parli di
razze animali (ovunque il latte vaccino viene munto, al 90%, da
vacche di razza Frisona –Holstein), di conoscenze agronomico/
zootecniche (le conoscenze in materia di allevamento e nutrizione degli animali sono assolutamente omogenee nel Vecchio Continente) e men che meno di norme di benessere animale e sicurezza degli alimenti, che sono armonizzate verticalmente proprio
dai regolamenti europei.
Dunque a cosa serve richiedere a gran voce l’origine della
materia prima latte?
In buona misura, tale richiesta serve, ai suoi sostenitori, per
promuovere scelte improntate a logiche nazionalistiche da parte
dei consumatori. In tal modo, si corrobora il potere dei fautori di
questi comportamenti (associazioni di consumatori, movimenti
culturali, stampa schierata): se possono orientare i consumatori,
acquisiscono un’influenza direttamente proporzionale al timore
che suscitano.
Al contempo, queste campagne offrono un palcoscenico ad associazioni di categoria e sodalizi gastronomici nazionali di varia natura, che possono così vantarsi di fare l’interesse dei propri assistiti,
mentre politici sempre in cerca di occasioni per “battere i pugni sul
tavolo” dell’Unione Europea, ottengono il proverbiale quarto d’ora
di celebrità. Il tutto senza che l’origine morava, italiana od olandese
del latte, significhi assolutamente nulla in termini di qualità basata
su evidenze empiriche e non semplicemente sull’emotività, per il
consumatore. Un dato di fatto difficilmente confutabile, almeno finché le bovine saranno nella stragrande maggioranza dell’unica razza lattiera affermatasi a livello planetario; alimentate con una dieta
272
Michele A. Fino
basata su soia, silomais e (poco) altro, proveniente da diversi luoghi
del Pianeta; custodite e munte secondo i tettami dell’unica zootecnia insegnata in tutto il mondo e nel rispetto di regole che valgono,
uguali, almeno per tutto il continente europeo.
D’altra parte, è certo che esistono casi in cui è effettivamente utile imporre l’obbligo dell’indicazione relativa all’origine.
Tuttavia, l’unico fondamento compatibile con i principi fondanti
della stessa Unione Europea, di una scelta a favore del generale
dovere di informare i consumatori rispetto all’origine geografica
di un cibo, risiede nella necessità che gli stessi non risultino ingannati (e dunque, la mozzarella fatta a Karlsruhe, venduta in un
packaging con il Tricolore e il nome di Bela Napoli, me lo deve
dire di essere made in Germany: così come l’Edam fatto a Berna
doveva riportare l’aggettivo “svizzero”) oppure allarmati genericamente da una frode alimentare o da un’epizoozia occorsa in
un paese membro o al di fuori dell’Unione, perché i gli effetti dell’allarme suscitato potrebbero essere peggiori di qualsiasi
comportamento nazionalistico e protezionistico.
Tuttavia, questi obblighi e queste misure sussistono da tempo:
il dovere di indicare l’origine è stata la misura utilizzata alla fine
degli anni ’80, quando l’allora CEE mise al bando gli ormoni
della crescita fino ad allora usati nell’allevamento degli animali
da carne. In quel frangente, l’indicazione obbligatoria dell’origine servì a ristabilire la fiducia dei consumatori nella carne europea, per garantire stabilità al mercato. E non mancò di causare
pesanti conseguenze sul piano internazionale, con gli strascichi
legali che ne conseguirono, oltre all’inasprimento di molteplici
relazioni commerciali, in particolar modo con il Nord America,
che risultano tutt’ora non superate: basti un rapido esame dei resoconti relativi ai dibattiti sul TTIP e sul CETA.
Analogamente, nei giorni più bui dell’epidemia di BSE (la
cosiddetta sindrome della “mucca pazza”) proprio il generale
L’interazione fra la sensibilità dei consumatori e la legislazione [...]
273
dovere di indicare la tripla origine della carne bovina (rispettivamente, luogo di nascita, allevamento e macellazione) fu il più
evidente (e celebrato) strumento di difesa attiva del settore zootecnico continentale, colpito da un cambio nei consumi di carne
(dal bovino ad altre specie) tanto violento quanto repentino e,
fortunatamente, non troppo duraturo.
Risulta però ovvio che slegate dalle necessità contingenti
esemplificate e quindi fuori dai casi di contrasto ad un ben preciso
problema connesso alla fiducia dei consumatori, le informazioni
obbligatorie generalizzate inerenti l’origine risultano carenti di
una giustificazione. Esse aggravano inutilmente i costi per i produttori e, invece di costituire informazione per i consumatori, si
trasformano in un mero, ulteriore strumento di marketing emozionale a disposizione delle aziende e dei sodalizi che derivano
il proprio rango dall’influenza che hanno sui cittadini. Così, un
legislatore che appare poco preoccupato di mantenere la necessaria linea di separazione fra il superfluo e il necessario (una distinzione fondamentale quando si tratta di indicazioni obbligatorie in
etichetta) mina gli stessi fondamenti della legislazione europea
in tema di libera circolazione delle merci e, conseguentemente,
in materia di etichettatura degli alimenti, con un’inversione di
rotta il cui esito sarà la collisione con i principi stessi su cui si
fonda l’Unione Europea. Il paradosso sarà che lo stesso legislatore rimarrà convinto di avere solo dato più informazioni ai consumatori, mentre ne avrà semplicemente assecondato le ubbie,
largamente irrazionali e sempre più lontane da quanto di buono,
per decenni l’origine aveva davvero significato.
Territorio e cultura nelle denominazioni
e menzioni tradizionali dei vini
Quale bilanciamento delle competenze sulla loro protezione
fra Stati membri e Unione europea?
Vito Rubino
sommario.
1. Introduzione 2. L’evoluzione della normativa UE sulla tutela dei
toponimi vitivinicoli; 3. Le argomentazioni della Corte di giustizia nella recente sentenza “Port Charlotte” del 14 settembre 2017; 3.1. Sulla questione
dell’omogeneità dell’OCM Unica rispetto al regolamento 510/06/CE (DOP e
IGP degli altri prodotti alimentari); 3.2. Il progressivo mutamento del ruolo e
della funzione delle menzioni tradizionali diverse dai segni di classificazione
delle categorie qualitative. 4. La questione delle c.d. “menzioni tradizionali”
ed il persistere di una competenza nazionale in materia; 5. Valutazioni conclusive: quale assetto definitivo della materia?
1. Introduzione
La capacità di “comunicare il territorio e le sue tradizioni” costituisce uno dei principali strumenti di espressione della cultura.
Per quanto, infatti, il concetto stesso di “cultura” sia tutt’oggi discusso e dia origine a diverse declinazioni pratiche, non c’è
dubbio che esso includa, come precisato nell’articolo 1 della
Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale1, «le prassi, le rappresentazioni, le espres1. Nel Considerando n. 32 dello stesso Reg. 1169/2011 leggiamo che «occorre esaminare la possibilità di estendere ad altri alimenti l’etichettatura di origine
obbligatoria. Pertanto è opportuno chiedere alla Commissione di preparare relazioni sui seguenti alimenti: tipi di carni diverse dalle carni delle specie bovina,
suina, ovina, caprina e dalle carni di volatili; il latte; il latte usato quale ingre275
276
Vito Rubino
sioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti,
gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi
– che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi
in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura
e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità,
promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e
la creatività umana»2.
In questo senso può facilmente argomentarsi come alcuni prodotti, che costituiscono al contempo il risultato del “sapere” di un
popolo acquisito attraverso le pratiche produttive tramandate di
generazione in generazione e il portato dell’ambiente in cui vengono realizzati, possono rientrare fra i “beni culturali” se espressione di alcuni tratti identitari di una determinata popolazione o
un gruppo sociale ben definito.
Nel settore alimentare la prima forma di protezione giuridica di questi prodotti si è concretizzata attraverso la tutela di
determinati cibi frutto di procedimenti storici di lavorazione di
diente di prodotti lattiero-caseari; le carni usate quali ingrediente; gli alimenti
non trasformati; i prodotti a base di un unico ingrediente; gli ingredienti che rappresentano più del 50 % di un alimento. Poiché il latte è uno dei prodotti per
i quali un’indicazione di origine è ritenuta di particolare interesse, la relazione
della Commissione su tale prodotto dovrebbe essere resa disponibile al più presto.
Sulla scorta delle conclusioni di tali relazioni, la Commissione può presentare
proposte di modifica delle disposizioni pertinenti dell’Unione o, ove opportuno,
adottare nuove iniziative per settori». Non esiste riferimento a ragioni oggettive
per prescrivere l’obbligo dell’indicazione dell’origine degli alimenti/ingredienti
menzionati, ad eccezione dell’opinione dei consumatori circa la sua importanza.
2. Conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003, e ratificata dall’Italia il 24 ottobre
2007. La letteratura in merito è troppo vasta per poter essere qui utilmente citata.
Sia consentito a questi fini rimandare al sito istituzionale dell’UNESCO https://
ich.unesco.org ove è possibile reperire informazioni e materiale bibliografico.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
277
materie prime locali ottenute grazie alle caratteristiche dell’ambiente circostante.
L’incidenza del fattore “ambientale” (inteso come apporto
umano e contributo naturale alla creazione del prodotto) spiega
anche perché agli alimenti in sé sia stata da sempre associata una
denominazione “geografica” che li colloca in un contesto spaziale, antropologico, economico e storico ben preciso.
Le denominazioni geografiche sono divenute, così, a loro volta elementi imprescindibili del patrimonio culturale dei popoli e
sono state assoggettate a norme di protezione da parte degli Stati
e di Organizzazioni internazionali preposte alla regolazione del
commercio e della competizione leale sul mercato3.
Nell’era della “globalizzazione”, ove ciascun paese deve
competere su di un mercato senza confini cercando il primato
commerciale e difendendo la propria specificità anche in chiave
sociale ed identitaria, la questione della tutela dei nomi geografici ha così assunto un ruolo “centrale” anche sul piano giuridico,
divenendo sotto molteplici aspetti punto di frizione fra interessi
diversi: è infatti ben noto come una delle cause che hanno portato all’incaglio dei negoziati del c.d. “Doha round” sull’aggiornamento dell’Accordo TRIPs sugli aspetti della proprietà industriale connessi al commercio allegato al Trattato di Marrakech
(istitutivo del WTO) sia legato alla mancata composizione fra gli
strumenti alternativi che i vari Paesi membri adottano per garantire la tutela dei nomi geografici dei prodotti tipici4.
3. Il testo in italiano costituisce traduzione non ufficiale della Convenzione.
4. Si pensi agli strumenti convenzionali attualmente amministrati dal
WIPO, Organizzazione Mondiale per la tutela della Proprietà Intellettuale. In
questa sede la ricostruzione dei numerosi accordi internazionali che sin dalla
fine dell’Ottocento hanno incluso i nomi geografici fra i titoli di proprietà commerciale ed industriale da proteggere ed hanno regolato la materia a livello internazionale non sarebbe certo possibile. Sia consentito, per brevità, rinviare sul
278
Vito Rubino
Nella contesa globale l’Unione europea ha puntato su di un
modello che unisce agli strumenti di protezione tipicamente privatistici (inibitorie contro le imitazioni, usurpazioni ed evocazioni, divieti di accostamento anche solo per richiamo con termini
quali “tipo, modo, maniera” etc. e implementazione delle disposizioni sulla lotta alle pratiche commerciali anticoncorrenziali) la
valorizzazione dei toponimi come beni comuni, ossia quali strumenti per il perseguimento di politiche pubbliche quali lo sviluppo rurale (attraverso l’aumento del reddito delle popolazioni
agricole portato dalla crescente richiesta di prodotti “autentici”
della tradizione sui mercati), la conservazione del paesaggio (tramite il mantenimento di pratiche agronomiche legate alla produzione di quei determinati cibi a denominazione protetta), la
valorizzazione- anche turistica- del territorio, e, ovviamente, la
conservazione delle comunità di produzione e di consumo che
sullo stesso insistono.
Una simile strategia, necessariamente basata sull’assunzione
di un ruolo sempre crescente dell’Unione in materia (e, segnatamente, della normativa derivata UE nell’ambito del riconoscimento e della tutela delle indicazioni geografiche dei prodotti tipici), ha inevitabilmente condotto ad uno “scontro” con gli Stati
membri, altrettanto preoccupati di porre in campo politiche (e
relativi strumenti giuridici) sottese alla preservazione del proprio
tratto identitario non solo nell’ambito del c.d. “villaggio globale”, ma anche, a livello più ridotto, nel contesto del mercato interno dell’Unione europea.
Di questo “scontro” si è dovuta occupare in passato a più riprese la Corte di giustizia, chiamata a giudicare il livello di “preemption” del regolamento (CEE) n. 2081/92 sui nomi geografici
dei prodotti alimentari diversi dai vini (poi sostituito dal regolapunto al mio recente volume I limiti alla tutela del “Made in” fra integrazione
europea e ordinamenti nazionali, Torino, Giappichelli, 2017.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
279
mento 510/06/CE5, ed oggi reg. UE n. 1151/2012 sui c.d. “regimi
di qualità”6).
Nelle numerose sentenze che hanno analizzato l’argomento, la
Corte ha più volte affermato che il carattere dei regolamenti in
questione (e la necessità di assicurarne il c.d. “effetto utile”) rendeva incompatibile con il sistema di riconoscimento e protezione europeo delle DOP (denominazioni di origine protetta) ed IGP (Indicazioni Geografiche Protette) ogni eventuale analogo meccanismo
nazionale di tutela, non residuando alcuno spazio di “sussidiarietà”
per gli Stati membri in questo contesto. La posizione, che- come
si chiarirà oltre- è stata più volte stigmatizzata dalla dottrina per
gli effetti collaterali di una simile preclusione, non ha registrato in
tempi più recenti alcuna significativa apertura giurisprudenziale,
ed anzi è andata via via consolidandosi in diverse pronunce fra loro
collegate dal filo comune della necessità di escludere ogni iniziativa normativa al riguardo da parte degli Stati membri.
Il settore vitivinicolo era rimasto “ai margini” di questo processo di integrazione delle normative nazionali in materia.
Pur essendo l’ ambito della Politica Agricola che per primo ha
visto nei nomi geografici il “perno” dell’identificazione del legame fra prodotti, pratiche e territorio, l’Organizzazione Comune
di Mercato che ne regolava i diversi aspetti a livello europeo aveva lasciato ampio margine di manovra agli Stati membri sia nella
individuazione delle c.d. “categorie disciplinari” da riconoscere in funzione della qualità dei singoli vini, sia con riferimento
all’abbinamento dei toponimi ai singoli prodotti.
La recente riforma della materia, avviata nel 2009 e conclusasi, da ultimo, nel 2013 con la riforma della PAC, ha mutato alcuni
5. Sul punto, per citazioni, mi sia consentito rinviare al mio volume Le denominazioni di origine dei prodotti alimentari, Alessandria, Ed. Taro, 2007, spec. Cap. III.
6. Cfr. il Regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio, del 20 marzo 2006,
relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, in GUCE, L 93 del 31.3.2006, p. 12 ss.
280
Vito Rubino
presupposti, consentendo così alla Corte di intervenire anche in
subiecta materia per rafforzare la convergenza dei diversi sistemi
europei di promozione e protezione dei toponimi su di un modello unitario ed esauriente.
La peculiarità della materia, tuttavia, lascia aperti ancora molti interrogativi sul completamento della transizione da un regime
all’altro, e pone dubbi circa le competenze residue degli Stati
membri in tema di politiche di promozione della qualità dei vini
e dei relativi nomi geografici.
2. L’evoluzione della normativa UE sulla tutela dei toponimi
vitivinicoli
Al fine di ricostruire il quadro giuridico in cui si collocano i più
recenti orientamenti giurisprudenziali dell’Unione europea in
materia appare opportuno dare conto sinteticamente dell’evoluzione della disciplina delle denominazioni vitivinicole nella dinamica evolutiva dell’integrazione europea.
La materia ha seguito per lungo tempo un percorso “autonomo” all’interno della relativa Organizzazione Comune di Mercato, di cui inizialmente ha mutuato le finalità, per affrancarsene
parzialmente solo con l’ultima riforma.
La Corte di giustizia ha più volte affermato, già in tempi risalenti, che nei settori disciplinati da una O.C.M. gli Stati membri
perdono la facoltà di intervenire mediante disposizioni nazionali
adottate unilateralmente7 laddove la normativa comunitaria (oggi
“dell’Unione europea”) non disponga diversamente8.
7. Cfr. il Regolamento (UE) n. 1151/2012 del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 21 novembre 2012, sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e
alimentari, in GUUE, L 343 del 14.12.2012, p. 1 ss.
8. Cfr., ex plurimis, le sentenze della Corte di giustizia 23 gennaio 1975,
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
281
Sebbene con riferimento specifico al settore vitivinicolo la
Corte abbia ritenuto già a partire dagli anni Settanta che le norme
segnatamente dedicate alla «materia dei prezzi e di intervento,
di scambi con i paesi terzi, di produzione e di talune pratiche
enologiche, nonché per quanto concerne la designazione dei vini
e l’etichettatura»9 dovevano essere ritenute “esaurienti”, il tenore
stesso del regolamento (CEE) 817/70 che ha dato attuazione alla
prima OCM vino quanto alle denominazioni geografiche10 (e le
norme successive che lo hanno aggiornato e sostituito) esprimono la volontà del legislatore comunitario di non occupare interamente la materia con un proprio sistema “autonomo” di designazione dei vini di qualità prodotti in regioni determinate.
L’articolo 1 del regolamento, nel dettare la stessa definizione di “Vino di Qualità Prodotto in una Regione Determinata”
(v.q.p.r.d.) vi comprendeva, infatti, i prodotti che, oltre ad essere
conformi alle norme comunitarie in questione, risultassero «definiti dalle regolamentazioni nazionali», così riconoscendo esplicitamente il persistere di una competenza degli Stati membri in
materia.
Analogamente le disposizioni concernenti le pratiche colturali (cfr. art. 4), la fissazione delle gradazioni alcoliche (cfr. art. 6),
i metodi di vinificazione (cfr. art. 7) e le rese per ettaro (art. 8)
erano demandate alla disciplina nazionale, così come, da ultimo,
causa 31/74, Galli, in Racc., 1975, p. 47 ss.; 26 febbraio 1976, causa 65/75,
Tasca, in Racc., 1976, p. 291 ss.; 18 maggio 1977, causa 111/76, Van Der Hazel, in Racc., 1977, p. 901 ss.; 29 novembre 1978, causa 83/78, Pigs Marketing
Board e Raymond Redmond, in Racc., 1978, p. 02347 ss.; 12 luglio 1979, causa
223/78, Grosoli, in Racc., 1979, p. 1573 ss.; 6 novembre 1979, cause riunite
da 16 a 20/79, Danis e Depre, in Racc., 1979, p. 3327 ss.; 13 dicembre 1983,
causa 222/82, Apple and Pear Development Council, in Racc., 1983, p. 4083 ss.
9. Cfr. la sentenza della Corte di giustizia, 13 marzo 1984, causa 16/83,
Prantl, in Racc., 1984, p. 1299 ss., punto 13 delle motivazioni.
10. Cfr. la sentenza Prantl cit., punto 14 delle motivazioni.
282
Vito Rubino
venivano fatte salve le c.d. “menzioni tradizionali” usate negli
Stati membri per la designazione di taluni vini cui l’indicazione
“v.q.p.r.d.” poteva anche solo “affiancarsi” (circostanza che ha
consentito l’affermazione ed il mantenimento in Italia delle ben
note sigle DOC, DOCG, IGT).
Particolarmente significativo appare, a questo riguardo, il paragrafo 4 dell’articolo 12 del regolamento, a norma del quale «un
vino di qualità prodotto in una regione determinata viene messo
in commercio con la denominazione della regione determinata
che gli è stata riconosciuta dallo Stato membro produttore», ossia, in definitiva, in forza di una decisione nazionale che l’allora
Comunità europea si limitava ad acquisire e ratificare.
L’approccio descritto è rimasto invariato fino ai primi anni
2000, considerato che il regolamento (CE) n. 1493/199911 continuava ad attribuire agli Stati membri il potere di «trasmettere alla
Commissione l’elenco dei v.q.p.r.d. da essi riconosciuti»12, così
confermando un livello di cooperazione non riconducibile ad una
semplice forma di coamministrazione in un sistema sostanzialmente centralizzato ancora fortemente sbilanciato a favore degli Stati membri, le cui decisioni, peraltro, venivano pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale serie “C” (ad ulteriore conferma della
mancanza del carattere “normativo” del passaggio finale del procedimento culminante nella iscrizione del toponimo nel registro
tenuto dalla Commissione europea ).
Il quadro giuridico descritto ha subito un drastico mutamento
in occasione dell’ultima modifica del 2008.
11. Cfr. il regolamento (CEE) n. 817/70 del Consiglio, del 28 aprile 1970,
che stabilisce disposizioni particolari relative ai vini di qualità prodotti in regioni determinate, in GUCE, L 99 del 5 maggio 1970, p. 20 ss.
12. Cfr. il Regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio del 17 maggio
1999, relativo all’organizzazione comune del mercato vitivinicolo, in GUCE, L
179 del 14 luglio 1999, p. 1 ss.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
283
Il Regolamento (CE) n. 479/200813, successivamente confluito nella c.d. “OCM Unica” per opera del Regolamento (UE) n.
491/200914, prendendo atto del sostanziale fallimento della riforma del 199915, ha proposto un rilancio del settore attraverso il
rafforzamento della notorietà dei vini di qualità e delle tradizioni
socio-culturali ad essi associate (cfr. il 5° considerando) che passa anche per il ripensamento delle disposizioni sulla protezione
dei nomi geografici registrati nell’Unione europea per designare
questi prodotti.
Gli articoli 92-113 del Regolamento (UE) n. 1308/1316 abbandonano, di conseguenza, il modello previgente basato sulla com13. Cfr. l’art. 54 del Regolamento sull’OCM vitivinicola cit.
14. Cfr. il regolamento (UE) n. 479/2008 del Consiglio del 29 aprile 2008,
relativo all’Organizzazione Comune del Mercato vitivinicolo, in GUUE, L 148,
del 6 giugno 2008, p. 1 ss.
15. Cfr. il regolamento (CE) n. 491/2009 del Consiglio, del 25 maggio
2009, che modifica il regolamento (CE) n. 1234/2007 recante organizzazione
comune dei mercati agricoli e disposizioni specifiche per taluni prodotti agricoli (regolamento unico OCM), in GUUE, L 154 del 17.6.2009, p. 1 ss. Sulla
nuova disciplina in materia si vedano S. Konrad, Wine and Food in European
Union Law, in ERA Forum, 2011, p. 241 ss.; A. Germanò, L’organizzazione
comune del mercato del vino, in Rivista di diritto agrario, 2010, I, p. 537 ss.;
F. Albisinni, La OCM vino: denominazioni di origine, etichettatura e tracciabilità nel nuovo disegno disciplinare europeo, in Agriregionieuropa, on line,
2008, https://agriregionieuropa.univpm.it; Id., L’officina comunitaria e l’OCM
vino: marchi, denominazioni e mercato, in Rivista di diritto agrario, I, 2008, p.
422 ss.; L. Gonzalez Vaqué, S. Romero Melchor, Wine Labelling: Future Perspectives, in European Food and Feed Law Review, 2008, p. 25 ss.; T. García
Azcárate, M. Thizon, La réforme de l’organisation commune de marché du
vin, in Revue du Marché commun et de l’Union européenne, 2008, p. 320 ss.
16. Il 2° considerando del regolamento (CE) n. 479/08 afferma al riguardo
che «il consumo del vino nella Comunità è in calo costante, e dal 1996 le esportazioni di vino dalla Comunità crescono, in volume, ad un ritmo molto più lento
delle importazioni. Ciò ha determinato un deterioramento dell’equilibrio tra domanda ed offerta che, a sua volta, si ripercuote negativamente sui prezzi e sui
redditi dei produttori». Cenni all’insuccesso della riforma del ’99 si rinvengono
anche nel 3° e nel 4° considerando.
284
Vito Rubino
petenza prevalentemente nazionale, in favore della convergenza
su di un procedimento di coamministrazione del tutto simile a
quello degli altri prodotti DOP – IGP17, di cui, simbolicamente,
viene assunta anche la sigla .
All’Autorità nazionale competente viene così lasciata una
funzione meramente “istruttoria”, mentre la decisione finale, di
natura “costitutiva”, viene assunta dalla Commissione europea
previa verifica della completezza dei documenti e della correttezza del procedimento.
3. Le argomentazioni della Corte di giustizia nella recente
sentenza “Port Charlotte” del 14 settembre 2017
Nel 2017 la Corte di giustizia è stata chiamata ad interpretare la
normativa in commento proprio in relazione al tema della natura
esauriente delle disposizioni contenute nella nuova OCM Unica
sui toponimi dei vini.
L’occasione, generata dall’impugnazione di una sentenza del
Tribunale relativa alla registrazione del marchio “Port Charlotte” per distillati alcolici18, ha consentito ai giudici del Lussembur17. Cfr. gli artt. 92 – 113 del regolamento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante organizzazione
comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n.
922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio, in GUUE, L 347 del 20.12.2013, p. 671 ss., già 118 bis – 118 tervicies del
regolamento (CE) n. 1234/07 cit. Per chiarezza espositiva di qui in avanti si farà
riferimento al testo consolidato nel reg. (UE) n. 1308/13 cit.
18. Cfr. il 27° considerando del regolamento (CE) n. 479/08 cit., secondo cui «per permettere l’istituzione di un quadro trasparente e più completo,
che corrobori l’indicazione di qualità di tali prodotti, si dovrebbe prevedere
un regime che permetta di esaminare le domande di denominazione di origine
ed indicazione geografica in linea con l’impostazione seguita nell’ambito della
normativa trasversale della qualità applicata dalla Comunità ai prodotti alimen-
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
285
go di affermare senza esitazione che, pur nella persistere di difformità “testuale” fra la disciplina sull’organizzazione comune
di mercato ed il regolamento sulle DOP- IGP degli altri prodotti
alimentari, la materia deve ritenersi ormai del tutto omogenea
valendo per il regolamento (UE) n. 1308/13 il percorso interpretativo già articolato nel 200919 riguardo al noto caso della birra
ceca “Budvar”.
In quella sentenza la Corte aveva isolato due elementi “sintomatici” del carattere esauriente del regolamento 510/06/CE sulla
protezione delle denominazioni geografiche degli alimenti diversi dai vini: la natura strumentale della disciplina agli obiettivi
dello sviluppo rurale nell’ambito della Politica Agricola Comune
e il fatto che numerosi elementi della procedura di registrazione
evidenziavano come ormai la partecipazione degli Stati membri dovesse intendersi quale mera “fase” di un procedimento di
co-amministrazione complesso, fuor del quale non poteva ritenersi ammissibile alcuna forma “autonoma” di tutela e valorizzazione dei prodotti in questione.
Con riferimento al primo profilo, la Corte nella sentenza sul
marchio “Port Charlotte”, riprendendo alla lettera un assunto già
formulato nella pronuncia del 2009, ricorda che
tari diversi dal vino e dalle bevande spiritose nel regolamento (CE) n. 510/2006
del Consiglio (…) relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle
denominazioni di origine dei prodotti agricoli ed alimentari».
19. Cfr. la sentenza della Corte di giustizia 14 settembre 2017, causa
C-56/16 P, Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO)
c. Instituto dos Vinhos do Douro e do Porto IP e Bruichladdich Distillery Co.
Ltd, non ancora pubblicata in Raccolta, disponibile sul sito web curia.eu, con la
quale la Corte ha definito, in veste di giudice dell’impugnazione, la questione
già sottoposta al Tribunale e decisa con la precedente sentenza del 18 novembre
2015, causa T-659/14, Instituto dos Vinhos do Douro e do Porto IP c. Ufficio
per l’armonizzazione del mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI) e
Bruichladdich Distillery Co. Ltd, in Racc. el. ECLI:EU:T:2015:863
286
Vito Rubino
Se fosse lecito per gli Stati membri consentire ai loro produttori di utilizzare sui loro territori nazionali una delle diciture o uno dei simboli
riservati dal regolamento 1234/07 alle denominazioni registrate in forza
di detto regolamento, basandosi su di un titolo nazionale il quale potrebbe
rispondere ad obblighi meno severi di quelli imposti da detto regolamento per i produttori di cui trattasi, la garanzia della qualità in parola (…)
rischierebbe di non essere assicurata. Conferire una simile facoltà a tali
produttori nazionali rischierebbe altresì di compromettere la realizzazione di una concorrenza libera e non falsata nel mercato interno fra i produttori di prodotti recanti tali diciture o simboli, e potrebbe, in particolare,
ledere i diritti che devono essere riservati ai produttori che abbiano compiuto effettivi sforzi qualitativi al fine di poter utilizzare un’indicazione
geografica registrata in forza di detto regolamento.20
Quanto al secondo aspetto la Corte osserva che, così come a suo
tempo già stimato per il regolamento 510/06/CE cit., anche l’attuale formulazione dell’OCM Unica si può dedurre la perdita di
ogni autonomia degli Stati membri vuoi per il fatto che l’articolo
118 septies, paragrafo 7, Reg. 1234/07/CE (oggi 96 Reg. UE n.
20. Cfr. la sentenza della Corte di giustizia 8 settembre 2009, causa
C-478/07, Budĕjovický Budvar, národní podnik contro Rudolf Ammersin GmbH,
in Racc., 2009, p. I-07721 ss. su cui si vedano, in via di sintesi, i commenti
di A.-L. Mosbrucker, Appellations d’origine et indications géographiques, in
Europe, 2009, p. 19 ss.; J. M. Cortés Martín, Jurisprudencia del Tribunal de
Justicia de la Uníon Europea, in Revista de Derecho Comunitario Europeo,
2010, p. 257 ss.; F. Capelli, La Corte di giustizia in via interpretativa, attribuisce all’Unione europea una competenza esclusiva in materia di riconoscimento
delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette, riferite
ai prodotti agroalimentari, mediante la sentenza Bud II motivata in modo affrettato, contraddittorio e per nulla convincente, in Diritto comunitario e degli
scambi internazionali, 2010, p.401 ss.; nonché, per ult. cit., V. Rubino, Indicazioni geografiche indirette e denominazioni di origine dei prodotti alimentari
nella sentenza “Bud II”, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali,
2010 p. 255 ss.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
287
1308/13) prevede la possibilità di proteggere i toponimi in fase
di registrazione europea esclusivamente in via “transitoria” ed a
livello “nazionale”, con disposizioni destinate a perdere ogni efficacia una volta conclusosi l’iter in questione con l’iscrizione della
DOP nell’apposito registro tenuto a Bruxelles; vuoi perché anche
nel caso dei vini il passaggio dalla precedente competenza “nazionale” a quella unitaria dell’Unione europea sulla materia è stato
contraddistinto dalla trascrizione ex officio di tutti i toponimi già
riconosciuti dagli Stati membri nel registro tenuto dalla Commissione, con obbligo per le Autorità nazionali di trasferire i fascicoli
alla istituzione dell’Unione entro una data prestabilita sotto pena
della perdita di ogni forma di protezione nell’ambito del regime
neo-instaurato (cfr. art. 118 vicies, paragrafo 4, reg. 1234/07 CE).
La Corte ha quindi dedotto dall’insieme di questi elementi
la inesistenza di spazi “residui” per la sopravvivenza di norme
nazionali di protezione dei toponimi (o di possibili “doppi regimi
regolatori”), con la conseguenza di escludere nel caso materiale
che aveva dato origine al rinvio pregiudiziale la rilevanza delle
disposizioni portoghesi sul nome “Porto” ai fini della valutazione
dell’esistenza di un “diritto anteriore” opponibile alla domanda
di registrazione del marchio “Port Charlotte”21.
3.1. Sulla questione dell’omogeneità dell’OCM Unica rispetto
al regolamento 510/06/CE (DOP e IGP degli altri prodotti
alimentari)
Così come a suo tempo la sentenza sulla birra BUD aveva suscitato sconcerto e forti critiche in dottrina22, anche la vicenda qui
21. Cfr. il punto 83 delle motivazioni della sentenza, conforme a quanto già
statuito dalla Corte nella sentenza BUD II cit., punto 112.
22. Cfr. i punti 107-108 della sentenza.
288
Vito Rubino
in esame non può andare indenne da rilievi e perplessità sotto
molteplici profili.
Senza riprendere quanto a suo tempo già ampiamente dibattuto
dai commentatori che hanno affrontato il tema in ordine ai presupposti formali dell’attribuzione all’Unione di una simile competenza in materia di proprietà industriale, problema oggi forse in gran
parte superato sul piano “tecnico” grazie alle modifiche introdotte
dal Trattato di Lisbona23, in questa sede pare opportuno formulare
alcune riflessioni sulle ricadute della reiterata posizione della Corte in merito alla convergenza delle normative UE sui toponimi dei
prodotti di qualità con specifico riferimento al settore del vino.
L’analisi che si intende condurre prende le mosse da una semplice constatazione: nel caso in esame, così come- più in generale- in tutte le ipotesi riconducibili alla tematica della protezione
delle indicazioni geografiche dei prodotti alimentari, ciò che è
controverso non è l’esistenza di norme nazionali che concedano accesso ai riconoscimenti dell’Unione europea sulla base di
presupposti diversi (come potrebbe dedursi dalle valutazioni del-
23. Cfr. F. Capelli, La Corte di giustizia in via interpretativa, attribuisce all’Unione europea una competenza esclusiva…cit.; G. Coscia, Considerazioni sulla
portata esauriente del regolamento n. 510/2006, in L. Costato, P. Borghi, L. Russo,
S. Manservisi (eds.), Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona. I Riflessi sul
diritto agrario alimentare e ambientale, Napoli, Jovene, 2011, p. 439 ss., V. Rubino,
Le denominazioni locali e la circolazione dei corrispondenti prodotti nel territorio
dell’Unione europea, cit., p. 329 ss. Per una rassegna delle posizioni della dottrina
prima della sentenza BUD II si veda J.M. Cortés Martín, La protección de las indicaciones geográficas en el comercio internacional e intracomunitario, Ministero
dell’Agricoltura, Pesca e Alimentazione, Madrid, 2003, p. 452.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
289
la Corte24, già in precedenza formulate25, in forma non del tutto
comprensibile, viste le vicende alla base dei rinvii pregiudiziali
in questione), ma la possibilità che, accanto al sistema di valorizzazione e tutela “unionale” dei toponimi, inquadrato nei regimi
DOP – IGP e riconducibile agli strumenti della politica agricola
per lo sviluppo rurale, gli Stati membri mantengano in vigore
norme proprie che creino dei regimi alternativi e “su scala ridotta” della valorizzazione della qualità utilizzando gli strumenti
della proprietà industriale.
La vera posta in giuoco, insomma, è l’efficienza del sistema
dell’Unione, che rischierebbe di perdere visibilità e credibilità
agli occhi dei consumatori se i prodotti in circolazione venissero
“annacquati” da una pletora di diciture, simboli, richiami e menzioni riferiti al territorio regolati da norme nazionali, o, peggio
ancora, se si sviluppassero forme “parallele” di tutela dei toponimi a livello dei singoli Stati membri, che possano fare ombra ai
regimi di qualità creati nell’ambito della PAC.
Questo passaggio- essenziale nella critica più generale all’approccio manifestato dalla Corte al tema, che verrà esposta nelle
conclusioni di questo lavoro- merita particolare attenzione anche
e soprattutto nel settore vitivinicolo, ove l’effetto “ablativo” delle
24. Mi riferisco in particolare alle critiche relative alla mancanza di una
competenza esplicita della Comunità (oggi Unione) europea in materia di proprietà industriale e, di conseguenza, al mancato utilizzo della procedura ex art.
308 TCE (oggi 352 TFUE) per l’adozione del regolamento. L’attuale articolo
114 TFUE consente esplicitamente all’Unione di adottare atti anche in materia
di proprietà industriale sottesi all’armonizzazione del mercato interno, e, d’altra
parte, con riferimento alla procedura di adozione del nuovo regolamento (UE)
n. 1151/2012, che ha sostituito il precedente regolamento 510/06/CE, il Trattato di Lisbona ha incluso la materia agricola nella c.d. “procedura legislativa
ordinaria”, di modo che il Parlamento europeo risulta pienamente coinvolto
nell’iter di approvazione degli atti in materia, sanando ogni residuo dubbio in
merito al coinvolgimento pieno di tutte le istituzioni in materia.
25. Cfr. il punto 83 della sentenza qui in esame.
290
Vito Rubino
differenze fra i regimi nazionali e quello UE rischia di investire
più in generale anche la comunicazione di profili ulteriori che
investono il territorio solo indirettamente, andando ben oltre ciò
che la OCM Unica letteralmente dispone.
3.2. Il progressivo mutamento del ruolo e della funzione delle
menzioni tradizionali diverse dai segni di classificazione
delle categorie qualitative
L’assunto per cui «le caratteristiche del regime di protezione
previsto dal regolamento n. 1234/07 sono analoghe a quelle instaurate dal regolamento n. 510/06 (…)»26 talché le procedure
nazionali di registrazione di un toponimo «non possono esistere
al di fuori del sistema di tutela dell’Unione»27 anche al fine di salvaguardare l’effetto utile del regime UE in questione (a giudizio
della Corte destinato ad essere irrimediabilmente compromesso
«se gli Stati membri potessero mantenere i propri sistemi di tutela di denominazioni di origine ed indicazioni geografiche ai sensi
dei regolamenti 1234/07 e 479/2008 e farli coesistere con quello
che risulta da tali regolamenti»28) pone in primo luogo il problema di valutare l’effettiva omogeneità degli scopi e della sostanza
delle disposizioni contenute nella OCM Unica rispetto a quello
relativo alle DOP – IGP degli altri prodotti alimentari.
Con riferimento al primo aspetto, i commentatori della sentenza BUD II hanno a suo tempo giustamente osservato che la
Corte, dichiarando l’esaustività della disciplina in questione, non
intendeva privare le indicazioni geografiche dei prodotti di qualità di una tutela formale quale quella accordata dalla loro natura di
26. Cfr., in materia, le sentenze BUD II cit., punto 112.
27. Cfr. punto 85 delle motivazioni.
28. Cfr. il punto 87 delle motivazioni, ove viene richiamato il punto 117
della sentenza BUD II cit.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
291
titoli di proprietà industriale, sebbene su scala nazionale, contro
«quanti immettono sul mercato delle copie per sfruttarne indebitamente la reputazione o che si servono di qualsiasi mezzo nella
designazione o presentazione di un prodotto per indicare o suggerire che il prodotto stesso è equivalente all’originale, anche se
proviene da una località diversa da quella evidenziata nell’indicazione geografica», bensì ha voluto limitarsi a rendere «contra
legem il ricorso a livello nazionale a surrogati certificativi» che
possano in qualche modo creare ostacoli alla piena efficacia del
sistema di valorizzazione delle DOP – IGP unionali29.
Orbene, analoghe valutazioni possono essere riproposte oggi
con riferimento al settore dei vini, ove l’intendimento in questione potrebbe trovare esplicito appoggio in alcuni passaggi formali
del regolamento OCM Unica.
Infatti, pur essendo pacifico il suo inquadramento nel medesimo contesto (PAC- sviluppo rurale) ed altrettanto evidente la
volontà del legislatore UE di assicurare ai toponimi dei vini una
tutela forte ed estesa a tutto il territorio dell’Unione in forma
omogenea contro le speculazioni commerciali, la disciplina delle
indicazioni geografiche dei vini presenta alcune peculiarità che
rafforzano anche sul piano formale il dubbio circa la resistenza di
un’area di intervento degli Stati membri in materia.
L’articolo 92, comma 2, lettera c) del regolamento (UE) n.
1308/13 afferma, infatti, in proposito che le regole unionali sulle
denominazioni di origine ed indicazioni geografiche (nonché sulle “menzioni tradizionali”) sono basate sulla «promozione della
produzione di prodotti di qualità (…) consentendo al contempo
misure nazionali di politica della qualità».
Misure quali quelle indicate non possono certo limitarsi alla
determinazione di alcune pratiche enologiche o aspetti di pro29. Cfr. il punto 90 delle motivazioni.
292
Vito Rubino
cesso, ben potendo (anzi, “dovendo”) estendersi a tutti i fattori
che concorrono alla politica in questione, fra cui, com’è noto,
rientrano anche le denominazioni geografiche30.
Conferma di ciò sembra potersi dedurre anche dal tenore del
successivo articolo 112 del regolamento 1308/13, ove si afferma
che le menzioni tradizionali, la cui disciplina è pacificamente rimasta affidata agli Stati membri, possono essere impiegate, inter alia, «per indicare che il prodotto reca una denominazione di
origine protetta o un’indicazione geografica protetta dal diritto
unionale o nazionale»31.
La disposizione chiarisce due aspetti distinti, entrambe ugualmente rilevanti: in primo luogo la connessione fra Stati membri
ed Unione europea in questa materia è (o, meglio, rimane) così
stretta da determinare la capacità degli uni di “contraddistinguere”, con menzioni proprie, i titoli creati dall’altra, circostanza che
— da sola — sarebbe sufficiente ad escludere la perdita di ogni
competenza nazionale in materia.
In secondo luogo questa capacità di cooperazione è ancillare alla realizzazione di “proprie” politiche qualitative nazionali,
così vieppiù rafforzando l’idea che nel settore vitivinicolo la normativa dell’Unione non ha ancora assunto quella pienezza che
giustificherebbe l’estromissione degli Stati da ogni profilo regolatorio al riguardo32.
Ed infatti, il regolamento della Commissione europea n.
607/200933, che ha dato esecuzione alla disciplina in esame, ha
30. Cfr. G. Coscia, Considerazioni sulla portata esauriente…cit., p. 447 – 448.
31. Cfr. L. Petrelli, I regimi di qualità nel diritto alimentare dell’Unione
europea. Prodotti DOP IGP STG biologici e delle regioni ultraperiferiche, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012.
32. Il corsivo è aggiunto.
33. È appena il caso di notare come la disposizione non possa essere ritenuta meramente funzionale alla sola fase transitoria dal vecchio al nuovo regime,
allorquando molte denominazioni geografiche già protette a livello nazionale
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
293
de facto concesso agli Stati una sorta di “spacchettamento” delle
DOP – IGP in funzione delle diverse menzioni tradizionali precedentemente utilizzate a livello nazionale per contraddistinguere
le “categorie qualitative” dei vini.
Nella parte “A” dell’allegato XII, si trovano, infatti, censite
Stato per Stato le varie sigle utilizzate in luogo della precedente definizione “v.q.p.r.d.”34, di cui gli operatori tutt’oggi possono
servirsi in alternativa alle menzioni “denominazione di origine
protetta- DOP” e “indicazione geografica protetta – IGP”.
Per l’Italia ciò ha comportato la possibilità di recuperare
(rectius: mantenere) la vecchia “stratificazione piramidale” fra
DOCG, DOC ed IGT, con relativa “sottoclassificazione” qualitativa di ciascuna menzione come ribadita recentemente dall’articolo 28 della legge italiana n. 238/201635.
Viene così progressivamente meno quella lettura “monolitica”
dell’esaustività del regolamento OCM in materia, che la Corte ha
sbrigativamente mutuato da una disciplina (quella del regolamento
dovevano essere ancora “confermate” dalla revisione documentale della Commissione europea di cui si è detto, poiché la previsione normativa sopravvive
tutt’oggi (a procedure già da lungo tempo concluse) nel testo del regolamento
(UE) n. 1308/13, ed è passata indenne attraverso be tre successive trasformazioni della normativa in questione (cfr. art. 54 del regolamento 479/2008, trasposto letteralmente nell’articolo 118 duovicies del regolamento 491/2009 e del
regolamento Ocm Unica 1234/07/CE, oggi divenuto art. 112 regolamento (UE)
n. 1308/13 cit.). Il significato della norma può, dunque, essere individuato solo
riconoscendo la persistente natura “multilivello” della materia, ancora connotata da una certa cooperazione fra Stati membri ed Unione europea.
34. Cfr. il Regolamento (CE) n. 607/2009 della Commissione, del 14 luglio
2009, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 479/2008 del
Consiglio per quanto riguarda le denominazioni di origine protette e le indicazioni geografiche protette, le menzioni tradizionali, l’etichettatura e la presentazione
di determinati prodotti vitivinicoli, in GUUE, L 193 del 24.7.2009, p. 60 ss.
35. “Vino di Qualità Prodotto in una Regione Determinata”, sigla che prima
dell’ultima riforma del 2008 veniva utilizzata in forma alternativa o complementare alle menzioni tradizionali nazionali per definire la natura “qualitativa”
del prodotto contraddistinto dal toponimo protetto.
294
Vito Rubino
CE n. 510/06, oggi divenuto 1151/2012) certamente affine per obiettivi e mezzi, ma riferita ad un contesto ancora troppo diverso rispetto
a quello del vino, più complesso per ragioni tecniche, giuridiche e
“storiche” rispetto alla produzione degli altri alimenti di qualità.
In altre parole, la riforma del 2008 della OCM vino ha senz’altro innestato un processo di progressiva convergenza fra le diverse
disposizioni in materia, ma non pare allo stato attuale possibile traslare nell’ambito qui in esame le conclusioni sulla vicenda BUD II,
ossia l’ormai definitiva estromissione degli Stati membri da ogni
competenza al riguardo che non sia puramente “amministrativa”
dell’unico sistema di riconoscimento, valorizzazione e tutela dei
vini di qualità previsto dalla normativa dell’Unione europea.
4. La questione delle c.d. “menzioni tradizionali” ed il persistere di una competenza nazionale in materia
Le valutazioni sinteticamente riportate in precedenza con riferimento al ruolo ed alla funzione delle c.d. “menzioni tradizionali”
distintive della categoria qualitativa dei vini (DOC, DOCG, IGT
etc.) possono essere riprodotte anche osservando un ulteriore fenomeno distorsivo che riguarda queste fattispecie quando si riferiscano a dettagli relativi al metodo tradizionale di produzione.
A norma dell’articolo 112 del regolamento 1308/13, par. 1
lettera “b”, le menzioni tradizionali possono anche essere espressioni utilizzate tradizionalmente per comunicare al consumatore
«il metodo di produzione o di invecchiamento oppure la qualità,
il colore, il tipo di luogo, o, ancora, un evento particolare legato
alla storia del prodotto a denominazione di origine protetta o a
indicazione geografica protetta»36.
36. Cfr. la legge italiana n. 238 del 12 dicembre 2016, Disciplina organica
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
295
Come tali esse dovrebbero, quindi, limitarsi ad esprimere
attraverso l’etichettatura dei vini alcuni dettagli che riguardano
le caratteristiche del prodotto37 o le circostanze storiche che lo
connotano38, senza assumere valenza identificativa autonoma
e, dunque, natura di titolo di proprietà industriale (come sostenuto recentemente dalla Commissione europea39 sulla scorta di
una giurisprudenza in verità piuttosto generica in merito40), né,
tantomeno, possedere carattere toponomastico (il che spiegherebbe come mai anche la nuova OCM ha confermato la competenza nazionale a disciplinarle e proteggerle anche in forma
autonoma, come chiarito dagli articoli 112 Reg. 1308/13 cit. e
30, 35 par. 2 reg. 607/200941). Senonché la prassi applicativa ha
di fatto contraddetto questi presupposti, creando una sorta di prodella coltivazione della vite e della produzione e del commercio del vino, in
GURI, n.302 del 28.12.2016, art. 28.
37. Cfr. l’articolo 112, par. 1, lett. b) regolamento (UE) n. 1308/13 cit.
38. Si pensi a menzioni quali “riserva”, «attribuita a vini sottoposti a un
periodo di invecchiamento stabilito dal disciplinare di produzione, non inferiore a: due anni per i vini rossi, un anno per i vini bianchi, un anno per i vini
spumanti ottenuti con metodo di fermentazione in autoclave, tre anni per i vini
spumanti ottenuti con metodo di rifermentazione naturale in bottiglia», o “lacrima”, riferita al «particolare metodo di produzione che, con la pressatura soffice
delle uve, permette di ottenere un prodotto di alto livello qualitativo».
39. Come appare evidente nel caso dell’espressione “Est! Est! Est!”, associata al Montefiascone DOC e riferita ad un aneddoto relativo ad Enrico V di
Germania, che avrebbe pronunciato queste parole come apprezzamento per il
vino in questione mentre si recava nel 1111 a Roma con il suo esercito per ricevere dal Papa Pasquale II la corona di Imperatore del Sacro Romano Impero.
40. Cfr. la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo ed al
Consiglio a norma dell’articolo 184, punto 8, del Regolamento (CE) n. 1234/07
del Consiglio sull’esperienza maturata con l’attuazione della riforma del settore
vitivinicolo del 2008, COM (2012), 737 def., del 10 dicembre 2012, p. 11.
41. Cfr., in particolare, la sentenza 3 marzo 2005, in casua C-283/02, Repubblica italiana c. Commissione delle Comunitù europee, in Racc. digit.,
ECLI:EU:C:2005:125, su cui si veda A. Pappalardo, E. Cucchiara, Le menzioni tradizionali per vini nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia,
in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2006, p. 7 ss.
296
Vito Rubino
miscuità concettuale che inevitabilmente cozza con la volontà
manifestata dal legislatore UE (e confermata dalla sentenza della Corte di giustizia qui in commento) di andare nella direzione
di una semplificazione del sistema di tutela dei toponimi e una
maggiore chiarezza dei ruoli degli attori del processo di coamministrazione dettato dalla nuova OCM. Compulsando il catalogo E-Bacchus che ha raccolto le menzioni tradizionali di cui
alla parte “B” dell’allegato XII del regolamento 607/09 cit., non
è, infatti, insolito imbattersi in menzioni tradizionali che, sebbene originate da semplici metodiche produttive, hanno ormai
assunto nell’immaginario collettivo valenza equivalente (se non
superiore) alla denominazione del prodotto, nonché un legame
univoco con la zona geografica di origine del vino cui sono inscindibilmente (ed in via esclusiva) riferite. A titolo esemplificativo è sufficiente guardare a menzioni quali “Gutturnio”, descritta come «menzione storica connessa esclusivamente a una
tipologia di vino prodotto in una sottozona della denominazione
“Colli Piacentini” (…)»; Amarone, definita come «menzione
storica connessa esclusivamente al metodo di produzione della
denominazione “Valpolicella” (…) impiegata sin dall’antichità
per indicare il luogo di origine di questo vino (…) Si tratta di una
menzione del tutto particolare e ampiamente riconosciuta, in grado di identificare da sola il prodotto (…)»; Sangue di Giuda, che
il registro classifica come «menzione storica tradizionale connessa esclusivamente a una tipologia di vino prodotto nel territorio
dell’Oltrepò pavese. È usata da molto tempo per designare un
vino molto peculiare, di colore rosso, dolce, spumante o frizzante
e gradevole al palato (…)»42.
42. Il regolamento in oggetto in verità non impone come requisito essenziale ai fini del riconoscimento UE di una menzione tradizionale la sua preventiva
regolamentazione nazionale, ben potendo la relativa domanda essere inoltrata
da una organizzazione professionale sulla base del comprovato «uso in com-
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
297
Espressioni di questo tipo hanno (anche per esplicita indicazione contenuta nella loro descrizione) in larga misura perso la
funzione descrittiva di cui all’art. 112 reg. 1308/13 cit., avendo
assunto valenza di indicazione geografica indiretta (ossia di denominazione del prodotto che, pur non avendo un etimo geografico, di fatto viene associata dai consumatori al luogo di origine
del prodotto in modo univoco).
Ciò dovrebbe comportare, ai sensi dell’art. 93 paragrafo 2 del
Regolamento 1308/1343 e della giurisprudenza della Corte di giustizia sulla disciplina parallela del regolamento 510/06/CE (segnatamente, caso “Feta”44), la necessità di registrare queste menzioni
come indicazioni geografiche nell’ambito della procedura centralizzata a livello unionale in alternativa (o con esclusivo abbinamento) ai toponimi del territorio che indirettamente designano.
Nella prassi corrente, al contrario, continuano ad essere gestite come “menzioni tradizionali” sulla scorta di disposizioni
nazionali, nel chiaro intento di mantenere degli spazi di co-legislazione in materia che paiono difficilmente conciliabili con
l’approccio adottato dalla Corte di giustizia nella sentenza “Port
Charlotte”.
mercio notorio della menzione», quantificato ai sensi dell’articolo 35 paragrafo
2 in almeno 5 anni. Nondimeno la previsione ha mantenuto, in continuità con il
regime normativo previgente, la possibilità per gli Stati di «disciplinarne l’uso»
con propria normativa (cfr. art. 30, paragrafo 1) concedendo quindi in materia
ancora ampi spazi all’iniziativa regolatoria nazionale.
43. Cfr. la banca dati E-Bacchus, attualmente ancora gestita dalla Commissione europea (ed in futuro destinata ad essere amministrata dall’EUIPO), on
line all’indirizzo http://ec.europa.eu/agriculture/markets/wine/e-bacchus.
44. L’articolo prevede in merito che «Taluni nomi usati tradizionalmente
costituiscono una denominazione di origine se: a) designano un vino; b) si riferiscono a un nome geografico; c) soddisfano i requisiti di cui al paragrafo 1,
lettera a), punti da i) a iv), e d) sono stati sottoposti alla procedura prevista dalla
presente sottosezione per il conferimento della protezione alla denominazione
di origine e all’indicazione geografica».
298
Vito Rubino
Sicché delle due l’una: o l’imposizione del modello “unitario”
di gestione delle DOP – IGP disegnato nella sentenza qui in commento si rivela eccessivamente “sbrigativo” e non compatibile
con le specificità- anche normative- della materia, oppure in sede
di revisione del regolamento 607/2009 (attualmente in corso) la
Commissione europea dovrà prendere atto che la promiscuità di
concetti e prassi tutt’oggi presente nel disegno disciplinare uscito
dall’ultima riforma dell’OCM non è più compatibile con la natura e gli scopi degli istituti in questione, e dovrà mettere mano
alla normativa in esame per “disboscare” la selva di riferimenti
a sottozone, menzioni geografiche indirette, indicazioni toponomastiche aggiuntive etc. che attualmente costituiscono ancora un
“recinto” all’interno del quale gli Stati conservano ampi margini
di manovra45.
5. Valutazioni conclusive: quale assetto definitivo della materia?
L’alternativa da ultimo proposta consente di “tirare le fila” del
ragionamento con alcune considerazioni conclusive che, vista la
situazione, potrebbero definirsi ancora “de iure condendo”.
45. Cfr. le sentenze della Corte di giustizia 25 Ottobre 2005, nelle cause riunite C-465/02 e C-466/02, Repubblica federale di Germania e Regno di
Danimarca/Commissione delle Comunità europee, in Racc., 2005, p. I-09115
ss., che ha registrato in via definitiva il nome “Feta” come DOP, ribaltando il
precedente giudizio 16 marzo 1999, in cause riunite Cause riunite C-289/96,
C-293/96 e C-299/96, Regno di Danimarca, Repubblica federale di Germania
e Repubblica francese contro Commissione delle Comunità europee, in Racc.,
1999, p. I- 01541 ss., ove oggetto di contenzioso era la possibilità di registrare
il termine “Feta” (privo di carattere toponomastico, ragionevolmente riconducibile all’antico vocabolo veneziano utilizzato per “fetta”, formato con cui veniva
servito il formaggio in questione).
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
299
Appare ormai chiaro l’intento accentratore del legislatore UE
in materia di denominazioni geografiche, vero e proprio “perno”
di una politica della qualità che vede l’Unione impegnata tanto
sul versante “interno” (per stimolare l’aumento della competitività delle imprese agricole dopo la progressiva fine dei diversi
regimi di aiuto e sostegno diretto della PAC) quanto sul fronte
internazionale (ove l’imposizione dell’approccio “pubblicistico”
perseguito dalla UE in materia nell’ambito dei vari negoziati “bilaterali” e “multilaterali” che interessano la materia) non può che
richiedere “alle spalle” una assoluta chiarezza degli assetti normativi unionali e la rivendicazione di una piena competenza della UE per ogni profilo connesso con i c.d. “prodotti di qualità”.
La domanda che, tuttavia, occorre porsi è se il carattere esaustivo delle diverse e convergenti discipline richiamate, affermato dalla Corte di giustizia ormai in modo consolidato, giovi alla
causa.
È già stato osservato da numerosi autori come l’esclusività
della protezione dell’Unione europea induca ad una insensata
corsa alla registrazione di nomi e menzioni che meglio troverebbero tutela (per l’esiguità delle produzioni e la rilevanza strettamente locale dei prodotti) su scala nazionale, senza che ciò possa
in alcun modo indebolire l’impianto normativo UE (che, anzi,
verrebbe riservato selettivamente ai soli prodotti di grande rinomanza internazionale, per i quali è oggettivamente concreto il
rischio di contraffazioni o altri fenomeni erosivi similari)46.
46. Un evidente riferimento alla situazione descritta è rinvenibile nella querelle relativa alla indicazione geografica aggiuntiva “Cannubi”, oggetto di una
lunga vertenza giudiziaria in Italia conclusasi, da ultimo, con la sentenza della
Corte di Cassazione n. 23395/2016, su cui si vedano i commenti di D. Cortassa,
Modifiche del disciplinare di produzione dei vini DOC. Il caso “Cannubi”, in
Rivista di diritto alimentare, n. 1/2017, p. 55 ss., www.rivistadirittoalimentare.
it; E. Ferrero, Le menzioni geografiche nella disciplina dei vini: osservazioni a
margine della vicenda Cannubi, in Rivista di diritto agrario, 2017, II, p. 122 ss.
300
Vito Rubino
La Corte di giustizia continua, al contrario, a non voler prendere atto di questa oggettiva esigenza di “segmentazione regolatoria” in chiave “multilivello”, spingendo l’interpretazione verso
posizioni rigide, che nel caso dei vini mal si conciliano anche con
le persistenti difformità della disciplina rispetto al regolamento
sulle DOP – IGP degli altri prodotti alimentari e con le relative disposizioni o prassi di esecuzione sino ad oggi seguite dalla
stessa Commissione e dagli Stati membri.
Dovendo fare una scelta (anche nell’ottica dell’accennata
revisione del regolamento 607/2009 in corso) è auspicabile che
l’Unione europea receda da questo disegno forzatamente uniformatore, e riconosca l’inutilità di una posizione così castrante
della capacità di “comunicare il territorio” da parte degli Stati
membri.
L’opportunità di mantenere una certa autonomia nazionale
nella classificazione dei vini e nella comunicazione delle loro caratteristiche è, infatti, funzionale ad evitare un certo “svilimento”
degli sforzi dei produttori che, grazie alla struttura “piramidale”
della qualità espressa soprattutto dalla normativa italiana previgente in materia, avevano concentrato i propri sforzi sul miglioramento costante delle caratteristiche dei prodotti del territorio,
e si vedono oggi in parte insidiare il mercato da un approccio
disciplinare UE che, nel tentativo di “semplificare” il panorama
delle menzioni e delle categorie disciplinari qualitative, consente
anche ai produttori di vini oggettivamente meno pregiati di rientrare nelle definizioni di DOP – IGP europee47.
L’impoverimento della capacità di comunicare la propria
identità e le proprie caratteristiche (reificatosi nel disappunto
47. Cfr. F. Capelli, Valorizzazione dei prodotti agroalimentari di qualità
e loro tutela contro le pratiche commerciali scorrette e pregiudizievoli, in Alimenta, 2017, p. 185 ss., ed ivi per ult. cit.
Territorio e cultura nelle denominazioni e menzioni tradizionali dei vini
301
con cui la Commissione ha più volte segnalato allo Stato italiano
un eccesso di menzioni tradizionali rispetto al resto d’Europa),
calato nella forzata centralizzazione dei riconoscimenti e nella
difficoltà insita nel loro ottenimento rischia, quindi, paradossalmente di produrre due effetti fra loro opposti: l’annacquamento
del valore dei titoli europei, concessi in modo più generoso a
prodotti assai differenti fra loro, nonché la perdita della capacità di comunicare le vocazioni produttive ad un livello “minore”
(ossia su scala locale) per via della progressiva inibizione delle
regolamentazioni nazionali in materia.
In questo senso non può essere sottovalutata la valenza intrinsecamente “culturale” ed “identitaria” della materia, che dovrebbe, semmai, spingere ad una maggiore “cautela regolatoria”,
tenendo in debito conto la complessità delle ricadute della normativa in oggetto e la necessità di rispettare il principio di prossimità che dovrebbe ispirare l’intera azione dell’Unione anche in
materie quali quella vitivinicola.
L’auspicio è, quindi, che la “stretta” derivante da questa (ulteriore) sentenza della Corte di giustizia possa portare ad un rapido ripensamento dell’approccio, adottando come modello per
la tutela dei toponimi quello già previsto in materia di marchi, in
cui l’Unione ha previsto la possibilità di una registrazione solo
“nazionale” o la creazione di un titolo unico europeo, lasciando
agli operatori economici la scelta sulla opzione più favorevole
secondo una scala di valori (e riconoscimenti) che solo una competenza realmente concorrente (e coordinata) può garantire.
Food Governance to the Test
of Internal Contradictions and External Pressures
Eden Tafesework, Lara Fornabaio, Margherita Poto1
Sommario: 1. Introductory Remarks 1.1 Good Food Governance: Developing a
Structure of (Food) Safety Nets in Times of Crisis 1.2 A Brief History of Food
Law...When Governance held the Key to Post-crisis Scenarios 2. The Constitutive Elements of Food Governance 3. Set of powers within the Food Governance: focus on private food governance 4. Right to Food vis-à-vis Patent
Protection: Restraints coming from External Relationships 5. Exclusive Rights
for Plant Related Innovations Under TRIPs 6. Privatisation of Agro-Biotechnology and the Right to Food: When the Lack of Harmonised and Integrated
Approaches Leads to Substantial Inequalities 7. Concluding Reflections.
1. Introductory Remarks
1.1. Good Food Governance: Developing a Structure of (Food)
Safety Nets in Times of Crisis
Food governance is a creature of the urge to provide rapidly-scaled responses after food crises and is interlaced between
internal and external dynamics, in the sense that food regulato1. Cfr. F. Albisinni, La OCM vino…cit., nonché M. Lovec, The European
Union’s Common Agricultural Policy reforms: towards a critical realist approach. The global competitiveness of European wine producers, in British Food
Journal, 2017, p. 2076 ss.
303
304
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
ry systems around the world have been increasingly confronted
with global integration needs, in their internal interactions (at
international, regional and national level), as well as in their external relations with other legal regimes, such as environmental protection, human and other fundamental rights’ protection.
Moreover, food governance has a broad conceptual extension,
covering both the need to regulate the right to food and the need
to guarantee the safety of food for everyone. In this regard, the
contribution will study the concept in its broader sense, by overcoming the polarised view of food safety and food security as
two compartmentalised and separate systems2, and by including in the scrutiny both sides of governance: food law (as the
complex of normative acts) and the whole complex of relations
among food actors (networked-based approach).
Nevertheless, despite the remarkable attempts towards the
establishment and consolidation of an integrated regulatory regime, where all the food-related policies are informed to a common core of good governance regime3, the system is still far
from perfect. Rather, it can be regarded as a complex in-progress
machine, designed to work on a case-by-case basis, in need of
continuous maintenance by its creators, be they legislators, decision-makers, regulators, expert and practitioners. Such mainte2. Eden Tafesework wrote Section n. 4 “Right to Food vis-a-vis Patent
Protection: Restraints coming from External Relationships” and Section 5.
“Exclusive Rights for Plant Related Innovations Under TRIPs” and Section n.
6 “Privatisation of agro-biotechnology and the Right to Food: when the lack
of harmonic and integrated approaches leads to substantial inequalities”. Lara
Fornabaio co-wrote with Margherita Section n. 2 “The constitutive elements of
Food Governance” and Paragraph n. 3 “Set of powers within the Food Governance: focus on private food governance”. Margherita Paola Poto wrote Section
1 “Introductory remarks”; co-wrote with Lara Section n. 2 “The constitutive
elements of Food Governance” and Section n. 7 “Conclusive reflections”.
3. See FAO Background Paper, Good Food Security Governance: The Crucial Premise to the Twin-Track Approach, FAO, 2011.
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
305
nance requires effort to identify common regulatory principles,
to delimit roles and obligations for all the parties, as well as to
harmonise normative provisions that have conflicting contents
and targets.
In the interests of simplification, the present contribution will
focus on some of the mentioned problematic aspects crossing the
food governance regime.
First, it will briefly sum up the major steps that led to the
formation of a regional food governance regime (EU based), as
the synecdoche of the challenges that trigger the establishment of
food regulatory systems at regional and global level.
Second, it will describe some of the constitutive elements of
food governance. Such analysis is functional for the third scrutiny, in so far as it will observe some specific cases of conflicting
legal orders (more specifically, the interests under consideration
will be the right to food and the right to patent protection).
The conclusive remarks will highlight how the consolidation
of an integrated legal framework, that aims to accommodate different rights and needs, is still an on-going process.
1.2. A Brief History of Food Law...When Governance Held the
Key to Post-Crisis Scenarios
As for the historical reconstruction of the foundational pillars
of food governance, it seems that the system has developed by
means of post-crisis resetting and renewing mechanisms. Examples of restructuring attempts come from regional regimes, such
as the European Union legal system, where, under the harmonisation pressure of international legal standards (SPS Agreement,
Codex Alimentarius Commission, to name just a few)4, an em4. Ibidem.
306
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
bryonic system of governance started developing at the end of
the years ‘90s, with the political decision to mainly focus on food
safety regulation and leaving aside food security issues. The system contributed to the identification of common principles, the
establishment of competent authorities in continuous dialogue
with institutions and stakeholders, the common aim to protect
the health of the consumers (the so-called ABC of Food Law,
where main obligations were set up for Authorities and Business
in order to protect the Consumers from future food crises)5. Such
initial yet grounding attempt, led the European Union to build
up a well-structured matrix of regulatory tools, meant to offer
regulatory responses to health threats.
In this sense, the crisis and the consecutive political and legal
responses were the engine that ignited a season of regulatory reforms. The regulatory model based on good administration principles, a set of actors (national and supranational) and a toolbox
of global mechanisms worked as laissez-passer to the qualification of food safety law as a subject of global interest.
A second global crisis marked another milestone in the development of governance toolkits to face structural problems,
that went well beyond food regulation and that most importantly
showed how out-dated the dichotomy food safety-food security had become and, consequently manifested the urgent need to
tackle the crisis in an integrated manner. After the global financial earthquake provoked by the 2008 financial crisis, a dramatic and pervasive wave of crisis engulfed again Europe and the
entire world. Since the financial crisis triggered an increase in
5. The WTO Agreement of Sanitary and Phitosanitary Measures, available
at https://www.wto.org/english/tratop_e/sps_e/spsagr_e.htm (last access 23rd
May 2018); Codex Alimentarius is a collection of standards, guidelines and
codes of practice adopted by the Codex Alimentarius Commission. For further
details, please refer to Footnote n. 14.
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
307
unemployment, severe wage cuts and increased payments for
loans, caused a decrease in the overall consumption of products
worldwide. The decline in consumption consequently resulted in
the decrease of the consumption of agro-food products as people became more price-sensitive and were trying to reduce their
expenditures. Because the overall household’s disposal income
decreased, the price contradiction became more noticeable for
products with higher value added and access to food went back
to being a live issue. As a result, the food safety nets proved to
be inadequate to face the crisis and the polarised distinction between safety and security, together the entire food law system,
needed to be re-thought.
The decision to focus on safety and to build up a structured
system around “safe food” that worked so well as an anxiolytic
in response to the first (food) crisis left room to a more elaborate
set of regulatory techniques, all grounded on good administration
concepts and aiming to achieve the objective of an integrated
sustainability, by encompassing security, safety and environmental concerns.
As above anticipated, in the next Sections, the analysis on the
good governance will follow an inside-out approach.
First, it will focus on some internal elements of the food regulatory regime as the key elements of such integrated vision, by
zooming in to observe some mechanisms that govern the food
governance dynamics, such as the network-shaped structure and
the intricate tissue of relationships among all the interested parties.
Second, the scrutiny will shift to the external relations of a
food governance system, confronted with equally relevant yet
contrasting interests and priorities and more specifically geared
to balance the right to food with other rights, such as the patent
and intellectual property protection.
308
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
Some conclusive hints will point out the need for a well-functioning food regulatory system, aiming to embody the complementing characteristics of being sufficiently grounded and flexible at the same time. Grounded because rooted on a consolidate
core of common principles, such as the accountability, transparency and responsibilities of its actors; flexible because capable
of identifying and prioritising the interests to be protected and
ultimately responsive to changes.
2. The Constitutive Elements of Food Governance
The system of food governance, in the widest sense, encompasses both the normative element related to the regulation of the
food sector (the rules of the game or food law) and the complex
of relationships flourished around such rules, by effect of mechanisms of compliance that have its actors bound to them.
The normative element, known as food law, has been studied
as a self-standing intertwining of interests, that often risks coming into conflict both internally and in the external relations to
other regimes.
The complex of relationships has the typical structure of a network, where the hierarchical allocation of powers is often accompanied and, at times, even replaced by non-hierarchical clustering
of actors and horizontal relationships among them. As the interests
involved are numerous and none prevails on the others, frictions
among rules and regulators are likely to emerge. Not only the areas
covered by food law are diversified – ranging from regulations of
commerce and consumers’ protection, to rules on agriculture, environment protection, animal wellbeing, cultural heritage6 –, but they
6. The expression ”ABC” of Food Law was used for the first time by B.
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
309
are also regulated by different authorities, involved in a constant
and dynamic dialogue7. The relationships’ matrix takes the form
Meulen, in The System of Food Law in the European Union, 14 DEAKIN L. REV. 305 (2009), 310: «The ABC of EU Food Law The ‘ABC’ of
EU food law is its focus on Authorities, Businesses and Consumers. The three
are, however, addressed in very different ways. While the protection of the life,
health and other interests of consumers is the main objective of food law […];
EU food legislation does not provide consumers with any specific rights or
remedies. Consumers who want to take legal action must rely on general consumer protection law such as product liability legislation […]. The key to food
safety is in the hands of the businesses handling the food. The most important
requirements regarding food are addressed to businesses. Obligations of public
authorities - both at Community and at Member State level - are secondary to
the obligations of businesses. Authorities have to ensure businesses’ compliance and they have to deal with situations of non-compliance». Id., The Structure
of European Food Law, Laws (2013), 2, 69–98; doi:10.3390/laws2020069.
7. For instance, dealing with consumers’ protection, Regulation (EU)
1169/2011 of the European Parliament and of the Council of 25 October 2011
on the provision of food information to consumers, amending Regulations (EC)
No 1924/2006 and (EC) No 1925/2006 of the European Parliament and of the
Council, and repealing Commission Directive 87/250/EEC, Council Directive 90/496/EEC, Commission Directive 1999/10/EC, Directive 2000/13/EC of
the European Parliament and of the Council, Commission Directives 2002/67/
EC and 2008/5/EC and Commission Regulation (EC) No 608/2004; https://
eur-lex.europa.eu/legal-content/en/ALL/?uri=CELEX%3A32011R1169 (last
access 23rd May 2018). Regarding rules on agriculture it is possible to mention the WTO Agreement on Agriculture, even though controversial, as well as
the European Common Agricultural Policy. Taking into account environmental
concerns reference can be made to the Council Regulation (EC) No 834/2007
of 28 June 2007 on organic production and labelling of organic products and repealing Regulation (EEC) No 2092/91 or to the EU actions against food waste,
included in the EU action plan for the Circular Economy, http://eur-lex.europa.
eu/legal-content/EN/TXT/?qid=1453384154337&uri=CELEX:52015DC0614
(last access 23rd May 2018). About animal well-being, for instance the European Convention for the Protection of Animals kept for Farming Purposes
(1976), available at https://ec.europa.eu/food/sites/food/files/animals/docs/
aw_european_convention_protection_animals_en.pdf Finally, the best example is the UNESCO Convention for the Safeguarding of the Intangible Cultural
Heritage (2003). The list of intangible cultural heritage includes, among others,
the traditional Mexican Cuisine; the Mediterranean Diet; the Turkish Coffee;
the Japanese Washoku etc. Please, refer to https://ich.unesco.org/en/convention
van der
310
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
of a regulatory network, composed of multiform and composite
traits, underpinned on the coexistence of various bodies, with diversified functions and responsibilities. In such a network, there is
not any default decision-making centre and the decision-making
power is allocated among the parties on an equal basis.
The two elements of the governance (food law and networked-based structure) have therefore blurry boundaries and
are subject to reciprocal interactions that at traits confound their
limits and trespass to other realms (environmental, economic,
ethical, health concerns). For this reason, the system of good
governance requires to abandon a compartmentalised vision of
interests for the benefits of harmonisation and integration.
Not only the sectorial, but also the jurisdictional fragmentation needs to be addressed and possibly overcome, by taking into
account the presence of compartmentalisation between different
legal regimes based on separate sets of rules and governed by
different specific authorities. The way forward to such fragmentation is the networked-approach, where connections are built up
and challenges and borders conflicts are mitigated if not resolved.
Last but not least, a problem of spatial fragmentation adds
to this list and needs therefore to be addressed. Although food
governance has a global dimension, many food products remain
confined within their topographical origin and their traditional
way of production8. Within this multi-layered framework, some
and to https://www.gounesco.com/intangible-cultural-heritage-food-edition/
(last access 23rd May 2008). Also the EU Regulations of Geographical Indications can be considered an attempt to protect traditional expression of local
food culture. With this regard, please refer to Regulation (EU) 1151/2012 of
the European Parliament and of the Council of 21 November 2012 on quality
schemes for agricultural products and foodstuffs, available at https://eur-lex.
europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=CELEX%3A32012R1151 (last access
23rd May 2018).
8. D. Bevilacqua, La sicurezza alimentare negli ordinamenti giuridici ul-
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
311
actors play a crucial role. To name just a few, the WTO at global
level and the European Union at the regional one, add elements
of intricacy and legal complexity9, having the system of food
governance to respond to external rules and concerns, as the ones
dictated by international trade. In this sense, it is clear that food
governance can effectively work only if interpreted as «a cooperative interplay of legal entities (public and private) to design and
adopt harmonised rules that enhance international trade in food
and so guarantee market access»10.
3. Set of Powers within the Food Governance: Focus on Private Food Governance
Regulation of food entails a complex interplay of various actors.
As previously outlined, the novel and continuously evolving
governance structure – commonly depicted as a network-based
system of relationships – connects institutions and authorities at
different levels11. This implies that several layers of responsibility and diversified enforcement mechanisms are mutually interrelated. Such interconnectedness has become fertile ground for the
growth of new forms of regulatory approaches, such as self-regulation, co-regulation, management-based regulation and other
private systems of governance12. The networked actors become
part of a multi-layered system, with sector-based powers rather
trastatali, Milano: Giuffrè, 2012, p. 88.
9. Consider, for instance, Geographical Indications as protected within the
EU through Regulation 1151/2012.
10. See, TRIPs Agreement, Article 27(3)(b).
11. M. Maidana-Eletti, 2014, p. 11.
12. A. Alemanno, Introduction. Foundations of EU Food Law and Policy,
in A. Alemanno and S. Gabbi (eds.), Foundations of EU Food Law and Policy.
Ten years of the European Food Safety Authority, Ashgate, 2014, p.5.
312
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
than State-centralised functions. The effect is that their rules go
beyond the national jurisdictions of the State sovereign and are
likely to cross borders and create alternative infra-national regimes of jurisdiction.
Though the distinction between the public and the private sector tends to fade away, it might be functional, for the purpose of
this contribute, to maintain it at least at epistemological level, by
distinguishing between the actors that interplay within the public
food governance arena and actors that belong to the private regime of governance.
The actors in the public realm include the World Trade Organization (WTO)13, the World Health Organization (WHO)14, the
13. Next to command and control (CAC), which «impose detailed, legally
enforceable limits, conditions, and affirmative requirements on industrial operations» or activities (R.I. Steinzor, Reinventing Environmental Regulation:
the dangerous journey from command to self-control, in Harvard Environmental Law Review, Vol. 22, p.104), different regulatory techniques, such as economic incentives for compliance, have emerged. Please, see R. Baldwin et.
al., Understanding Regulation: Theory, Strategy and Practice, 2012. At p. 3
the authors describe what can be intended as “regulation”: (i) a specific set of
command, meaning the promulgation of binding rules to be applied by a body
devoted to this purpose; (ii) a deliberate state influence, namely all state actions
that are designed to influence business or social behaviour. To this group belongs the command-based regimes; (iii) all forms of social or economic influence,
in which every mechanisms that effect behaviours - whether state-based or not
– is considered regulatory. Finally, they defines it as «an activity that restricts
behaviour and prevents the occurrence of certain undesirable activities […] The
broader view is, however, that the influence of regulation may also be enabling
or facilitative […].» For a comparison between CAC and self-regulation, see
also D. Sinclair, Self-Regulation Versus Command and Control? Beyond False
Dichotomies, in Law and Policy, Vol. 19, N. 4, 1997, 529-559.
14. The WTO promotes free trade at global level, in any sector of commerce, with agriculture and food policies being a major issue in WTO negotiations.
Besides, policy-making powers it also enjoys quasi-judicial functions, by means of the Dispute Settlement Body (DSB), whose action ensures compliance
with the rules adopted within the WTO system. Please, see J. Swinnen, A. Olper
and T. Vandemoortele, Impact of the WTO on Agriculture and Food Policy,
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
313
Codex Alimentarius Commission (CAC)15, the Food and Agriculture Organization (FAO)16 at global level; the European Union
and the other competent authorities, at regional level; specialised
agencies and competent national authorities at national level.
Private food governance actors, on the contrary, are representatives of the food industry, food business operators retailer
companies, also defined as transnational corporations (TNCs), as
well as consumers, be they individual or associated in organisations or social movements.
Such distinction of actors serve the purpose to introduce the
next topic of discussion, on the delicate task to identify the relevant interests to be protected at normative level, and therefore
institutional responsibilities and obligations, as well interests
groups. More in particular, in the specific case of protecting intellectual property for plant variety, the main public actors that have
to be taken into account for the purpose of this contribution are
the WTO (TRIPs Agreement)17, and the UN (International Covin The World Economy, 2012, p.1089-1101; G. Venturini, L’organizzazione
mondiale del commercio, Milano, Giuffré, 2004; G. Picone, A. Ligustro, Diritto dell’organizzazione mondiale del commercio, Padova, Cedam, 2002; P.J.
Lloyd, The Architecture of the WTO, in: European Journal of Political Economy, Vol. 17, 2001, p.327-353.
15. WHO Constitution came into force on 7 April 1948. Its primary role is
to direct and coordinate international health within the United Nations’ system.
Although health is not a focal point within this research, when it comes to food
governance, it is protected on three areas of regulation: food safety, animal
wellbeing and environment preservation. More information available on the
website: http://www.who.int/about/en/
16. The Codex Alimentarius Commission was established in 1962 by the
Joint FAO/WHO Food Standards Programme. Aiming at facilitating international trade, it elaborates standards, codes of practice, guidelines to address food
safety and quality.
17. FAO is an intergovernmental organization, with 194 Member Nations,
two associate members and one member organization, the European Union. It
has three main goals: the eradication of hunger, food insecurity and malnutrition; the elimination of poverty and the driving forward of economic and social
314
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
enant on Economic, Social and Cultural Rights (ICESCR))18. As
anticipated, private actors play a relevant role in the definition of
interests and responsibilities: global food and agricultural norms
are increasingly created not only by governmental actors but also
by private actors, particularly by the multinational and retailers’
corporations19. Therefore, rules set by a specific group of actors
are likely to impact on a plethora of target actors spread all over
the world20. This represents an endemic problem of private food
governance on the legitimisation of private actors21 to set up rules
with normative effects.
When it comes to public regulation, decision-making procedures, implementation and enforcement mechanisms are underpinned on democratic principles, so that no – or minimum
- doubts are supposed to rise about their legitimacy22. Public polprogress for all; and the sustainable management and utilization of natural resources, including land, water, air, climate and genetic resources for the benefit
of present and future generations. More information available on the website:
http://www.fao.org/about/en/
18. See The Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property
Rights, 15 Apr. 1994, 1869 U.N.T.S. 299, Specifically, this refers to Article
27(3)(b) of the TRIPs agreement under which Member States are under the
obligation to provide protection for plant varieties either by patent, by an effective sui generis system or a combination of both.
19. See, International Convention for the Protection of New Varieties of
Plants 2 Dec. 1961, 33 U.S.T. 2703, 815 U.N.T.S. 109 (revised 19 Mar. 1991).
20. D. Fuchs, A. Kalfagiannia and T. Havinga, Actors in private food governance: the legitimacy of retail standards and multistakeholder initiatives
with civil society participation, in Agriculture and Human Values, Vol. 28,
2011, p.353.
21. D. Fuchs, A. Kalfagianni, J. Clapp and L. Busch, Introduction to symposium on private agrifood governance: values, shortcomings and strategies,
in Agriculture and Human Values, Vol. 28, 2011, p.338.
22. “Legitimacy” in a normative sense is intended as “the right to rule”,
where ruling is promulgating rules and attempting to secure compliance with
them by attaching costs to noncompliance and/or benefits to compliance. It differs from the same notion in the sociology realm, in which an institution is
legitimate «when it is widely believed to have a right to rule». A. Buchanan and
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
315
icies are perceived as legitimate and binding for two main reasons: first, by virtue of citizens’ direct or indirect participation to
the legislative process and decision-making. Second, the legitimation grows stronger when the public can hold decision-makers
accountable by means of judicial review and elections23.
Things work differently within the private food governance,
insofar as principles of participation, transparency and accountability are hardly enforced. In particular, participation is often
hindered by the lack of equal opportunities for the different societal actors, as their voice is often ignored by major stakeholders.
Similarly, transparency is at stake when considering the scarce
level of information disclosure to the civil society, as well as the
obscurity due to its jargon and technical use of terms.
Finally, when it comes to accountability, the actors in private governance institutions are usually held accountable only to
those people directly affected by their activities, with the consequence that their responsibility is very narrow in scope24.
Despite these legitimacy defects, the transnational corporations’ market influences the political power as well, and the corporations become as strong as public entities, with the capability
to set, implement, and enforce rules with mandatory effects25.
«This type of power is structural in the sense that it affects the
R.O. Keohane, The legitimacy of global governance institutions, in Ethics and
International Affairs, Vol. 20, Issue 4, 2006, p.405.
23. Actually, especially when it comes to technical regulations, it is possible to doubt about the legitimacy of public governance as well. Very often
governments nominate experts or bureaucrats to negotiate rules in international
context. This makes the legitimacy chains longer, thus less connected with the
electoral constituency.
24. D. Fuchs, A. Kalfagianni, The Causes and Consequences of Private
Food Governance, in Business and Politics, Vol. 12, Issue 3, 2010, p.10.
25. D. Fuchs, A. Kalfagianni, J. Clapp and L. Busch, Agriculture and Human Values, p.340.
316
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
input side of the political process»26, in other words, it allows
corporate actors to determine the focus and content of rules.
Four main actors can be indicated as parties of the private food
governance, namely input suppliers, food manufacturers, retailers
and consumers27. However, the multinational companies (MCNs)
in the agri-business sectors are the predominant players, when
the food regime intersects the protection of intellectual property
rights28. The patent protection in plant variety emphasises how the
contrast between legal regimes can risk turning out into a substantial inequality among the parties involved. It is in this sense that the
observers of governance dynamics (legislators, decision-makers,
practitioners and scholars) need to be extremely aware of side effects in hastily balancing juxtaposed interests. Such attention and
care is required for the ultimate scope of monitoring that governance is good not only in words, but also in deeds.
4. Right to Food vis-à-vis Patent Protection: Restraints coming from External Relationships
Bearing in mind the aforesaid complex dynamics crossing internally the system of food governance, the Sections below will
26. J. Clapp and D. Fuchs (eds.), 2009, Corporate Power in Global Agrifood Governance, Cambridge, Massachusetts: The MIT Press.
27. J. Clapp and D. Fuchs (eds.), 2009, p. 9.
28. One of the most interesting metaphor to describe the agri-industrial
system is the one of an hourglass, whereby «farm commodities produced by
thousands of farmers must pass through the narrow part of the glass that is analogous to the few firms that control the processing of the commodities before
the food is distributed to millions of people in this and other countries.» W.
Heffernan, M. Hendrickson and R. Gronski (1999), Consolidation in the food
and agriculture system, Report to the National Farmers Union, p. 1, available
at http://www.foodcircles.missouri.edu/whstudy.pdf (last visited 26th August
2017).
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
317
be explore some critical aspects in the external relationships of
the food governance system with other legal regimes, and more
specifically will focus on the contrast between food legal provisions and intellectual property rights protection. The issue will be
tackled from the angle of patent protection, as it limits the right
of others to benefit from scientific progress and, by so doing,
constrains the realisation of the right to food.
The problem will be scrutinised by shedding light on the first
element of governance analysed above, that is to say by the perspective of the conflicts between norms, or by the one-sided interpretation of legal provisions.
The focus will be on the International Covenant on Economic,
Social and Cultural Rights (hereinafter, ICESCR), which obliges
the State Parties (art. 15 (1) c) to recognize the right of everyone
to enjoy the benefits of scientific progress and its applications
(henceforth, the benefit of scientific progress)29. In a similar vein,
article 11 of the Covenant obliges its Parties to recognises the
right to food. Particularly, while paragraph one of the provision
(article 11) provides that, «the States Parties to the Covenant recognise the right of everyone to an adequate standard of living for
himself and his family, including adequate food», paragraph two
of the provision stipulates that «the States Parties to the Covenant, recognize the fundamental right of everyone to be free from
hunger».
While in cognisant of the latter right, the UN Committee on
ESCR has elaborated the normative contents of the right under
29. See: I.M. Moretti, Tracking the trend towards market concentration:
The case of the agricultural input industry, United Nations Conference on Trade and Development”, Geneva, Switzerland, UNCTAD/DITC/ COM/2005/16,
(2006):19-20, see also ETC. “Breaking Bad: Big Ag Mega-Mergers in Play.”
ETC Group Communiqué 115, (2015).
318
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
General Comment Number 1230, the elements forming part of the
right to benefit from scientific progress yet lack a general comment. This means that the UN Committee on ESCR has not so
far elaborated the normative elements of the right to benefit from
scientific progress31. However, even though the provision (article
15(1)(c)) lacks explanation from the side of the UN CESCR, a
number of legal scholars32, including the UN Special Rapporteur
in the field of cultural rights, Farida Shaheed, have endeavoured
to shed light on the normative content of article 15(1)(c). Particularly, the Special Rapporteur, has stressed that «access by
everyone without discrimination to the benefits of science and
its application» is among the normative contents of the right enshrined in article 15(1)(c)33. This entails that access to science as
30. See, International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights,
adopted 16 Dec. 1966, G.A. Res. 2200 (XXI), U.N. GAOR, 21st Sess., U.N.
Doc. A/6316 (1966), 993 U.N.T.S. 3 (entered into force 3 Jan. 1976): Article
15(1)(b) of the ICESCR.
31. General Comment No. 12: The Right to Adequate Food, U.N. ESCOR,
Comm. on Econ., Soc. & Cult. Rts., 20th Sess., ¶ 19, U.N. Doc. E/C.12/1999/5
(1999). State Parties have an obligation to respect, protect and fulfill the right to
food as required under the Article 11 of the ICESCR.
32. As Audrey R. Chapman says this is so because the Committee has not
until now made use of the two processes it normally utilizes, has not held a day
of general discussion with key human rights bodies or has not adopted a General Comment seeking clarification as regards the provision’s interpretation.
Please, refer to A. R. Chapman, Towards and Understanding of the Right to
Enjoy the Benefits of Scientific Progress and Its Applications, Journal of Human
Rights, vol. 8, no 1, (2009): 1 ff.
33. Ibid, See also, Y. Donders, The Right to Enjoy the Benefits of Scientific
Progress : in Search of State Obligations in relation to Health, Medicine, Health Care and Philosophy 14, No 4, (2011): 371; W.A. Schabas, Study of the Right
to Enjoy the Benefits of Scientific and Technological Progress and Its Applications, in Y. Donders and V. Volodin (eds), Human Rights in Education, Science
and Culture – Legal Developments and Challenges, Aldershot, Ashgate, 2008:
273 ; C. Timmermann, Sharing or Benefiting from Scientific Advancement ?, Sci
Eng Ethics, vol. 20, no 1, 2014:111 ; UNESCO, Venice Statement, Venice Statement on the Right to Enjoy the Benefits of Scientific Progress and its Applica-
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
319
a whole and, particularly, advances made by application of scientific technologies or knowledge must be guaranteed or accessible
to all34. Therefore, this implies that advances or genetic improvements (GI) made to plant varieties35, such as genetically engineered (GE) seeds must be available and accessible to everyone.
These advances also form the constituent element of the right to
food, meaning that the right to benefit from scientific progress
has strong nexus with other human rights, which among others
include the right to food36 and the constituent elements forming
part of such right.
In this sense, it might be interesting to investigate how and
whether the TRIPs rules37 on plant variety squeeze the full enjoytions, (2009), Report of the Special Rapporteur in the field of cultural rights Ms.
Farida Shaheed on the right to enjoy the benefits of scientific progress and its
applications, presented at the Twentieth Session of the Human Rights Council
(14 May 2012) (A/ HRC/20/26). L. Shaver, The Right to Science: Ensuring
that Everyone Benefits from Scientific and Technological Progress, European
Journal of Human Rights 2015/4: (2015):411-430. See also: Y. Donders et Al.,
The Human Right to Enjoy the Benefits of the Progress of Science and Its Applications, The American Journal of Bioethics 17, No.10 (2017):34-36.
34. The United Nations Office of the High Commissioner for Human Rights, 2012, The Right to Benefit from Scientific Progress and its Applications,
available at: http://www.ohchr.org/EN/Issues/CulturalRights/Pages/benefitfromscientificprogress.aspx
35. Report of the Special Rapporteur in the field of cultural rights, “The
right to enjoy the benefits of scientific progress and its applications,” Submitted
by Farida Shaheed, (14 May 2012):Para.25-29.
36. See the International Treaty for Plant Genetic Resources for food and
agriculture, 2009, FAO, Rome, Italy. “Variety” means a plant grouping, within
a single botanical taxon of the lowest known rank, defined by the reproducible
expression of its distinguishing and other genetic characteristics.
37. See, The United Nations Office of the High Commissioner for
Human Rights, 2012 the Right to Benefit from Scientific Progress and
its Applications, op. et loc. cit. See also, O. De Schutter, The Right
of Everyone to Enjoy the Benefit of Scientific Progress and the Right
to Food: From Conflict to Complementarity, The Interdisciplinary
Research Cell in Human Rights (CRIDHO) Research Paper 2011/5,
320
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
ment of the right of everyone to benefit from scientific progress
and, by doing so, trespass the borders of food governance and
narrow the realisation of the right to food. Preliminarily to such
reflection, it is imperative to keep in mind that today’s global
challenge as regards food insecurity emanates mainly from lack
of adequate food distribution38 rather than food availability39. In
such a context, the enactment and later expansion of protection in
plants (as obliged for under art 27(3)(b) of the TRIPs agreement)
may contribute to this assertion40, as the expansion of strong exclusive rights in plants has put restrictions on the “accessibility”
of adequate food to farmers41, especially, as regards genetically
modified (GM) seeds.
(2011):5ff.
38. See TRIPs Agreement, Article 27(3)(b), In this regard, while Article
27(3)of the Agreement provides exceptions to patentability whereby MS are
given discretion, sub-article (b) provides an obligation MS have to provide protection to plant varieties either by patent, an effective sui generis system or a
combination of the two.
39. O. De Schutter, Seed Policies and the Right to Food: Enhancing
Agro-biodiversity, Encouraging Innovation, (2009) Report by Special Rapporteur on the Right to Food, U.N. GAOR, 64th Sess., U.N. Doc. A/64/170: at 2.
40. P. Cullet, Food Security and Intellectual Property Rights in Developing Countries, (2003), IELRC WORKING PAPER 3, International Environmental Law Research Centre, Geneva, Switzerland, See also, E. Messer (2001),
Food Systems and Dietary Perspectives: Are Genetically Modified Organisms
the Best Way to Ensure Nutritionally Adequate Food?, Indiana Journal of Global Legal Studies: Vol. 9 : Iss. 1 , Article 5, at 68.
41. Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights,
15 Apr. 1994, 1869 U.N.T.S. 299, The Agreement on Trade Related Aspects of
Intellectual Property Rights (TRIPS) entered into force on January 1st, 1995.
The agreement has set minimum global Intellectual Property Protection. It requires WTO Members to adopt minimum standards of IPRs protection in numerous areas, inter alia, copyright, trademarks and patents. With regard to patent
protection, TRIPs obligates protection to be available for both products and
processes in all fields of technology.
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
321
5. Exclusive Rights for Plant Related Innovations Under TRIPs
The case of genetically modified (GM) seeds is of particular
interest for the scope of this investigation because it is at the
crossroads of different governance systems, which include food,
health, intellectual property rights and the knowledge advancements in hard sciences.
In particular, GM seeds are a byproduct of scientific progress,
which connotes that everyone has the right to enjoy the benefits
arising from progress made through science as regards, particularly, GM seeds42. However, the presence of exclusive rights granted
to patent holders risks to have an adverse effect on the realisation
of the right to have access to adequate food, as elaborated under
General Comment No. 12 of the ICESCR43. The exclusivity in
rights’ entitlement causes another internal contradiction, as the
introduction of intellectual property rights in general and patent
protection applied to plant improvements, also contravenes the
right of everyone to enjoy the benefit of scientific progress.
6. Privatisation of Agro-Biotechnology and the Right to Food:
When the Lack of Harmonised and Integrated Approaches
Leads to Substantial Inequalities
The genetically modified regulation highlights other signs of
disharmony, not only among rules, but also among actors. In
42. See S. McGuire and L. Sperling, Seed systems smallholder farmers use,
Food Security, Vol. 8, Issue 1 (February 2016), pp. 179-195. Available from
DOI 10.1007/s12571-015-0528-8.
43. O. De Schutter, 2009, Seed Policies and the Right to Food: Enhancing
Agrobiodiversity, Encouraging Innovation, Report by Special Rapporteur on
the Right to Food, U.N. GAOR, 64th Sess., (U.N. Doc. A/64/170): 2 ff.
322
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
particular, the concentration of the private sector in the development and provision of modern GM plant varieties has put limits
on farmers as regards their traditional practices of seed saving,
selling and exchange44. This trend in addition violates the availability dimension of the right to food, as elaborated by the UN
Committee on the ESCR, which refers to «availability of food in
a quantity and quality, free from adverse substances, and acceptable within a given culture»45. The infiltration of patent holders
into the traditional practices common in most farming societies
(via the license agreements they sign with farmers) violates the
obligation of states to ensure availability of food as acceptable
within the customary practices of farmers. Due to this restriction
imposed on the customary practices of farmers in developing
countries, the innovative capacities of farmers to breed better and
locally adopted varieties has been curtailed upon46.
The international system of intellectual property rights protection does not give due consideration to farmers’ traditional
knowledge and expertise, due to the conviction that they are incapable of playing an active role on a large-scale production47.
44. According to the UN Committee on ESCR, accessibility of adequate
food, which is considered a core content of the right to food (hereafter RTF),
has been defined as constituting both physical and economic accessibility.
Economic accessibility in turn has been elaborated to imply, «personal or household financial costs associated with the acquisition of food for an adequate
diet should be at a level such that the attainment and satisfaction of other basic
needs are not threatened or compromised». General Comment 12, Para 13.
45. O. De Schutter, The Right of Everyone to Enjoy the Benefits of Scientific
Progress and the Right to Food : From Conflict to Complementarity, Human Rights Quarterly, 33 (2), John Hopkins University Press, (2011):13., see also, H.M.
Haugen, M. Ruiz Muller et al, Food security and intellectual property rights.
Finding the linkages, Intellectual Property and Human Development (2011).
46. See, the UN Committee on ESCR General Comment No. 12, Para 8.
47. For more, see K. Aoki, S. Wars: Controversies and Cases on Plant
Genetic Resources and Intellectual Property, (2008). See also, J. Kloppenburg,
Jr., & D. Lee Kienman, Seed Wars: Common Heritage, Private Property, and
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
323
The lack of harmony among regimes has deep consequences also in the social tissue of the food communities and causes
structural inequalities, as the impaired development of the contracting powers among the food actors. Suffice it to say, that privatization of agricultural innovations by the private sector has
transformed farmers’ role from that of seed owners to mere licensees of a patented product48. The pressure that is being put
on farmers traditional practices has been a result of the profit
maximisation motive of the private sector (patent holders). This
implies that as opposed to farmers, the private sector defines and
sets research priorities based solely on profit making consideration than what is in the public interest49. The consequences of
such unbalances becomes evident also in the public realm of governance, and are fleshed out in the violation of State’s obligation
«to regulate activities of individuals or groups so as to prevent
them from violating the right to food of others»50 depending on
those inputs in order to be able to continue to farm. The private
sector has made farmers dependent on the commercial provision
of seeds, by snatching away the independence of farmers in deciding what and how to produce food. This pressure, as such, not
only straps the economic stability of farmers but also snatches
decision-making power from them as regards what to produce
and what the modality of production should be51.
Political Strategy, 95 Socialist Rev. 6. (1987).
48. N. Lowaars, Seeds of Confusion. The Impact of Policies on Seed Systems, Wageningen, The Netherlands, (2007):106-107.
49. I.M. Moretti, Tracking the trend towards market concentration: The
case of the agricultural input industry, United Nations Conference on Trade
and Development, Geneva, Switzerland, UNCTAD/DITC/ COM/2005/16 ,
(2006):19-20.
50. See: Nyéléni, Seed Laws That Criminalise Farmers Resistance and Fightback, Nyeleni Newsletter, (2015):4.
51. See, the UN Document titled: Substantive Issues Arising In The Imple-
324
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
7. Concluding Reflections
Food governance is increasingly shaped by global problem-solutions patterns.
In law, as in other fields, globalisation changed the perception of the legal phenomena. The “consciousness-of-the-worldas-a-whole” started to spread out, and somehow the antonyms
“central-local” “integration-compartmentalisation” changed
their connotations. Before the advent of the global dimension,
law was organized mainly within the national boundaries; now,
the dimension is across borders, with the double effect, on the
one hand, of supranational systems influencing the national and
the local, and, on the other hand, of local developments having
pervasive repercussions on different parts of the world52.
The image used of an hourglass well depicts such dynamics,
in which the upper and lower levels are reciprocally interconnected and relate to one another through the filter of an intermediate level. Both upper and lower levels can play a major role in
influencing each other.
In tracing the new cross-border dimension, another image is
often used by the scholarship to give the picture of the phenomenon - the image of the networks, to which consistent reference
throughout this contribution has been made.
The relationship between actors and network has a mutual
creative force: on one side, the emersion of new actors has influenced the rise of the network system; on the other side, the
network system has encouraged the participation of a target of
mentation Of The International Covenant On Economic, Social And Cultural
Rights , May 1991, (E/C.12/1999/5), Para 19.
52. R.C. Lewontin, The Maturing of Capitalist Agriculture: Farmers as
Proletarian, in Hungry For Profit: The Agribusiness Threat To Farmers, Food,
And The Environment, 93, 101 (Fred Magdoff, et al. eds., 2000).
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
325
actors wider than merely the national states53. Manuel Castells
pushes the metaphor to the conclusion that, in the global system,
the network state is actually the new form of state, «characterized by sovereignty and responsibility, flexibility of procedures
of governance, and greater diversity in the relationship between
governments and citizens in terms of time and space»54.
Examining the problematic issues that the new networks system generates also helps to identify its inner structure. Castells
emphasises that one of the major problems of the network system is coordination between old and new structures, in which
the states that previously relied on territoriality to exercise their
authorities are now confronted with agencies that do not have
the same structure55. This coordination issue is also reflected in
communication problems, since the advent of internet and computer networks oftentimes destabilises the old communication
channels, pressuring the bureaucracies to widen citizens participation56. However, coordination is not only the crucial feature of
an efficient network.
Here emerges what is probably the most relevant issue of the
networks: the need to establish a common core of values that
works as a common language of communication. These values
include opposition to market driven forces, acceptance of sustainable development, and prioritisation of fundamental rights’
protection (right to life, health, food) over secondary rights
(property rights). The common denominator of these values is
53. W. Twining, Globalisation and Legal Scholarship, Tilburg Law Lectures Series, Montesquieu Seminars Vol. 4, (2009): 8.
54. The exchange of information as a way of regulating into a network
system was first studied by A.M. Slaughter, A New World Order, (Princeton:
Princeton University Press, 2004): 40. See also Jan A.G.M. Van Dijk, The
Network Society, Second Edition, (London: Sage Publications, 2006).
55. M. Castells, The New Public Sphere, 87.
56. Ibid., 88.
326
Margherita Poto, Eden Tafesework, Lara Fornabaio
that all of the decisions related to them shall involve all the interested parties: in other words, to implement the common core,
it is necessary to set up good administration principles as guidance. Transparency, accountability and participation are among
the most important keys to opening up the dialogue between the
parties.
Their relevance is self-evident in their capability to strengthen the decision-making process in the public law realm, by improving its inclusiveness. In the public sector and in the private
sector, bottom-up initiatives are combined with top-down regulation to provide «basic security, economic, social and political
goods to the population»57. A well-governed system envisages
an integrated approach of centralised regulation and decentralised58 practices that enhance «new spheres for grassroots political
participation»59 and foster democratic development through an
improved political commitment that provides public goods tailored on local population. Nonetheless, the main shortcoming is
that decentralised practices can be easily exploited by national
governments to spread their control over the territory60, or may
be concentrated in the hands of major private stakeholders that
might increase the opportunity for corruption61 and inequalities
at a local level. Striking a balance between decentralised actions
and risks of public misconduct, information and dissemination
57. Ibid., 88.
58. R. Orr, Governing When Chaos Rules: Enhancing Governance and
Participation, The Washington Quarterly 25 (2002): 141.
59. D.A. Rondinelli, Government Decentralization in Comparative Perspective: Theory and Practice in Developing Countries, International Review
of Administrative Sciences 47 (1981): 133-145.
60. B. Kohl, Democratizing Decentralization in Bolivia. The Law of Popular Participation, Journal of Planning Education and Research 23, (2003): 153.
61. D. Slater, Territorial Power and the Peripheral State: The Issue of
Decentralization, Development and Change 20 (1989): 501-31.
Food Governance to the Test of Internal Contradictions [...]
327
processes plays a pivotal role in monitoring bureaucrats’ work
and, thus, in decreasing the risk of corruption. As a result, greater
transparency and improved access to information are complementary to accountability mechanisms62.
The contribution has shown how food governance is pervaded by the upsides of the globalization but is also not immune
from its downsides, as loaded as it is by internal contradictions
and external pressures. Therefore, food governance needs to be
handled with the same prudence and foresight used to scrutinize
any other regime that originates from the urge to keep up with
the global speed.
It requires a fresh eyes look, a flexible attitude, a clear awareness and a bit of indulgence.
62. See J. Gerring and S.C. Thacker, Political Institutions and Corruption:
The Role of Unitarism and Parliamentarism, B.J.Pol.S. 34, (2004): 300.
Il sistema “cibo bene comune”
Tomaso Ferrando
Sommario: Introduzione 1. Diritto e cibo 2. Sovranità alimentare: la rivendicazione contadina lungo la strada di una riforma strutturale 3. Costruire dal
basso a partire dal cibo bene comune 4. Conclusione: cambiare paradigma
per cambiare il sistema cibo
Introduzione
«Il cibo è vita» recita l’ultima frase della campagna di comunicazione coniata per l’Esposizione Universale di Milano - EXPO
20151. Dietro alla semplicità di questo slogan, certamente giustificato dall’evidente centralità del cibo come elemento essenziale
per la sopravvivenza di ogni essere vivente, è però racchiusa una
molteplicità di significati che ruotano intorno alla funzione biologica di ciò che mangiamo e si estendono sino alla definizione
dell’identità culturale di un popolo. Allo stesso tempo, il cibo è
anche l’espressione di pratiche, dinamiche giuridiche, strutture
economiche e rapporti di forza che sono alla base della produzione, del trasporto e del consumo di alimenti, e le cui caratteristiche
– che variano nel tempo e nello spazio – sono state semplificate
da Friedman e McMichael con il concetto di food regimes2.
1. R. Fisman and R. Gatti, Decentralization and Corruption: Evidence
Across Countries, Journal of Public Economics 83 (2002): 328.
2. Una prima versione di questo capitolo é comparsa nel volume Beni Comuni 2.0 a cura di A. Quarta e M. Spanò (Mimesis, 2016). XPO 2015, On air la
329
330
Tomaso Ferrando
Interessarsi al cibo vuole dunque dire avere a che fare con
la vita ma anche con un complesso sistema in cui si intrecciano natura, politica, economia, identità e rapporti di forza. Allo
stesso tempo, cibo significa diversità socio-economico-culturale,
carestie, speranze, colonizzazione e rivolte (chi non si ricorda di
Maria Antonietta che suggeriva di dare brioches ai francesi affamati che chiedevano del pane). Non a caso, i vari regimi che si
sono susseguiti nel tempo hanno avuto un contraltare nel campo
giuridico e sono stati segnati da continui interventi dell’autorità
pubblica. In particolare, una breve genealogia del diritto inteso
come rappresentazione e cristallizzazione della volontà politica
dominante (che spesso non è sinonimo di volontà democratica)
suggerisce che esso abbia avuto un ruolo centrale nel favorire il
consolidamento di una visione del rapporto tra cibo e società e
nella costruzione del sistema che provvedeva alla sua produzione, al suo trasporto e al suo consumo.
Se ci soffermiamo sul sistema alimentare attualmente dominante nel Nord Globale, esso si colloca a cavallo tra l’industrialismo del capitale privato multinazionale e la speculazione finanziaria, strettamente collegato a dinamiche e processi di estrazione
e produzione che avvengono nelle zone periferiche del mondo3.
Se il modello agro-industriale è ad oggi il punto di riferimento in
numerosi paesi (inclusa l’Unione Europea e la sua Politica Agricola Comune) e se esso è spesso al centro di progetti di sviluppo
campagna di comunicazione di Expo Milano 2015 con la voce di A. Albanese:
Cibo è Vita, reperibile all’indirizzo: http://www.expo2015.org/it/on-air-la-campagna-di-comunicazione-di-expo-milano-2015-con-la-voce-di-antonio-albanese--cibo-e-vitanota.
3. P. McMichael, A food regime genealogy, 36 Journal of Peasant Studies
139–169 (2009); P. McMichael, Historicizing food sovereignty, 41 Journal of
Peasant Studies 6, 1–25 (2014); H. Friedmann, Distance and Durability: Shaky
Foundations of the World Food Economy, 13 Third World Quarterly 371–383
(1992).
Il “sistema cibo bene comune”
331
internazionale, la ragione è da trovare nel supporto politico ed
economico che ricevette nel secondo dopo guerra e nell’affermazione della retorica che fosse l’unico sistema capace di produrre
sufficiente cibo e nutrire una quantità crescente di persone ed
evitare la fame. A ben vedere, però, è sufficiente guardare al presente ed agli ultimi decenni di storia del sistema alimentare per
scoprirne i limiti intrinseci.
Ad oggi, la popolazione mondiale conta quasi un miliardo di
affamati e – paradossalmente – lo stesso numero di obesi4; le risorse naturali si stanno progressivamente esaurendo ed il suolo
agricolo ha perso gran parte della sua fertilità; le promesse della
Rivoluzione Verde si sono rapidamente rivelate inattendibili e
controproducenti5; il cibo che viene prodotto e di cui il mondo
dovrebbe nutrirsi é sempre più concentrato e subordinato alla
realizzazione di profitti per il capitale globale; la natura si sta
ribellando all’impiego di fertilizzanti e pesticidi, nonché all’inquinamento atmosferico ed all’emissione di gas serra, ai quali il
sistema cibo mondiale contribuisce per oltre il 30%6.
4. M. Vander Stichele, How financialization influences the dynamics of
the food supply chain, 2 Canadian Food Studies / La Revue canadienne des
études sur l’alimentation 258–266 (2015); J. Clapp, Financialization, distance
and global food politics, 0 Journal of Peasant Studies 1–18 (0); G.A. Epstein,
Financialization and the World Economy (2005).
5. R.C. Patel, Stuffed and Starved: Markets, Power and the Hidden Battle
for the World Food System (2009).; FAO, The State of Food Insecurity in the
World, FAO, Roma, 2015 accessibile da http://www.fao.org/3/a4ef2d16-70a7460a-a9ac-2a65a533269a/i4646e.pdf
6. Il termine Rivoluzione Verde si riferisce ad un modello di sviluppo agricolo su larga scala introdotto in India a partire dal 1940. Il progetto, giustificato
sulla base del paradigma produttivista e dalla necessita di liberare lo spirito del
capitale, aveva come obiettivo quello di tecnologizzare, intensificare e industrializzare il settore agricolo come uniche soluzioni ai problemi di insicurezza
alimentare dell’India. Tramite la modernizzazione dell’agricoltura familiare,
un maggior uso di fertilizzanti, semi ibridi e macchinari si sarebbero dovuti
ottenere raccolti più sostanziosi e risolvere il problema della fame. Dopo pochi
332
Tomaso Ferrando
La deprivazione, la fame e l’insicurezza alimentare non devono essere percepite, però, come cortocircuiti di un modello
altrimenti capace di provvedere al fabbisogno di tutti in modo
compatibile con l’ambiente. Al contrario, esse sono elementi
strutturali di un sistema nel quale la ricerca continua di profitto
e la centralità del valore di scambio fanno sì che ci siano calorie
sufficienti per tutti gli abitanti del pianeta, ma allo stesso tempo
un terzo della produzione mondiale non venga consumata, che
la metà delle calorie fornite dalla natura venga trasformata in
combustibile o mangime e che gli investimenti vadano solo nella direzione dell’aumento della produzione invece che dell’equa
redistribuzione di quanto già si produce. Allo stesso modo, non
possiamo e non dobbiamo accettare l’idea che sia impossibile
raggiungere l’obiettivo del cibo accessibile e di qualità per tutti,
perché questo sarebbe contrario all’idea stessa di eguaglianza e
universalismo che sono alla base della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo.
In risposta alle intrinseche ingiustizie appena descritte, e, in
particolar modo, in reazione alla svolta neoliberista degli anni
ottanta e all’ennesimo picco dei prezzi alimentari avvenuto nel
2007-2008, le ideologie che hanno dominato l’espansione globale del ‘sistema cibo’ occidentale attraverso tutto il XX secolo hanno iniziato a essere messe profondamente in questione da
decenni dal suo avvio e un incremento nella resa di alcune sementi, la decisione
adottata dal governo indiano in cooperazione con alcune potenze del blocco
occidentale (Stati Uniti e la Banca Mondiale in primis) rivelò però il suo lato
‘oscuro’. L’India post-Rivoluzione Industriale era caratterizzata da un’incredibile accumulazione privata di risorse precedentemente comuni, concentrazione
di terra e potere, subordinazione del mondo contadino alle scelte produttive e di
acquisto del capitale transnazionale, nonché dal depauperamento del terreno, la
riduzione della produttività e l’aumento dei suicidi tra i piccoli agricoltori. E la
sua ‘legacy’ è viva ancora oggi. Per interessanti analisi del fenomeno e del suo
legame con l’attuale regime alimentare, si vedano, tra gli altri,
Il “sistema cibo bene comune”
333
parte del mondo contadino e dei lavoratori agricoli, anche attraverso la costituzione di piattaforme di confronto e solidarietà
internazionali quali La Via Campesina7. Finalmente, un crescente
numero di persone – anche al di fuori dell’ambito campesino - si
sta interrogando sugli effetti e la validità di presupposti intellettuali quali la crescita illimitata, la speranza quasi messianica
nello sviluppo tecnologico come superamento di ogni ostacolo,
la creazione di un mercato globale deregolamentato ed aperto ad
ogni forma di concorrenza, l’individualismo produttivistico, la
centralità del valore di scambio ed, in generale, l’accettazione
del cibo come un oggetto alla pari di qualunque altro ‘prodotto’.
Questa breve analisi vuole offrire un supporto a tali riflessioni
e sottolineare l’importanza di un’azione coordinata a favore di
un paradigma e modello alternativi del sistema cibo. Cambiare é
essenziale e tutti quanti dobbiamo fare la nostra parte: incluso chi
si interessa di diritto.
1. Diritto e cibo
Come anticipato, il diritto gioca un ruolo cruciale nel consolidamento dell’attuale modello di produzione, distribuzione e
consumo del cibo. In particolare, il rapporto tra diritto e cibo
ruota attorno a tre pilastri principali: i) il cibo è un oggetto del
diritto commerciale globale, perché deve essere fatto circolare
liberamente attraverso le frontiere, e del diritto della concorrenza, perché spesso gli attori del mercato agiscono in ambiti oligopolistici che garantiscono loro potere economico sufficiente
7. S.J. Vermeulen, B.M. Campbell, J.S.I. Ingram, Climate Change and
Food Systems, Annual Review of Environment and Resources 37, 2012, 195–
222.
334
Tomaso Ferrando
per determinare le modalità di produzione, favorire il commercio
internazionale e rinforzare la visione del cibo come merce, così
da poter accumulare la maggior parte del valore di scambio; ii) il
cibo porta con sé potenziali rischi per la salute (food safety) che
richiedono l’intervento dei legislatori nazionali e l’introduzione
di sistemi interni di governance della catena di produzione; iii) il
cibo è un diritto riconosciuto da alcuni accordi internazionali, da
qualche decina di Costituzioni nazionali e, in numero ridotto, da
legislazioni e regolamenti locali8.
Apparentemente distinti, questi tre ambiti sono accomunati dal fatto di interpretare il cibo come un oggetto di cui ci si
può appropriare, liberamente trasferibile a livello globale e il cui
valore è inevitabilmente definito dalla produzione di utili commerciali o finanziari. A ben vedere, le leggi sul commercio internazionale, le norme antitrust e il controllo sulla qualità degli
alimenti non considerano il cibo come un elemento essenziale
alla vita di ogni essere umano, parte fondante di ogni comunità
sia nella sua produzione sia nel consumo, ma un bene che gli
attori del sistema alimentare forniscono ai consumatori di tutto il
mondo, ovviamente in cambio di un prezzo.
Anche la visione del cibo come un diritto, introdotta nei trattati internazionali a partire dalla Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo e fortemente predicata negli ultimi anni, non
appare fornire una visione realmente alternativa dell’idea di cibo.
Seppur potenziale strumento di protezione giuridica contro le
ineguaglianze prodotte dall’attuale sistema alimentare, il right to
food si muove all’interno del paradigma politico-normativo dominante che interpreta il cibo come atto individuale di consumo
e perciò naturalizza un modello di mercato che trae un signifi8 P. Rosset, Re-thinking agrarian reform, land and territory in La Via
Campesina, 40 Journal of Peasant Studies 721–775 (2013).
Il “sistema cibo bene comune”
335
cativo ritorno economico da un fabbisogno umano essenziale. Il
futuro a ‘fame zero’ da molti auspicato viene sovente declinato
come una pretesa nei confronti dello Stato volta all’individuazione di un rimedio a breve termine a fronte delle deprivazioni
prodotte dal ‘sistema cibo’ dominante e non come il diritto a ottenere la ridefinizione delle forme giuridiche e delle strutture di
potere alla base del modello attuale. In questa sua declinazione,
il diritto al cibo accetta l’interpretazione “commodificata” di ciò
che consumiamo e nel lungo termine rischia di sostenere, anche
se indirettamente, un modello di produzione su larga scala altamente meccanizzato e, se ciò genera più profitto che può essere
utilizzato per comprare cibo prodotto altrove, anche la trasformazione del cibo in carburante9.
In particolare, laddove si accetti la prospettiva del diritto al
cibo come sola obbligazione dell’autorità pubblica di proteggere,
tutelare e rispettare il diritto a non avere fame, ci si arrende all’idea che il cibo sia solo consumo e che sia possibile orientare il
9. A livello internazionale, il diritto al cibo è stato riconosciuto per la prima
volta dall’articolo 25.1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, anche
se come uno dei componenti essenziali del diritto ad uno standard adeguato
di vita. Successivamente, il diritto al cibo è stato inserito (sempre in maniera
indiretta) nell’articolo 11 del Patto Internazionale sui diritti Economici, Sociali
e Culturali ed anche nella Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di
discriminazione contro le donne e nella Convenzione sui diritti del bambino. A
livello regionale, il diritto al cibo è riconosciuto dalla Dichiarazione Americana
sui diritti e obbligazioni dell’uomo (articolo 9). In quanto al riconoscimento da
parte delle legislazioni nazionali, ventitré costituzioni nazionali riconoscono
il diritto al cibo, due soltanto delle quali (Moldovia e Bielorussia) a livello
europeo. In Italia, nel Novembre del 2015 la Regione Lombardia ha adottato
la prima legge regionale sul riconoscimento, tutela e promozione del diritto al
cibo. Si veda Lidija Knuth e Margaret Vidar, Constitutional and Legal Protection of the Right to Food around the World, FAO, Roma, 2011; Tomaso Ferrando e Roberto Sensi, What can we learn from the European Union’s first right
to food law?, The Bmj Opinion, 20 gennaio 2017, disponibile all’indirizzo:
http://blogs.bmj.com/bmj/2017/01/20/what-can-we-learn-from-the-europeanunions-first-right-to-food-law/>. (ultimo accesso 31 maggio 2018).
336
Tomaso Ferrando
modello attuale verso il soddisfacimento dei bisogni umani. Per
esempio, la coesistenza di fame e spreco alimentare non è interpretata come la rappresentazione dell’inefficacia di un modello
alimentare dipendente sulle possibilità finanziarie di ognuno, ma
piuttosto come un’opportunità per offrire cibo a chi non possa
comprarlo. Il problema della mancanza economica viene quindi
aggirato tramite donazioni, volontariato e atti di carità, come se
mangiare non fosse un diritto ma un favore ricevuto.
In modo analogo, una visione individualizzata del rapporto
uomo-cibo é tale che l’intervento di capitali finanziari nella catena del cibo viene interpretato come una fonte di investimenti
che può aumentare la produzione e ridurre i costi e non come
un’ennesima ingerenza del modello dominante che favorisce l’omogeneizzazione della produzione e il trasporto internazionale10.
Allo stesso modo, i brevetti sulle specie vegetali e animali sono
giustificati perché favoriscono l’innovazione tecnologica e la
produzione su larga scala, senza chiedersi quali siano gli impatti
sul mondo contadino e sulla vita nelle campagne. Se il cibo è un
bene di consumo che deve essere acquistato, l’interesse pubblico
in un momento di crisi economica ed austerità sarà allora quello
di garantire il prezzo più basso, indipendentemente dalle conseguenze ambientali, sociali e sanitarie che sono spesso collegati al
tentativo di battere la concorrenza. Dunque, sindaci e governi celebreranno il fatto che la grande distribuzione organizzata decida
di aprire negozi di quartiere ed abbassare il costo dei prodotti,
senza chiedersi quali siano le conseguenze sui produttori e sulle
attività commerciali a conduzione familiare11.
10. Fermo restando che il riconoscimento politico e l’affermazione legislativa-giurisprudenziale del diritto al cibo rappresentano due strumenti fondamentali per tentare di trasformare l’attuale sistema cibo.
11. T. Ferrando, Il Sistema alimentare come investimento: note introduttive
sulla finanziarizzazione di ciò che mangiamo, in Cibo (a cura di N. McKeon),
Il “sistema cibo bene comune”
337
Infine, un paradigma che oggettifica il cibo e lo considera
come un qualunque altro prodotto si riverbera anche sull’origine
del cibo stesso, vale a dire la terra. Da un lato, l’agricoltura convenzionale che vuole produrre per sfamare guarda al suolo come
una tavola periodica, un insieme di elementi chimici che possono
essere controllati, modificati e adattati alle esigenze di chi produce. La complessità dell’ecosistema, le necessità delle generazioni
future e l’impatto che la manipolazione chimica hanno sul cibo
passano in secondo piano di fronte alla (falsa) necessità di produrre di più ed ora. D’altro lato, economisti e giuristi ribadiscono
la necessità di trasformare la proprietà informale o collettiva in
proprietà privata ed esclusiva che possa essere utilizzata come
garanzia per accedere al mercato finanziario ma anche per non
dover condividere i benefici della terra. Nel nome della protezione dell’individuo e della superiorità della proprietà privata nel
garantire l’efficiente sfruttamento della terra, si perde di vista la
possibilità che singoli individui adottino scelte idiosincratiche
indipendenti dalle necessità collettive e non si presta attenzione
ai rischi di concentrazione ed esclusione che nascono una volta
che il diritto assoluto sulla terra sia formalizzato e pertanto reso
trasferibile e appropriabile.
Pertanto, un approccio critico al ruolo che il diritto gioca nella creazione e riproduzione del food regime dominante non può
che riconoscere il fatto che «considerare il cibo come una commodity non è per nulla naturale ma una costruzione sociale, un
paradigma prodotto e sostenuto da politiche liberiste e neoliberiste»12. Risolvere le contraddizioni e le ineguaglianze sistemiche
Parolechiave, 2018.
12. Ad oggi, il ruolo che il diritto della concorrenza ha nella riproduzione e
protezione del sistema globale del cibo capitalista non è stato sufficientemente
studiato. Eppure, sono evidenti le responsabilità e le contraddizioni di un modello
giuridico fondato sull’idea che prodotti più economici rappresentino, in quanto
338
Tomaso Ferrando
dell’attuale ‘sistema cibo’ richiede dunque un cambio di visione
politico-normativa e l’adozione di un paradigma radicalmente
differente che riconosca la centralità e l’unicità del cibo per la
vita umana e che sia capace di ripensare l’intera catena alimentare, dalla terra dove tutto inizia fino all’atto del mangiare con il
quale la maggior parte del genere umano si connette con l’agricoltura. Tale nuova (vecchia) visione13, si dovrà riflettere sia nelle
politiche del cibo (food policies) sia nel modo in cui il diritto
è pensato, prodotto e applicato. A tal riguardo, le prossime due
sezioni offrono un’introduzione a due paradigmi alternativi che
stanno ricevendo crescente attenzione a livello locale e internazionale: il concetto di sovranità alimentare (food sovereignty) e
la nozione di cibo come bene comune.
2. Sovranità alimentare: la rivendicazione contadina lungo la
strada di una riforma strutturale
Nel 1996, i rappresentanti di oltre cento milioni di piccoli agricoltori, movimenti rurali, comunità indigene, lavoratori del settore agricolo, senza terra e pescatori, si incontrarono al summit
internazionale de La Via Campesina e affermarono per la prima
tali, un vantaggio per i consumatori. Lasciando in disparte ogni commento relativo al fatto che i consumatori sono spesso anche coinvolti nel processo produttivo
e che, quindi, una riduzione del costo di produzione significa anche un taglio del
costo del lavoro, cibo economico vuol spesso dire cibo il cui prezzo non tiene in
considerazione le esternalità negative a lungo termine, che premia la possibilità di
costituire catene di trasporto globali basate su carburanti fossili e che promuove la
mobilità del capitale e la ‘competizione al ribasso’ nella disciplina giuslavorista,
ambientale e sociale di molti stati esportatori di materie prime. Per un’analisi dei
costi ‘nascosti’ del cibo, si veda R. Patel, The Value of Nothing: How to Reshape
Market Society and Redefine Democracy (First Edition ed. 2010).
13. J.L. Vivero Pol, ‘Food is a Public Good, 6 World Nutrition, 4, aprile 2015,
disponibile su <https://www.academia.edu/11733398/Food_is_a_public_good>
Il “sistema cibo bene comune”
339
volta l’idea che il diritto al cibo e la sicurezza alimentare non
dovessero limitarsi a una rivendicazione di un diritto individuale
al cibo nel quadro di un ‘sistema cibo’ sempre più dominato dagli
interessi di pochi paesi e società multinazionali. Dal 2007, la dichiarazione di Nyeleni incorpora una nuova visione di sovranità
alimentare, secondo la quale il controllo dal basso dei mezzi di
produzione e delle risorse alimentari deve essere integrato con
nuove rivendicazioni a chiaro contenuto giuridico14.
Frutto di numerosi incontri internazionali e discussioni tra le vittime del ‘sistema cibo’ dominante, la Dichiarazione non si limita a
una forte opposizione alle regole del commercio internazionale, dei
programmi di aggiustamento strutturale e delle scelte normative (incluse quelle riguardanti le riforme agrarie la titolarità della terra) che
conducono alla scomparsa del mondo rurale a favore di un’agricoltura industrializzata e globale, ma concepisce la sovranità alimentare
come lotta contro le strutture giuridiche e politiche che impediscono
l’equa distribuzione di risorse e potere a favore dei contadini e di
tutti coloro che operano a monte della catena alimentare. In particolare, essa condanna la produzione di organismi geneticamente
modificati, si batte per il riconoscimento del diritto di chi produce
cibo a utilizzare e controllare la terra, le acque, i semi, le mandrie e
la biodiversità, e si schiera per la fine della discriminazione e delle
diseguaglianze tra uomo e donna, gruppi etnici, classi sociali e generazioni, preservando, però, l’identità culturale e le tradizioni.
Alla luce dei limiti e delle contraddizioni del ‘sistema cibo’
dominante, il concetto di sovranità alimentare va dunque apprezzato per la chiara opposizione al modello neoliberista e al potere
delle multinazionali, per la promozione di un sistema di produ14. T. Ferrando e J.L. Vivero Pol, Commons and Commoning: a ‘new’
old narrative to enrich the food sovereignty and right to food claims, Right to
Food and Nutrition Watch, Vol 10, 2017.
340
Tomaso Ferrando
zione e consumo locale, sostenibile e democratico, nonché per la
volontà di ricollocare il produttore al centro del ‘sistema cibo’,
limitando le forze oligopoliste, i ‘colli di bottiglia’ e le lunghe
distanze tra la terra e la tavola15. Una politica del cibo ispirata da
tale ideale sarebbe dunque capace di minare alcune fondamenta
del sistema capitalista globalizzato (commercio internazionale,
brevetti, oligopolio, centralità del valore di scambio), immaginare nuove forme di proprietà in conflitto con la distinzione tra
capitale a lavoro, sviluppare nuovi assetti istituzionali che si distacchino dal paradigma mercantilista e meccanicista e, infine, riconoscere le differenti sensibilità (incluse quella agro-ecologica)
che sono proprie del mondo contadino16.
A ben vedere, però, la teoria e la pratica della sovranità alimentare presentano tanto un problema linguistico che un proble15. Dichiarazione di Nyeleni, 2007, disponibile su <http://nyeleni.org/
spip.php?article290>.
16. Per molti aspetti, il regime cibo globale attuale assomiglia ad una clessidra: ad un estremo si posizionano ampie fasce di contadini e produttori (il
70% del cibo mondiale è infatti prodotto da loro) ed all’altro estremo si trovano
i consumatori, vale a dire tutta la popolazione mondiale (nonché coloro che
utilizzano cibo come alimento animale o per produrre energia). Tra questi due
estremi operano intermediari che si occupano di ricevere, trasformare, trasportare, distribuire e vendere ciò che è prodotto. Ad oggi, tali pratiche sono sotto
il controllo di pochi attori transnazionali, in alcuni casi (come quello della torrefazione del caffè) addirittura da una manciata di operatori. Le ragioni sono
multiple ed hanno molto a che fare con il passato coloniale e con il diritto
della concorrenza ed il diritto degli investimenti: acquisizioni e fusioni, cartelli e (in alcuni casi) la competizione che inevitabilmente riduce il numero di
competitori operano, infatti, in un sistema internazionale che bandisce pratiche
protezionistiche a favore dell’imprenditoria nazionali e favorisce l’accesso di
grandi multinazionali che dispongono di un significativo vantaggio economico
nei confronti degli operatori esistenti. Per un’analisi del ruolo del diritto della
concorrenza nel favorire un regime alimentare altamente concentrato, si vedano, tra gli altri, Olivier De Schutter, ‘Addressing Concentration in Food Supply
Chains The Role of Competition Law in Tackling the Abuse of Buyer Power’,
Briefing Note n 3, United Nations (2010).
Il “sistema cibo bene comune”
341
ma strutturale. Per quanto riguarda il primo, Raj Patel fa notare
come l’affermazione che «la terra, l’acqua e le sementi» debbano
essere gestite da chi produce il cibo non esclude il controllo capitalista delle risorse naturali e potrebbe quindi essere compatibile con una concezione “commodificata” del cibo. In secondo
luogo, i principi cardine della sovranità alimentare appaiono eccessivamente concentrati sul mondo della produzione e perdono
l’opportunità la necessità di considerare il consumatore di cibo
non solo come acquirente di un prodotto, ma anche come componente di una comunità locale le cui responsabilità vanno al di
là del consumo responsabile o dell’acquisto ‘bio’. Al contrario,
una concezione integrata e sistemica del sistema cibo non pare
poter prescindere dal riconoscimento dell’interdipendenza di tutti gli attori della catena (produttori, trasformatori, consumatori e
coloro che sono indirettamente coinvolti, per esempio in quanto
beneficiari della qualitá dell’ambiente) e del loro intrinseco rapporto con la natura, gli animali ed e la ‘Rete della vita’17.
Una riforma del mondo contadino senza un effettivo coinvolgimento degli altri livelli del ‘sistema cibo’ (distribuzione, trasformazione, consumo, riciclaggio, ecc.), non rappresenterebbe
una vera soluzione all’insostenibilità del modello attuale e all’ineguale distribuzione di risorse. In aggiunta, se si tiene conto
che ben presto il 60% della popolazione mondiale vivrà in zone
urbane18, pensare che si possa cambiare il ‘sistema cibo’ focalizzandosi solo sulla produzione rischierebbe di ridurre la pressione
sull’accumulazione privata che avviene al livello di trasformazione e distribuzione e potrebbe altresì favorire il consolidarsi
17. L. Russi e T. Ferrando, ‘Capitalism A Nuh’ Wi Frien’. The formatting
of farming into an asset, from financial speculation to international aid, 6 Catalyst: A Social Justice Forum 1 (2015)
18. F. Capra, La rete della vita. Perché l’altruismo é alla base dell’evoluzione (BUR, 2001); D. Barber, The Third Plate (Penguin Press: 2014).
342
Tomaso Ferrando
dell’idea neoliberista del consumatore responsabile che, in assenza di un intervento pubblico, ‘sceglie con la forchetta’.
Esempi concreti come i ‘farmers market’ che si stanno diffondendo negli Stati Uniti, gli orti urbani, i progetti biologici e
locali basati sull’utilizzo degli scarti alimentari e le iniziative di
‘food justice’ offrono senza dubbio alternative ‘etiche’ e virtuose
rispetto al sistema industriale e centralizzato, ma potrebbero non
essere abbastanza per rompere efficacemente con il modello del
cibo come bene di consumo. Infine, l’assenza di una Politica del
cibo e il totale affidamento a iniziative private rischia di rafforzare da una parte le diseguaglianze come quelle tra consumatori più
e meno abbienti, quartieri con spazi verdi e aree cementificate,
e dall’altra la separazione tra chi produce e chi consuma cibo.
Un’effettiva ridefinizione dell’intera catena alimentare potrebbe
però attuarsi attraverso l’ideologia e le buone pratiche del ‘benicomunismo’19.
3. Costruire dal basso a partire dal cibo bene comune
Negli ultimi anni, attivisti e accademici hanno cominciato a riflettere sulla possibilità e sulle implicazioni che deriverebbero
dal considerare il cibo come un bene comune. In particolare, Jose
Luis Vivero Pol ha più volte sottolineato il legame tra la malnutrizione e la visione commodificata del cibo, concludendo che il
consolidamento del paradigma del cibo come bene comune rappresenterebbe una scelta di dignità e tutela collettiva più forte del
19. Per una breve analisi del ruolo che le città dovranno ricoprire nel futuro del nostro pianeta, si veda G. Scrugg, ‘Cities: Friend or foe in the quest
for sustainable development’, Citiscop, 3 settembre 2015, accessibile a <http://
citiscope.org/habitatIII/news/2015/09/citiesfriendorfoequestsustainabledevelopment>.
Il “sistema cibo bene comune”
343
messaggio alla base del diritto al cibo20. Un cambio di paradigma offrirebbe dunque un punto di partenza per riconsiderare non
solo le politiche pubbliche relative all’accesso al cibo, ma anche
le regole relative alla sua produzione, distribuzione e commercio,
sia a livello nazionale sia del commercio internazionale. Se il
cibo non é piú merce, diventa inevitabile interrogarsi sulle molteplici forme di appropriazione privata, esclusione e speculazione
che avvengono attraverso l’intera catena del cibo.
Senza dubbio il riconoscimento e la pratica del paradigma del
cibo bene comune saprebbero dunque tradurre i meriti e le forze
trasformative della sovraniá alimentare e del diritto al cibo. Allo
stesso tempo, però, l’adozione di un nuovo orizzonte intellettuale
e politico potrebbe ispirare una riforma strutturale del ‘sistema
cibo’ attuale superando il ricorso a rimedi temporanei (come la
distribuzione delle eccedenze e l’educazione al consumo critico)
ed evitando di concentrarsi esclusivamente sulla fase produttiva. La nozione di bene comune non riguarda, infatti, solo il cibo
come frutto della terra che deve essere condiviso, ma anche la
terra stessa, i mezzi di produzione, la distribuzione, la trasformazione ed il consumo21. Una visione del cibo come bene comune
implica pertanto riconoscere lo stretto ed indissolubile legame tra
20. In quest’ottica, é interessante notare che la Dichiarazione di Nyeleni
del 2015 sull’agroecologia adottata dalla Via Campesina rafforza la natura politica del concetto di sovranitá alimentare e tenta di estendere la sua portata
trasformatrice anche al contesto urbano ed alla creazione di nuovi mercati locali
fondati sull’alleanza tra produttori e consumatori. In modo analogo, il Civil Society Mechanism del Committee on Food Security ha recentemente prodotto un
interessante studio sull’importanza di connettere i contadini di piccola scala con
mercati locali e territoriali. Si vedano: La Via Campesina, Declaration of the
International Forum for Agroecology, Nyeleni, Mali, 27 febbraio 2015; CSM,
Connecting Smallholders to Market: an analytical guide, CSM, 2016.
21. Vivero Pol & Jose Luis, Transition Towards a Food Commons Regime:
Re-Commoning Food to Crowd-Feed the World (2015), http://papers.ssrn.com/
abstract=2548928 (last visited Oct 6, 2015).
344
Tomaso Ferrando
ciò che mangiamo ed il sistema socio-ambientale dal quale il cibo
dipende é che é allo stesso tempo definito dalle pratiche produttive ed alimentari. Nel solco del pensiero ecologico di Jason W.
Moore e Fritjof Capra22, dell’etica della terra di Aldo Leopold23 e
degli esempi pertinenti forniti da Dan Barrer nel suo Third Plate,
si può dunque dire che cibo bene comune vorrebbe dire andare
definitivamente oltre all’idea di ‘cibo come unitá’ e pensare al
cibo come interconnessione. Ciò che vediamo (e mangiamo) é
dunque un momento di una rete alimentare, dalla terra sino alla
forchetta (ed oltre, se consideriamo l’importanza di affrontare in
maniera ecologica e democratica il problema dell’eccesso alimentare) nel quale intervengono persone, animali, la natura, cultura e una miriade di altri elementi. Pensare al cibo bene comune
vuol dire comprendere questa complessitá e assicurarsi che sia
mantenuta nel rispetto dei principi di giustizia, eguaglianza e dei
limiti ecologici del pianeta.
Su questo punto, De Angelis e Harvie hanno elaborato le idee
dell’economista Elinor Ostrom e hanno concluso che un’effettiva
adozione dell’idea di cibo come bene comune dovrebbe innanzitutto fondarsi sulla gestione collettiva e democratica di tutte
le tappe che collegano la terra alla tavola, ma anche prevedere
la creazione di momenti collettivi di preparazione, consumo e
riciclaggio24. A loro avviso, la transizione non dovrebbe avvenire solamente al livello della gestione in comune del cibo ma
anche della gestione del cibo per il bene comune25. L’abbandono
22. G. Pettenati, A. Toldo e T. Ferrando, The Food System as a Commons,
in J.L. Vivero Pol, T. Ferrando, O. De Schutter e U. Mattei (ed) The Routledge
Handbook on Food as a Commons (Routledge: 2018).
23. J. W. Moore, Capitalism in the Web of Life (Verso Book, 2015); Capra,
supra n 17.
24. A. Leopold, A Sand County Almanac: and sketches here and there
(Oxford University Press, 1949).
25. M. Massimo e D. Harvie, ‘The Commons’, in M. Parker, G. Cheney, V.
Il “sistema cibo bene comune”
345
do atti di appropriazione e di consumo e la loro sostituzione con
momenti collettivi porterebbe dunque a superare definitivamente
il paradigma della privatizzazione del cibo e l’idea di escludibilità, ma anche a superare la frattura tra produzione e consumo
(e quindi anche tra campagna e città)26. Insieme al cibo bene comune (momento statico) saranno essenziali le pratiche comuni
(momento dinamioco) e la realizzazione di continui momenti di
condivisione, dialogo, confronto e partecipazione. Per usare la
terminologia inglese, al sistema cibo come commons si dovrá
inevitabilmente accompagnare il sistema cibo come commoning.
In termini concreti, la costruzione del ‘sistema cibo bene comune’ richiederà tempo e l’identificazione delle giuste condizioni politiche e normative. In particolare, un tassello fondamentale
sarà il consolidamento di basi ideologiche condivise dai numerosi attori che operano nei diversi livelli della catena di produzione,
ma anche dagli attori giuridici, economici e politici impegnati
a definire i contorni del ‘sistema cibo’. Senza dubbio, innovazioni che provengono dal basso come gli orti urbani, le pratiche
agro-ecologiche, la ‘community supported agriculture’ (CSA)27 o
le mense di quartiere devono essere sostenute, riproposte e adattate ai diversi contesti. Allo stesso tempo, però, sarà cruciale il
riconoscimento istituzionale della necessità di cambiare rotta e di
ridefinire il sistema normativo e i principi che permettono l’accumulazione privata di risorse comuni sottratte alla collettività. Se
il cibo non è merce e se il sistema cibo è un momento collettivo,
Fournier e C. Land (ed) The Routledge Companion to Alternative Organization
(London: Routledge, 2014), 280-294.
26. Ibidem
27. S. Federici, Feminsim and the Politics of the Commons, in H. Craig,
S. Peace e K. Van Meter per il Team Colors Collective (ed), Uses of a WorldWind, Movement, Movements, and Contemporary Radical Currents in the
United States (Oakland: AK Press, 2010).
346
Tomaso Ferrando
sarà essenziale interrogarsi sullo ruolo del grande capitale finanziario, sulla concentrazione agricola, sull’uso di prodotti chimici,
nonché sugli sulle opportunità che nascono dai contratti di appalti, dalla pianificazione urbana, dagli incentivi pubblici e dai
programmi educativi.
La rinnovata attenzione manifestata dai giuristi e dai legislatori dovrà quindi evitare di opporsi a processi che stanno emergendo quasi spontaneamente ed a diversi livelli del ‘sistema cibo’.
Al contrario, il diritto dovrà offrirsi come attento osservatore delle esperienze esistenti e facilitatore di sperimentazioni virtuose
e collettive, ma anche censore di pratiche di appropriazione e
marginalizzazione (come la cementificazione, la competizione
sfrenata e senza scrupoli, o l’avanzata della grande distribuzione organizzata). Inoltre, l’autorità pubblica dovrà intervenire nei
casi in cui i processi dal basso non siano equamente distribuiti
sul territorio e pertanto conducano alla nascita di diseguaglianze
e sperequazioni all’interno delle singole città o tra diverse geografie. Ciò che si deve evitare è la gentrificazione del ‘sistema
cibo’ che deriverebbe dalla sua completa auto-organizzazione e
dalla crezione di nuove frontiere, anche quando realizzata attorno all’idea di cibo bene comune.
Si provi per esempio a immaginare un futuro nel quale ogni
Città metropolitana adotti una politica che favorisce la produzione, la trasformazione e il consumo di cibo locale, biologico, collettivo, condiviso e accessibile a tutti. Se Torino, Milano, Firenze
e Venezia perseguissero politiche simili in modo autonomo e non
coordinato, la conseguenza immediata sarebbe una lotta per le
terre e la produzione agricola nella Pianura Padana28. In tale sce28. La CSA si basa sul coinvolgimento dei consumatori nel mondo contadino –
tramite l’acquisto di quote il cui ricavato viene utilizzato dai produttori per assorbire
il rischio tipico di ogni stagione di semina e raccolto – e sull’avvicinamento dei produttori ai consumatori tramite l’esclusione di intermediari. Ancor più interessante è
Il “sistema cibo bene comune”
347
nario, si assisterebbe a uno scontro tra processi virtuosi locali
e amministrazioni potenziaalmente desiderose di implementare
politiche alimentari tali da attrarre abitanti, risorse ed investimenti. In questo modo, le città italiane si troverebbero coinvolte
in una nuova ‘guerra tra i comuni’ e in una nuova corsa ad avere
il campanile più alto che non genererebbe processi e utilità collettive, ma solo competizione e nuove forme di esclusione. Un
coordinamento del ‘sistema cibo bene comune’ appare dunque
necessario, tanto a livello locale quanto a livello regionale, anche
se esso avverrà a livelli diversi a seconda delle esigenze e delle
potenzialità. A tal riguardo, l’idea di una Politica Comune del
Cibo Europea (Common Food Policy) che rimpiazzi la visione
fragmentata e riduttiva della Politica Agricola Comune appare
come un primo passo verso l’identificazione di una concezione
trasversale del cibo e della necessitá di operare alle radici delle
attuali idiosincrasie29.
notare che alcuni CSA promuovono l’idea che la realizzazione ed il consolidamento
di un regime alimentare comunitario rappresentino strumenti efficaci per ridurre i
problemi sociali legati al modello agro-industriale e in particolare la mancanza di
accesso alla terra ed al cibo, l’insicurezza alimentare delle famiglie indigenti, l’uso
di pesticidi e la disoccupazione. Per esempio, alcuni CSA sono organizzate come
banchi alimentari, altri offrono impiego a soggetti privi di fissa dimora, e altri ancora prestano particolare attenzione al creare comunità che colleghino varie realtà
cittadine e che riducano le distanze tra il centro e le periferie. Ad oggi, negli Stati
Uniti sono state censite più di 4000 forme di CSA e il modello è in espansione in
molti altri paesi del mondo. Per ulteriori informazioni, si veda, ad esempio, The
International Network for Community Supported Agriculture (URGENCI) <www.
urgenci.net>; Ryan Galt, ‘Counting and mapping Community Supported Agriculture in the United States and California: contributions from critical cartography/
GIS’, 2 ACME: An International E-Journal for Critical Geographies 2 (2011),
131 – 162; Elizabeth Henderson, Sharing the Harvest: A Citizen’s Guide to Community Supported Agriculture, 2a Edizione (White River Junction (VT): Chelsea
Green Publishing Company, 2007); Trauger M. Groh e Steven McFadden, Farms
of Tomorrow Revisited: Community Supported Farms, Farm Supported Communities (San Francisco: The Bio-Dynamic Farming and Gardening Association, 1998).
29. A riguardo, vanno accolte con favore le decisioni delle cittá di Milano,
348
Tomaso Ferrando
4. Conclusione: cambiare paradigma per cambiare il sistema
cibo
Viviamo in un momento storico nel quale sempre più discipline
guardano con interesse al ‘sistema cibo’ e al legame tra il miglioramento delle condizioni di vita e la disponibilità di cibo sano ed
adeguato. In molti settori, incluso il diritto, l’attenzione rivolta a
ciò che mangiamo è accolta come una intrigante novità. Occorre
però sottolineare che molti dei problemi alla base dell’attuale sistema alimentare dipendono da che cosa si intende per cibo e che,
quando ci accostiamo al tema, è necessario tenere a mente che
ogni regime ha implicazioni che vanno al di là della produzione
e del consumo degli alimenti. Mangiare é un atto politico (e agricolo) e parlare di cibo vuol dire avere a che fare con strutture di
potere che spesso sono invisibili. Per tale ragione, é opinione di
chi scrive che qualunque intervento futuro che non sia capace di
rompere con il paradigma dominante, non avrà la forza di trovare
un rimedio alle cause sistemiche di malnutrizione, appropriazione, esclusione ed esaurimento delle risorse naturali. Solo laddove
la critica sia accompagnata da una proposta che sappia uscire dal
perimetro del cibo come oggetto di consumo si potrà davvero
pensare di avere un impatto strutturale e, pertanto, radicale.
Nel caso specifico del rapporto tra diritto e regime alimentare, la visione politico-normativa propria del modello capitalista
legittima situazioni quali il commercio internazionale e le lunghe
catene del cibo, la possibilità di brevettare le varietà vegetali,
la fine del commercio di prossimità a favore dell’oligopolio dei
supermercati, la speculazione sulle ‘commodities agricole’, la
Firenze e Torino di aderire al Milan Urban Policy Pact, un protocollo di coordinamento delle politiche alimentary che é attualmente stato adottato da oltre
cento cittá in tutto il mondo.
Il “sistema cibo bene comune”
349
pubblicità sui prodotti alimentari, e, più in generale, l’idea che
la produzione, il trasporto e il consumo di cibo siano atti privati
il cui valore è dato dal prezzo di scambio e non dall’utilità che
essi producono.
Anche l’idea di diritto al cibo, per lo meno nella sua accezione più diffusa, considera che il diritto all’accesso ad alimenti
sani, adeguati e sostenibili sia compatibile con il paradigma industrializzato e privatizzante. Al contrario, identificare il cibo come
un bene comune vorrebbe dire offrire una visione nuova di cosa
significa produrre, trasformare, trasportare e consumare alimenti.
Il valore d’uso di ogni alimento prodotto sarebbe nuovamente
posto al centro dell’orizzonte ideologico, a discapito di pratiche
di speculazione e appropriazione fondate sul solo valore di scambio. In questo modo, il sistema giuridico che ruota intorno al cibo
sarebbe strutturato col fine di rispettare il limite ecologico del
pianeta e supportare la biodiversità, ma anche con quello di superare la separazione tra produzione e consumo, nonché il legame
tra accesso al cibo e disponibilità economica.
In conclusione, l’aspirazione del giurista e di coloro che si
accostano con uno sguardo critico al ‘sistema cibo’ deve essere
la creazione di multipli sistemi del cibo basati sul concetto e sulle pratiche del comune, capaci di tutelare e rafforzare le infinite
buone prassi locali, di generate l’ambiente invece di estrarne risorse, di favorire la circolazione del sapere e di produrre spazi
per la vera partecipazione democratica a tutti i livelli della catena. Soprattutto, i sistemi del cibo bene comune dovranno essere
tali da garantire l’accesso universale a un cibo sano e di qualità,
indipendentemente dalle condizioni finanziarie di ognuno e dalle
logiche di mercato, rispettare i limiti ecologici del pianeta e da
contribuire al raggiungimento dell’uguaglianza sociale. Per questo, il diritto deve prima di tutto abbandonare definitivamente il
paradigma ‘cibo come merce’, per favorire la riproduzione e la
350
Tomaso Ferrando
condivisione del cibo come elemento essenziale per la sopravvivenza umana e per il futuro del pianeta. Un sistema giuridico
capace di riconoscere e dare forza all’idea del cibo bene comune
sarà, dunque, un alleato essenziale per immaginare e attuare una
società di tutti e per tutti.
Parte III
questioni amministrative culturali
Nutrirsi in città, nutrire le città
Fonti per una storia dell’accesso al cibo
e del dovere di nutrire le città1
Maria Bottiglieri
Sommario: 1 Le urban food policies interrogano la storia; 2 Per una storia
dell’accesso al cibo in città; 3 Fonti per una storia dell’accesso al cibo nelle
città piemontesi in età medioevale e moderna; 4. L’accesso al cibo in città
nelle Costituzioni preunitarie e nello Statuto albertino.
1. Le urban food policies interrogano la storia
Più di 160 città del mondo hanno sottoscritto il Milan Food policy pact, il patto degli enti territoriali sul cibo, che ha l’obiettivo
di impegnare i sindaci firmatari a promuovere (dove non esistono) e rafforzare (dove già sussistono) politiche urbane sul cibo
più eque e sostenibili dal punto di vista sociale, economico e ambientale2.
1. IPES-Food, Towards a Common food Policy for the European Union,
2017, disponibile su < http://www.ipes-food.org/images/Reports/CFP_ConceptNote.pdf>
2. Tale contributo costituisce la versione aggiornata di una relazione tenuta
in occasione del VII congresso AISU (Associazione italiana di Storia Urbana)
“Il cibo e la Città/Food and the city” svoltosi a Padova il 3-5 settembre 2015,
dove è stata selezionata, a seguito di call for papers, per la sessione “La città
solidale. Il cibo tra politiche sociali e interventi emergenziali”, afferente alla
macrosessione “Cibo, istituzioni e conflitti”, reperibile al seguente indirizzo
web: http://www.storiaurbana.org/index.php/it/congressi/padova-2015.
353
354
Maria Bottiglieri
L’urban food policy o strategy costituisce, unitamente alle
singole politiche alimentari che concorrono a comporla, uno dei
principali strumenti di cui dispone una città per adempiere al suo
dovere di nutrire i propri cittadini3. Essa serve «a connettere attori e temi legati al cibo definendone gli spazi di intervento, gli
obiettivi e le procedure necessarie a definire queste politiche, a
realizzarle e a misurarle»4. La local urban food policy è espressa
e formalizzata in Food plan o Food strategy che, in quasi tutti i
casi conosciuti, è costruito tenendo conto del ciclo del cibo, ovvero produzione, distribuzione, consumo e post-consumo5.
In Italia nessun ente locale risulta già dotato di una strategia
politica alimentare, anche se alcune municipalità come Milano
sono già in una fase avanzata del processo di costituzione della
Urban Food Policy, ma sono invece numerose le municipalità e
in generale gli enti territoriali che promuovono politiche del cibo
settoriali, perché costituiscono specifica dimensione di funzioni
amministrative tipiche: si va dai servizi pubblici locali posti a
presidio del nutrimento dei più vulnerabili (mense benefiche) al
governo del territorio e agli orti urbani; dalla regolamentazione
dei mercati locali fino alla ristorazione scolastica, dalla promozione di grandi eventi culturali di natura enogastronomica alla
gestione dei servizi idrici6.
3. T. Forster, F. Egal, A. Getz Escudero, M. Dubbeling, H. Renting, Milan Urban Food Policy Pact. Selected Good Practices from Cities, Milano,
Feltrinelli, 2015 anche open access su www.foodpolicymilano.org/un-e-booksulle-good-practice-delle-citta-del-milan-urban-food-policy-pact
4. M. Bottiglieri, La protezione del Diritto al cibo adeguato nella Costituzione italiana su Forum di Quaderni Costituzionali – Rassegna, 2/3/2016 (traduzione italiana de The protection of the Right to adequate food in the Italian
Constitution in Forum di Quaderni Costituzionali - Rassegna n. 11/2015, su
www.forumcostituzionale.it).
5. A. Calori, A. Magarini, Food and the Cities. Politiche del cibo per città
sostenibili, a cura di, Milano, 2015, 50-52
6. T. Lang, D. Barling, M. Craher, Food Policy. Integrating health, en-
Nutrirsi in città, nutrire le città
355
Politiche che affondano le loro radici in un passato in cui le strategie sulle diverse dimensioni delle politiche locali alimentari erano
centrali, tanto che il cibo era considerato come “funzione della città”7. Se in età contemporanea l’idea di urban o local food policy è
ritenuta una conquista molto recente8, non così nelle età più antiche:
le politiche annonarie, le politiche sui prezzi e sui mercati e quelle di
assistenza alimentare, già presenti in età classica, hanno caratterizzato gli ordinamenti giuridici delle città medioevali e moderne, arrivando a condizionare la storia del costituzionalismo italiano dell’età
moderna. Questi temi sono stati spesso studiati dalla storia economica e dalla storia del diritto italiano, che, per differenti ragioni epistemiologiche, ne hanno di volta in volta esaminato aspetti settoriali,
circoscritti a determinati periodi storici e contesti regionali.
In questa sede, si intende ripercorre le fonti storiche di livello
costituzionale da cui è possibile ricostruire le caratteristiche delle diverse posizioni giuridiche soggettive e delle corrispondenti
politiche pubbliche locali, che, in territori e periodi storici differenti, hanno connotato l’accesso al cibo nelle città italiche9.
vironmente & Society, Oxford, OUP, 2009; Cfr. anche American Planning Association, Policy Guide on Community and Regional Food Planning, Chicago
2007 in www.planning.org/policy/guides/adopted/food.htm
7. M. Bottiglieri, L’autonomia alimentare delle Regioni, in Diritti Regionali 2017/1; M. Bottiglieri 2016 (a), I Servizi pubblici locali di accesso al cibo
e la Turin Food Policy, in Amministrare 1/2016; Bottiglieri 2017 (a), L’autonomia alimentare locale di Torino per un Urban Food Policy “Right to food
oriented” in M. Bottiglieri, G. Pettenati, A. Toldo (a cura di)., Turin Food
Policy: Buone pratiche e prospettive, Francoangeli, Milano 2017.
8. L. De Rosa, Organizzazione e gestione delle strutture alimentari: l’evoluzione nel tempo, in AA.VV., Gli archivi per la storia dell’alimentazione. Atti
del Convegno Potenza-Matera, 5-8 settembre 1988, Roma, 1995 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi, 34), vol. II, pp. 733-748.
9. E. Dansero, A. Toldo, Nutrire le città: verso una politica alimentare
metropolitana, in Politiche Piemonte. Nutrire le città: verso una politica alimentare metropolitana, 27/2014.
356
Maria Bottiglieri
2. Per una storia dell’accesso al cibo in città
Per individuare le fonti di una storia del diritto al cibo in città è stato necessario ripercorrere le fonti utilizzate dalla storia
dell’alimentazione10, la storia del diritto dell’alimentazione11 e
la storia dei diritti umani o dei diritti fondamentali12.
Oggetto della ricerca sono le fonti che hanno regolato nel
tempo la disponibilità e l’accesso al cibo in città, e al modo in
cui queste due categorie si sono dispiegate nel tempo13. In ogni
epoca storica, infatti, sono esistite differenze significative tra
l’accesso al cibo dei poveri e quello dei ricchi, tra accesso al
cibo da parte dei cittadini e quello degli abitanti del contado, tra
regole alimentari di religioni diverse.
Accessibilità e disponibilità, che costituiscono le principali caratteristiche del contemporaneo diritto al cibo adeguato14,
sono anche i due elementi rintracciabili in posizioni giuridiche
soggettive più risalenti e differenti dal moderno concetto di “diritto”.
Pur non essendo questa la sede per approfondire la tematica,
10. Amplius in M. Bottiglieri 2015 (a), Il diritto al cibo adeguato. Tutela
internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, su
Polisworking papers 222/2015, 2015, 41-43; capitolo 7 e capitolo 10.
11. J.L. Flandrin, M. Montanari, Storia dell’alimentazione, Roma Bari,
Laterza, 2007; M. Montanari, F. Sabban (a cura di), Storia e geografia dell’alimentazione, Utet Torino, 2006.
12. Questa ha per oggetto tutte le questioni che attengono alla produzione,
trasformazione, distribuzione e consumazione delle «sostanze destinate all’alimentazione agli alimenti, con i connessi aspetti di igiene pubblica e delle frodi
in commercio». Cfr. F. Aimerito, Diritto dell’alimentazione – storia (Medioevo
– Età Moderna), in DIGESTO delle Discipline Privatistiche - Sezione Civile –
Aggiornamento, Torino, Utet, 2007, 467.
13. G. Flores, Storia dei diritti umani, Bologna, Il Mulino, 2008.
14. Cfr. M. Bottiglieri, 2015 (a), Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 40-41
Nutrirsi in città, nutrire le città
357
va quantomeno ricordato che se dall’età contemporanea il termine “diritto” è inteso come un’autonoma posizione giuridica
individuale, in età medioevale, invece, le c.d. “libertà” costituivano posizioni giuridiche collettive che trovavano la loro giustificazione nella corrispondente autorità15.
Le differenze sono tali da poter far apparire inappropriata
persino la comparazione, ma tale approccio, in chiave regressiva e funzionale, è sembrato utile ed efficace. Non a caso, tale
indagine ha portato a individuare posizioni giuridiche soggettive di estremo interesse come quella del “diritto ai vittuali di
prima necessità”16 o a quella particolare declinazione del dovere
15. Intendendosi il diritto al cibo adeguato come il diritto all’«accesso regolare,
permanente, libero, sia direttamente sia tramite acquisti monetari, a cibo quantitativamente e qualitativamente adeguato e sufficiente, corrispondente alle tradizioni
culturali della popolazione di cui fa parte il consumatore e in grado di assicurare
una vita psichica e fisica, individuale e collettiva, priva di angoscia, soddisfacente e
degna». Così J. Ziegler, Dalla parte dei deboli. Il diritto all’alimentazione, Milano,
Tropea, 2004 (ed. orig. Les droits à l’aliméntation, Paris, Mille et une nuits - Librairie Arthème Fayard, 2003), p. 49.
16. «Le libertà sono invocate dai comuni non in base a diritti originari o di
autogoverno, ma perché si sono affermate nel diuturno vivere quotidiano, per
consuetudine» (G.S. Pene Vidari., Elementi di Storia del diritto medioevale e moderno, Torino, Giappichelli, 2009, 110-117; Cfr. anche G.S. Pene Vidari, Aspetti
di storia giuridica piemontese. Appunti delle lezioni di Storia del diritto italiano, II ed. (AA 1997-1998), Torino, Giappichelli, 1997). Le libertà medioevali,
cioè, costituiscono riconoscimenti ricevuti da un potere “universale” (uno dei due
“soli” danteschi: il Papa o l’Imperatore), a titolo di “privilegi” di natura collettiva
(non individuale), che i membri di una comunità, un ceto, una corporazione o raggruppamento sociale ottenevano o patteggiavano con il proprio signore, il quale,
normalmente era in una posizione di supremazia (almeno formale). Le libertà sette-ottocentesche hanno natura individuale e originarie mentre quelle medioevali
hanno natura collettiva e derivata. Diversa è anche la loro tutela: se per i diritti individuali è possibile individuare forme di garanzia specificatamente riconosciute
dalla legge (che limita il potere del sovrano), le collettività medioevali potevano
semplicemente “ribellarsi”: non è un caso se molte questioni alimentari di natura
urbana, come l’annona, erano considerate dalle autorità locali non come una politica sociale (come accadrebbe oggi), ma come una politica di pubblica sicurezza.
358
Maria Bottiglieri
di nutrire che ha consentito alla dottrina di configurare il cibo
come “funzione della città” (De Rosa, 1995, 733)17.
La storia dell’accesso al cibo in città può ruotare pertanto attorno a due poli: la storia dei “diritti” dei cittadini di accedere al
cibo in città18 e il corrispondente dovere delle autorità pubbliche
di nutrire le città19, ovvero la storia dell’«accesso regolare, permanente, libero, sia direttamente sia tramite acquisti monetari, a
cibo quantitativamente e qualitativamente adeguato e sufficiente» e del corrispondente dovere delle autorità locali di rispettare,
proteggere e rendere effettivo tale accesso20.
17. A. Guenzi, Le magistrature e le istituzioni alimentari, in Gli archivi per
la storia dell’alimentazione. Atti del Convegno Potenza-Matera, 5-8 settembre
1988, 3 vol., Roma, 1995 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi, 34), vol.
I., pp. 285-301.
18. L. De Rosa, Organizzazione e gestione delle strutture alimentari: l’evoluzione nel tempo cit., 733
19. La posizione giuridica relativa al diritto all’accesso al cibo in città è
quella collegabile al “diritto al cibo adeguato”, ovvero al diritto di ogni essere umano «ad avere un accesso regolare, permanente, libero, sia direttamente sia
tramite acquisti monetari, a cibo quantitativamente e qualitativamente adeguato e
sufficiente, corrispondente alle tradizioni culturali della popolazione di cui fa parte
il consumatore e in grado di assicurare una vita psichica e fisica, individuale e collettiva, priva di angoscia, soddisfacente e degna» (J. Ziegler, op cit 49).
20. Il dovere pubblico di nutrire le città è quello corrispondente al dovere degli stati di rispettare il diritto al cibo dei cittadini, di proteggerlo e renderlo effettivo
con il massimo delle risorse finanziare disponibili: “rispettare” il diritto al cibo richiede allo Stato di astenersi da comportamenti che ne possono limitare l’esercizio;
“proteggere” il diritto al cibo obbliga lo Stato a intervenire laddove i privati neghino
alle persone di realizzare tale diritto; “soddisfare pienamente, rendere effettivo” il
diritto al cibo richiede che lo Stato faciliti, con azioni positive, l’accesso a un cibo
adeguato da parte dei gruppi più vulnerabili. Tali doveri non sono posti solo a carico
degli Stati, ma anche delle autorità locali (M. Bottiglieri., 2015, Tra “solidarietà
alimentare” e “fraternità conviviale”. Il diritto al cibo e i nostri doveri, in Munera 2/2015 e M. Bottiglieri 2016 a, La protezione del Diritto al cibo adeguato
nella Costituzione italiana cit.).
Nutrirsi in città, nutrire le città
359
3. Fonti per una storia dell’accesso al cibo nelle città piemontesi in età medioevale e moderna
A partire da questa premessa si possono ora ripercorrere le principali fonti giuridiche di rilievo costituzionale su cui è possibile
fondare una storia dell’accesso al cibo in città.
Negli statuti medioevali sono ad esempio rinvenibili le norme
sui calmieri per la vendita degli alimenti di prima necessità: dal
tipo di derrate alimentari oggetto di calmierazione gli storici risalgono non solo alla situazione economica, ma anche ai parametri alimentari e al gusto di una determinata società21; sempre negli
statuti medioevali sono rinvenibili le norme relative al diritto di
accedere in modo salubre all’acqua22. Dalle norme sulle processioni è invece desumibile il grado di “dignità sociale” conferito
ai diversi mestieri del cibo: queste infatti, prevedendo l’ordine
in cui dovevano sfilare gli artigiani e le corporazioni, lasciano
emergere il diverso grado di favore sociale riservato a fornai,
mugnai, beccai23.
Altra fonte rilevante per ricostruire la storia dell’accesso al
cibo in età medioevale sono gli ordinati, ovvero i singoli verbali
dei consigli comunali o degli organi istituzionali preposti al governo della città, nei quali si rinvenivano decisioni tese a introdurre misure specifiche che in qualche modo rendevano effettivo
il “diritto” dei cittadini di accedere al cibo: più che un vero e
proprio diritto al cibo si trattava di una sorta di riconoscimento di
21. A voler parafrasare J. Ziegler, op cit 49
22. A.M. Nada Patrone, Gli statuti comunali come fonte per la storia
dell’alimentazione nel tardo medioevo: limiti della documentazione e nuovi
spunti di ricerca, in AA.VV., Gli archivi per la storia dell’alimentazione. Atti
del Convegno Potenza-Matera, 5-8 settembre 1988, Roma, 1995, Vol. I (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi, 34), pp. 637-647, p. 644)
23. Ibidem, 643-644
360
Maria Bottiglieri
accesso al minimo esistenziale (di cui il cibo era parte rilevante) e
che era garantito, per ragioni di sicurezza e polizia locale, a tutti
gli abitanti della città. Un elemento costante ricorrente di questi
atti, infatti, era la preoccupazione di «assicurare la disponibilità
di un paniere di prodotti considerati di prima necessità per l’esistenza, o meglio per le prospettive individuali di sussistenza (e
quindi non soltanto di cereali) a prezzo abbastanza equo, così da
non suscitare malumori ed irrequietezza nei ceti più disagiati»24.
Sia negli Statuti che negli ordinati sono rinvenibili le differenze tra i provvedimenti tesi ad assicurare l’approvvigionamento di
cibo nella città durante le emergenze (carestie, guerre, epidemie
e quelli tesi a predisporre l’approvvigionamento nel tempo ordinario, in cui erano previste misure tese a convogliare presso
i centri urbani tutta la produzione del contado non indispensabile)25. La distinzione tra politiche alimentari locali in tempo di
pace e in tempo di guerra sussiste anche in età moderna, dove è
dato rilevare fonti di derivazione sovrana che prevedevano, da
un lato, specifiche strategie per l’approvvigionamento nei periodi
di carestia (le quali erano di competenza degli organi centrali di
governo) e, dall’altro, misure per far fronte ai periodi non troppo
drammatici dal punto di vista annonario (rimesse alla competenza dei comuni).
Vanno infine menzionate altre fonti giuridiche che risultano
centrali per ricostruire la storia dell’accesso al cibo adeguato, ovvero agli statuti delle Confraternite il cui scopo sociale era assi24. A.M. Nada Patrone, Il cibo del ricco, il cibo del povero. Contributo alla storia qualitativa dell’alimentazione. L’area pedemontana negli ultimi secoli del Medio Evo, Torino, Centro Studi Piemontesi,
1981, 340-341. G.S. Pene Vidari, (a cura di), Gli statuti di Ivrea. III,
Torino, 1974 (Biblioteca storica subalpina 188), 105-106.
25. A.M. Nada Patrone, Gli statuti comunali come fonte per la storia
dell’alimentazione nel tardo medioevo cit., 639
Nutrirsi in città, nutrire le città
361
stere moralmente e materialmente i diversamente poveri26. Tra le
esperienze delle città piemontesi si può menzionare la Confraternita della Misericordia di Ivrea che rispondeva ai bisogni di cibo
dei carcerati27, e la Confraternita della Misericordia del Monferrato, da cui si ricavano informazioni interessati sulla tipologia di
cibi erogati ai poveri e sull’evoluzione delle diverse modalità di
sostegno; rispetto a quest’ultima, in particolare, è utile evidenziare che, a seguito del riordino degli enti assistenziali operato da
Vittorio Emanuele II nel 1852, che portò a un pieno esercizio del
controllo statale su ciascuno di essi, tale Opera spostò l’attività di
cura dei più bisognosi dall’erogazione di alimenti alla promozione di sistemi che ne garantissero un reddito minimo28.
4. L’accesso al cibo in città nelle Costituzioni preunitarie e
nello Statuto albertino
Anche tra le righe delle Costituzioni italiane preunitarie è possibile leggere il grado di tutela riconosciuta ai cittadini di accesso
al cibo e al corrispondente dovere delle autorità pubbliche di nutrire le città29.
26. A.M. Nada Patrone, Il cibo del ricco, il cibo del povero cit. 1981, 7-8
27. A.M. Nada Patrone, Il cibo del ricco, il cibo del povero cit. 1981,
25 - 26
28. M. Margotti, Associazioni caritative cattoliche di Ivrea nell’Ottocento: la Confraternita della Misericordia e la Conferenza di S. Vincenzo de’Paoli,
in M. Guasco, M. Margotti, F. Traniello (a cura di), Storia della Chiesa di
Ivrea in età contemporanea, Roma, Viella, 2006, pp. 153-207, in particolare
p. 162
29. P. Biagi, G.M. Panizza, G. Pastore, Fonti per la storia dell’alimentazione presso l’Archivio di Stato di Alessandria, in AA.VV., Gli archivi per la
storia dell’alimentazione. Atti del Convegno Potenza-Matera, 5-8 settembre
1988, Roma, 1995, 3 volumi (Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Saggi, 34),
Vol. I, pp. 59-89
362
Maria Bottiglieri
Benchè si tratti di carte costituzionali di Stati sovrani, queste
sono centrali per la storia del diritto al cibo in città, fosse altro
che per un dato nominalistico: si tratta cioè di costituzioni che
nella stessa intitolazione portano quasi sempre il nome di una
città.
Le Costituzioni italiane del ‘700 furono sensibilmente influenzate dalla Costituzione francese del 1795, che, a differenza
di quelle che l’avevano preceduta, accanto ai diritti, accentua l’aspetto dei doveri30.
Nelle prime carte costituzionali settecentesche degli Stati italiani, a differenza di quelle francesi in cui non vi è mai un esplicito richiamo all’alimentazione, vi sono numerosi riferimenti
all’approvvigionamento e al cibo. Le ragioni di questa caratteristica sono verosimilmente rinvenibili nella recezione, da parte
delle costituzioni degli Stati moderni pre-unitari, della pregressa
politica locale annonaria delle antiche e medioevali municipalità
del suolo italico.
Nella Costituzione della Repubblica di Bologna del 1796,
ad esempio, si regola l’annona31. Nella Dichiarazione dell’Organizzazione del Governo Provvisorio di Brescia (1797) vi è un
riferimento all’amministrazione delle vettovaglie32. Si menziona
30. M. Bottiglieri, Il diritto al cibo adeguato. Tutela internazionale, costituzionale e locale di un diritto fondamentale “nuovo”, cit., 210-214.
31. G.S. Pene Vidari, Elementi di Storia del diritto. L’età contemporanea,
Torino G. Giappichelli editore, 2010, 39
32. Cap VIII - Art. 117: «Appartiene a questo Corpo dipendentemente dal
Magistrato dei Consoli l’esecuzione delle leggi e provvidenze relative a piazza,
vettovaglie, strade, scoli, ponti, fabbriche pubbliche, annona ed altre aziende
economiche della Repubblica. Ha pure l’ispezione sulle predette materie dipendentemente dal detto Magistrato; e senza alcuna dipendenza ha la giudicatura delle cause appartenenti alle stesse materie nel modo espresso nell’articolo
147». Questa e le successive disposizioni normative delle costituzioni storiche
ivi menzionate sono citate da J. Luther – F. Longo – A. Mastropaolo – F. Pallante (a cura di), Archivio delle costituzioni storiche, su www.dircost.unito.it.
Nutrirsi in città, nutrire le città
363
l’annona anche nella Costituzione della Repubblica Cispadana
179733 e nella Costituzione del popolo Ligure del 179734.
Di estremo interesse la Costituzione della Repubblica Napoletana del 1799 che garantisce per la prima volta, nella storia del
diritto costituzionale, il “dovere” di garantire l’accesso all’alimentazione, laddove sottolinea il «sacro dovere dell’uomo di alimentare i bisognosi»35.
Pure di alimenti, ma in tutt’altra accezione, si accenna nella
Costituzione di Sicilia del 181236 e nella Adozione della Costituzio-
33. Tit. IV – art. 1: «Essa (la municipalità) amministra tutte le rendite
nazionali del Comune paga gli stipendiati, presiede alle vettovaglie, alla sanità
all’acque, alle strade, alle pie instituzioni, alla pubblica istruzione sotto la dipendenza del Commissario del Cantone».
34. Art. 208: «Le amministrazioni municipali devono essenzialmente nel
loro circondario: Terzo - Presiedere agli affari d’acque, e strade, annona, vittovaglie, ornato, spettacoli, sanità, pie istituzioni, e pubblica istruzione a norma
della legge»
35. Art. 196: «Le amministrazioni municipali sono incaricate: 1) della
conservazione de’ fondi pubblici, e della riscossione dei redditi di quelli, secondo che la legge prescrive; 2) di tutto ciò che riguarda le acque, le strade, l’annona, vettovaglie, ornato, spettatori, sanità, porti, rade, confini, e pie istituzioni
a norma della legge; 3) di far osservare i regolamenti che la legge prescrive per
la guardia nazionale; 4) di mantenere il buon ordine, e la tranquillità interna;
5) di vegliare alla sicurezza e alla salubrità delle carceri; a questo oggetto scelgono dal loro seno due ispettori, che visitino le carceri, e i luoghi d’arresto, e
provvedino perché non sia, oltre il rigore della legge, aggravata la condizione
dei detenuti»
36. Cfr. Costituzione napoletana del 1799: «I doveri dell’uomo sono obbligazioni o sia necessità morali, che nascono dalla forza morale di un principio di
ragione. Ed è questo il medesimo principio dal quale abbiamo derivati i dritti,
vale a dire la somiglianza e l’eguaglianza degli uomini. Art. 17 – Il dovere fondamentale dell’uomo è di rispettare i diritti degli altri. L’eguaglianza importa,
che tanto valgono i nostri quanto i diritti degli altri. Art. 18 – Ogni uomo deve
soccorrere gli altri uomini, e sforzarsi di conservare e migliorare l’essere de’
suoi simili, perciocché per la somiglianza di natura ciascun uomo dev’essere
affetto verso gli altri come verso se stesso». Art. 19 – Quindi è sacro dovere
dell’uomo di alimentare i bisognosi».
364
Maria Bottiglieri
ne di Spagna nel regno di Sardegna (artt. 215-218)37, costituzioni
europee elaborate in chiave antinapoleonica. I diritti agli alimenti
menzionati in questi due atti costituzionali sono riconosciuti ai soli
titolari della famiglia reale, e sono riconducibili alla normativa che
regola il diritto agli alimenti nell’ambito del diritto di famiglia.
Tra le carte o gli statuti a rilevanza costituzionale concessi dopo
la Restaurazione, menziona il termine “alimenti” anche il Motu Propriu di Pio VII (artt. 25, 26, 64), che individua gli organi giurisdizionali competenti a giudicare in materia di accesso al cibo38.
Nel 1848, tutti gli stati italiani furono “costituzionali” sulla base
di carte o statuti ottriati dai sovrani a seguito dei fermenti di quegli
anni. Ma le principali carte di rilievo costituzionale concessi negli
Stati italici non presentavano alcun riferimento esplicito al tema del
cibo: né lo Statuto Fondamentale del Governo Temporale degli Stati
della Chiesa del 1848, né la Costituzione del Regno delle Due Sicilie
(1848), né lo Statuto del Granducato di Toscana (1848), né le Basi
per una costituzione del Ducato di Parma del 29 marzo 1848.
37. Art. 8 Costituzione di Sicilia del 1812: «La libera facoltà di disporre
sarà limitata nei Pari nel modo seguente: siccome nel capitolo IV, del potere
legislativo si è disposto, che le Parie saranno perpetue ed inalienabili, così il
Parlamento ha deliberato, che i Pari attuali debbano assegnare e conservare
per dotazione perpetua della Paria la quarta parte di netto di tutti quei beni, che
posseggono attualmente come gravati, ed in vigore di qualunque sostituzione
o fedecommesso: questa quarta parte di beni sarà reputata non come un fondo
addetto alla famiglia, ma come un maiorasco proprio esclusivamente dalla Paria, sarà quindi inalienabile senza che sulla medesima, per qualunque cagione,
possa farsi veruna assegnazione o detrazione in favore di chicchessia, e degli
stessi figli anche per causa di alimenti».
38 Art. 218 Adozione della Costituzione spagnola nel regno di Sardegna
(1821). Proclamazione in Alessandria della Costituzione Spagnola del 1812,
e istituzione di una Giunta provvisoria di Governo: «Le corti determineranno
l’assegnamento per gli alimenti annuali alla regina vedova. Art. 219 – Lo stipendio degli individui della reggenza si torrà in su l’assegnamento della casa
del re. Art. 220 – L’assegnamento della casa del re e gli alimenti della famiglia
di lui di cui è parlato negli articoli precedenti, saranno determinati dalle corti
all’incominciare d’ogni regno, né potranno alterarsi durante quello».
Nutrirsi in città, nutrire le città
365
Il Proclama dello Statuto albertino del 1848, invece, risulta
l’unico caso, tra le Costituzioni degli stati italiani ottocenteschi, a
tener conto dell’accesso al cibo, laddove si preoccupa di favorire
l’accesso a uno degli alimenti più diffusi tra la popolazione dei
ceti sociale più bassi, ovvero il sale: «Mentre così provvediamo
alle più alte emergenze dell’ordine politico, non vogliamo più oltre differire di compiere un desiderio, che da lungo tempo nutriamo, con ridurre il prezzo del sale a 30 centesimi il chilogramma
fin dal primo luglio prossimo venturo, a beneficio principalmente
delle classi più povere, persuasi di trovare nelle più agiate quel
compenso di pubblica entrata, che i bisogni dello Stato richiedono (art. 14.5)». Questo passaggio del Proclama va inquadrato nella concezione paternalistico-tradizionale che ispirò Carlo
Alberto nella concessione dello Statuto (non Costituzione, ma
Statuto come i medioevali statuti comunali), il quale intendeva
essere un nuovo patto tra Corona e popolo. Tra il popolo però
non vi erano solo i ceti dirigenti, ai quali lo Statuto assicurava «un compiuto sistema di governo rappresentativo» ma anche
quei sudditi a cui poco interessava sia la libertà di stampa (perché
analfabeti) sia il diritto di voto (perché privi di censo). Anche a
costoro il re volle rivolgersi per rinnovare un Patto costituzionale
che fosse inclusivo di tutto il suo popolo e lo fece attraverso una
disposizione su un bene alimentare di prima necessità come il
sale39. Questo elemento è di un certo rilievo, se si considera che,
39. Moto proprio della Santità di nostro Signore Papa Pio Settimo in data
de 6 luglio 1816 sulla organizzazione dell’amministrazione pubblica esibito
negli atti del Nardi segretario di camera nel di 14 del mese ed anno suddetto
Art. 25: «I Governatori nei respettivi luoghi saranno giudici competenti, 1°
(…): 6° Nelle controversie, che insorgono in tempo di fiera, e di mercato per
le contrattazioni, le quali intervengono in tali congiunture, e devono giudicarsi
sulla faccia del luogo». Art. 26: «I giudicati dei Governatori nelle controversie,
che non oltrepassano il valore di scudi dieci, in quelle di sommariissimo possessorio, di alimenti, di danni dati, di mercedi, di contratti nundinali, e di esecu-
366
Maria Bottiglieri
nel bene e nel male, è stato lo Statuto albertino che ha accompagnato la storia di Italia, oltre che del Piemonte, fino alla sua
stagione repubblicana.
zione di obbligazioni derivanti da scritture pubbliche, e private non attaccate di
falsità, o di nullità, saranno soggetti al ricorso soltanto in devolutivo; nelle altre
controversie il ricorso avrà luogo in sospensivo». Art. 64: «(…) Sono inoltre
eccettuate, e respettivamente mantenute le giurisdizioni … Del Presidente della
Grascia nei mercati soggetti alla sua giurisdizione: 4° Dell’Annona nelle materie, che la riguardano a tenore dei Pontificj Chirografi dei 31 Ottobre 1800, e
19 Settembre 1802: 5° Dell’Agricoltura nelle materie agrarie di sua stretta competenza: 6° Del Tribunale del Cardinal Vicario nelle cause di alimenti a norma
delle facoltà, di cui attualmente è investito. Se vi sarà luogo ad appellazione
dai giudicati dell’Annona o della Grascia, questa si deferirà al Tribunale della
camera; rispetto poi ai giudicati dell’Agricoltura, qualora l’appellazione avrà
luogo, la medesima sarà portata al Tribunale dell’A.C., o della Rota, secondo le
respettive loro competenze. Lo stesso si osserverà per i giudicati del Cardinal
Vicario in materia di alimenti».
Gli home restaurants
Profili pubblicistici
Piera Maria Vipiana
Sommario: 1. Il fenomeno degli home restaurants 2. La normativa sugli home
restaurants 3. Home restaurants ed economia condivisa 4. Le prese di posizione ministeriali in tema di home restaurants 5. I disegni di legge sui ristoranti domestici nelle legislature passate 6. Considerazioni critiche sull’ultimo
disegno di legge, in particolare ad opera dell’AGCM 7. Considerazioni conclusive su una possibile normativa in tema di ristoranti domestici
1. Il fenomeno degli home restaurants
Gli home restaurants o ristoranti domestici sono una realtà economica abbastanza diffusa in alcune zone, anche d’Italia1. In
sintesi, si tratta di un fenomeno in base al quale attività volte
all’erogazione di servizi di ristorazione sono esercitate da persone fisiche nelle proprie abitazioni: in pratica, cuochi amatoriali
– ossia soggetti che non svolgono tale lavoro sul piano professionale – offrono, normalmente attraverso piattaforme on line, pasti (generalmente cene) nella propria sala da pranzo2. Le finalità
1. G.S. Pene Vidari, Elementi di Storia del diritto. L’età contemporanea
cit, 111.
2. La rilevanza del fenomeno – considerevole all’estero, a partire dai Paladares di Cuba – emerge in Italia dalla relazione alla proposta di legge d’iniziativa dei deputati Ricciatti e altri del 4 maggio 2016, in cui si citano i dati
del Centro studi turistici della Federazione italiana esercenti pubblici e turistici
367
368
Piera Vipiana
sono differenti, ma complementari, se considerate nell’ottica di
chi offre l’attività ristorazione e di chi ne usufruisce.
Dal primo punto di vista, il fenomeno è sorto nella realtà
dall’inventiva di chi vuole crearsi un piccolo reddito (o un introito aggiuntivo) sfruttando, da una parte, la propria passione di
cuoco e, dall’altra, l’idoneità della propria abitazione a divenire
luogo dove dispensare pasti creati da sé. Il fenomeno sembra correlato a quelli nei quali la propria abitazione diventa luogo dove
offrire ospitalità – come nei casi di alcuni tipi di strutture ricettive extralberghiere3 – magari legati anche all’offerta di lezioni
di una lingua straniera da parte di un membro della famiglia madrelingua e qualificato all’insegnamento per stranieri (fenomeno
della home tuition). Non meno rilevanti possono essere finalità
legate alla socializzazione: offrire ristorazione costituisce anche
un modo per fare nuove conoscenze.
Dal punto di vista di chi usufruisce della ristorazione domestica, si possono parallelamente immaginare tanto finalità di socializzazione, quanto finalità economiche: sotto il primo profilo,
consumare pasti in una casa è certamente meno asettico dell’assunzione di cibo in un ristorante tradizionale e permette di trovarsi in un ambiente domestico nel quale i rapporti interpersonali possono svilupparsi meglio; dall’altro profilo, il prezzo di un
pasto in un home restaurant dovrebbe essere interessante, non
includendo costi quali quelli legati al personale o all’acquisizione e gestione di appositi locali. Non si può nemmeno trascurare
(FIPET): nell’attività di home restaurant sono coinvolti circa 7.000 cuochi, con
un fatturato stimato in oltre 7 milioni di euro nel 2014, sono 300.000 persone le
persone coinvolte, tra turisti, avventori e conoscenti, in 37.000 eventi.
3. Il fenomeno ha iniziato ad essere al centro di interessi da parte della dottrina, pure in Italia: cfr. M. Deodati, Home restaurant & dintorni, Rimini, 2017,
e C. Frajoli Gualdi, Disegno di legge sugli Home Restaurant. Law satured
society o necessaria normazione?, in www.giustamm.it, 2017, n. 3.
Gli home restaurants
369
il fatto che la cucina domestica offre, in maniera più accentuata rispetto a quella di un ristorante tradizionale, la possibilità di
piatti e menu personalizzati, sulla base dei gusti e delle esigenze
dietologiche di ciascun avventore.
Più in generale, i ristoranti domestici appaiono suscettibili di
costituire un utile strumento per la diffusione di una cultura del
cibo: una cultura su materie prime, procedimenti di preparazione
e cottura, nonché modalità di presentazione, che si tramanda da
genitore e figlio o da nonno e nipote e che attraverso i ristoranti in
esame viene fatta conoscere a persone esterne e quindi continua
a vivere. I ristoranti casalinghi possono, in concreto, essere di
vari tipi: generici oppure legati a particolari tipi di cucina, come
quella regionale, oppure a specifici prodotti, quali i pesci o i funghi, o a modi di mangiare, come la cucina vegetariana o vegana.
Si potrebbero altresì avere, in concreto, un home restaurant che
presenti in sé più di una fra le varietà summenzionate.
2. La normativa sugli home restaurants
Quando nella realtà si inventa un fenomeno, ci si può chiedere quali
impatti esso abbia per le scienze sociali. In particolare, dal punto di
vista economico, probabilmente si tratta di una delle più recenti fra le
attività che rientrano nella cosiddetta sharing economy o economia
della condivisione, oppure nella micro imprenditorialità: un’attività
interessante anche nel settore turistico, nel quale la ristorazione ha
un ruolo di primo piano e il potenziale turista, che, specie in periodi
di crisi come quello attuale, sarà più propenso a spostarsi per un
viaggio o un soggiorno se può usufruire di soluzioni che presentino
prezzi convenienti unitamente agli altri vantaggi summenzionati.
Dal punto di vista socio-culturale, come si è osservato in una
proposta di legge in materia, l’home food tende a creare un circu-
370
Piera Vipiana
ito virtuoso, nel quale antiche ricette, senso dell’ospitalità, peculiarità del territorio, valorizzazione del prodotto tipico, si fondono in proposte regionali e provinciali4: in effetti, nei ristoranti domestici è possibile rinvenire piatti della tradizione, cucinati con
prodotti locali e attraverso modalità tramandate da generazioni.
Ovviamente in questa sede non si vuole e non si può entrare
nel merito di tali prospettive.
Dal punto di vista giuridico, in relazione ad un fenomeno inventato dalla realtà – come quello in esame – ci può chiedere se è
corretto o meno che il diritto lo prenda in considerazione, dettandone una disciplina. Ciò avviene, ad esempio, con riferimento a
vari fenomeni legati al turismo. Quanto al dubbio se è opportuno
che essi siano oggetto di diritto o se sarebbe meglio che il diritto
se ne disinteressasse, lasciandoli alle regole del mercato, chi scrive opta per la prima prospettiva: soprattutto perché una disciplina
scritta tende di norma a tutelare la parte debole del rapporto, unitamente a tutte le parti di tale rapporto, che si instaura fra chi offre
un servizio e chi ne usufruisce come cliente5. L’argomentazione
può essere utilizzata, ad avviso di chi scrive, anche con riferimento
alla ristorazione domestica: qui è evidente l’esistenza di una parte
debole, che è sicuramente il commensale che entra nella casa altrui
per consumare cibi; ma pure il cuoco dev’essere tutelato, visto che
egli fa accedere fra le mura domestiche chi non conosce.
A fronte del fenomeno della ristorazione domestica, varie sono
le problematiche giuridiche prospettabili. In effetti, esso, da un
lato, presenta collegamenti con l’alimentazione e l’igiene degli
4. La relativa nozione si trova nell’art. 12 del d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79,
recante il codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del
turismo. Anche se si tratta di uno degli articoli del codice che sono stati dichiarati
incostituzionali dalla Corte Costituzionale, con sentenza 5 aprile 2012, n. 80, il
suo contenuto si trova generalmente riversato nelle leggi regionali in materia.
5. DDL Senatori Fleres - Alicata del 16 giugno 2009.
Gli home restaurants
371
alimenti e quindi con le regole legate a tali settori; da un altro lato
e conseguentemente, tale tipo di ristorazione è correlato al diritto
della salute, viste le ricadute dell’assunzione di alimenti con lo stato di benessere e di assenza di malattie della persona; da un altro
lato ancora, il fenomeno si intreccia con le esigenze della pubblica
sicurezza, poiché occorre rispondere alle aspettative, in capo sia di
chi ospita sia di chi viene ospitato, di effettuare tali attività senza
incorrere in rischi; ovviamente non irrilevanti sono i profili fiscali,
poiché attraverso le attività in esame si crea un reddito, rispetto al
quale occorre prevedere un’imposizione equa e certa; infine possono sussistere interazioni con il turismo, poiché la presenza di
un ristorante domestico in un luogo potrebbe contribuire a creare
l’occasione per spostarsi, effettuare turismo enogastronomico e visitare quel luogo e la rete di tali locali consente di trovare in varie
località tavole legate alla tradizione culinaria autentica.
3. Home restaurants ed economia condivisa
I tipi di ristorante in esame costituiscono, come si è già notato, espressione di un fenomeno di recente emersione e di ampia
(anche se non generalizzata) espansione: la cosiddetta economia
condivisa o collaborativa o economia della condivisione, ossia la
cosiddetta sharing economy6.
Su quest’ultima è rilevante riportare le recenti prese di posizione favorevoli della Commissione europea7, che ha invitato gli
6. In proposito ci permettiamo a rinviare a P. M. Vipiana, Diritto pubblico
del turismo, Pisa, 2017, 15.
7. In tema si possono citare, a titolo meramente esemplificativo: I. Pais, - M.
Mainieri, Il fenomeno della sharing economy in Italia e nel mondo, in Equilibri,
2015, n. 1, 11 ss.; G. Smorto, Verso la disciplina giuridica della sharing economy, in Mercato concorrenza regole, 2015, n. 2, 245 ss.
372
Piera Vipiana
Stati membri dell’Unione europea a favorire lo sviluppo di tale
tipo di economia, perché idonea a creare nuove opportunità: da
un lato, per i consumatori, che vedranno un ampliamento dell’offerta di servizi e conseguentemente prezzi inferiori; dall’altro
lato, per gli operatori, che usufruiranno di forme di lavoro flessibile e di nuove fonti di reddito.
Allo stesso tempo, tuttavia, la Commissione ha espresso alcune attenuazioni al favor nei confronti di siffatto tipo di economia.
In particolare, ha precisato che, al fine di agevolare lo sviluppo
delle attività rientranti in esso, il diritto dell’Unione ammette restrizioni in termini di accesso al mercato, ma soltanto se esse
abbiano alcune caratteristiche: risultino proporzionate, necessarie, non discriminatorie, giustificate da un determinato «motivo
imperativo d’interesse generale», ai sensi dell’art. 4, punto 8,
della direttiva 2006/23/CE (Direttiva Servizi). La Commissione
ha altresì ricordato che la regolamentazione delle attività svolte nel quadro dell’economia collaborativa, nel tener conto delle
specificità del servizio innovativo offerto, non deve «privilegiare
un modello di impresa a scapito di altri».
Siffatta presa di posizione della Commissione rileva ai fini di
valutare i recenti disegni di legge in tema di home restaurants.
Prima di prendere in esame tali disegni, è peraltro opportuno riferire quanto affermato al riguardo in sede ministeriale.
4. Le prese di posizione ministeriali in tema di home restaurant
Il Ministero dello sviluppo economico, in una risoluzione del 20158,
ha preso posizione sulla configurazione dell’attività di cuoco a do8. “A European Agenda for fhe collaborarive economy” del 2 giugno 2016,
COM (2016).
Gli home restaurants
373
micilio e sull’assoggettabilità di essa fra quelle esercitabili previa
segnalazione certificata di inizio di attività (SCIA). Quest’ultima,
com’è noto, costituisce un atto privato, proprio di chi ha intenzione
di svolgere un’attività e intraprende la stessa nella medesima data
in cui effettua la segnalazione: sull’attività in questione, peraltro,
la pubblica amministrazione ha una serie di poteri, in particolare di
tipo inibitorio e sanzionatorio, a seguito della verifica se ricorrano
i presupposti e le condizioni per l’utilizzazione dell’istituto9. Nella
specie la SCIA, come rileva il Ministero, dev’essere presentata al
comune, in modo da consentire il controllo dei requisiti professionali a tutela del consumatore finale.
La risoluzione, in particolare, ha precisato che l’attività di
somministrazione di alimenti e bevande è disciplinata dalla l. 25
agosto 1991, n. 287, come modificata dal d.lgs. 26 marzo 2010,
n. 59, e s.m.i., la quale distingue tra attività esercitate nei confronti del pubblico indistinto (articolo 1) e attività riservate a particolari soggetti (articolo 3, c. 6).
L’articolo 1, c. 1, della l. n. 287/1991, dispone che per somministrazione si intende la vendita per il consumo sul posto che si
esplicita in tutti i casi in cui gli acquirenti consumano i prodotti nei
locali dell’esercizio o in una superficie aperta al pubblico, all’uopo
attrezzati. Quindi «l’attività di cuoco a domicilio», anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti i
quali usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non
può che essere classificata come un’attività di somministrazione di
alimenti e bevande: anche se i prodotti vengono preparati e serviti
in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela.
La fornitura di dette prestazioni comporta, infatti, il pagamento
di un corrispettivo e, quindi, anche nella nuova modalità, l’attività
9. La risoluzione n. 50481 del 10 aprile 2015.
374
Piera Vipiana
in questione si esplica quale attività economica in senso proprio; di
conseguenza, non può considerarsi un’attività libera e sottratta ad
alcuna previsione normativa tra quelle applicabili ai soggetti che
esercitano un’attività di somministrazione di alimenti e bevande10.
5. I disegni di legge sui ristoranti domestici nelle legislature
passate
In materia di home restaurants finora una legge non è esistita,
perlomeno in Italia. Tuttavia sono stati presentati in Parlamento
vari disegni di legge in materia: si tratta di disegni di iniziativa
parlamentare, ad opera di deputati o senatori di varie forze politiche, sulla base di relazioni che sembrano improntate all’incirca
alle medesime finalità.
10. Sull’istituto e su quelli analoghi della denuncia di inizio attività e della
dichiarazione di inizio attività cfr.: L. Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento amministrativo. Autorizzazione ricognitiva, denuncia sostitutiva e modi
di produzione degli effetti, Padova, 1996; W. Giulietti, Attività privata e potere
amministrativo. Il modello della dichiarazione di inizio attività, Torino, 2008;
F. Martines, La segnalazione certificata di inizio attività. Nuove prospettive del
rapporto pubblico privato, Milano, 2011; R. Ferrara, La segnalazione certificata di inizio attività e la tutela del terzo: il punto di vista del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2012, 1, 193 ss.; R. Gisondi, Le azioni proponibili
dai terzi controinteressati alla S.C.I.A., in Dir. pubbl., 2012, 3, 921 ss.; M.L.
Caruso, La “S.C.I.A.”: natura giuridica, tutela del terzo ed ambito applicativo
della nuova segnalazione certificata di inizio attività alla luce delle riforme
legislative e nell’evoluzione giurisprudenziale, in Corr. merito, 2012, 3, 526
ss.; M.A. Sandulli, La segnalazione certificata d’inizio attività (s.c.i.a.) (artt.
19 e 21 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in Id. (a cura di), Princìpi e regole dell’azione
amministrativa, II ed., Milano, 2017; W. Giulietti, La concentrazione dei regimi amministrativi, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, II ed., Milano, 2017; W. Giulietti - N. Paolantonio, La segnalazione
certificata di inizio attività, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione
amministrativa, cit.; R. Bertoli, Segnalazione certificata di inizio attività e
concentrazione dei regimi amministrativi: riflessioni a margine dell’art. 19bis, l. n. 241 del 1990, in Riv. giur. urb., 2017, 1, 25 ss.
Gli home restaurants
375
Un primo disegno di legge era stato presentato il 16 giugno
200911: nella relazione si osservava che il disegno di legge disciplina l’attività di home food, «allo scopo di valorizzare e tutelare
il patrimonio eno-gastronomico locale e nazionale, creando anche nuove opportunità reddituali di tipo complementare». Si affermava altresì che si tratta di «un’attività volta a mantenere viva
non soltanto l’ospitalità tipica del luogo, ma anche le tradizioni
culinarie, attraverso antiche ricette che caratterizzano la singola
città, senza trascurare gli aspetti di natura sociologica insiti nella
convivialità domestica».
Essenziale viene ritenuto il particolare rapporto turistico, culturale, eno-gastronomico e sociale che si instaura attraverso questa particolare attività di riscoperta di tradizioni ormai dimenticate o sommerse dalle cucine straniere. Il disegno di legge, quindi,
rappresenterebbe per molte casalinghe, ma anche per i giovani,
un’opportunità occupazionale che, anche se in forma diversa, in
qualche misura è già stata sperimentata attraverso il bed and breakfast, la cui formula è simile all’home food.
Ad alcuni anni dopo risale la proposta di legge “Disciplina
dell’attività di “Home Restaurant”” del 29 luglio 201512. Nella
relazione si legge che quella di home restaurant è un’attività innovativa, idonea a condurre allo sviluppo economico in molte
Regioni italiane, specie in quelle del Mezzogiorno, nell’ottica
della valorizzazione del patrimonio culturale ed eno-gastronomico. A tal fine il disegno di legge prevedeva anche forme di agevo11. Il Ministero dello sviluppo economico, a supporto della sua interpretazione, cita anche un precedente atto (la nota 98416 del 12 giugno 2013) con il
quale classificava come attività economica quella esercitata da un cuoco nella
propria villa, fornendo il servizio solo su specifica richiesta e solo per gli invitati del committente, anche in questo caso la sua interpretazione non sembra
esauriente ed esaustiva delle problematiche derivanti dall’attività di home restaurant.
12. Dai Senatori Fleres e Alicata (FI - PDL).
376
Piera Vipiana
lazione fiscale e previdenziale per coloro che intraprendono tale
genere di attività.
Del medesimo anno è la proposta di legge presentata il 30
settembre 2015 e recante il titolo “Disciplina dell’attività di ristorazione in abitazione privata”13. A quanto si legge nella relativa
relazione, gli home restaurants sono da considerare come un valore aggiunto di un territorio grazie alle ricette tipiche realizzate
con prodotti locali da nonne, mamme o amici che si trasformano in chef e che offrono, in casa propria, occasioni di incontro,
scambio, qualità e rispetto della tradizione: il fenomeno dev’essere normato anche allo scopo di evitare concorrenza sleale con i
ristoratori tradizionali14.
Anche nell’anno successivo sono state presentate due proposte di legge in argomento.
La prima è la proposta di legge recante disciplina dell’attività
di ristorazione in abitazione privata (C. 3337) del 7 aprile 201615.
La seconda è la proposta di legge con il medesimo titolo, presentata il 4 maggio 201616. In base alla relazione, una legge in materia
è necessaria, in considerazione del numero delle persone e dei
territori coinvolti da questo tipo di attività
Nell’ambito della XVII Legislatura è stato approvato dalla
13. D’iniziativa del Deputato Minardo (NCD).
14. D’iniziativa dei deputati Cancelleri, Della Valle, Da Villa, Vallascas
(M5S).
15. La relazione riferisce gli esiti di un sondaggio svolto da una società per
Confesercenti, secondo il quale l’83 per cento dei ristoratori intervistati è a
conoscenza del fenomeno e ha espresso le seguenti opinioni: ad avviso del 62
per cento l’home restaurant sottrae fino al 5 per cento del fatturato e ad avviso
del 15 per cento il fenomeno sottrae dal 6 al 10 per cento del fatturato; ad avviso dell’80 per cento degli intervistati l’home restaurant è concorrenza sleale;
il 92 per cento reputa che l’home restaurant sia un fenomeno che deve essere
normato.
16. Deputati Basso, Senaldi, Benamati, Lattuca, Arlotti, Luciano Agostini,
Bargero, Scuvera (PD).
Gli home restaurants
377
Camera dei deputati il 17 gennaio 2017, e trasmesso il giorno
successivo dal Presidente della Camera alla Presidenza del Senato un disegno di legge in tema di “Disciplina dell’attività di
ristorazione in abitazione privata”, che presenta un testo risultante dall’unificazione di una serie di disegni di legge d’iniziativa
parlamentare17.
Il testo appena citato, come approvato dalla Camera dei Deputati nel corso della precedente legislatura, è divenuto il disegno
di legge A.S. n. 2647, recante “Disciplina dell’attività di home
restaurant”, e sottoposto all’esame della Commissione industria
del Senato. Il testo intende disciplinare l’attività di home restaurant da parte di persone fisiche che vogliono offrire il servizio
di ristorazione all’interno di abitazioni private, al fine tra l’altro
di garantire “la leale concorrenza” tra gli operatori del settore
e di «valorizzare e favorire la cultura del cibo tradizionale e di
qualità» (art. l).
In particolare, il disegno di legge in esame presenta una serie
di contenuti che appaiono interessanti.
Innanzi tutto, dal punto di vista definitorio, si incentra sul
concetto di home restaurant, che deve presentare una serie di
elementi costitutivi: essere un’attività occasionale finalizzata alla
condivisione di eventi enogastronomici; consistere in attività
esercitata da persone fisiche all’interno delle unità immobiliari
ad uso abitativo, per il tramite di piattaforme digitali che mettono
in contatto gli utenti anche a titolo gratuito, e con preparazione
dei pasti all’interno delle strutture medesime. Per l’esercizio di
tali attività i soggetti rilevanti sono tre: il «gestore», ossia il soggetto che gestisce la piattaforma digitale finalizzata all’organizzazione di eventi enogastronomici; l’«utente operatore cuoco»,
17. D’iniziativa dei deputati Ricciatti, Costantino, Kronbichler, Franco Bordo, Piras, Melilla, Duranti, Quaranta, Sannicandro, Zaratti, Nicchi (SI-SEL).
378
Piera Vipiana
vale a dire il soggetto che attraverso la piattaforma digitale svolge l’attività di home restaurant; l’«utente fruitore», che viene
definito come il soggetto che attraverso la piattaforma digitale
utilizza il servizio di home restaurant condiviso dall’utente operatore cuoco (art. 2).
Il testo prevede alcune limitazioni per poter considerare le attività in esame come home restaurants rientranti nel suo ambito
di operatività.
Innanzi tutto (art. 4, c. 3) ci sono delle limitazioni di tipo organizzativo: per lo svolgimento dell’attività di home restaurant gli
utenti operatori cuochi si avvalgono esclusivamente della propria
organizzazione familiare e utilizzano parte di un’unità immobiliare ad uso abitativo che deve possedere i requisiti di cui all’articolo 5 del testo. Inoltre i medesimi soggetti devono essere in
possesso dei requisiti di onorabilità di cui all’articolo 71, commi
1 e 2, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 5918.
Ci sono inoltre limiti di tipo quantitativo. Invero, l’attività di
home restaurant non può superare il limite di cinquecento coperti per anno solare: tale limite di coperti vale in capo all’utente
operatore cuoco e in capo all’unità immobiliare ad uso abitativo
dove si svolgono le attività di home restaurant. Inoltre l’utente operatore cuoco non può percepire proventi annui superiori a
5.000 euro.
Quanto ai requisiti specifici per svolgere l’attività in esame,
il disegno di legge accenna al rispetto delle buone pratiche di
lavorazione e di igiene, nonché delle misure dirette a contrastare
il fenomeno dell’alcolismo determinate con decreto del Ministro
della salute, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico e con il Ministro dell’interno, da emanare entro novanta giorni
18. Precisamente, si tratta dei disegni di legge: C. 3258 Minardo, C. 3337
Cancelleri e altri, C. 3725 Basso e altri e C. 3807 Ricciatti e altri.
Gli home restaurants
379
dalla data di entrata in vigore dell’articolato, decreto nel quale
sono altresì determinate le modalità di controllo (art. 4, c. 6).
Inoltre il testo si sofferma (all’art. 5) ai requisiti degli immobili destinati all’attività di home restaurant: le unità immobiliari ad uso abitativo utilizzate per l’esercizio dell’attività di home
restaurant devono possedere le caratteristiche di abitabilità e di
igiene ai sensi della normativa vigente per gli immobili aventi
tale destinazione; l’utilizzo dell’immobile per attività di home
restaurant non comporta la modifica della destinazione d’uso
dell’immobile medesimo (sicché tale destinazione rimane quella
abitativa); l’attività di home restaurant non può essere svolta nelle unità immobiliari ad uso abitativo in cui sono esercitate attività
turistico-ricettive in forma non imprenditoriale o attività di locazione per periodi di durata inferiore a trenta giorni.
Il testo esclude dal suo ambito di operatività due attività (art. 4).
Da un lato, stabilisce che le sue disposizioni non si applicano
alle attività non rivolte al pubblico o comunque svolte da persone unite da vincoli di parentela o di amicizia, che costituiscono
attività libere e non soggette a procedura amministrativa: in tal
caso, evidentemente, l’esclusione dell’operatività dell’articolato
è totale.
Dall’altro lato, s’introduce un’esclusione soltanto parziale:
se l’utente operatore cuoco organizza un numero di eventi enogastronomici in un anno solare inferiore a cinque e a cinquanta
pasti totali e se l’unità abitativa in cui si svolge l’evento viene
utilizzata nel corso di un anno solare per un numero di volte inferiore a cinque, l’attività viene definita di social eating. In tal
caso la disciplina prevista è più leggera, nel senso che non sono
richiesti alcuni dei requisiti ordinariamente necessari19.
19. Tali disposizioni del d. lgs. 26 marzo 2010, n. 59, “recante Attuazione
della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno” prevede che
380
Piera Vipiana
Dal testo del disegno di legge in esame emerge che l’attività
di home restaurant è un’attività libera, non soggetta ad alcuna segnalazione o comunicazione ad autorità amministrative, ossia ad
alcun regime amministrativo, seppur diverso dal provvedimento
espresso20.
Queste ultime non hanno, di conseguenza, poteri di controllo
o vigilanza, ma soltanto poteri sanzionatori (emergenti dall’art.
6 del disegno di legge): «La mancanza dei requisiti previsti dalla presente legge per l’esercizio dell’attività di home restaurant
comporta il divieto di prosecuzione dell’attività medesima e la
sanzione amministrativa prevista dall’articolo 10, comma 1, della legge 25 agosto 1991, n. 287», ossia la sanzione amministrativa del pagamento di una somma fra il minimo e il massimo ivi
indicati e la chiusura dell’esercizio.
Invece incombenze di verifica sono previsti in capo a privati,
ossia ai gestori, che sono titolari, in base al disegno di legge,
di una serie di poteri e doveri. Infatti (art. 3, c. 6 e seguenti) il
gestore verifica che gli utenti operatori cuochi siano coperti da
polizze assicurative per la copertura dei rischi derivanti dall’attività di home restaurant e verifica che l’unità immobiliare ad
non possono esercitare l’attività commerciale di vendita e di somministrazione:
coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione; coloro che hanno riportato, con
sentenza passata in giudicato, determinate condanne, fra le quali una condanna
per reati contro l’igiene e la sanità pubblica (c. 1). Inoltre (c. 2) Non possono
esercitare l’attività di somministrazione di alimenti e bevande coloro che si
trovano nelle condizioni di cui al comma 1, o hanno riportato, con sentenza passata in giudicato, una condanna per reati contro la moralità pubblica e il buon
costume, per delitti commessi in stato di ubriachezza o in stato di intossicazione
da stupefacenti; per reati concernenti la prevenzione dell’alcolismo, le sostanze
stupefacenti o psicotrope, il gioco d’azzardo, le scommesse clandestine, nonché
per reati relativi ad infrazioni alle norme sui giochi.
20. Ossia non occorrono i requisiti previsti dall’articolo 3, commi 6 e 9, e
dal comma 6 del medesimo art. 4.
Gli home restaurants
381
uso abitativo sia coperta da apposita polizza che assicuri per la
responsabilità civile verso terzi. Il gestore verifica altresì che
gli utenti operatori cuochi siano in possesso dei requisiti di cui
all’articolato per lo svolgimento dell’attività di home restaurant,
ai fini dell’iscrizione alla piattaforma digitale. Inoltre il gestore,
nel rispetto del principio di trasparenza, fornisce all’utente fruitore le corrette informazioni relative al servizio offerto e alle polizze assicurative stipulate ai sensi del comma 6, esplicitando che
trattasi di un’attività non professionale di ristorazione. Infine il
gestore deve comunicare ai comuni, per via digitale, le unità immobiliari, registrate nella piattaforma, presso le quali si svolgono
le attività di home restaurant, secondo le modalità stabilite dal
decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con
il Ministro dell’economia e delle finanze. Tale decreto – da adottarsi entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del testo
– determina le modalità per garantire il controllo delle attività
svolte per il tramite delle piattaforme digitali di home restaurant
e per comunicare ai comuni, per via digitale, le unità immobiliari
registrate nella piattaforma quali sedi di eventi.
6. Considerazioni critiche sull’ultimo disegno di legge, in particolare ad opera dell’AGCM
Il disegno di legge in esame è stato oggetto di apprezzamenti,
ma anche di osservazioni critiche ad opera della Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE), che ha suggerito alcune modificazioni e aggiunte, fra le quali: la previsione della segnalazione
certificata di inizio attività (SCIA) per iniziare questa attività o
quantomeno di una comunicazione al SUAP comunale, visto che
l’utente cuoco deve dichiarare il possesso dei requisiti previsti
dalla normativa e consentire così la circolazione delle informa-
382
Piera Vipiana
zioni; l’implementazione dei controlli, attraverso la previsione
della possibilità di accedere in quelle che rimangono pur sempre case private; una maggiore specificazione per quanto attiene
all’organizzazione familiare di cui può avvalersi l’utente cuoco
per la sua attività; una maggior precisazione in merito alle norme
applicabili in tema di alcolici; una limitazione riguardante le attività di ristorazione in abitazione privata in un condominio, con la
previsione di una delibera dell’assemblea condominiale.
Una presa di posizione parzialmente negativa sul contenuto
del disegno di legge è stata assunta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Essa, nell’esercizio dei
poteri di cui all’articolo 22 della legge 10 ottobre 1990, n. 287,
ha espresso, nella sua adunanza del 22 marzo 2017, osservazioni
critiche in merito ad alcune previsioni restrittive della concorrenza presenti nel disegno di legge A.S. n. 2647.
Invero, l’Autorità ritiene che il testo introduce non giustificate limitazioni all’esercizio dell’attività di home restaurant. La
previsione delle piattaforme digitali come unica modalità per lo
svolgimento dell’attività di home restaurant comporta l’esclusione di ogni possibilità di rapporto diretto tra l’utente cuoco e
l’utente fruitore al di fuori di tali piattaforme: il che riduce la
domanda da parte delle persone meno abituate all’uso di sistemi
elettronici di acquisto e comporta una discriminazione con i ristoratori tradizionali, i quali, oltre a poter promuovere la propria
attività e ricevere prenotazioni mediante siti internet, possono
avere pure un contatto diretto con la clientela.
Analogamente, ad avviso dell’AGCM, dalla previsione che
(art. 3, comma 3) le transazioni avvengano esclusivamente mediante le piattaforme digitali discende l’obbligo, di fatto, di pagare la prestazione prima di averne beneficiato: ciò impedisce o
rende più oneroso per il cliente disdire sul posto un servizio.
L’Autorità osserva che siffatte misure non presenterebbero i
Gli home restaurants
383
caratteri di necessarietà e proporzionalità delle stesse nella qualificazione dell’attività in termini di sola occasionalità: l’operatore viene privato della libertà di definire autonomamente come e
in che misura organizzare la propria attività economica. Appare
quindi ingiustificata la conseguente quantificazione normativa
del numero massimo di coperti che possono essere allestiti e del
reddito annuo che l’attività in esame può generare. Siffatte previsioni contrasterebbero, oltre che con i principi di liberalizzazione
previsti dal d.lgs. n. 59/2010 (che recepisce la Direttiva Servizi)
e dai successivi decreti di liberalizzazione, anche con i principi
costituzionali di libera iniziativa economica e di tutela della concorrenza21.
Infine, appare ugualmente priva di motivazioni e ingiustificatamente restrittiva l’esclusione delle attività (in senso lato) ricettive – ossia di bed and breakfast e case vacanza in forma non
imprenditoriale e della locazione – dalla possibilità di ampliare
l’offerta di servizi extralberghieri con quella del servizio di home
restaurant.
Nessuna delle misure previste risulta necessaria e proporzionata per perseguire gli obiettivi dichiarati dall’art. l del DDL A.S.
n. 2647, che sono già tutelati da altre disposizioni: in particolare, le finalità di tutela della salute dei fruitori sono comunque
sufficientemente garantite dall’obbligo di rispettare le norme
sull’igiene degli alimenti (richiamate all’art. 4, comma 6) e dagli
obblighi di copertura assicurativa (art. 3, comma 6)22.
21. Per tali nozioni sia consentito al rinvio a P.M. Vipiana, L’attività amministrativa ed i regimi amministrativi delle attività private, Padova, 2017, 383
ss., con ulteriori citazioni.
22. Queste stesse perplessità sono state espresse dalla I Commissione (Affari Costituzionali) della Camera, che, nel rendere parere favorevole risetto al
disegno di legge in questione, ha nondimeno formulato alcune osservazioni, tra
cui quella di «valutare, alla luce dell’art. 41 Cost. in materia di libera iniziativa
economica, la disposizione secondo cui l’attività di home restaurant non può
384
Piera Vipiana
7.Considerazioni su una possibile normativa in tema di ristoranti domestici
La fine della Legislatura ha fatto calare un velo sulle iniziative parlamentari in corso e sugli strascichi, anche autorevoli, che
esse hanno avuto: in immediato una legge sugli home restaurants
non sarà approvata. Tuttavia lo spatium temporis che separa i
disegni di legge finora presi in considerazione e quelli che, verosimilmente, potrebbero essere presentati nella Legislatura appena iniziata (a seguito delle elezioni in data 4 marzo 2018) consentono, ad avviso di chi scrive, una rinnovata riflessione sulla
possibile disciplina della tematica e quindi un arricchimento dei
contenuti di essa.
In particolare, occorrerebbe chiarire titolarità e modi dell’esercizio del potere di vigilanza: imputarlo al gestore non sembra
del tutto coerente con la necessità di un controllo sui ristoranti de
quibus in coerenza con gli interessi pubblici sottesi. Da questo
punto di vista, le citate osservazioni della FIPE non sembrano
fuori luogo.
Inoltre le osservazioni dell’AGCM devono indurre a confezionare disposizioni in linea con il principio di proporzionalità
fra le misure introdotte e le finalità da perseguire, idonee superare i profili discriminatori e restrittivi che la medesima Autorità
ha posto in evidenza. Il citato disegno di legge sembra introdurre
eccessivi “lacci e lacciuoli”23 a carico del cuoco domestico: alcugenerare proventi superiori a 5.000 euro annui».
23. In sintesi, ad avviso dell’AGCM «il DDL che disciplina l’attività di
home restaurant appare nel suo complesso idoneo a limitare indebitamente una
modalità emergente di offerta alternativa del servizio di ristorazione e, nella
misura in cui prevede obblighi che normalmente non sono posti a carico degli
operatori tradizionali, risulta discriminare gli operatori di home restaurant, a
favore dei primi, senza rispettare il test di proporzionalità, necessarietà delle
misure restrittive rispetto al perseguimento di specifici obiettivi imperativi di
Gli home restaurants
385
ne prescrizioni sono eccessive e non trovano fondamento in esigenze effettive, sicché il disegno di legge non sembra in linea con
il principio della semplificazione amministrativa24, che è invece
assai rilevante25, essendo un principio di diretta derivazione cointeresse generale, come invece richiesto a livello europeo». Conclusivamente
l’Autorità auspica che i propri rilievi «siano tenuti in adeguata considerazione
in occasione del prosieguo dell’iter legislativo sul DDL in questione nonché in
occasione dell’emanazione del Decreto ministeriale che dovrà definire le modalità di controllo dell’attività degli operatori».
24. L’espressione – leggibile nel titolo del volume di Guido Carli, Lacci
e lacciuoli, Roma, Luiss University Press, 2003 – è frequente nel linguaggio
giuridico.
25. Sul quale cfr., ex multis: R. Ferrara, Le complicazioni della semplificazione amministrativa: verso un’amministrazione senza qualità?, in Dir. proc.
amm., 1999, 323 ss.; F. Manganaro, Principio di legalità e semplificazione
dell’attività amministrativa, Napoli, 2000; V. Cerulli Irelli - F. Luciani, La
semplificazione dell’azione amministrativa, in Dir. amm., 2000, 3-4, 617 ss.;
M.A. Sandulli, Semplificazione e garanzia: due strade talvolta confliggenti,
in Studi in onore di Elio Casetta, Napoli, 2001, vol. II; I.M. Marino, Cenno su
alcuni profili giuridici della semplificazione amministrativa con particolare riferimento all’ordinamento locale, ivi; S. Amorosino, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in Foro amm. TAR, 2005, 7-8, pp. 2635 ss.; G. Vesperini, Semplificazione
amministrativa, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico,vol. VI,
Milano, 2006; Id., Note a margine di una recente ricerca sulla semplificazione
amministrativa, in Giorn. Dir. Amm., 2010; M.R. Spasiano, La semplificazione
amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, in
Foro amm. TAR, 2010, 9, pp. 3041 ss.; P. Lazzara, Principio di semplificazione
e situazioni giuridico-soggettive, in Dir. amm., 2011, 4, pp. 679 ss.; A. Simoncini - E. Longo, L’ultima stagione della semplificazione: la riduzione degli oneri
amministrativi, in www.osservatoriosullefonti.it, 2013, 2 ss.; C. Pinelli, Liberalizzazione delle attività produttive e semplificazione amministrativa. Possibilità
e limiti di un approccio giuridico, in Dir. amm., 2014, 1-2, pp. 355 ss.; U.G.
Zingales, L’indagine conoscitiva parlamentare sulla semplificazione legislativa e amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2014, 2, 552 ss.; M.A. Sandulli
(a cura di), Le nuove regole della semplificazione amministrativa, in Officina
del diritto, Milano, 2016; R. De Nictolis, La semplificazione che verrà, in Riv.
it. dir. pubbl. comunit., 2016, 5, pp. 1107 ss.; E. Gardino, L’individuazione, la
semplificazione e l’accelerazione dei procedimenti, in Giorn. dir. amm., 2017,
1, 26 ss. Ci si consenta altresì il rinvio a P. M. Vipiana Perpetua, Considerazioni
386
Piera Vipiana
munitaria che è ormai da tempo radicato nell’ordinamento italiano, come ha precisato pure la Corte costituzionale26. Ad esempio,
la previsione in base alla quale i pagamenti devono avvenire solo
on line, che in un commento al disegno di legge è stata ritenuta necessaria al fine di garantire la trasparenza delle operazioni
di denaro27, penalizza – come già osservato – le fasce di possibili avventori che non sono in grado di utilizzare gli strumenti
elettronici e non appare indispensabile per conseguire il fine in
questione28. Nemmeno accettabili sembrano i limiti, imposti dal
disegno di legge, al contestuale esercizio di home restaurant e
di bed and breakfast (o di analoghe attività di tipo ricettivo)29:
evidente sembra l’utilità, per il turista che vi soggiorna, di poter
consumare pasti direttamente nella struttura.
In sintesi, sembra si possa ribadire che pare opportuna l’introduzione di una disciplina snella, a tutela dei consumatori e della loro salute, nonché per evitare che si concretino fenomeni di
concorrenza sleale fra i tipi di ristoranti in esame e i ristoranti in
senso tradizionale. Una legge in materia di home restaurant – ovviamente una buona legge, il cui testo sia pure condiviso da chi
in tema di semplificazione amministrativa procedimentale, in “Scritti in onore
di Franco Bassi”, Edizioni scientifiche italiane, 2015, tomo I, 367 ss. Più in
generale v. pure La semplificazione amministrativa: inquadramento, classificazioni, evoluzione normativa e profili problematici, in Contributi in tema di
semplificazione normativa e amministrativa, a cura di J. Luther e P. M. Vipiana
Perpetua, Polis Working Papers, n. 208, December 2013.
26. Così l’O.C.S.E. (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel 2005 redatto un rapporto dal titolo significativo, ossia “Cutting red
tape: National Strategies for Administrative Simplification”.
27. Cfr. C. Cost., 27 giugno 2012, n. 164. In tema v. pure R. Chieppa, La
(possibile) rilevanza costituzionale della semplificazione dell’azione amministrativa, in Giorn. dir. amm., 2009, 3, pp. 257 ss.
28. C. Frajoli Gualdi, op. cit., § III.
29. Allora sarebbe necessario prevedere pagamenti on line anche a favore
dell’artigiano (si pensi all’idraulico) che viene a domicilio per una piccola riparazione.
Gli home restaurants
387
da anni svolge questa attività e tenga conto dei rilievi di AGCM –
potrebbe inoltre consentire uno sviluppo di tale fenomeno, anche
in zone d’Italia dove esso non è ancora decollato. Il risultato dovrebbe essere, fra l’altro, quello di consentire, nel rispetto di tutti
gli interessi pubblici posti prima in evidenza, l’approfondimento
dell’autentica cultura del cibo.
La certificazione di conformità
del c.d. “Halal Food”*
Armando Giuffrida
Sommario: 1. Le regole alimentari confessionali: introduzione al tema. – 2. L’incidenza delle regole alimentari confessionali con riferimento alla preparazione,
al consumo e alla distribuzione dei prodotti alimentari: profili generali. – 3. Richiami alla Sharī‘a e alle regole alimentari islamiche. – 4. La certificazione di
conformità del c.d. “Halal Food”: profili introduttivi. – 5. Questioni applicative
alla luce del Codice della proprietà industriale. In particolare, la registrazione
dei c.d. marchi collettivi confessionali. – 6. La discrezionalità dell’Ufficio italiano brevetti e marchi in ordine alla valutazione del marchio recante simbologie di natura confessionale. – 7. Il mercato del c.d. “Halal Food” nel mondo, in
Europa e nel nostro Paese. – 8. La Convenzione interministeriale di sostegno al
Progetto di Certificazione denominato “Halal Italia”. – 9. La certificazione del
c.d. “Halal Food” in Italia. – 10. Considerazioni conclusive.
1. Le regole alimentari confessionali: introduzione al tema
Tra cibo e religione esiste un legame spesso indissolubile1. Invero, tutte le organizzazioni confessionali giudicano in rapporto
strettissimo il cibo ed i precetti religiosi, segnatamente laddove
contemplino – ed impongano – specifiche norme alimentari che
* Il presente contributo – che costituisce una rivisitazione dell’articolo,
dall’identico titolo, pubblicato su Il Diritto dell’economia, vol. 30, n. 92 (1/2017),
pp. 95-135 – si colloca nell’ambito della ricerca interdisciplinare dal titolo
«Politiche di contenimento della spesa pubblica e tutela dei diritti fondamentali
dei migranti in Italia», svolta presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze
Politiche, Economiche e Sociali dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo
Avogadro”, sotto la responsabilità scientifica della prof.ssa Roberta Lombardi.
1. Sulla complessa interrelazione tra cibo e religione è essenziale la lettura dei
seguenti contributi: A. Cipriani, Tradizioni alimentari e cultura, Pistoia, 2002; O.
Marchisio (a cura di), Religione come cibo e cibo come religione, Milano, 2004;
M. Salani, A tavola con le religioni, Bologna, 2007; F. Neresini, V. Rettore,
389
390
Armando Giuffrida
concorrono a definire l’habitus del fedele, impartendogli una metodica di vita e finanche un atteggiamento di ascesi corporale e
spirituale2. Il cibo svolge, pertanto, oltre alla funzione fisiologica
che gli è propria, anche quella di omaggio alla memoria, di gestualità rituale, di simbolo identitario e persino di educatore dello spirito attraverso il gusto, qualora il pasto rituale costituisca
parte integrante della liturgia, della preghiera comunitaria e della
meditazione collettiva3.
Le regole alimentari confessionali evocano in sé tutta una
molteplicità di pratiche e di consuetudini, frutto di credenze religiose e di aspetti simbolici e rituali, diretti a guidare le scelte
Cibo, cultura e identità, Roma, 2008; A.G. Chizzoniti, M. Tallacchini (a cura di),
Cibo e religione: diritto e diritti, Quaderni del Dipartimento di Scienze giuridiche,
Università Cattolica del Sacro Cuore, Tricase (Le), 2010; L. Bossi, M. Giorda, E.
Messina, Cibo, religioni e integrazione culturale. La ristorazione scolastica a Torino, I Report, Torino, 2013; E. Ceva (a cura di), Pluralismo alimentare: giustizia,
tolleranza e diritti, in Notizie di Politeia: rivista di etica e scelte pubbliche, (114),
2014; M.C. Giorda, S. Hejazi, Nutrire l’anima. Religioni in cucina, Cantalupa,
2015; A. Giuffrida, L’incidenza delle regole alimentari confessionali nell’assetto
giuridico-amministrativo italiano, in Giust.amm., 12/2015. Sul c.d. pluralismo
alimentare, cfr. i contributi di E. Ceva, Il pluralismo alimentare come problema
filosofico, di C. Testino, Pluralismo alimentare e giustificazione pubblica, e di
C. Del Bò, Regole alimentari religiose e laicità dello Stato, in Ceva, Pluralismo
alimentare: giustizia, tolleranza e diritti, cit., nonché il contributo di A.G. Chizzoniti, La tutela della diversità: cibo, diritto e religione, in Chizzoniti-Tallacchini
(a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti, cit., pp. 19 ss.
2. La grande varietà di abitudini alimentari è la conseguenza dell’evolu
zione millenaria dell’umanità, che le ha sviluppate per far fronte alle più
svariate situazioni e necessità. Tale diversificazione va ascritta ad una
molteplicità di esigenze, principalmente di natura ambientale, ma anche più
prettamente culturali e religiose. Secondo Bossi-Giorda-Messina, Cibo,
religioni e integrazione culturale. La ristorazione scolastica a Torino, cit., p. 8,
il cibo è un elemento culturale e, come tale, «è parte dell’amalgama di simboli
che costruiscono ogni sistema culturale», sicché «i significati veicolati dal cibo
contribuiscono a rappresentare e istituzionalizzare i valori e le credenze di una
determinata cultura».
3. Così ancora L. Bossi- M. Giorda-E. Messina, Cibo, religioni e
integrazione culturale. La ristorazione scolastica a Torino, cit., p. 8.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
391
alimentari del credente in ordine al cosa nutrirsi, quando nutrirsi, come preparare i cibi, come consumarli, come distribuirli ai
consumatori, e così via4.
La cultura dominante di una comunità costituisce una delle
principali motivazioni che inducono alla diversificazione nutrizionale, giacché fin dall’antichità le società hanno codificato regole alimentari consacrate in puntuali precetti morali e religiosi,
che non di rado tradivano una valenza squisitamente economica
e politica nell’intento di assicurare la sopravvivenza del gruppo
o anche solo il mantenimento dei rapporti gerarchici e di potere
al loro interno5.
Anzi, non manca chi ricollega la sussistenza di regole alimentari religiose alla sola combinazione di una pluralità di fattori economici, quali la pressione demografica, l’intensificazione
della produzione e l’esaurimento delle risorse, in considerazione dell’«inequivocabile priorità causale dei costi e dei benefici
materiali rispetto alle credenze spirituali»6. Secondo questa im4. Sul punto, si rimanda in particolare a Salani, A tavola con le religioni, cit.,
passim. Sul reciproco rapporto di influenza tra nutrizione e alimentazione, da un
lato, e sfera del sacro e della religione, dall’altro, in una prospettiva sociologica
e antropologica, ma con ampi richiami alla storia delle religioni, si vedano gli
studi di M. Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, Milano, 2007 (oltre
a Id., Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, Torino,
2006) e di R. Cipriani, L.M. Lombardi Satriani, Il cibo e il sacro, Roma, 2013.
5. Per una lettura politica, economica e sociale delle principali religioni
abramitiche, si rimanda a P. Simonot, Il mercato di Dio. La matrice economica
dell’ebraismo, cristianesimo, islam, Roma, 2010. Si vedano altresì, ma con
riferimento alla sola confessione ebraica, le riflessioni critiche di R. Di Segni,
Le interpretazioni economiche delle regole alimentari ebraiche nell’esegesi
classica e nel dibattito contemporaneo, in Zakhor. Rivista di storia degli ebrei
d’Italia, 1997, (1), pp. 211 ss.
6. Così, Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, cit., p. 153.
Secondo questo A., «le religioni sono generalmente mutate per conformarsi
alle esigenze di riduzione dei costi e massimizzazione dei benefici nella lotta
per impedire la caduta dei livelli di vita, viceversa, casi in cui i sistemi di
produzione si sono trasformati per conformarsi alle esigenze di mutati sistemi
392
Armando Giuffrida
postazione, l’origine della “codificazione” di regole alimentari
confessionali riposerebbe nella produzione di norme di natura
igienico-sanitaria sulla preparazione, conservazione e cottura dei
cibi, nonché nella previsione di una serie di limitazioni al consumo di determinati alimenti; e in entrambi i casi i precetti si sarebbero sedimentati nel tempo al solo fine di scongiurare il venir
meno di una certa fonte di sostentamento7.
Checché sia di ciò, pare incontestabile che di regola i fedeli
praticanti apprezzino o comunque consumino determinati alimenti più per motivazioni religiose che per la loro stessa valenza
nutrizionale o per ragioni igienico-sanitarie. E ciò appare in larga
misura palese non solo nell’ambito delle confessioni abramitiche – segnatamente in quelle ebraica ed islamica8 – ma anche in
religiosi, indipendentemente da considerazioni di costi e benefici, non esistono
o sono estremamente rari». Sulla stessa linea cfr. Harris, Buono da mangiare.
Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, cit., passim. Per una critica a questa
impostazione, cfr. F.J. Simoons, Non mangerai di questa carne, Milano, 1991.
7. Così, Testino, Pluralismo alimentare e giustificazione pubblica, cit., 16.
8. A differenza delle confessioni ebraica e islamica, la religione cristiana –
in particolare il culto cattolico – non impone particolari precetti alimentari ai
propri fedeli e, soprattutto, non distingue tra cibi e bevande leciti e illeciti: ciò
in quanto considera il cibo come «frutto del lavoro dell’uomo» e «dono di Dio»,
sicché non possono sussistere alimenti immondi per loro natura, come peraltro si
evince expressis verbis dalla lettura del Nuovo Testamento (si veda, ad esempio,
Mc VII, pp. 18-23: «E disse loro: “Siete anche voi così privi di intelletto? Non
capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo,
perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?”. Quindi
soggiunse: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro
infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni,
furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia,
calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di
dentro e contaminano l’uomo”»). Sulle prescrizioni alimentari nella religione
cristiana (non solo cattolica) si vedano: Salani, A tavola con le religioni, cit.,
spec. 201 ss.; Id., Cristianesimo e cibo. Il paradigma della libertà alimentare
cristiana: dalla pluralità gastronomica al pane e al vino eucaristici, in
Marchisio (a cura di), Religione come cibo e cibo come religione, cit., pp. 17 ss.;
L. De Gregorio, Alimentazione e religione: la prospettiva cristiano-cattolica,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
393
contesti culturali assai distanti dal nostro, come nelle tradizioni
buddhista, induista e taoista9.
L’influenza delle regole alimentari confessionali è spesso talmente forte da condizionare non solo i settori della produzione,
del consumo e della distribuzione di prodotti alimentari di una comunità, ma – di riflesso – gli stessi ordinamenti giuridici. Siffatte
regole rappresentano un tipico esempio di norme metagiuridiche
(attesa la loro valenza di precetti religiosi) destinate ad essere applicate non solo a beneficio del foro interno del credente, ma nello stesso ambito temporale, ogniqualvolta siano, espressamente o
implicitamente, richiamate dall’ordinamento positivo: il che apre
delicati scenari di interferenze ordinamentali dovuti alla necessità
di raffrontare il quadro normativo di tutela della libertà di culto
con l’assetto delle relazioni tra lo Stato e le confessioni religiose10.
A questo riguardo, va evidenziata la difficoltà che si riconnette alla oggettiva impossibilità di accogliere – e, quindi, di tutelare
in Chizzoniti-Tallacchini (a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti, cit., 47
ss.; M.R. Piccinni, Il rapporto tra alimentazione e religione nella tradizione
cristiano-ortodossa, ivi, pp. 111 ss.; T. Rimoldi, Gli avventisti del 7° giorno:
la Chiesa della Health Reform, ivi, pp. 123 ss.; A. Giuffrida, L’incidenza delle
regole alimentari confessionali nell’assetto giuridico-amministrativo italiano,
cit., pp. 13 ss.
9. Per una rapida disamina di tali regole alimentari religiose si vedano gli
spunti contenuti in L. Bossi, M. Giorda, E. Messina (a cura di), A tavola con le
religioni (nella ristorazione collettiva), liberamente consultabile in www.olir.it/
areetematiche/334/documents/report_ita_definitivo_2014.pdf, pp. 8 ss. Per un
approfondimento, cfr. M. Aliverti, La dimensione magico-religiosa del cibo.
Storia e antropologia della ritualità alimentare, in C.M. Berardi, A. Ferrero
(a cura di), Date loro da mangiare. Il cibo: nutrimento e Pane di vita, Roma,
2014, pp. 256 ss.
10. Sull’autonomia e la libertà “dallo Stato”, costituzionalmente garantite
alle confessioni religiose, cfr. ex plurimis: G. Cioppi, Tra uguaglianza e libertà:
contribuito ad una disciplina giuridica del fenomeno religioso, Napoli, 1999;
B. Randazzo, Diversi ed uguali. Le confessioni religiose davanti alla legge,
Milano, 2008; C.A. Ciampi, La libertà delle minoranze religiose, a cura di F.P.
Casavola, G. Long, F. Margiotta Broglio, Bologna, 2009.
394
Armando Giuffrida
– sic et simpliciter ogni singola regola alimentare confessionale,
giacché ciò costringerebbe il legislatore e le stesse autorità amministrative a porsi nella difficile situazione di operare esclusioni
dettate da scelte discrezionali ed assunte sulla base di criteri di
opportunità che non competono loro, stante l’autonomia e la libertà – costituzionalmente garantite – delle confessioni religiose.
Si pensi, ad esempio, alle difficoltà che possono profilarsi
qualora i fedeli si ritrovino a convivere forzosamente in strutture
chiuse – come gli ospedali, le case di cura, gli istituti di prevenzione e pena11, le caserme ed i tanto discussi centri di identificazione ed espulsione (CIE) – o ad essere condizionati da particolari orari di lavoro (nelle mense aziendali) o dalla frequenza
scolastica (nei refettori scolastici)12.
11. Al riguardo si vedano il d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 («Regolamento
recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative
della libertà»), che contiene le tabelle vittuarie, approvate con apposito decreto
ministeriale, per il quale si deve «anche tener conto, in quanto possibile, delle
prescrizioni proprie delle diverse fedi religiose» (art. 11, comma 4) nonché
l’allegato (punto 2.18) del d.P.R. 13 maggio 2005, recante «Approvazione del
documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione e degli
stranieri nel territorio dello Stato per il triennio 2004-2006». Sul tema, si veda
anche la Commissione europea dei diritti dell’uomo, 7 marzo 1990, in Quad.
dir. e pol. eccl., 1990, I, pp. 433 ss., sollecitata ad intervenire a fronte del rifiuto
dell’autorità carceraria britannica di assicurare ad un gruppo di detenuti di
religione ebraica l’osservanza delle prescrizioni alimentari confessionali.
12. Sulla somministrazione di cibi in conformità delle prescrizioni religiose
nelle mense scolastiche, si rinvia a L. Bossi, M. Giorda, E. Messina, Cibo,
religioni e integrazione culturale. La ristorazione scolastica a Torino, I Report,
Torino, 2013. Sulla scuola intesa come possibile spazio pubblico di confronto
interculturale, oltre alla dottrina già richiamata, si vedano: S. Rodotà, Il ruolo
della scuola come spazio pubblico di confronto, in F. Leone (a cura di), Libertà
per la scuola, Roma, 1995; E. Bein Ricco, Interculturalità e democrazia nella
scuola del 2000, in R. De Vita, F. Berti (a cura di), Dialogo senza paure. Scuola
e servizi sociali in una società multiculturale e multireligiosa, Milano, 2002; G.
Hasan Soravia, Tavola rotonda: le diversità culturali e religiose nella scuola,
in Dialogo senza paure. Scuola e servizi sociali in una società multiculturale e
multireligiosa, Milano, 2002; E. Pace, Conflitti di valore e riconoscimento delle
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
395
Ebbene, in assenza di puntuali misure normative, ben difficilmente i gestori dei servizi di ristorazione si farebbero garanti
del rispetto delle regole alimentari confessionali, a meno che non
decidano motu proprio di introdurre, meritoriamente, pietanze
religiosamente orientate nel menù proposto13.
Ma qualora il legislatore intervenisse in materia, incontrerebbe ostacoli seri: mentre infatti non potrebbe ipotizzarsi un generico rinvio ad ogni possibile regola alimentare invocata in adesione ad un determinato credo religioso, per converso non sarebbe
neppure configurabile una unilaterale disciplina positiva, giacché
in tal caso verrebbero contraddetti i principi di laicità e di tutela
della libertà religiosa e di coscienza e si darebbe pertanto vita ad
«una frammentazione giuridica di statuti personali non in linea
con gli assetti propri di una società democratica»14.
differenze in un sistema educativo multiculturale, ivi. Più specificatamente, sulle
rivendicazioni identitarie delle comunità islamiche nel mondo della scuola, cfr.
ex multis: Kamal Abd al Qadir Marinelli, Scuola ed educazione islamica,
Milano, 1996; H.R. Piccardo, L’islam nella scuola, in I. Sigillino (a cura di),
La visione della multiculturalità, Milano, 1999; M. Bertani, I musulmani e la
scuola italiana: dibattiti e prospettive, in Religione e Scuola, 2004, (2), 7 ss.
Sulla presenza islamica nella scuola con particolare riferimento alla situazione
europea, si veda: F. Dassetto, L’Islam in Europa, Torino, 1994.
13. È la condivisibile opinione di A.G. Chizzoniti, La tutela della diversità:
cibo, diritto e religione, cit., p. 24, nt. 14.
14. Così, ancora, A.G. Chizzoniti, La tutela della diversità: cibo, diritto
e religione, cit., p. 25. Attualmente è forte la preoccupazione del legislatore
di approvare misure idonee a coniugare e a bilanciare le prescrizioni religiose
in ambito alimentare con il diritto di libertà religiosa e, naturalmente, a
garantirne l’applicazione, nei limiti del possibile e del sostenibile. Sui principi
di uguaglianza e di non discriminazione in ambito confessionale, si vedano, ex
multis: P. Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione,
in Riv. it. dir. lavoro, 2002, (1), pp. 75 ss.; N. Fiorita, Le direttive comunitarie in
tema di lotta alla discriminazione, la loro tempestiva attuazione e l’eterogenesi
dei fini, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2004, (2), pp. 361 ss.;
N. Colaianni, Eguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza, in R. Botta
(a cura di), Diritto ecclesiastico e Corte costituzionale, Napoli, 2006, pp. 59
ss. Sulla tutela della libertà religiosa (e di coscienza) nell’ambito della CEDU,
396
Armando Giuffrida
A causa di questi limiti di ordine costituzionale, l’ordinamento italiano, come si rilevava poc’anzi, si trova nell’impossibilità
di individuare e riconoscere sic et simpliciter le regole alimentari
confessionali, ma deve giocoforza limitarsi a disciplinare singoli
aspetti ritenuti meritevoli di tutela o, comunque, di considerazione sotto altri profili non squisitamente di ordine confessionale.
Tale è il caso della c.d. macellazione rituale (islamica ed ebraica) che, appunto, forma oggetto di normative specifiche – peraltro
anche su sollecitazione in ambito europeo – ma solo perché sono
coinvolti profili di natura igienico-sanitaria nonché di ordine etico,
in questo caso a causa delle sofferenze inflitte agli animali15.
Mancano invece – come si segnalerà in seguito – specifiche
norme attributive, in capo alle autorità religiose, del potere di
oltre al sempre valido F. Margiotta Broglio, La protezione internazionale
della libertà religiosa nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo,
Milano, 1967, spec. pp. 49 ss., si rimanda a C. Morviducci, La protezione
internazionale della libertà religiosa nel sistema del Consiglio d’Europa, in S.
Ferrari, T. Scovazzi (a cura di), La tutela della libertà di religione. Ordinamento
internazionale e normative confessionali, 1988, pp. 43 ss. Per una rassegna di
documenti di diritto internazionale in materia di libertà religiosa, si veda M.
Scalabrino (a cura di), International Code on Religious Freedom, Leuveen,
Peeters, 2003.
15. Sui profili etici connessi alle sofferenze inflitte all’animale macellato,
sovente evidenziati dall’opinione pubblica c.d. occidentale, si rimanda anzitutto
all’approfondita indagine del Comitato Nazionale per la Bioetica, Macellazioni
rituali e sofferenze animali, 19 settembre 2003, consultabile nel sito internet
http://www.governo.it/bioetica/pdf/55.pdf. Si vedano altresì: V.G. Vignoli,
La protezione giuridica degli animali di interesse zootecnico (Legislazione
italiana e Convenzioni internazionali), in Riv. diritto agrario, 1986, (I), pp. 746
ss.; P. Fossati, La macellazione rituale, in Chizzoniti-Tallacchini (a cura di),
Cibo e religione: diritto e diritti, cit., pp. 261 ss.; D. Fonda, Benessere animale
nella macellazione convenzionale e rituale, ivi, spec. 230 ss.; N. Fiorita, Scuola
pubblica e religioni, Tricase, 2012, spec. pp. 79 ss.; F. Zuolo, Benessere animale
e macellazione rituale: tutela degli animali o rispetto per la concezione del bene
animalista?, in Ceva (a cura di), Pluralismo alimentare: giustizia, tolleranza e
diritti, cit., pp. 109 ss.; F. Ferraro, I problemi di macellazione rituale: un’etica
utilitaristica per le istanze animaliste, ivi., pp. 126 ss.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
397
certificazione della rispondenza o meno dei cibi e delle bevande
alle prescrizioni rituali, in guisa tale da rassicurare i fedeli sulla
conformità ai precetti confessionali16.
2. L’incidenza delle regole alimentari confessionali con riferimento alla preparazione, al consumo e alla distribuzione
dei prodotti alimentari: profili generali
Prima di concludere queste note introduttive dedicate, in generale, alle regole alimentari confessionali, è necessario ribadire
come l’influenza di queste ultime sia spesso talmente forte nel
tessuto sociale da incidere non solo nei settori della produzione,
del consumo e della distribuzione dei prodotti alimentari di una
certa comunità, ma – di riflesso – negli stessi ordinamenti giuridici.
Tralasciando eventuali richiami alle codificazioni passate, attualmente è molto sentita la preoccupazione dei legislatori delle
c.d. società multietniche – come quella italiana – di approvare
misure idonee a coniugare e a bilanciare le prescrizioni religiose
in ambito alimentare con il diritto di libertà religiosa onde garantirne l’applicazione nei limiti del possibile e del sostenibile. Ed è
ciò che si cercherà di mettere in luce nei paragrafi seguenti, con
16. Diversa è invece la situazione in taluni Paesi europei, nei quali è da
tempo adottata un’apposita disciplina in materia di certificazione di conformità
alle regole alimentari religiose. Tale è, ad esempio, il caso della Spagna, che ha
concluso un importante accordo con i rappresentanti delle comunità ebraiche ed
islamiche volto a consentire la registrazione come marchi di talune espressioni
provviste di significato simbolico e sacrale al fine di contrassegnare i prodotti
alimentari (e cosmetici) conformi alle regole confessionali. Sul tema, si vedano
gli approfonditi contributi di P. Lojacono, Sui marchi “religiosi”: traendo
spunto dagli Accordi spagnoli con ebrei e islamici, in Studi in onore di Gaetano
Catalano, Soveria Mannelli, 1998, pp. 913 ss., e Id, La rilevanza dei simboli
religiosi nel campo economico e commerciale: il marchio e la pubblicità, in
Dir. eccl., 1997, pp. 152 ss.
398
Armando Giuffrida
particolare riferimento della commercializzazione dei prodotti
alimentari conformi alle prescrizioni islamiche, sebbene analoghe riflessioni potrebbero riproporsi con riferimento ad altri ambiti, come nel caso siffatti alimenti siano somministrati nei servizi di ristorazione collettiva (si pensi alla refezione scolastica, a
quella aziendale, a quella penitenziaria, ecc.).
A ben vedere, le regole alimentari di matrice confessionale possono incidere tanto nel rapporto tra il cibo e la sua preparazione
(quindi in ordine ad ogni aspetto anteriore alla consumazione del
cibo), quanto nel rapporto tra il cibo e il suo consumo (quindi in ordine ad ogni rituale che si accompagna alla consumazione del cibo),
quanto infine nel rapporto tra il cibo e la sua distribuzione, anche
su scala industriale (coinvolgendo quindi il tema dell’etichettatura
e del marketing dei prodotti alimentari religiosamente orientati)17.
Ebbene, non v’è dubbio che le regole alimentari religiose possano incidere anzitutto nel rapporto tra il cibo e la sua preparazione e quindi in un momento anteriore allo stesso consumo
alimentare (o di certi alimenti). Paradigmatica è, nuovamente, la
macellazione rituale imposta dalle prescrizioni ebraiche (Kasherut) e musulmane (Halal). Nonostante la pratica della macellazione rituale si perda nella notte dei tempi18 e la stessa etimologia
del termine “mattatoio” – ossia del luogo attrezzato per l’esecu
zione della macellazione – tradisca una valenza religiosa19, è in17. Classificazione proposta da A.G. Chizzoniti, La tutela della diversità:
cibo, diritto e religione, in Chizzoniti-Tallacchini (a cura di), Cibo e religione:
diritto e diritti, cit., pp. 20 s., e ripresa da L. Bossi- M. Giorda- E. Messina,
Cibo, religioni e integrazione culturale. La ristorazione scolastica a Torino,
cit., p. 7.
18. Il sacrificio degli animali agli dei risulta ampiamente diffuso anche
nelle più antiche civiltà: si veda sul tema il documentato contributo di F.
Pezza, P. Fossati, Le macellazioni rituali nella storia normativa, in ChizzonitiTallacchini (a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti, cit., pp. 245 ss.
19. Il termine “mattatoio” trae infatti origine dal vocabolo latino mactare,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
399
fatti forte la preoccupazione del legislatore di approvare misure
idonee a coniugare e a bilanciare siffatte prescrizioni confessionali con il diritto di libertà religiosa e, naturalmente, tese a garantirne l’applicazione, nei limiti del possibile e del sostenibile20.
Ma le regole alimentari confessionali possono altresì incidere
– lo si è già accennato – nel rapporto tra il cibo e il suo consumo:
ne sono una conferma i rituali che accompagnano la consumazione dei pasti e che spesso prescrivono l’osservanza di una serie di
divieti e di obblighi alimentari21.
Nel primo caso (divieti alimentari), può trattarsi di divieti oggettivi – ossia di cibi che non è mai lecito consumare, come la
carne di suino per i fedeli israeliti ed islamici – ma anche di divieti temporali – come nel caso di digiuni e di astensioni temporanee – che possono poi riguardare ogni tipologia di cibo (durante
il quale, accanto al significato di uccidere, era più propriamente utilizzato
nell’accezione di immolare o di offrire in sacrificio Si veda, ad esempio, il
frequente utilizzo del verbo “mactare” contenuto nell’Eneide (Libro II, 202 e
667; Libro III, 21 e 118; Libro VI, 38, ecc.).
20. Si vedano, a livello normativo: il regolamento CE n. 853/2004 e s.m.i.
recante la normativa sanitaria europea in materia di macellazione degli animali;
il regolamento CE n. 854/2004 e s.m.i. sugli specifici controlli sanitari; il
regolamento 2009/1099/UE, 24 settembre 2009, sulla protezione degli animali
al momento dell’abbattimento (in vigore dal 2013), nonché l’art. 4, l. 2 agosto
1978, n. 439, di recepimento della direttiva 74/577/CEE, 18 novembre 1974,
sull’obbligo di stordimento degli animali prima della macellazione, e il
conseguente d.m. 11 giugno 1980, recante «Autorizzazione alla macellazione
degli animali secondo i riti religiosi ebraico e islamico». Per una introduzione
alla macellazione rituale, oltre a A.G. Chizzoniti, Tutela della diversità: cibo,
diritto, religione, cit., pp. 33 ss., cfr. R. Bottoni, La macellazione rituale
nell’Unione europea e nei paesi membri: profili giuridici, in ChizzonitiTallacchini (a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti, cit., spec. pp. 230 ss.,
nonché P. Lerner, A.M. Rabello (a cura di), Il divieto di macellazione rituale
(shechità kosher e halal) e la libertà religiosa delle minoranze, Padova, 2010.
21. Sul tema, si veda, a livello introduttivo, Chizzoniti, Tutela della
diversità: cibo, diritto, religione, cit., pp. 20 s. e, funditus, R. Alessandrini, M.
Corsari, La sacra mensa. Condotte alimentarie pasti rituali nella definizione
della identità religiosa, Modena, 1999.
400
Armando Giuffrida
i digiuni) o soltanto taluni alimenti (si pensi al divieto ebraico di
ingerire contestualmente la carne e il latte o suoi derivati)22.
Quanto poi agli obblighi alimentari essi ricorrono quando i fedeli sono chiamati a consumare ben definite tipologie di prodotti
(specialmente in occasione di ricorrenze religiose, come l’agnello durante la Pasqua ebraica) o anche a compiere determinati gesti rituali prima, durante o dopo il pasto.
I due ordini di prescrizioni (divieti e obblighi) possono cumularsi
tra loro: si pensi alla proibizione del consumo di un certo alimento
non in modo perpetuo, ma solo durante la ricorrenza di certe festività o di certi periodi dell’anno, come in occasione della Quaresima
per i fedeli cattolici o del Ramadan per i fedeli di religione islamica.
Infine, come si è accennato, le regole confessionali possono
incidere sullo stesso rapporto tra il cibo e la sua distribuzione, anche su scala industriale, coinvolgendo il tema dell’etichettatura e
del marketing dei prodotti alimentari religiosamente orientati23.
22. Circa il digiuno, va osservato che probabilmente non esiste confessione
religiosa che non contempli momenti di astensione dal cibo. Tale pratica
non contraddice l’asserto secondo cui ogni cibo ed ogni bevanda sono sacri,
positivi, buoni (compresi anche quelli interdetti permanentemente), trattandosi
di doni di Dio: infatti, chi si astiene o digiuna non si pone contro Dio, ma al
contrario ricerca, anche attraverso questa via, un’occasione di incontro con il
Trascendente. Come la condivisione del pasto, anche la sua rinuncia assume un
valore sacrale e comunitario giacché rappresenta un momento di vicinanza a Dio
nella comunione con i fratelli nella fede. Il tempo del digiuno fa così emergere,
anche fisicamente, la necessità di porre Dio al centro del vivere quotidiano e
un’occasione di rinuncia ai piaceri terreni. Nel senso ora prospettato, si veda
Bossi-Giorda-Messina, Cibo, religioni e integrazione culturale. La ristorazione
scolastica a Torino, cit., pp. 11 s. Sul tema del digiuno nelle tre religioni
abramitiche, con i necessari richiami bibliografici, sia consentito rinviare
A. Giuffrida, L’incidenza delle regole alimentari confessionali nell’assetto
giuridico-amministrativo italiano, cit., passim.
23 Classificazione proposta da Chizzoniti, La tutela della diversità: cibo,
diritto e religione, in Chizzoniti-Tallacchini (a cura di), Cibo e religione: diritto
e diritti, cit., pp. 20 s., poi ripresa da Bossi-Giorda-Messina, Cibo, religioni e
integrazione culturale. La ristorazione scolastica a Torino, cit., p. 7.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
401
Ed è proprio quest’ultimo aspetto che costituisce l’oggetto
delle riflessioni del presente contributo, avendo a particolare riferimento le sole prescrizioni alimentari islamiche.
3. Richiami alla Sharī‘a e alle regole alimentari islamiche
Per i credenti musulmani la libertà religiosa non può essere circoscritta alla mera facoltà di professare il proprio credo e di praticarne il culto, ma impone innanzitutto di improntare l’intera propria esistenza alla rigida e puntuale osservanza delle prescrizioni
confessionali, ossia della Sharī‘a24.
La legge islamica, o Sharī‘a, si compone di un articolato e
complesso insieme di precetti rilevanti dal punto di vista non
solo religioso, ma anche prettamente giuridico, tesi a disciplinare
in modo integrale la condotta del fedele, tanto da essere ritenuta
incompatibile con ulteriori fonti normative25.
24. Sul concetto di libertà religiosa nel diritto islamico, cfr. ex plurimis: G.
Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, Bologna, 1991, pp.
251 ss.; L. Musselli, Islam ed ordinamento italiano: riflessioni per un primo
approccio al problema, in Dir. eccl., 1992, I, pp. 629 ss.; Id., Libertà religiosa e
Islam nell’ordinamento italiano, ivi, 1995, pp. 444 ss.; M. Tedeschi, Cristianesimo
e islamismo. Presupposti storico-giuridici, ivi, I, pp. 937 ss.; F. Castro, L’Islam
in Italia: profili giuridici, in Quad. dir. e pol. eccl., 1996, (1), pp. 269 ss. Per una
disamina della Sharī‘a e, dunque, del diritto islamico, si vedano: F. Castro, voce
Diritto musulmano e dei Paesi musulmani, in Enc. giuridica, XI, 1989; G. Caputo,
Introduzione al diritto islamico, Torino, 1990; Salah Eddine Ben Abid, La Sharia
fra particolarismi e universalità, in Quad. dir. e pol. eccl., 1996, (1), pp. 29 ss.;
M. Papa, Paesi musulmani, in A. Diurni, Percorsi mondiali di diritto privato e
comparato, Milano, 2008, pp. 217 ss. Sul rapporto tra diritto ed etica nell’Islam, si
rimanda a G.M. Picc in
elli, La dimensione etica del diritto musulmano dei contratti
classico e contemporaneo, in Roma-America Latina, VII, 1999, spec. pp. 249 ss.
Infine, sulle criticità connesse alla convivenza con la comunità islamica, si vedano,
ex plurimis: M. Aletti, G. Rossi, Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo,
2004, Torino; J. Goody, Islam ed Europa, Milano, 2004.
25 Le fonti normative della Sharī‘a sono principalmente quattro. La prima
402
Armando Giuffrida
Il credo islamico contempla una ricca varietà di norme alimentari
religiose, traenti origine dal Corano e dalla Sunna, e che, in massima
parte, rispecchiano le abitudini alimentari del Profeta Muhammad.
La conformità a dette regole è indicata con i termini Halal e
Haram, che, rispettivamente, illuminano il fedele su ciò che sia
consentito o meno assumere come cibo26. D’altro canto, la stessa
in ordine di importanza è senz’altro il Corano, che è la parola di Dio rivelatasi
attraverso l’opera profetica di Muhammad svolta nel periodo tra il 609 e il
632 d.C. Segue poi la Sunna (lett. consuetudine, abitudine), che invece è un
testo redatto alcuni secoli dopo la morte di Maometto sulla base dei racconti
tramandati verbalmente da soggetti degni di fede. Mentre il Corano contiene
i principi e le norme che reggono il vivere civile del fedele musulmano (dal
diritto matrimoniale a quello successorio, dal sistema fiscale all’igiene
personale, dalle pratiche di culto in senso stretto ai precetti legati appunto
all’alimentazione, e così via), la Sunna raccoglie i comportamenti tenuti dal
Profeta in svariate occasioni della sua esistenza, rappresentando per il fedele
islamico una sorta di codice di comportamento e di chiave interpretativa circa
la liceità delle fattispecie non espressamente previste nel Corano. La Sunna è
perciò un’essenziale fonte giuridica islamica, seconda solo al Sacro Testo. La
terza fonte della Sharī‘a è il parere unanime dei dotti, i quali sono, al contempo,
teologi e giuristi. Infine, si pone il ragionamento analogico condotto sui dati
raccolti dalle prime tre fonti. La Sharī‘a può dunque definirsi come l’insieme
di precetti rituali dettati dal Profeta, su rivelazione di Allàh, per disciplinare il
corretto rapporto tra Dio e l’uomo onde assicurare la salvezza della comunità
dei credenti nell’Islam. Per una disamina del Corano si veda H. Piccardo (a
cura di), Il Corano. In nome di Allàh, il Compassionevole, il Misericordioso,
traduzione interpretativa in italiano, consultabile anche nel sito internet www.
corano.it/corano.html.
26. Il Corano rimarca più volte (v. Sura II, IV, VI, XVI) la distinzione dei cibi
in leciti e illeciti: i fedeli islamici debbono infatti servire e onorare Allàh anche
nutrendosi dei cibi che Allàh stesso ha prescritto come leciti. È, ad esempio, fatto
divieto di cibarsi di tutti gli animali terrestri carnivori, del maiale (e dei suini in
generale), degli uccelli rapaci e dei pesci sprovvisti di squame, del grasso dei
bovini e degli ovini (eccezion fatta per il grasso situato lungo il dorso, oppure
aderente alle ossa, o ancora contenuto nell’intestino) nonché del sangue di
qualunque animale. Tutti gli animali divengono poi impuri se la morte sia stata
cagionata da cause naturali, oppure per caduta, soffocamento, colpi di corna o
di bastone, o se la morte, pur avvenuta con le modalità ammesse, non sia stata
preceduta dalla rituale invocazione sull’animale del nome di Allàh. Parimenti
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
403
vita del praticante islamico è costantemente scandita dalla distinzione tra ciò che è lecito (Halal) e ciò che è proibito (Haram)
non solo da Dio, ma anche dal comportamento esemplare tenuto
in vita dal suo Profeta27.
Ed è proprio in questa distinzione che va ascritto il complesso sistema delle norme alimentari islamiche – costituito da una
lunga serie di divieti, di cibi consentiti e finanche di norme di
galateo da osservare durante i pasti – e che da tempo è oggetto
di studi approfonditi da parte della dottrina ecclesiasticistica, alla
quale si rimanda in toto28.
illecita è la carne di animali precedentemente sacrificati agli idoli o che siano stati
in parte divorati da altri animali. Quanto poi alla liceità del vino (e degli alcolici),
nel Corano si riscontrano palesi incongruenze, essendo talvolta considerato
un dono di Allàh (Sura XVI, 67, e Sura XLVII, 15), talaltra come «un’opera
abominevole di Satana» (Sura V, 92) e, in generale, come una bevanda di cui
non abusarne. Sul punto, sia nuovamente consentito rinviare ad A. Giuffrida,
L’incidenza delle regole alimentari confessionali nell’assetto giuridico-ammini
strativo italiano, cit.,12 ss. e, per un’approfondita disamina di ordine sociologico
e confessionale, A. Pelliccia, Alcol e immigrazione. Uno sguardo transculturale,
ricerca condotta con il patrocinio del C.N.R., consultabile nel sito www.epid.ifc.
cnr.it (AreaDownload, alla voce “Pubblicazioni”).
27. È infatti enunciato: «Sorga tra voi una comunità che inviti al bene,
raccomandi le buone consuetudini e proibisca ciò che è riprovevole. Ecco
coloro che prospereranno» (Sura III, 104).
28. Come riportato da Aliverti, La dimensione magico-religiosa del cibo.
Storia e antropologia della ritualità alimentare, in Berardi-Ferrero (a cura
di), Date loro da mangiare. Il cibo: nutrimento e Pane di vita, cit., pp. 255 s.,
esistono alcune ritualità da rispettare nella preparazione e nel consumo dei pasti.
«Quanto alla preparazione, il buon musulmano tende ad abbondare nel cibo da
mettere a tavola per essere pronto ad offrirlo agli eventuali ospiti con gentilezza
e accoglienza. Rispetto al pasto si osservano le seguenti norme di galateo: a)
prima di mangiare lavarsi le mani con acqua attinta da una brocca senza alzarsi
da tavola, b) sedersi alla sinistra della tavola, c) prende il cibo con tre dita della
mano destra, d) leccarsi le dita appena finito di mangiare. Si consiglia inoltre di
servirsi del piatto di fronte a sé, prendere porzioni piccole masticandole bene, non
fissare gli altri commensali. È comunque obbligatorio ringraziare Dio al termine
del pasto, in quanto Allàh è considerato il vero dispensatore di tutto quanto è
stato portato in tavola». Esistono poi ulteriori ritualità alimentari connesse alla
404
Armando Giuffrida
Ai nostri fini è sufficiente evidenziare come tali precetti affianchino alla originaria valenza religiosa – tant’è che rientrano a pieno
titolo nella Sharī‘a – anche una forte connotazione giuridica, etica
e sociale; e ciò non solo nei Paesi e nelle comunità a maggioranza
musulmana, ma anche nelle stesse società c.d. occidentali (fra cui
quella italiana), ormai sempre più multietniche e multiconfessionali.
Sennonché, il termine Halal (come anche l’espressione ebraica Kosher), accanto al tipico significato sacrale e simbolico, è
oggi prevalentemente utilizzato nelle contrattazioni commerciali
quale sinonimo di alimento lecito e quindi acquistabile dal fedele
perché prodotto e confezionato in conformità alle prescrizioni
religiose. Ed è appunto questa l’accezione del termine che sarà
utilizzata nel prosieguo della trattazione.
4. La certificazione di conformità del c.d. “Halal Food”: profili introduttivi
Come già si è precisato (v. par. 2), l’osservanza delle regole alimentari religiose assume grande rilevanza anche nella relazione tra cibo e sua distribuzione, soprattutto con riguardo al tema
della certificazione di conformità alle norme confessionali29: la
celebrazione di determinate ricorrenze religiose, come la piccola festa (id al-fitr)
e la festa del sacrificio (id al-adha); quest’ultima cade il cinquantesimo giorno
successivo al Ramadan ed è caratterizzata dall’abbondante consumo di carne.
Sulle prescrizioni alimentari confessionali imposte dalla religione islamica, oltre
ai volumi di L. Zaouali, L’islam a tavola. Dal medioevo ad oggi, Roma-Bari,
2004, e di V. Vacca, S. Noja, M. Vallaro, Sahih al-Buhari. Detti e fatti del
Profeta dell’Islam, Torino, 1982, cfr., ex multis: L. Ascanio, Le regole alimentari
nel diritto musulmano, in Chizzoniti-Tallacchini (a cura di), Cibo e religione:
diritto e diritti, cit., pp. 63 ss.; Salani, A tavola con le religioni, cit., pp. 85 s.;
Marchisio (a cura di), Religione come cibo e cibo come religione, cit., pp. 77 s.
29. In linea generale, la certificazione è un’operazione squisitamente tecni
ca intesa ad attestare la conformità di prodotti o servizi ai requisiti fissati da nor
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
405
produzione e la commercializzazione di alimenti in conformità
ai precetti islamici lascia infatti emergere la necessità di introme tecniche vincolanti (certificazione obbligatoria) oppure da norme tecniche
non vincolanti (certificazione volontaria) da eseguirsi per il tramite di procedure
elementari selezionate in funzione dell’oggetto della medesima certificazione. La
certificazione è messa in atto attraverso una serie di operazioni fondamentalmente
tecniche e richiede pertanto che sia svolta da personale specializzato e provvisto di
idonee dotazioni strumentali. Le attività sperimentali (rilevazioni, misure, analisi)
rappresentano una componente essenziale del processo certificativo, insieme alla
conoscenza tecnologica dei prodotti valutati e dei relativi processi di fabbricazione.
Sulla certificazione di qualità in generale, cfr.: G. Smorto, Certificazione di
qualità e normazione tecnica, in Digesto civ., agg.-2003, Torino, (I), pp. 205
ss.; M.C. Ferrarese, A. Mattiazzi, P. Cortiana, S. Pinton, La certificazione di
prodotto nel settore agroalimentare, in Ambiente, 2005, pp. 651 ss.; F. Fracchia,
M. Occhiena (a cura di), I sistemi di certificazione tra qualità e certezza, Milano,
2006; F. Ciccariello, voce Certificazione di qualità, in Il diritto-Encicl. giur.,
Milano, 2007, vol. III, pp. 77 ss.; A.M. Mazzaro, La certificazione di qualità e
la responsabilità dell’ente certificatore, in Il Civilista, 2008, (1), pp. 88 ss.; M.
Strukul, La certificazione di qualità come strumento di tutela del consumatore Profili contrattuali e di responsabilità, in Obbl. e contratti, 2009, pp. 732 ss. Per
E. Bivona, Le certificazioni di qualità: vizi del prodotto e responsabilità dell’ente
certificatore, in Contr. e impresa, 2006, pp. 1331 ss., la prestazione del certificatore
va inquadrata tra le obbligazioni di risultato, giacché «tale risultato consiste non
già nella garanzia di un prodotto esente da vizi, bensì nel rilascio – a seguito di
un’attività di ispezione e verifica – di un’attestazione relativa alla conformità o
meno del sistema controllato agli standards normativi e, altresì, nella veridicità di
siffatta attestazione, quale effettiva conformità tra lo stato di fatto e le risultanze
emergenti dalla rilasciata certificazione» (ivi, 1362). A livello normativo, si veda in
particolare il regolamento (CE) n. 765/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio
del 9 luglio 2008, «che pone norme in materia di accreditamento e vigilanza del
mercato per quanto riguarda la commercializzazione dei prodotti e che abroga
il regolamento (CEE) n. 339/93», il quale – tra l’altro – prevede l’istituzione di
un organismo nazionale di accreditamento unico, finalizzato alla selezione degli
enti preposti alla valutazione di conformità alle specifiche prescrizioni relative a
prodotti (anche) alimentari e che debba garantire il necessario livello di fiducia
nella corrispondente attività di certificazione. Tale organismo nazionale è stato
individuato con d.m. 22 dicembre 2009, recante «Designazione di “Accredia”
quale unico organismo nazionale italiano autorizzato a svolgere attività di
accreditamento e vigilanza del mercato». Sui fini istituzionali di Accredia si
rimanda al sito istituzionale, consultabile in www.accredia.it/.
406
Armando Giuffrida
durre una marcatura di qualità volta ad assicurare il legittimo affidamento dei consumatori circa la “purezza” di tali alimenti dal
punto di vista della Sharī‘a30.
Il maggior peso – commerciale e giuridico – del marchio rispetto agli altri segni distintivi aziendali accresce di rilevanza
la problematica in esame, qualora l’imprenditore decida di fare
uso liberamente (o disinvoltamente…) di un marchio recante una
simbologia religiosa o sacrale: è evidente che un’incondizionata
libertà di utilizzazione del marchio potrebbe pregiudicare, anche
seriamente, il sentimento dei fedeli verso un determinato credo
religioso31.
L’uso del termine “Halal” (al pari dell’ebraico “Kasher” e di
altri di analoga valenza), così denso di significato sacrale e simbolico, andrebbe sottratto al libero utilizzo degli imprenditori perché
reca in sé una funzione di garanzia di conformità alle prescrizioni della Sharī‘a: esso, cioè, funge da marchio di qualità giacché
rappresenta per il fedele – suo potenziale acquirente – la garanzia
dell’esistenza di un requisito essenziale della propria scelta alimentare, ossia la conformità alle prescrizioni islamiche32.
30. Sulla certificazione di conformità del prodotto alimentare alle regole
confessionali, oltre ai già richiamati contributi di Lojacono, Sui marchi
“religiosi”: traendo spunto dagli Accordi spagnoli con ebrei e islamici, cit., e
Id, La rilevanza dei simboli religiosi nel campo economico e commerciale: il
marchio e la pubblicità, cit., si veda in particolare F. Leonini, La certificazione
del rispetto delle regole alimentari confessionali: norme statuali e libertà
religiosa, in Chizzoniti-Tallacchini (a cura di), Cibo e religione: diritto e diritti,
cit., pp. 143 ss.
31. Il marchio è tradizionalmente ritenuto il più rilevante segno distintivo
giacché rappresenta un essenziale strumento di raccordo tra il produttore e
il mercato (così, tra i molti, V. Di Cataldo, I segni distintivi, Milano, 1993,
pp. 4 s.); il che, fra l’altro, è confermato dalla corposa disciplina di settore –
oggi racchiusa principalmente nel Codice della proprietà industriale –, ben più
estesa della scarna regolamentazione degli altri segni distintivi (ditta e insegna)
contenuta nel Codice civile (v. artt. 2563-2568 cod. civ.)
32 Sui marchi di qualità in generale, cfr., ex multis: A. Vanzetti, Funzione
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
407
Per tale ragione questa sorta di marchio di qualità finisce per
assumere una specifica fisionomia rispetto al generico marchio
di impresa (detto anche individuale), la cui destinazione è invece
quella di contraddistinguere i prodotti da quelli delle ditte concorrenti33.
Né, d’altro canto, siffatto segno distintivo è riconducibile al
novero dei marchi recanti indicazioni di provenienza, denominazioni tipiche, o di origine34: la funzione tipizzata dal legislatore
di queste particolari species di marchi è infatti assai distante da
quella ascrivibile ai marchi di conformità alla Sharī‘a, i quali assumono così una propria fisionomia ed autonomia rispetto a tutti
gli usuali marchi commerciali35.
e natura giuridica del marchio, in Riv. dir. comm., 1961, (1), pp. 17 ss.; R
Franceschelli, voce Marchi d’impresa, in Noviss. Dig. it., vol. X, 1964, pp.
215 ss.; Id, Sui marchi di impresa, Milano, 1988, nonché, con riferimento ai
prodotti agroalimentari, G. Floridia, I marchi di qualità, le denominazioni di
origine e le qualificazioni merceologiche nel settore alimentare, in Riv. dir. ind.,
1990, (I), pp. 5 ss.
33. In realtà, la dottrina commercialistica individua tradizionalmente
molteplici funzioni del marchio che si aggiungono la originaria finalità di
distinguere il prodotto dai succedanei presenti sul mercato (c.d. funzione di
collettore di clientela). Si pensi alla c.d. funzione moralizzatrice del marchio
e di garanzia della qualità del prodotto (il marchio, cioè, svolge una funzione
positiva o negativa in relazione alla qualità del prodotto: se è buono, il marchio
serve a tenere legato il consumatore; se è cattivo, ad allontanarlo), alla funzione
di facilitazione del lancio di nuovi prodotti ed anche alla capacità di un marchio
affermato di eliminare dal mercato le imprese concorrenti. Per una disamina
della questione, con i necessari richiami dottrinali e giurisprudenziali, si vedano,
oltre quanto già citato: A. Vanzetti, voce Marchio. Diritto commerciale, in
Enc. giur., vol. XIX, Roma, 1990, p. 1 ss.; G. Sena, Brevi note sulla funzione
del marchio, in Riv. Ind., 1989, I, p. 5 ss.
34. In argomento, si vedano: A. Germanò, Situazioni giuridiche protette
con riguardo alla localizzazione geografica della produzione: il marchio
geografico ed il marchio regionale di qualità, in Dir. giur. agr. amb., 1996,
pp. 663 ss.; F. Albisinni, L’origine dei prodotti agro-alimentari e la qualità
territoriale, in Riv. dir. agr. 2000, I, pp. 41 ss.
35. In tal senso è orientata ormai la dottrina che si è occupata di questi
408
Armando Giuffrida
L’utilizzo della locuzione “Halal”, lungi dal porsi in conflitto con la sensibilità religiosa, è dunque da ritenersi pienamente
consentito e finanche sollecitato dalla stessa comunità dei fedeli
perché funzionale al concreto esercizio della libertà di culto e del
proprio credo religioso. Su questo punto si ritornerà ancora nel
prosieguo della trattazione.
5. Questioni applicative alla luce del Codice della proprietà
industriale. In particolare, la registrazione dei c.d. marchi
collettivi confessionali
Nel precedente paragrafo si è chiarito come l’inserimento dell’espressione “Halal” nei marchi di determinati prodotti alimentari
svolga essenzialmente una funzione di garanzia di conformità
di tali alimenti alle prescrizioni islamiche. Senonché, l’utilizzo
di detta espressione nella commercializzazione di prodotti alimentari pone una serie di interrogativi di natura applicativa. In
primo luogo, non è chiaro chi a monte sia legittimato a registrare
un marchio di commercio recante la dicitura “Halal” o, comunque, in generale un simbolo o un segno religioso36. In linea di
principio, tale legittimazione sembrerebbe attribuibile a chiunque, senza limitazioni di sorta, non sussistendo espressi divieti
o preclusioni in tal senso, come sembra argomentabile in base al
combinato disposto degli artt. 7 e 8, comma 3, del Codice della
proprietà industriale, approvato con d.lgs. 10 febbraio 2005, n.
temi: su tutti, Lojacono, Sui marchi “religiosi”: traendo spunto dagli Accordi
spagnoli con ebrei e islamici, cit., pp. 926 ss., con la letteratura ivi richiamata.
36. Si pongono tali interrogativi Leonini, La certificazione del rispetto delle
regole alimentari confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., pp. 145
ss., nonché Lojacono, Sui marchi “religiosi”: traendo spunto dagli Accordi
spagnoli con ebrei e islamici, cit., pp. 924 ss.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
409
10. Ma v’è di più. Nulla vieterebbe l’inserimento in un marchio
degli stessi simboli della fede – come la Croce cristiana, la Stella
di Davide o la Mezzaluna islamica – nonostante trattasi di segni
altamente identitari per le rispettive comunità di credenti37: la
presenza di tali simbologie nelle bandiere di Stati38 ed organizzazioni internazionali39, nonché negli emblemi di partiti politici40
e persino in marchi di impresa41 è infatti pienamente consentita,
senza necessità di ottenere il previo assenso o l’espressa autorizzazione delle autorità religiose42.
Se dunque non sussiste alcuna esclusiva delle autorità confessionali in ordine all’utilizzo dei simboli di fede, chiunque –
anche un privato – potrebbe abbinare un simbolo confessionale
al marchio di un proprio prodotto, magari per evocarne giustappunto il significato religioso. Ma, se ciò è vero, appare altrettanto
pacifico che nessuno potrà mai estendere la privativa sul simbolo
religioso attraverso l’esclusiva sul marchio; e ciò per le medesime ragioni testé esposte.
37. Per una riflessione sulla rilevanza civile dei simboli religiosi, cfr.: M.
Parisi (a cura di), Simboli e comportamenti religiosi nella società plurale,
Napoli, 2006; E. Dieni, A. Ferrari, V. Pacillo (a cura di), Symbolom/diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, Bologna, 2005; V.
Paccillo, Diritto, potere e simbolo nella tradizione giuridica occidentale: brevi
note a margine, 2004, in www.olir.it.
38. La Croce compare in numerose bandiere nazionali (Svizzera,
Slovacchia, Grecia, Inghilterra, Islanda, ecc.) e finanche regionali (Regione
Piemonte). La Stella di Davide è racchiusa nella bandiera israeliana. Anche la
Mezzaluna islamica compare in svariate bandiere nazionali (Turchia, Pakistan,
Turkmenistan, Azerbaigian, Tunisia, Algeria, Libia, ecc.).
39. La Croce e la Mezzaluna islamica compaiono, ad esempio, nei vessilli
della Croce rossa internazionale e della Mezzaluna rossa internazionale.
40. Si pensi alla vecchia Democrazia Cristiana e ad altri partiti cattolici
italiani.
41. Tale è, ad esempio, il marchio dell’Alfa Romeo.
42. Così, Leonini, La certificazione del rispetto delle regole alimentari
confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., pp. 144 ss.
410
Armando Giuffrida
Ebbene, se tale generalizzata legittimazione vale per i simboli
della fede, la stessa andrebbe a fortiori riconosciuta anche a colui
che apponga sul marchio una terminologia attestante la conformità ai precetti islamici: ogni imprenditore potrebbe quindi liberamente aggiungere al marchio da lui creato anche l’espressione
“Halal”.
Con una precisazione, però: l’uso di tale locuzione non potrebbe mai essere da lui monopolizzato, magari attraverso la
registrazione come marchio di un certo prodotto. E ciò per la
semplice ragione che tale espressione, se non accompagnata da
elementi di originalità, priverebbe il marchio di ogni capacità distintiva, requisito che, come è noto, è prescritto a pena di nullità
del marchio, ai sensi dell’art. 13 del Codice della proprietà industriale.
Volendo esemplificare, non sarebbe possibile registrare un
marchio del tipo “Pasta Carbonara Halal” o “Fettuccine al ragù
Halal”, senza specificazioni ulteriori perché siffatte diciture risulterebbero troppo generiche e perciò insuscettibili di capacità
distintiva: in tali casi, l’Ufficio italiano brevetti e marchi non potrà perciò concedere la registrazione di un marchio recante la sola
espressione “Halal” (ma anche “Kosher” ed altri similari) in base
alla priorità nella presentazione della domanda di registrazione.
In altri termini, sarebbe impossibile attribuire l’uso monopolistico di tale espressione per la semplice ragione che il suo significato generico di “lecito” o di “conforme ai precetti islamici”
toglierebbe al marchio ogni capacità distintiva43.
43. Per Lojacono, ult. cit., p. 925, nt. 35, siffatto ostacolo legislativo alla
brevettabilità del marchio “Halal” potrebbe non ritenersi insormontabile alla
luce della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Roma, 25 febbraio 1988, in
Giur. ann. dir. ind., 1988, pp. 512 ss. nonché Trib. Milano, 21 settembre 1989,
ibidem, 1989, pp. 586 ss.), ossia qualora il segno “descrittivo” sia costituito da
una parola straniera di cui la generalità dei consociati ignori il reale significato,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
411
Ma – potrebbe obiettarsi – un conto è il generico richiamo alla
conformità alle norme confessionali, espresso con l’apposizione
del termine Halal sulla confezione del prodotto, altro conto è
l’utilizzo di un marchio di commercio inclusivo di espressioni o
di simboli religiosi al solo scopo di contraddistinguere il prodotto
sul mercato e dunque per finalità commerciali e speculative: in
tal caso, venendo snaturata la funzione dell’espressione confessionale (ossia, la costituzione di una sorta di garanzia di qualità),
il suo utilizzo non dovrebbe essere consentito.
La questione non sembra tuttavia posta correttamente. Invero,
in assenza di un divieto espresso alla registrazione di un marchio recante un simbolo confessionale, l’eventuale dichiarazione
di conformità ai precetti islamici resa visibile dall’espressione
“Halal” sarebbe pienamente legittima, non solo in funzione descrittiva delle caratteristiche dei prodotti o dei servizi, ma anche
in funzione distintiva, ossia al fine di differenziare sul mercato i
prodotti e i servizi contrassegnati dal marchio. Ciò, d’altronde,
pare confermato dalla sostanziale indifferenza del nostro legislatore in ordine all’uso commerciale di segni o di simboli religiosi,
contrariamente ad un espresso indirizzo europeo44. Tale ampia
libertà incontra due limiti soltanto: il divieto generale di registrazione per l’apposizione non consona del simbolo religioso sul
come appunto accade per il termine “Halal”: il divieto di apposizione di tale
termine generico, a tale condizione, verrebbe dunque a cadere.
44. In forza dell’art. 3, comma 2, della Direttiva 2008/95/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, sul ravvicinamento
delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, «Ogni
Stato membro può prevedere che un marchio di impresa sia escluso dalla
registrazione o, se registrato, possa essere dichiarato nullo se e nella misura
in cui […] il marchio di impresa contenga un segno di alto valore simbolico,
e in particolare un simbolo religioso». Ma questa ipotesi di preclusione alla
registrazione di un marchio non è stata recepita dalla normativa interna italiana,
come anche si preciserà in seguito.
412
Armando Giuffrida
marchio e la tutela penale in caso di vilipendio alla religione45.
Ma, a ben vedere, non è affatto sicuro che l’indicazione sul
marchio della conformità del prodotto alle prescrizioni alimentari religiose garantisca pienamente il consumatore in ordine alla
rispondenza al vero di quanto “autocertificato” dal produttore.
È questo il cuore del problema. Poiché, come si è visto, non
esistono controlli preventivi di natura confessionale in ordine alla veridicità di quanto dichiarato dal titolare del marchio,
il consumatore formerà il suo affidamento sull’attendibilità del
messaggio indotto dall’espressione “Halal” unicamente in forza
del grado di fiducia che egli nutre nei confronti del titolare del
segno. In tale caso è possibile intervenire solo ex post, ossia in
via repressiva nel caso sia accertata la falsità di quanto dichiarato. Con tutte le conseguenze che ne derivano tanto in ordine alla
perdita di credibilità del titolare del marchio e del conseguente
avviamento (per effetto dello sviamento della clientela), quanto
in ordine alle responsabilità sotto il profilo penale e civile.
Come già si è accennato, il legislatore italiano non contempla
una disciplina specifica sul potere di certificazione delle autorità
confessionali in ordine alla rispondenza degli alimenti e delle bevande alle prescrizioni rituali: si è dunque in presenza di una (grave) lacuna ordinamentale che, oltre ad appalesare scarsa sensibilità
verso un’esigenza particolarmente sentita dalla comunità islamica
(ma lo stesso potrebbe valere, mutatis mutandi, anche per la comunità ebraica), crea un vulnus nella tutela della libertà religiosa.
45. Così, ancora Leonini, La certificazione del rispetto delle regole
alimentari confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., pp. 146-149.
Secondo Corte cost., 27 giugno 1975, n. 188, in Giur. Cost., 1975, (I), pp. 1208
ss., «sono vilipendio […] la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine
a sé stessa che costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione
della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia e alimenta il
fenomeno religioso, oggettivamente riguardato».
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
413
Nel silenzio del legislatore, l’interprete si vede così costretto
a ricercare ipotesi di soluzione che rassicurino le aspirazioni dei
fedeli, soprattutto di credo islamico. E la disciplina di riferimento
in materia non può che essere quella sui marchi di impresa, oggi
racchiusa nel Codice della proprietà industriale.
Come è noto, il marchio rappresenta il segno distintivo di
maggior peso economico, essendo principalmente utilizzato
dall’imprenditore per la sua affermazione sul mercato e per consentirgli di esplicare nel modo più efficace la libertà di iniziativa
economica, costituzionalmente garantita (v. art. 41, primo comma, Cost.).
A questo punto appare quantomai opportuno, e finanche necessario, ricercare un bilanciamento nel complesso rapporto tra la
libertà costituzionale di iniziativa economica, testé richiamata, e
quella, parimenti rilevante, di espressione religiosa (art. 19 Cost.;
ma v. anche gli artt. 7 e 8 Cost.), entrambe “chiamate in causa”
nella materia de qua. Si tratta, cioè, di verificare se sia consentito ad un soggetto di sfruttare in via esclusiva come marchio di
impresa un segno rientrante inequivocabilmente nel patrimonio
dottrinale e dogmatico di una determinata confessione religiosa
e, per quanto qui interessa, del credo islamico46.
Ebbene, a tutela della sensibilità dei fedeli, si potrebbe invocare l’art. 14 del Codice della proprietà industriale, non solo
laddove esclude dalla registrazione come marchi «i segni idonei
ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi» [comma
1, lett. b)], ma anche laddove commina la decadenza dal marchio «se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico,
46. Sul concetto di “confessione religiosa”, cfr. Corte cost., 27 aprile 1993,
n. 195, in Foro it., 1994, (I), pp. 2988 ss., con nota di N. Colaianni, Sul concetto
di confessione religiosa.
414
Armando Giuffrida
in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o
servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal
titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per il quale
è registrato» [comma 2, lett. a)].
Ma, al di là di questi interessanti appigli normativi, da più
parti si è proposto che siano le stesse autorità rappresentative delle confessioni religiose a chiedere la registrazione di un proprio
marchio collettivo confessionale, affinché sia autorevolmente garantita la conformità alle prescrizioni della Sharī‘a47. E in effetti,
il marchio collettivo, per le sue caratteristiche intrinseche, appare
lo strumento più idoneo a contemperare, tanto l’istanza dei fedeli
di sicurezza in ordine alla “genuinità” della certificazione, quanto l’essenziale autonomia (costituzionalmente garantita) delle
confessioni religiose rispetto allo Stato48.
In linea di principio, non sussistono ostacoli normativi ad ammettere che la comunità islamica stanziata sul territorio italiano
47. È quanto sostengono Lojacono, Sui marchi “religiosi”: traendo spunto
dagli Accordi spagnoli con ebrei e islamici, cit., p. 928, e, sulla sua scia, Leonini,
La certificazione del rispetto delle regole alimentari confessionali: norme statuali
e libertà religiosa, cit., pp. 154 s. Sulla natura e la funzione dei marchi collettivi,
oggi positivamente disciplinati nell’art. 12 del Codice della proprietà industriale,
si veda A. Vanzetti, V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, 2009, pp. 281
ss., nonché, per maggiori approfondimenti, fra i molti: D. Pettiti, Profilo giuridico
del marchio collettivo, Napoli, 1963, con l’ampia bibliografia ivi indicata; R.
Franceschelli, voce Marchi collettivi, in Noviss. dig., app. IV, Torino, 1983, pp.
1123 ss.; P. Balzarini, Dei marchi collettivi (nota a Pret. Empoli, 21 luglio 1987),
in Resp. civ., 1988, pp. 112 ss.; Floridia, I marchi di qualità, le denominazioni di
origine, e le qualificazioni merceologiche nel settore alimentare, cit.; N. Abriani,
Denominazioni d’origine protette e marchi collettivi geografici: note minime su
una convivenza problematica (nota a Trib. Saluzzo, 5 gennaio 2001), in Giur. it.,
2001, pp. 318 ss..; L. Costato, Ancora in tema di marchi collettivi e di protezione
delle produzioni tipiche (nota a Corte giust. Comunità europee, 6 dicembre 2001,
n. 269/99), in Riv. dir. agr., 2002, II, pp. 63 ss.; E. Cusa, Gli utilizzatori dei marchi
collettivi, in Annali it. dir. autore, 2015, pp. 306 ss.
48. In tal senso, Leonini, La certificazione del rispetto delle regole
alimentari confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., p. 154.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
415
ottenga la registrazione di un marchio collettivo confessionale,
espresso con la dicitura “Halal”: il Codice della proprietà industriale riconosce infatti a chicchessia la facoltà di richiedere la
registrazione di un marchio, tanto individuale, quanto collettivo.
Attraverso la registrazione di un marchio collettivo religioso recante la locuzione “Halal” verrebbe così soddisfatta la legittima
aspirazione dei fedeli musulmani di poter acquistare con sicurezza i prodotti alimentari (ma anche i cosmetici ed altre merci), la
cui “purezza” risulti appositamente accertata ed attestata.
Ma, oltre all’istanza di sicurezza, viene così assicurata autonomia e autorevolezza all’autorità religiosa, potendo essa decidere – con la massima discrezionalità – se concedere o meno
l’utilizzo del marchio collettivo confessionale, ormai registrato,
a coloro che ne facciano richiesta: essa, infatti, in veste di titolare
di un marchio collettivo, dispone della più assoluta autonomia
decisionale nel selezionare gli utilizzatori che offrano le maggiori garanzie di “purezza” dei prodotti alimentari contrassegnati da
tali marchio. D’altro canto, il generico impegno assunto da un
imprenditore di osservare gli standards qualitativi richiesti dal
regolamento di disciplina del marchio collettivo non gli attribuisce alcun diritto soggettivo in tal senso, bensì rappresenta solo il
mero presupposto per l’utilizzazione del marchio.
Va da sé, poi, che l’eventuale abusiva apposizione di un marchio
collettivo “Halal” da parte di soggetti non previamente autorizzati
dall’autorità religiosa titolare del marchio collettivo integrerebbe
gli estremi di un vero e proprio atto di usurpazione di marchio
registrato e, come tale, perseguibile, anche penalmente, dall’autorità giudiziaria. In tale evenienza, gli utilizzatori non autorizzati
del marchio non solo commetterebbero un grave abuso per l’il
lecita appropriazione di un pregio – ossia l’essere stato prescelto
dall’autorità religiosa – che non gli appartiene, ma vieppiù pregiudicherebbero tanto la posizione giuridica del titolare del marchio
416
Armando Giuffrida
collettivo, quanto il legittimo affidamento dei consumatori nella
genuinità del marchio, quanto infine la stessa libertà religiosa costituzionalmente garantita ai fedeli e alle confessioni interessate (v.
art. 19 Cost. in comb. disp. con gli artt. 7, 8 Cost.).
A ben vedere, poi, un eventuale marchio collettivo recante
l’espressione “Halal” non darebbe comunque vita ad una sorta
di privativa sugli alimenti destinati ai fedeli islamici: le imprese escluse dall’utilizzo del marchio collettivo possono invero
sempre immettere sul mercato prodotti a loro avviso conformi
alle prescrizioni confessionali, solo che viene a loro inibito di
contrassegnarli con il marchio collettivo contenente la locuzione
“Halal”, dovendo ricorrere all’uso di altri marchi.
Prima di concludere sul punto è ancora necessario precisare
che i marchi collettivi confessionali, testé presi in considerazione, vanno nettamente distinti dai c.d. marchi di selezione o di
raccomandazione49.
Con queste espressioni la dottrina si riferisce a quei particolari marchi destinati a contraddistinguere non già determinati prodotti, ma veri e propri servizi, e per tale ragione si riconducono
generalmente alla categoria unitaria dei c.d. marchi di servizi50.
49. Sul punto, cfr.: R. Franceschelli, I marchi di promozione, selezione
e raccomandazione come marchi collettivi di servizi (nota a Trib. Milano, 28
febbraio 1972, e App. Milano, 12 giugno 1973), in Riv. dir. ind., 1976, II, pp.
239 ss.; Id., Ancora sui marchi di selezione, promozione e raccomandazione
(nota a Cass., 9 dicembre 1977, n. 5334), ivi, 1980, (II), pp. 3 ss.; F. Sarzi
Sartori, Alcune considerazioni in tema di marchio collettivo e principio di
relatività della tutela, ivi, 1991, (I), pp. 23 ss.
50. Sui marchi di servizio in generale, cfr.: E. Bonasi Benucci, Il marchio di
servizio, in Riv. ind., in 12959, (I), 288 ss., pp. 325 ss. e 333 ss.; R. Paganelli,
Considerazioni in tema di marchi di servizio, ivi, 1971, (I), pp. 101 ss.; G.
Sideri, I marchi di servizio e la loro incidenza sulla categoria dei marchi
d’impresa, ivi, 1973 (I), pp. 257 ss.; L. Quattrini, Marchi collettivi, di garanzia
e di certificazione, ivi, 1992, (I), pp. 127 ss.; M. Ricolfi, Marchi di servizio,
non registrati e collettivi, in P. Auteri, G. Floridia, V.M. Mangini, G. Olivieri,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
417
Essi trovano espresso riconoscimento nel Codice della proprietà
industriale, tanto all’art. 7, laddove si prevede che i marchi sono
«atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli
di altre imprese», quanto dall’art. 156, laddove prescrive che la
domanda di iscrizione debba contenere «l’elenco dei prodotti o
dei servizi che il marchio è destinato a contraddistinguere, raggruppati secondo le classi della classificazione di cui all’Accordo di Nizza sulla classificazione internazionale dei prodotti e dei
servizi ai fini della registrazione dei marchi» (la decima edizione
dell’Accordo di Nizza contempla 45 classi, di cui 34 per i prodotti e 11 per i servizi).
Anche i marchi di servizio possono essere utilizzati nell’ambito del c.d. “Halal Food”.
In dottrina si riportano due esempi significativi51. Il primo è il
“Qibla Food Control Halal”, destinato a contrassegnare i servizi relativi alle classi 41 (Educazione, formazione, divertimento,
attività sportive e culturali), 42 (Servizi scientifici e tecnologici,
servizi d’analisi e di ricerca industriale), 45 (Servizi personali e
sociali forniti da terzi per il soddisfacimento dei bisogni degli individui). Il secondo è il “Service Controle Halal”, che contraddistingue i servizi ascrivibili alle classi 29 (Carne, pesce, pollame
e selvaggina; estratti di carne, frutta e ortaggi conservati, essiccati e cotti; gelatine, marmellate, composte, uova, latte, prodotti
derivati dal latte; olii e grassi commestibili), 40 (Macellazione;
assistenza nella macellazione); 42 (Servizi scientifici e tecnologici e servizi di ricerca e progettazione ad essi relativi; servizi di
analisi e di ricerche industriali; controllo della qualità di carne
proveniente da macellazione rituale).
M. Ricolfi, P. Spada, Diritto industriale - Proprietà intellettuale e concorrenza,
Parte II, Cap. VI, Torino, 2012, pp. 158 ss.
51. Sul punto, si veda Leonini, La certificazione del rispetto delle regole
alimentari confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., pp. 151 ss.
418
Armando Giuffrida
Ebbene, esistono almeno due differenze essenziali tra i c.d.
marchi di servizio e il marchio collettivo.
Anzitutto, i primi sono sostanzialmente riconducibili (pur con
proprie specificità) al marchio individuale, poiché il loro titolare
esercita, direttamente o indirettamente, un diritto di uso esclusivo. Il marchio collettivo, come è noto, costituisce invece una
categoria autonoma, con una propria disciplina tanto in ordine
alla sua funzione, quanto in ordine alle modalità di utilizzazione
del segno (si veda l’art. 11 del Codice della proprietà industriale,
appositamente dedicato a questo specifico marchio).
In secondo luogo, il titolare di un marchio di selezione o di
raccomandazione “Halal”, del tipo di quelli sopra segnalati, non
utilizza il segno per contraddistinguere i propri prodotti, ma solo
per “autocertificare” che una molteplicità di prodotti immessi sul
mercato da svariati imprenditori, ciascuno con un proprio marchio, sono stati da lui stesso verificati e ritenuti conformi alle prescrizioni alimentari confessionali. Si tratta dunque di una mera
garanzia di fatto perché riconducibile alla credibilità del titolare
del marchio, senza che però egli assuma una responsabilità diretta attraverso un impegno formale in ordine ai controlli eseguiti
sui prodotti, né in ordine alle regole effettivamente certificate.
Come è noto, le garanzie offerte da un marchio collettivo risultano senz’altro più stringenti e, vieppiù, supportate dal dato
normativo. Dispone infatti l’art. 11 del Codice della proprietà
industriale che il marchio collettivo può essere registrato da un
soggetto che assume l’impegno di garantire l’origine (geografica), la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi di
produttori o commercianti che egli autorizza ad usare il segno.
Al titolare del marchio collettivo non è consentito l’uso esclusivo
del marchio, ma ha «la facoltà di concedere l’uso» del segno distintivo «a produttori e commercianti». Chi intende ottenere tale
concessione deve quindi presentare, unitamente alla domanda,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
419
un apposito regolamento d’uso del marchio in cui siano espressamente indicate le caratteristiche specifiche dei prodotti o dei
servizi destinati ad essere marcati nonché le tipologie di controlli che si intenderanno mettere in campo per garantire l’effettiva
sussistenza di tali qualità ed infine le tipologie di sanzioni che
saranno comminate agli imprenditori in caso di trasgressione degli impegni assunti al momento della concessione dell’uso del
marchio collettivo.
Il marchio collettivo offre dunque innegabilmente maggiori
garanzie rispetto ai c.d. marchi di servizio. Esso, poi, applicato
in ambito confessionale, appare lo strumento più idoneo per garantire ai fedeli la conformità dei prodotti alimentari ai precetti
islamici: la presenza di un regolamento che indichi in dettaglio
gli impegni assunti dai produttori nei confronti dei terzi (e quindi
dei fedeli) e la previsione di sanzioni a carico dei trasgressori
tolgono ogni possibile arbitrio nella valutazione dei prodotti o
dei servizi certificati, come invece può accadere nel caso dei c.d.
marchi di selezione o di raccomandazione.
L’utilizzo di un marchio collettivo religioso esclude inoltre a priori ogni ipotesi di conflitto tra le autorità religiose e lo
Stato, non solo perché la normativa vigente consente, come si
è visto, a chiunque di presentare una domanda di registrazione
di un marchio collettivo, sicché lo Stato non entra nel merito
della legittimazione del soggetto a registrare il segno distintivo,
ma anche perché le condizioni richieste per la registrazione del
marchio collettivo lasciano piena libertà al registrante di fissare
le specifiche caratteristiche dei prodotti che costituiranno l’oggetto del suo controllo di qualità. Attraverso questo particolare
istituto, viene così assicurata la piena autonomia e indipendenza
della sfera religiosa da quella temporale, e conseguentemente il
pieno rispetto del principio supremo della laicità dello Stato. In
chiusura, un’ultima osservazione. La registrazione di un marchio
420
Armando Giuffrida
collettivo religioso non di rado è praticata nei Paesi con diffuse e
radicate minoranze etniche e religiose. Paradigmatica è la Union
of Orthdox Jewish Congregations of America, che probabilmente, a tutt’oggi, rappresenta il più importante ente certificatore di
prodotti Kosher.
Anche le comunità islamiche da qualche tempo hanno promosso iniziative volte ad introdurre forme di marchi collettivi
recanti l’espressione “Halal” sulle confezioni o sui marchi di
svariati prodotti alimentari nell’evidente intento di rassicurare i
fedeli circa la loro genuinità nel rispetto dei precetti religiosi.
A questo riguardo si segnala che, in ambito europeo, il 9 marzo
2010 si è costituita a Bruxelles la European Association of Halal Certifiers (AHC-EUROPE), cui aderiscono le associazioni di
certificazione Halal di taluni Paesi europei (Regno Unito, Francia, Germania, Spagna, Belgio, Olanda, Bosnia e Turchia)52.
Dopo lunga attesa, anche nel nostro Paese da qualche anno
si è introdotto un marchio collettivo confessionale per la certificazione di qualità del c.d. Halal Food, realizzatosi attraverso il
Progetto di Certificazione Halal Italia che ha ricevuto il prezioso avallo del Governo mediante la sottoscrizione di un’apposita
convenzione.
Ma, prima di esaminare questa particolare esperienza (su cui
v. infra, paragrafi 8, 9 e 10), è necessario soffermarsi ancora sui
poteri discrezionali attribuiti all’Ufficio italiano brevetti e marchi
in sede di registrazione di un marchio individuale recante simbologie di natura confessionale.
52. Sulla European Association of Halal Certifiers, si rimanda al relativo
sito istituzionale consultabile in www.hfce.eu/. Per ulteriori informazioni,
si vedano anche i seguenti siti: www.halalcertificationturkey.com; www.
halalverified.com.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
421
6. La discrezionalità dell’Ufficio italiano brevetti e marchi in
ordine alla valutazione del marchio recante simbologie di
natura confessionale
Alla luce di quanto testé esposto, si è dunque accertata l’insussistenza di preclusioni in ordine all’utilizzo di un marchio individuale
recante simboli o segni religiosi o confessionali, e ciò tanto se il
marchio svolga una funzione meramente descrittiva dei prodotti o
dei servizi offerti, quanto se assuma una funzione distintiva rispetto
ai prodotti o ai servizi succedanei offerti dalle imprese concorrenti.
L’ordinamento italiano mantiene al riguardo una posizione “laica” di non ingerenza nell’utilizzo commerciale di segni o simboli
religiosi, con i soli limiti – già evidenziati – della perseguibilità
penale in caso di vilipendio alla religione e di rifiuto della registrazione se l’adozione del marchio sia giudicata non consona (v. art.
10, comma 3, del Codice della proprietà industriale).
Come è noto, l’Ufficio italiano brevetti e marchi dispone di
ampi poteri discrezionali nel corso dell’iter di registrazione e ciò si
ripercuote anche in sede di registrazione di un marchio recante rappresentazioni (con parole o simbologie) di natura confessionale. Si
tratta, in questo caso, di poteri che emergono in particolar modo
in occasione della valutazione della sussistenza del requisito della
c.d. liceità del marchio, e dunque della sua non contrarietà alla
legge, all’ordine pubblico e al buon costume (requisito tradizionalmente imposto dal legislatore a pena di nullità del marchio)53.
Il punto, di indubbia rilevanza applicativa, impone una sosta
di approfondimento.
53. Sul concetto di «ordine pubblico» nel diritto privato, si veda G.B.
Ferri, voce Ordine pubblico (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXX, Milano, 1980,
pp. 2038 ss., con l’ampia dottrina ivi indicata. Quanto alla nozione di «buon
costume», cfr. A. Trabucchi, voce Buon costume, in Enc. dir., vol. V, Milano,
1959, pp. 700 ss.
422
Armando Giuffrida
Secondo la migliore dottrina, l’Amministrazione, in sede di
accertamento del requisito della liceità del marchio, è chiamata a
svolgere la propria valutazione non già ancorandosi a criteri prettamente giuridici, ma semplicemente sulla base di un giudizio di
opportunità. L’indagine condotta dall’Ufficio italiano brevetti e
marchi, in sostanza, non è di tipo applicativo, bensì di tipo valutativo, essendo fondata sull’accertamento di valori “paragiuridici” essenzialmente riconducibili alla morale dominante54. Si
tratta, in altri termini, di elementi metagiuridici espressivi dei più
diffusi convincimenti della generalità dei consociati, sicché al
fine della loro individuazione l’Amministrazione è tenuta a porre
quale parametro di giudizio il modo di pensare ed il grado di
cultura e di sensibilità dell’uomo medio55.
Senonché, siffatto accertamento, se poteva risultare piuttosto
agevole nei tempi passati allorquando la nostra società si presentava come essenzialmente monoculturale e monoconfessionale,
appare oggi assai più complesso ed articolato a fronte del multiculturalismo e del pluralismo religioso ormai radicati nel nostro
Paese56. A partire dai massicci flussi migratori degli anni Novanta
54. È questa l’impostazione già di G.B. Verbari, Studi sul procedimento
amministrativo in materia di invenzioni, modelli e marchi, in Riv. ind., 1969,
(I), pp. 75 ss., poi ripresa da Lojacono, Sui marchi “religiosi”: traendo spunto
dagli Accordi spagnoli con ebrei e islamici, cit., pp. 937 ss.
55. Così, ancora G.B. Verbari, Studi sul procedimento amministrativo in
materia di invenzioni, modelli e marchi, cit., pp. 76 e 101 s.
56. Per una disamina delle principali problematiche di ordine culturale, etico
e religioso, tipiche delle contemporanee società multietniche e multiculturali, si
rimanda ai fondamentali contributi di A. Ferrara, voce Multiculturalismo, in N.
Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di ), Dizionario di politica, Torino,
2004, pp. 599 ss., di C. Taylor, La politica del riconoscimento, in J. Habermas,
C. Taylor (a cura di), Multiculturalismo, Milano, 2003, pp. 52 ss. e di E. Colombo,
Le società multiculturali, Roma, 2002. Per ulteriori approfondimenti: P. Consorti,
Conflitti, mediazione e diritto interculturale, Pisa, 2013; C. Cardia, Immigrazione
e multiculturalità, in Iustitia, 2011, pp. 27 ss.; R. Medda Windischer, Nuove
minoranze - Immigrazione tra diversità culturale e coesione sociale, Padova,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
423
del secolo scorso, la società italiana ha infatti subito una profonda metamorfosi, che l’ha condotta dal tradizionale confessionismo cattolico – pur con esigue presenze di culti di minoranza
– ad un’inedita dimensione multietnica e multireligiosa, peraltro
non di rado foriera di profili problematici a fronte dei sempre più
incalzanti ingressi alle nostre frontiere di uomini e donne delle
più disparate etnie e provenienze57.
Nel monitorare le convinzioni religiose della collettività, rilevanti in sede di valutazione dell’opportunità di accogliere o meno l’istanza di registrazione, l’Autorità amministrativa deve ormai prendere atto della mutata fisionomia della società italiana: quest’ultima,
infatti, al pari di molti altri Paesi europei, si contraddistingue sotto
questo profilo per due caratteristiche concorrenti.
Da un lato, si assiste ad un sempre maggiore pluralismo confessionale e dunque ad una più accentuata presenza di culti estra2010; M. Ricca, Oltre Babele – Codici per una democrazia interculturale, Bari,
2008; Id., Dike meticcia. Rotte di diritto interculturale, Soveria Mannelli, 2008;
E. Ceccherini, voce Multiculturalismo (Dir. comp.), in Digesto Disc. Pubbl., Agg.
2008, pp. 486 ss.; G. Palombarini, La difficile società multietnica, in Dir., immigr. e
cittadinanza, 2008, (3), pp. 17 ss.; M.L. Lanzillo, Multiculturalismo, Bari-Roma,
2006; V. Baldini (a cura di), Multiculturalismo, Padova, 2003. Quanto poi al
delicato rapporto tra diritto, religione e profili etici connessi al fenomeno migra
torio, cfr., ex multis: A.C. Amato Mangiameli (a cura di), Diritto e religione. Tra
immigrazione e integrazione, Ariccia, 2013; AA.VV., Immigrazione e diritti della
persona, in Iustitia, 2011, pp. 23 ss.; G. Toscano, Il Mediterraneo, la cittadinanza,
i diritti umani, in Quest. giustizia, 2010, pp. 173 ss.; R. De Vita, F. Berti, L. Nasi (a
cura di), Identità multiculturale e multireligiosa. La costruzione di una cittadinanza
pluralistica, Milano, 2004.
57. Per un’analisi di questa trasformazione, culturale e giuridica, si vedano:
F. Garelli, L’Italia cattolica nell’epoca del pluralismo, Bologna, 2006; S.
Allievi, G. Guzzardi, C. Prandi, F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace (a cura
di), Un singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso degli
italiani, Bologna, 2003; R. De Vita, F. Berti (a cura di), Pluralismo religioso e
convivenza multiculturale. Un dialogo necessario, Milano, 2003; A. Abdallah,
R. Sorgo, Religioni ieri e oggi, Milano, 2000; V. Cesareo, R. Cipriani, F.
Garelli, C. Lanzetti, G. Rovati, La religiosità in Italia, Milano, 1995.
424
Armando Giuffrida
nei alla tradizione culturale e religiosa dell’Europa (ossia alle c.d.
radici giudaico-cristiane). E il credo islamico appare senz’altro
preponderante tra queste nuove identità religiose.
Dall’altro, coesiste un forte processo di secolarizzazione della società, non di rado manifestantesi in posizioni marcatamente laiciste58, finanche palesi nelle scelte operate dal legislatore59.
L’attenuazione del sentimento religioso, tipico delle società c.d.
occidentali, non di rado produce una sensibile attenuazione sociale di comportamenti oggettivamente lesivi della dignità dei
credenti, che giunge finanche ad escludere la colpevolezza di chi
pone in essere condotte francamente vietate dal dato normativo60.
58. Sui concetti di laicità e di laicismo, cfr., ex multis: V. Zanone, voce
Laicismo, in Dizionario di Politica, a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G.
Pasquino, Torino, 1999, pp. 54 ss.; R. Coppola, L. Troccoli (a cura di),
Minoranze, laicità, fattore religioso, Bari, 1997; C. Cardia, voce Stato laico,
in Enc. dir., XLIII, Milano, 1990, pp. 875 ss.; N. Morra, voce Laicismo, in
Noviss. Dig. it, vol. IX, Torino, 1963, pp. 437 ss. In argomento, si vedano anche
le riflessioni di P. Ostellino, Se il laicismo diventa la religione di Stato, in
Corriere della Sera, 4 settembre 2004. Il principio di laicità costituisce il riflesso
delle esperienze storiche di ciascun Paese. Si vedano, esemplificativamente,
le significative esperienze “laiciste” nella Turchia ante Erdogan e in Francia:
D. Tega, La laicità turca alla prova di Strasburgo, in Dir. pubbl. comparato
ed europeo, (1), 2005, pp. 289 ss.; P. Cavana, I segni della discordia: laicità
e simboli religiosi in Francia, Torino, 2004; Id., Interpretazioni della laicità:
esperienza francese ed esperienza italiana a confronto, Roma, 1997; D.
Tega, Il Parlamento francese approva la legge “anti-velo”, in Quad. cost.,
(2), 2004, 398 ss.; Id., Stato laico: tollerante o militante?, ivi, (1), pp. 144
ss.; N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso
costituzionale, cit., pp. 173 s.; A. Ferrari, Libertà scolastiche e laicità dello
Stato in Italia e Francia, Torino, 2002.
59. Sul processo di secolarizzazione della società italiana, con conseguenti
ricadute in ambito giuridico, si vedano gli ancora attuali contributi di L.
Mengoni, C. Catronovo, Profili della secolarizzazione nel diritto privato, in
L. Lombardi Vallauri, G. Dilcher (a cura di), Cristianesimo, secolarizzazione e
diritto moderno, Milano, 1981, pp. 1171 ss., e di M. Tedeschi, Secolarizzazione
e libertà religiosa, in Dir. eccl., 1986, (I), pp. 44 ss.
60. Si vedano le riflessioni critiche di P. Siracusano, voce Bestemmia, in
Dig. disc. pen., Torino, 1987, p. 448, nonché di M. Romano, Secolarizzazione,
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
425
Ebbene, anche nella materia in esame è possibile rintracciare
analoghi indizi di secolarizzazione del legislatore.
Il più evidente è dato dal marchio recante «parole, figure o segni con significazione politica o di alto valore simbolico, o contenente elementi araldici». Questa formula, racchiusa nell’art. 10,
comma 2, del Codice della proprietà industriale, era pressoché
identica già nel vecchio R.d. 21 giugno 1942, n. 929, recante
Testo unico delle disposizioni legislative in materia di brevetti
per marchi d’impresa.
A ben vedere la materia de qua sembrava essere stata innovata
con l’approvazione della direttiva CEE n. 104/89, del Consiglio
del 21 dicembre 1988, sul «ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa». Come si è già
fatto osservare61, tale direttiva, laddove prevede gli impedimenti
facoltativi alla registrazione – rimessi cioè alla discrezionalità
di ciascuno Stato membro – all’art. 3, comma 2, lett. b), indica
espressamente anche la circostanza che «il marchio di impresa
contenga un segno di alto valore simbolico, e in particolare un
simbolo religioso» (corsivo di chi scrive).
Sennonché, in sede di recepimento (v. D.lgs. 4 dicembre
1992, n. 480), il legislatore ha ritenuto di conservare la vecchia
previsione del R.d. 21 giugno 1942, n. 929, sui marchi, omettendo volutamente di aggiungere l’inciso riferito alla simbologia
religiosa e la norma è stata così riportata nel vigente art. 10 del
Codice della proprietà industriale. Il legislatore del 1992 ha cioè
scelto di privilegiare l’elemento “paragiuridico” della secolarizdiritto penale moderno e sistema dei reati, in Lombardi Vallauri-Dilcher (a
cura di), Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, pp. 1273 ss., le
cui considerazioni, rivolte alla sostanziale disapplicazione in sede giudiziaria
delle norme incriminatrici di tutela del sentimento religioso, sembrano vieppiù
estensibili a tutti gli illeciti – anche civili – lesivi della coscienza religiosa.
61 Si veda la precedente nota 44.
426
Armando Giuffrida
zazione, da un lato, giudicando inopportuno l’esplicito richiamo
a segni dotati di valore religioso e, dall’altro, ritenendo sufficiente il generico richiamo ai marchi provvisti di «alto valore simbolico» perché, probabilmente, comprensivo anche dei simboli
religiosi62.
Un ulteriore indizio del processo di secolarizzazione si rinviene – indirettamente – nell’art. 8, comma 3, del Codice della
proprietà industriale laddove si dispone che i segni utilizzati «in
campo artistico, letterario, scientifico, politico o sportivo» possono essere registrati solo se provvisti di notorietà e si è vieppiù
raccolto il consenso del titolare. La mancanza di riferimenti a
simboli religiosi anche nella disposizione ora richiamata sembra
nuovamente avvalorare la tesi del disinteresse del legislatore ad
impedire la registrazione di marchi raffiguranti simbologie confessionali o di carattere sacrale.
Non si può tuttavia sottacere che il descritto processo di secolarizzazione appaia nella realtà come sostanzialmente fluido e altalenante, giacché, specialmente negli ultimi decenni, si affianca
un parallelo processo di de-secolarizzazione63, ossia il riaffiorare
62. Così Leonini, La certificazione del rispetto delle regole alimentari
confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., p. 147. Secondo questo
A., infatti, nonostante il mancato recepimento della specificazione relativa al
simbolo religioso, non dovrebbe esservi dubbio che i simboli religiosi – in
quanto espressivi di valori fondamentali della persona umana – costituiscano
segni di alto valore simbolico, tant’è che possono essere registrati solo se
l’Amministrazione pubblica interessata non esprima avviso contrario. Questa
ricostruzione non è tuttavia pacifica in dottrina. Esistono voci autorevoli tendenti
a sganciare l’espressione «alto valore simbolico» dall’elemento religioso o
confessionale, ritenendo invece che il legislatore abbia in realtà inteso riferirsi
esclusivamente a simbologie prettamente “laiche”, come la bandiera nazionale,
gli altri emblemi dello Stato, oppure i sigilli e i punzoni ufficiali: si vedano
in tal senso, Verbari, Studi sul procedimento amministrativo in materia di
invenzioni, modelli e marchi, cit., pp. 78 e 106, sulla scia di R. Franceschelli,
Trattato di diritto industriale, vol. II, Milano, 1960, pp. 274 ss. e 286.
63. Sul processo di de-secolarizzazione cfr.: A. Melloni (a cura di), Rapporto
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
427
del sentimento religioso (in realtà mai sopito) reso manifesto dal
proliferare di nuovi movimenti confessionali, dalla rinascita di
tradizionali forme di religiosità e finanche dalla ricomposizione
di credenze in una sorta di «bricolage religioso»64 nel tentativo di
costruire un proprio credo domestico.
Ad ogni modo, senza addentrarsi in indagini di così vasta portata – da affidare necessariamente ad altri ambiti disciplinari – in
questa sede è possibile solo constatare la circostanza che il mutamento epocale testé richiamato impone alla società civile autoctona non solo un atteggiamento di maggiore apertura verso la
multiculturalità e il pluralismo religioso, ma anche la “riscrittura” di regole di convivenza più adeguate a rispondere alle nuove
istanze di tutela della libertà religiosa, giungendo finanche a mettere a dura prova il principio supremo della laicità dello Stato65.
sull’analfabetismo religioso, Bologna, 2014; G. Filoramo, F. Pajer, Di che Dio
sei?, Torino, 2012; S. Palmisano, Il Dio delle piccole cose? Tra cattolicesimo e
spiritualità alternativa, in F. Garelli, Religione all’italiana. L’anima del paese
messa a nudo, Bologna, 2011; E. Pace, Secolarizzazione e pluralismo religioso
in Europa, in L. Sciolla (a cura di), Processi e trasformazioni sociali. La società
europea dagli anni Sessanta ad oggi, Roma-Bari, 2010, pp. 324 ss.; C. Taylor,
L’Età secolare, Milano, 2009; A. Aletti, La religione postmoderna, Milano, 2003;
S. Martelli, Sociologia dei Processi culturali. Lineamenti e tendenze, Brescia
1999, spec. cap. 4; R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Eu
ropa contemporanea, Roma-Bari, 1998; S. Martelli, La religione nella società
“post”-moderna. Tra secolarizzazione e de-secolarizzazione, Bologna 1990.
64. Sul c.d. “bricolage religioso”, si veda anzitutto T. Luckmann, La
religione invisibile, Bologna, 1969, nonché, più recentemente, S. Burgalassi,
G. Guizzardi, Il fattore religioso nella società contemporanea, Milano, 1993,
e G. Filoramo, I nuovi movimenti religiosi, Roma-Bari, 1986. Con riguardo
alla situazione italiana, cfr. F. Garelli, G. Guizzardi, E. Pace (a cura di), Un
singolare pluralismo. Indagine sul pluralismo morale e religioso in Italia,
Bologna, 2003, nonché V. Cesareo et al., La religiosità in Italia, Milano, 1995.
65. Per una riflessione sugli intrecci tra religione e democrazia, laica e
pluralista, cfr., ex multis: G. Casuscelli, Le laicità e le democrazie: la laicità
della “Repubblica democratica” secondo la Costituzione italiana, in Quad.
dir. pol. eccl., (1), 2007, pp. 169 ss.; C. Cardia, Le sfide della laicità. Etica,
multiculturalismo, islam, Milano, 2007; S. Ceccanti, Laicità e istituzioni
428
Armando Giuffrida
Gli elementi di riflessione e di guida all’interpretazione del
dato normativo ora richiamati non possono dunque essere trascurati dall’Ufficio italiano brevetti e marchi in sede di accertamento
e valutazione del requisito della c.d. liceità (ossia della non contrarietà alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume) di un
marchio recante richiami espressi alla simbologia religiosa.
In tale sede l’Ufficio è tenuto a svolgere un’indagine accurata
sulla mentalità e la morale del c.d. “uomo medio”, che oggi deve
essere apprezzata avendo riguardo alla sensibilità non solo del
credente cattolico, bensì anche dei fedeli di culti di minoranza e
vieppiù di coloro che assumano posizioni agnostiche o fortemente secolarizzate. Il superamento della tradizionale omogeneità
confessionale della società italiana impone, in buona sostanza,
un deciso ridimensionamento della nozione di “uomo medio”, da
democratiche, in G. Boniolo (a cura di), Laicità. Una geografia delle nostre radici,
Torino, 2006, pp. 27 ss.; G. Dalla Torre, Lessico della laicità, Milano, 2003; M.
Cangiotti, Modelli di religione civile, Brescia, 2002; F. Riva, M. Rizzi, La politica
e la religione, Roma, 2001; E. Gentile, Le religioni della politica. Fra demo
crazie e totalitarismi, Roma-Bari, 2001; G.E. Rusconi, Possiamo fare a meno di
una religione civile?, Roma-Bari, 1999. Nell’ambito della sterminata dottrina sul
principio supremo di laicità dello Stato, anche alla luce della “rilettura” offerta
dalla celebre Corte cost. 12 aprile 1989, n. 203, e della vasta giurisprudenza
che ne è seguita (cfr. Corte cost., nn. 259/1990; 13/1991; 290/2002; 195/2003;
421/1993; 149/1995; 440/1995; 178/1996; 334/1996; 329/1997; 508/2000;
329/2001; 34/2002; 213/2002; 327/2002; 389/2004; 168/2005), si vedano i
seguenti contributi: C. Rolla (a cura di), Libertà religiosa e laicità. Profili
di diritto costituzionale, Napoli, 2009; P. Stefanì, La laicità nell’esperienza
giuridica dello Stato, Bari, 2007; N. Colaianni, La fine del confessionismo e la
laicità dello Stato (il ruolo della Corte costituzionale e della dottrina), in Politica
del diritto, (1), 2009, 45 ss.; Id., Eguaglianza e diversità culturali e religiose.
Un percorso costituzionale, Bologna, 2006. Per un richiamo storico riferito al
dibattito in seno all’Assemblea costituente sul principio di laicità, si rinvia a G.
Long, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa
nell’età della Costituente, Bologna, 1990. Infine, in ordine al principio di laicità
nell’ordinamento europeo, si veda M. Ventura, La laicità dell’Unione europea.
Diritti, mercato, religione, Torino, 2001.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
429
intendersi ormai tanto l’appartenente alla Chiesa cattolica, quanto l’osservante di altri culti66.
Particolare cura deve poi prestarsi alle aspirazioni delle confessioni religiose con cui lo Stato italiano intrattiene relazioni
consolidate perché firmatarie di intese (v. art. 8 Cost.) o perché
destinatarie di un formale atto di riconoscimento dell’autorità governativa attributivo dello status di “confessione”67. Nei restanti
casi deve comunque essere fatto salvo il dovere generale di rispetto della libertà di coscienza di ciascun individuo.
In base a queste premesse, il giudizio sulla liceità del marchio
religiosamente orientato non consente la registrazione di segni
potenzialmente offensivi del sentimento religioso, qualunque
esso sia. Difficilmente, ad esempio, sarebbero registrabili marchi
raffiguranti figure o fonemi percepiti dai fedeli come un’offesa
alla propria dignità di credenti68.
Al riguardo appare opportuno richiamare una celebre pronuncia della Corte costituzionale che, nell’ormai lontano 1995, ha difeso il principio di uguaglianza in materia religiosa con riguardo al
reato di bestemmia. In tale occasione la Consulta ha ribadito che
tutte le espressioni verbali e le raffigurazioni grafiche rappresentative della Divinità debbono ricevere uguale tutela e considerazione
da parte del legislatore, qualunque sia la confessione religiosa di
riferimento69. Attraverso quest’ulteriore spunto interpretativo si
66. La ricostruzione ora riportata è esaustivamente esposta da Lojacono,
Sui marchi “religiosi”: traendo spunto dagli Accordi spagnoli con ebrei e
islamici, cit., pp. 937 ss.
67. Secondo la Corte cost., 27 aprile 1993, n. 195, in Dir. eccl., 1993, (II),
pp. 189 ss., la sussistenza di un’intesa con lo Stato italiano lascia evidentemente
intendere che si tratti di una confessione religiosa, mentre, in caso di assenza
di un’intesa, il carattere confessionale può desumersi da riconoscimenti della
pubblica autorità, dallo statuto o anche dalla communis opinio.
68. In tal senso, ancora Lojacono, ult. cit., p. 939.
69. Così Corte cost. 18 ottobre 1995, n. 440, in Foro it., 1996, (I), c. 30, con
430
Armando Giuffrida
può così trarre una conferma del dovere dell’Ufficio italiano brevetti e marchi di rispettare in egual misura il sentimento religioso
di ogni credente (cattolico e non), scongiurando così il verificarsi
di discriminazioni tra i cittadini in base al credo professato.
Ad ogni modo, a tutt’oggi non constano, a livello di casistica,
casi di rifiuto di registrazione di marchi recanti raffigurazioni o
fonemi religiosi perché giudicati contrari all’ordine pubblico od
offensivi del buon costume.
Tale circostanza è probabilmente ascrivibile ad un concorso
di cause.
Anzitutto, può aver influito l’imposizione – a carico dell’Uffi
cio italiano brevetti e marchi – dell’obbligo di sentire l’avviso
delle «amministrazioni pubbliche interessate, o competenti»,
nonché del consequenziale obbligo di respingere la domanda di
registrazione qualora sia espresso un «avviso contrario alla registrazione del marchio» (art. 10, commi 2 e 4, del Codice della
proprietà industriale).
Al riguardo, la dottrina ha rilevato l’estrema genericità della formulazione delle norme ora richiamate, rendendo oltremodo difficoltosa l’individuazione delle «amministrazioni interessate, o competenti», probabilmente da ascriversi alla Direzione centrale degli
Affari dei Culti, incardinata nel Dipartimento delle libertà civili e
l’immigrazione del Ministero dell’interno70. A dispetto del dato letterale della norma, si è però proposto di legittimare al rilascio di
tale parere solo gli enti esponenziali della confessione religiosa dinota di N. Colaianni, La bestemmia ridotta e il diritto penale laico: invero, la
Consulta, invocando il principio di uguaglianza formale ex art. 3, primo comma,
Cost., ha esteso l’ambito di applicazione dell’art. 724, primo comma, c.p., ad
ogni ipotesi di offesa alla Divinità, a garanzia della libertà religiosa di tutti i
credenti e di tutte le confessioni religiose, mentre in passato tale guarentigia era
riservata alla sola religione cattolica.
70. In tal senso, Leonini, La certificazione del rispetto delle regole
alimentari confessionali: norme statuali e libertà religiosa, cit., p. 147, nt. 13.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
431
rettamente interessata: la rigida separazione tra la sfera temporale
e la sfera spirituale, in uno con la conseguente autolimitazione della sovranità statale nell’ambito dell’ordine religioso (v. artt. 7 e 8
Cost.), sono sembrate circostanze tali da precludere ad un qualunque
organo pubblico di pronunciarsi sul reale valore sacrale di un determinato segno o raffigurazione71. La questione rimane ad oggi aperta.
L’assenza di casi di rifiuto di registrazione di marchi con raffigurazioni legate alla sfera del sacro può inoltre essere conseguenza del fatto che le fedi religiose – di regola – si mantengono
estranee ai valori fondamentali delle moderne organizzazioni
statuali, sicché l’uso per fini commerciali di segni rivestiti di valore simbolico-sacrale appare inidoneo ad integrare una violazione dell’ordine pubblico72. Anche le rare controversie che hanno
visto coinvolte immagini o espressioni religiose abbinate ad un
marchio di commercio non hanno mai riguardato un uso improprio di tali rappresentazioni sotto il profilo della loro contrarietà
all’ordine pubblico, ma solo ipotesi di contraffazione del marchio e nulla di più73.
71. È la posizione di Lojacono, Sui marchi “religiosi”: traendo spunto
dagli Accordi spagnoli con ebrei e islamici, p. 939. Per questa ragione il
medesimo A. altrove (ivi, pp. 949 s.) sostiene che gli enti esponenziali delle
varie confessioni religiose, poiché rappresentano nei confronti dello Stato
le esigenze e gli interessi dei fedeli, siano i soli soggetti legittimati ad agire
in giudizio per sostenere le ragioni dei credenti al rispetto delle proprie
convinzioni; in altri termini, l’interesse diffuso proprio della comunità dei
fedeli può trovare un proprio centro di imputazione nell’ente esponenziale
della comunità. Tuttavia, qualora manchi una organizzazione istituzionale
di rappresentanza della comunità dei fedeli, la legittimazione processuale va
riconosciuta ai soli soggetti che siano rappresentativi dell’interesse collettivo
della comunità e non già ai singoli fedeli: in tal senso, cfr. già Pret. Roma, 5
febbraio 1980, in Giur. merito, 1980, pp. 867 ss., con nota di A. Postiglione, in
cui si afferma che l’interesse collettivo «trova nel cosiddetto ente esponenziale
l’organo spontaneo legittimato a farlo valere».
72. Così, ancora Lojacono, ult. cit., p. 944.
73. Si tratta, peraltro, di vicende giudiziarie assai risalenti nel tempo (cfr.
432
Armando Giuffrida
Né sono giammai stati eccepiti profili di immoralità per l’uso
commerciale – e quindi di profitto – di un marchio raffigurante
immagini o espressioni legate alla sfera del sacro o della religione. In linea teorica, tale eventualità potrebbe anche non escludersi, soprattutto se la morale dominante ritenga inopportuno l’abbinamento del marchio con contenuti religiosi alla peculiarità del
prodotto commercializzato.
Si pensi, ad esempio, alle immagini o alle espressioni di
origine religiosa o sacrale, utilizzate in marchi di prodotti anticoncezionali, di concimi, di pesticidi, o di servizi di spurgo di
pozzi neri. In tali casi, potrebbero in effetti essere lesi non solo
il sentimento religioso di coloro che nutrono una particolare venerazione per la simbologia raffigurata nel marchio, ma anche la
coscienza di chi comunque nutra rispetto e considerazione per
ciò che tale raffigurazione rappresenti dal punto di vista etico,
storico, culturale o per l’identità nazionale.
Si pensi anche al possibile infelice abbinamento tra un marchio con rappresentazioni religiose ed un prodotto che, pur giudicato in modo neutro o finanche positivo dalla generalità dei
consociati, risulti però offensivo ai fedeli di talune confessioni
religiose. Si potrebbe prospettare l’ipotesi dell’utilizzazione
dell’emblema dei Testimoni di Geova come marchio di prodotti
emoderivati, oppure dell’uso di raffigurazioni o parole appartenenti al patrimonio culturale ebraico riportate in un marchio di
confezioni di carne suina. E potrebbe anche richiamarsi l’evenCass. 14 febbraio 1914; Trib. Napoli, 14 marzo 1924; App. Napoli, 15 maggio
1925; App. Roma, 21 giugno 1927; Cass. 29 novembre 1928, tutte pronunce
riportate in Riv. Ind., 1973, II, pp. 190 ss.). Significativa è, in particolare, la
controversia insorta a seguito della contraffazione di un marchio apposto ad
un asciugamano, raffigurante la parola “Ave” e un disegno dell’Annunciazione
(cfr. Trib. Milano, 10 aprile 1958 e App. Milano, 3 luglio 1962, in Riv. ind.,
1962, II, pp. 138 ss.).
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
433
tuale uso improprio di un marchio abbinato al nome di Buddha,
che tuttavia una recentissima pronuncia della Suprema Corte ha
recisamente ritenuto di escludere nel caso di specie74.
Ma, come pare evidente dalla esemplificazione riportata, si tratta di ipotesi francamente marginali e di ben difficile riscontro nella
prassi. E ciò costituisce una conferma di quanto rara sia la possibilità che l’Ufficio italiano brevetti e marchi sia chiamato a valutare
l’elemento religioso apposto ad un marchio di commercio.
Va da sé – e con ciò ci si avvia alla conclusione sul punto –
che tutta la serie di preoccupazioni riportate in questo paragrafo
non hanno ragione di esistere qualora l’imprenditore si sia limitato a riportare nel marchio il mero contrassegno “Halal”. E ciò per
due ordini di ragioni: perché, nel caso quest’ultimo sia registrato
come marchio collettivo confessionale, la sua apposizione è suffragata dall’imprimatur di un ente esponenziale della confessione
religiosa e quindi non è frutto della libera iniziativa di un privato
imprenditore; perché, nel caso opposto di contrassegno “Halal”
non incluso in un marchio collettivo (ad es., “Halal Italia”, su
cui v. infra), la funzione di tale contrassegno è finalizzata solo
ad agevolare l’osservanza dei precetti religiosi in ambito alimentare e non già a sfruttare la simbologia confessionale per scopi
meramente commerciali e dunque di tipo speculativo. Poiché in
questo caso l’aggiunta del contrassegno “Halal” non arreca alcuna offesa alle convinzioni religiose dei fedeli islamici – ma anzi
74. Cfr. Cass. 25 gennaio 2016, n. 1277, che ha respinto un’ipotizzata
contrarietà all’ordine pubblico per offesa del sentimento religioso buddista, in
quanto per la Suprema Corte manca il necessario presupposto che «l’utilizzazione
di riferimenti religiosi … risulti chiaramente blasfema o sacrilega, non essendo
sufficiente la mera contrarietà al buon gusto», né «lo stesso accostamento del
termine Buddha ai termini “bar” o “cafè”, enfatizzato dalle ricorrenti, non è
affatto anomalo o inusuale, come si sostiene, essendo questi luoghi di ritrovo
tradizionalmente ricollegabili nella tradizione culturale dell’occidente anche a
particolari espressioni della letteratura o più in generale dell’arte».
434
Armando Giuffrida
è funzionale all’esercizio della loro libertà religiosa – l’Ammi
nistrazione non potrebbe avanzare obiezioni di sorta in ordine al
suo contestuale utilizzo assieme al marchio individuale75.
7. Il mercato del c.d. “Halal Food” nel mondo, in Europa e
nel nostro Paese.
A tutt’oggi non è ancora sicuro a quanto ammontino numericamente i musulmani nel mondo. I dati statistici offerti dalle agenzie più accreditate non sono univoci al riguardo; anzi, spesso
offrono rilevazioni assai differenziate. Invero, secondo taluni l’Islam rappresenterebbe già la confessione più diffusa e praticata
a livello mondiale, giacché i suoi fedeli raggiungerebbero la ragguardevole cifra di quasi due miliardi di unità, per di più con un
elevato e costante tasso di crescita annua pari all’1,8%, superiore
all’1,2% riferibile alla popolazione mondiale non musulmana76.
Secondo l’opinione dominante, che pare preferibile, la religione islamica non avrebbe ancora raggiunto il primato sul Cristianesimo (nelle sue varie manifestazioni)77. Ad ogni modo, tutte
75. Sul punto, si veda, conformemente, sempre Lojacono, ult. cit., pp. 939
s., nt. 67.
76. È quanto sostiene H. R. Distefano (a cura di), Il mercato dei prodotti
halal, liberamente consultabile nel sito www.koelnmesse.it/thaifex/_files/
HALAL_ITALIA_mercato_halal_federalimentare.pdf, s.d., per il quale la
popolazione islamica nel modo ammonterebbe ad 1,83 miliardi di unità, con
riferimento all’anno 2009.
77. Si veda al riguardo AA.VV., Accettare la diversità: un manuale
interattivo in progress, reperibile nel sito www.tolerance.kataweb.it/ita/
cap_due/uno/religioni/islam.html, secondo il quale i musulmani sarebbero nel
mondo circa un miliardo e trecentomila, il che farebbe dell’Islam la seconda
religione più diffusa nel mondo. Su questa linea è anche E. Murgese, Religioni,
ecco perché l’Islam sarà la religione più seguita del mondo, in www.wired.
it/lifestyle/2015/05/27/futuro-religioni/, la quale, richiamando ancora le
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
435
le statistiche ormai convergono nel concludere che, nell’arco di
pochi decenni, l’Islam sarà la confessione religiosa più diffusa e
radicata a livello mondiale78.
Analoghi tassi di crescita si registrano in Europa. Anche in
questo caso non vi è concordia nel rilevare l’entità numerica degli islamici quivi residenti. Secondo talune ricerche, la soglia dei
cinquanta milioni di individui sarebbe già stata varcata, mentre
secondo altri studi tale entità è ancora lontana dall’essere raggiunta79. Appare comunque maggiormente attendibile l’affermarilevazioni dell’istituto di ricerca americano Pew Research Center, i cristiani
continueranno a rimanere fino al 2050 la confessione religiosa più numerosa,
sebbene i fedeli dell’Islam aumenteranno più rapidamente di ogni altro gruppo
religioso. Solo in tale data si assisterà all’uguaglianza del numero dei musulmani
con i cristiani e vi saranno Paesi che non avranno più una maggioranza cristiana,
come la Francia, il Regno unito, l’Australia e l’Olanda.
78. L’istituto di rilevazione statistica statunitense Pew Forum on Religion
and Public Life il 27 gennaio 2011 ha pubblicato uno studio, dal titolo «The
Future of the Global Muslim Population», in cui si afferma che la popolazione
musulmana è destinata a crescere con un tasso di incremento annuo dell’1,5%
contro lo 0,7% riferibile alla restante parte degli abitanti del pianeta: il che
significa che nell’arco dei prossimi vent’anni la popolazione musulmana si
incrementerà il doppio più velocemente delle altre comunità sino a superare
da sola oltre un quarto degli abitanti del pianeta. Secondo questo studio i
musulmani nel 2030 costituiranno il 26,4% della popolazione mondiale, pari
a 8,3 miliardi di individui, mentre attualmente rappresentano il 23,4% dei 6,9
miliardi di abitanti del mondo. Sempre nel 2030 più di sei musulmani su dieci
risiederanno nell’Asia Pacifica, mentre il Pakistan diventerà il più popoloso
Stato musulmano, superando l’Indonesia.
79. Sempre secondo il Pew Research Center – un importante istituto di
rilevazione statistica statunitense, il cui sito istituzionale è www.pewforum.org/
– i musulmani residenti in Europa supereranno i 58 milioni di unità nel 2030
(nel 1990 erano meno di 30 milioni), cifra peraltro da ritenersi in difetto. Ciò
significa che la popolazione musulmana aumenterà di un terzo in circa vent’anni,
passando da 44,1 milioni di abitanti, ossia il 6% degli abitanti della regione, a
58,2 milioni, ossia l’8%. Stando a questa previsione, la popolazione musulmana
nell’arco di vent’anni (ossia nel 2030) raggiungerà il 10,2% nel Belgio (oggi
è al 6%), il 10,3% in Francia (oggi è al 7,5%), il 10% in Svezia (oggi è il 5%),
l’8,2% in Gran Bretagna (oggi è il 4,6%) e il 9,3% in Austria (oggi è il 6%).
436
Armando Giuffrida
zione secondo cui la percentuale di adepti alla religione musulmana, rapportata al numero degli abitanti, in Europa sia di gran
lunga superiore a quella stimata per il Nord America, l’America
Latina e l’intera Oceania.
Anche in Italia l’Islam rappresenta la confessione religiosa
senz’altro più praticata dopo il Cattolicesimo.
I dati statistici testé richiamati sono ineluttabilmente approssimativi e dunque imprecisi per la ragione di fondo che non è
affatto semplice quantificare in modo attendibile e rigoroso il
numero dei fedeli appartenenti all’una o all’altra fede, in assenza
di archivi ufficiali fondati sull’appartenenza confessionale della
popolazione. D’altro canto, una rilevazione di tal fatta sarebbe di
difficile realizzazione giacché verrebbe probabilmente percepita
come una sorta di schedatura della popolazione, per di più fondata su un dato sensibile (il credo religioso) e perciò difficilmente
compatibile sotto il profilo della tutela della riservatezza. I centri
studi di rilevazione statistica si vedono così costretti a raccogliere e a pubblicare questi dati, ancorandoli al Paese di provenienza,
in base alla presunzione che chi sia originario da uno Stato a
maggioranza musulmana lo sia anche di fatto80.
Attualmente in Italia i musulmani rappresentano, grosso
modo, il 2% della popolazione residente, sicché si collocano
ad un livello inferiore alla media europea (4%) e alle percentuali raggiunte in taluni Paesi europei (come il 7% della Francia). Trattasi, tuttavia, di un dato solo parziale perché calcolato
Per una disamina di questi dati, si veda il sito www.corrispondenzaromana.it/.
80. Secondo S. Allievi, I musulmani in Italia: chi sono e come ci vedono, in
www.limesonline.com, 20 settembre 2004, esisterebbe sorta di «mistica (e una
politica) delle cifre», giacché, una volta messe in circolazione, è difficile poi
sottrarsi al loro gioco. Per una stima della popolazione musulmana in Italia, cfr.
il Dossier statistico sull’immigrazione elaborato dal Centro Studi e Ricerche
IDOS, consultabile nel sito internet www.dossierimmigrazione.it.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
437
prendendo a riferimento la popolazione censita di provenienza
da Paesi musulmani, tralasciando così dal calcolo i c.d. irregolari, i naturalizzati e i neoconvertiti all’Islam. Al fine di rendere
maggiormente attendibili questi dati sarebbe – a rigore – necessario parametrarsi ai residenti musulmani realmente praticanti
la Sharī‘a, indagine invero assai ardua da svolgere per le ragioni
sopra richiamate, tant’è che non esistono ricerche sul campo.
Ai nostri fini interessa vieppiù rilevare che la popolazione
musulmana attualmente residente in Europa non solo è in crescita costante81, ma sta via via acquisendo, a livello economico,
un sempre maggiore potere d’acquisto: circostanza, quest’ultima, tale da rendere oltremodo allettante per le imprese nostrane
il mercato dei prodotti alimentari del c.d. “Halal Food”, ossia
conformi ai precetti religiosi islamici82.
A ben vedere, però, a fronte di siffatte lusinghiere prospettive
economiche, al momento il commercio internazionale dell’Halal
Food risulta percentualmente ridotto rispetto alle sue potenziali81. Sul punto, E. Marro, Ecco i motivi per cui in Italia i musulmani
aumenteranno del 103% in 20 anni, in www.ilsole24ore.com, 16 novembre
2015, riprendendo le stime del Pew Research, afferma che in Italia la
popolazione musulmana aumenterà in termini percentuali in misura ben
maggiore rispetto agli altri grandi Paesi europei, raggiungendo nell’arco di
vent’anni la ragguardevole cifra del 102,1%: si passerà, cioè, dall’1,58 milioni
di immigrati del 2010 (equivalenti al 2,6% della popolazione complessiva)
ai quasi 3,2 milioni stimati per il 2030 (pari al 5,4%). Il tasso di crescita in
Italia è così destinato a superare quello del Regno Unito (+94%) e della Spagna
(82,1%), mentre sarà inferiore solo ad alcuni Paesi europei di più ridotta
estensione, sebbene in termini assoluti si tratta di numeri assai più contenuti:
il 187,7% in Irlanda (dai 43mila musulmani del 2010 ai 125mila del 2030), il
148,9% in Finlandia (da 42mila a 105mila) e il 148,7% in Norvegia (da 144mila
a 359mila).
82. Per un’introduzione all’analisi dei mercati Halal in Italia e nel mondo,
oltre al già richiamato Distefano (a cura di), Il mercato dei prodotti halal,
si veda G. Pavone, Halal: un mercato in crescita del 15% con un fatturato
di 600 mld, liberamente consultabile nel sito www.mixerplanet.com/halalproblematiche-prospettive-segmento-in-crescita_29553/, 2014.
438
Armando Giuffrida
tà giacché si aggira intorno al solo 10% del possibile volume di
mercato83.
Se dunque, da un lato, si registra una (assai probabile) forte
domanda di prodotti alimentari religiosamente orientati, tuttora
insoddisfatta, dall’altro la necessità di gestirla con successo rende impellente una più approfondita conoscenza delle esigenze e
della stessa mentalità dei consumatori musulmani interessati alla
sua effettiva soddisfazione.
Come spesso accade quando ci si imbatte in problematiche
legate alle contemporanee società multietniche, si tratta di una
questione dapprima culturale, poi squisitamente economica e che
peraltro si evidenzia con maggior intensità in Paesi (come l’Italia) in cui la presenza islamica sul proprio territorio rappresenta
un fenomeno di ben più recente manifestazione rispetto ad altri
Paesi europei (si pensi al Regno Unito, alla Francia, alla Germania, al Belgio, ecc.) chiamati da decenni a governare consistenti
comunità islamiche, in massima parte retaggio del passato periodo coloniale84.
83. Così Distefano (a cura di), Il mercato dei prodotti halal, cit.
84. Sulle criticità connesse alla convivenza con la comunità islamica, oltre
ai già segnalati Aletti-Rossi, Identità religiosa, pluralismo, fondamentalismo, e
Goody, Islam ed Europa, si vedano, con riferimento alla gestione del rapporto tra
fattore religioso e sicurezza nell’area mediterranea, R. Mazzola, La convivenza
delle regole. Diritto, sicurezza e organizzazioni religiose, Milano, 2005, spec.
pp. 85 ss., nonché M. Introvigne, La questione del fondamentalismo islamico.
Riflessioni dopo l’11 settembre 2001, intervento al convegno su «La sfida dei
fondamentalismi» (Torino, 3 dicembre 2001), in www.cesnur.org/2001/mi_
dic02.htm.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
439
8. La Convenzione interministeriale di sostegno al Progetto
di Certificazione denominato “Halal Italia”
Come si è accennato (v. par. 5), dopo una lunga attesa, da qualche anno è finalmente in uso anche nel nostro Paese un marchio
collettivo confessionale per la certificazione di qualità del c.d.
Halal Food, realizzatosi attraverso il Progetto di Certificazione
Halal Italia85.
L’iniziativa è frutto del contributo della Comunità Religiosa
Islamica italiana (CO.RE.IS.)86, ossia del principale ente rappresentativo dei musulmani quivi residenti, il quale ha offerto un decisivo impulso alla diffusione della certificazione di conformità
alla Sharī‘a di prodotti non solo alimentari, ma anche farmaceutici e di cosmetici, in guisa tale da sostenere la forte domanda dei
fedeli islamici residenti sul nostro territorio.
Poiché la presente ricerca circoscrive il tema della certificazione al c.d. Halal Food, ossia al solo comparto agroalimentare,
saranno tralasciati gli altri ambiti merceologici di interesse confessionale (ossia, i comparti finanziario, assicurativo, della moda,
dei viaggi, oltre ai già richiamati settori sanitario e farmaceutico), in ordine ai quali è altrettanto sostenuta l’esigenza di certificare un adeguato standard di qualità dell’intera filiera produttiva.
Ebbene, per quanto concerne il settore agroalimentare, la certificazione “Halal Italia” mira a garantire che i prodotti commercializzati siano conformi non solo ai precetti religiosi prescritti
dalla Sharī‘a, ma anche alle normative, italiana ed europea, in
85. Sul Progetto di certificazione Halal Italia, oltre a quanto pubblicato sul
sito del CO.RE.IS, testé richiamato, si veda il sito istituzionale a ciò dedicato
(http://www.halalitalia.org/).
86. Per una disamina dei fini istituzionali della Comunità Religiosa Islamica
Italiana (CO.RE.IS.) è consigliabile la lettura del sito ad essa dedicato (www.
coreis.it/13/).
440
Armando Giuffrida
tema di igiene e sicurezza alimentare87. Emblematica, al riguardo, è la commercializzazione della carne (di cui si esclude a priori quella di maiale e dei suoi derivati), per la quale è necessario
accertare, prima della sua immissione nel mercato, l’avvenuta
macellazione secondo il rituale islamico. Particolari accorgimenti sono altresì prescritti per le bevande, le quali non possono mai
contenere alcol (e suoi derivati), neppure in minime dosi.
Il Progetto Halal Italia si ispira fondamentalmente all’idea di
edificare una sorta di “ponte culturale” che congiunga l’Europa
al mondo islamico nei più svariati settori produttivi, facilitando così lo sviluppo armonico del pluralismo confessionale nella
nostra società multiculturale, pur nel rispetto del vigente assetto
normativo (europeo ed italiano) e della stessa cultura e religiosità
autoctona e delle altre confessioni.
87. Sull’esigenza di assicurare un elevato livello di sicurezza alimentare
al fine di ristabilire e di promuovere la salute dei consumatori cfr., a livello
normativo: il «Libro bianco sulla sicurezza alimentare», il quale propone
l’adozione di una serie di misure dirette ad integrare ed ammodernare il quadro
della disciplina dell’Unione europea in materia di prodotti alimentari, secondo
un approccio completo ed integrato dell’intera filiera “dai campi alla tavola”; il
regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio del 28
gennaio 2002, «che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione
alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa
procedure nel campo della sicurezza alimentare»; il d.lgs. 5 aprile 2006, n.
190, recante «Disciplina sanzionatoria per le violazioni del regolamento (CE)
n. 178/2002»; la norma UNI 10939, recante «Sistema di rintracciabilità nelle
filiere agroalimentari. Principi generali per la progettazione e l’attuazione»;
la norma UNI 11020, recante «Sistema di rintracciabilità nelle aziende agroalimentari – Principi per l’attuazione. Sul tema, cfr. in dottrina: P. Di Martino,
Rintracciabilità obbligatoria e rintracciabilità volontaria nel settore alimentare,
in Dir. giur. agr. amb., 2005, pp. 141 ss.; F. Capelli, B. Klaus, V. Silano, Nuova
disciplina del settore alimentare e autorità europea per la sicurezza alimentare,
Milano, 2006; A. Germanò, Il Libro verde della Commissione europea del 15
ottobre 2008: alla ricerca di una definizione di prodotti di qualità, in Riv. Dir.
agr., 2008, (I), pp. 480 ss.; F. Albisinni, Un libro verde sulla comunicazione:
verso il 2013, in Riv. dir. alim., 2009, (1), pp. 15 ss.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
441
Il Progetto ha preso avvio in tempi relativamente recenti (30
giugno 2010) attraverso la sottoscrizione di una Convenzione
interministeriale di sostegno, sotto l’egida del Ministero degli
Affari esteri, di concerto con i Ministeri dello Sviluppo economico, della Salute e delle Politiche agricole. Alla Convenzione hanno altresì preso parte gli ambasciatori dei Paesi aderenti
all’Organizzazione della Conferenza Islamica (OCI) accreditati
in Italia88.
La Convenzione testé richiamata costituisce non solo una
modalità significativa di integrazione della comunità islamica
residente nel nostro Paese, ma anche una particolare occasione
di valorizzazione dei prodotti di qualità del Made in Italy: attraverso l’accordo raggiunto, le nostre imprese vedono spalancarsi
la possibilità di soddisfare la domanda interna di circa 1,5 milioni
di musulmani residenti, cui si aggiungono i sempre più numerosi
cittadini italiani (non islamici) interessati a questa tipologia di
prodotti; inoltre, si gettano le basi per rafforzare la presenza delle
imprese italiane verso i nuovi mercati internazionali emergenti,
soprattutto di Paesi a maggioranza musulmana, che ora possono
essere approcciati in modo più qualificato.
Per farsi un’idea delle prospettive di sviluppo del mercato dei
prodotti Halal può risultare utile la lettura dei dati complessivi
della certificazione religiosa islamica. Si tratta tuttavia di stime
solo indicative giacché l’Halal Food rappresenta un mercato,
che, pur crescendo a ritmi sostenuti, è relativamente giovane – a
livello internazionale e, ancor più, nazionale – e pertanto non ancora pienamente strutturato. Ne costituisce una conferma la circostanza che i dati statistici e le relative analisi sono disponibili
88. Cfr. Ministero degli affari esteri, Made in Italy: “Halal”, marchio
di qualità conforme al Corano, pubblicata nel sito http://www.halalitalia.org/
documenti/Comunicati%20Ministero%20Affari%20Esteri.pdf. Anche il testo della
Convenzione è consultabile nel sito istituzionale del Progetto Halal Italia, già cit.
442
Armando Giuffrida
solo con riguardo agli ultimi quindici anni (in ambito internazionale) o agli ultimi sei-sette anni (in ambito nazionale).
Ciò che pare ormai evidente agli addetti del settore è che il c.d.
Halal Food non costituisce più un settore di nicchia. Come infatti
si è ricordato, circa il 25% della popolazione mondiale accoglie
la cultura e la religione islamica ed è in grado di movimentare un
mercato che per il solo comparto agro-alimentare raggiunge un
valore stimato di circa 700 miliardi di dollari statunitensi (con un
tasso di crescita costante dell’ordine del 16% annuo negli ultimi
5 anni), valore che giunge a sfiorare i 2.300 miliardi di dollari
qualora si considerino cumulativamente i comparti food, cosmesi, farmaceutica e turismo89.
Limitando la prospettiva al solo mercato europeo – nel quale,
come si è accennato, risiedono circa 50 milioni di musulmani,
pari a circa il 2,70% della popolazione islamica mondiale – il
comparto dell’Halal Food si aggira intorno ad un fatturato di
circa 70 miliardi di dollari statunitensi, pari al 10% del mercato globale: si tratta indubbiamente di una stima ragguardevole,
soprattutto alla luce della propensione al consumo e del potere di
acquisto delle comunità islamiche residenti in Europa, superiore
di quasi quattro volte i valori medi raggiunti nel resto del mondo.
Il settore dell’Halal Food è dunque un mercato in rapida
espansione e di forte attrattiva per le imprese agroalimentari
mondiali – e italiane in particolare – a fronte della forte crescita
della popolazione islamica nel nostro Paese, non solo a causa dei
costanti flussi migratori e dell’elevato tasso di natalità tipico di
queste comunità, ma anche delle sempre più frequenti conversioni alla Sharī‘a da parte di cittadini di origine italiana.
89. I dati testé riportati ed anche quelli successivi sono tratti da Distefano
(a cura di), Il mercato dei prodotti halal, cit., e da Pavone, Halal: un mercato in
crescita del 15% con un fatturato di 600 mld, cit.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
443
Il potenziale mercato dell’Halal Food in Italia nel 2010 è stato
stimato in cinque miliardi di dollari all’anno. Le categorie merceologiche maggiormente coinvolte nei processi di certificazione
Halal sono senz’altro rappresentate dalle carni e dai prodotti a
base di carne, ma anche dalla pasticceria e gelateria, dalle seconde lavorazioni di frutta e verdura, dal settore lattiero-caseario,
dalle bevande e dai grassi ed olii90.
Per comprendere l’entità del fenomeno, è sufficiente segnalare che le aziende italiane attualmente interessate dai processi di
certificazione Halal ammontano a circa un centinaio di unità, di
cui il 24% sono di grandi dimensioni o di carattere multinazionale, il 63% di media dimensione e il restante 13% di piccola dimensione, comprese le imprese familiari. E di tutte queste aziende, circa il 31% opera nel solo settore delle carni e dei prodotti a
base di carne91.
La maggior parte delle aziende dell’Halal Food ha sede nel
Nord Italia (55% del totale), in particolare in Lombardia ed Emilia Romagna, mentre solo il 15% si colloca nel Centro Italia, il
10% nel Sud e il 20% nelle Isole.
In linea generale, si tratta di aziende che – indipendentemente dalla loro dimensione – si contraddistinguono per la spiccata
propensione all’export e che, pertanto, riconoscono nella certificazione di conformità un robusto stimolo al consolidamento dei
mercati esteri e all’aggressione di nuovi mercati, assicurandosi
comunque il rafforzamento della propria posizione nel mercato
domestico.
90. Ad esempio, il sito Halal Italy dichiara accreditate, tra le molte, le
seguenti aziende di prodotti agroalimentari e di bevande: Pasta Zara S.p.A.;
Pastificio Lucio Garofalo S.p.A.; Colussi S.p.A.; Gioia Succhi S.r.l; Latteria
Soresina; Compagnia Lattiero Casearia S.r.l.; Barbera Caffè S.p.A.; Bracca
Acque minerali S.p.A.; Oleificio Coppini Angelo S.p.A.
91. Cfr. ancora Distefano (a cura di), Il mercato dei prodotti halal, cit.
444
Armando Giuffrida
A partire dal triennio 2010-2012 si è poi registrata una costante
crescita della domanda di servizi di certificazione Halal in relazione
a svariati prodotti: l’incremento è infatti stato dell’ordine del 40%
nel 2011 (rispetto al 2010) e del 50% nel 2012 (rispetto al 2011).
Nel breve volgere di pochi anni l’ammontare delle aziende
certificate e dei prodotti disponibili è così più che raddoppiata.
Il crescente interesse del settore alimentare italiano verso la certificazione Halal è altresì accertato dalla circostanza che quasi
il 90% delle aziende richiedono il suo rinnovo allo scadere del
triennio di validità, con ciò confermando il positivo impatto commerciale ascrivibile all’investimento nella certificazione.
Questi dati attestano che anche in Italia – al pari dei mercati
occidentali più consolidati, come quelli di Gran Bretagna, Francia, Germania, USA, ecc. – si registra un trend di posizionamento
commerciale del prodotto certificato Halal. Si sta infatti rapidamente diffondendo presso i consumatori di prodotti conformi ai
precetti islamici una tendenza analoga a quella da tempo in atto
negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei con riguardo ai prodotti Kosher, ossia conformi alle norme confessionali ebraiche: la
percezione, cioè, che anche l’Halal Food non sia più sinonimo di
prodotti prettamente etnici e generalmente di bassa qualità, ma,
al contrario, di alimenti con un proprio valore aggiunto quanto
alle materie prime e agli ingredienti utilizzati, al controllo del
processo produttivo tout court e, in generale, alla loro sostanziale
genuinità92.
La tendenza testé richiamata trova conferma in Francia, Regno Unito e Germania laddove circa il 40% degli acquirenti di
prodotti Halal sono consumatori non islamici.
92. Sul punto, si veda, con riferimento alla conformità Kosher, C. Montagna,
L’industria italiana alimentare e la certificazione kosher, l’esperienza del vino, e
nei prodotti trasformati, consultabile nel sito www.lombardiakosher.it/images/
Intervento_cinziakosher.pdf.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
445
Anche il nostro Paese pare allinearsi a questo orientamento,
giacché – in base ai feedback ricevuti dalle nostre aziende – si è
stimato che quasi il 20% degli acquirenti di prodotti Halal manifestano abitudini alimentari particolarmente attente e critiche in
merito alla qualità dei prodotti consumati.
9. La certificazione del c.d. “Halal Food” in Italia
Nel nostro Paese la certificazione di conformità dei prodotti immessi in commercio ai precetti islamici da qualche anno è affidata ad un particolare istituto – l’Halal Italy Authority – divenuto
ormai l’organismo ufficiale di certificazione93.
Si tratta di un’autorità indipendente no profit che trova ampio
riconoscimento internazionale, tanto a livello governativo, quanto a livello di organizzazioni non governative, di associazioni di
consumatori Halal nonché di autorità e rappresentanze religiose
islamiche.
L’ampio riconoscimento di cui gode l’Autority è ascrivibile
alla circostanza che la stessa agisce in rappresentanza dell’Autorità internazionale di certificazione islamica (Halal International Authority)94, avendo nel corso degli anni certificato prodotti e
facilities di qualità Halal di aziende con sede in oltre venti Paesi
nel mondo e operanti nella gran parte delle filiere produttive.
L’Halal Italy Authority può dunque definirsi un’organizzazione internazionale di certificazione di prodotti alimentari secondo i più rigorosi e condivisi International Halal Standards. Dal
punto di vista giuridico e confessionale tale organismo gode del
93. Sull’attività svolta dall’Halal Italy Authority si rimanda al suo sito
istituzionale consultabile in www.halalitaly.org/chi-siamo.html.
94. Sui fini istituzionali dell’«Halal International Authority» si rinvia al sito
istituzionale, consultabile in www.halalint.org/.
446
Armando Giuffrida
riconoscimento del Consiglio superiore islamico d’Italia, tra le
più autorevoli autorità di studi islamici, ma anche della stessa
comunità musulmana residente in Italia95.
La certificazione “Halal Italy” costituisce dunque il più rilevante marchio di garanzia. Esso consente alle aziende agroalimentari di posizionarsi nel mercato dei prodotti conformi ai
precetti della Sharī‘a al fine di soddisfare la domanda dei sempre più numerosi estimatori, rappresentati, come si è accennato,
non solo dai fedeli e dagli ordinari consumatori di fede islamica, ma anche da coloro che non appartengono a tale confessione
religiosa.
L’Halal Italy Authority certifica la conformità alla Sharī‘a
dell’intera o di parte della c.d. Supply Chian delle filiere produttive, compresi i servizi che si sviluppano dal produttore al consu95. A differenza di gran parte delle confessioni religiose presenti nel
nostro Paese, l’Islam a tutt’oggi non ha ancora stipulato un’intesa con lo Stato
italiano, principalmente a causa dell’assenza di un’istituzione o associazione
effettivamente rappresentativa della maggioranza dei musulmani residenti
in Italia. In un primo momento (2000) si è tentato di percorrere la strada
della costituzione di un’associazio
ne, denominata «Consiglio islamico
d’Italia», che rappresentasse unitariamente la componente sunnita in sede
di stipulazione ed esecuzione di un’eventuale intesa con lo Stato italiano.
Ad essa presero parte l’UCOII, la Lega musulmana mondiale, e il Centro
islamico culturale d’Italia (ad esclusione, in questo caso, della componente
marocchina). Attualmente l’associazione esiste solo formalmente, ma non
è di fatto operativa essendo da subito emersi al suo interno forti contrasti
tra la componente legata ai Fratelli Musulmani e quella filo-saudita. Dopo
qualche anno (2005), su iniziativa del Ministro dell’interno dell’epoca, si
è istituita la «Consulta per l’Islam italiano» (c.d. Consulta islamica), in
cui vi prendono parte sedici componenti (metà sono di nazionalità italiana)
tra esponenti musulmani laici e dirigenti di associazioni religiose. Vi
partecipano sia rappresentanti dell’Islam sunnita (UCOII, Lega musulmana
mondiale, COREIS e UIO), sia esponenti dell’Islam sciita (Comunità ismailita
italiana). In particolare, per una disamina dei fini istituzionali dell’«Unione
delle Comunità Islamiche d’Italia» (UCOII) e della «Lega musulmana
mondiale», si rinvia ai rispettivi siti istituzionali, consultabili in: www.ucoii.
org/storia-ucoii/ e in www.themwl.org/.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
447
matore e dunque dalla materia prima al prodotto finito, dalla preparazione alla trasformazione, dallo stoccaggio alla logistica, dal
trasporto alla distribuzione, dalla somministrazione alla vendita96.
La medesima Authority offre, poi, su espressa domanda
dell’interessato, attività di consulenza e formazione d’eccellenza
sulla progettazione, l’implementazione e il controllo dei sistemi
integrati di gestione della qualità Halal (Halal Integrated Quality Management Systems) nonché dei sistemi integrati di garanzia della qualità Halal (Halal Integrated Quality Assurance Systems) per la gestione e la garanzia di qualità qualora includano
o integrino la conformità agli ordinari sistemi di qualità indicati
sotto gli acronimi di QMS’s, ISO e HACCP.
Non mancano infine i servizi aggiuntivi: da quelli di orientamento, consulenza e formazione sull’Halal Marketing, a quelli
di certificazione delle piattaforme logistiche Halal nei porti, negli interporti e negli aeroporti, compresa persino la certificazione
Halal dei mezzi di trasporto (terrestre, marittimo o aereo).
Alla luce di quanto testé esposto può dunque affermarsi che
il marchio “Halal Italy”, rilasciato dall’Halal Italy Authority, costituisce un vero e proprio marchio di garanzia del settore agroalimentare, teso ad assicurare la conformità dei prodotti e dei
loro ingredienti agli standards di qualità Halal in tutte le fasi di
lavorazione.
La procedura di certificazione presso l’Halal Italy Authority è
quanto mai snella e rapida, nonché per nulla gravosa dal punto
96. Per un inquadramento generale sul c.d. Supply Chain Management,
cfr.: S. Beccia, C. Rogora, L’integrazione della Supply Chain, in Logistica
Management, (57), 1995; A. Borghesi, I processi di Product Development
Management, Supply Chain Management, Customer Relationship Management:
la nuova alleanza e loro centralità nella funzione di marketing, in Sinergie, (56),
2001; A. Borghesi, Il Marketing nel Supply Chain Management, in Industria &
Distribuzione, (3), 2003.
448
Armando Giuffrida
di vista economico. Essa infatti, dopo un primo contatto telefonico o tramite e-mail, prende avvio attraverso la compilazione di
un Questionario informativo fornito tramite posta elettronica. Il
soggetto interessato può così trasmettere le necessarie informazioni tecniche correlate al prodotto o al servizio da certificare,
oppure al processo di realizzazione del prodotto o del servizio
da certificare. Dopo previa valutazione di fattibilità della certificazione, l’Autority procede ad un audit o ad un’ispezione nella
sede dell’impresa in cui avviene la realizzazione del prodotto o
del servizio da certificare. L’iter si conclude con il rilascio della
certificazione97.
10. Considerazioni conclusive
Di primo acchito, il tema della certificazione del c.d. Halal Food
– soprattutto ai non “addetti ai lavori” – appare piuttosto marginale e destinato a non rappresentare una priorità nel panorama
delle scelte politiche del nostro legislatore.
Ma, anche alla luce di quanto testé esposto, si tratta di una
materia che, a ben vedere, riveste una rilevanza significativa sot97. Si segnala che lo scorso 20 ottobre 2015 a Milano è stato sottoscritto
un importante Protocollo d’Intesa tra Accredia (Ente unico italiano di
accreditamento) e l’ESMA (Autorità degli Emirati Arabi Uniti per la normazione
e la metrologia) per incentivare la cooperazione in materia di accreditamento
degli organismi di certificazione Halal. Si tratta del primo accordo siglato tra
l’ente emiratino e un Paese dell’Unione europea e mira a ridurre le barriere
tecniche al commercio e di facilitare gli scambi tra Italia ed Emirati Arabi Uniti:
saranno così facilitate le certificazioni di conformità agli standards emiratini e
conseguentemente l’esportazione dei prodotti italiani verso gli Emirati Arabi
Uniti. Come riportato dal sito della Farnesina, nel 2014 il volume d’affari dello
scambio commerciale tra i due Paesi è stato pari a 5,9 miliardi di euro, con un
saldo attivo della bilancia commerciale pari a 4,7 miliardi di euro in favore
dell’Italia.
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
449
to molteplici aspetti – tanto giuridici, quanto economici – che
non possono esser sottaciuti o, quantomeno, sottovalutati.
Si consideri, anzitutto, il profilo più prettamente giuridico.
La certificazione di conformità alle prescrizioni islamiche investe, in primo luogo, il piano dei principi costituzionali e delle libertà fondamentali, coinvolgendo, in particolare, il delicato
rapporto tra libertà religiosa (art. 19 Cost.) e libertà di iniziativa
economica (art. 41 Cost.). Trattasi di materie assai delicate e che,
convergendo nel complesso assetto dei rapporti tra Stato e confessioni religiose, impongono al legislatore complessi bilanciamenti, nel rispetto dell’autonomia dell’ordine confessionale (v.
artt. 7 e 8 Cost., e 117, secondo comma, Cost.).
Quando poi si scende dal piano dei principi alle singole previsioni normative, si apre un ampio ventaglio di implicazioni.
Volendo esemplificare, si pensi all’impellenza, da un lato, di
assicurare la veridicità erga omnes delle dichiarazioni di conformità ai precetti islamici rese dai produttori di alimenti Halal e,
dall’altro, la necessità di scongiurare che i fedeli siano tratti in
inganno da false attestazioni.
Si consideri altresì l’esigenza, connessa alla precedente, di
salvaguardare i fedeli da utilizzazioni “profane” di simboli religiosi o di attestazioni di conformità Halal per meri fini speculativi e non di ordine confessionale. In effetti un numero sempre
crescente di non musulmani consuma carne e altri prodotti Halal
nella convinzione, magari indotta da una falsa pubblicità, che tali
alimenti siano “cibi puri e di qualità”, anche sotto il profilo della
sicurezza alimentare.
Si pensi ancora al consumo, in strutture chiuse (carceri e CIE)
o assimilate (ospedali, scuole e luoghi di lavoro), di alimenti Halal, la cui “purezza” deve poter essere attestata con elevati margini di sicurezza, soprattutto qualora siano somministrati in sedi
pubbliche.
450
Armando Giuffrida
Questi taluni possibili risvolti giuridici.
Nelle pagine precedenti si è altresì evidenziata l’importanza
che il tema della certificazione di qualità del c.d. Halal Food riveste sotto il profilo economico.
Pur con inevitabili margini di imprecisione, peraltro già segnalati, tutte le rilevazioni statistiche concordano nel rimarcare
l’imponenza dei mercati – italiano, europeo e mondiale – che
commercializzano alimenti conformi ai precetti coranici. Si tratta
di una tendenza in forte espansione, non solo per la costante e
inarrestabile crescita demografica della popolazione musulmana mondiale, ma anche per l’imponenza delle risorse finanziarie
messe a disposizione dai Paesi islamici per sostenere la diffusione della cultura musulmana nel mondo e, dunque, anche degli
alimenti conformi alla Sharī‘a.
L’importante Convenzione interministeriale di sostegno al
Progetto di certificazione denominato «Halal Italia» rappresenta
un significativo passo in avanti verso una più robusta tutela della
qualità dei prodotti alimentari islamici e, al contempo, un’occasione di crescita delle imprese alimentari del nostro Paese anche
in questo particolare comparto.
La Convenzione rende così più autorevole e sicura l’attestazione di conformità del marchio collettivo «Halal Italia», non
solo in funzione delle legittime aspettative di qualità dei consumatori di siffatte tipologie di alimenti, ma anche per il segnale di
attenzione lanciato in favore di una maggiore regolamentazione
di una materia per troppo tempo lasciata all’improvvisazione.
Il conseguimento di intese tra lo Stato italiano e le confessioni
religiose è dunque la strada da percorrere e da incoraggiare per
una più approfondita tutela della libertà religiosa e, segnatamente, delle norme alimentari confessionali, che ne costituiscono
una patente manifestazione. In particolare, il ricorso allo strumento consensuale appare quantomai opportuno per affrontare e
La certificazione di conformità del cd. “Halal Food”
451
risolvere svariati aspetti “collaterali” all’osservanza dei precetti
alimentari religiosi e che senz’altro rilevano, anche per lo Stato
italiano, sotto il profilo applicativo. Si pensi, primo fra tutti, al
problema dell’individuazione delle autorità confessionali legittimate ad eseguire i controlli di conformità ai precetti confessionali lungo l’intera filiera dei prodotti alimentari e che, conseguentemente, siano titolate a richiedere il rilascio del marchio collettivo
religioso.
La Convenzione di sostegno alla certificazione «Halal Italia»
rappresenta un felice modello di riferimento anche in vista di una
futuribile legge generale sulla libertà religiosa, già in altra sede
auspicata98, perché realizza un’apprezzabile sintesi tra il dovere
dello Stato di intervenire in una materia particolarmente sensibile e di rilevanza costituzionale e, al contempo, la necessità di
formulare un quadro normativo rispettoso del principio, costituzionalmente garantito, di distinzione degli ordini e di autonomia
confessionale.
98. Si è infatti dell’opinione (cfr. A. Giuffrida, L’incidenza delle regole
alimentari confessionali nell’as
setto giuridico-amministrativo italiano, cit.,
pp. 18 ss.) che sia più logico disciplinare la materia in esame attraverso un
completo ed organico corpus normativo di origine pattizia, cioè adottato sulla
base di intese con le rappresentanze religiose, e che anzi questa debba essere
il percorso ordinario da seguire alla luce del dettato costituzionale. Ancora
oggi il legislatore italiano tende, invece, a seguire il tradizionale modus
operandi attraverso il ricorso ad una pletora di fonti normative, spesso tra loro
scoordinate, come: gli atti di recepimento di direttive europee (ad es., in materia
di macellazione rituale); le leggi (c.d. atipiche) di approvazione delle intese
raggiunte con le confessioni di minoranza (v. art. 8 Cost.); le intese e accordi
tra istituzioni locali e talune confessioni religiose; i regolamenti ministeriali;
i programmi di settore; il rilascio di pareri; ecc. Sul tema, si veda il recente
contributo di A. Poggi, Una sentenza “preventiva” sulle prossime richieste di
intese da parte di confessioni religiose? (in margine alla sentenza n. 52 della
Corte costituzionale), in Federalismi.it, 3/2016.
Autori
Giovanni Boggero, Assegnista di ricerca in diritto costituzionale
nell’Università di Torino.
Maria Bottiglieri, Dottore di ricerca nel dottorato “Autonomie
Locali, Servizi Pubblici e Diritti di Cittadinanza” nell’Università
del Piemonte Orientale e funzionario del settore “Cooperazione
Internazionale e Pace” del Comune di Torino.
Giovanni Cavaggion, Dottorando di ricerca nel dottorato “Istituzioni pubbliche, sociali e culturali”, curriculum “Autonomie
Locali, Servizi Pubblici e Diritti di Cittadinanza” nell’Università
del Piemonte Orientale.
Hilal Elver, UN Special Rapporteur on Right to Food, Research
Professor, Global & International Studies Program, University of
California, Santa Barbara.
Tomaso Ferrando, Lecturer in Law at University of Bristol –
School of Law, Research Associate at International University
College (IUC), Torino.
Michele A. Fino, Professore associato di diritto romano e diritti
dell’antichità nell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (Bra - Cuneo).
Lara Fornabaio, Dottore di ricerca in Diritto dell’Unione europea nell’Università di Ferrara.
453
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Autori
Armando Giuffrida, Dottore di ricerca del dottorato “Autonomie Locali, Servizi Pubblici e Diritti di Cittadinanza” nell’Università del Piemonte Orientale .
Elena Grasso, Assegnista di ricerca in diritto civile nell’Università di Torino.
Pratyush Kumar, Dottorando di ricerca nel dottorato “Istituzioni pubbliche, sociali e culturali”, curriculum “Autonomie, Servizi, Diritti” nell’Università del Piemonte Orientale.
Jörg Luther, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università del Piemonte Orientale.
Lorenza Mola, Professore associato di Diritto dell’Unione europea nell’Università di Torino.
Cristina Poncibò, Professore associato di Diritto civile nell’Università di Torino.
Margherita Poto, Postdoctoral Fellow at the K.G. Jebsen Centre
for the Law of the Sea, UiT, Tromsø, Norway.
Vito Rubino, Ricercatore confermato di Diritto dell’Unione europea nell’Università del Piemonte Orientale.
Eden Tafesework, Dottoranda nel corso “Diritto, Persona, Mercato” nell’Università di Torino.
Piera Maria Vipiana, Professore ordinario di Diritto amministrativo nell’Università di Genova.
L, ,
. Enrico D (a cura di)
Giustizia di classe e politica costituzionale. Raccolta di saggi di Ernst
Fraenkel
Postfazione di Jörg Luther
----, formato × cm, pagine, euro
. Giovanni C, Jörg L (a cura di)
Osservatorio per le autonomie locali (–)
----, formato × cm, pagine, euro
. Jörg L Giovanni B, (a cura di)
Alimentare i diritti culturali
----, formato × cm, pagine, euro
Compilato il ottobre , ore :
con il sistema tipografico LATEX 2ε
Finito di stampare nel mese di giugno del
dalla tipografia «System Graphic S.r.l.»
Roma – via di Torre Sant’Anastasia,
per conto della «Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale» di Canterano (RM)