Associazione Gruppi
Micologici Toscani
Micologia Toscana 0, 2018: 141-158
in attesa di ISSN - © 2018 AGMT
Accettato / Accepted: 01/12/2018
Ricevuto / Received: 26/11/2018
Il mico-eterotrofismo: quando le piante
parassitano i funghi
Alessio Pierotti
Via P. Poccianti 12, 57125 Livorno - I
alepierotti@yahoo.it
Riassunto
Nel presente contributo l’autore descrive sinteticamente un particolare rapporto
simbiotico: quello delle micorrize. In particolare viene presentato il caso in cui sono le
piante ad utilizzare i funghi per procurarsi le fonti carboniose. Questa relazione, chiamata
mico-eterotrofismo, rappresenta nel continuum dei rapporti simbiotici l’estremo opposto
alla condizione in cui sono i funghi a sfruttare le piante ovvero il parassitismo come
comunemente inteso in micologia.
Introduzione
Alcuni aspetti della biologia dei funghi sono spesso trascurati da chi, come il sottoscritto,
pratica la micologia a livello sistematico e tassonomico. In questo contributo intendo
affrontare appunto uno di questi aspetti, liquidato frequentemente alla dicotomia
parassitismo / simbiosi: quello del rapporto, da un punto di vista funzionale, tra i funghi
e le piante. In particolare, dopo aver definito meglio il concetto di simbiosi ed aver
presentate sinteticamente le principali tipologie di simbiosi micorrizica, cercherò di
definire quel particolare rapporto che è stato definito mico-eterotrofismo: ovvero quella
particolare condizione per cui è la pianta a sfruttare, completamente o parzialmente, il
fungo per ottenere le sostanze nutritive.
La simbiosi: l’arte del “vivere insieme”
In biologia il termine simbiosi (dal greco “vivere insieme”) è utilizzato per indicare in
modo generico i vari modi di convivenza tra organismi di specie diverse. Proprio in questo
senso fu introdotto nel 1877 dal botanico tedesco Albert Bernhard Frank per descrivere
in modo neutro il rapporto tra i funghi e le alghe nei licheni [Frank, 1877].
In base al tipo di relazione che intercorre tra le specie sono definite varie tipologie di
simbiosi come, ad esempio, il mutualismo o il parassitismo. Per la cronaca, il primo
autore ad introdurre queste distinzioni, sia funzionali che fisiologiche, fu un micologo: il
tedesco Heinrich Anton de Bary (1879).
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Figura 1 - Boletus edulis, esempio di specie simbionte.
Foto: M. Bianchi
Nell’accezione comune, il termine simbiosi è utilizzato in senso più ristretto per indicare
il rapporto mutualistico ovvero quello in cui tutte le specie coinvolte traggono reciproco
vantaggio dalla convivenza.
In micologia per simbiosi si intende solitamente il rapporto mutualistico che si instaura
tra i funghi e le radici delle piante superiori: la simbiosi micorrizica. In questo tipo di
simbiosi il fungo aumenta la capacità di assorbimento di nutrienti da parte della pianta
e quest’ultima fornisce al fungo le sostanze organiche da essa prodotte tramite la
fotosintesi clorofilliana.
La simbiosi micorrizica è probabilmente la simbiosi più importante in Natura e non soltanto
da un punto di vista quantitativo, coinvolgendo la quasi totalità delle piante: la simbiosi
micorrizica gioca infatti un ruolo fondamentale nel mantenimento di interi ecosistemi,
aumentando ad esempio la disponibilità dei nutrienti nel terreno e proteggendo le
piante coinvolte da patogeni e metalli pesanti [Harley, 1989; Dell, 2002]. Per una analisi
dell’importanza della simbiosi micorrizica nell’agricoltura sostenibile, nella gestione
forestale e nel recupero di siti contaminati si rimanda a Siddiqui et al. (2008).
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Figura 2 - Armillaria mellea, esempio di specie parassita.
Foto: M. Bianchi
La letteratura sulla simbiosi micorrizica è estremamente vasta: esiste addirittura una
rivista, Mycorrhiza appunto, organo ufficiale dell’International Mycorrhiza Society. Come
punto di partenza per un approfondimento suggerisco i volumi di Peterson et al. (2004),
Smith e Read (2008), Varma (2008), Varma e Kharkwal (2009) e Tadersoo (2017): se non
diversamente specificato, i paragrafi seguenti si basano essenzialmente su questi lavori.
In questo contributo, prima di presentare l’argomento principale, cercherò di illustrare
sinteticamente le caratteristiche delle principali tipologie di simbiosi micorrizica: le
endomicorrize, come le micorrize arbuscolari o quelle ericoidi, e le ectomicorrize. Nelle
prime le ife del fungo penetrano nelle cellule delle radici; nelle seconde si limitano a
colonizzarne i tessuti.
Due parole sulle radici
Ritengo necessario, prima di proseguire, descrivere brevemente la struttura delle radici,
in modo da semplificare la comprensione dei paragrafi successivi.
Come noto le radici, oltre a garantire l’ancoraggio della pianta al substrato, consentono alla
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Figura 3 - Schematizzazione di una radice. La zona di struttura primaria è composta da tessuti
maturi: il rizoderma o epidermide, dalla corteccia e dal cilindro centrale.
Disegno: A. Pierotti
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stessa di assorbire dal terreno acqua e sali minerali, oltre che rappresentare una riserva
dei materiali nutritivi. Nelle radici si distingue una zona apicale, una zona di distensione,
una zona pilifera ed una di struttura primaria. La prima, solitamente di pochi millimetri di
lunghezza, è una zona di differenziazione: si tratta di un tessuto meristematico primario
ovvero di un tessuto le cui cellule, inizialmente indifferenziate, crescono in dimensioni
ed acquisiscono forme e funzioni differenti, permettendo la crescita delle radici. La zona
apicale è protetta dall’abrasione da uno speciale tessuto di protezione detto cuffia o
caliptra: le cellule più esterne di questo tessuto vanno incontro a rapida degenerazione,
formando una sostanza mucillagginosa che resta attaccata alle particelle di terreno
facilitando così la penetrazione della radice.
Mano a mano che la zona apicale si allunga, i tessuti formati ed ancora in fase di
maturazione costituiscono la zona di estensione. Subito al di sopra di quest’ultima si
trova la zona pilifera. I peli radicali sono strutture specializzate nell’assorbimento. In
particolare, grazie alla presenza nella loro parete di sostanze mucillagginose, mostrano
una elevata affinità per l’acqua. Grazie alle loro piccole dimensioni, i peli radicali riescono
a penetrare nei più piccoli interstizi del suolo, garantendo così una massima capacità
assorbente.
Nella zona di struttura primaria, la radice ‘matura’, con cellule e tessuti ormai
completamente differenziati, distinguiamo tre parti: l’epidermide o rizoderma, la
corteccia o cilindro corticale e il cilindro centrale.
Il rizoderma è un tessuto monostratificato: analogamente all’epidermide del fusto, ha
funzione protettiva; le sue cellule però non sono chitinizzate. Nel rizoderma mancano
ovviamente gli stomi: la traspirazione, così come l’attività fotosintetica, nelle radici è
ovviamente del tutto assente.
La corteccia è invece un tessuto pluristratificato con cellule di tipo parenchimatico
ovvero con cellule a parete sottile, con forma poliedrica e contenenti un grande vacuolo
centrale. Lo strato a ridosso del cilindro centrale è costituito da cellule più piccole che
costituiscono un particolare tessuto, detto endodermide, praticamente privo di spazi
intercellulari.
Il cilindro centrale o stele contiene il sistema vascolare della radice ed è costituito da due
tessuti: lo xilema, adibito al trasporto dell’acqua, e il floema, adibito invece al trasporto
delle sostanze nutritive.
Le micorrize arbuscolari
Le micorrize arbuscolari sono sicuramente la tipologia di simbiosi micorrizica più comune
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
in Natura: coinvolgono infatti l’80-90 % di tutte le piante vascolari. Recenti studi hanno
dimostrato inoltre la presenza di micorrize arbuscolari anche in alcune piante nonvascolari [Read et al., 2000]. Una pianta può formare micorrize arbuscolari con più
funghi, uno stesso fungo può essere associato simultaneamente a più piante.
Da un punto di vista micologico, la capacità di formare questo tipo di associazione, a
fronte dell’enorme numero di piante coinvolte, è limitata esclusivamente ai funghi
appartenenti al subphylum Glomeromycotina (C. Walker & Schüßler) Spatafora & Stajich
[Spatafora et al., 2016; vedi anche Schüßler et al., 2001]. Questi funghi, mancanti di
forme a riproduzione sessuata, sono biotrofi obbligatori: il loro ciclo vitale non può quindi
completarsi in assenza dell’unione con una pianta dalla quale dipendono completamente.
Una condizione questa che ha limitato lo sviluppo delle conoscenze sulla loro biologia
[Bonfante, 2012].
Le micorrize arbuscolari svolgono un ruolo fondamentale negli ecosistemi agricoli, dove
concorrono a definire la fertilità e la stabilità del terreno, controllando anche la qualità
della comunità vegetale migliorandone la diversità e la produttività [Powell & Bagyaraj,
1984; van der Heijden et al., 1998]. Per questo i funghi coinvolti sono considerati come
biofertilizzatori e rivestono un notevole interesse negli studi sull’agricoltura sostenibile
[Lumini et al., 2011]. Per maggiori approfondimenti sulle micorrize arbuscolari, oltre ai
testi citati nell’introduzione, rimando a Koltai & Kapulnik (2008).
Come accennato, nelle micorrize arbuscolari le ife del fungo entrano nella radice attraverso
il rizoderma grazie a particolari strutture dette appressori. Una stessa ifa può penetrare
nella radice in più punti. Una volta raggiunta la zona corticale le ife penetrano all’interno
delle cellule parenchimatiche ramificandosi e assumendo un aspetto arbuscolare (da cui
il nome micorrize arbuscolari).
Se le ife penetrano direttamente nelle cellule senza diffondersi negli spazi intercellulari
della corteccia si parla di micorrize arbuscolari di tipo Paris; se invece si diffondono in
questi spazi si parla di tipo Arum [Gallaud, 1905]. La formazione di un tipo piuttosto
che dell’altro sembra dipendere esclusivamente dalle caratteristiche della pianta ospite.
Viene prodotto anche un micelio extraradicale che forma nuove spore.
Le radici interessate dalla simbiosi arbuscolare non subiscono variazioni morfologiche
significative: può però aumentare il grado di ramificazione e lo sviluppo dimensionale.
Subisce variazioni invece, in risposta all’invasione delle ife del fungo, l’organizzazione
interna delle singole cellule.
Gli arbuscoli, la cui vita è piuttosto breve, nell’ordine di 15 giorni, sono l’interfaccia di
scambio tra fungo e pianta. Alcuni funghi formano anche delle vescicole, particolari
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
strutture con funzioni di riserva: per questo in passato questa associazione micorrizica era
detta vescicolo-arbuscolare, definizione abbandonata perché rappresentativa soltanto di
alcune situazioni [Walker, 1995].
Le micorrize arbuscolari sono molto antiche; la prima evidenza di arbuscoli
morfologicamente identici a quelli attuali è stata scoperta in fossili di Aglaophyton
provenienti dalla Rhynie Chert: un deposito sedimentario risalente al primo Devoniano
scoperto agli inizi del XX secolo nei pressi del villaggio scozzese di Rhynie [Taylor et
al., 1995]. Poiché l’orologio molecolare data l’origine dei glomeromiceti a 350-460
milioni di anni fa, alcuni studiosi reputano che questi funghi abbiano giocato un ruolo
fondamentale nella colonizzazione delle terre emerse da parte delle piante (si veda, ad
esempio, Heckman et al., 2001).
Le micorrize ericoidi
Le micorrize ericoidi rappresentano un particolare tipo di simbiosi endomicorrizica
che interessa le famiglie Ericaceae Juss., Epacridaceae Brown e Empetraceae Hook. &
Lindl. dell’ordine Ericales Bercht. & J. Presl. Le piante di queste famiglie, generalmente
arbusti perenni o piccoli alberi con foglie dure e coriacee, formano radici laterali molto
specializzate, dal diametro decisamente ridotto (tanto da meritarsi il nome di ‘hair roots’
ovvero radici capello) e prive di crescita secondaria. Queste radici si caratterizzano per
una anatomia semplificata: consistono infatti di uno stretto cilindro vascolare, di uno o
due strati di cellule corticali e di una epidermide formata da uno strato di cellule rigonfie.
Proprio queste ultime sono coinvolte nella simbiosi: le ife dei funghi coinvolti penetrano
al loro interno formando particolari strutture a gomitolo. Nelle micorrize ericoidi, che
arrivano a colonizzare l’80 % dell’apparato radicale della pianta ospite, il micelio extraradicale è molto limitato: probabilmente a causa della grande estensione del sistema
radicale [Read, 1996].
Per quanto riguarda il partner fungino, le micorrize ericoidi sono state considerate a
lungo una associazione molto specifica, limitata ad alcuni ascomiceti ed in particolare al
complesso di Pezoloma ericae (Reid) Baral. I moderni studi molecolari, che permettono
di identificare anche i ‘miceli sterili’, hanno permesso di ampliare notevolmente la lista
dei funghi coinvolti [Straker, 1996]. Alcuni di questi funghi possono formare anche
ectomicorrize [Vrålstad et al., 2000].
Una delle caratteristiche delle micorrize ericoidi è la capacità di mobilitare fosfati,
composti azotati e ferro anche se presenti nel terreno a basse concentrazioni; in ambienti
contaminati, le micorrize ericoidi hanno dimostrato una grande capacità di proteggere la
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pianta ospite dai metalli pesanti [Mitchell & Gibson, 2006]. In relazione a quest’ultimo
aspetto, le micorrize ericoidi rappresentano un modello fondamentale per lo studio delle
basi molecolari dell’interazione tra funghi e metalli tossici [Perotto et al., 2002].
In base all’orologio molecolare, le micorrize ericoidi sembrano risalire a 140 milioni di
anni fa [Cullings, 1996].
Per un approfondimento sulle micorrize ericoidi rimando in particolare a Read (1996) e
Kohout (2017).
Le ectomicorrize
Le ectomicorrize sono meno diffuse delle micorrize arbuscolari: da sole rappresentano
meno del 5% di tutte le simbiosi micorriziche. Le ectomicorrize interessano infatti soltanto
alcune famiglie di piante dal portamento arbustivo o di albero, come le Pinaceae Spreng.
ex Rudolphi o le Fagaceae Dumort. Una lista dettagliata, anche se datata, delle piante
coinvolte in questo tipo di associazione si trova in Smith e Read (1997). Un singolo albero
o arbusto può essere associato contemporaneamente con più di quindici diversi funghi
ectomicorrizici [Saari et al., 2005].
I funghi coinvolti in questo tipo di associazione sono circa 7.000, tra basidiomiceti e
ascomiceti [Molina et al., 1992; Tadersoo et al., 2009]. Di questi l’80% circa forma strutture
riproduttive epigee: ovvero i funghi che finiscono nei cestini dei cercatori o sotto la lente
degli appassionati micologici. Anche alcuni zigomiceti possono formare ectomicorrize.
Alcuni dei funghi coinvolti mostrano una elevata specificità verso la pianta ospite. Per un
approfondimento sulle specie fungine coinvolte nelle ectomicorrize rimando a Tadersoo
e Smith (2017).
Le ectomicorrize svolgono in particolare un ruolo fondamentale negli ecosistemi forestali
[Boroujeni & Hemmatinezhad, 2015; Futai et al.2008].
Da un punto di vista morfologico e funzionale, le ectomicorrize manifestano una
notevole variabilità, come è logico aspettarsi visto l’enorme numero di funghi coinvolti.
Un tentativo di classificare le ectomicorrize su base morfologica ed ecologica è stato
proposto da Agerer (2001). Gli elementi distintivi di questo tipo di associazione sono tre:
il mantello o micoclena, il reticolo di Hartig ed il cosiddetto micelio extra-radicale.
Il mantello è uno spesso strato di ife fungine che si forma attorno alla porzione radicale
delle radici della pianta ospite. Le caratteristiche del mantello, dal colore fino alla struttura
microscopica, sono spesso utilizzate per identificare il fungo simbionte. Il mantello ha
una evidente funzione protettiva: ad esempio preserva le radici da situazioni di stress
idrico ed impedisce l’ingresso di patogeni. Le sue ife hanno inoltre funzione di deposito
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Figura 4 - Ectomicorriza di Amanita sp.
Fonte: Wikipedia
delle sostanze nutrienti.
Le ife del mantello a contatto con la radice penetrano nella stessa per formare il
cosiddetto reticolo di Hartig, dal biologo tedesco Robert Julius Hartig che lo descrisse
per la prima volta. In molte angiosperme il reticolo si sviluppa soltanto tra le cellule del
rizoderma; nelle conifere si sviluppa anche tra quelle della corteccia. In alcune piante,
come ad esempio in Pisonia grandis R. Br., il reticolo non si sviluppa delegando la sua
principale funzione, quella di interfaccia di scambio tra il fungo e la pianta, alla parte
interna del mantello.
Sempre dal mantello si sviluppa anche il cosiddetto micelio extra-radicale, che può
associarsi ad altre radici della stessa pianta o ad altre piante. Molto variabile nella
sua struttura, il micelio extra-radicale ha un ruolo fondamentale nella mobilitazione,
assorbimento e trasporto delle sostanze minerali e dell’acqua dal suolo verso la pianta.
In alcuni casi le ife del micelio extra-radicale penetrano nelle rocce sgretolandole. In altri
le ife sono associate a batteri, posizionati sulla loro superficie a cui aderiscono attraverso
uno speciale biofilm, capaci di degradare idrocarburi e altri inquinanti [Sarand et al.,
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1998].
A differenza di quanto avviene nelle micorrize arbuscolari, le radici colonizzate da funghi
ectomicorrizici subiscono profondi cambiamenti: la crescita apicale è inibita e la regione
apicale tende a biforcarsi ed assumere una forma coralloide.
La prima testimonianza di ectomicorrize si trova in fossili di pino rinvenuti nella Princepton
Chert nella British Columbia datati a 50 milioni di anni fa [LaPage et al., 1997].
Le ectendomicorrize e le micorrize arbutoidi
Come accennato, nelle ectomicorrize le ife dei funghi si limitano a diffondersi tra i tessuti
della pianta ospite senza penetrare nelle loro cellule. Esistono però delle eccezioni a
questa regola: le ectendomicorrize e le micorrize arbutoidi. In queste associazioni, le ife
del reticolo di Hartig penetrano nelle cellule della pianta ospite.
Le ectendomicorrize interessano esclusivamente i generi Pinus L. e Larix Mill. [Yu et al.,
2001]. I funghi coinvolti sono stati inizialmente isolati in coltura (E-strain fungi): soltanto
le moderne tecniche di biologia molecolare hanno permesso il loro riconoscimento. La
maggior parte degli isolati appartiene a due sole specie: Wilcoxina mikolae (Chin S. Yang
& H. E. Wilcox) Chin S. Yang & Korg e W. rehmii Chin S. Yang & Korg [Egger et al., 1991;
Egger, 1996].
Le micorrize arbutoidi sono formate da alcune ericacee: in particolare dalle piante dei
generi Arbutus L. (da cui il nome) e Arctostaphylos Adans. Molti funghi che formano
ectomicorrize sono capaci di formare anche questo tipo di associazione [Molina &
Trappe, 1982].
Strutturalmente le ectendomicorrize e le micorrize arbutoidi sono simili alle
ectomicorrize: nelle prime però le ife del reticolo di Hartig penetrano all’interno delle
cellule del rizoderma e della corteccia. Nelle micorrize arbutoidi la formazione di strutture
intracellulari è limitata alle cellule del rizoderma.
Anche in questo tipo di associazione si osservano le strutture tipiche delle ectomicorrize:
le ife fungine però penetrano nelle cellule del rizoderma.
La simbiosi come continuum
Prendendo a prestito una definizione della teoria dei giochi, la simbiosi micorrizica e
più in generale il mutualismo possono essere definiti una strategia “win-win”: ogni
specie coinvolta trae vantaggio dal rapporto instaurato. Da un punto di vista evolutivo
il mutualismo deve però essere inteso come uno sfruttamento reciproco che produce
benefici per tutte le specie coinvolte [Herre et al., 1999]. Il mutualismo sarebbe quindi,
in altre parole, un punto di equilibrio: nel nostro caso, tra lo sfruttamento della pianta da
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Figura 5 - La simbiosi come un continuum. Il mutualismo è il punto di equilibrio tra lo sfruttamento
reciproco dei partner coinvolti.
Modificata da Bronstain (1994)
parte del fungo e quello del fungo da parte della pianta [Bronstein, 1994; vedi figura 5].
Un equilibrio peraltro dinamico, visto che alcune piante possono comportarsi da partner
mutualistico o da parassita a seconda delle condizioni ambientali.
Se la condizione per cui un fungo sfrutta una pianta senza concedere niente in cambio è
ben nota alla maggior parte degli appassionati micologici, il viceversa lo è decisamente
meno. Il caso in cui è la pianta a sfruttare il fungo prende il nome di mico-eterotrofismo,
termine coniato nel 1994 da Jonathan Laeke.
Le origini delle nostre conoscenze su questa particolare condizione possono essere fatte
risalire al dibattito ottocentesco sullo status di possibile parassita dei faggi ipotizzato per
Hypopitys monotropa Crantz: una pianta priva di clorofilla. Un lavoro fondamentale a
proposito fu quello di Franz Kamienski che nel 1882 dimostrò che le radici di H. monotropa
erano connesse a quelle dei faggi tramite le ife di un fungo, fornendo quella che può
essere definita la prima ambigua descrizione di una micorriza.
L’impulso maggiore allo studio dello sfruttamento da parte delle piante dei funghi venne
con la scoperta della particolare biologia delle orchidee.
Le micorrize delle orchidee
La famiglia Orchidaceae Juss., con approssimativamente 450 generi ed oltre 20.000
specie, è sicuramente una delle famiglie più rappresentative dell’intero mondo vegetale.
Come noto i semi delle orchidee sono molto piccoli: un adattamento spinto per favorirne
la diffusione per mezzo del vento. Questi semi contengono un piccolo embrione
indifferenziato privo di radici e della regione di crescita contenente cellule meristematiche.
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Per germinare, mancando di sufficienti sostanze di riserva, i semi delle orchidee hanno
bisogno di essere colonizzati da funghi saprofiti appartenenti agli ordini Ceratobasidiales
Jülich, Tulasnellales Rea e Sebacinales M. Weiss, Selosse, Rexer, A. Urb. & Oberw. (per
un approfondimento sui funghi coinvolti e più in generale sulle micorrize delle orchidee
rimandiamo a Jacquemyn et al., 2017).
Le ife del fungo, venute a contatto con un seme, entrano nello stesso e formano
gomitoli all’interno delle sue cellule. Dopo essere stato colonizzato dalle ife fungine,
l’embrione forma una regione meristematica apicale e sviluppa in un corpo tuberoide
detto protocormo, proseguendo poi il suo sviluppo [Peterson et al., 1998]. A differenza
delle simbiosi micorriziche, il fungo cede alla pianta non soltanto sostanze minerali e
acqua, ma anche sostanze organiche, senza ricavarne niente in cambio. Una volta che
si sviluppano le radici, queste possono essere colonizzate da altri funghi. Cephalanthera
damasonium, ad esempio, forma micorrize con almeno undici diverse specie [Pecoraro
et al., 2017].
Alcune orchidee restano ipogee per più di una stagione o per l’intera fase vegetativa
del loro ciclo vitale. Queste orchidee dipendono quindi interamente dai funghi per il
loro sostentamento. Moltissime sviluppano invece normali organi fotosintetici. Questo
non significa però che rinuncino alla loro capacità di sfruttare il partner fungino:
Cephalanthera damasonium (Mill.) Druce e C. rubra (L.) Rich, ad esempio, continuano a
sfruttare i funghi che le hanno fatte germinare quando si trovano in condizioni di scarsa
luminosità [Preiss et al., 2010].
Il mico-eterotrofismo
Le orchidee sono un classico esempio di mico-eterotrofismo, in tutte le sue declinazioni.
Questa tipologia di associazione è stata recentemente oggetto di una monografia curata
nel 2013 da Vincent S. F. T. Merckx (per un primo approccio rimando a Merckx et al.,
2009).
Le piante coinvolte sono circa 23.000: di queste circa 510 dipendono esclusivamente dai
funghi per il loro sostentamento (mico-eterotrofismo completo). Altre, come abbiamo
visto per le orchidee, dipendono dai funghi soltanto durante i primi stadi di sviluppo
(mico-eterotrofismo iniziale); altre ancora, come le citate Cephalanthera, combinano la
capacità fotosintetica con il mico-eterotrofismo [Merckx et al., 2013].
Alcune piante sfruttano funghi saprofiti, altre funghi micorrizici. Le strutture di interazione
tra pianta e fungo variano notevolmente [Imhof et al., 2013]. Monotropa uniflora L.,
ad esempio, manifesta una stretta affinità con le russulacee [Bidartondo, 2005; Yang &
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Figura 6 - Monotropa uniflora L.: il "fiore fantasma". Questa pianta priva di clorofilla, diffusa
principalmente nelle regioni temperate del Nord e del Sud America, sfrutta funghi dei generi
Russula Pers. e Lactarius Pers. per ottenere le sostanze nutrienti di cui ha bisogno per il suo
sviluppo.
Foto: S. Ross - Fonte: Wikipedia
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A. Pierotti: Il mico-eterotrofismo: quando le piante parassitano i funghi.
Pfister, 2006; Kong et al., 2015].
Le piante mico-eterotrofe, chiamate in passato epi-parassite (si veda, ad esempio,
Björkman, 1960), non devono essere confuse con le piante parassite: queste ultime
ottengono le sostanze nutrienti direttamente da altre piante, senza l’intermediazione
dei funghi [Heide-Jørgensen, 2008]. Il mico-eterotrofismo e il parassitismo, così come
l’autotrofia, sono linee evolutive distinte. Ovviamente si osserva un certo grado
di convergenza morfologica tra le piante completamente mico-eterotrofe e quelle
parassite, come, ad esempio, le foglie estremamente ridotte, la completa o quasi assenza
di clorofilla e la produzione di un numero enorme di semi.
Ringraziamenti
L'Autore ringrazia Marco Bianchi per le foto concesse.
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