Etica Nicomachea
Etica Nicomachea
Aristotele
Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
Libro VI
Libro VII
Libro VIII
Libro IX
Etica Nicomachea
Libro X
A cura della prof.ssa Maria Elena Auxilia
auxilia.m@libero.it
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO I
1. [Il bene è lo scopo].
[1094a] Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente, ogni azione
realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è "ciò cui ogni
cosa tende" 1 . Ma tra i fini c’ un’evidente differenza: alcuni infatti sono attività, altri sono opere che da esse
derivano.
[5] Quando ci sono dei fini al di là delle azioni, le opere sono per natura di maggior valore delle
attività. E poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini: infatti, mentre della
medicina il fine è la salute, dell’arte di costruire navi il fine è la nave, della strategia la vittoria,
dell’economia la ricchezza.
[10] Tutte le attività di questo tipo sono subordinate ad un’unica, determinata
capacità: come la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i cavalli è
subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogni azione militare sono subordinate alla strategia, così allo
stesso modo, altre attività sono subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività
architettoniche
[15] sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime infatti sono
perseguiti in vista di quei primi. E non c’ alcuna differenza se i fini delle azioni sono le attività in sé, oppure
qualche altra cosa al di là di esse, come nel caso delle scienze suddette.
2. [Il bene per l’uomo è l’oggetto della politica].
Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per se stesso, mentre vogliamo tutti gli
altri in funzione di quello, e se noi non
[20] scegliamo ogni cosa in vista di un’altra (così infatti si
procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità), è evidente
che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo. E non è forse vero che anche per la vita la
conoscenza del bene ha un grande peso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in
grado di raggiungere ciò che dobbiamo? Se è
[25] così, bisogna cercare di determinare, almeno in abbozzo,
che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o delle capacità sia l’oggetto. Si ammetterà che appartiene
alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonica in massimo grado. Tale è, manifestamente, la
politica. Infatti, è questa che stabilisce quali scienze è necessario coltivare nelle città,
[1094b]
ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto; e vediamo che anche le più apprezzate
capacità, come, per esempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono subordinate ad essa. E poiché è essa
che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce,
[5] inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali
azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo.
Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande
e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del
bene di un solo individuo,
[10] ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra
ricerca mira appunto a questo, dal momento che è una ricerca "politica".
e quali
3. [Limiti metodologici della scienza politica].
La trattazione sarà adeguata, se avrà tutta la chiarezza compatibile con la materia che ne è l’oggetto: non
bisogna infatti ricercare la medesima precisione in tutte le opere di pensiero, così come non si deve
ricercarla in tutte le opere manuali. Il moralmente bello e il giusto,
[15] su cui verte la politica, presentano
tante differenze e fluttuazioni, che è diffusa l’opinione che essi esistano solo per convenzione, e non per
natura. Una tale fluttuazione hanno anche i beni, per il fatto che per molta gente essi vengono ad essere
causa di danno: infatti, è già capitato che alcuni siano stati rovinati dalla ricchezza, altri dal coraggio.
Bisogna contentarsi, quando si parla di tali argomenti
[20] con tali premesse, di mostrare la verità in
maniera grossolana e approssimativa, e, quando si parla di cose solo per lo più costanti e si parte da
2 . Allo stesso modo, quindi, è necessario
premesse dello stesso genere, di trarne conclusioni dello stesso tipo
che sia accolto ciascuno dei concetti qui espressi: è proprio dell’uomo colto, infatti, richiedere in ciascun
campo tanta precisione
[25] quanta ne permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe
pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere
dimostrazioni da un oratore. Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di questo è buon giudice.
[1095a] Dunque, in ciascun campo giudica adeguatamente chi ha una preparazione specifica, ma è buon
giudice in generale chi ha una preparazione globale. Perciò il giovane non è uditore adatto di una trattazione
politica, giacché egli non ha esperienza delle azioni concretamente vissute, mentre è da queste che partono
ed è su queste che vertono i presenti ragionamenti. Inoltre, essendo incline alle passioni, egli
[5] ascolterà
invano, cioè senza trarne giovamento, poiché il fine qui non è la conoscenza ma l’azione. Non fa alcuna
differenza se egli è giovane per età o simile ad un giovane per carattere: la insufficienza non deriva dal
tempo, ma dal vivere assecondando la passione e dal lasciarsi trascinare da qualsiasi tipo di attrazione. Per
uomini simili la conoscenza risulta inutile, come per gli incontinenti;
[10] per coloro invece che configurano
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razionalmente i propri desideri e le proprie azioni, la conoscenza di queste cose potrà essere ricca di
vantaggi. Si consideri come introduzione ciò che abbiamo detto sull’uditore, sul come deve essere accolto
ciò che diremo e su ciò che ci proponiamo di dire.
4. [Il fine della politica è la felicità].
Riprendendo il discorso, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta
[15] aspirano ad un bene, diciamo ora che
cos’, secondo noi, ciò cui tende la politica, cioè qual è il più alto di tutti i beni raggiungibili mediante
l’azione. Orbene, quanto al nome la maggioranza degli uomini è pressoché d’accordo: sia la massa sia le
persone distinte lo chiamano "felicità", e ritengono che "viver bene" e "riuscire" esprimano la stessa cosa
[20] che "essere felici". Ma su che cosa sia la felicità sono in disaccordo, e la massa non la definisce allo
stesso modo dei sapienti. Infatti, alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, come piacere o
ricchezza o onore, altri altra cosa; anzi spesso è il medesimo uomo che l’intende diversamente: quando è
ammalato, infatti, l’intende come salute; come ricchezza quando si trova povero.
[25] Ma coloro che sono
consapevoli della propria ignoranza ammirano quelli che fanno discorsi elevati ed a loro superiori. Alcuni
poi, ritengono che oltre a questi molteplici beni ne esista un altro, il Bene in sé, che è pure la causa per cui
tutti questi beni sono tali. Orbene, esaminare tutte le opinioni sarebbe, certo, piuttosto inutile; sarà
sufficiente esaminare
[30] quelle prevalenti o quelle che comunemente si ritiene che presentino qualche
4 . E non ci sfugga che c’ differenza tra i ragionamenti che partono dai principi e quelli che
particolare aporia
5 faceva bene a porre questa questione e a cercar di capire se la
ad essi conducono. In effetti, anche Platone
strada parte dai principi o ad essi conduce, come nello
[1095b] stadio se il percorso va dai giudici di gara
fino alla meta, oppure viceversa. Bisogna infatti cominciare da ciò che è noto. Ma "noto" si dice in due sensi:
ciò che è noto a noi e ciò che è noto in senso assoluto. Orbene, senza dubbio, noi dobbiamo cominciare da
ciò che è noto a noi. Perciò occorre che sia stato rettamente educato, mediante adeguate abitudini, colui
che intende ascoltare con profitto lezioni sul moralmente bello e sul giusto, cioè, in breve, sull’oggetto della
politica. Infatti, il punto di partenza è il dato di fatto, e, se questo è messo in luce con sufficiente chiarezza,
non ci sarà alcun bisogno del perché: chi è moralmente educato possiede i principi o li può afferrare
facilmente. Ma chi non li possiede, né può afferrarli, ascolti le parole di Esiodo:
[10]
"L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé;
buono è pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia:
ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altro
6.
sa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla"
5. [I tre principali tipi di vita].
Ma riprendiamo dal punto in cui abbiamo iniziato la digressione. Infatti,
[15] si pensa, non a torto, che gli
uomini ricavino dal loro modo di vivere la loro concezione del bene e della felicità. Gli uomini della massa, i
più rozzi, l’identificano con il piacere e per questo amano la vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali
tipi di vita: quello or ora menzionato, la vita politica, e, terzo, la vita contemplativa. Orbene, gli uomini della
massa [20] si rivelano veri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie, e pur capita che se ne parli per
7 . Le persone distinte e
il fatto che molti individui altolocati hanno le stesse passioni di Sardanapalo
predisposte all’azione pongono il bene nell’onore: questo infatti, più o meno, è il fine della vita politica. Ma
questo è evidentemente qualcosa di troppo superficiale rispetto a ciò che stiamo cercando: si riconosce
infatti [25] che esso stia più in chi onora che in chi è onorato, mentre il bene, lo presentiamo, è qualcosa di
intimamente proprio e di inalienabile. Inoltre, sembra che gli uomini aspirino all’onore per poter credere di
essere essi stessi buoni: di fatto, cercano di essere onorati da uomini di senno, e da uomini da cui sono
conosciuti, e in grazia della virtù: è dunque evidente che, almeno per loro,
[30] la virtù è superiore; e si
farebbe presto a pensare che è piuttosto la virtù il fine della vita politica. Ma anch’essa è troppo imperfetta:
si ammette, infatti, che sia possibile che chi possiede la virtù si trovi in stato di sonno o di inattività per
tutta la vita, e che per giunta patisca
[1096a] i più grandi mali e le più grandi disgrazie: ma nessuno
chiamerebbe felice uno che vivesse in questo modo, se non per difendere, ad ogni costo la propria tesi. E su
8 . [5] Il terzo tipo di vita è
questo argomento basta: se ne è parlato abbastanza nelle trattazioni correnti
quello contemplativo, sul quale svolgeremo la nostra indagine in seguito. La vita dedicata alla ricerca del
guadagno, poi, è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa,
infatti, ha valore solo in quanto "utile", cioè in funzione di altro.
Perciò sarà meglio considerare come beni quelli menzionati prima, giacché sono amati per se stessi. Ma è
manifesto che non sono fini ultimi neppure quelli: per la verità, molte argomentazioni
[10] sono già state
diffuse contro di loro. Lasciamo perdere, dunque, questi fini.
6. [Critica della concezione platonica del bene].
Forse è meglio fare oggetto d’indagine il bene universale e discutere a fondo quale significato abbia, anche
se tale ricerca è sgradevole per il fatto che sono amici nostri gli uomini che hanno introdotto la dottrina delle
Idee. Ma si può certamente ritenere più opportuno, anzi doveroso, almeno per la salvaguardia della
verità, lasciar perdere i sentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti, pur essendoci cari
entrambi, è sacro dovere onorare di più la verità. (1) Coloro che hanno introdotto questa dottrina non
[15]
3,
[5]
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ponevano Idee nelle cose in cui ponevano il rapporto di successione, ragion per cui non costruirono un’Idea
neppure dei numeri. Ma il termine "bene" si usa sia
[20] nel senso della sostanza, sia in quello della qualità,
sia in quello della relazione, e ciò che è per sé, cioè la sostanza, è per natura anteriore a ciò che è relativo
(infatti questo è ritenuto accessorio e accidentale rispetto all’essere per sé); cosicché non ci potrà essere
alcuna "Idea" comune a queste categorie. (2) Inoltre, poiché "bene" ha tanti significati quanti ne ha
"essere" 9 (infatti, si predica nella categoria della sostanza, come, per esempio, Dio
[25] e intelletto; in
quella della qualità: le virtù; in quella della quantità: la misura; in quella della relazione: l’utile; in quella del
tempo: il momento opportuno; in quella del luogo: l’ambiente adatto; e così via), è chiaro che non può
essere un che di comune, universale ed uno: non sarebbe, infatti, predicabile in tutte le categorie, ma solo
in una. (3) Inoltre, poiché di ciò che è
[30] conforme ad una sola Idea una sola è anche la scienza, anche di
tutti i beni vi dovrebbe essere una scienza sola; ora, invece, anche delle cose che sono sussumibili sotto una
sola categoria vi sono molte scienze: per esempio, scienza del momento opportuno in guerra è la strategia,
nella malattia è la medicina, e scienza della giusta misura in fatto di alimentazione è la medicina, in fatto di
[35] mai essi vogliano dire con
esercizi fisici è la ginnastica. (4) Si potrebbe porre la questione di che cosa
"cosa in sé", dal momento che in "uomo in sé"
[1096b] e in "uomo" uno e identico è il significato, quello di
uomo. Infatti, in quanto entrambe le espressioni indicano l’uomo, non c’ alcuna differenza tra di loro: se è
così, non ci sarà differenza neppure nel caso del bene. (5) Ma neppure per il fatto di essere eterno il "Bene
in sé" sarà certo più bene, se è vero che neppure il bianco che dura a lungo è più bianco di quello che dura
[5] un sol giorno. In modo più persuasivo sembrano esprimersi sul bene i Pitagorici, che pongono nella lista
11 . Ma a questi
dei beni l’uno 10 : per conseguenza, si ritiene che siano loro quelli che segue anche Speusippo
12 . (6) Un’obiezione, poi, alle cose dette sorge dal fatto che i
argomenti si dedicherà un’altra trattazione
ragionamenti espressi dai Platonici non riguardano ogni bene,
[10] bensì i beni di una sola specie, quelli che
sono perseguiti e amati per se stessi, mentre quelli che li producono o in qualche modo li custodiscono
ovvero li preservano dai contrari, sono chiamati beni a causa di questi, e in un senso secondario. È dunque
chiaro che si può parlare di beni in due sensi diversi: da una parte i beni per se stessi, dall’altra quelli che
sono beni sul fondamento dei precedenti. Dopo aver distinto,
[15] dunque, dai beni strumentali i beni per
sé, cerchiamo di scoprire se questi ultimi vengono chiamati beni perché sono conformi ad una sola Idea.
Con quali determinazioni bisognerà porre i beni per sé? Forse sono tali tutte quelle cose che sono perseguite
anche da sole, come l’aver senno e il vedere, e certi piaceri e certi onori? Questi infatti anche se li
perseguiamo in vista di qualcos’altro, tuttavia si potrebbero porre tra i beni per sé. Oppure non
[20] vi
possiamo porre nient’altro se non l’Idea? In tal caso la Forma sarà vuota. Ma se invece anche queste cose
appartengono ai beni in sé, la definizione di bene dovrà rivelarsi identica in tutte loro, come la definizione di
bianco nella neve e nella biacca. Eppure dell’onore, della saggezza e del piacere le definizioni sono diverse e
differenti proprio in quanto sono beni.
[25] Dunque il bene non sarà qualcosa di comune in conformità con
una sola Idea. Ma allora in che senso si predica? Infatti non sembra appartenere alle cose che, per caso,
13 . Ma forse i beni hanno lo stesso nome in quanto derivano da una sola realtà o
almeno, sono omonime
perché tendono ad un unico bene, o piuttosto per analogia? Come infatti la vista è bene nel corpo, così
l’intelletto è bene nell’anima, e un’altra cosa è bene in un’altra realtà.
[30] Ma forse è meglio lasciar da
parte questo problema per ora, giacché il suo esame rigoroso è più appropriato ad un’altra parte della
filosofia 14 . Lo stesso vale anche per l’Idea del bene: se pure infatti il bene predicato in comune fosse una
realtà unica o qualcosa che esiste separatamente di per sé, è chiaro che l’uomo non potrebbe né realizzarlo
nell’azione né acquisirlo: ma ora
[35] si sta cercando proprio questo tipo di bene. Forse si potrebbe opinare
che sia meglio conoscere
[1097a] il Bene in sé proprio in funzione dei beni che possono essere acquisiti e
realizzati nell’azione: infatti, tenendo questo come modello, conosceremo meglio anche i beni per noi, e se li
conosceremo, li conseguiremo. Questo argomento ha certo una qualche plausibilità, ma sembra essere in
dissonanza con il comportamento delle scienze:
[5] infatti, pur tendendo tutte ad un qualche bene e pur
cercando ciò che ad esse manca, tralasciano la conoscenza del Bene in sé. Eppure non è ragionevole che
tutti coloro che esercitano un’arte ignorino e non ricerchino un simile sussidio. D’altra parte è difficile vedere
anche quale giovamento possa un tessitore o un carpentiere trarre per la propria arte dalla conoscenza di
questo Bene in sé,
[10] o come potrà diventare migliore medico o generale migliore chi avrà contemplato
l’Idea in se stessa. È manifesto, infatti, che il medico non ha di mira la salute in sé, bensì quella dell’uomo,
anzi, meglio, la salute di un uomo determinato, giacché è l’individuo che egli cura. E su questo argomento
basti quanto si è detto fin qui.
7. [La felicità sta nell’esercizio della funzione specifica dell’uomo: la razionalità].
[15] Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos’? È manifesto, infatti, che esso è
diverso in un’azione e in un’arte diversa: è diverso nella medicina e nella strategia, come pure nelle altre
arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in
medicina è la salute, in strategia
[20] la vittoria, in architettura la casa, una cosa in un’arte, un’altra in
un’altra arte, ma in ogni azione e in ogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto.
Cosicché, se c’ una cosa che è il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile
praticamente; se vi sono più fini, saranno essi il bene.
Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto:
[25] ma dobbiamo cercare di
chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi ne scegliamo alcuni in vista di
altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il
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Bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è
perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando,
[30] ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta
di esse. Diciamo, poi, "più perfetto" ciò che è perseguito per se stesso in confronto con ciò che è perseguito
per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per se
stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro.
Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità,
[1097b] perché la scegliamo sempre per se
stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se
stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma li scegliamo
anche in vista della felicità,
[5] perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece,
nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro.
È manifesto che anche partendo dal punto di vista dell’autosufficienza si giunge allo stesso risultato: si
ritiene infatti che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione ad un
individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce una vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori,
[10]
ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un
essere che vive in comunità. A queste persone poi deve essere posto un limite. Se si estende questa
considerazione agli antenati e ai discendenti e agli amici degli amici, si procede all’infinito. Ma questo va
considerato in seguito. Per ora definiamo l’autosufficienza come ciò che, anche preso singolarmente,
[15]
rende la vita degna di essere scelta, senza che le manchi alcunché. Di tale natura noi pensiamo che sia la
felicità. Inoltre pensiamo che la felicità sia il più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte (se fosse
così, è chiaro che sarebbe più degna di scelta solo insieme con un altro bene, anche il più piccolo); infatti,
quello che le fosse aggiunto sarebbe un sovrappiù di bene, e di due beni quello più grande è sempre più
degno di scelta.
[20] Per conseguenza la felicità è, manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente,
in quanto è il fine delle azioni da noi compiute.
Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’ completo
accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si
riuscirebbe se si cogliesse la funzione
[25] dell’uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per
chiunque eserciti un’arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un
determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così
si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’ una sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono
funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio,
[30] mentre non ce n’ alcuna propria dell’uomo,
ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’, manifestamente, una funzione determinata
dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve
ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere
questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò
che è proprio dell’uomo.
[1098a] Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita.
Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni
altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e
di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra
[5] lo è in quanto possiede
la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché
è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività
secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell’ambito di un genere è identica la
funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e
[10] del citaredo di valore,
questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza
dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è
così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e
le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo di valore attuarle bene
[15] e
15 ; se è
perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria)
così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una,
secondo la migliore e la più perfetta.
Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così
[20] un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice. Il bene, dunque, resti delineato in questo
modo: è certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in seguito, svilupparlo. Si può ritenere
che chiunque è in grado di portare avanti e di delineare nei particolari gli elementi che si trovano bene
impostati nell’abbozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto; di qui sono derivati
anche [25] i progressi delle arti: chiunque infatti può aggiungere ciò che manca. Bisogna ricordarsi anche di
quello che si è già detto, cioè di non cercare la precisione allo stesso modo in tutte le cose, ma di cercarla in
ciascun caso particolare secondo la materia che ne è il soggetto e per quel tanto che è proprio di quella
determinata ricerca. Infatti, il falegname e il geometra
[30] ricercano entrambi l’angolo retto, ma in maniera
diversa: il primo lo ricerca per quel tanto che è utile alla sua opera, il secondo ne ricerca l’essenza o la
differenza specifica, poiché è un uomo che contempla la verità. Alla stessa maniera bisogna procedere
anche negli altri casi, affinché gli elementi accessori non soverchino l’opera principale. E non bisogna
ricercare [1098b] la causa in tutte le cose in modo uguale, ma in alcune è sufficiente che venga messo
adeguatamente in luce il fatto, come, per esempio, anche nel caso dei principi: il dato di fatto è un che di
originario, cioè è un principio. Alcuni dei principi si giunge a vederli per induzione, altri per sensazione, altri
mediante una specie di abitudine, altri ancora diversamente.
[5] Bisogna, dunque, sforzarsi di tener dietro a
ciascun tipo di principio in conformità con la sua natura, e impegnarsi a definirlo adeguatamente. I principi,
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infatti, hanno un gran peso sugli sviluppi successivi: si ammette comunemente che il principio costituisce
più che la metà del tutto, cioè che per suo mezzo diventano chiare molte delle cose che si vanno cercando.
8. [La felicità implica, oltre alla virtù, anche beni esteriori].
Dobbiamo dunque indagare sul principio non solo sulla base di una conclusione logica
[10] dedotta da
premesse, bensì partendo anche da ciò che su di esso comunemente si dice: tutti i fatti sono in armonia con
la verità, e la verità mostra presto la sua discordanza col falso. Poiché i beni sono stati divisi in tre gruppi, e
poiché gli uni sono stati chiamati beni esteriori, gli altri beni dell’anima e beni del corpo, noi affermiamo che
quelli dell’anima sono beni nel senso più proprio
[15] e nel grado più elevato, poniamo tra i beni dell’anima
le sue specifiche azioni e attività. Perciò la nostra affermazione sarà giusta, almeno se si segue questa
opinione, che è antica ed ha ricevuto il consenso dei filosofi. Ed è corretto anche dire che il fine è costituito
da certe azioni e attività, poiché così esso viene a trovarsi tra i beni dell’anima
[20] e non tra quelli
esteriori. S’accorda poi con la nostra definizione l’opinione che l’uomo felice è quello che vive bene ed ha
successo: infatti la felicità è stata definita, pressappoco, come una specie di vita buona e di successo. È
manifesto che gli elementi della felicità di cui si va in cerca si ritrovano tutti in quanto abbiamo detto.
Infatti, alcuni ritengono che la felicità consista nella virtù, altri nella saggezza, altri in un certo tipo di
sapienza;
[25] per altri, poi, essa è o tutte queste cose insieme o una di queste in unione col piacere, o
comunque non senza piacere; altri, infine, vi aggiungono anche la disponibilità di beni esteriori. Di alcune di
queste opinioni ci sono sostenitori numerosi e antichi, di altre pochi ma famosi: è ragionevole pensare che
né gli uni né gli altri siano completamente in errore, ma che essi colgano nel segno almeno in un punto, o
anche nella maggior parte dei punti.
[30] La nostra definizione dunque è in accordo con coloro che
identificano la felicità con la virtù o con una virtù particolare, poiché l’attività secondo virtù è propria di una
determinata virtù. Certo non è piccola la differenza se si pensa che il sommo bene consista in un possesso
oppure in un uso, cioè in una disposizione oppure in una attività. Può essere, infatti, che la disposizione ci
sia, [1099a] ma non compia alcun bene, come in chi dorme o in qualche altro modo è inattivo; ma per
l’attività ciò non è possibile, giacché essa necessariamente agirà ed avrà successo. Come nelle Olimpiadi
non sono i più belli e i più forti ad essere incoronati,
[5] ma quelli che partecipano alle gare (infatti i vincitori
sono tra questi), così nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello e buono coloro che agiscono. La loro
vita poi è per se stessa piacevole. Infatti il godere è proprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui
si dice che è amante: per esempio, un cavallo per l’amante dei cavalli, uno spettacolo
[10] per l’amante
degli spettacoli; allo stesso modo le cose giuste per l’amante della giustizia, e, in genere, le azioni conformi
alla virtù per l’amante della virtù. Insomma, per la massa degli uomini le cose piacevoli sono in conflitto
perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli le cose che per natura sono
[15] per se
piacevoli: tali sono le azioni secondo virtù, cosicché esse sono piacevoli sia per questi uomini sia
stesse. La vita di costoro, dunque, non ha bisogno del piacere come di qualcosa di accessorio, ma ha il
piacere in se stessa. Oltre a quanto s’ detto, infatti, non è buono chi non compie con piacere le azioni
buone: infatti nessuno direbbe giusto chi non compie con piacere azioni giuste, né liberale
[20] chi non
compie con piacere azioni liberali: lo stesso vale per le altre azioni buone. E se è così, le azioni secondo virtù
saranno piacevoli per se stesse. Ma saranno di certo anche buone e belle, e in massimo grado piacevoli
16 .
buone e belle, se è vero che giudica bene di loro l’uomo di valore: ed egli giudica come abbiamo detto
Dunque, la felicità è insieme la cosa più buona, la più bella e la più piacevole,
[25] qualità queste, che non
devono essere separate come fa l’iscrizione di Delo:
"La cosa più bella è la più grande giustizia;
la cosa più buona è la salute;
ma la cosa per natura più piacevole è raggiungere ciò che si desidera".
Infatti, tutte queste qualità appartengono alle migliori attività: e queste,
[30] o una sola tra loro, la
migliore, noi diciamo essere la felicità. È manifesto tuttavia che essa ha bisogno, in più, dei beni esteriori,
come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si è privi di risorse
materiali. Infatti, molte azioni si compiono
[1099b] per mezzo degli amici, della ricchezza, del potere
politico, come per mezzo di strumenti. E coloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la
felicità: per esempio, se mancano di nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto
felice chi è affatto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza figli;
[5] e certo lo è meno
ancora chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire. Come
dunque abbiamo detto, la felicità sembra aver bisogno anche di una simile prosperità esteriore; ragion per
17 , mentre altri l’identificano con la virtù.
cui alcuni identificano la felicità con la fortuna
9. [Come si acquista la felicità?].
Di qui nasce anche la questione se la felicità si acquista mediante studio o per consuetudine, o
qualche altro tipo di esercizio, ovvero derivi da un dono divino o addirittura dal caso. Se dunque c’ qualche
altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più
che essa è il più grande dei beni umani. Ma questo potrà essere argomento più appropriato di un’altra
ricerca; d’altra parte è manifesto che, se
[15] anche non è un dono inviato dagli dèi ma nasce dalla virtù e
da un certo tipo di apprendimento o di esercizio, la felicità appartiene alle realtà più divine, giacché il premio
ed il fine della virtù è, manifestamente, un bene altissimo, cioè una realtà divina e beata. E si può dire che
[10] con
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I
sia accessibile a molti: infatti, con un po’ di studio e di applicazione, può appartenere a tutti coloro che non
siano costituzionalmente inabili alla virtù.
[20] Se è meglio essere felici in questo modo piuttosto che per
caso, è ragionevole ammettere che (se è vero, come è vero, che le realtà secondo natura ricevono dalla
natura stessa la maggior bellezza possibile) è così anche per le opere dell’arte e di ogni altra causa, e tanto
più quanto migliore è la causa. Abbandonare al caso la cosa più grande e più bella sarebbe troppo
sconveniente.
[25] Ciò che andiamo cercando risulta chiaro anche dalla nostra definizione di felicità: si è
detto 18 infatti che essa è un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù. Di tutti gli altri beni alcuni le
appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti. E
19 : abbiamo infatti posto come
questo sarebbe in accordo anche con quello che abbiamo detto all’inizio
sommo bene il fine della scienza politica, ed essa pone la sua massima cura nel formare in un certo modo i
cittadini, cioè nel renderli buoni e impegnati a compere azioni belle. È naturale, dunque, che non diciamo
felice né un bue né un cavallo né alcun altro animale: nessuno di loro, infatti, è
[1100a] in grado di aver
parte in una attività simile. E per questa ragione neppure un bambino è felice, giacché non può ancora
compiere nessuna di queste azioni a causa dell’età; e i bambini che chiamiamo felici sono tali nella
20 , richiede virtù perfetta
speranza. La felicità, infatti, come abbiamo detto
[5] e vita compiuta, giacché nel
corso della vita si verificano molti cambiamenti e casi d’ogni genere, e può succedere che chi gode della
massima prosperità precipiti in grandi disgrazie nella vecchiaia, come si racconta di Priamo nei poemi
troiani: ma chi è stato vittima di simili sventure ed è morto miserevolmente, nessuno può chiamarlo felice.
[30]
10. [La virtù autentica, e quindi la felicità, dura fino alla morte].
[10] Dunque non potrà essere chiamato felice neppure un altro uomo, finché vive, e si dovrà attendere di
21 ? E se anche si deve accettare questa posizione, forse che un uomo
vederne la fine, come vuole Solone
sarà felice solo quando sarà morto? O non è questa affermazione affatto assurda, soprattutto per noi che
diciamo che la felicità è un’attività? E se, d’altra parte, non diciamo che è
[15] felice chi è morto, e se non è
questo che Solone vuol dire, ma che si può con sicurezza ritenere felice un uomo solo quando egli è ormai
fuori dai mali e dalle disgrazie, anche questa posizione presenta un motivo di discussione. È infatti opinione
corrente che anche per il morto ci siano male e bene, come per il vivo che non
[20] ne abbia coscienza: per
esempio, onore e disonore e successi e disgrazie dei figli ed in genere dei discendenti. Ma anche questo
porta con sé una difficoltà: a chi è vissuto felicemente fino alla vecchiaia ed è altrettanto felicemente morto
possono ancora capitare molti cambiamenti relativi ai discendenti, alcuni dei quali possono
[25] essere
buoni ed avere in sorte la vita che così si meritano, ad altri invece può succedere il contrario. È chiaro che i
discendenti, nel susseguirsi delle generazioni, possono anche essere quanto mai diversi rispetto ai
progenitori. Certo sarebbe assurdo che cambiasse insieme con loro anche il morto e divenisse ora felice, ed
ora di nuovo miserevole; ma assurdo sarebbe anche
[30] che la sorte dei discendenti non toccasse mai,
neppure per un istante, i progenitori. Ma dobbiamo ritornare al problema precedente: infatti, sulla base
della sua risoluzione si potrà mettere in luce anche quello che stiamo cercando ora. Se dunque si deve
aspettare di vederne la fine e se solo allora si può dichiarare beato un uomo (non perché lo sia in quel
momento, ma perché lo era prima), come può non essere assurdo se, quando è felice,
[35] non gli si può
attribuire con verità ciò che gli compete, per il fatto che non
[1100b] si vuol chiamare beati coloro che sono
ancora in vita a causa di possibili cambiamenti di situazione, cioè per il fatto che si pensa la felicità come
qualcosa di stabile e per niente facile a mutare, mentre le vicende della vita spesso girano come una ruota
intorno agli uomini? È chiaro infatti che, se noi seguiamo
[5] le vicende della sorte, dovremo chiamare la
stessa persona ora felice ed ora infelice, più volte, facendo dell’uomo felice una specie di camaleonte e
basato su fondamenta marce. O non è forse un procedimento per niente corretto quello di tener dietro alle
vicende della sorte? Infatti, non è in esse che stanno il bene e il male, ma la vita umana ha bisogno di
22 , solo in via accessoria,
questi apporti, come abbiamo detto
[10] mentre essenziali per la felicità sono le
attività conformi a virtù, e decisive per l’infelicità sono le attività contrarie alla virtù. Testimonia, poi, a
favore della nostra definizione anche la difficoltà ora affrontata. Infatti, a nessuna delle funzioni umane
appartiene la stabilità tanto quanto alle attività conformi a virtù si ritiene infatti che esse siano più
persistenti persino delle scienze;
[15] e di queste stesse quelle più pregevoli sono più stabili, per il fatto che
le persone felici continuano a vivere in esse di preferenza e con la massima costanza. Questa, infatti,
sembra essere la causa del fatto che della virtù non c’ oblio. La qualità cercata apparterrà dunque all’uomo
felice, e questi sarà tale per tutta la vita, giacché sempre, o la maggior parte delle volte, egli farà o
contemplerà
[20] ciò che è conforme a virtù, sopporterà le vicende della sorte nel modo migliore, ed in ogni
caso con la massima dignità, almeno chi è veramente buono, tetragono e senza fallo. Poiché molte cose
avvengono per caso e differiscono per grandezza e piccolezza, i piccoli avvenimenti, sia quelli felici sia quelli
disgraziati, è chiaro che non hanno
[25] gran peso per la vita, mentre quelli grandi e numerosi, se sono
favorevoli, renderanno la vita più felice (giacché per loro natura ne costituiscono un ornamento, ed il fruirne
è cosa bella e di valore); se invece sono avversi angustiano e distruggono la beatitudine, giacché portano
con sé sofferenze ed ostacolano molte attività.
[30] Tuttavia anche in questi riluce la nobiltà, quando si
sopportino di buon animo molte e grandi disgrazie, non già per insensibilità, ma perché si è generosi e
23 , nessun uomo
magnanimi. D’altra parte, se sono le attività che determinano la vita, come abbiamo detto
felice ha l’eventualità di diventare miserevole,
[35] giacché egli non compirà mai azioni odiose e vili.
[1101a] Noi pensiamo, infatti, che l’uomo veramente buono e saggio sopporta dignitosamente tutte le
vicende della sorte e tra le azioni che gli si prospettano compie sempre quelle più belle, come anche il buon
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I
generale usa l’esercito di cui dispone nel modo più efficace in guerra, e il buon calzolaio col cuoio che gli
viene dato
[5] produce la calzatura più bella e allo stesso modo si comportano tutti gli altri artigiani. Ma se è
così, l’uomo felice non potrà mai diventare miserevole, ma certo non potrà neppure essere pienamente
felice se precipiterà in disgrazie simili a quelle di Priamo. E non sarà certo capriccioso e volubile: infatti, non
si lascerà smuovere dalla felicità facilmente,
[10] né da disavventure qualsiasi, ma da disgrazie grandi e
numerose, tali per cui non può recuperare la felicità in breve tempo, ma, se mai, al compimento di un lungo
periodo di tempo, durante il quale abbia ottenuto grandi successi. Che cosa dunque impedisce di definire
felice chi è attivo secondo perfetta virtù
[15] ed è sufficientemente provvisto di beni esteriori, e ciò non
occasionalmente e temporaneamente, ma per tutta una vita? O non bisogna forse aggiungere anche "chi
vivrà e morirà in modo corrispondente", dal momento che il futuro ci è nascosto, e che noi affermiamo che
la felicità è un fine, e un fine sotto ogni aspetto assolutamente compiuto? Se è così, definiremo beati
quelli tra i viventi che sono e continueranno ad essere in possesso dei requisiti indicati; beati, s’intende,
come possono esserlo gli uomini. A questo punto si consideri conclusa la nostra trattazione di questi
argomenti.
[20]
11. [Il defunto non è toccato, sostanzialmente, né dal bene né dal male dei discendenti].
Che poi le sorti dei discendenti e di tutti gli amici non importino per nulla è, manifestamente, affermazione
troppo estranea all’amicizia e contraria alle opinioni correnti. Ma poiché gli eventi sono molti e presentano
differenze di ogni tipo,
[25] e poiché alcuni ci toccano più da vicino, altri meno, sarebbe manifestamente
troppo lungo, anzi interminabile, analizzarli singolarmente, mentre può ben essere sufficiente quanto è stato
detto in generale e schematicamente. Se, dunque, come delle sventure che ci colpiscono direttamente
alcune hanno qualche peso e influenza sulla nostra vita,
[30] mentre altre sembrano più leggere, così, allo
stesso modo, avviene per quelle che colpiscono tutti gli amici; e se la differenza tra una sventura che capiti
a persone vive e una sventura che riguardi defunti è molto più grande di quella che c’ nelle tragedie tra le
azioni delittuose e terribili che ne costituiscono l’antefatto e quelle che vengono compiute sulla scena,
bisognerà allora tener conto anche di questa differenza, e, certo ancor più,
[35] del problema se i morti
partecipino di qualche bene o di qualche male, oppure no.
[1101b] Da quanto abbiamo detto, infatti,
sembra derivare che, se qualcosa giunge a riguardare ancora i morti, bene o male che sia, si tratta di
qualche debole o piccola cosa, sia in senso assoluto, sia relativamente a loro; e se no, è comunque di
grandezza e natura tali da non poter rendere felici coloro che non lo sono,
[5] né da poter strappare la
felicità a coloro che sono felici. È dunque manifesto che hanno sì qualche importanza per i morti le fortune
degli amici, come pure le loro disgrazie, ma che queste sono di natura e di importanza tali da non poter
rendere felici coloro che non lo sono, né da produrre alcun altro cambiamento del genere.
12. [La felicità è degna d’onore, come realtà assoluta e divina].
[10] Definito questo, volgiamoci ad esaminare, a proposito della felicità, se essa appartenga alle cose che
sono degne di lode o piuttosto a quelle che meritano onore, poiché è evidente che non rientra certo tra le
semplici potenzialità. Ogni cosa degna di lode, manifestamente, viene lodata per il fatto di avere una certa
qualità o per essere in un determinato rapporto con qualcosa. Infatti noi lodiamo l’uomo giusto, il
coraggioso e, in generale,
[15] l’uomo buono e la virtù per le azioni e le opere, mentre lodiamo l’uomo
forte, il corridore, e così via, per il fatto che per natura possiedono una certa qualità e perché sono in un
determinato rapporto con qualcosa che è buono e di valore. Questo risulta chiaro anche dalle lodi rivolte agli
dèi: esse infatti si rivelano ridicole perché si determinano in rapporto a noi uomini,
[20] e questo succede
per il fatto che le lodi si basano su un rapporto con qualcos’altro, come abbiamo detto. Se la lode si riferisce
a ciò che è relativo, è chiaro che dei beni assoluti non vi può essere lode, ma qualcosa di più grande e di
migliore, come anche risulta con evidenza: infatti, ciò che facciamo è di proclamare beati e felici gli dèi ed i
più simili agli dèi tra gli uomini.
[25] Lo stesso vale per i beni: nessuno infatti loda la felicità come la
24 ,
giustizia, ma la proclama beata, in quanto è qualcosa di più divino e di più nobile. Anche Eudosso
sembra, ha ben condotto la difesa del primo premio per il piacere: egli infatti pensava che il fatto che esso
non viene lodato, pur essendo uno dei beni, significa che è superiore a ciò che è
[30] degno semplicemente
di lode, e che tali sono Dio e il bene, giacché è a loro che vengono rapportate anche tutte le altre cose. La
lode, infatti, spetta alla virtù, giacché è da essa che riceviamo la capacità di compiere le azioni moralmente
belle; gli encomi invece sono appropriati alle opere, sia del corpo sia dell’anima, ugualmente. Ma distinguere
con rigore questi generi è certo più tipico
[35] di coloro che si occupano di encomi; per noi è chiaro da
quanto si è detto
[1102a] che la felicità rientra tra le cose degne di onore e perfette. Sembra che sia così
anche per il fatto che essa è un principio: è in vista di essa, infatti, che tutti noi facciamo tutto il resto, e il
principio e la causa dei beni noi riteniamo che sia una cosa degna d’onore e divina.
13. [L’anima umana e la distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche].
[5] Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo perfetta virtù, dobbiamo prendere in esame la virtù,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I
giacché così, forse, potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda la felicità. Si ritiene anche, poi, che
l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa moltissime delle sue fatiche: egli infatti vuole rendere
i cittadini buoni
[10] e ossequienti alle leggi. Come esempio di uomini politici autentici abbiamo i legislatori
di Creta e di Sparta, e quanti altri ce ne possono essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine è
propria della scienza politica, è chiaro che la ricerca si potrà svolgere conformemente alla nostra intenzione
iniziale.
La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché
[15] è il bene umano e la felicità umana
che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo, bensì quella dell’anima: anche
la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stanno così, è chiaro che l’uomo politico deve conoscere
in qualche modo ciò che riguarda l’anima, come anche chi intende curare gli occhi
[20] deve conoscere
anche tutto il corpo, e tanto più in quanto la politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più
valenti dei medici si danno molto da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico dunque deve cercar
di conoscere l’anima, e cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misura sufficiente per quello che
stiamo cercando,
[25] giacché indagare con maggior precisione è forse fatica sproporzionata a quanto ci
25 in misura sufficiente,
siamo proposti. Si fanno alcune affermazioni sull’anima anche negli scritti essoterici
e possiamo servirci di quelli: per esempio, vi si dice che una parte di essa è irrazionale, e l’altra è fornita di
ragione. Se esse poi siano distinte come le parti del corpo e come tutto
[30] ciò che è divisibile in parti, o se
invece le parti sono due solo idealmente, mentre per natura sono inseparabili, come nella circonferenza la
parte convessa e la parte concava, non fa differenza per la presente argomentazione.
Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere comune anche ai vegetali (intendo quella che è causa
della nutrizione e dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima
[1102b] si può ammettere in tutti gli
esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal quale, negli esseri completamente sviluppati: è infatti più
probabile che sia la stessa piuttosto che un’altra. Dunque la virtù di questa facoltà è, manifestamente, una
virtù comune, e non propria dell’uomo: si ritiene infatti che questa parte, cioè questa facoltà, sia attiva
soprattutto durante il sonno,
[5] e il buono ed il cattivo si differenziano molto poco nel sonno (ragion per cui
dicono che per metà della vita gli uomini felici non differiscono in nulla dagli infelici; che questo accada è
naturale: il sonno è inattività dell’anima, per quella parte secondo cui essa può dirsi di valore o miserabile),
a meno che, debolmente, pur le giungano alcuni movimenti,
[10] e che sia per questo che i sogni degli
uomini per bene sono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e si può tralasciare la
facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna partecipazione alla virtù umana. Sembra poi che ci sia
anche un’altra facoltà naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia in qualche modo partecipe di ragione.
Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia di quello incontinente,
[15] la ragione, cioè la parte
razionale dell’anima, giacché è essa che li esorta alle azioni più nobili. È manifesto poi in essi anche un altro
elemento, che, per natura, è estraneo alla ragione, e combatte e contrasta la ragione. Proprio come le
membra paralizzate: quando uno si propone di muoverle a destra, si volgono,
[20] al contrario, a sinistra;
così avviene anche per l’anima: le inclinazioni degli incontinenti, infatti, si volgono in direzioni contrarie. Ma
mentre nei corpi vediamo l’elemento deviante, nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo
pensare che nell’anima ci sia qualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e resiste.
[25] In che
senso sia estraneo alla ragione non ha importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa, manifestamente,
26 : nell’uomo continente ubbidisce di certo alla ragione, e forse è ancor
della ragione, come abbiamo detto
più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso, giacché in essi tutto è in armonia con la ragione.
Dunque, è manifesto che anche l’elemento irrazionale è duplice. La parte vegetativa non partecipa per
niente [30] della ragione, mentre la facoltà del desiderio e, in generale, degli appetiti, ne partecipa in
qualche modo, in quanto le dà ascolto e le ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo "accettare la
ragione" del padre e degli amici, e non nel senso in cui diciamo "comprendere la ragione" delle dimostrazioni
matematiche. E che l’elemento irrazionale in qualche modo si lasci determinare dalla ragione, lo mostrano
gli ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi di esortazione.
[1103a] Ma se è necessario dire che anche questo
elemento partecipa della ragione, allora anche la parte che possiede la ragione sarà duplice: l’una la
possederà in senso proprio e in se stessa, l’altra nel senso che le dà ascolto come ad un padre.
Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa divisione dell’anima. Infatti alcune le chiamiamo
[5]
27 altre virtù etiche
28 : dianoetiche sapienza, giudizio e saggezza, etiche invece liberalità e
virtù dianoetiche
temperanza. Infatti, quando parliamo del carattere di un uomo non diciamo che egli è sapiente o giudizioso,
ma che è mite o temperante; però lodiamo anche il saggio per la sua disposizione: e le disposizioni che
meritano lode
[10] le denominiamo virtù.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO II
1. [La virtù ha per presupposto l’abitudine].
Du due tipi è, pertanto, la virtù: dianoetica
[15] ed etica: quella dianoetica trae in buona parte la propria
origine e la sua crescita dall’insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo; la virtù etica,
invece, deriva dall’abitudine, dalla quale ha preso anche il nome con una piccola modificazione rispetto alla
29 . Da ciò risulta anche chiaro che nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura:
parola "abitudine"
infatti, nulla
[20] di ciò che è per natura può assumere abitudini ad essa contrarie: per esempio, la pietra
che per natura si porta verso il basso non può abituarsi a portarsi verso l’alto, neppure se si volesse
abituarla gettandola in alto infinite volte; né il fuoco può abituarsi a scendere in basso, né alcun’altra delle
cose che per natura si comportano in un certo modo potrà essere abituata a comportarsi in modo diverso.
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che le virtù nascono in noi, ma ciò avviene
[25]
perché per natura siamo atti ad accoglierle, e ci perfezioniamo, poi, mediante l’abitudine. Inoltre, di quanto
sopravviene in noi per natura, dapprima portiamo in noi la potenza, e poi lo traduciamo in atto (come è
chiaro nel caso dei sensi: giacché non è per il fatto di avere spesso visto e sentito che noi acquistiamo
questi sensi,
[30] ma viceversa noi li usiamo perché li possediamo, e non è che li possediamo per il fatto
che li usiamo). Invece acquistiamo le virtù con un’attività precedente, come avviene anche per le altre arti.
Infatti, le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si
diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così anche
[1103b]
compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi. Ne è
conferma ciò che accade nelle città: i legislatori, infatti, rendono buoni i cittadini creando in loro determinate
abitudini, e questo è il disegno di ogni
[5] legislatore, e coloro che non lo effettuano adeguatamente sono
dei falliti; in questo differisce una costituzione buona da una cattiva. Inoltre, ogni virtù si genera a causa e
per mezzo delle stesse azioni per le quali anche si distrugge, proprio come ogni arte: infatti, è dal suonare
la cetra che derivano sia i buoni sia i cattivi suonatori di cetra. Considerazione analoga vale anche
[10] per i
costruttori e per tutti gli altri artefici: costruendo bene diventeranno buoni costruttori, costruendo male
diventeranno cattivi costruttori. Se non fosse così, infatti, non ci sarebbe affatto bisogno del maestro, ma
tutti sarebbero per nascita buoni o cattivi artefici. Questo vale appunto anche per le virtù: infatti, a seconda
di come ci comportiamo nelle relazioni d’affari
[15] che abbiamo con gli altri uomini, diveniamo gli uni giusti
gli altri ingiusti; a seconda di come ci comportiamo nei pericoli, cioè se prendiamo l’abitudine di aver paura
oppure di aver coraggio, diventiamo gli uni coraggiosi, gli altri vili. Lo stesso avviene per i desideri e le ire:
alcuni diventano temperanti e miti, altri intemperanti e iracondi,
[20] per il fatto che nelle medesime
situazioni gli uni si comportano in un modo, gli altri in un altro. E dunque, in una parola, le disposizioni
morali derivano dalle azioni loro simili. Perciò bisogna dare alle azioni una qualità determinata, poiché le
disposizioni morali ne derivano, di conseguenza, in modo corrispondente alle loro differenze. Non è piccola,
dunque, la differenza tra l’essere abituati subito, fin da piccoli, in un modo piuttosto che in un altro;
[25] al
contrario, c’ una differenza grandissima, anzi è tutto.
2. [Bisogna agire in modo da evitare sia l’eccesso sia il difetto].
Poiché, dunque, la presente trattazione non mira alla contemplazione come le altre (infatti, noi ricerchiamo
non per sapere che cosa è la virtù, bensì per diventare buoni, giacché altrimenti la nostra ricerca non
avrebbe alcuna utilità), è necessario esaminare ciò che riguarda
[30] le azioni, per sapere come dobbiamo
compierle: esse, infatti, determinano anche la natura delle disposizioni morali, come abbiamo detto
31 e sia dato per ammesso: se ne parlerà in
Orbene, agire secondo la retta ragione è un principio comune
seguito 32 , e si dirà sia che cos’ la retta ragione, sia in che modo si rapporta alle altre virtù. In via
preliminare mettiamoci d’accordo sul punto seguente:
[1104a] ogni discorso sulle azioni da compiere
essere fatto in maniera approssimativa e non con precisione rigorosa, secondo quanto dicemmo fin
dall’inizio 34 , che cioè si deve esigere che i discorsi si conformino alla materia di cui trattano. Nel campo delle
azioni e di ciò che è utile non c’ nulla di stabile, come pure
[5] nel campo della salute. E se è tale la
trattazione generale, precisione ancor minore ha la trattazione dei diversi tipi di casi particolari; infatti, essi
non cadono sotto alcuna arte né sotto alcuna prescrizione tradizionale, ma bisogna sempre che sia proprio
chi agisce che esamini ciò che è opportuno nella determinata circostanza, come avviene nel caso della
medicina e
[10] dell’arte della navigazione.
Ma, benché la presente trattazione abbia tale carattere, pure dobbiamo sforzarci di dare il nostro contributo.
Per prima cosa, dunque, bisogna considerare che tali cose per loro natura vengono distrutte dal difetto e
dall’eccesso, come vediamo (giacché per cogliere ciò che non è manifesto bisogna valersi della
testimonianza di ciò che è manifesto) nel caso della forza e della salute:
[15] infatti, sia troppi sia troppo
pochi esercizi distruggono la forza, e similmente bevande e cibi in quantità eccessiva o insufficiente
distruggono la salute, mentre la giusta proporzione la produce, l’accresce e la preserva. Così, dunque,
30
.
33
deve
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II)
avviene anche per la temperanza, il coraggio e le altre virtù.
[20] Infatti, colui
che tutto fugge e teme e
nulla sopporta diventa vile, mentre colui che non ha paura proprio di nulla ma va incontro ad ogni pericolo
diventa temerario; similmente anche chi si gode ogni piacere e non se ne astiene da alcuno diventa
intemperante, chi, invece, fugge ogni piacere, come i rustici, diventa un insensibile.
[25] Dunque, la
temperanza ed il coraggio sono distrutti dall’eccesso e dal difetto, ma preservati dalla medietà. Ma non solo
la nascita e l’accrescimento e la distruzione delle virtù hanno le stesse fonti e le stesse cause, bensì anche la
loro attività consisterà nelle medesime azioni, poiché è così anche
[30] per tutto ciò che è più manifesto,
come, per esempio, per la forza: essa, infatti, nasce dall’assunzione di un abbondante nutrimento e dal fatto
di sottoporsi a molte fatiche, e questo lo può fare soprattutto l’uomo forte. Così è anche per le virtù: è con
l’astenerci dai piaceri che diventiamo temperanti, ed è
[35] quando siamo divenuti tali che siamo
massimamente in grado di astenercene. E similmente
[1104b] anche per il coraggio: è con l’abitudine a
sprezzare i pericoli e ad affrontarli che diventiamo coraggiosi, ed è quando siamo divenuti coraggiosi che
siamo massimamente in grado di affrontare i pericoli.
3. [Relazione del piacere e del dolore con la virtù].
D’altra parte, bisogna porre come segno distintivo delle disposizioni morali il piacere ed il dolore che si
aggiungono
[5] alle azioni: infatti, colui che si astiene dai piaceri del corpo e gode proprio di questa stessa
astinenza è temperante, colui che, invece, lo fa contro voglia è intemperante, e chi affronta i pericoli e ne
gode o almeno non ne soffre è coraggioso, chi lo fa soffrendo è vile. La virtù etica, infatti, ha a che fare con
piaceri e dolori, giacché (1) è a causa
[10] del piacere che compiamo le azioni malvagie, ed è a causa del
dolore che ci asteniamo da quelle belle. Perciò bisogna essere guidati in un certo modo subito, fin da piccoli,
35 , a godere e a soffrire di ciò che è conveniente: la retta educazione è, infatti, questa.
come dice Platone
(2) Inoltre, se le virtù hanno a che fare con azioni e passioni, e se ad ogni passione come ad ogni azione
segue [15] piacere e dolore, anche per questo la virtù avrà a che fare con piaceri e dolori. (3) Lo rivelano
anche le punizioni, in quanto si realizzano con questi mezzi: infatti le punizioni sono come una specie di
cura, e la cura, per sua natura, si attua per mezzo dei contrari. (4) Inoltre, come anche recentemente
dicevamo 36 , ogni disposizione dell’anima attua la sua natura in riferimento e in relazione a ciò da cui può
essere naturalmente
[20] resa peggiore o migliore: è a causa dei piaceri e dei dolori che gli uomini
diventano malvagi, per il fatto che perseguono e fuggono o quei piaceri e dolori che non devono perseguire
e fuggire, o quando non devono o nel modo in cui non devono, o secondo ciascuna delle altre distinzioni
37 che definiscono le virtù come stati di impassibilità
operate dalla definizione. Perciò ci sono alcuni
[25] e di
riposo: definizione non buona, perché parlano in senso assoluto, senza aggiungere "come si deve" e "come
non si deve" e "quando si deve", e così via. Resta stabilito, dunque, che la virtù è tale capacità di compiere
le azioni migliori in relazione a piaceri e dolori, il vizio il contrario. Ma che la virtù abbia a che fare con
piaceri e dolori può venirci chiarito anche dai seguenti argomenti. (5)
[30] Tre sono infatti i motivi per la
scelta e tre i motivi per la repulsione: il bello, l’utile, il piacevole e i loro contrari, il brutto, il dannoso, il
doloroso. Rispetto a tutto questo l’uomo buono tende ad agire rettamente, mentre il malvagio tende ad
errare, e soprattutto in relazione al piacere: esso, infatti, è comune
[35] agli animali, e si accompagna a
tutto ciò che dipende dalla scelta:
[1105a] anche il bello e l’utile, infatti, si rivelano piacevoli. (6) Inoltre, la
tendenza al piacere è cresciuta con tutti noi fin dall’infanzia: perciò è difficile toglierci di dosso questa
passione, incrostata com’ con la nostra vita. (7) Anzi, chi più chi meno, misuriamo anche le nostre azioni
[5] con il metro del piacere e del dolore. Per questo, dunque, è necessario che tutta la nostra trattazione si
riferisca a questi oggetti: infatti, non è di poca importanza per le azioni godere o soffrire bene o male. (8)
38 , ed è in relazione a ciò
Inoltre, poi, è più difficile combattere il piacere che l’impulsività, come dice Eraclito
che è più difficile che nascono, sempre, arte e virtù:
[10] e, infatti, in questo caso il bene è migliore.
Cosicché è anche per questa ragione che tutta la trattazione, sia dal punto di vista della virtù sia dal punto
di vista della politica, riguarda piaceri e dolori, giacché chi ne usa bene sarà buono, e chi ne usa male
cattivo. Teniamo per detto, dunque, che la virtù ha a che fare con piaceri e dolori, che le azioni da cui nasce
sono anche quelle che
[15] la fanno crescere, e che, se compiute diversamente, la fanno perire, e che le
azioni da cui è nata sono le stesse in cui anche si attua.
4. [Condizioni dell’azione morale].
Si potrebbe porre la questione in che senso noi diciamo che, necessariamente, è compiendo azioni giuste
che si diventa giusti, e temperanti compiendo azioni temperate: se, infatti, si compiono azioni giuste e
temperate,
[20] si è già giusti e temperanti, allo stesso modo che se si compiono azioni secondo le regole
della grammatica e della musica, si è grammatici e musici. Ma non si dovrà rispondere che le cose non
stanno così neanche nel campo delle arti? Infatti, è possibile fare qualcosa secondo le regole della
grammatica sia per caso sia per suggerimento d’altri. Dunque "grammatico" uno sarà solo quando abbia
fatto qualcosa secondo le regole della grammatica e lo abbia fatto
[25] da grammatico, cioè in virtù della
scienza grammaticale che possederà in se stesso. Inoltre, non c’ neppure somiglianza tra il caso delle arti e
quello delle virtù. I prodotti delle arti hanno il loro valore in se stessi: basta, dunque, che essi abbiano
determinate caratteristiche. Invece le azioni che traggono origine dalle virtù non basta che abbiano un
determinato carattere
[30] per essere compiute con giustizia o con temperanza, ma occorre anche che chi
le compie le compia possedendo una certa disposizione: innanzi tutto deve conoscerle, poi deve sceglierle, e
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II)
sceglierle per se stesse; infine, in terzo luogo, deve compierle con una disposizione d’animo ferma ed
immutabile. Queste condizioni
[1105b] non entrano nel conto per il possesso delle altre arti, tranne il sapere
stesso: mentre per il possesso delle virtù il sapere vale poco o nulla, le altre condizioni non poco ma tutto
possono, se è vero che è dal compiere spesso azioni giuste e temperate che
[5] deriva il possesso delle virtù
corrispondenti. Così, dunque, le opere si dicono giuste e temperate quando sono tali quali le compirebbe
l’uomo giusto e il temperante: ma giusto e temperante è non chi semplicemente le compie, bensì chi le
compie anche nel modo in cui le compiono gli uomini giusti e temperanti. È dunque esatto dire che
[10] il
giusto diviene tale col compiere azioni giuste e il temperante col compiere azioni temperate: e senza
compiere queste azioni nessuno avrà neppure la prospettiva di diventare buono. Ma i più non fanno queste
cose, e rifugiandosi invece nella teoria credono di filosofare e che così diverranno uomini di valore; così
facendo assomigliano a quei
[15] malati che ascoltano, sì, attentamente i medici, ma non fanno nulla di
quanto viene loro prescritto. Così, dunque, quelli non guariranno il loro corpo se si cureranno in questo
modo, né questi la loro anima se faranno filosofia in questo modo.
5. [Le virtù sono disposizioni dell’anima].
Dopo di ciò bisogna esaminare che cos’ la virtù. Poiché, dunque,
[20] gli atteggiamenti interni all’anima
sono tre, passioni capacità disposizioni, la virtù deve essere uno di questi. Chiamo passioni il desiderio, l’ira,
la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto
ciò cui segue piacere o dolore. Chiamo, invece, capacità ciò per cui si dice che noi possiamo provare delle
passioni, per esempio, ciò per cui
[25] abbiamo la possibilità di adirarci o di addolorarci o di sentir pietà.
Disposizioni, infine, quelle per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni: per esempio, in
rapporto all’ira, se ci adiriamo violentemente o debolmente ci comportiamo male, se invece teniamo una via
di mezzo ci comportiamo bene. E similmente anche in rapporto alle altre passioni. Passioni, dunque, non
sono né le virtù né i vizi, perché non è per le passioni che siamo chiamati
[30] uomini di valore o miserabili,
bensì per le virtù ed i vizi, e perché non è per le passioni che siamo lodati e biasimati (infatti non si loda né
chi prova paura né chi si adira, né si biasima chi semplicemente si adira,
[1106a] ma chi si adira in un certo
modo), mentre siamo lodati o biasimati per le virtù ed i vizi. Inoltre, ci adiriamo o proviamo paura senza
una scelta, mentre le virtù sono un certo tipo di scelta o non sono senza una scelta. Oltre a questo si dice
che siamo mossi secondo le passioni,
[5] ma che secondo le virtù ed i vizi non siamo mossi, ma posti in una
certa disposizione. Perciò essi non sono neppure delle capacità. Infatti non siamo chiamati buoni o cattivi,
né siamo lodati o biasimati per il semplice fatto di poter provare delle passioni; inoltre, abbiamo per natura
la capacità di esserlo,
[10] ma non diventiamo buoni o cattivi per natura: abbiamo parlato di questo
prima 39 . Se dunque le virtù non sono né passioni né capacità, rimane che siano delle disposizioni. Ciò che è
la virtù dal punto di vista del genere, è stato detto.
6. [Le virtù sono disposizioni a scegliere il giusto mezzo].
Ma non dobbiamo soltanto dire che la virtù è una disposizione, bensì anche
[15] che specie di disposizione
è. Bisogna dire, dunque, che ogni virtù ha come effetto, su ciò di cui è virtù, di metterlo in buono stato e di
permettergli di compiere bene la sua funzione specifica: per esempio, la virtù dell’occhio rende valenti
l’occhio e la sua funzione specifica: noi, infatti, vediamo bene per la virtù dell’occhio. Similmente la virtù del
cavallo rende il cavallo
[20] di valore e buono per la corsa, per portare il suo cavaliere e per resistere ai
nemici. Se dunque questo vale per tutti i casi, anche la virtù dell’uomo deve essere quella disposizione per
cui l’uomo diventa buono e per cui compie bene la sua funzione. Come questo sarà possibile, già l’abbiamo
detto 40 ; [25] ma sarà chiaro, inoltre, se considereremo quale è la natura specifica della virtù stessa. In ogni
cosa, dunque, che sia continua, cioè divisibile, è possibile prendere il più, il meno e l’uguale, e questo sia
secondo la cosa stessa sia in rapporto a noi: l’uguale è qualcosa di mezzo tra eccesso e difetto. Chiamo, poi,
[30] mezzo della cosa ciò che è equidistante da ciascuno degli estremi, e ciò è uno e identico per tutti; e
mezzo rispetto a noi ciò che non è né in eccesso né in difetto: ma questo non è uno né identico per tutti.
Per esempio, se dieci è tanto e due è poco, come mezzo secondo la cosa si prende sei, giacché esso supera
ed è superato in uguale misura.
[35] E questo è un mezzo secondo la proporzione aritmetica. Invece, il
mezzo in rapporto a noi non deve essere preso in questo modo:
[1106b] infatti, se per un individuo dieci
mine di cibo sono molto e due sono poco, non per questo il maestro di ginnastica prescriverà sei mine:
infatti, può darsi che anche questa quantità, per chi deve ingerirla, sia troppo grande oppure troppo piccola:
41 sarebbe poco, per un principiante di ginnastica sarebbe molto. Similmente nel caso della
infatti per Milone
corsa e [5] della lotta. Così, dunque, ogni esperto evita l’eccesso e il difetto, ma cerca il mezzo e lo
preferisce, e non il mezzo in rapporto alla cosa ma il mezzo in rapporto a noi. Se, dunque, è così che ogni
scienza compie bene la sua funzione, tenendo di mira il mezzo e riconducendo ad esso le sue opere (donde
l’abitudine [10] di dire delle cose ben riuscite che non c’ nulla da togliere e nulla da aggiungere, in quanto
l’eccesso e il difetto distruggono la perfezione, mentre la medietà la preserva), se i buoni artigiani, come noi
affermiamo, lavorano tenendo di mira il mezzo, e se la virtù è più esatta e
[15] migliore di ogni arte, come
anche la natura, essa dovrà tendere costantemente al mezzo. Intendo la virtù etica: essa, infatti, ha a che
fare con passioni ed azioni, ed in queste ci sono un eccesso, un difetto e il mezzo. Per esempio, temere,
ardire, desiderare, adirarsi, aver pietà, e in generale provar piacere
[20] e dolore è possibile in maggiore o
minore misura, e in entrambi i casi non bene. Al contrario, provare queste passioni quando è il momento,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II)
per motivi convenienti, verso le persone giuste, per il fine e nel modo che si deve, questo è il mezzo e
perciò l’ottimo, il che è proprio della virtù. Similmente anche per quanto riguarda le azioni ci sono un
eccesso, un difetto ed il mezzo. Ora, la virtù ha a che fare con passioni
[25] e azioni, nelle quali l’eccesso è
42 , mentre il mezzo è lodato e costituisce la rettitudine: ed entrambe queste
un errore e il difetto è biasimato
cose sono proprie della virtù. Dunque, la virtù è una specie di medietà, in quanto appunto tende
costantemente al mezzo. Inoltre, errare è possibile in molti modi (il male infatti, come
[30] congetturavano
43
i Pitagorici
, appartiene all’infinito, il bene invece al limitato), mentre operare rettamente è possibile in un
sol modo (perciò anche l’uno è facile e l’altro difficile: è facile fallire il bersaglio, e difficile coglierlo). E per
queste ragioni, dunque, l’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà è propria della virtù:
[35]
44 .
"si è buoni in un sol modo, cattivi in molte e svariate maniere"
La virtù, dunque, è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà
[1107a] in rapporto a
noi, determinata in base ad un criterio, e precisamente al criterio in base al quale la determinerebbe l’uomo
saggio. Medietà tra due vizi, tra quello per eccesso e quello per difetto; e inoltre è medietà per il fatto che
alcuni vizi restano al di sotto e altri stanno al di sopra di ciò che si deve, sia nelle passioni
[5] sia nelle
azioni, mentre la virtù trova e sceglie il mezzo. Perciò, secondo la sostanza e secondo la definizione che ne
esprime l’essenza, la virtù è una medietà, mentre dal punto di vista dell’ottimo e del bene è un culmine. Ma
non ogni azione né ogni passione ammette la medietà: alcune, infatti, implicano già nel nome
[10] la
malvagità, come la malevolenza, l’impudenza, l’invidia, e, tra le azioni, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Tutte
queste cose e quelle del medesimo genere derivano il loro nome dal fatto che esse stesse sono malvagie, e
non i loro eccessi né i loro difetti. Dunque, non è mai possibile, riguardo ad esse, agire rettamente,
[15] ma
si è sempre in errore: e il bene o il male, riguardo a tali cose, non stanno nel commettere adulterio con la
donna con cui si deve o nel tempo e nel modo opportuni, ma il semplice fatto di commettere una qualsiasi di
queste azioni significa errare. Similmente, dunque, sarebbe assurdo ritenere che anche in relazione al
commettere ingiustizia e all’essere vile e intemperante ci siano medietà ed eccesso e difetto,
[20] giacché
cosi verrà ad esserci una medietà di eccesso e di difetto, ed eccesso di eccesso e difetto di difetto. Ma come
della temperanza e del coraggio non v’ eccesso né difetto per il fatto che il mezzo è in certo qual modo un
culmine, così neppure di quelle azioni c’ medietà né eccesso e difetto, ma in qualunque modo
[25] siano
compiute si è in errore: infatti, in generale, non c’ medietà dell’eccesso e del difetto, né eccesso e difetto
della medietà.
7. [Tavola delle virtù particolari].
Tuttavia, non dobbiamo solo fare queste affermazioni generali, ma dobbiamo anche applicarle ai casi
particolari. Tra le affermazioni riguardanti
[30] le azioni, quelle generali sono di più larga applicazione,
quelle particolari più ricche di verità, giacché le azioni riguardano casi particolari, e occorre che la teoria si
45 . Orbene, per quanto riguarda paura e
accordi con essi. Ricaviamoli, dunque, dalla nostra tavola
temerarietà, la medietà è il coraggio:
[1107b] di coloro che eccedono, chi lo fa per mancanza di paura non
ha nome (molte virtù e molti vizi sono senza nome), chi eccede nell’ardire è temerario, chi eccede nel
timore e difetta nell’ardire è vile. Riguardo, invece, a piaceri e dolori (non
[5] tutti, ed in misura minore per i
dolori) medietà è la temperanza, eccesso l’intemperanza. Coloro che sono in difetto quanto ai piaceri non
sono molti: perciò tali persone non hanno neppure ricevuto un nome; ma chiamiamoli insensibili. Riguardo
poi al dare ed al prendere denaro medietà è la liberalità, eccesso
[10] e difetto sono la prodigalità e
l’avarizia. In questi due vizi l’eccesso e il difetto si realizzano in maniera contraria: infatti il prodigo eccede
nel dare e difetta nel prendere, l’avaro eccede nel prendere e difetta nel dare. Per il momento, dunque, ci
46 tutto ciò
esprimiamo in maniera schematica e sommaria,
[15] e di questo ci accontentiamo: in seguito
sarà definito con maggior precisione. In relazione al denaro vi sono anche altre disposizioni: medietà è la
magnificenza (l’uomo magnifico si distingue dall’uomo liberale, giacché il primo ha a che fare con grandi
somme, il secondo con piccole); eccesso è mancanza di gusto e volgarità, difetto
[20] meschinità: questi
47 . Per
vizi differiscono da quelli relativi alla liberalità, ma in che modo differiscano sarà detto in seguito
quanto riguarda l’onore e la privazione d’onore la medietà è la magnanimità, eccesso è quella che si chiama
una specie di vanità, difetto la pusillanimità. E come dicevamo che rispetto alla magnificenza la liberalità
[25] differisce perché riguarda piccole somme, così anche di fronte alla magnanimità, che riguarda grandi
onori, c’ una certa disposizione che invece riguarda piccoli onori: infatti, è possibile desiderare onore come
si deve, o di più e di meno di quanto si deve, e chi eccede nei desideri di onore è detto ambizioso, chi difetta
è detto privo d’ambizione, chi sta
[30] nel mezzo non ha nome. Senza nome sono pure le corrispondenti
disposizioni, tranne quella dell’ambizioso, che è l’ambizione. Ragion per cui gli estremi si contendono la zona
di mezzo: e ci capita di chiamare chi sta in mezzo ora ambizioso, ora privo di ambizione, e ci capita
[1108a]
48 .
di lodare ora l’ambizioso, ora chi è privo di ambizione. Per quale ragione lo facciamo, si dirà in seguito
Per ora parliamo di ciò che ci rimane, seguendo il metodo che abbiamo indicato. Anche per quanto riguarda
l’ira c’ eccesso e difetto e
[5] medietà; e benché queste disposizioni siano pressoché senza nome, dal
momento che chiamiamo bonario chi sta in mezzo, chiameremo bonarietà la medietà. Degli estremi, chi
eccede sarà irascibile, e il vizio irascibilità, chi difetta flemmatico, e il difetto flemma. Ci sono, poi, anche
altre tre medietà, che hanno
[10] una certa somiglianza fra di loro, pur essendo differenti le une dalle altre:
tutte, infatti, riguardano le relazioni sociali che si istituiscono attraverso le conversazioni e attraverso le
azioni, ma differiscono perché l’una riguarda il vero che vi è in esse, mentre le altre due si riferiscono al
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II)
piacevole, l’una al piacevole nello scherzo, l’altra in tutte le circostanze della vita. Bisogna dunque parlare
anche di queste, per
[15] meglio renderci conto che in tutti i casi la medietà è lodevole, mentre gli estremi
non sono né lodevoli né retti, ma sono, al contrario, biasimevoli. Orbene, anche la maggior parte di questi
sono senza nome, e dobbiamo cercare, come anche negli altri casi, di dar loro noi stessi un nome, per
chiarezza e per farci meglio seguire. Per quanto, dunque, riguarda il vero,
[20] chi sta in mezzo
chiamiamolo verace e la medietà veracità, l’esagerazione nel senso del più chiamiamola millanteria e chi la
pratica millantatore, l’esagerazione nel senso del meno chiamiamola ironia e chi la pratica ironico. Riguardo
al piacevole nello scherzo chi sta nel mezzo si chiama spiritoso e la sua disposizione spirito, l’eccesso si
chiama buffoneria
[25] e chi la pratica buffone, chi è in difetto si dice rozzo e la sua disposizione rozzezza.
Per l’altro tipo di piacevole, quello che si trova in genere nella vita, colui che è piacevole come si conviene è
un uomo socievole e la medietà è socievolezza; chi eccede, se lo fa senza secondi fiini, compiacente, ma se
lo fa per interesse proprio, adulatore; chi difetta
[30] ed è in tutte le occasioni sgradevole, si chiama
litigioso e scorbutico. Ci sono, poi, medietà anche nelle passioni, cioè relative alle passioni: infatti il pudore
non è una virtù, ma è fatto oggetto di lode anche chi è pudico. E, infatti, anche in queste c’ chi si dice che
sta in mezzo e chi eccede, come il timido, che si vergogna di tutto, e chi difetta,
[35] ovvero chi non si
vergogna proprio di niente, si chiama sfacciato, e chi sta nel mezzo pudico. La giusta indignazione è
medietà tra l’invidia e la malevolenza: queste si riferiscono al dolore e al piacere che nascono in noi per
tutto ciò che capita al prossimo; infatti, chi si indigna si addolora per coloro che hanno successo senza
merito, l’invidioso invece va al di là e
[5] si addolora per tutti i successi, il malevolo, infine, è tanto lontano
dall’addolorarsi che anzi gioisce del male altrui. Ma di questo avremo occasione di trattare anche altrove.
49 la distingueremo nelle sue due specie e
Quanto alla giustizia, poiché non ha un senso solo, in seguito
diremo per ciascuna in che modo sono delle medietà. Similmente faremo anche per quanto riguarda
50 .
virtù intellettuali
8. [Le opposizioni tra i vizi e le virtù].
Le disposizioni sono dunque tre: due vizi, l’uno per eccesso e l’altro per difetto, ed una sola virtù, la medietà
e tutte in certo qual modo si oppongono a tutte le altre. Infatti, le disposizioni estreme sono contrarie sia a
quella di mezzo sia l’una all’altra, e quella
[15] di mezzo è contraria alle estreme: come, infatti, l’uguale
rispetto al minore è maggiore, e rispetto al maggiore è minore, così le disposizioni di mezzo sono degli
eccessi rispetto alle disposizioni in difetto e sono dei difetti rispetto a quelle in eccesso, sia nelle passioni sia
nelle azioni. Infatti, l’uomo coraggioso in confronto al vile appare temerario,
[20] mentre appare vile in
confronto al temerario; similmente anche l’uomo temperante appare intemperante in confronto
all’insensibile, e insensibile in confronto all’intemperante, e l’uomo liberale appare prodigo in confronto
all’avaro, e avaro in confronto al prodigo. Perciò accade che gli estremi spingono il mezzo ciascuno verso
l’altro, e il vile chiama
[25] temerario il coraggioso, mentre il temerario lo chiama vile, ed analogamente
negli altri casi. Essendo queste disposizioni contrapposte le une alle altre in questo modo, la contrarietà più
grande si trova reciprocamente tra gli estremi piuttosto che tra loro e il mezzo: infatti, questi sono più
distanti fra loro che dal mezzo, come il grande dal piccolo e il piccolo
[30] dal grande sono più distanti fra
loro di quanto non lo siano entrambi dall’uguale. Inoltre, in alcuni estremi si mostra una certa somiglianza
nei confronti del mezzo, come nella temerarietà nei confronti del coraggio e nella prodigalità nei confronti
della liberalità. Negli estremi fra di loro c’ invece la massima dissomiglianza. Le cose che sono alla distanza
massima l’una dall’altra si definiscono contrarie, cosicché
[35] quelle che sono più distanti sono anche più
contrarie. Nei confronti del mezzo
[1109a] è più contrario in certi casi il difetto, in certi altri l’eccesso: per
esempio, ciò che si oppone di più al coraggio non è la temerarietà, che è un eccesso, bensì la viltà, che è un
difetto; ciò che si oppone di più alla temperanza non è l’insensibilità, che è una mancanza, bensì
l’intemperanza,
[5] che è un eccesso. Questo avviene per due motivi. L’uno dipende dalla cosa stessa:
infatti, per il fatto che uno degli estremi è più vicino e più simile al mezzo, noi non opponiamo questo
estremo al mezzo, ma piuttosto al suo contrario. Per esempio, poiché si riconosce che al coraggio è più
simile e più vicina la temerarietà, e più dissimile
[10] la viltà, è piuttosto quest’ultima che gli
contrapponiamo: infatti, le cose che sono più distanti dal mezzo si riconosce che sono anche più contrarie.
Questo, dunque, è un primo motivo, che dipende dalla cosa stessa. L’altro, invece, dipende da noi stessi: le
cose verso cui siamo in qualche modo più inclini per natura si rivelano più contrarie al mezzo. Per esempio,
noi siamo più
[15] inclini ai piaceri, e per questo siamo più portati all’intemperanza che al decoro. Dunque,
chiamiamo contrari piuttosto quei vizi verso i quali maggiore è la nostra tendenza: e per questo
l’intemperanza, che è un eccesso, è più contraria alla temperanza.
9. [Suggerimenti pratici].
[20] Che, dunque, la virtù etica è una medietà, e in che senso lo è, e che è una medietà tra due vizi, l’uno
per eccesso l’altro per difetto, e che è tale perché tende costantemente al mezzo sia nelle passioni sia nelle
azioni, è stato detto a sufficienza. Perciò, anche, è un compito impegnativo essere uomo di valore. Cogliere
in ogni cosa
[25] il mezzo è un compito impegnativo: per esempio, determinare il centro di un cerchio non è
da tutti, ma solo di chi sa. Così, invece, è da tutti ed è facile adirarsi, e donare denaro e far spese: ma farlo
con chi si deve, nella misura giusta, al momento opportuno, con lo scopo e nel modo convenienti, non è più
da tutti né facile. Ed è per questo che il farlo bene è cosa rara, degna di lode e
[30] bella. Perciò bisogna
[1108b]
[10] le
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II)
che chi tende al mezzo prenda innanzi tutto le distanze da ciò che gli è più contrario, come consiglia anche
Calipso:
51 .
"fuori da questo fumo, fuori dal vortice tieni la nave"
Infatti, dei due estremi uno è più colpevole, l’altro meno. Poiché, dunque, cogliere il mezzo è cosa
estremamente difficile, dobbiamo affidarci,
[35] come si dice, alla seconda navigazione e scegliere il minore
dei mali:
[1109b] ed il miglior modo di farlo sarà questo che noi indichiamo. Dobbiamo, poi, indagare su ciò
a cui noi stessi siamo portati: alcuni di noi, infatti, sono per natura inclini a certe cose, altri ad altre: e
questo sarà riconoscibile
[5] dal piacere e dal dolore che nascono in noi. E dobbiamo spingerci nella
direzione contraria: infatti è allontanandoci molto dall’errore che giungeremo al giusto mezzo, come fanno
coloro che raddrizzano i legni storti. Infine, e soprattutto, bisogna in ogni cosa stare in guardia di fronte al
piacevole ed al piacere, poiché non siamo imparziali quando lo giudichiamo. Ciò dunque che provarono gli
52 , [10] dobbiamo provarlo anche noi nei confronti del piacere, e in
anziani del popolo nei confronti di Elena
tutte le circostanze ripeterci le loro parole: se infatti lo congediamo così, saremo meno soggetti ad errare.
Facendo così, per dirla in breve, avremo le maggiori possibilità di raggiungere il giusto mezzo. Certo questo
è difficile, soprattutto nei singoli casi.
[15] Infatti, non è facile determinare come e con chi e in quali casi e
per quanto tempo si debba essere in collera, giacché anche noi talora lodiamo coloro che restano al di sotto
del mezzo e li chiamiamo bonari, talora invece lodiamo quelli che sfogano la rabbia e li chiamiamo virili. Ma
colui che devia poco dal bene, né quando
[20] eccede né quando difetta è biasimato; ma lo è chi devia
maggiormente, giacché quest’ultimo non passa inosservato.
Ma fino a che punto e in che misura è biasimevole non è facile determinarlo col ragionamento: niente di
diverso, infatti, avviene nel campo degli oggetti sensibili: tali oggetti rientrano nell’ambito dei fatti
particolari ed il giudizio su di essi spetta alla sensazione. Tutto questo, dunque, rende evidente che la
disposizione mediana è in tutte le circostanze degna di lode, ma che talora
[25] dobbiamo inclinare verso
l’eccesso, talora verso il difetto, giacché è in questa maniera che raggiungeremo il giusto mezzo e il bene
con la più grande facilità.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO III
1. [Gli atti umani sono volontari o involontari?].
[30] Giacché, dunque, la virtù ha a che vedere sia con passioni sia con azioni, e giacché per le passioni e le
azioni volontarie ci sono la lode e il biasimo, mentre per le involontarie c’ il perdono, e talora anche la
pietà, definire il volontario e l’involontario è indubbiamente necessario per coloro che studiano la virtù, e
utile anche ai legislatori per stabilire
[35] le ricompense onorifiche e le punizioni.
Si ammette, dunque, comunemente, che sono involontari gli atti
[1110a] compiuti per forza o per
ignoranza. Forzato è l’atto il cui principio è esterno, tale cioè che chi agisce, ovvero subisce, non vi concorre
per nulla: per esempio, se si è trascinati da qualche parte da un vento o da uomini che ci tengono in loro
potere. Le azioni che si compiono per paura di mali più grandi oppure per
[5] qualcosa di bello (per
esempio, nel caso in cui un tiranno ci ordinasse di compiere qualche brutta azione tenendo in suo potere i
nostri genitori e i nostri figli, sì che se noi la compiamo essi si salveranno, se no, morranno) è discutibile se
siano involontarie o volontarie. Qualcosa di simile accade anche quando si gettano fuori bordo i propri averi
[10] volontariamente, ma chiunque abbia senno
durante le tempeste, giacché in generale nessuno butta via
lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni, dunque, sono miste, ma assomigliano di più a quelle
volontarie, giacché sono fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine
dell’azione dipende dalle circostanze. Per conseguenza, anche il volontario e l’involontario devono essere
determinati in riferimento al momento in cui si agisce.
[15] In questo caso si agisce volontariamente,
giacché il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell’uomo stesso: e le cose
di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni, dunque, sono volontarie, anche
se in assoluto forse sono involontarie, giacché nessuno sceglierebbe alcuna delle azioni di tal genere per se
stessa. Per
[20] azioni simili talora si è anche lodati, quando si sopporta qualcosa di brutto o di doloroso in
cambio di cose grandi e belle; in caso contrario si è biasimati, giacché sopportare le cose più vergognose
per niente di bello o di proporzionato è da uomo miserabile. In alcuni casi, poi, non si dà lode, ma perdono:
quando uno compie
[25] un’azione che non deve, ma per evitare mali che oltrepassano l’umana natura e
che nessuno potrebbe sopportare. Ma ad alcuni atti, senza dubbio, non è possibile lasciarsi costringere, ma
piuttosto bisogna morire pur tra terribili sofferenze: infatti, i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di
Euripide 53 ad uccidere la propria madre sono manifestamente risibili. È difficile, talvolta, discernere
[30] che
cosa ed a quale costo si deve scegliere e che cosa e per qual vantaggio si deve sopportare, ma ancor più
difficile perseverare nelle decisioni prese: come, infatti, per lo più, ciò che ci aspetta è doloroso, ciò cui si è
costretti è vergognoso, ragion per cui si meriterà lode o biasimo a seconda che ci si sia lasciati costringere
oppure no.
[1110b] Quali azioni, dunque, si devono chiamare forzate? Non dovremo dire che in senso
assoluto lo sono quando la causa risiede in circostanze esterne e quando chi agisce non vi concorre per
niente? Le azioni che per se stesse sono involontarie, ma che in un determinato momento ed in cambio di
determinati vantaggi sono fatte oggetto di scelta, ed il cui principio è interno a chi agisce,
[5] per se stesse
sono, sì, involontarie, ma, in quel determinato momento e per quei determinati vantaggi, sono volontarie. E
assomigliano di più a quelle volontarie, poiché le azioni fanno parte delle cose particolari, e queste sono
volontarie. D’altra parte, quali cose bisogna scegliere ed in cambio di quali altre non è facile stabilire,
giacché nei casi particolari ci sono molte differenze. Se si dicesse che le cose piacevoli e le cose belle
[10]
sono costrittive (in quanto costringono dall’esterno), tutte le azioni sarebbero, da quel punto di vista,
forzate, giacché è in vista del piacevole e del bello che tutti gli uomini fanno tutto quello che fanno. E quelli
che agiscono per forza e contro voglia agiscono con sofferenza, mentre quelli che agiscono per il piacevole
ed il bello lo fanno con piacere. D’altra parte, è ridicolo accusare le circostanze esterne e non se stessi se si
è facile preda di cose di tale natura, e anzi considerare causa
[15] delle belle azioni se stessi, delle brutte,
invece, l’attrattiva dei piaceri. Dunque, sembra che l’atto forzato sia quello il cui principio è esterno, senza
alcun concorso di colui che viene forzato.
Ciò che si compie per ignoranza è tutto non volontario, ma è involontario quando provoca dispiacere e
rincrescimento. Infatti, l’uomo che ha fatto
[20] una cosa qualsiasi per ignoranza, senza provare alcun
disagio per la sua azione, non ha agito volontariamente, in quanto, almeno, non sapeva quello che faceva,
ma neppure involontariamente, in quanto, almeno, non prova dispiacere. Dunque, di coloro che agiscono
per ignoranza, quello che non prova rincrescimento può essere chiamato, poiché è diverso, agente non
volontario; infatti, poiché il secondo differisce dal primo, è meglio che abbia un suo nome proprio. D’altra
parte [25] sembra che vi sia differenza anche tra agire per ignoranza e agire ignorando: infatti, chi è
ubriaco o adirato non si ritiene che agisca per ignoranza ma per ubriachezza o per ira, tuttavia senza sapere
ciò che fa, ma ignorandolo. Dunque, ogni uomo malvagio ignora quel che deve fare e ciò
da cui si deve
astenere, ed è per questo errore che si diventa ingiusti e, in generale,
[30] viziosi. Ma il termine
"involontario" non vuole essere usato nel caso in cui uno
ignora ciò che gli conviene: infatti, l’ignoranza nella
scelta non è causa dell’involontarietà dell’atto, ma della sua perversità, e neppure l’ignoranza dell’universale
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
(per questa, anzi, si è biasimati); ma causa dell’involontarietà dell’atto è l’ignoranza delle circostanze
particolari
[1111a] nelle quali e in relazione alle quali si compie l’azione: in questi casi, infatti, si trovano
pietà e perdono, perché è ignorando qualcuno di questi particolari che si agisce involontariamente. Dunque,
non sarà certo male definire la natura ed il numero di questi particolari: chi è che agisce, che cosa fa, qual è
l’oggetto o l’ambito dell’azione, e talora anche
[5] con quale mezzo (per esempio, con quale strumento)
agisce, in vista di qual risultato (per esempio, per salvare qualcuno), e in che modo (per esempio,
pacatamente oppure violentemente). Tutte queste cose, dunque, nessuno, se non è pazzo, potrebbe
ignorarle; ed è chiaro che non si può ignorare l’agente: infatti, come si può ignorare, se non altro, se stessi?
Uno potrebbe ignorare ciò che sta facendo: per esempio, quando dicono che qualcosa è loro scappato di
54 ,
bocca parlando, oppure che non sapevano che erano dei segreti,
[10] come disse Eschilo dei misteri
oppure che, volendo solo fare una dimostrazione, hanno lasciato andare lo strumento, come diceva quello
che aveva lasciato scattare la catapulta. Potrebbe anche capitare che uno scambi il proprio figlio per un
55 , e che prenda per smussata una lancia appuntita, oppure per pietra pomice la
nemico, come Merope
pietra dura; e che facendo bere qualcuno per salvarlo lo faccia morire; e che volendo afferrare la mano
56 , lo ferisca. Per conseguenza, poiché
dell’avversario,
[15] come coloro che lottano con le sole mani
l’ignoranza può riguardare tutte queste circostanze di fatto in cui si attua l’azione, si ritiene comunemente
che chi ne ignora qualcuna agisca involontariamente, e soprattutto se ne ignora le più importanti; e si
ritiene che le più importanti circostanze di fatto in cui si attua l’azione siano il ciò che si fa ed il risultato in
vista di cui lo si fa. Tale è, dunque, l’ignoranza per cui un atto si chiama involontario;
[20] ma bisogna,
inoltre, che l’atto sia spiacevole ed increscioso. Poiché è involontario ciò che si fa per forza e per ignoranza,
si dovrà ritenere che il volontario è quello il cui principio sta in colui stesso che agisce, conoscendo le
circostanze particolari in cui si attua l’azione. Infatti, senza dubbio, non è giusto dire che
[25] sono
involontari gli atti compiuti per impulsività o per desiderio. In tal caso, infatti, ne deriverebbe innanzi tutto
57 , né lo potrebbero i fanciulli; in secondo luogo,
che nessuno degli altri animali agirebbe spontaneamente
non facciamo volontariamente nessuna delle azioni che hanno come causa impulsività e desiderio, oppure
quelle belle le facciamo volontariamente e quelle brutte involontariamente? O non è ridicolo, dal momento
che una sola è la causa di tutte? Ma è certo assurdo
[30] dire involontarie quelle azioni che dobbiamo
appetire: e noi abbiamo il dovere di adirarci per certe cose e di desiderare certe altre, per esempio salute e
istruzione. D’altra parte, si riconosce anche che gli atti involontari sono penosi, mentre quelli compiuti per
assecondare un desiderio sono piacevoli. Inoltre, che differenza c’, quanto alla involontarietà, tra gli errori
commessi per calcolo e quelli commessi per impulsività? Si devono, infatti, evitare sia gli uni sia gli altri;
[1111b] d’altra parte si riconosce che le passioni irrazionali non sono meno umane, sicché sono proprie
dell’uomo anche le azioni che derivano da impulsività e da desiderio. È, dunque, assurdo porle come
involontarie.
2. [La scelta].
58 , giacché si ritiene che
Definiti e il volontario e l’involontario,
[5] si va avanti con la trattazione della scelta
essa sia molto intimamente connessa con la virtù e che permetta di giudicare il carattere meglio che non le
azioni. La scelta, dunque, è manifestamente qualcosa di volontario, ma non si identifica con esso, perché il
volontario ha un’estensione maggiore: infatti, anche i bambini e gli altri animali hanno in comune con gli
uomini la possibilità di agire volontariamente, ma non quella di scegliere, e degli atti repentini
[10] diciamo
che sono volontari, ma non che derivano da una scelta. Coloro che sostengono che la scelta è desiderio o
impulsività o volontà o una specie di opinione, non sembra che parlino correttamente. Infatti, la scelta non è
comune anche agli esseri irrazionali, mentre desiderio ed impulsività sì. E l’incontinente agisce perché
appetisce, ma non perché sceglie; l’uomo continente, al contrario, agisce
[15] per una scelta e non per
desiderio. Inoltre, un desiderio può essere contrario ad una scelta, ma non ad un altro desiderio. E il
desiderio ha per oggetto il piacevole ed il doloroso, mentre la scelta non ha per oggetto né il doloroso né il
piacevole. Ancor meno è impulsività: infatti, le azioni compiute per impulsività, è ammesso comunemente,
non derivano proprio per niente da una scelta. Ma, certo, non è neppure volontà,
[20] benché le sia
manifestamente affine. Infatti non ci
può essere scelta dell’impossibile, e se uno dicesse che lo fa oggetto
della propria scelta farebbe la figura dell’insensato. Invece c’ volontà anche dell’impossibile, per esempio
dell’immortalità. Inoltre, la volontà riguarda anche quelle cose che non possono essere fatte dallo stesso che
le vuole, per esempio che un certo attore o un certo atleta riescano vincitori;
[25] invece nessuno sceglie
simili cose, ma solo quelle che si pensa di poter fare personalmente. Inoltre, la volontà ha come oggetto
piuttosto il fine, la scelta, invece, i mezzi: per esempio, noi vogliamo star bene di salute e scegliamo i mezzi
per star bene; vogliamo essere felici e diciamo appunto che lo vogliamo, ma è stonato dire che lo scegliamo.
In generale, infatti,
[30] sembra che la scelta riguardi solo le cose che dipendono da noi. Dunque, non può
essere neppure un’opinione, poiché si ammette che l’opinione riguardi ogni specie di oggetto, quelli eterni
ed impossibili non meno di quelli che dipendono da noi: ed essa si distingue secondo il falso ed il vero, non
secondo il bene ed il male, mentre la scelta si distingue piuttosto secondo questi ultimi. Dunque,
[1112a]
nessuno, certo, può dire che si identifica con l’opinione in generale. Ma neppure con un certo tipo di
opinione: infatti, è con lo scegliere il bene o il male che determiniamo la nostra qualità morale, e non con
l’averne una certa opinione. E noi scegliamo di conseguire o di evitare qualcosa di bene o di male, mentre
un’opinione l’abbiamo su che cos’ una cosa o a chi giova o in che modo:
[5] non abbiamo certo l’opinione
di conseguirla o di evitarla. E poi la scelta è lodata, per il fatto di avere l’oggetto che si deve piuttosto che
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
per il fatto di essere retta, mentre l’opinione è lodata per l’essere conforme al vero. Inoltre, scegliamo le
cose che noi sappiamo molto bene che sono buone, mentre abbiamo opinione su quelle che non conosciamo
perfettamente. Comunemente, poi, si ritiene che non sono gli stessi a compiere le scelte migliori, ma che
[10] alcuni hanno opinioni piuttosto buone, ma poi, per vizio, scelgono quello che non si deve. Che, poi,
un’opinione preceda o segua la scelta non ha alcuna importanza. Non è questo, infatti, che stiamo
esaminando, ma se la scelta si identifichi con un determinato tipo di opinione. Che cosa è, dunque, o che
tipo di cosa è la scelta, dal momento che non è nessuna delle cose precedentemente dette? È
manifestamente un che di volontario, ma non ogni volontario è possibile oggetto di scelta.
forse quel volontario che è preceduto da una deliberazione? Infatti, la scelta è accompagnata da ragione,
cioè da pensiero. Ed anche il nome sembra suggerire che è ciò che viene scelto prima di altre cose.
[15] Ma non sarà
3. [La deliberazione].
Ma si delibera di tutto, cioè ogni cosa è un possibile oggetto di deliberazione, oppure di alcune cose non è
possibile deliberazione? Senza dubbio bisogna dire che è oggetto di deliberazione
[20] non ciò su cui
delibererebbe uno stupido o un pazzo, ma ciò su cui delibererebbe un uomo che ha senno. Nessuno, certo,
delibera sulle cose eterne, per esempio sul cosmo o sull’incommensurabilità della diagonale col lato del
quadrato. Ma neppure su quelle che sono, sì, in movimento, ma sempre secondo le stesse modalità, sia per
necessità, sia
[25] per natura, o per qualche altra causa (per esempio sul rivolgimento e sul sorgere degli
astri). Né su ciò che avviene ora in una maniera ora in un’altra, come siccità e piogge. Né su ciò che accade
per caso, come il rinvenimento di un tesoro. Ma neppure su tutte le cose umane, come, per esempio,
nessuno Spartano delibera sulla migliore forma di governo per gli Sciti.
[30] Infatti, nessuna di queste cose
può dipendere da noi. Invece deliberiamo sulle cose che dipendono da noi, cioè su quelle che possono
essere compiute da noi: e queste sono tutto quello che resta. Infatti, si ammette che cause siano natura
necessità e caso, e inoltre l’intelletto e tutto ciò che è causato dall’uomo. E i singoli uomini deliberano su ciò
che può essere fatto da loro stessi. E per quanto riguarda
[1112b] le scienze esatte e per sé sufficienti, non
è possibile deliberazione: per esempio, per quanto riguarda le lettere dell’alfabeto (giacché non abbiamo
dubbi su come vadano scritte). Ma su tutto quanto dipende da noi, ma non sempre allo stesso modo, su
questo noi deliberiamo: per esempio, su questioni di medicina e di affari,
[5] e tanto più sull’arte del pilota
che non sulla ginnastica, quanto meno quella è precisa, ed inoltre in maniera simile su tutte le altre cose, e
più sulle arti che non sulle scienze, giacché sulle prime siamo più incerti. La deliberazione ha luogo a
proposito di quelle cose che per lo più si verificano in un certo modo, ma che non è chiaro come andranno a
finire, cioè quelle in cui c’ indeterminatezza.
[10] Per le cose importanti prendiamo dei consiglieri, perché
non ci fidiamo di noi stessi, ritenendo di non essere all’altezza di conoscerle adeguatamente. Deliberiamo
non sui fini, ma sui mezzi per raggiungerli. Infatti, un medico non delibera se debba guarire, né un oratore
se debba persuadere, né un politico se debba stabilire un buon governo, né alcun altro delibera
[15] sul
fine. Ma, una volta posto il fine, esaminano in che modo e con quali mezzi questo potrà essere raggiunto: e
quando il fine può manifestamente essere raggiunto con più mezzi, esaminano con quale sarà raggiunto
nella maniera più facile e più bella; se invece il fine può essere raggiunto con un mezzo solo, esaminano in
che modo potrà essere raggiunto con questo mezzo, e con quale altro mezzo si raggiungerà a sua volta il
mezzo, finché non giungano alla causa prima, che, nell’ordine della scoperta, è l’ultima.
[20] Colui che
delibera sembra che compia una ricerca ed una analisi nel modo suddetto, come per costruire una figura
geometrica (ma è manifesto che non ogni ricerca è una deliberazione, per esempio quelle matematiche,
mentre ogni deliberazione è una ricerca), è ciò che è ultimo nell’analisi è primo nella costruzione. E se ci si
imbatte in qualcosa di impossibile,
[25] ci si rinuncia: per esempio, se occorre denaro ed è impossibile
procurarselo. Se, invece, la cosa si rivela possibile, ci si accinge ad agire. Possibili sono le cose che
dipendono da noi, giacché quelle che dipendono dai nostri amici in certo qual modo dipendono da noi: il loro
principio infatti è in noi. Oggetto della ricerca sono a volte gli strumenti a volte il loro uso:
[30] similmente
anche in tutti gli altri casi, talora si ricerca lo strumento, talora il modo di usarlo, talora il mezzo per
ottenere tale strumento. Sembra, dunque, come si è detto, che l’uomo sia principio delle proprie azioni: la
deliberazione riguarda ciò che può essere fatto da colui stesso che delibera, e le azioni hanno come fine
59 , l’oggetto della deliberazione non può essere il fine bensì i
qualcosa di diverso da loro stesse. Dunque
mezzi. Né, certamente, possono esserlo i singoli dati di fatto
[1113a], per esempio se questo è pane o se è
stato cotto come si deve, poiché i singoli dati di fatto sono oggetto della sensazione. Se, poi, si dovesse
sempre deliberare, si andrebbe all’infinito. L’oggetto della deliberazione e quello della scelta sono la
medesima cosa, tranne per il fatto che l’oggetto della scelta è già stato determinato: infatti, è ciò che è
60 giudicato dalla deliberazione ciò che viene scelto.
stato precedentemente
[5] Infatti, ciascuno smette di
cercare come agirà quando ha ricondotto il principio dell’azione a se stesso, e, precisamente, a quella parte
di sé che è dominante, giacché è questa che sceglie. E questo risulta chiaro anche dalle antiche costituzioni,
quelle che rappresentò Omero: i re, infatti, facevano annunciare al popolo quello che essi avevano scelto.
Poiché, dunque,
[10] l’oggetto della scelta è una cosa che dipende da noi, desiderata in base ad una
deliberazione, anche la scelta sarà un desiderio deliberato di cose che dipendono da noi: infatti, quando, in
base ad una deliberazione, arriviamo ad un giudizio, proviamo un desiderio conforme alla deliberazione. Si
consideri conclusa la trattazione schematica della scelta, della natura dei suoi oggetti e del fatto che
riguarda i mezzi relativi ai fini.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
4. [La volontà].
61 che la volontà ha per oggetto il fine, ma alcuni pensano che esso sia il bene, altri
[15] Abbiamo già detto
ciò che appare bene. Ma a coloro che affermano che l’oggetto della volontà è il bene succede di dover
affermare che non è oggetto di volontà ciò che vuole colui che non sceglie rettamente (se infatti fosse
oggetto di volontà sarebbe anche un bene; ma nel caso ipotizzato era un male). D’altra parte,
[20] a coloro
che affermano che oggetto di volontà è ciò che appare bene succede di dover affermare che non c’ un
oggetto di volontà per natura, ma che lo è ciò che sembra bene a ciascuno: ad uno sembra una cosa, ad un
altro un’altra, e, se fosse così, oggetto della volontà sarebbero le cose contrarie. Ma se queste conseguenze
non piacciono, non bisogna allora dire che in senso assoluto e secondo verità oggetto di volontà è il bene,
ma per ciascuno in particolare è ciò che appare tale?
[25] Per l’uomo di valore ciò che è veramente bene,
per il miserabile, invece, una cosa qualsiasi, come anche nel caso dei corpi: per quelli che sono in buone
condizioni sono salutari le cose che sono veramente tali, per quelli malaticci altre cose; e similmente per
l’amaro, il dolce, il caldo, il pesante e così via. Infatti, l’uomo di valore
[30] giudica rettamente di ogni cosa,
ed in ognuna a lui appare il vero. Per ciascuna disposizione, infatti, ci sono cose belle e piacevoli ad essa
proprie, e forse l’uomo di valore si distingue soprattutto per il fatto che vede il vero in ogni cosa, in quanto
ne è regola e misura. Nella maggior parte degli uomini, invece, l’inganno sembra avere origine dal piacere:
esso appare un bene, ma non lo è.
[1113b] Essi scelgono, pertanto, il piacere come se fosse un bene, e
fuggono il dolore come se fosse un male.
5. [Le virtù e i vizi sono volontari, e perciò implicano responsabilità].
Poiché, dunque, oggetto di volontà è il fine, e oggetti di deliberazione e di scelta sono i mezzi, le azioni
concernenti i mezzi
[5] saranno compiute in base ad una scelta, cioè saranno volontarie. Ma le attività delle
virtù hanno per oggetto i mezzi. Dunque, la virtù dipende da noi, e così pure il vizio. Infatti, nei casi in cui
dipende da noi l’agire, dipende da noi anche il non agire, e in quelli in cui dipende da noi il non agire,
dipende da noi anche l’agire. Cosicché, se l’agire, quando l’azione è bella, dipende da noi, anche il non agire
dipenderà da noi,
[10] quando l’azione è brutta; e se il non agire, quando l’azione è bella, dipende da noi,
anche l’agire, quando l’azione è brutta, dipende da noi. Se dipende da noi compiere le azioni belle e quelle
brutte, e analogamente anche il non compierle, e se è questo, come dicevamo, l’essere buoni o cattivi,
allora dipende da noi l’essere virtuosi o viziosi. Il dire che "nessuno è volontariamente
[15] malvagio, né
62 sembra essere in parte falso e in parte vero: infatti nessuno è felice
involontariamente felice"
involontariamente, ma la malvagità è volontaria. Diversamente, bisogna rimettere in discussione quanto
abbiamo ora detto, e bisogna negare che l’uomo sia principio e padre delle proprie azioni come lo è dei figli.
Ma se è manifesto che è così e se non possiamo
[20] ricondurre le nostre azioni ad altri principi se non a
quelli che sono in noi, le azioni i cui principi sono in noi dipendono da noi e sono volontarie. Di ciò sembrano
rendere testimonianza sia i singoli uomini nella condotta privata, sia gli stessi legislatori; questi, infatti,
puniscono e infliggono pene a coloro che compiono azioni malvagie: a quelli, però, che non le compiono per
costrizione o per un’ignoranza di cui non sono essi stessi causa,
[25] mentre conferiscono onori a coloro che
compiono azioni belle, con l’intenzione di incitare questi e di tenere a freno quelli. Ma le azioni che non
dipendono da noi e che non sono volontarie, nessuno incita a compierle, così come non ha alcun effetto
l’essere persuasi a non provare caldo o dolore o fame o altra affezione simile, giacché non soffriamo di
meno [30] quelle affezioni. E, infatti, puniscono per l’ignoranza stessa quando ritengono che uno sia causa
della propria ignoranza; per esempio, per gli ubriachi le pene sono doppie, giacché il principio dell’azione è
in colui stesso che la compie: infatti è padrone di non ubriacarsi, ma l’ubriachezza, poi, è causa della sua
ignoranza. E puniscono coloro che ignorano qualcuna delle prescrizioni legali, prescrizioni che bisogna
conoscere e che non sono difficili,
[1114a] e similmente anche negli altri casi, in cui ritengono che
l’ignoranza sia causata da trascuratezza, in quanto dipende dagli interessati il non essere ignoranti: essi
sono, infatti, padroni di prendersi la cura di uscire dall’ignoranza. E certo qualcuno è tale da non
prendersene cura. Ma dell’essere divenuti tali gli uomini stessi sono causa,
[5] in quanto vivono con
trascuratezza, e dell’essere ingiusti e intemperanti sono causa, nel primo caso, coloro che agiscono
malvagiamente, nel secondo coloro che passano la vita dediti al bere e a cose simili: infatti, sono le attività
relative ai singoli ambiti di comportamento che li rendono appunto ingiusti e intemperanti. Questo risulta
chiaro da coloro che si preoccupano di riuscire in una competizione o in un’azione qualsiasi: passano, infatti,
63 del carattere si generano dal
tutto il loro tempo ad esercitarsi. L’ignorare, dunque,
[10] che le disposizioni
fatto di esercitarsi nei singoli campi è proprio di chi è affatto insensato. Inoltre, è assurdo dire che chi
commette ingiustizia non vuole essere ingiusto o che chi si comporta con intemperanza non vuole essere
intemperante. E se uno compie delle azioni in conseguenza delle quali sarà ingiusto, e lo sa, sarà ingiusto
volontariamente; né certamente basterà volerlo, per cessare di essere ingiusto e per essere giusto. Infatti,
neppure [15] il malato può diventar sano solo volendolo. E se questo è il caso, è volontariamente che si
trova in stato di malattia, in quanto vive da incontinente e non dà retta ai medici. All’inizio, sì, gli era
possibile non ammalarsi, ma, una volta lasciatosi andare, non più, come uno che ha scagliato una pietra non
può più riprenderla: tuttavia, dipende da lui lo scagliarla, giacché il principio dell’azione è in lui. Così anche
all’ingiusto [20] ed all’intemperante all’inizio era possibile non diventare tali, ragion per cui lo sono
volontariamente: una volta divenuti tali, non è loro più possibile non esserlo. Non solo i vizi dell’anima sono
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
volontari, ma per alcuni anche quelli del corpo, ed a loro li rinfacciamo. Infatti, nessuno biasima quelli che
sono brutti per natura, ma quelli che lo sono per mancanza di ginnastica
[25] e per trascuratezza. E
similmente anche nel caso di debolezza e di mutilazione: nessuno, infatti, rimprovererebbe uno che è cieco
per natura o per malattia o per ferita, ma piuttosto ne avrebbe compassione; ognuno, invece, biasimerebbe
chi fosse cieco per abuso di vino o per qualche altra intemperanza. Dunque, dei vizi del corpo quelli che
dipendono da noi vengono biasimati, ma quelli che non dipendono da noi, no. Se è
[30] così, anche negli
altri casi i vizi che ricevono biasimo dipenderanno da noi. Se, poi, si dicesse che tutti tendono a ciò che a
loro appare bene, senza però essere padroni di quell’apparire, ma il fine appare a ciascuno,
[1114b] caso
per caso, tale quale ciascuno anche è, risponderemmo che, se dunque ciascuno per sé è in qualche modo
causa della sua disposizione, sarà in qualche modo causa anche di quell’apparire. E se no, nessuno è per sé
causa del suo cattivo comportamento, ma compie queste cattive azioni per ignoranza del fine,
[5] credendo
che da esse gli deriverà il massimo bene, e la tensione verso il fine non è frutto di una scelta personale, ma
esige che uno sia nato, per così dire, con una capacità visiva che gli permetterà di giudicare rettamente e di
scegliere ciò che è veramente bene; ed è ben dotato chi ha ricevuto buona dalla natura questa capacità
visiva: essa, infatti, è la cosa più grande e più bella, e cosa che non è possibile
[10] prendere o imparare da
altri, ma che uno possederà tale e quale l’ha ricevuta dalla nascita, e l’essere questa dalla nascita buona e
bella costituirà la perfetta e vera "buona natura". Se, dunque, questo è vero, perché mai la virtù dovrà
essere volontaria più che non il vizio? Ad entrambi infatti, sia al buono sia al cattivo, il fine appare allo
stesso modo
[15] e si trova posto per entrambi per natura o come che sia, ed essi, poi, tutto il resto
compiono riferendosi a quello in un modo o nell’altro. Dunque, sia nel caso che il fine non si riveli per natura
a ciascuno nella sua determinatezza, ma che qualcosa dipenda anche dall’uomo stesso, sia nel caso che il
fine sia fornito dalla natura, per il fatto che l’uomo di valore compie tutti gli altri atti volontariamente, la
virtù è volontaria, ed anche il vizio
[20] non sarà meno volontario: in modo simile, infatti, anche al vizioso
compete il determinarsi per se stesso nelle azioni anche se non nel fine. Se dunque, come si dice, le virtù
sono volontarie (ed infatti noi stessi siamo in qualche modo concausa delle nostre disposizioni, e per il fatto
di avere certe qualità poniamo un certo fine corrispondente), anche i vizi saranno volontari: la situazione,
[25] infatti, è la stessa.
Dunque, delle virtù in generale abbiamo detto in abbozzo quale è il loro genere, cioè che sono delle medietà
e delle disposizioni, che per se stesse ci fanno compiere le azioni da cui esse appunto derivano, che
dipendono da noi e sono volontarie, e che ci fanno agire così come ordina la retta ragione.
[30] Ma le azioni
e le disposizioni non sono volontarie allo stesso modo: infatti, siamo padroni delle azioni dal principio alla
fine, in quanto ne conosciamo le singole circostanze; delle disposizioni, invece, siamo padroni solo
dell’inizio, [1115a] in quanto non ci è noto il loro graduale accrescimento, come nel caso delle malattie. Ma
poiché dipende da noi farne questo o quest’altro uso, per questa ragione sono volontarie.
Riprendendo il discorso su ciascuna virtù, diciamo quale è la loro natura,
[5] quali oggetti riguardano e in
qual modo: ed insieme sarà chiaro anche quante sono. E innanzi tutto trattiamo del coraggio.
6. [II coraggio].
Che, dunque, il coraggio sia una medietà tra paura e temerarietà, è già risultato chiaro. Ed è evidente che
noi abbiamo paura delle cose temibili e che queste sono, per dirla semplicemente, dei mali: perciò si
definisce la paura come aspettativa di un male.
[10] Orbene, noi temiamo tutti i mali, come, per esempio,
disonore, povertà, malattia, mancanza di amici, morte, ma non si ritiene che l’uomo coraggioso sia tale in
rapporto a tutti i mali. Ci sono alcuni mali, infatti, che bisogna temere, e che è bello temere, e brutto il non
temere, come il disonore, giacché chi lo teme è un uomo per bene e riservato, chi non lo teme, invece, è
impudente.
[15] L’impudente è da alcuni chiamato coraggioso, ma per metafora, perché ha qualcosa di
simile al coraggioso: anche il coraggioso, infatti, è uno che non ha paura. La povertà, certo, non bisogna
temerla, né la malattia, né, in genere, tutto quanto non deriva dal vizio, né è causato da chi agisce. Ma
neppure chi non ha paura di fronte a queste cose è coraggioso. Tuttavia, noi chiamiamo così anche questo
per somiglianza:
[20] alcuni, infatti, pur essendo vili nei pericoli della guerra, sono tuttavia liberali e
affrontano coraggiosamente la perdita della loro ricchezza. Certamente neppure chi tema un oltraggio ai
propri figli od alla moglie, o chi tema l’invidia o qualche cosa di questo genere, è un vile; né è coraggioso, se
ha ardire mentre sta per essere fustigato. Dunque, in relazione a quali oggetti, tra quelli temibili, si
determina
[25] l’uomo coraggioso? Non è, forse, di fronte a quelli più grandi? Nessuno, infatti, più di lui, è
in grado di sopportare ciò che ispira timore. Ma la cosa che suscita la paura più grande è la morte: essa è,
infatti, un termine, e si ritiene che per chi è morto non vi sia più nulla di bene né di male. Ma neppure in
ogni circostanza in cui si presenti la morte, come, per esempio, in mare o nelle malattie, l’uomo si
determina come coraggioso. In quali circostanze allora? Non sarà
[30] nelle circostanze più belle? Tali sono
le circostanze della morte in guerra, cioè nel pericolo più grande e più bello. E corrispondenti ad esse sono
anche gli onori per ciò concessi nelle città ed alla corte dei monarchi. In conclusione, si chiamerà
propriamente coraggioso colui che sta senza paura di fronte ad una morte bella, e di fronte a tutte le
circostanze che costituiscono rischio immediato che conduce ad una tale morte: di questo tipo sono
[35]
soprattutto le situazioni di guerra. Tuttavia, l’uomo coraggioso resta senza paura anche in mare
[1115b] e
nelle malattie, ma non allo stesso modo degli uomini di mare: gli uomini coraggiosi, infatti, non sperano
nella salvezza e disprezzano una simile morte, mentre gli uomini di mare sono pieni di speranza, sulla base
della loro esperienza. Nello stesso tempo, poi, si mostrano coraggiosi anche nelle circostanze in cui c’è
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
bisogno di vigore,
[5] oppure in cui è bello morire: ma, in tali tipi di morte, non c’ né una cosa né l’altra.
7. [Bellezza morale del coraggio].
Ciò che suscita paura non è la stessa cosa per tutti gli uomini; ma noi diciamo che c’ qualcosa che suscita
paura anche al di sopra delle forze umane. Questo, dunque, fa paura a chiunque: a chiunque, almeno, abbia
senno. Ma le cose a misura d’uomo differiscono per grandezza, cioè per il fatto di essere
[10] più grandi o
più piccole; allo stesso modo anche le cose che ispirano ardire. L’uomo coraggioso è impavido quanto può
esserlo un uomo. Temerà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come
vuole la ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù. È possibile temere queste cose di più e
di meno, ed inoltre temere le cose non temibili come se lo fossero.
[15] L’errore si produce o perché si teme
ciò che non si deve, o perché si teme nel modo in cui non si deve, o perché non è il momento, o per qualche
motivo simile: lo stesso vale anche per le cose che ispirano ardire. Orbene, colui che affronta, pur
temendole, le cose che si deve, e che corrispondentemente ha ardire come e quando si deve, è coraggioso:
infatti, [20] il coraggioso patisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione. Il
fine di ogni attività è quello che è conforme alla disposizione da cui essa procede: dunque, anche per il
coraggioso. Il coraggio, poi, è una cosa bella: tale, quindi, sarà anche il suo fine, giacché ogni cosa si
definisce in base al suo fine. Dunque, è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni
temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio. Di coloro che peccano per eccesso, colui che pecca per
mancanza di paura
[25] non ha nome (abbiamo detto in precedenza che molte qualità non hanno nome) ma
sarebbe un uomo folle o un insensibile se non temesse nulla, né terremoto né flutti, come dicono dei Celti:
colui invece che eccede nell’ardire di fronte a cose temibili è temerario. Si ritiene comunemente che il
temerario sia anche un millantatore,
[30] cioè uno che simula coraggio: come il coraggioso è realmente di
fronte alle cose temibili, così il temerario vuole apparire: in ciò che può, quindi, lo imita. Perciò i più di loro
sono una mescolanza di viltà e temerarietà, giacché in queste situazioni si mostrano coraggiosi, ma non
sanno affrontare quelle realmente temibili. Chi eccede nel temere è vile, perché teme ciò che non si deve
[35] e come non si deve, e tutte le caratteristiche di questo genere gli competono di conseguenza.
[1116a]
Difetta anche nell’ardire, ma ciò che è più evidente è che eccede nel temere nelle situazioni dolorose. Certo
il vile è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura di tutto. Il coraggioso, invece, è tutto il
contrario: l’avere ardire, infatti, è proprio dell’uomo ricco di speranza. Il vile, dunque,
[5] il temerario e il
coraggioso hanno rapporto coi medesimi oggetti, ma vi si rapportano in modo differente: i primi, infatti,
peccano per eccesso e per difetto, quest’ultimo invece si tiene nel mezzo e si comporta come si deve. I
temerari, inoltre, sono precipitosi, e, mentre prima che i pericoli si presentino, li vogliono, quando i pericoli
sono attuali si tirano indietro: i coraggiosi, invece, sono risoluti nei fatti e calmi prima.
[10] Dunque, come
abbiamo detto, il coraggio è una medietà che ha per oggetto cose che suscitano ardire e cose che suscitano
paura, nelle circostanze che abbiamo indicato, e le sceglie e le affronta perché è bello il farlo, o perché è
brutto il non farlo. Il morire per fuggire la povertà o l’amore o una sofferenza qualsiasi non è da uomo
coraggioso, ma piuttosto da vile: infatti, è una debolezza quella di fuggire i travagli, e chi in tal caso affronta
la morte
[15] non lo fa perché è bello, ma per fuggire un male.
8. [Cinque disposizioni impropriamente denominate coraggio].
II coraggio, dunque, ha queste caratteristiche; ma si chiamano coraggio anche altre disposizioni, distinte in
cinque specie.
(1) Innanzi tutto il coraggio civile, giacché è quello che assomiglia di più al coraggio vero e proprio. Infatti,
si ritiene comunemente che i cittadini affrontino i pericoli a causa delle pene e dei biasimi stabiliti dalle
leggi, ed a causa degli onori:
[20] per questo si ritiene che i più coraggiosi siano quelli presso i quali i vili
sono infamati ed i coraggiosi onorati. Uomini di questo tipo rappresenta anche Omero, per esempio un
Diomede e un Ettore:
64
"Polidamante per primo mi coprirà d’infamia"
e
[25] "Dirà Ettore un giorno, parlando fra i Teucri:
65 .
"Da me travolto il Titide...""
Questa specie di coraggio è quella che assomiglia di più a quella descritta precedentemente, perché nasce
da virtù: nasce, infatti, da pudore e da desiderio di bello (cioè d’onore), e dal desiderio di evitare il biasimo,
che è brutto. Si potrebbero porre nella medesima specie
[30] anche coloro che sono forzati dai loro capi al
medesimo comportamento; ma sono di qualità inferiore perché lo fanno non per pudore ma per paura, e per
fuggire non ciò che è brutto ma ciò
che è doloroso: li forzano infatti i loro signori, come Ettore
"Ma chi scoprirò che vuole lungi dalla battaglia
starsene [...], questi
66 .
[35] non potrà più sfuggire i cani... "
E i capi che assegnano loro i posti, e che li battono se indietreggiano,
[1116b] fanno la stessa cosa, e così
pure coloro che li schierano davanti ai fossati o cose simili, giacché tutti costoro li forzano. Invece bisogna
essere coraggiosi non per forza, ma perché è bello.
(2) Anche l’esperienza di simili categorie di pericoli si pensa comunemente che sia coraggio: di qui anche
67 . E coraggiosi alcuni si mostrano in certe cose,
Socrate giunse a pensare
[5] che il coraggio è una scienza
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
altri in altre: nei pericoli della guerra i soldati di professione, giacché si ritiene che in guerra vi siano molti
falsi allarmi, che soprattutto i soldati di professione sanno cogliere a colpo d’occhio. Appaiono, quindi,
coraggiosi, perché gli altri non conoscono la natura dei fatti. Inoltre, in base all’esperienza sono capaci, più
di ogni altro, di infliggere colpi senza riceverne,
[10] perché sono abili nell’uso delle armi e ne possiedono di
tali, quali sono probabilmente le più adatte sia per infliggere colpi sia per non riceverne; combattono,
quindi, come uomini armati contro uomini inermi e come atleti allenati contro dilettanti: in effetti, nelle
competizioni atletiche non sono i più coraggiosi ad essere i migliori combattenti, ma
[15] quelli che hanno la
forza più grande e che si trovano nelle migliori condizioni fisiche. I soldati di professione diventano vili,
invece, quando il pericolo avanza e quando sono inferiori per numero e per armamento: sono i primi, infatti,
a fuggire, mentre le truppe formate da cittadini muoiono sul posto, come accadde anche presso il tempio di
Hermes 68 . Per questi uomini, infatti, è brutto fuggire,
[20] e la morte è preferibile ad un simile mezzo di
salvezza; quelli, invece, anche all’inizio dell’azione affrontano il pericolo solo perché credono di essere più
forti; ma quando si rendono conto della realtà fuggono, perché temono la morte più dell’onta. L’uomo
coraggioso, invece, non è di tal fatta.
(3) Anche l’impulsività viene ricondotta al coraggio: si ritiene, infatti, che siano coraggiosi anche quelli che
agiscono per impulsività,
[25] come le bestie quando si gettano contro coloro che le hanno ferite, per il fatto
che anche gli uomini coraggiosi sono impulsivi. L’impulsività è lo slancio più impetuoso contro i pericoli; di
69 , e "destò ardore e impulsività"
70 , e "un aspro
qui anche Omero: "egli infuse forza alla loro impulsività"
71 , e "il sangue gli ribollì"
72 . Tutte queste espressioni sembrano infatti significare
ardore salì alle narici"
[30]
il risveglio dell’impulsività e l’impeto. Orbene, i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsività
coopera con loro; le bestie invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state colpite o spaventate, dal
momento che, quando sono nella foresta, non aggrediscono. Non è, dunque, coraggio il loro,
[35] quando si
slanciano verso il pericolo, spinte dalla sofferenza o dall’impulsività, senza prevedere nessuno dei rischi,
poiché in questo modo, allora, sarebbero coraggiosi anche gli asini quando hanno fame: anche se vengono
percossi [1117a] non si allontanano dal pascolo. Anche gli adulteri, sotto la spinta del desiderio, compiono
molte azioni audaci. Il più naturale, poi, sembra essere il coraggio che nasce dall’impulsività;
[5] e, se
all’impulsività si aggiunge una scelta e la consapevolezza del fine, sembra essere il coraggio propriamente
detto. Anche gli uomini, dunque, quando sono adirati, soffrono, e quando si vendicano provano piacere; ma
coloro che combattono per questi motivi sono, sì, battaglieri, ma non propriamente coraggiosi, giacché non
combattono per il bello né come prescrive la ragione, bensì sotto la spinta della passione; tuttavia, hanno
qualcosa che è molto vicino al vero coraggio.
(4) Certo, neppure gli uomini fiduciosi
[10] sono coraggiosi; infatti, per il fatto di aver vinto spesso e molti
nemici, hanno ardire nei pericoli: hanno una certa somiglianza con i coraggiosi, perché entrambi sono
ardimentosi, ma, mentre i coraggiosi sono ardimentosi per le ragioni sopra esposte, questi lo sono per il
fatto che credono di essere i più forti e di non poter subire alcun danno. (Nello stesso modo si comportano
anche gli ubriachi,
[15] perché diventano fiduciosi. Quando, invece, le cose non vanno in questo modo, essi
fuggono.) Al contrario, proprio dell’uomo coraggioso è, come abbiamo detto, affrontare ciò che è o appare
temibile all’uomo, perché è bello farlo ed è brutto il non farlo. Perciò si ritiene che sia proprio di un uomo
anche più coraggioso restare senza paura e senza turbamento nei pericoli improvvisi più che non in quelli
previsti, [20] giacché ciò che dipende di meno dalla preparazione deriva di più dalla disposizione. Infatti, i
pericoli prevedibili uno può anche farli oggetto di una scelta in base ad un calcolo e ad un ragionamento, ma
quelli improvvisi si affrontano secondo la propria disposizione.
(5) Appaiono coraggiosi anche coloro che non riconoscono il pericolo, e non sono lontani dagli uomini
fiduciosi, pur essendo inferiori in quanto non hanno la stima di sé che invece quelli possiedono. Perciò
resistono
[25] per un certo tempo: ma quelli che si sono ingannati, quando vengono a sapere o sospettano
che le cose stanno diversamente, fuggono. Cosa che capitò agli Argivi quando si imbatterono nei Laconi
73 . Si è detto, dunque, quale è la natura dei coraggiosi, e di quelli che comunemente
scambiati per Sicioni
passano per coraggiosi.
9. [Il coraggio: osservazioni conclusive].
Se il coraggio è in rapporto con temerarietà e paura, il rapporto
[30] non è lo stesso nei due casi, ma
riguarda soprattutto le cose che fanno paura. Infatti, è coraggioso chi in queste situazioni rimane
imperturbabile, e di fronte ad esse si comporta come si deve, più di quanto non faccia chi si trova in
situazioni che ispirano ardire. È, dunque, per il fatto di affrontare le situazioni dolorose, come si è detto, che
tali uomini vengono chiamati coraggiosi. Perciò il coraggio comporta anche dolore ed è giusto che venga
lodato: infatti, è più difficile
[35] affrontare le situazioni dolorose che astenersi dai piaceri.
[1117b]
si riconoscerà che il fine che il coraggio permette di raggiungere è piacevole, ma che è oscurato dalle
circostanze, come avviene anche nelle gare ginniche. Per i pugilatori il fine per cui combattono è piacevole
(ciò per cui combattono è la corona e gli onori), ma il ricevere colpi è doloroso, dal momento che sono
carne, e penoso è tutto l’allenamento. E poiché le cose dolorose sono molte, mentre il fine è piccola cosa,
esso sembra non avere niente di piacevole. Se, dunque, la situazione è tale anche nel caso del coraggio, la
morte e le ferite saranno dolorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà
perché è bello affrontarle, ovvero perché è brutto non farlo. E
[10] quanto più completa sarà la virtù che
possiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo simile, soprattutto,
che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla morte dei beni più grandi, e lo sa; e ciò
Tuttavia
[5] di
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
è doloroso. Ma non è affatto meno coraggioso, anzi, forse lo è anche di più, perché
di quei beni, ciò che in guerra è bello. Dunque, non a tutte le virtù appartiene la proprietà di essere
esercitate piacevolmente, se non nella misura in cui con esse si raggiunge il fine. Se si tratta poi di soldati,
niente, certo, impedisce che, di fatto, i migliori non siano i soldati di questo tipo, bensì quelli meno
coraggiosi, ma che non hanno alcun altro bene: questi ultimi infatti sono pronti di fronte ai pericoli, e
barattano la loro vita in cambio di piccoli guadagni. Orbene, per quanto riguarda il coraggio basti quanto si è
fin qui detto: non è difficile, in base a quanto abbiamo detto, comprendere che cos’, almeno
sommariamente.
[15] sceglie, in cambio
[20]
10. [La temperanza e l’intemperanza].
Dopo aver parlato del coraggio parliamo della temperanza, perché si ritiene che queste due siano le virtù
74 . Che, [25] dunque, la temperanza è una medietà relativa ai piaceri,
delle parti irrazionali dell’anima
l’abbiamo già detto; essa, infatti, riguarda i dolori in misura minore ed in maniera diversa; nel medesimo
campo si manifesta anche l’intemperanza. Quali piaceri, dunque, esse riguardino, lo determineremo ora.
Distinguiamo, dunque, i piaceri dell’anima da quelli del corpo. Esempio dei primi, l’amore degli onori e
l’amore del sapere: in ciascuno di questi casi, infatti,
[30] si gode di ciò che si ama, senza che il corpo provi
nulla, ma è piuttosto la mente che prova piacere. Ma gli uomini che ricercano tali piaceri non sono chiamati
né temperanti né intemperanti. Similmente non sono chiamati così neppure quelli che ricercano i piaceri che
non sono del corpo: infatti quelli che amano ascoltare o raccontare favole e
[35] che passano le loro
giornate a parlare di quel che capita, non li chiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni; neppure chiamiamo
intemperanti coloro che soffrono per questioni di denaro o di amicizia.
[1118a] La temperanza dovrebbe,
dunque, riguardare i piaceri del corpo, e neppure tutti questi: coloro, infatti, che godono di ciò che
percepiamo mediante la vista (per esempio, dei colori e dei disegni, cioè della pittura), non vengono
chiamati né temperanti né intemperanti.
[5] Eppure si riconoscerà che anche di queste cose si può godere
come si deve, ma anche in eccesso e in difetto. Lo stesso avviene anche nel campo dell’udito: quelli che
esagerano nel godere della musica o del teatro nessuno li chiama intemperanti, né si chiamano temperanti
quelli che godono come si deve. Né si danno questi nomi a chi ama i piaceri dell’odorato, se non
[10] per
accidente: non chiamiamo intemperanti coloro che godono degli odori delle mele o delle rose o dei profumi,
ma piuttosto coloro che si dilettano degli odori degli unguenti o dei cibi raffinati. Gli intemperanti, infatti,
godono di questi odori, perché fanno loro ricordare gli oggetti desiderati. Si può osservare che anche gli altri
uomini, quando hanno fame, godono
[15] degli odori dei cibi; ma godere proprio degli odori è tipico
dell’intemperante, giacché per lui questi sono per se stessi oggetti di desiderio. Ma neppure gli altri animali
possono, se non per accidente, ricavare un piacere da queste sensazioni. Infatti, ai cani non è l’odore delle
lepri che piace, bensì il mangiarle, e l’odorato gliene produce la sensazione.
[20] Né al leone piace il
muggito del bue, ma gli piace divorarlo: sembra che goda, invece, del muggito, perché è attraverso il
muggito che ha percepito che il bue è vicino. Similmente non gode perché vede "un cervo o una capra
selvatica" 75 , ma perché l’avrà come pasto. La temperanza e l’intemperanza riguardano, dunque, i piaceri di
natura tale che anche gli altri
[25] animali ne partecipano, ragion per cui si rivelano piaceri servili e bestiali.
E questi sono il tatto e il gusto.
Ma anche del gusto, manifestamente, essi fanno poco o nessun uso, giacché compito del gusto è quello di
discernere i sapori, cosa che fanno gli assaggiatori di vini e quelli che condiscono cibi raffinati: ma non è
assaggiare e condire che a loro piace,
[30] almeno non agli intemperanti, bensì ricavarne il godimento che
deriva loro dal tatto, sia nei cibi sia nelle bevande, sia nei rapporti cosiddetti afrodisiaci. Perciò un tale, che
era un ghiottone, pregava che la sua gola divenisse più lunga di quella di una gru, mostrando che il
godimento gli derivava dal tatto.
[1118b] Dunque, è il più comune dei sensi quello con cui è connessa
l’intemperanza: ed essa sarà giustamente ritenuta il più biasimevole dei vizi, perché ci riguarda non in
quanto siamo uomini, ma in quanto animali. Godere dunque di simili sensazioni ed amarle al di sopra di
tutto è bestiale.
[5] E infatti ne restano esclusi, tra i piaceri derivati dal tatto, quelli più degni di uomini
liberi, come, per esempio, quelli che nei ginnasi vengono prodotti dal massaggio e dal conseguente
riscaldamento, perché il piacere tattile dell’intemperante non riguarda l’intero corpo, ma solo alcune parti di
esso.
11. [Temperanza, intemperanza e insensibilità].
Si ritiene comunemente che alcuni dei desideri siano comuni a tutti, e che altri, invece, siano propri
dell’individuo e avventizi. Per esempio, il desiderio del nutrimento è naturale:
[10] chiunque ne abbia
bisogno, infatti, desidera nutrimento solido o liquido, e talora entrambi, e chi è giovane e nel pieno delle
76 , desidera i piaceri del letto. Però, desiderare questo o quel piacere determinato
forze, come dice Omero
non è più cosa di tutti, né ciascuno desidera sempre le stesse cose. Perciò è qualcosa di soggettivo. Tuttavia
la preferenza individuale ha almeno qualcosa anche di naturale: infatti, per alcuni sono piacevoli certe cose,
per altri altre, ed alcune cose sono per tutti più piacevoli
[15] di altre cose qualsiasi. Nei desideri naturali,
dunque, sono pochi gli uomini che errano e in una sola direzione, in quella dell’eccesso: infatti, mangiare o
bere tutto quello che capita fino ad essere troppo pieni significa superare in quantità la soddisfazione
richiesta dalla natura, giacché il desiderio naturale è il mezzo per riempire il vuoto del bisogno. Perciò
costoro sono chiamati golosi,
[20] perché riempiono il ventre più del conveniente: e tali diventano quelli che
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III)
hanno un temperamento troppo da schiavi. Invece, riguardo ai piaceri particolari all’individuo molti, e
spesso, errano. Gli amatori di questa o quella cosa determinata sono così chiamati per il fatto che godono
delle cose di cui non devono godere, o perché ne provano piacere più di quanto generalmente si faccia, o
perché non lo fanno come si deve. Gli intemperanti, invece, eccedono in tutti questi modi insieme:
godono, infatti, di alcune cose delle quali non si deve (perché sono odiose), e se godono di alcune di quelle
di cui si deve godere, lo fanno più di quanto si deve e di quanto non faccia la maggior parte della gente. È
dunque evidente che l’eccesso nei piaceri è intemperanza e cosa biasimevole. Quanto ai dolori, d’altra parte,
non è come nel caso del coraggio che si è chiamati temperanti
[30] per il fatto di sopportarli o intemperanti
per il fatto di non sopportarli, ma l’intemperante è chiamato così perché si addolora più del dovuto per il
fatto di non riuscire ad ottenere i piaceri desiderati (così è il piacere che all’intemperante causa dolore),
mentre il temperante viene chiamato così per il fatto che non soffre per l’assenza di ciò che è piacevole e
per il doversene astenere.
[1119a] L’intemperante, dunque, desidera le cose piacevoli, tutte, o quelle che lo
sono in massimo grado, ed è trascinato dal desiderio a scegliere queste in cambio di tutte le altre: perciò
soffre sia quando non le ottiene, sia quando le desidera (il desiderio, infatti, è accompagnato dal dolore,
benché [5] sembri assurdo provar dolore a causa del piacere). Di uomini che peccano per difetto in ciò che
riguarda i piaceri o che godono meno di quanto non sia conveniente, non ce ne sono molti: non è umana
una simile insensibilità. Anche tutti gli altri animali, infatti, distinguono i cibi, e di alcuni godono e di altri no.
Se per un uomo non ci fosse nulla di piacevole né alcuna differenza tra una cosa e l’altra, quell’uomo
sarebbe molto lontano dall’essere veramente uomo: un tipo simile non ha neppure ricevuto un nome, per il
fatto che non capita quasi mai. L’uomo temperante, invece, in queste cose si tiene nel mezzo. Infatti, non
gode delle cose di cui soprattutto gode l’intemperante, ma piuttosto le detesta, né in genere di quelle di cui
non si deve; non gode eccessivamente di alcunché di simile, e quando queste cose non ci sono non prova
dolore o desiderio, oppure lo fa con misura; non gode
[15] più di quanto si deve, né quando non si deve,
né, in generale, fa niente di simile. Tutto ciò che è piacevole e favorevole alla salute ed al benessere fisico,
egli lo desidera con misura e come si deve; e così le altre cose piacevoli, purché non siano d’ostacolo alle
prime, o contrarie al bello, o superiori ai suoi mezzi economici. Chi si comporta così, infatti, ama simili
piaceri più di
[20] quanto meritino. L’uomo temperante, invece, non è di questo tipo, ma si comporta come
prescrive la retta ragione.
[25]
[10]
12. [Diverso grado di volontarietà dell’intemperanza e della viltà].
L’intemperanza è simile ad un atto volontario più che non la viltà. L’una, infatti, è causata dal piacere, l’altra
dal dolore, sentimenti dei quali l’uno è da preferire, l’altro da evitare; e mentre il dolore sconvolge e
corrompe la natura di chi lo prova, il piacere non fa niente di simile.
[25] Per conseguenza, l’intemperanza è
più volontaria, e perciò più riprovevole. Infatti è più facile abituarvisi, giacché molte sono le situazioni di
questo genere nella vita, e chi vi si abitua non corre rischi, ma nel caso delle cose che suscitano paura è
tutto il contrario. Si riterrà che la viltà non sia volontaria allo stesso modo nei singoli casi particolari: essa,
infatti, di per sé non fa soffrire, ma i casi particolari, a causa del dolore, sconvolgono, tanto
[30] da far
gettare le armi e da far compiere tutte le altre azioni vergognose: perciò si ritiene che siano atti forzati. Per
l’intemperante invece, gli atti particolari sono volontari (poiché egli li desidera e li brama), ma il suo vizio in
generale è meno volontario, perché nessuno desidera essere intemperante. Il nome di "intemperanza"
l’attribuiamo, per metafora, anche agli errori infantili, poiché hanno una certa somiglianza con quelli degli
adulti. [1119b] Quale delle due cose prenda il nome dall’altra non ha alcuna importanza per il problema
presente, ma è chiaro che la seconda l’ha preso dalla prima. E non sembra una cattiva metafora. Infatti,
deve essere disciplinato l’essere che desidera cose brutte e che ha grandi capacità di sviluppo;
[5] e di tal
natura sono soprattutto il desiderio e il fanciullo: infatti, anche i fanciulli vivono assecondando il desiderio, e
soprattutto in essi vi è il desiderio di ciò che è piacevole. Se, dunque, il fanciullo non sarà docile e
sottomesso all’autorità, il suo desiderio avanzerà di molto, giacché nell’essere irragionevole il desiderio del
piacere è insaziabile e riceve stimoli da tutte le parti, e l’esercizio del desiderio ne accresce la forza naturale,
[10] e se i desideri sono grandi ed intensi giungono a cacciar via la capacità di ragionare. Perciò essi devono
essere misurati e pochi, e non devono essere affatto in contraddizione con la ragione, ed è questo che
chiamiamo essere "docile" e "disciplinato". Come bisogna che il fanciullo viva conformandosi ai precetti del
suo pedagogo, così anche la facoltà del desiderio deve conformarsi alla ragione.
[15] Perciò bisogna che la
facoltà del desiderio dell’uomo temperante sia in armonia con la ragione: infatti, lo scopo di entrambe è il
bello, e l’uomo temperante desidera ciò che si deve e come e quando si deve. Così ordina anche la ragione.
Questa, dunque, è la nostra dottrina della temperanza.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO IV
1. [La liberalità].
Adesso trattiamo della liberalità. Generalmente si crede che essa sia la medietà concernente i beni materiali.
Infatti, si loda l’uomo liberale non nelle azioni di guerra, né in quelle per cui viene lodato l’uomo
temperante, né, inoltre, nelle decisioni giudiziali,
[25] bensì in riferimento al dare e al ricevere beni
materiali, e soprattutto in riferimento al dare. Denominiamo, poi, beni materiali tutte le cose il cui valore si
misura in denaro. La prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti che riguardano i beni materiali. E mentre
attribuiamo il termine avarizia sempre a coloro che si preoccupano dei beni materiali più di quanto bisogna,
[30] talora applichiamo il termine prodigalità comprendendo insieme più significati: chiamiamo, infatti,
prodighi gli incontinenti e coloro che scialacquano per soddisfare la loro intemperanza. Perciò si ritiene
comunemente che siano affatto miserabili, giacché hanno molti vizi insieme. Dunque, la loro denominazione
non è appropriata: infatti "prodigo" vuol significare chi ha un vizio solo e determinato, quello di mandare in
rovina il patrimonio.
[1120a] Infatti, prodigo è chi si rovina da se stesso, e la distruzione del patrimonio si
ritiene che sia una specie di rovina di se stessi, dal momento che è esso che rende possibile vivere. Per
conseguenza, è in questo senso che prendiamo il termine "prodigalità". Delle cose, poi, che hanno un uso, si
può usare sia bene sia male. Ora,
[5] la ricchezza appartiene alle cose di cui si fa uso, e di ciascuna cosa fa
l’uso migliore colui che ne ha la virtù relativa: dunque, anche della ricchezza farà il migliore uso possibile chi
ha la virtù relativa ai beni materiali; e costui è l’uomo liberale. Ma l’uso dei beni materiali si ritiene che
consista nello spendere e nel donare, mentre il prenderli e il custodirli sono piuttosto un possesso.
[10]
Perciò è più proprio dell’uomo liberale il donare a chi si deve che non il prendere di dove si deve, ovvero il
non prendere di dove non si deve. È infatti caratteristico della virtù più fare il bene che non il riceverlo, e
compiere belle azioni più che non compierne di cattive. E non è difficile vedere che il donare implica fare il
bene e compiere belle azioni, il prendere implica
[15] ricevere il bene e non comportarsi male. Inoltre la
riconoscenza va a chi dona, non a chi prende, ed ancor più la lode. Ed è più facile non prendere che donare:
si è meno disposti a cedere del proprio che a non prendere dall’altrui.
E liberali sono chiamati quelli che donano; quelli che non prendono ciò che non devono
[20] non sono lodati
dal punto di vista della liberalità, bensì dal punto di vista della giustizia, e quelli che prendono ciò che
devono non sono lodati affatto. Gli uomini liberali, poi, sono amati quasi di più di tutti quelli che sono amati
per la virtù, perché sono benefici, e l’essere benefici consiste nel donare. Le azioni virtuose sono belle ed
hanno come fine il bello. E l’uomo liberale, dunque, donerà in vista del bello
[25] ed in maniera corretta:
donerà, cioè, a chi si deve e nella quantità e nel momento in cui si deve, ed osserverà tutte le altre
condizioni che il donare rettamente implica; e lo farà con piacere, o almeno senza pena: infatti, ciò che è
conforme a virtù è piacevole o senza pena, anzi non è affatto penoso. Colui che dona, invece, a chi non si
deve, o dona non in vista del bello ma per qualche altro motivo, non potrà essere chiamato liberale, ma in
qualche altro modo. Né
[30] si potrà chiamare liberale chi dona con pena: egli, infatti, anteporrà i suoi beni
alla bella azione, e questo non è da uomo liberale. Né prenderà di dove non si deve: un simile prendere non
è, infatti, proprio di un uomo che non stima i beni materiali. Né sarà liberale chi sollecita beni per sé,
giacché non è proprio di chi fa il bene il farsi beneficiare senza scrupoli. Invece prenderà di dove si deve, per
esempio dalla sua proprietà privata,
[1120b] non perché è bello, ma perché è necessario al fine di avere di
che donare. Né trascurerà i suoi beni personali, se non altro perché vuole con essi provvedere agli altri. Né
donerà a chi capita, per avere di che donare a chi si deve, nel tempo e nel luogo in cui è bello donare. È
affatto [5] caratteristico dell’uomo liberale persino eccedere nel donare, in modo da lasciare a se stesso la
parte minore dei suoi beni: infatti, è proprio del liberale non guardare a se stesso. La liberalità, poi, si
determina a seconda del patrimonio: infatti, il carattere liberale del dono non sta nella quantità di ciò che è
donato, ma nella disposizione d’animo di colui che dona, e questa spinge a donare in proporzione al
patrimonio. Per conseguenza, nulla impedisce
[10] che sia più liberale chi dona di meno, se per donare
attinge da un patrimonio più piccolo. Si ritiene comunemente che siano più liberali coloro che non si sono
procurati da sé il patrimonio, ma lo hanno ereditato: infatti, non hanno esperienza dell’indigenza ed inoltre
tutti gli uomini amano di più ciò che è opera loro, come i genitori ed i poeti. D’altra parte, non è facile
arricchirsi
[15] per un uomo liberale, poiché non è portato a prendere né a conservare, ma a dar via, e non
apprezza i beni materiali per se stessi, ma come mezzi per poter donare. Perciò si rimprovera la fortuna,
perché coloro che ne sono più degni meno arricchiscono. Ma questo succede non senza ragione: non è
possibile che possieda dei beni chi non si preoccupa di averne, come succede
[20] anche in tutte le altre
cose. Se non altro, il liberale non donerà a chi non si deve né quando non si deve, e così via; infatti non
agirebbe più conformemente alla liberalità, e se spendesse per queste cose le sue sostanze, non ne avrebbe
per spenderle per ciò che si deve. Come, infatti, si è detto, è liberale chi spende in proporzione al proprio
patrimonio e per ciò che si deve: chi, invece, eccede,
[25] è prodigo. Perciò non chiamiamo prodighi i
tiranni: infatti, non sembra che sia facile che col donare e con lo spendere possano superare la grandezza
della loro proprietà. Poiché, dunque, la liberalità è la medietà relativa al donare e al prendere beni materiali,
l’uomo liberale donerà e spenderà per ciò che si deve e quanto si deve, allo stesso modo nelle piccole
[30]
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV)
che nelle grandi cose, e questo farà con piacere; e prenderà di dove si deve e quanto si deve. Poiché,
infatti, la sua virtù è la medietà relativa al donare e al prendere, il liberale farà entrambe le cose come si
deve: al donare in modo conveniente consegue anche un prendere convenientemente, mentre un prendere
diversamente è il suo contrario. Ordunque, le proprietà che si implicano sono presenti insieme nello stesso
uomo, mentre è chiaro che per quelle contrarie non è così.
[1121a] D’altra parte, se gli accadrà di spendere
più del dovuto o più di ciò che è bello, ne soffrirà, ma moderatamente e come si deve: è tipico della virtù,
infatti, provar piacere e dolore per ciò che si deve e come si deve. Infine, l’uomo liberale è molto
accomodante per quanto riguarda i beni materiali:
[5] infatti, è capace di subire ingiustizia, se non altro
perché non stima i beni materiali, e perché soffre di più se non dà qualcosa di dovuto di quanto non si
77 . Il prodigo, invece, erra anche in
addolori se dà qualcosa di non dovuto, anche se così dispiace a Simonide
queste cose: non prova, infatti, né piacere né dolore di ciò per cui si deve, né nel modo in cui si deve: ma
sarà più chiaro per chi ci seguirà.
[10] Abbiamo dunque detto che la prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti, ed in due cose, nel donare e
nel prendere, giacché comprendiamo anche lo spendere nel donare. Orbene, la prodigalità eccede nel
donare e nel non prendere, mentre difetta nel prendere; l’avarizia, invece, difetta nel donare,
[15] ma
eccede nel prendere, eccetto che nelle piccole cose. I due aspetti della prodigalità stanno raramente
insieme: non è facile, infatti, per chi non prende da nessuna parte, donare a tutti, giacché le risorse
vengono presto a mancare a coloro che donano, se sono dei privati, che sono i soli che comunemente si
ritiene siano prodighi. Tuttavia, chi possedesse entrambi gli aspetti della prodigalità sarebbe ritenuto non
poco migliore
[20] dell’avaro. Egli, infatti, può essere guarito dall’età e dalla povertà, e può giungere alla
medietà. Ha infatti i tratti dell’uomo liberale, giacché dona e non prende, ma nessuna delle due cose fa
come si deve, cioè non le fa bene. Se, dunque, prendesse questa abitudine o comunque cambiasse
comportamento, sarebbe un uomo liberale: allora donerà a chi si deve
[25] e non prenderà di dove non si
deve. Proprio per questo si ritiene che non sia cattivo di carattere: non è, infatti, da uomo perverso ed
ignobile eccedere nel donare e nel non prendere, bensì da stupido. Chi è prodigo in questo modo si ritiene
che sia molto migliore dell’avaro per le ragioni dette, e perché quello benefica molta gente, questo, invece,
nessuno,
[30] neppure se stesso. Ma la maggior parte dei prodighi, come si è detto, giungono al punto di
prendere di dove non si deve e, da questo punto di vista, sono degli avari. Diventano molto disponibili a
prendere per il fatto di voler spendere, ma di non poterlo fare facilmente, perché le sostanze vengono loro
meno rapidamente. Sono quindi costretti a procacciarsele altrove.
[1121b] Nello stesso tempo, è anche
perché non si preoccupano per niente di ciò che è bello che prendono con noncuranza e da ogni parte:
desiderano infatti donare, ma non ha alcuna importanza per loro il modo con cui attingono e la fonte da cui
attingono. Perciò neppure le loro donazioni sono liberali: infatti, non sono moralmente belle, né hanno come
scopo il bello,
[5] né sono fatte come si deve ma, talvolta, rendono ricchi uomini che dovrebbero rimanere
poveri, e, mentre non darebbero nulla a uomini di carattere misurato, agli adulatori, invece, o a chi procura
loro qualche altro piacere, donano molto. Proprio per questo la maggior parte di loro sono anche
intemperanti, giacché spendono facilmente e sono scialacquatori per soddisfare le loro intemperanze, e,
poiché non vivono per
[10] ciò che è moralmente bello, sono proclivi ai piaceri. Il prodigo, quindi, quando
rimane senza guida, si rivolge all’avarizia ed alla intemperanza, mentre quando gli capita di trovare chi si
prende cura di lui può giungere al giusto mezzo e al comportamento dovuto. L’avarizia, invece, è
incorreggibile (si ritiene, infatti, che la vecchiaia ed ogni specie di impotenza rendano avari), ed è più
connaturale agli uomini
[15] che non la prodigalità: la gente, infatti, ama di più possedere beni materiali che
non donarli. L’avarizia, inoltre, ha una grande estensione e presenta molti aspetti: si ritiene, infatti, che
molti siano i modi di essere avari. Poiché consiste di due elementi, difetto nel dare ed eccesso nel prendere,
non in tutti si realizza integralmente, ma talora si scinde,
[20] e alcuni eccedono nel prendere, mentre altri
difettano nel dare. Infatti, quelli che rientrano in queste denominazioni, per esempio, tirchi spilorci taccagni,
tutti difettano nel dare, ma non aspirano ai beni altrui né vogliono prenderseli; gli uni per una certa onestà
e per un certo ritegno di fronte alle brutte azioni
[25] (si pensa infatti che alcuni, o almeno loro dicono così,
custodiscano gelosamente i loro beni per non trovarsi mai costretti a compiere qualche brutta azione; e a
questi appartiene pure chi risparmia anche un grano di comino ed ogni tipo del genere: e prende il nome
dall’eccesso che consiste nel non donare nulla); gli altri, invece, si astengono dai beni altrui per paura,
pensando che non è facile che uno si impadronisca dei beni degli altri
[30] senza che gli altri si
impadroniscano dei suoi: a loro, quindi, non piace né prendere né donare. Altri, al contrario, eccedono nel
prendere, in quanto prendono tutto e da ogni parte, come, per esempio, coloro che esercitano mestieri
sordidi: i ruffiani e tutti i loro simili, e gli usurai che prestano piccole somme a grande interesse.
[1122a]
Tutti costoro, infatti, prendono di dove non si deve e nella quantità che non si deve. Elemento comune a
costoro è poi, manifestamente, la sordida cupidigia di guadagno: tutti, infatti, affrontano il disonore in vista
di un guadagno, anche se piccolo. Coloro, infatti, che traggono grossi guadagni di dove non si deve, e non
fanno ciò che si deve, non
[5] li chiamiamo avari (per esempio, i tiranni che saccheggiano e spogliano i
templi), ma, piuttosto, malvagi, empi, ingiusti. Tuttavia, il giocatore d’azzardo, il ladro e il pirata
appartengono alla classe degli avari: sono, infatti, sordidamente cupidi di guadagno. È, infatti, in vista del
guadagno che gli uni e gli altri si danno da fare ed affrontano il disonore, e,
[10] mentre questi ultimi
affrontano i più grossi rischi in vista del bottino, i primi traggono guadagni dagli amici, ai quali invece si
dovrebbe donare. Gli uni e gli altri, dunque, in quanto vogliono trarre profitti di dove non si deve, sono
sordidamente avidi di guadagno; e, per conseguenza, tutti questi modi di prendere sono propri dell’avarizia.
A ragione, dunque, si dice che
l’avarizia è il contrario della liberalità: infatti, è un male più grande
[15] della
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prodigalità, e si pecca di più per avarizia che non per prodigalità, come noi l’abbiamo descritta. Orbene,
tanto basti sull’argomento della liberalità e
dei vizi a lei opposti.
2. [La magnificenza].
Si ammetterà che a questo deve seguire la trattazione della magnificenza. Si ritiene, infatti, che anch’essa
sia una virtù in rapporto ai beni materiali,
[20] ma non si estende come la liberalità a tutti i tipi di azione
che hanno per oggetto beni materiali, bensì solo alle spese: in queste, però, supera la liberalità per
grandezza. Infatti, come il nome stesso suggerisce, è una maniera conveniente di spendere in grande. Ma la
grandezza è relativa: infatti, la spesa non è la stessa per chi è incaricato di armare una trireme
[25] e per
chi deve guidare una sacra legazione. La convenienza, dunque, è relativa a chi spende ed alle circostanze e
all’oggetto della spesa. Chi, invece, spende in cose piccole o medie secondo che esse meritano non si
78 "spesso ho donato al vagabondo"), bensì solo colui che spende
chiama magnifico (come l’uomo del detto
in grandi cose. Infatti, mentre l’uomo magnifico è liberale, l’uomo liberale non è necessariamente magnifico.
[30] Il difetto di tale disposizione d’animo si chiama meschinità, l’eccesso volgarità, mancanza di gusto e
simili, disposizioni, queste ultime, che non eccedono in grandezza in relazione a ciò che si deve, bensì che
fanno sfoggio in cose per cui non si deve o in maniera in cui non si deve: di esse parleremo in seguito. Il
magnifico è simile ad un conoscitore, perché
[35] è in grado di vedere la convenienza e fare grandi spese
79 , la disposizione viene definita dalle sue attività e dai
con gusto.
[1122b] Come, infatti, dicemmo all’inizio
suoi oggetti. Ora, le spese dell’uomo magnifico sono grandi e convenienti. Tali, dunque, saranno anche le
sue opere: così, infatti, la spesa sarà grande e conveniente all’opera da compiere. Come l’opera
[5] deve
essere degna della spesa, così anche la spesa deve essere degna dell’opera, o perfino superarla. Il
magnifico farà spese di tal genere in vista di ciò che è moralmente bello, perché questo è comune a tutte le
virtù. Inoltre, le farà con piacere e con profusione di mezzi, giacché la minuziosità nei conti è qualcosa di
meschino. E si porrà il problema di come ottenere il risultato più bello e più conveniente, piuttosto che di
quanto costerà
[10] e di come spendere il meno possibile. L’uomo magnifico è, dunque, necessariamente
anche liberale. Infatti, anche l’uomo liberale spenderà ciò che si deve e come si deve; ma, in queste spese
legittime, è la grandezza che è tipica dell’uomo magnifico, in quanto la magnificenza è appunto la grandezza
della liberalità relativa a queste spese, e con una spesa uguale renderà l’opera più magnifica. Infatti,
[15] il
valore di ciò che si possiede e quello di un’opera non sono lo stesso. Il possesso più prezioso, infatti, è
quello che ha il massimo valore commerciale, come, per esempio, l’oro, mentre l’opera più preziosa è quella
che è grande e bella (la contemplazione di una simile opera, infatti, suscita ammirazione, ed è appunto ciò
che è magnifico che suscita ammirazione): ora, il valore dell’opera, la sua magnificenza, sta nella sua
grandezza. La magnificenza, poi, ha come oggetto le spese che noi chiamiamo spese onorevoli (per
esempio, quelle che si fanno
[20] per gli dèi, offerte votive, costruzione di templi, sacrifici, e similmente per
ogni aspetto del culto religioso), e tutte quelle che si ha l’ambizione di fare per l’interesse comune (per
esempio, secondo me, quando si pensa di dover allestire con splendore un coro o una trireme, oppure anche
di offrire un banchetto pubblico). Ora, in tutti questi casi, come si è detto, la valutazione della spesa è
rapportata a chi la fa ed è relativa alla persona che la fa
[25] ed ai mezzi che questa ha: infatti, le spese
devono essere degne dei suoi mezzi, e convenire non solo all’opera ma anche a chi la compie. Perciò un
povero non potrà essere magnifico, perché non ha di che fare grandi spese in modo conveniente: e chi ci
prova è sciocco, perché ciò va al di là delle sue possibilità finanziarie e del suo dovere, mentre conforme a
virtù è solo ciò che viene compiuto rettamente.
[30] Ora, tali spese convengono a coloro che possiedono
adeguati mezzi, sia che li abbiano acquisiti personalmente, sia che li abbiano ricevuti in eredità dagli avi, sia
che derivino loro da altre relazioni, e poi ai nobili, alle persone illustri e così via, perché tutte queste
condizioni comportano grandezza e prestigio. Soprattutto di questa natura è dunque l’uomo magnifico, ed è
in spese di questo genere che consiste la magnificenza, come
[35] s’ detto: spese molto grandi e molto
onorevoli. Nelle spese private, invece, la magnificenza si deve manifestare in quelle che
[1123a] si fanno
una volta sola, come, per esempio, un matrimonio o una situazione del genere, e in quelle che interessano
tutta la città o le persone di rango, e quando si accolgono e si congedano ospiti stranieri, cioè quando si
offrono e si contraccambiano doni. Infatti, non è per se stesso che spende l’uomo magnifico, bensì
[5] per
l’interesse comune, e i suoi doni hanno qualcosa di simile alle offerte votive. E caratteristico dell’uomo
magnifico anche arredare la sua casa in modo conveniente alla propria ricchezza (anche una bella casa è un
ornamento), e spendere soprattutto per opere durevoli (che sono le più belle), e, in ogni caso, spendere
quanto conviene. Infatti, non sono le stesse cose che convengono
[10] agli dèi ed agli uomini, per un
tempio e per una tomba. E poiché ogni tipo di spesa può essere grande nel suo genere, e la più magnifica in
generale è la grande spesa per una grande cosa, ma in circostanze determinate la grande spesa per oggetti
determinati, c’ anche differenza tra la grandezza dell’opera e quella della spesa. Infatti, la più bella palla o
il più bel secchiello
[15] hanno il carattere della magnificenza come dono per un bambino, benché il loro
prezzo sia piccolo e misero. Per questa ragione, caratteristico dell’uomo magnifico è che, qualunque sia il
genere delle cose che fa, le fa con magnificenza (ché una simile azione non può essere facilmente superata)
ed in modo adeguato al valore della spesa. Tale è, dunque, l’uomo magnifico. Chi, invece, eccede ed è
volgare, [20] eccede in quanto spende più del dovuto, come s’ detto. Infatti, nelle piccole occasioni di
spesa spende molto e fa uno sfarzo stonato, come, per esempio, quando fa di una colazione fra amici un
banchetto di nozze, e quando deve allestire il coro per una commedia lo introduce nella pàrodo ornato di
porpora, come fanno i Megaresi. E tutto questo farà non
[25] in vista di ciò che è bello, ma per ostentare la
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sua ricchezza e perché crede con ciò di suscitare ammirazione, e dove si dovrebbe spendere molto spende
poco, e spende molto dove si dovrebbe spendere poco. L’uomo meschino, invece, pecca in tutto per difetto,
e, dopo aver speso le somme più grandi, per una piccola cosa rovinerà la bellezza del risultato, sia esitando
in ciò che fa,
[30] sia cercando il modo di spendere il meno possibile, sia rimpiangendo queste spese, sia
credendo di fare sempre di più di quello che si deve. Queste disposizioni sono, quindi, dei vizi; tuttavia non
portano con sé disonore, per il fatto che non sono dannose per il prossimo né troppo indecorose.
3. [La magnanimità].
Che la magnanimità abbia per oggetto grandi cose
[35] sembra che si ricavi dal suo stesso nome, ma
cerchiamo innanzi tutto di determinare di che natura sono queste grandi cose.
[1123b] Non c’ alcuna
differenza, se si esamina la disposizione in sé oppure l’uomo che vive conformemente ad essa. Si ritiene,
dunque, che magnanimo sia colui che si stima degno di grandi cose e lo è veramente: infatti, chi si stima
diversamente dal suo reale valore è sciocco, e nessuno di coloro che vivono secondo virtù è sciocco o
scervellato. Il magnanimo, dunque, è quello che abbiamo detto.
[5] Infatti, chi è degno di piccole cose e di
piccole cose si stima degno è modesto, e non magnanimo: la magnanimità, infatti, implica grandezza, come
anche la bellezza implica un corpo di grandi proporzioni, mentre gli uomini piccoli possono essere aggraziati
e proporzionati, ma non belli. Colui che si stima degno di grandi cose, ma in realtà non lo è, è vanitoso (ma
colui che si stima degno di cose più grandi di quanto non sia realmente degno non è sempre un vanitoso).
Chi, invece, si ritiene inferiore
[10] a quanto merita è pusillanime, se, per quanto egli sia degno di cose
grandi o medie o anche piccole, egli si stima degno di cose ancor più piccole. E si riconoscerà che
pusillanime nel più alto grado è colui che è degno di grandi cose: che farebbe, se non fosse degno di tanto?
Il magnanimo, dunque, da una parte è un estremo per la grandezza di ciò di cui è degno, dall’altra è un
medio, perché si stima come si deve: si stima, infatti, in conformità col suo autentico merito.
[15] Gli altri,
invece, eccedono o difettano. Se, dunque, il magnanimo è colui che si stima degno di cose grandi, e lo è
veramente, e se l’uomo più magnanimo è quello che si stima degno delle cose più grandi, e lo è, il suo
oggetto per eccellenza sarà una cosa sola. D’altra parte, "essere degno di" si dice in relazione ai beni
esterni: il più grande di essi ammetteremo che è quello che offriamo in omaggio agli dèi, ed a cui
soprattutto aspirano gli uomini di elevata dignità, e che è la ricompensa per le azioni più belle.
[20] Ora,
cosa di tale natura è l’onore, giacché questo è certamente il più grande dei beni esteriori. Dunque, è
riguardo all’onore e al disonore che il magnanimo si comporta come si deve. Ma anche senza bisogno di
ragionarci su è manifesto che i magnanimi hanno come oggetto l’onore, perché è dell’onore soprattutto che i
grandi uomini si ritengono degni, ma secondo il loro merito reale. Il pusillanime, invece, difetta nello
stimarsi, sia in rapporto a se stesso
[25] sia in confronto con ciò di cui si ritiene degno il magnanimo. D’altra
parte, il vanitoso eccede in rapporto a se stesso, ma certo non in confronto con il magnanimo. Il
magnanimo, se è vero che è degno delle cose più grandi, dovrà essere l’uomo più perfetto: infatti, degno di
cosa più grande è chi è più perfetto, e degno delle cose più grandi di tutte è il più perfetto di tutti. In
conclusione, chi è veramente magnanimo deve essere buono. E
[30] si dovrà pensare che appartiene al
magnanimo ciò che è grande in ciascuna virtù. In ogni caso non si armonizza affatto col carattere del
magnanimo fuggire a gambe levate, né commettere ingiustizia: a quale scopo commetterà cattive azioni
uno che non fa gran conto di nulla? Se lo si esamina nei particolari, si potrà vedere che è affatto ridicolo il
magnanimo che non sia buono. E non sarebbe neppure degno di onore
[35] se fosse cattivo: l’onore, infatti,
è ricompensa della virtù ed è tributato ai virtuosi.
[1124a] Sembra, dunque, che la magnanimità sia come
un ornamento delle virtù, giacché le rende più grandi, e non può nascere senza di quelle. Per questa ragione
è difficile essere veramente un uomo magnanimo: infatti, non è possibile esserlo senza una virtù perfetta.
La magnanimità,
[5] dunque, ha come oggetto per eccellenza onore e disonore: e degli onori grandi e
tributati dagli uomini di valore egli gioirà con misura, nella convinzione di ricevere ciò che gli spetta in
proprio, o anche meno (giacché non può esserci un onore degno di una virtù perfetta), ma tuttavia lo
accetterà, se non altro perché gli uomini non hanno niente di meglio da offrirgli.
[10] Ma dell’onore tributato
da gente qualsiasi e per piccole cose non si curerà assolutamente, perché non è di questi onori che è degno.
E parimenti anche nel caso del disonore, perché nessun disonore può giustamente riguardarlo. Dunque,
come s’ detto, il magnanimo ha come oggetto per eccellenza gli onori; ma, tuttavia, anche riguardo alla
ricchezza, al potere, alla buona e cattiva fortuna
[15] si comporterà con misura, comunque avvenga, e non
sarà troppo lieto se avrà buona fortuna né troppo afflitto se l’avrà cattiva. E non proverà questi sentimenti
neppure riguardo all’onore, che pure è il valore più grande. Il potere e la ricchezza, infatti, sono desiderabili
a causa dell’onore; per lo meno, coloro che posseggono quelle cose vogliono essere, in virtù di esse,
onorati: per colui per il quale anche l’onore è piccola cosa, saranno piccole cose anche tutte le altre.
[20] Ed
è per questo che si ritiene che i magnanimi siano uomini che guardano tutto dall’alto. D’altra parte, si ritiene
che anche le occasioni favorevoli contribuiscano alla magnanimità. I nobili, infatti, e coloro che detengono il
potere o la ricchezza, vengono stimati degni di onore perché occupano una posizione superiore, e tutto ciò
che è superiore nel bene viene onorato di più. Perciò simili occasioni favorevoli rendono gli uomini più
magnanimi, perché c’ gente che li onora.
[25] Ma per la verità solo l’uomo buono è tale da essere onorato;
se poi uno possiede entrambe le cose, fortuna e virtù, la gente lo stima ancor più degno di onore. D’altra
parte, coloro che possiedono i beni dovuti alla fortuna senza la virtù non hanno il diritto di stimarsi degni di
grandi cose, né è corretto chiamarli magnanimi: questo non è possibile senza una virtù perfetta. Coloro, poi,
[30] che possiedono tali beni diventano sprezzanti e arroganti. Senza la virtù, infatti, non è facile reggere
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV)
adeguatamente i doni della fortuna: ma non potendo reggerli e credendo di essere superiori agli altri, li
disprezzano, mentre essi stessi,
[1124b] poi, fanno tutto quello che passa loro per la testa. Infatti essi
imitano il magnanimo pur non essendogli simili, e lo fanno in quello che possono: da una parte, dunque,
non agiscono secondo virtù e dall’altra disprezzano
[5] gli altri. Ma mentre il magnanimo, in effetti,
disprezza a buon diritto poiché egli giudica secondo verità, la massa lo fa a caso. L’uomo magnanimo non
ama i piccoli rischi né i rischi in genere, perché li stima poco, ma ama i grandi rischi, e, quando è in
pericolo, non risparmia neppure la propria vita, perché pensa che non sempre la vita merita di essere
vissuta. Ed è capace di beneficare,
[10] ma si vergogna di essere beneficato, giacché la prima cosa è
propria di chi è superiore, la seconda di chi è inferiore. Inoltre, è portato a rendere più di quanto riceve: in
questo modo, infatti, chi ha preso l’iniziativa di beneficarlo contrarrà un debito con lui e si troverà ad essere
beneficato. Si ritiene poi anche che i magnanimi si ricordino di chi hanno beneficato, ma non di coloro da cui
hanno ricevuto benefici (infatti, chi riceve un beneficio è inferiore a chi lo fa, e invece l’uomo magnanimo
vuole essere superiore), e
[15] dei benefici fatti sente parlare con piacere, di quelli ricevuti, invece, con
80 , come gli Spartani
dispiacere. Questa è la ragione per cui Teti non ricorda a Zeus i benefici che gli ha reso
81 , bensì ricordano i benefici che hanno ricevuto. Caratteristico, poi, del
non li ricordano agli Ateniesi
magnanimo è anche il non chiedere nulla a nessuno, o di farlo con ripugnanza, ma di rendersi utile con
prontezza, e di fare il grande con gli uomini altolocati e fortunati,
[20] e il modesto, invece, con quelli di
medio livello. Essere superiore ai primi è difficile e glorioso, essere superiore ai secondi, invece, è facile, e
menare vanto sui primi non è cosa priva di nobiltà, ma farlo a spese degli umili è volgare, come usare la
forza contro i deboli. Inoltre, è proprio del magnanimo non mettersi al posto d’onore, né dove primeggiano
altri, anzi essere schivo e temporeggiare, a meno che non sia in gioco
[25] un grande onore o una grande
opera, e compiere poche imprese, ma importanti e gloriose. Ed è necessario anche che egli mostri
apertamente i suoi odi e le sue amicizie (infatti, è tipico di chi ha paura il nascondere i propri sentimenti,
cioè preoccuparsi più di ciò che pensa la gente che della verità), e che parli ed agisca apertamente: deve
essere uno che parla liberamente perché non fa conto dell’opinione altrui,
[30] e perché dice la verità, a
meno che non usi l’ironia con la massa. Inoltre, non può prendere la propria norma di vita da un altro,
[1125a] a meno che non si tratti di un amico, ché sarebbe un comportamento servile. Questa è la ragione
per cui tutti gli adulatori sono servili e i tapini sono adulatori. Non è facile all’ammirazione, perché per lui
niente è grande. Né è incline al rancore: non è del magnanimo tenere a mente, specialmente i torti subiti,
bensì [5] piuttosto sorvolare. E non è pettegolo: non parlerà né di se stesso né di altri, giacché non gli
importa di essere lodato né che gli altri siano biasimati (né d’altra parte è proclive a lodare); perciò non
parla mai male di nessuno, neppure dei nemici, se non per insolenza deliberata. Per quanto riguarda le cose
necessarie o di poco conto, è quello che si lamenta
[10] e che chiede di meno, giacché comportarsi così
sarebbe da uomo che si preoccupa troppo di queste cose. Ed è disposto a possedere cose belle ed
infruttuose, piuttosto che cose fruttuose ed utili: infatti, ciò è più consono ad un uomo autosufficiente.
Infine, si ritiene comunemente che l’incedere tipico del magnanimo sia lento, la sua voce grave, e l’eloquio
pacato; non è frettoloso, infatti,
[15] chi si preoccupa solo di poche cose, né concitato chi non stima
importante nessuna cosa: al contrario, alzare la voce e affrettare l’andatura derivano dalla concitazione e
dalla fretta.
Tale è, dunque, il magnanimo, mentre chi difetta è pusillanime e chi eccede è vanitoso. Orbene,
comunemente si ritiene che neppure costoro siano malvagi (infatti, non fanno del male), ma solo uomini che
errano. Infatti, il pusillanime,
[20] pur essendone degno, priva se stesso appunto dei beni di cui è degno, e
sembra avere in sé qualcosa di malvagio per il fatto di non ritenersi degno dei beni e di non conoscere se
stesso: se si conoscesse aspirerebbe alle cose di cui è degno, perché, se non altro, sono dei beni. Tuttavia,
uomini di questo tipo non sono ritenuti sciocchi, ma, piuttosto, timidi. Tale opinione di sé, poi, sembra che li
renda anche peggiori:
[25] ciascuna categoria di uomini, infatti, tende ai beni corrispondenti al proprio
valore, mentre i pusillanimi si astengono anche dalle azioni e dalle occupazioni belle, nella convinzione di
non esserne degni, ed allo stesso modo si comportano di fronte ai beni esterni. I vanitosi, invece, sono
sciocchi e non conoscono se stessi, e ciò è evidente. Infatti, pur non essendone degni, si impegnano in
imprese onorevoli, ma poi vengono smentiti dai fatti.
[30] Essi si adornano nell’abito, nell’aspetto esteriore
e così via, e vogliono che le loro fortune siano anche note a tutti, e ne parlano come se avessero l’intenzione
di farsi tributare onori in considerazione di esse. Alla magnanimità si contrappone di più la pusillanimità che
non la vanità: quella, infatti, è più comune e peggiore. La magnanimità, dunque,
[35] riguarda l’onore, un
82
onore grande, come s’ detto
.
4. [Il giusto amore per gli onori].
[1125b] Ma sembra che anche riguardo all’onore ci sia una virtù, come abbiamo detto nella prima
trattazione 83 , che ha, si ammetterà, uno strettissimo rapporto con la magnanimità, come anche la liberalità
ce l’ha con la magnificenza. Quest’altra virtù e la liberalità, infatti, non hanno a che fare con ciò che è
grande, [5] ma ci pongono nella dovuta disposizione verso le cose misurate e piccole. Come nel prendere e
nel donare beni materiali esiste una medietà e un eccesso e un difetto, così anche nel desiderio di onore c’
un più e un meno di ciò che si deve, e c’ una fonte da cui si deve e un modo in cui si deve. Infatti,
biasimiamo l’ambizioso perché aspira all’onore più di quanto si deve e da fonte da cui non si deve,
anche il non ambizioso in quanto preferisce non essere onorato neppure per le belle azioni. Ci sono delle
volte in cui lodiamo l’ambizioso perché virile ed amante del bello, e il non ambizioso perché misurato e
[10] ma
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV)
moderato, come abbiamo detto anche nella prima trattazione. Ma è chiaro che, poiché "essere amante di
questo o di quello" si dice in molti sensi, noi non
[15] sempre riferiamo alla stessa cosa l’espressione
"amante degli onori" (ambizioso), ma quando lo lodiamo lo riferiamo all’amare l’onore più che non faccia la
massa, quando lo biasimiamo lo riferiamo all’amare l’onore più di quanto si deve. Ma poiché questa medietà
non ha nome, i due estremi sembra che se ne disputino il posto come se fosse vacante. Ma nelle cose in cui
c’ eccesso e difetto c’ anche il mezzo: ora, si desidera l’onore sia di più sia di meno di quanto
deve; dunque, è possibile desiderarlo anche come si deve: e quindi viene lodata questa disposizione, che è
una medietà senza nome relativa all’onore. Confrontata con l’ambizione, appare mancanza di ambizione;
ma, confrontata con la mancanza di ambizione, appare ambizione; confrontata con entrambe, sembra
essere in certo qual modo sia l’una sia l’altra. E sembra che questo avvenga anche nel caso delle altre virtù.
Ma qui la contrapposizione
[25] appare tra gli estremi per il fatto che il mezzo non ha un proprio nome.
[20] si
5. [La bonarietà].
La bonarietà è la medietà riguardo ai sentimenti d’ira; ma, poiché il mezzo è senza nome e quasi senza
nome sono anche gli estremi, noi attribuiamo al mezzo il nome di "bonarietà", benché essa inclini verso il
difetto, che non ha nome. Ma l’eccesso si potrebbe chiamare irascibilità.
[30] Infatti, qui la passione è l’ira,
e le cause che la producono sono molte e diverse. Orbene, colui che si adira per ciò che si deve e con chi si
deve, ed inoltre come e quando e per quanto tempo si deve, viene lodato: costui, dunque, sarà un uomo
bonario, se è vero che la bonarietà viene lodata. Il bonario, infatti, vuole essere imperturbabile, cioè non
lasciarsi trascinare dalla passione,
[35] bensì adirarsi nel modo, per i motivi e per il tempo che la ragione
prescrive.
[1126a] Ora, comunemente si ritiene che egli pecchi piuttosto per difetto: l’uomo bonario infatti
non è vendicativo, ma piuttosto portato al perdono. Il difetto, invece, che sia una specie di indifferenza
all’ira o quello che vi pare, viene biasimato. Infatti, quelli che non si adirano per i motivi per cui
[5] si deve
passano per sciocchi, e anche quelli che non si adirano nel modo in cui si deve, né quando né con chi si
deve. Si ritiene allora che un tale uomo non sia sensibile né provi dolore, e, poiché non si adira, che non sia
capace di difendersi. D’altra parte, sopportare di essere trascinato nel fango e sorvolare se vi sono trascinati
gli amici, è atteggiamento da schiavi. L’eccesso, poi, si verifica in tutti i modi (ci si può adirare, infatti, con
chi non si deve,
[10] per motivi per cui non si deve, di più, più rapidamente e per più tempo di quanto si
deve); tuttavia, se non altro, non tutti questi eccessi si presentano nella medesima persona. Non sarebbe,
infatti, possibile, giacché il male distrugge anche se stesso, e quando è totale diventa insopportabile.
Orbene, gli irascibili si adirano rapidamente e con chi non si deve e per motivi per cui non si deve, e più di
quanto [15] si deve, ma la loro ira rapidamente anche cessa: e questo è il lato più bello del loro carattere.
Questo, poi, accade loro perché non trattengono l’ira, ma per la loro vivacità reagiscono in modo che sia
chiaro, e poi la loro ira cessa. I collerici, poi, sono eccessivamente vivaci e si adirano contro tutto ed in ogni
occasione: di qui il loro nome. I rancorosi
[20] sono difficili da riconciliare e restano adirati per molto tempo,
giacché trattengono l’impulso. Ma la quiete in loro ritorna quando abbiano reso la pariglia: la vendetta,
infatti, fa cessare l’ira, producendo in loro un piacere al posto del dolore precedente. Se questo, invece, non
avviene, sentono il peso del loro risentimento, perché, non essendo esso manifesto, nessuno cerca di
persuaderli a calmarsi, e d’altra parte digerire
[25] l’ira in se stessi richiede tempo. Tali uomini sono molto
molesti a se stessi e agli amici più stretti. Chiamiamo poi "difficili" quelli che si inquietano per motivi per cui
non si deve, di più e per più tempo di quanto si deve, e non cambiano sentimento senza aver vendicato o
punito l’offesa ricevuta. Alla bonarietà, poi, contrapponiamo soprattutto l’eccesso,
[30] perché è più
frequente: il desiderio di vendetta è più umano, e gli uomini difficili sono quelli che si adattano peggio alla
84 risulta chiaro anche da ciò che diciamo ora. Non è facile,
vita sociale. Ciò che abbiamo detto in precedenza
in effetti, determinare come, con chi, per quali motivi e per quanto tempo ci si debba adirare e fino a che
punto si fa bene o si sbaglia.
[35] Chi, infatti, devia di poco, sia nel senso del più sia nel senso del meno,
non viene biasimato; talora, infatti, coloro che difettano li lodiamo
[1126b] e li diciamo bonari, e diciamo
virili quelli che si adirano, intendendo che essi sono capaci di comandare. Per conseguenza, quanto e come
uno debba trasgredire per dover essere biasimato non è facile stabilire col ragionamento: son cose che
rientrano nell’ambito dei fatti particolari, ed il giudizio su di esse spetta alla sensazione. Ma almeno questo
[5] è chiaro, che lodevole è la disposizione di mezzo, secondo la quale ci adiriamo con chi si deve, per i
motivi per cui si deve, come si deve e così via, mentre gli eccessi e i difetti sono biasimevoli, e poco se sono
piccoli, di più se sono più grandi, e molto se sono molto grandi. È chiaro, quindi, che bisogna attenersi alla
disposizione di mezzo.
[10] Si consideri concluso il discorso sulle disposizioni relative all’ira.
6. [L’affabilità].
Nelle compagnie, nel vivere insieme, nei rapporti reciproci attraverso le parole e le azioni, alcuni sono
ritenuti compiacenti, cioè quelli che per far piacere lodano tutto e non contraddicono in nulla, ma pensano
loro dovere non procurare alcuna molestia a quelli che incontrano; altri che, al contrario dai precedenti,
contraddicono in tutto e non si rendono conto per niente di procurare molestia, sono chiamati scorbutici e
litigiosi. Che, dunque, le suddette disposizioni sono da biasimare è chiaro; ed è chiaro che è da lodare quella
di mezzo, in conformità con la quale si accetterà ciò che si deve e come si deve, e ci si inquieterà allo stesso
modo. Ad essa non è stato dato un nome,
[20] ma ciò a cui somiglia di più è l’amicizia. Infatti, colui che si
conforma a questa disposizione mediana è quel tipo di uomo che noi vogliamo intendere quando diciamo
[15]
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV)
"buon amico", se si aggiunge l’affetto. Essa, poi, differisce dall’amicizia, perché è priva di sentimento e di
affetto per coloro con cui è in relazione: infatti, non è per l’amore o per l’odio che si accetta come si deve
ciascun tipo di comportamento, ma per il fatto di avere questa disposizione.
[25] Ci si comporterà allo
stesso modo, infatti, con sconosciuti e con conoscenti, con familiari e con estranei, salvo a comportarsi in
ciascun tipo di relazione come a questa si conviene: non è conveniente, infatti, avere la stessa cura o la
stessa preoccupazione per familiari e per forestieri. In generale, dunque, si è detto che quest’uomo si
comporterà in compagnia come si deve, ma sarà riferendosi al bello e all’utile che egli mirerà
[30] a non
dare molestia o a rendersi gradevole agli altri. Sembra, infatti, che tale virtù riguardi i piaceri e i dolori che
si producono nelle compagnie: prova repulsione per tutte quelle compagnie in cui per lui non è bello o è
dannoso rendersi gradevole, e preferisce riuscire molesto. Se, invece, a chi la compie l’azione porta
vergogna, e vergogna non piccola, oppure danno, mentre il contrastarla porta
[35] solo un piccolo dolore,
non vi acconsentirà, ma vi si opporrà. Avrà, poi, rapporti differenti con persone di rango elevato e con gente
qualsiasi, [1127a] con le persone più note e con quelle meno note, e così via, a seconda delle altre
distinzioni, attribuendo a ciascuna categoria di persone ciò che si conviene. Ritiene preferibile in sé rendersi
gradevole e stare attento a non risultare molesto, tenendo come guida le conseguenze, quando queste sono
più importanti del piacere e del dolore,
[5] cioè il bello e l’utile. Inoltre, in vista di un grande piacere futuro
saprà arrecare anche piccole molestie. Tale è, dunque, l’uomo che qui occupa la posizione di mezzo, la quale
però non ha nome. Di coloro che si rendono gradevoli agli altri, quello che mira ad essere piacevole
senz’altro scopo è un uomo compiacente, ma quello che lo fa per procurarsi qualche vantaggio, sia in
denaro sia in beni acquistabili col denaro,
[10] è un adulatore. Chi, invece, è sgradevole in tutti i casi si è
detto che è scorbutico e litigioso. Gli estremi, infine, sembrano a prima vista contrapposti tra di loro, per il
fatto che il mezzo non ha un proprio nome.
7. [La sincerità].
Pressappoco nel medesimo campo sta anche la medietà tra millanteria e ironia: ma anche questa è
anonima. Non è poi tanto male esaminare anche
[15] tali disposizioni: anzi, conosceremo meglio ciò che
riguarda il carattere, conducendo un esame particolareggiato, e saremo più persuasi che le virtù sono delle
medietà, vedendo con uno sguardo d’insieme che è così in tutti i casi. Di coloro che nella vita di relazione
85 . Parliamo ora di coloro che
impostano i loro rapporti in funzione del piacere e del dolore si è già parlato
sono veraci o mentitori
[20] allo stesso modo sia nelle parole sia nelle azioni, sia in ciò che pretendono di
essere. Come si ritiene comunemente, dunque, il millantatore è uno che fa mostra di titoli di merito che non
possiede o di più grandi di quelli che possiede; l’ironico, al contrario, nega i titoli di merito che ha o li
attenua: infine, chi sta nel mezzo, schietto com’, è sincero sia nella vita sia nelle parole,
[25] riconoscendo
i titoli di merito che possiede, senza aumentarli né diminuirli. Ma in ciascuna di queste disposizioni è
possibile agire sia per qualche scopo sia per nessuno scopo. Quale ciascun uomo è, tali sono le cose che
dice e fa, cioè tale è il modo in cui vive, a meno che non agisca in vista di un qualche fine particolare. Per se
stessa, poi, la falsità è cattiva e biasimevole, mentre la verità è per se stessa bella e
[30] lodevole. Così
anche l’uomo sincero, poiché sta nel mezzo, è lodevole, mentre gli uomini falsi, in entrambi i sensi suddetti,
sono biasimevoli, ma è più biasimevole il millantatore. Parliamo ora dell’uno e dell’altro, e per primo
dell’uomo sincero. Non parliamo, infatti, di chi è sincero nei rapporti d’affari, né nelle situazioni pertinenti
all’ingiustizia o alla giustizia (questo infatti riguarderà un’altra virtù),
[1127b] ma di chi è sincero nelle cose
in cui, non avendovi lui alcun interesse, è sincero sia nelle parole sia nella vita, solo perché per intrinseca
disposizione è fatto così. Si riconoscerà, poi, che un uomo simile è virtuoso. Infatti, colui che ama la verità
ed è sincero in ciò che non ha importanza, sarà ancor più sincero
[5] in ciò che ha importanza: si guarderà
infatti come da qualcosa di brutto dalla menzogna, che egli eviterebbe d’altra parte anche per se stessa: ed
un uomo simile è lodevole. Egli, poi, inclina piuttosto verso l’attenuazione che non verso l’esagerazione della
verità: questo, infatti, è più conveniente, per il fatto che gli eccessi sono spiacevoli. Colui, poi, che pretende
di avere meriti più grandi di quelli che gli competono,
[10] senza avere alcun fine in vista, è simile ad un
uomo dappoco (altrimenti non godrebbe del falso), ed è manifestamente più fatuo che cattivo: se invece ha
in vista un fine particolare, chi lo fa in vista della gloria o dell’onore non è troppo biasimevole (è il caso del
millantatore), ma chi lo fa per denaro o per ciò che procura denaro, è più vergognoso (d’altra parte il
millantatore è tale non sulla base di una potenzialità, ma sulla base di una scelta:
[15] egli, infatti, è
millantatore come conseguenza di una sua disposizione, cioè perché è fatto così). Così anche il mentitore:
uno è tale perché gli piace la menzogna in sé, l’altro perché desidera fama o guadagno. Coloro che si
vantano per desiderio di gloria fingono di avere meriti tali da suscitare lodi o felicitazioni, quelli invece che lo
fanno per desiderio di guadagno fingono di avere meriti da cui il prossimo può trarre vantaggio e
[20] di cui
è possibile tenere nascosta la mancanza; per esempio, l’essere indovino, sapiente, medico. Per questa
ragione i più simulano tali cose e se ne vantano, perché in loro ci sono le caratteristiche suddette. Gli ironici,
invece, poiché dicono meno della realtà, sono manifestamente più raffinati nei loro costumi: si ritiene,
infatti, che non parlino in vista di un guadagno, bensì per evitare l’ostentazione.
[25] E, soprattutto, costoro
negano di possedere titoli di merito, come faceva, per esempio, anche Socrate. Coloro, poi, che negano di
possedere anche meriti piccoli ed evidenti sono chiamati impostori e sono più spregevoli. E talora si tratta
manifestamente di millanteria, come, per esempio, nel caso dell’abbigliamento degli Spartani, giacché sia
l’eccesso sia l’esagerato difetto sono segni di millanteria. Coloro, invece,
[30] che usano l’ironia con misura
e che dissimulano meriti che non sono troppo comuni ed evidenti, sono manifestamente dei raffinati. Infine,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV)
è il millantatore che manifestamente si contrappone all’uomo sincero, perché è peggiore dell’ironico.
8. [Il garbo].
Nella vita, poi, c’ anche il riposo, ed in questo c’ posto per la distrazione accompagnata da divertimento:
si ritiene comunemente che anche qui ci sia
[1128a] un modo conveniente di stare in compagnia, e cose da
dire, ma anche cose da ascoltare, come si deve. È evidente che anche in questo campo ci sono eccesso e
difetto rispetto ad un giusto mezzo. Coloro, dunque, che esagerano nel far ridere sono ritenuti
[5] buffoni e
volgari, perché si affaticano a far ridere ad ogni costo, e cercano più di far ridere che di dire cose decorose e
di non offendere colui che viene preso in giro. D’altra parte, quelli che non dicono essi stessi nulla che faccia
ridere ma si irritano con coloro che lo fanno, sono stimati rozzi e duri. Infine, quelli
[10] che scherzano con
86 , giacché le facezie, si pensa, sono dei movimenti del
gusto sono chiamati spiritosi, in quanto sono versatili
carattere, e, come si giudicano i corpi dai loro movimenti, così si giudicano anche i caratteri. E siccome il
piacere di ridere è diffuso, e la maggior parte della gente si diverte a scherzare e a motteggiare più che non
si debba, anche i buffoni
[15] vengono chiamati spiritosi, perché sono divertenti: ma che questi differiscono,
e non poco, dagli spiritosi veri, è chiaro da quanto abbiamo detto. Alla disposizione di mezzo appartiene
anche il garbo: è proprio dell’uomo garbato dire e ascoltare solo le cose che si intonano al carattere di un
uomo virtuoso e libero. Ci sono, infatti, cose che un tale uomo può convenientemente dire
[20] o ascoltare a
mo’ di scherzo, e lo scherzo dell’uomo libero differisce da quello dell’uomo servile, come pure lo scherzo
dell’uomo bene educato differisce da quello dell’uomo privo di educazione. Questa differenza si può vedere
anche dal confronto delle commedie antiche con le moderne: per gli autori antichi era divertente la battuta
oscena, per i moderni piuttosto il sottinteso: e non è piccola la differenza tra questi due atteggiamenti
[25]
dal punto di vista del decoro. Dobbiamo, dunque, definire il buon motteggiatore col fatto che dice cose non
sconvenienti ad un uomo libero, o col fatto che non affligge, anzi rallegra chi l’ascolta? O anche tale
caratteristica rimane indeterminata? Infatti, per uno è odiosa o piacevole una cosa, per un altro un’altra. Ma
le cose che dice accetterà anche di ascoltarle, giacché si ritiene che ciò che tollera di ascoltare egli possa
anche farlo. Ma non per questo scherzerà sempre,
[30] perché il motteggio è una specie di oltraggio, ed
alcune forme di oltraggio sono proibite dai legislatori; forse si sarebbe dovuto proibire anche il motteggiare.
Per conseguenza, l’uomo raffinato e libero avrà questa disposizione, perché egli è legge a se stesso. Tale è
dunque l’uomo del giusto mezzo, uomo di garbo o uomo di spirito che dir si voglia. Il buffone, invece, è
schiavo del suo desiderio di far ridere, e non risparmia né se stesso
[35] né gli altri pur di suscitare il riso,
[1128b] e dice cose, nessuna delle quali l’uomo raffinato direbbe; anzi, alcune di esse non le ascolterebbe
neppure. Il rustico, poi, è inadatto a tali compagnie: non vi contribuisce in niente ed è sgradevole a tutti. Il
riposo, poi, ed il divertimento si ritiene che siano necessari nella vita.
[5] Nella vita corrente, dunque, tre
sono le medietà di cui abbiamo parlato, e tutte riguardano i rapporti reciproci fatti di parole e di azioni. Ma
differiscono perché una riguarda la verità, le altre due il piacere. Di quelle che riguardano il piacere, infine,
una si manifesta nei divertimenti, l’altra nelle compagnie che si costituiscono nelle altre occasioni della vita.
9. [Il pudore].
[10] Per quanto riguarda il pudore, non conviene parlarne come di una virtù, giacché assomiglia ad una
passione più che ad una disposizione morale. Viene definito, comunque, come una specie di paura del
disonore, e produce effetti molto simili a quelli della paura di fronte ai pericoli: infatti, coloro che si
vergognano arrossiscono, mentre quelli che temono la morte impallidiscono. Dunque,
[15] entrambi hanno
manifestamente carattere fisico, in qualche modo; il che, si pensa, è tipico più della passione che non della
disposizione morale. Questa passione, d’altra parte, non si addice ad ogni età, ma solo alla giovinezza. Noi
pensiamo infatti che i giovani debbano essere pudichi per il fatto che, vivendo di passione, commettono
molti errori, ma che ne sarebbero trattenuti dal pudore. E noi lodiamo i giovani pudichi, mentre
[20]
nessuno loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile alla vergogna: noi pensiamo, infatti, che un
uomo maturo non dovrebbe fare nulla di cui si debba vergognare. Infatti, la vergogna non è tipica dell’uomo
virtuoso, se è vero che essa nasce per effetto delle cattive azioni (tali azioni non si devono commettere; se
poi alcune azioni sono brutte veramente ed altre lo sono solo secondo l’opinione della gente, non fa alcuna
differenza: non si devono commettere né le une né le altre,
[25] in modo da non dover provar vergogna).
Invece è proprio dell’uomo dappoco avere una natura tale da commettere qualche azione vergognosa. Ed
avere una disposizione di carattere per cui si prova vergogna se si è commessa un’azione vergognosa, e
pensare che per questo si è un uomo virtuoso, è assurdo: il pudore, infatti, si riferisce ad atti volontari, e
l’uomo virtuoso non commetterà mai cattive azioni volontariamente. Solo per un’ipotesi
[30] il pudore
potrebbe essere virtuoso: nel caso in cui uno si vergogni delle proprie azioni; ma questo non può verificarsi
nel campo delle virtù. Infine, se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azioni brutte, è una
cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettere azioni simili. Anche la continenza
non è una virtù, bensì una specie di mescolanza di virtù e di vizio:
[35] ma di lei si darà spiegazione in
seguito 87 . La giustizia sarà ora il tema della nostra trattazione.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO V
1. [La giustizia in generale].
[1129a] Circa la
giustizia e l’ingiustizia dobbiamo considerare quali azioni esse riguardino, che genere di
medietà è
[5] la giustizia, e quali sono gli estremi tra cui il giusto è medio. La nostra indagine deve seguire
lo stesso metodo delle parti precedenti. Noi, pertanto, vediamo che tutti intendono con "giustizia" la
medesima disposizione, quella per cui gli uomini sono portati a compiere le azioni giuste, per cui agiscono
giustamente e vogliono le cose giuste; nel medesimo modo stanno le cose
[10] per quanto riguarda
l’ingiustizia, disposizione per la quale gli uomini agiscono ingiustamente e vogliono le cose ingiuste. Diamo
anche noi per concessa questa prima definizione sommaria. In effetti, le cose non stanno allo stesso modo
nel caso delle scienze e delle potenze e nel caso delle disposizioni. Si ritiene infatti che una potenza ed una
88 , mentre la disposizione che è contraria ad un’altra non
scienza siano la medesima per gli oggetti contrari
produce i risultati contrari,
[15] come, per esempio, partendo dalla salute non si compiono azioni ad essa
contrarie, ma solo quelle salutari: diciamo, infatti, camminare "in modo sano" quando uno cammina come
camminerebbe un uomo sano. Posto questo, spesso la disposizione contraria si riconosce dalla sua
contraria, ma spesso le disposizioni si riconoscono da ciò cui esse ineriscono. Se infatti è manifesta la buona
costituzione fisica, anche
[20] la cattiva costituzione diventa manifesta, e dalle condizioni di buona
costituzione fisica si inferisce la buona costituzione stessa, e da questa quelle. Se, infatti, la buona
costituzione fisica consiste nella compattezza della carne, è necessario anche che la cattiva costituzione
consista nella flaccidità della carne e che la condizione della buona costituzione sia quella che può produrre
la compattezza nella carne. Ne segue che, per lo più, se i termini che indicano una disposizione
[25] e ciò
cui essa inerisce sono usati con più significati, anche i loro contrari si usano con più significati; per esempio:
89 . Sembra che i
se il termine "giusto" ha più significati, anche il termine "ingiusto" avrà più significati
termini "giustizia" e "ingiustizia" abbiano più significati, ma che per l’affinità di questi significati la loro
equivocità rimanga nascosta e non succeda come nel caso dei significati lontani tra loro che sono più visibili:
per esempio (qui infatti la differenza è grande secondo l’aspetto esteriore) si chiama
[30] kleiv" [chiave], in
90 . Cerchiamo,
modo equivoco, sia la clavicola degli animali, sia lo strumento con cui si chiudono le porte
dunque, di afferrare quanti significati ha il termine "uomo ingiusto". Si ritiene comunemente che ingiusto sia
chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che
giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza. Dunque, la nozione di "giusto" sarà quella di "ciò che è
conforme alla legge" e "ciò che rispetta l’uguaglianza",
[1129b] quella di "ingiusto" sarà di "ciò che è contro
la legge" e di "ciò che non rispetta l’uguaglianza". Poiché l’ingiusto cerca di avere più degli altri, ciò avverrà
in relazione con i beni: non con tutti, ma con quelli soggetti a buona e a cattiva fortuna, i quali sono sempre
dei beni in sé e per sé, ma non sempre per un determinato individuo. Eppure sono questi i beni che gli
uomini chiedono nelle loro preghiere e perseguono con le loro azioni:
[5] ma non si deve fare così, bensì gli
uomini dovrebbero pregare che i beni in sé e per sé siano beni anche per loro, e poi scegliere quelli che
sono beni per loro. Tuttavia l’uomo ingiusto non sceglie sempre il più, ma anche il meno, nel caso delle cose
che sono di per sé cattive. Ma poiché si ritiene che anche il male minore sia in qualche modo un bene, e che
è del bene che si vuole avere di più degli altri, è per questo che l’ingiusto viene ritenuto
[10] uno che cerca
di avere di più degli altri. È, poi, uno che non rispetta l’uguaglianza: questo termine abbraccia i due casi
insieme ed è comune ad entrambi. Poiché, come abbiamo detto, chi non rispetta la legge è ingiusto ed è
giusto chi, invece, la rispetta, è chiaro che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto:
infatti, ciò che è definito dalla legislazione è cosa conforme alla legge, e ciascuna delle cose così definite noi
diciamo che è giusta. Ora, le leggi, in tutto ciò che prescrivono,
[15] mirano o alla comune utilità di tutti i
91 , o in qualche altro modo del genere.
cittadini o a quella dei migliori o di quelli che dominano per virtù
Sicché, in uno dei sensi in cui usiamo il termine, chiamiamo giusto ciò che produce e custodisce per la
comunità politica la felicità e le sue componenti. Ma la legge comanda
[20] di compiere anche le opere
dell’uomo coraggioso, per esempio, di non abbandonare il proprio posto di combattimento, di non fuggire e
di non gettare le armi, e quelle dell’uomo temperante, per esempio, di non commettere adulterio né
violenza carnale, e quelle dell’uomo bonario, per esempio, di non percuotere e di non fare maldicenza; e
così via analogamente anche per le altre virtù e per gli altri vizi, imponendo certe cose e proibendone altre,
e ciò rettamente
[25] se la legge è stabilita rettamente, ma meno bene se la legge è stata fatta in fretta.
92 . Ed è
Questa forma di giustizia, dunque, è virtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in relazione ad altro
per questo che spesso si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù, e che né la stella della sera
93 siano altrettanto degne di ammirazione. E col proverbio diciamo: "Nella giustizia
né la stella del mattino
94 . Ed è virtù perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua
[30] è compresa ogni virtù"
completezza. Inoltre, è perfetta perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo
verso se stesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cose personali, ma non sono capaci di
95 "il
esercitarla nei rapporti con gli altri.
[1130a] E per questo si pensa che abbia ragione il detto di Biante
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
potere rivelerà l’uomo": chi esercita il potere, infatti, è già per ciò stesso in rapporto e in comunità con gli
altri. Per questa stessa ragione la giustizia, sola tra le virtù, è considerata anche "bene degli altri", perché è
diretta agli altri. Essa, infatti,
[5] fa ciò che è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia
per uno che è membro della comunità. Ciò posto, il peggiore degli uomini è colui che esercita la propria
malvagità sia verso se stesso sia verso gli amici, mentre il migliore non è quello che esercita la virtù verso
se stesso, ma quello che la esercita nei riguardi degli altri: questa, infatti, è un’impresa difficile. La virtù così
determinata non è quindi una parte della virtù, ma la virtù nella sua completezza,
[10] e l’ingiustizia che le
si contrappone non è una parte del vizio, ma il vizio nella sua completezza. In che cosa, poi, differiscano la
virtù e la giustizia così determinate è chiaro da quello che si è detto: esse sono, sì, identiche, ma la loro
96 è giustizia, in quanto è una determinata
essenza non è la stessa, bensì, in quanto è in relazione ad altro
disposizione in senso assoluto è virtù.
2. [La giustizia in senso stretto].
Ma quello che cerchiamo, in ogni caso, è la giustizia che è parte della virtù, giacché esiste
[15] una giustizia
di questo genere, come appunto andiamo dicendo. E, allo stesso modo, anche nel caso dell’ingiustizia
cerchiamo quella che è una parte del vizio. Indizio della sua esistenza: chi agisce secondo le altre forme di
vizio, certo, commette ingiustizia, ma non ci guadagna nulla, come, per esempio, chi getta per viltà lo scudo
o chi è maldicente per cattivo carattere o chi, per avarizia, rifiuta un soccorso in denaro. Quando, invece,
[20] cerca di avere più degli altri, spesso non agisce per alcuna di tali forme di vizio singolarmente presa,
ma nemmeno per tutte insieme, bensì per malvagità, almeno per una certa malvagità (lo biasimiamo,
infatti), cioè per ingiustizia. Dunque, esiste anche un’altra forma di ingiustizia che è parte di quella totale, e
una forma di ingiusto che è parte di quello totale, cioè dell’ingiusto che consiste nell’opposizione alla legge.
Inoltre: se uno commette adulterio in vista di un guadagno e
[25] ricavandone un profitto, un altro invece
commette adulterio spinto dal desiderio, pagando e subendo una punizione, quest’ultimo lo si riterrà
intemperante piuttosto che avido; il primo, invece, lo si riterrà ingiusto, e non intemperante. È evidente,
dunque, che in questo caso l’ingiustizia è causata dall’amor di guadagno. Inoltre, nel caso di tutti gli altri atti
ingiusti è sempre possibile una riconduzione a qualche forma di vizio; per esempio, l’adulterio
[30] si
riconduce alla intemperanza, l’abbandono del commilitone si riconduce alla viltà, la violenza fisica all’ira. Ma
se uno ha ricavato un illecito guadagno, non è riconducibile a nessun’altra forma di vizio se non
all’ingiustizia. Sicché è evidente che oltre a quella totale esiste un’altra forma di ingiustizia, che è parte della
prima e ha lo stesso nome, perché la sua definizione rientra nel medesimo genere:
[1130b] entrambe,
infatti, consistono nel fatto di riferirsi, potenzialmente, agli altri. Ma l’una riguarda l’onore o la ricchezza o la
sicurezza personale (o qualunque sia il termine con cui possiamo abbracciare tutte queste cose insieme), ed
è motivata dal piacere che deriva dal guadagno; l’altra, invece, riguarda tutte quante le cose che sono
oggetto dell’azione
[5] dell’uomo di valore. Che, dunque, i tipi di giustizia sono più d’uno e che ne esiste una
specie distinta oltre alla giustizia intesa come totalità della virtù, è chiaro: ma bisogna cercare di afferrare
quale essa sia e quale natura abbia. Abbiamo, dunque, distinto il significato di "ingiusto" in "contrario alla
legge" e "non rispettoso dell’uguaglianza", e di "giusto" in "conforme alla legge" e "rispettoso
dell’uguaglianza". Dunque,
[10] l’ingiustizia di cui parlavamo prima rientra nel campo di ciò che è contrario
alla legge. Ma poiché "non rispettoso dell’uguaglianza" e "contrario alla legge" non sono la stessa cosa, ma
si distinguono come la parte rispetto all’intero (infatti, tutto ciò che non è rispettoso dell’uguaglianza è
contrario alla legge, ma ciò che è contrario alla legge non è tutto non rispettoso dell’uguaglianza), anche
l’ingiusto e l’ingiustizia in senso parziale non sono gli stessi che l’ingiusto e l’ingiustizia in senso totale, ma
sono diversi da quelli, perché i primi sono delle parti, i secondi, invece, delle totalità:
[15] questo tipo di
ingiustizia è, infatti, una parte della ingiustizia intesa come totalità, e lo stesso dicasi della giustizia.
Cosicché dobbiamo parlare anche della giustizia e dell’ingiustizia particolari, e così pure del giusto e
dell’ingiusto particolari. Orbene, lasciamo da parte la giustizia intesa come la totalità della virtù, e la
corrispondente ingiustizia: la prima è l’esercizio della virtù nella sua totalità
[20] nei riguardi degli altri, la
seconda è l’esercizio del vizio. Ed è chiaro come vanno distinti il giusto e l’ingiusto corrispondenti ad esse.
Infatti, la maggior parte, si può dire, degli atti conformi alla legge sono gli atti che vengono prescritti sulla
base della virtù totale: la legge, infatti, ordina di vivere in conformità con ciascun tipo di virtù e proibisce di
vivere secondo ciascun tipo di vizio.
[25] Ma sono le disposizioni di legge che vengono stabilite per
l’educazione al bene comune quelle che producono la virtù totale. Per quanto riguarda l’educazione
individuale, poi, per la quale un uomo è buono in generale, se essa sia di competenza della politica o di
97 : infatti, non è certo la stessa cosa in ogni caso essere
un’altra scienza, dovremo determinarlo in seguito
uomo buono e buon cittadino.
[30] Della giustizia in senso parziale e del giusto che le corrisponde, ci sono
due specie: una è quella che si attua nella distribuzione di onori, di denaro o di quant’altro si può ripartire
tra i membri della cittadinanza (giacché in queste cose uno può avere una parte sia disuguale sia uguale a
quella di un altro), l’altra è quella che apporta correzioni nei rapporti privati.
[1131a] Di quest’ultima, poi, ci
sono due parti: infatti, alcuni rapporti sono volontari, altri involontari. Rapporti volontari sono, per esempio:
vendita, acquisto, prestito, cauzione, nolo, deposito, locazione (si dicono volontari
[5] perché il principio di
questi rapporti è volontario). Dei rapporti involontari, poi, alcuni si istituiscono di nascosto, come, per
esempio, furto, adulterio, avvelenamento, lenocinio, corruzione di schiavi, omicidio doloso, falsa
testimonianza; altri si istituiscono con la violenza, come, per esempio, maltrattamenti, sequestro, omicidio,
rapina, mutilazione, diffamazione, oltraggio.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
3. [La giustizia distributiva].
[10] Poiché l’uomo ingiusto, e così ciò che è ingiusto, non rispetta l’uguaglianza, è chiaro che c’ anche
qualcosa di mezzo tra gli estremi disuguali. E questo è l’uguale, giacché in ogni tipo di azione in cui ci sono il
più ed il meno c’ anche l’uguale. Se, dunque, l’ingiusto è il disuguale, il giusto è l’uguale; cosa che tutti
riconoscono anche senza bisogno di un ragionamento. Ma poiché l’uguale è medio, il giusto dovrà essere un
certo tipo di medio.
[15] Ma l’uguale presuppone almeno due termini. Pertanto, necessariamente, il giusto è
insieme medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e, in quanto è medio, è medio tra certi
estremi (e questi sono il più e il meno); in quanto, invece, è uguale, è uguaglianza di due cose; in quanto è
giusto, lo è per certe persone. Il giusto, quindi, implica necessariamente almeno quattro termini: infatti, le
persone per le quali il giusto è tale
[20] sono due, e due sono le cose in cui si realizza. E l’uguaglianza dovrà
essere la stessa, tra le persone come tra le cose: infatti, il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che
quello tra le persone. Se queste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e le
recriminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevono cose non uguali, o quando
persone non uguali hanno o ricevono cose uguali. Questo risulta
[25] chiaro anche dal principio della
distribuzione secondo il merito. Tutti, infatti, concordano che il giusto nelle distribuzioni deve essere
conforme ad un certo merito, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo, ma i democratici lo
intendono come condizione libera, gli oligarchici come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici
come virtù. In conclusione, il giusto è un che di proporzionale.
[30] Infatti, la proporzionalità è una
proprietà non solo del numero astratto, ma anche del numero in generale: la proporzione è un’uguaglianza
di rapporti 98 , e implica almeno quattro termini. Che la proporzione discreta implichi almeno quattro termini
99 : essa, infatti, impiega un termine come se
è chiaro. Ma anche la proporzione continua ne ha quattro
fossero due, cioè lo prende due volte.
[1131b] Esempio: A sta a B, come B sta a C. Dunque B è stato
menzionato due volte, cosicché, se si pone B due volte, i termini in proporzione saranno quattro. E anche il
giusto implica almeno quattro termini, e il rapporto è lo stesso,
[5] giacché sia le persone sia le cose sono
messe in rapporto allo stesso modo. Dunque, il termine A starà al termine B, come C a D, e quindi,
100 , A starà a C, come B a D. Anche le somme degli antecedenti con i conseguenti sono
scambiando i medi
101: la distribuzione risulta giusta se i termini che mette insieme a due a due sono posti
nello stesso rapporto
in questo modo. È dunque l’accoppiamento del termine A col termine C e quello di B con D
[10] che
costituisce il giusto nella distribuzione, e il giusto cosi inteso è un medio, mentre l’ingiusto è ciò che viola la
proporzione: infatti, ciò che sta in proporzione è un medio, e il giusto è in proporzione. I matematici
102 , giacché nella proporzione geometrica succede che le
chiamano geometrico questo tipo di proporzione
somme degli antecedenti con i conseguenti stanno fra loro come ogni antecedente sta al suo conseguente.
103 non è una proporzione continua, giacché una persona ed una cosa non
[15] Ma questa proporzione
possono costituire un termine singolo. Il giusto così inteso, dunque, è la proporzionalità, mentre l’ingiusto è
ciò che viola la proporzionalità. Quindi, nell’ingiustizia un termine è troppo grande e l’altro è troppo piccolo,
come succede anche nei fatti: chi commette ingiustizia, in effetti, ha di più, chi la subisce
[20] ha di meno,
se si tratta di un bene. Il contrario se si tratta di un male, giacché il male minore paragonato al male
maggiore è tenuto in conto di bene: infatti, il male minore è preferibile al maggiore, ma ciò che è preferibile
è un bene, e ciò che è più preferibile è un bene più grande. Questa, dunque, è una delle due specie del
giusto.
4. [La giustizia correttiva].
[25] Resta la seconda specie di giustizia, quella correttiva, che si attua nei rapporti privati, sia in quelli
volontari sia in quelli involontari. Questo tipo di giusto ha un carattere specifico diverso da quello
precedente. Infatti, il giusto che riguarda la distribuzione dei beni comuni è sempre conforme alla
proporzione suddetta. Quando, infatti, ha luogo la distribuzione di beni comuni,
[30] questa avverrà
secondo il medesimo rapporto in cui si trovano, l’uno nei riguardi dell’altro, i diversi contributi
originariamente apportati: e l’ingiusto opposto al giusto inteso in questo senso è ciò che viola la
proporzione. Ciò, invece, che è giusto nei rapporti privati è una specie di uguale, e l’ingiusto una specie di
disuguale,
[1132a] ma non secondo quella proporzione, bensì secondo la proporzione aritmetica
nessuna differenza, infatti, se è un uomo buono che toglie qualcosa ad uno cattivo, o se è uno cattivo che
toglie qualcosa ad uno buono, né se a commettere adulterio è un uomo buono o uno cattivo: la legge
guarda solo alla differenza relativa al danno,
[5] e li tratta entrambi da uguali, chiedendosi soltanto se uno
ha commesso o subito ingiustizia, e se ha procurato o subito il danno. Per conseguenza, poiché l’ingiusto
così inteso è una disuguaglianza, il giudice cerca di ristabilire l’uguaglianza. Infatti, quando uno infligge e
l’altro riceve percosse, o anche quando uno uccide e l’altro resta ucciso, l’azione subita e l’azione compiuta
restano divise in parti disuguali: ma il giudice
[10] cerca di ristabilire l’uguaglianza con la perdita inflitta
105
come pena
, cioè col togliere qualcosa al guadagno ingiusto. In casi simili, infatti, si usa, tanto per
parlare, anche se il vocabolo per certe situazioni non è appropriato, il termine "guadagno": per esempio,
"guadagno" per chi ha inflitto percosse, e "perdita" per chi le ha ricevute. Ma almeno quando il danno subito
può essere misurato, si può parlare di perdita da una parte e di guadagno dall’altra. Cosicché l’uguale sta in
mezzo tra il meno e il più,
[15] mentre il guadagno e la perdita sono l’uno il più e l’altra il meno in sensi
opposti: il guadagno è più di bene e meno di male, la perdita è il contrario; il medio tra essi, l’abbiamo già
104
. Non c’
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
106
detto, è l’uguale, ed è ciò che noi chiamiamo giusto. Per conseguenza, il giusto correttivo sarà il medio
tra perdita e guadagno. Ecco perché, quando si litiga,
[20] ci si rifugia dal giudice: andare dal giudice
significa andare davanti alla giustizia, giacché il giudice intende essere come la giustizia vivente. E si cerca il
giudice come termine medio (anzi alcuni chiamano i giudici "mediatori"), nella convinzione che se si
raggiunge il termine medio, si raggiungerà il giusto. In conclusione, ciò che è giusto è un che di intermedio,
se è vero che lo è anche il giudice.
[25] E il giudice ristabilisce l’uguaglianza, cioè, come se si trattasse di
107 e l’aggiunge
una linea divisa in parti disuguali, egli sottrae ciò di cui la parte maggiore sorpassa la metà
alla parte minore. Ma quando l’intero è diviso in due metà, allora si dice che uno ha la sua parte quando
prende ciò che è uguale. L’uguale, poi, è medio tra il più e
[30] il meno secondo la proporzione
aritmetica 108 . Per questo anche si usa il nome di divkaion [giusto], perché è una divisione divca [in due
109 [diviso in due]; così il dikasthv" [giudice] è dicasthv" [colui
parti uguali], come se uno dicesse divcaion
che divide in due parti uguali]. Infatti se, date due grandezze uguali, si toglie una parte alla prima e la si
aggiunge alla seconda, la seconda viene a superare la prima del doppio di questa parte; se, invece, si toglie
una parte alla prima senza aggiungerla alla seconda,
[1132b] la seconda supera la prima solo di questa
parte. In conclusione, la seconda grandezza supererà il mezzo di una sola parte, e il mezzo supererà di una
sola parte la grandezza da cui tale parte sarà stata tolta. Con questo procedimento, quindi, possiamo
riconoscere che cosa si deve togliere a chi ha di più e che cosa si deve aggiungere a chi ha di meno: infatti,
[5] bisogna aggiungere a chi ha la parte minore quel tanto di cui la metà la supera, e togliere a chi ha la
parte maggiore quel tanto di cui questa supera la metà. Siano i segmenti AA´, BB´ e CC´ uguali fra di loro;
dal segmento AA´ si tolga AE e si aggiunga a CC´ il segmento CD, in modo che l’intero DCC´ superi EA´ di
110 . [E questo vale anche per le altre arti;
CD e CZ: per conseguenza, supera BB´ di CD
[10] esse, infatti,
resterebbero distrutte, se ciò che produce la parte attiva in quantità e in qualità non fosse ricevuto nella
111 Questi nomi, perdita e guadagno,
medesima quantità e con la medesima qualità dalla parte passiva.]
sono derivati dallo scambio volontario. Infatti, avere di più di ciò che si possiede in proprio si dice
guadagnare, ed avere di meno di quanto si aveva in principio si dice perdere:
[15] per esempio, nel
comperare e nel vendere e in tutti gli altri scambi per i quali la legge concede libertà. Quando, poi, con lo
scambio, ci si trova ad avere né di più né di meno, bensì ciò che già si aveva per conto proprio, si dice che
si ha il proprio e che non si è né perso né guadagnato. Cosicché il giusto è una via di mezzo tra una specie
di guadagno e una specie di perdita nei rapporti non volontari, e consiste nell’avere,
[20] dopo, un bene
uguale a quello che si aveva prima.
5. [La giustizia come reciprocità. La moneta].
112 ;
Ma alcuni ritengono che anche la reciprocità sia giustizia in senso generale, come dicevano i Pitagorici
essi, infatti, definivano il giusto in generale come il ricevere da un altro quello che gli si è fatto subire. Ma la
nozione di reciprocità non si adatta né alla giustizia distributiva né a quella correttiva,
[25] benché si voglia
113 :
che questo significhi anche la giustizia di Radamante
114 .
"se uno subisse ciò che ha fatto, giudizio retto sarebbe"
In molti casi, infatti, giustizia e reciprocità sono in disaccordo. Esempio: se è uno che ha una carica pubblica
che picchia, non deve essere picchiato a sua volta, e se è un privato che picchia un magistrato,
[30] non
solo deve essere picchiato, ma ulteriormente punito. Inoltre, c’ molta differenza tra l’atto volontario e l’atto
involontario. Nelle comunità, poi, in cui avvengono degli scambi è questo tipo di giustizia che tiene uniti, la
reciprocità secondo una proporzione, e non secondo stretta uguaglianza. Infatti, è col contraccambiare
proporzionalmente che la città sta insieme. Gli uomini, infatti, cercano di rendere o male per male (se no,
[1133a] pensano che la loro sia schiavitù), o bene per bene (se no, non c’ scambio, e, invece, è per lo
115 in luogo dove sia
scambio che stanno insieme). Ed è per questo che costruiscono un tempio alle Grazie
sempre sotto gli occhi, per stimolare alla restituzione, giacché questo è proprio della gratitudine: si deve
rendere il contraccambio
[5] a chi è stato gentile con noi, cioè prendere noi stessi l’iniziativa di essere a
nostra volta gentili. Ciò che rende la restituzione conforme alla proporzione è la congiunzione in
diagonale 116 . Sia A un architetto, B un calzolaio, C una casa, D una scarpa. Posto questo, bisogna che
l’architetto riceva dal calzolaio il prodotto del suo lavoro e
[10] che dia a lui in cambio il prodotto del
proprio. Quando, dunque, prima si sia determinata l’uguaglianza proporzionale e poi si realizzi la reciprocità,
si verificherà ciò che abbiamo detto. Se no, lo scambio non è pari e non si costituisce: niente, infatti,
impedisce che il prodotto dell’uno valga di più di quello dell’altro: bisogna, dunque, che il loro valore venga
parificato. E questo vale anche per le altre arti: esse infatti
resterebbero distrutte
[15] se ciò che produce la
parte attiva in quantità ed in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e con la medesima qualità
117 . Infatti, non è tra due medici che nasce una comunità di scambio, ma tra un medico e
dalla parte passiva
un contadino, ed in generale tra individui differenti, non uguali: ma questi devono venire parificati.
È per questo che le cose di cui v’ scambio devono essere in qualche modo commensurabili.
[20] A questo
scopo è stata introdotta la moneta, che, in certo qual modo, funge da termine medio: essa, infatti, misura
tutto, per conseguenza anche l’eccesso e il difetto di valore, quindi anche quante scarpe equivalgono ad una
casa o ad una determinata quantità di viveri. Bisogna, dunque, che il rapporto che c’ tra un architetto e un
calzolaio ci sia anche tra un determinato numero di scarpe e una casa o un alimento. Infatti, se questo non
avviene, non ci sarà scambio né comunità.
[25] E questo non si attuerà, se i beni da scambiare non sono in
qualche modo uguali. Bisogna, dunque, che tutti i prodotti trovino la loro misura in una sola cosa, come
http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/Te...E%20ETICA%20A%20NICOMACO%20(LIBRO%20V).htm (4 di 10) [04/03/2004 18.47.43]
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
abbiamo detto prima. E questo in realtà è il bisogno, che unifica tutto: se gli uomini, infatti, non avessero
bisogno di nulla, o non avessero gli stessi bisogni, lo scambio non ci sarebbe o non sarebbe lo stesso. E
come mezzo di scambio per soddisfare il bisogno è nata, per convenzione, la moneta.
[30] E per questo
118 , e perché
essa ha il nome di novmisma [moneta], perché non esiste per natura ma per novmo" [legge]
dipende da noi cambiarne il valore o renderla senza valore. Ci sarà, dunque, reciprocità, quando si sarà
proceduto alla parificazione, cosicché il rapporto tra un contadino e un calzolaio sarà uguale al rapporto tra il
prodotto del calzolaio e quello del contadino.
[1133b] Ma non bisogna mettere i termini in forma di
proporzione quando lo scambio è avvenuto (se no, uno dei due estremi avrà entrambi i vantaggi), ma
quando ciascuno ha ancora i propri prodotti. Così essi sono uguali ed in comunità di scambio, perché nel
loro caso questa uguaglianza può verificarsi. Sia A un contadino, C dei viveri,
[5] B un calzolaio, ed il suo
prodotto uguagliato a C sia D: ma, se non fosse possibile realizzare la reciprocità in questo modo, non ci
sarebbe neppure una comunità di scambio. Che sia, poi, il bisogno che unifica come se fosse qualcosa di
unico ed unitario, lo mette in evidenza il fatto che se gli uomini non hanno bisogno l’uno dell’altro, le due
parti, o una sola delle due, non ricorrono allo scambio, come nel caso in cui uno ha bisogno di ciò che lui
119 . [10] Qui,
stesso possiede, per esempio di vino, mentre gli offrono la possibilità di esportare frumento
120
dunque, bisogna che sia stabilita un’uguaglianza
. Per lo scambio futuro, se al presente non si ha bisogno
di nulla, la moneta è per noi una specie di garanzia che esso sarà possibile, se ce ne sarà bisogno, giacché
deve essere possibile a chi porta moneta ricevere ciò di cui ha bisogno. Anche la moneta subisce il
medesimo inconveniente, quello di non avere sempre il medesimo potere di acquisto; tuttavia, tende
piuttosto a rimanere stabile. È per questo che tutte le merci devono
[15] essere valutate in moneta: così,
infatti, sarà sempre possibile uno scambio, e, se sarà possibile lo scambio, sarà possibile anche la comunità.
Dunque, la moneta, come misura, parifica le merci, perché le rende fra loro commensurabili: infatti, non ci
sarebbe comunità senza scambio, né scambio senza parità, né parità senza commensurabilità. In verità,
sarebbe impossibile rendere commensurabili cose tanto differenti,
[20] ma ciò è possibile in misura
sufficiente in rapporto al bisogno. Per conseguenza, ci deve essere una unità, ma questa c’ per
convenzione: perciò si chiama nomisma [moneta], perché è questa che rende tutte le cose commensurabili:
tutto, infatti, si misura in moneta. Sia A una casa, B dieci mine, C un letto. A è la metà di B, se la casa vale
cinque mine, cioè è uguale a cinque mine; il letto C, poi,
[25] vale un decimo di B: è chiaro allora quanti
letti sono uguali ad una casa: cinque. Ma che così lo scambio fosse possibile anche prima che ci fosse la
moneta, è chiaro: non c’, infatti, alcuna differenza tra dare per una casa cinque letti o il valore di cinque
letti in moneta.
Che cosa è l’ingiusto e che cosa il giusto s’ detto.
[30] Dalle distinzioni fatte risulta chiaro che l’agire
giustamente è la via di mezzo tra commettere e subire ingiustizia: commettere ingiustizia significa avere di
più, subirla significa avere di meno. La giustizia è una specie di medietà, ma non allo stesso modo delle
altre virtù, bensì perché essa aspira al giusto mezzo,
[1134a] mentre l’ingiustizia mira agli estremi. La
giustizia è la disposizione secondo la quale l’uomo giusto è definito come uomo portato a compiere, in base
ad una scelta, ciò che è giusto, e a distribuire sia tra se stesso e un altro, sia tra due altri, non in modo da
attribuire a se stesso la parte maggiore e al prossimo la parte minore del bene desiderato
[5] (o viceversa
nel caso di qualcosa di dannoso), ma da attribuire a ciascuno una parte proporzionalmente uguale, e da
procedere allo stesso modo anche quando si tratta di farlo tra altre persone. L’ingiustizia, invece, è la
121 . E l’ingiusto è eccesso e
disposizione secondo la quale l’ingiusto è definito come il contrario del giusto
difetto di ciò che è vantaggioso o dannoso in violazione della proporzione. Per questo l’ingiustizia è eccesso
e difetto, perché essa produce eccesso e difetto:
[10] quando uno è coinvolto nella distribuzione, essa
produrrà per lui un eccesso di ciò che in generale è vantaggioso e difetto di ciò che è dannoso; quando la
distribuzione è tra due altri il totale è lo stesso, ma la violazione della proporzione può avvenire a favore
dell’uno o a favore dell’altro. Nell’atto ingiusto avere la parte minore è subire ingiustizia, avere la parte
maggiore è commettere ingiustizia. Si consideri in questo modo concluso il discorso su giustizia e ingiustizia,
su quale sia
[15] la natura di ciascuna delle due, e, parimenti, sul giusto e l’ingiusto in generale.
6. [La giustizia nella società e nella famiglia].
Ma dal momento che è possibile commettere ingiustizia senza essere ingiusti, quale natura hanno gli atti
ingiusti che uno deve commettere per essere ingiusto secondo ciascun tipo di ingiustizia? Per esempio, per
essere ladro, adultero, lestofante? Non bisognerà rispondere che da questo punto di vista non c’ alcuna
differenza? E, in effetti,
[20] un uomo potrebbe stare insieme con una donna sapendo con chi sta, ma
l’origine del suo atto potrebbe non essere una scelta, ma una passione. Commette, dunque, sì ingiustizia,
ma non è un ingiusto: per esempio, non è un ladro pur avendo rubato, non è adultero pur avendo
commesso adulterio, e lo stesso negli altri casi. In che rapporto stia il reciproco con il giusto è stato detto
prima 122 . Ma non bisogna dimenticare
[25] che ciò che andiamo cercando è sia il giusto in generale sia il
giusto politico. Quest’ultimo si attua tra coloro che vivono in comunità per raggiungere l’autosufficienza, tra
uomini liberi ed uguali, proporzionalmente o aritmeticamente, sicché coloro che non sono né liberi né uguali
non hanno nei loro rapporti reciproci la giustizia politica, ma una specie di giustizia, chiamata
analogia. Infatti, la giustizia esiste solo per coloro i cui rapporti sono regolati da una legge; ma la legge c’
per uomini tra i quali può esserci ingiustizia, perché la giustizia legale è discernimento del giusto e
dell’ingiusto. Negli uomini tra cui può esserci ingiustizia c’ anche l’agire ingiustamente (ma non in tutti
coloro che agiscono ingiustamente c’ ingiustizia), e questo consiste nell’attribuire a sé la parte maggiore
[30] così per
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
dei beni in generale e la parte minore dei mali in generale.
[35] Per questo non permettiamo che abbia
123
autorità un uomo, ma la legge
, perché un uomo la eserciterebbe solo per il proprio interesse e diverrebbe
un tiranno.
[1134b] Ma chi esercita l’autorità è custode della giustizia, e se è custode della giustizia, lo è
anche dell’uguaglianza. E poiché si riconosce che egli non ha niente di più di ciò che gli spetta, se è vero che
è un uomo giusto (infatti, non prende per sé una parte troppo grande del bene in generale, a meno che non
sia proporzionale al suo merito; perciò
[5] si dà da fare per gli altri: e per questo si dice che la giustizia è un
124 ), per questa ragione, dunque, bisogna dargli un compenso,
bene degli altri, come s’ detto anche prima
e questo compenso consiste in un onore o in un privilegio. Coloro ai quali simili compensi non bastano,
diventano tiranni. La giustizia del padrone e quella del padre non sono identiche a queste forme di giustizia,
ma simili: non è possibile, infatti,
[10] ingiustizia nei confronti di ciò che è nostro in senso assoluto, e lo
schiavo e il figlio, finché non abbia raggiunto una certa età e non sia diventato indipendente, sono come
parte di noi 125 , e nessuno sceglie deliberatamente di danneggiare se stesso: perciò non è possibile
ingiustizia verso se stessi; per conseguenza, neppure ingiustizia né giustizia in senso politico. Il giusto in
126 , è conformità ad una legge, e si realizza tra uomini che per natura sono
senso politico, l’abbiamo visto
soggetti ad una legge; e costoro sono, come s’ detto,
[15] quelli che partecipano in misura uguale al
127 . Perciò il giusto si realizza più verso la moglie che verso il figlio e gli
governare e all’essere governati
schiavi: quella tra marito e moglie è la vera e propria giustizia domestica, ma anche questa è diversa dalla
giustizia in senso politico.
7. [La giustizia naturale e la giustizia positiva].
Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che
ha dovunque la stessa validità,
[20] e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale,
invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma
che non è indifferente una volta che sia stato stabilito. Per esempio, che il riscatto di un prigioniero sia di
una mina, che si deve sacrificare una capra e non due pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per
128 , e le norme derivate da decreti
legge per i casi particolari, per esempio, il sacrificio in onore di Brasida
popolari. Alcuni ritengono che tutte
[25] le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché
ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia qui da noi
come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli. Ma questo non è vero in senso
assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra gli dèi, certamente, non è affatto vero, mentre tra
noi uomini c’ una specie di giusto per natura, benché sia tutto mutevole;
[30] pur tuttavia, c’ un tipo di
giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si fonda sulla natura. Ora, tra le norme che possono essere
anche diverse, è chiaro quale sia per natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione,
se è vero che sia la natura sia la legge sono mutevoli. La medesima distinzione è adatta anche negli altri
casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque
[35] diventare
ambidestro. Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [1135a] sono simili alle misure:
infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra all’ingrosso sono
più grandi, dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme di giustizia che non derivano dalla
natura ma dall’uomo non sono le stesse dappertutto, perché non sono le stesse le costituzioni,
[5] ma una
soltanto è dappertutto la migliore per natura. Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come
l’universale nei riguardi del particolare; le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è
una: la norma è un universale. C’ differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una
cosa è ingiusta
[10] o per natura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata
tradotta in azione, è un atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì
una cosa ingiusta. Lo stesso vale anche per l’atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto "azione
giusta", mentre "atto di giustizia" si chiama l’atto che corregge un atto di ingiustizia. Ma su ciascun tipo di
legge, sulla natura e sul numero delle loro forme
[15] e sulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in
seguito 129 .
8. [Ingiustizia e responsabilità].
Essendo le cose giuste e ingiuste quelle che noi abbiamo descritto, si commette ingiustizia e si agisce
giustamente quando si compiono quelle azioni volontariamente; ma quando si agisce involontariamente,
non si compie né un atto di ingiustizia né un atto di giustizia, se non per accidente, nel senso che si
compiono azioni cui accade di essere giuste o ingiuste. Ma che un atto sia definito ingiusto e
dipende dal fatto che sia volontario o involontario: quando, infatti, è volontario, viene biasimato, e nello
stesso tempo, ma allora solamente, è anche un atto di ingiustizia. Cosicché sarà qualcosa di ingiusto ma
non ancora un atto di ingiustizia, se non si aggiunge la volontarietà. E intendo per volontario, come s’ detto
anche prima 130 , quell’atto, tra gli atti che dipendono da lui, che uno compie consapevolmente,
ignorando chi ne è l’oggetto, né il mezzo, né il fine (per esempio, chi è che sta picchiando, con che cosa e
per quale scopo), e ciascuno di questi aspetti dell’azione non è né accidentale né forzato (per esempio, se
qualcuno prende la mano di un altro e picchia un terzo, il secondo non agisce volontariamente, perché l’atto
non dipende da lui). Può capitare che l’uomo picchiato sia suo padre, e che egli sappia, sì, che è un uomo
uno di quelli che gli stanno intorno,
[30] ma ignori che è suo padre. Una distinzione simile si può fare anche
nel caso del fine e nel caso dell’intero svolgimento dell’azione. In conclusione, ciò che si ignora, o ciò che
[20] giusto
[25] cioè non
ed
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
non si ignora ma non dipende da noi, o ciò che si compie per forza è involontario. Infatti, noi compiamo e
subiamo consapevolmente molte azioni anche naturali,
[1135b] nessuna delle quali è né volontaria né
involontaria, come, per esempio, invecchiare o morire. E, parimente, nel caso delle cose ingiuste e di quelle
giuste è possibile anche che si trovi il giusto e l’ingiusto per accidente. Infatti, uno potrebbe restituire un
deposito contro voglia
[5] e per paura, ma di lui non si deve dire che ha fatto cose giuste né che ha agito
giustamente, se non per accidente. Lo stesso vale per chi, costretto e contro voglia, non restituisce il
deposito: bisogna dire che commette ingiustizia e fa cose ingiuste per accidente. Degli atti volontari, poi,
alcuni li compiamo in conseguenza di una scelta, altri, invece, senza una scelta:
[10] in base ad una scelta
quegli atti che abbiamo deliberato in precedenza, e senza scelta quelli che non abbiamo deliberato in
precedenza. Sono dunque tre i tipi di danno che possono verificarsi nelle comunità. Quelli che sono
accompagnati da ignoranza sono degli errori, come quando si agisce senza che la persona che subisce
l’azione o ciò che si fa o il mezzo o il fine siano quelli che si supponeva: infatti, o non si credeva di colpire o
non con questo strumento o non questa persona o non con questo scopo,
[15] ma le cose sono andate in
modo diverso dallo scopo che si pensava di raggiungere (per esempio, si è colpito non per ferire ma solo per
pungere, e non quest’uomo o con questo strumento). Quando, dunque, il danno si produce contro ogni
ragionevole aspettazione, si tratta di una disgrazia; quando, invece, non si produce contro ogni ragionevole
aspettazione, ma senza cattiveria, si tratta di un errore (si erra infatti quando l’origine della colpa è in colui
stesso che agisce; si tratta di una disgrazia quando l’origine della colpa è fuori di lui). Quando, poi,
[20] uno
agisce consapevolmente ma senza precedente deliberazione, si ha l’atto ingiusto, come, per esempio, tutto
quanto si fa per impulsività e per altre passioni, almeno per quelle che accade agli uomini di provare per
necessità o per natura. Coloro che procurano questi danni e commettono questi errori, commettono, sì,
ingiustizia, e i loro sono atti ingiusti, ma tuttavia non sono ancora, per questo, ingiusti né malvagi: il danno,
infatti non è stato causato da malvagità.
[25] Quando, invece, esso deriva da una scelta è ingiusto e
malvagio. Perciò è a buon diritto che si giudicano fatti senza premeditazione gli atti derivanti
dall’impulsività: il principio del danno non è chi agisce per impulsività, ma colui che ne ha suscitato l’ira.
Inoltre, non si discute se il fatto è accaduto oppure no, ma della sua giustizia: l’ira infatti nasce di fronte a
ciò che appare come ingiustizia. Infatti, qui non è in discussione la realtà del fatto come nel caso dei
contratti,
[30] dove uno dei due contraenti è necessariamente in mala fede, a meno che non si faccia quello
che si fa per dimenticanza: ma, pur essendo d’accordo sulla questione di fatto, si discute per sapere da che
parte sta la giustizia (mentre chi ha premeditato non può ignorarlo), sicché l’uno pensa che gli venga fatta
ingiustizia, mentre l’altro pensa di no.
[1136a] Quando si infligge un danno in base ad una scelta deliberata,
si commette ingiustizia, e colui che commette ingiustizia compiendo questo tipo di atti ingiusti è
propriamente ingiusto, quando questi atti violano la proporzione o l’uguaglianza. Parimenti un uomo è
giusto, quando compie un atto di giustizia sulla base di una scelta deliberata: ma compie un atto di giustizia
soltanto se agisce volontariamente.
[5] Le azioni involontarie, poi, in parte sono perdonabili, in parte no.
Sono perdonabili gli errori compiuti non solo in stato di ignoranza, ma proprio a causa di questa ignoranza;
non sono perdonabili, invece, gli errori commessi non a causa dell’ignoranza, ma in uno stato di ignoranza
causato da una passione né naturale né umana.
9. [È possibile subire ingiustizia volontariamente?].
[10] Ci si potrà porre la questione se le nostre distinzioni riguardo al subire e al commettere ingiustizia
siano sufficienti, e innanzi tutto se sia come ha detto, stranamente, Euripide:
"Ho ucciso mia madre: è breve il racconto."
"Hai ucciso volontariamente lei che lo voleva o hai ucciso
131 .
[involontariamente lei che non voleva?"
[15] In effetti, è possibile subire volontariamente ingiustizia, oppure no, ma c’ sempre qualcosa di
involontario, proprio come il commettere ingiustizia è sempre volontario? Inoltre, il subire ingiustizia è
sempre volontario, o sempre involontario, come anche il commettere ingiustizia è sempre
oppure a volte è volontario e a volte involontario? Lo stesso si dica anche per quanto concerne il ricevere
giustizia, giacché il compiere atti di giustizia è sempre volontario. Cosicché è ragionevole
un’analoga contrapposizione tra le due cose, cioè che il subire ingiustizia ed il ricevere giustizia siano o
entrambi volontari o entrambi involontari. Sarebbe strano pensare che questo valga anche nel caso del
ricevere giustizia, se ciò è sempre volontario: infatti alcuni ricevono giustizia contro la loro volontà. Poi si
potrebbe porre anche la questione se chiunque subisce qualcosa di ingiusto riceve ingiustizia, oppure se
quello che vale per l’agire
[25] vale anche per il subire: per accidente, infatti, è possibile in entrambi i casi
partecipare di cose giuste. Parimenti, poi, è chiaro che ciò vale anche nel caso delle cose ingiuste: infatti,
fare cose ingiuste non è lo stesso che commettere ingiustizia, e subire cose ingiuste non è lo stesso che
subire ingiustizia. Lo stesso si dica per quel che concerne il compiere atti di giustizia ed il ricevere giustizia,
[30] giacché è impossibile subire ingiustizia senza che qualcuno compia ingiustizia, o ricevere giustizia
senza che qualcuno compia un atto di giustizia. Se commettere ingiustizia in generale significa danneggiare
volontariamente qualcuno, e se "volontariamente" significa sapere chi si danneggia, con quale strumento ed
in che modo, e se l’incontinente danneggia se stesso volontariamente, allora è volontariamente che subirà
volontario
132
[20] che ci sia
,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
ingiustizia e che potrà commettere ingiustizia verso se stesso. Anche questa è una cosa da mettere in
questione, cioè se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi.
[1136b] Inoltre, per incontinenza uno
potrebbe essere volontariamente danneggiato da un altro che volontariamente lo danneggia, cosicché sarà
possibile subire ingiustizia volontariamente. O si deve riconoscere che la definizione non è corretta, e che
invece a "danneggiare sapendo chi si danneggia, con quale strumento ed in che modo" bisogna aggiungere
"contro la volontà del danneggiato"?
[5] Posto questo, uno può volontariamente essere danneggiato e
subire cose ingiuste, ma nessuno può subire ingiustizia volontariamente: nessuno, infatti, lo vuole, neppure
l’incontinente, ma costui agisce contro la propria volontà. Nessuno, infatti, vuole ciò che non crede che sia
buono, e l’incontinente fa ciò che lui stesso pensa che non si debba fare. Chi dona ciò che gli appartiene,
come dice Omero
[10] che abbia fatto Glauco donando a Diomede "armi d’oro in cambio d’armi di bronzo, il
133 , non subisce ingiustizia: infatti, dipende da lui donare, ma non
valore di cento buoi in cambio di nove"
dipende da lui subire ingiustizia, bensì bisogna che ci sia chi l’ingiustizia la commetta. È chiaro quindi che
non si subisce ingiustizia volontariamente.
[15] Delle questioni che ci siamo proposti ne restano ancora due da discutere: se commette ingiustizia chi
attribuisce ad un altro più di quanto merita oppure chi riceve più di quanto merita, e se è possibile
commettere ingiustizia verso se stessi. Se, infatti, è possibile quello che si è detto prima ed è colui che
attribuisce più del dovuto che commette ingiustizia e non chi lo riceve, nel caso in cui uno attribuisca ad un
altro più che a se stesso, consapevolmente e volontariamente, questi
[20] commette ingiustizia verso se
stesso: e ciò la gente pensa che facciano gli uomini misurati, giacché l’uomo virtuoso è incline ad attribuirsi
di meno di quello che gli spetta. O dobbiamo dire che neppure questa è una cosa semplice? Infatti, se capita
l’occasione, un uomo virtuoso può prendersi la parte più grande di un altro tipo di bene, per esempio di
gloria o di ciò che è bello in senso assoluto. Il problema si risolve se si segue la definizione data del
commettere ingiustizia; l’uomo virtuoso, infatti, non subisce ingiustizia, almeno non per questa ragione,
[25] ma tutt’al più subisce soltanto un danno. Ma è chiaro che anche chi compie l’attribuzione può
commettere ingiustizia, ma non la commette chi riceve il di più: infatti, non è colui al quale capita la cosa
ingiusta che commette ingiustizia, ma colui che la fa volontariamente: cioè la persona da cui ha principio
l’azione, principio che si trova, in questo caso, in chi attribuisce il di più, non in chi lo riceve. Inoltre, poiché
"fare" si dice in molti sensi
[30] e poiché è possibile dire che gli oggetti inanimati (per esempio, la mano e lo
schiavo cui è stato ordinato) uccidono, chi riceve di più di quanto gli spetti non commette ingiustizia, ma
tutt’al più fa cose ingiuste. Inoltre, se uno giudica in stato di ignoranza, non commette ingiustizia nei
confronti della giustizia legale, e il suo giudizio non è ingiusto da questo punto di vista, ma in un certo senso
134 . Se invece giudica ingiustamente
lo è: il giusto legale, infatti, è altro dal giusto originario
[1137a] pur
avendo cognizione di causa, anch’egli prende di più di quanto gli spetti o di gratitudine o di vendetta. Così,
dunque, anche chi per questo ha giudicato ingiustamente viene ad avere di più, come uno che si prendesse
una parte del frutto dell’ingiustizia: ed infatti, aggiudicando un campo a quelle condizioni, non riceve un
campo ma del denaro.
[5] Gli uomini pensano che sia in loro potere commettere ingiustizia e che perciò
anche il giusto sia facile. Ma non è così: avere rapporti con la moglie del vicino, picchiare il prossimo,
corrompere col denaro è facile ed è in loro potere, ma fare questo per una certa disposizione di carattere
non è facile né in loro potere. Parimenti,
[10] pensano anche che per conoscere ciò che è giusto e ciò che è
ingiusto non occorra essere un sapiente, perché non è difficile arrivare a comprendere ciò che dicono le
leggi (ma il giusto non è questo, se non per accidente). Ma sapere come si devono fare e come si devono
distribuire le cose perché risultino giuste, questa, certo, è impresa più grande che non sapere ciò che fa
bene alla salute, benché anche in quel caso sia, sì, facile conoscere il miele, il vino,
[15] l’elleboro, la
cauterizzazione, l’incisione; ma sapere come, a chi e quando bisogna distribuirli per produrre la salute, è
un’impresa tanto grande quanto essere medico. Per questa stessa ragione pensano che commettere
ingiustizia sia nelle possibilità dell’uomo giusto non meno che compiere giustizia, perché il giusto non ha
minor capacità ma anzi maggiore di compiere ciascuno di questi tipi di azione: e infatti
[20] può andare
insieme con una donna sposata e può picchiare; anche il coraggioso può gettar via lo scudo, volgere la
schiena e fuggire da una parte o dall’altra. Comportarsi vilmente ed ingiustamente non significa compiere
atti di viltà e di ingiustizia, se non per accidente, bensì compiere questi atti con una disposizione, come
anche curare e guarire non significa amputare o non
[25] amputare, usare o non usare farmaci, ma farlo in
un certo modo. Le azioni giuste sono possibili tra coloro che partecipano dei beni in generale, e che ne
possono avere in eccesso o in difetto: per alcuni non è possibile eccesso di beni, come è certamente il caso
degli dèi, mentre ad altri nessuna parte di bene sarebbe utile, perché sono irrimediabilmente viziosi, ma
tutto [30] fa loro danno; per altri, infine, sono utili fino ad un certo punto: per questo il giusto è qualcosa di
umano.
10. [L’equità].
Dobbiamo ora parlare dell’equità e dell’equo, e determinare in che rapporto stanno l’equità con la giustizia e
l’equo con il giusto. Se, infatti, si esaminano attentamente, risulta manifesto che non sono senz’altro la
stessa cosa e che tuttavia non differiscono di genere. A volte noi
[35] lodiamo ciò che è equo e l’uomo equo,
di modo che anche quando lodiamo le altre qualità noi
[1137b] usiamo metaforicamente il termine di "equo"
al posto di "buono", indicando con "più equo", ciò che è più buono. A volte invece, ragionando
coerentemente, ci appare strano che l’equo, che è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto, sia tuttavia degno
di lode: infatti, se sono diversi, o il giusto non è buono o l’equo non è
[5] giusto; o se entrambi sono buoni,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
essi sono la stessa cosa. Dunque, queste pressappoco sono le considerazioni da cui nasce l’aporia che
concerne la nozione di equo, e in un certo senso sono tutte corrette e per nulla in contraddizione tra loro. In
effetti, l’equo, pur essendo superiore ad un certo tipo di giusto, è esso stesso giusto, ed è superiore al
giusto pur non costituendo un altro genere.
[10] Per conseguenza, giusto ed equo sono la stessa cosa, e,
pur essendo entrambi buoni, è l’equo che ha più valore. Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì
giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale. Il motivo è che la legge è
sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente in
universale. Nelle circostanze, dunque, in cui
[15] è inevitabile parlare in universale, ma non è possibile farlo
correttamente, la legge prende in considerazione ciò che si verifica nella maggioranza dei casi, pur non
ignorando l’errore dell’approssimazione. E non di meno è corretta: l’errore non sta nella legge né nel
legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca
caratteristica. Quando,
[20] dunque, la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non
rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto
nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il
legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il
caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto,
[25] non del giusto in senso
assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura
dell’equo: un correttivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. Questo, infatti, è il
motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono dei casi in cui è impossibile stabilire una
legge, tanto che è necessario un decreto. Infatti, di una cosa indeterminata anche
[30] la norma è
135 : il regolo si adatta alla
indeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo
configurazione della pietra e non rimane rigido, come il decreto si adatta ai fatti. Che cosa è dunque l’equo,
e che è giusto e migliore di un certo tipo di giusto, è chiaro. Da ciò risulta manifesto anche chi è l’uomo
equo: [35] è equo infatti chi è incline a scegliere e a fare effettivamente cose di questo genere, e
[1138a]
chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se
ha il conforto della legge. Questa disposizione è l’equità, che è una forma speciale di giustizia e non una
disposizione di genere diverso.
11. [È possibile commettere ingiustizia verso se stessi?].
Se è possibile o no commettere ingiustizia verso se stessi risulta chiaro
[5] da quanto si è detto. Una parte
delle azioni giuste sono quelle stabilite dalla legge in relazione a ciascun tipo di virtù: per esempio, la legge
non comanda di uccidersi, e ciò che non comanda proibisce. Inoltre: se uno, contro la legge, danneggia un
altro volontariamente e non per ricambiare un danno ricevuto, commette ingiustizia, e agisce
volontariamente chi sa chi danneggia e con che mezzo. Colui che, spinto dall’ira,
[10] si taglia
volontariamente la gola, lo fa contro la retta ragione, e questo la legge non lo permette: per conseguenza
commette ingiustizia. Ma verso chi? Non bisogna riconoscere che è verso la città, e non verso se stesso?
Infatti, subisce volontariamente, e nessuno subisce volontariamente ingiustizia. È per questo che la città
punisce, e una specie di pubblica infamia colpisce chi si uccide, in quanto commette ingiustizia contro la
città. Inoltre, chi commette ingiustizia nel senso in cui può dirsi soltanto ingiusto
[15] e non del tutto
perverso, non è possibile che commetta ingiustizia verso se stesso (questo è un caso diverso dal
precedente: in un certo senso, infatti, l’ingiusto è cattivo come il vile, non perché abbia in sé la perversità
totale; per conseguenza, non è neppure vero che commetta ingiustizia per totale perversità). Infatti, se
fosse così, dovrebbe essere possibile nello stesso tempo sottrarre e aggiungere la stessa cosa alla
medesima persona: e questo è impossibile, ma è
[20] necessario che il giusto e l’ingiusto abbiano
attuazione tra più persone. Inoltre, l’azione ingiusta è un atto volontario, frutto di una scelta e anteriore ad
ogni provocazione: infatti, chi ha per primo subito e perciò rende il contraccambio, non si ritiene che
commetta ingiustizia; ma chi commette ingiustizia verso se stesso, subisce e fa le stesse cose nello stesso
tempo. Per di più, sarebbe possibile subire ingiustizia volontariamente. Oltre a ciò, nessuno commette
ingiustizia senza compiere specifici atti di ingiustizia;
[25] ma nessuno commette adulterio con la propria
moglie, né fa irruzione furtiva nella propria casa, né ruba ciò che gli appartiene. In generale la questione se
è possibile commettere ingiustizia verso se stessi si risolve ancora con la definizione data a proposito del
subire ingiustizia volontariamente. È chiaro anche che entrambe le cose, sia il subire sia il commettere
ingiustizia, sono cattive: l’una consiste nell’avere di meno, l’altra
[30] nell’avere di più del giusto mezzo, il
quale è come la salute in medicina e la buona forma in ginnastica. Tuttavia la cosa peggiore è il commettere
ingiustizia: il commettere ingiustizia, infatti, si accompagna al vizio ed è biasimevole, e ad un vizio integrale
in senso assoluto o quasi (giacché non ogni atto volontario di ingiustizia è accompagnato da vizio), mentre il
subire ingiustizia non implica né vizio né
[35] ingiustizia. Per se stesso, dunque, subire ingiustizia è un male
minore, [1138b] ma niente impedisce che sia un male maggiore per accidente. Ma l’accidentalità non ha
importanza per l’arte: essa, per esempio, dice che la pleurite è un male maggiore di una storta; eppure, per
accidente, potrebbe in certi casi essere quest’ultima un male maggiore, se accadesse che uno, procuratosi
una storta nel cadere,
[5] fosse per questo catturato dai nemici e ucciso. Per metafora poi, e per analogia,
c’ giustizia, non tra sé e sé, ma tra certe parti della stessa persona, e non ogni forma di giustizia, bensì
quella che c’ tra padrone e schiavo, o tra marito e moglie. Infatti, in queste discussioni si è fatta distinzione
tra la parte razionale dell’anima e quella irrazionale:
[10] se, dunque, si guarda a queste due parti
dell’anima si può anche ritenere possibile l’ingiustizia verso se stessi, perché in esse è possibile subire
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V)
qualcosa che sia contrario ai propri desideri: in esse, dunque, si realizza un tipo di giustizia paragonabile a
quella che si realizza tra chi governa e chi è governato. Si ritenga così terminato il discorso circa la giustizia
e le altre virtù etiche.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO VI
1. [La retta ragione. Le due parti dell’anima razionale].
136 che è il giusto mezzo che occorre scegliere, e
Dal momento che abbiamo già precedentemente asserito
137 dice, è di questo che
non l’eccesso né il difetto, e
[20] giacché il giusto mezzo è come la retta ragione
dobbiamo trattare. Infatti, in tutte le disposizioni di carattere di cui abbiamo parlato, come pure negli altri
casi, c’ una specie di bersaglio, mirando al quale chi possiede la ragione tende e rilascia la corda del suo
arco 138 , e c’ una determinata misura che definisce le medietà, che noi diciamo intermedie tra l’eccesso e il
difetto, [25] perché sono conformi alla retta ragione. Questa affermazione è, sì, vera, ma non chiarificatrice,
perché anche in tutti gli altri oggetti delle preoccupazioni umane, di cui v’ scienza, è vero dire questo, che,
cioè, non dobbiamo darci pena né essere trascurati né più né meno del dovuto, ma attenerci al giusto
[30] non saprebbe
mezzo, cioè a come prescrive la retta ragione. Ma se uno possedesse solo questa verità
per niente di più; per esempio, quali rimedi deve applicare al corpo, se gli si dicesse che deve usare quelli
che comanda l’arte medica, e nel modo in cui li usa chi quest’arte possiede. Perciò, anche delle disposizioni
dell’anima bisogna non solo che ciò che si è detto sia veramente così, ma anche che sia definito che cos’ la
retta ragione e quale è la misura che la definisce
[35] .
139 che alcune sono virtù del carattere,
Orbene, quando abbiamo distinto le virtù dell’anima, abbiamo detto
140 ; delle altre, dopo un
[1139a] e altre sono virtù del pensiero. Delle virtù etiche abbiamo già trattato
141 che ci sono due
discorso preliminare sull’anima, diciamo quanto segue. Precedentemente abbiamo detto
parti dell’anima, quella razionale e quella irrazionale:
[5] ora dobbiamo suddividere alla stessa maniera
quella razionale. E diamo per ammesso che le parti razionali siano due: una è quella con cui contempliamo
142 .
gli enti i cui principi non possono essere diversamente, e una con cui consideriamo le realtà contingenti
Infatti, nei confronti delle cose che sono diverse per genere è diversa anche quella delle parti dell’anima
[10] che per natura è rivolta all’una o all’altra di esse, se è vero che è per una certa somiglianza e parentela
143 . Chiamiamole, rispettivamente, la parte "scientifica" e la parte
con esse che la conoscenza le appartiene
"calcolatrice": infatti deliberare e calcolare sono la stessa cosa, ma nessuno delibera sulle cose che non
144 . Per conseguenza, la parte calcolatrice
possono essere diversamente
[15] non è che una parte
dell’elemento razionale dell’anima. Bisogna, dunque, capire qual è la migliore disposizione di ciascuna di
queste parti: essa, infatti, è la virtù di ciascuna, e la virtù di una cosa è ciò che è proprio di questa cosa in
rapporto alla sua funzione.
2. [Desiderio, intelletto, scelta].
Ma nell’anima 145 ci sono tre elementi che determinano insieme l’azione e la verità: sensazione, intelletto e
desiderio. Ma di questi tre la sensazione non è principio di alcuna azione morale: risulta chiaro dal fatto
[20]
146 . Quello,
che le bestie hanno, sì, la sensazione, ma non partecipano della capacità di agire moralmente
poi, che sul piano del pensiero sono l’affermazione e la negazione, sul piano del desiderio sono il
perseguimento e la fuga. Così, poiché la virtù etica è una disposizione alla scelta, e la scelta è un desiderio
147 ,
assunto dalla deliberazione, bisogna per questo che il ragionamento sia vero e che il desiderio sia retto
[25] se la scelta deve essere moralmente buona, e che ciò che il ragionamento afferma e ciò che il desiderio
persegue siano la stessa cosa. Questi, dunque, sono il pensiero pratico e la verità pratica. Del pensiero
teoretico, poi, che non è né pratico né produttivo, la buona e la cattiva disposizione sono il vero e il falso
(questa è infatti la funzione di ogni attività pensante): la funzione della parte pratica
[30] e pensante
insieme è la verità in accordo con il retto desiderio. Orbene, principio dell’azione è la scelta (che è ciò da cui
procede il movimento, ma non il fine a cui il movimento tende), e principi della scelta sono il desiderio e il
calcolo dei mezzi per raggiungere il fine. Dunque, la scelta non può sussistere né senza intelletto e pensiero
né senza disposizione morale, giacché un agire moralmente buono
[35] o cattivo non può sussistere senza
pensiero e senza carattere. Il pensiero di per sé non mette in moto nulla, bensì ciò che muove è il pensiero
che determina i mezzi per raggiungere uno scopo, cioè il pensiero pratico.
[1139b] Questo, infatti, presiede
anche all’attività produttrice: chiunque, infatti, produca qualcosa, la produce per un fine, e la produzione
non è fine a se stessa (ma è relativa ad un oggetto, cioè è produzione di qualcosa), mentre, al contrario,
l’azione morale è fine in se stessa, giacché l’agire moralmente buono è un fine, ed il desiderio è desiderio di
questo fine. Perciò la scelta è intelletto che desidera
[5] o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo.
Ma non può mai essere oggetto di scelta il passato (per esempio, nessuno può scegliere di avere
saccheggiato Troia), giacché non si delibera sul
passato, ma sul futuro e sul contingente, mentre il passato
148 : [10]
non può non essere stato. Perciò ha ragione Agatone
"Ché di questa sola possibilità anche Dio rimane privo: rendere non fatto ciò che è stato fatto".
Dunque, la funzione di entrambe le parti intellettive dell’anima è la verità. E, dunque, le disposizioni in virtù
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
delle quali ciascuna di esse meglio attinge la verità sono rispettivamente le loro virtù.
3. [La scienza].
Orbene, ricominciamo dall’inizio e parliamo di nuovo di queste disposizioni.
[15] Ammettiamo, dunque, che
le disposizioni per cui l’anima coglie il vero con un’affermazione o con una negazione siano cinque di
numero: e queste sono l’arte, la scienza, la saggezza, la sapienza, l’intelletto; il giudizio e l’opinione no,
perché ad essi è possibile ingannarsi. Che cosa è, dunque, la scienza, se dobbiamo parlare con rigore e non
tener dietro a similitudini, risulta chiaro da quanto segue.
[20] Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo
scienza non può essere diversamente da quello che è: ciò, invece, che può essere anche diverso, quando è
fuori dal campo della nostra osservazione, non si sa più se esiste o no. In conclusione, l’oggetto della
scienza esiste di necessità. Quindi è eterno: gli enti, infatti, che esistono di necessità assoluta sono tutti
eterni, e gli enti eterni sono ingenerati e incorruttibili.
[25] Inoltre, si ritiene che ogni scienza sia insegnabile
e che ciò che è oggetto di scienza può essere appreso. Ogni insegnamento, poi, procede da conoscenze
Analitici 149 : procede, infatti, o mediante l’induzione o mediante il
precedenti, come diciamo anche negli
sillogismo. Ora, l’induzione è principio di conoscenza anche dell’universale, mentre il sillogismo procede
dagli universali. Ci sono,
[30] dunque, dei principi da cui il sillogismo procede, ma dei quali non è possibile
sillogismo: dunque, si ottengono per induzione. In conclusione, la scienza è una disposizione alla
dimostrazione, insieme con tutti gli altri caratteri che abbiamo definito negli
Analitici 150 , giacché quando si
è giunti ad una determinata convinzione e quando i principi ci sono noti, si ha scienza. Infatti, se i principi
non sono più noti della conclusione,
[35] si avrà scienza solo per accidente. Si consideri conclusa in questo
modo la definizione di scienza.
4. [L’arte].
[1140a] Ciò che può essere diverso da come è, può essere sia oggetto di produzione, sia oggetto di azione:
altro è la produzione e altro l’azione (per quanto riguarda questi argomenti ci affidiamo anche agli scritti
essoterici). Così anche la disposizione ragionata all’azione è altro dalla disposizione ragionata alla
produzione.
[5] Perciò nessuna delle due è inclusa nell’altra, giacché l’azione non è produzione, e la
produzione non è azione. Poiché l’architettura è un’arte ed è per essenza una disposizione ragionata alla
produzione, e poiché non c’ nessun’arte che non sia una disposizione ragionata alla produzione, e non c’
nessuna disposizione ragionata alla produzione che non sia un’arte, arte sarà
[10] lo stesso che
"disposizione ragionata secondo verità alla produzione". Ogni arte, poi, riguarda il far venire all’essere e il
progettare, cioè il considerare in che modo può venire all’essere qualche oggetto di quelli che possono
essere e non essere, e di quelli il cui principio è in chi produce e non in ciò che è prodotto. L’arte, infatti,
non ha per oggetti le cose che sono o vengono all’essere per necessità,
[15] né le cose che sono o vengono
all’essere per natura, giacché queste hanno in sé il loro principio. Poiché produzione ed azione sono cose
diverse, è necessario che l’arte riguardi la produzione e non l’azione. Ed in certo qual modo hanno gli stessi
152 : "L’arte ama il caso e il caso ama
oggetti il caso e l’arte, come dice anche Agatone
[20] l’arte". Dunque,
l’arte, come s’ detto, è una specie di disposizione, ragionata secondo verità, alla produzione; la mancanza
d’arte, al contrario, è una disposizione, accompagnata da ragionamento falso, alla produzione, sempre
relativa alle cose che possono essere diversamente da come sono.
5. [La saggezza].
Per quanto riguarda la saggezza, ne coglieremo l’essenza se considereremo
[25] qual è la natura di coloro
che chiamiamo saggi. Ebbene, comunemente si ritiene che sia proprio del saggio essere capace di ben
deliberare su ciò che è buono e vantaggioso per lui, non da un punto di vista parziale, come, per esempio,
per la salute, o per la forza, ma su ciò che è buono e utile per una vita felice in senso globale. Una prova ne
è che noi chiamiamo saggi coloro che lo sono in un campo particolare, quando calcolano
[30] esattamente i
mezzi per ottenere un fine buono in cose che non sono oggetto di un’arte. Ne consegue che anche in
generale è saggio chi è capace di deliberare. Ma nessuno delibera sulle cose che non possono essere
diversamente, né sulle cose che non gli è possibile fare lui stesso. Cosicché, se è vero che scienza implica
dimostrazione, ma che, d’altra parte, non v’ dimostrazione delle cose i cui principi possono essere
diversamente
[35] (tutte queste infatti possono essere anche diversamente), e poiché non
[1140b] è
possibile deliberare su ciò che è necessariamente, la saggezza non sarà né scienza né tecnica. Non sarà
scienza perché l’oggetto dell’azione può essere diversamente, e non sarà arte perché il genere dell’azione e
quello della produzione sono diversi. In conclusione, resta che la saggezza sia
[5] una disposizione vera,
ragionata, disposizione all’azione avente per oggetto ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Infatti, il
fine della produzione è altro dalla produzione stessa, mentre il fine dell’azione no: l’agire moralmente bene
è un fine in se stesso. Per questo noi pensiamo che Pericle e gli uomini come lui sono saggi, perché sono
capaci di vedere ciò che è bene per loro e ciò che è bene per gli uomini in generale;
[10] e tale capacità
hanno, secondo noi, gli uomini che sanno amministrare una famiglia o uno Stato. Per questo motivo
153 . Salva, cioè, il giudizio saggio. In
attribuiamo alla temperanza questo nome, perché salva la saggezza
effetti, non è che il piacere e il dolore corrompano e distorcano ogni tipo di giudizio (per esempio, questo: il
triangolo [15] ha o non ha la somma degli angoli interni uguale a due angoli retti), bensì soltanto i giudizi
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151
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
che riguardano l’azione. Infatti, i fini delle azioni sono le azioni stesse: a chi è corrotto dal piacere o dal
dolore non è più manifesto il principio, né che è in vista di questo o per causa sua che deve scegliere e fare
tutto ciò che sceglie e fa: il vizio, infatti, distrugge il principio dell’azione morale.
[20] Per conseguenza, la
saggezza è necessariamente una disposizione ragionata, vera, disposizione all’azione nel campo dei beni
umani. Inoltre, dell’arte c’ una virtù, ma non c’ una virtù della saggezza: cioè, nel campo dell’arte è
preferibile chi sbaglia volontariamente, mentre nel caso della saggezza, come in quello delle altre virtù,
sbagliare volontariamente è peggio. Dunque, è chiaro che la saggezza è una virtù
[25] e non un’arte.
Poiché, poi, le parti razionali dell’anima sono due, la saggezza sarà la virtù di una delle due, di quella
opinativa 154 : sia l’opinione sia la saggezza, infatti, si riferiscono alle cose che possono essere diversamente.
Inoltre la saggezza non è soltanto una disposizione ragionata: prova ne è che di una simile disposizione vi
può essere oblio, della saggezza,
[30] invece, no.
6. [L’intelletto].
Poiché la scienza è un giudizio che ha per oggetto gli universali e le cose che sono necessariamente, e
poiché ci sono dei principi delle cose dimostrabili e di ogni scienza (giacché la scienza implica
155 né di arte
ragionamento), il principio di ciò che è oggetto di scienza non è a sua volta oggetto di scienza
[1141a]
né [35] di saggezza: infatti, ciò che è oggetto di scienza è dimostrabile, mentre l’arte e la saggezza
riguardano ciò che può essere diversamente. Quindi, neppure la sapienza ha come oggetto i principi: è
proprio del sapiente, infatti, avere dimostrazione di un certo tipo di cose. Per conseguenza, se le disposizioni
per cui cogliamo la verità e non cadiamo mai in errore, sia sugli oggetti che non possono sia su quelli che
possono essere diversamente, sono scienza, saggezza, sapienza e intelletto,
[5] e se i principi non possono
essere oggetto di tre di queste (con "tre" intendo saggezza, scienza e sapienza), resta che essi siano
oggetto dell’intelletto.
7. [La sapienza. Differenza tra sapienza e saggezza].
Noi attribuiamo la sapienza nelle arti a coloro che raggiungono la più alta maestria
[10] nelle loro arti: per
156 è uno scultore sapiente e Policleto
157 un sapiente statuario, indicando qui con
esempio, diciamo che Fidia
"sapienza" nient’altro che l’eccellenza in un’arte. Ma noi pensiamo che ci siano degli uomini sapienti in senso
onnicomprensivo e non sapienti solo in un campo particolare o in una cosa determinata, come dice Omero
nel Margite 158 : [15]
159 .
"costui gli dèi non lo fecero né zappatore né aratore né sapiente in qualche altra cosa"
Così è chiaro che la sapienza è la più perfetta delle scienze. Per conseguenza, bisogna che il sapiente non
solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche che colga il vero per quanto riguarda i principi stessi. Così
si può dire che la sapienza sia insieme intelletto e scienza, in quanto è scienza, con fondamento,
[20] delle
realtà più sublimi. È assurdo infatti, pensare che la politica e la saggezza siano la forma più alta di
conoscenza, se è vero che l’uomo non è la realtà di maggior valore nell’universo. Se, dunque, ciò che è
salutare è diverso per gli uomini e per i pesci, mentre ciò che è bianco e diritto è sempre la stessa cosa,
tutti devono riconoscere che anche ciò che è sapiente è la stessa cosa, mentre ciò che è saggio
[25] è
diverso. Infatti, si dice che è cosa saggia il saper considerare adeguatamente i nostri interessi particolari, ed
è ad un uomo saggio che noi li affidiamo. È per questo che si dice che certi animali sono saggi, quelli cioè
che mostrano di avere una certa capacità di previdenza per ciò che interessa la loro vita. È chiaro, inoltre,
che non si può dire che la sapienza e la politica si identificano: se, infatti,
[30] si chiamerà sapienza la
scienza di ciò che è utile a noi stessi, ci saranno molte sapienze, giacché non è unica la scienza di ciò che è
bene per tutti gli animali, ma è diversa per ciascuna specie, come anche non c’ un’unica scienza medica
per tutti gli esseri viventi. Se, poi, si dice che l’uomo è superiore a tutti gli altri animali, non cambia niente,
giacché ci sono altre realtà di natura ben
[1141b] più divina dell’uomo, come risulta chiarissimo, se non
160 . Dunque, da quanto abbiamo detto risulta chiaro che la
altro, dai corpi di cui è costituito l’universo
161 e
sapienza è, insieme, scienza e intelletto delle realtà più sublimi per natura. Perciò Anassagora
Talete 162 , e gli uomini come loro, vengono chiamati sapienti
[5] ma non saggi, quando si vede che ignorano
ciò che è vantaggioso per loro, e si dice che essi conoscono realtà straordinarie, meravigliose, difficili e
divine, ma inutili, perché non sono i beni umani che essi cercano.
La saggezza, invece, riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile deliberare: infatti,
[10] noi diciamo
che soprattutto questa è la funzione del saggio, il deliberare bene, e nessuno delibera sulle cose che non
possono essere diversamente, né su quelle che non abbiano un qualche fine che sia un bene realizzabile
nell’azione. L’uomo che sa deliberare bene in senso assoluto è quello che, seguendo il ragionamento, sa
indirizzarsi a quello dei beni realizzabili nell’azione che è il migliore per l’uomo. La saggezza non ha come
oggetto [15] solo gli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari, giacché essa concerne
l’azione, e l’azione riguarda le situazioni particolari. È per questa ragione che alcuni uomini, pur non
conoscendo gli universali, sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono, e questo vale anche negli altri
campi 163 : sono coloro che hanno esperienza. Se, infatti, uno sa che le carni leggere sono facili da digerire e
salutari, ma non sa quali sono le carni leggere, non produrrà la salute;
[20] la produrrà piuttosto colui che
sa che le carni degli uccelli sono leggere e salutari. La saggezza, poi, riguarda l’azione: cosicché deve
possedere entrambi i tipi di conoscenza, o di preferenza quella dei particolari. Ma ci sarà anche qui una
164 .
scienza architettonica
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
8. [Politica e saggezza come conoscenza del particolare].
La politica e la saggezza sono la stessa disposizione, benché la loro essenza non sia la stessa. La saggezza
165 , è saggezza legislativa; ma in quanto riguarda
che ha per oggetto
[25] una città, in quanto architettonica
gli atti particolari, ha il nome comune di saggezza politica. Quest’ultima riguarda l’azione e la deliberazione:
il decreto, infatti, è oggetto dell’azione in quanto è l’ultimo termine della deliberazione. È per questo che
solo coloro che deliberano sui casi particolari si dice che fanno politica: questi infatti sono i soli ad agire
come fanno gli artigiani. Ma comunemente si ritiene
[30] anche che la saggezza sia soprattutto quella che
riguarda in modo esclusivo l’individuo stesso; e questa ha il nome comune di saggezza; il nome, poi, delle
altre forme è "amministrazione familiare" o "legislazione" o "politica", e quest’ultima si divide in
"deliberativa" e "giudiziaria". E una forma di conoscenza sarà, sì, quella di sapere ciò che è utile a se stessi,
ma è molto diversa.
[1142a] E si ritiene che sia saggio colui che conosce il suo interesse e se ne occupa a
fondo, mentre gli uomini politici si occupano di un sacco di cose. Perciò Euripide dice:
"Come potrei essere saggio io che avrei potuto,
[pur rimanendo inattivo,
semplice numero tra i tanti nell’esercito,
partecipare di un ugual diritto? [...]
[5]
Giacché coloro che aspirano troppo in alto e fanno il di più"
166
.
Costoro, infatti, cercano ciò che è bene per loro, e credono che sia questo che devono fare. Da questa
opinione, dunque, è derivata la credenza che i saggi siano questi. Eppure il bene dell’individuo non può certo
sussistere senza amministrazione familiare
[10] e senza costituzione politica. Inoltre, in che modo bisogna
amministrare i propri interessi non è una cosa evidente, e va fatta oggetto di indagine.
Prova, poi, di ciò che abbiamo detto è anche il fatto che i giovani sono geometri o matematici o sapienti in
materie del genere, ma non si pensa che un giovane sia saggio. Il motivo è che la saggezza riguarda anche i
particolari, i quali diventano
[15] noti in base all’esperienza, mentre il giovane non è esperto: infatti, è la
lunghezza del tempo che produce l’esperienza. Perché ci si potrebbe chiedere anche questo: per quale
ragione un ragazzo può essere un matematico, ma non un sapiente o un fisico? Non si deve forse rispondere
che gli oggetti della matematica derivano dall’astrazione, mentre i principi della sapienza e della fisica si
ricavano dall’esperienza, e che, mentre su questi ultimi i giovani non hanno convinzioni
[20] ma si
contentano di parole, degli oggetti matematici, invece, non ignorano l’essenza? Inoltre, nel deliberare,
l’errore può riguardare sia l’universale sia il particolare: ci si può sbagliare, infatti, o nel dire che tutte le
acque pesanti sono malsane, o nel dire che questa determinata acqua è pesante. Che la saggezza non sia
scienza è manifesto: essa riguarda l’ultimo termine della deliberazione, come abbiamo detto,
[25] giacché
tale è l’oggetto dell’azione. Dunque, essa si contrappone all’intelletto: l’intelletto, infatti, ha per oggetto le
definizioni, di cui non c’ dimostrazione, mentre la saggezza ha per oggetto l’ultimo particolare, di cui non
c’ scienza ma sensazione, ma non sensazione dei sensibili propri, bensì quella mediante cui, in
matematica 167 , noi percepiamo che l’ultimo determinato particolare è un triangolo: anche là, infatti, ci si
168 è più
169 è diversa.
dovrà fermare. Ma quest’ultima
[30] sensazione che saggezza, e la forma dell’altra
9. [L’attitudine a deliberare bene].
Tra cercare e deliberare c’ differenza, giacché il deliberare è una specie del cercare. Bisogna, dunque,
cercar di comprendere che cos’ l’attitudine a deliberare bene, se è un tipo di scienza o di opinione o di
sagacia o qualche altro genere di cosa.
[1142b] Scienza non è certamente: infatti, non si cerca ciò che si sa,
mentre l’attitudine a deliberare bene è una specie della deliberazione, e colui che delibera cerca e calcola.
Ma, certo, non è neppure sagacia: infatti, la sagacia non implica ragionamento ed è qualcosa di rapido, e si
dice che bisogna mettere in pratica rapidamente ciò che si è deliberato,
[5] ma che bisogna deliberare
lentamente. Inoltre, anche la prontezza di spirito è diversa dall’attitudine a deliberare bene: la prontezza di
spirito è una specie di sagacia. Infine, l’attitudine a deliberare bene non è alcun tipo di opinione. Ma poiché
chi delibera male erra, mentre chi delibera bene delibera correttamente, è chiaro che l’attitudine a
deliberare bene è una specie di rettitudine, ma non una rettitudine della scienza né dell’opinione.
[10] Della
scienza, infatti, non c’ rettitudine (perché non c’ neppure errore), e, d’altra parte, la rettitudine
dell’opinione è la verità; e, nello stesso tempo, tutto ciò che è oggetto di opinione è già stato determinato.
Pur tuttavia, l’attitudine a deliberare bene non è scompagnata dal ragionamento. Dunque, resta da dire che
essa è rettitudine del pensiero: quest’ultimo, infatti, non è ancora un’asserzione. E l’opinione non è ricerca,
ma è già asserzione, mentre chi delibera,
[15] sia che deliberi bene sia che deliberi male, cerca qualcosa e
calcola. Ma l’attitudine a deliberare bene è una specie di rettitudine della deliberazione: perciò bisogna
170 . E poiché il termine "rettitudine" ha
indagare prima di tutto sulla natura e sull’oggetto della deliberazione
molti significati, è chiaro che qui non si tratta di ogni tipo di rettitudine: infatti, l’incontinente, cioè il vizioso,
otterrà col suo calcolo ciò che si propone come suo dovere, cosicché si troverà
[20] ad aver deliberato
correttamente, anche se poi si è procurato un gran male. Ma si ritiene che il deliberare bene sia una cosa
buona: infatti, è questo tipo di rettitudine della deliberazione che costituisce l’attitudine a deliberare bene,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
cioè è quella rettitudine che mira a raggiungere un bene. Anche questo bene, poi, è possibile coglierlo
mediante un sillogismo falso, e cogliere ciò che si deve fare, ma non il mezzo conveniente: è possibile che il
termine medio sia falso; cosicché non è
[25] ancora attitudine a deliberare bene questa disposizione a
raggiungere ciò che si deve, ma non con il mezzo con cui si dovrebbe. Inoltre, è possibile raggiungere lo
scopo, talora deliberando per molto tempo, talora rapidamente. Ma neppure quella è ancora attitudine a
deliberare bene, che è invece una rettitudine conforme all’utile, cioè conforme al mezzo, al modo e al tempo
dovuti. Inoltre, è possibile deliberare bene sia in senso assoluto, sia in relazione ad un fine determinato.
Dunque, [30] l’attitudine a deliberare bene, in senso assoluto, è quella che conduce correttamente al fine
preso in senso assoluto, mentre l’attitudine a deliberare bene in senso stretto è quella che conduce ad un
determinato fine. Se, quindi, è caratteristica dei saggi il ben deliberare, l’attitudine a deliberare bene sarà la
rettitudine conforme a ciò che è utile per raggiungere il fine, di cui la saggezza è la vera apprensione.
10. [Il giudizio e la perspicacia].
Il giudizio, poi, e la perspicacia, per cui parliamo di uomini
[1143a] giudiziosi e perspicaci, non sono la
stessa cosa che la scienza o l’opinione in generale (giacché in questo caso tutti sarebbero giudiziosi), né
sono una determinata scienza particolare, come, per esempio, la medicina, scienza della salute, o la
geometria, scienza delle grandezze. Il giudizio, infatti, non ha per oggetto gli enti eterni
[5] ed immobili, né
una qualsiasi delle realtà divenienti, bensì realtà che possono suscitare problemi e richiedere una
deliberazione. Perciò il giudizio ha gli stessi oggetti della saggezza, ma giudizio e saggezza non sono la
stessa cosa. La saggezza, infatti, è imperativa, perché il suo fine è quello di determinare ciò che si deve o
che non si deve fare; il giudizio, invece,
[10] è soltanto critico. Infatti, giudizio e perspicacia sono la stessa
cosa, come uomo giudizioso e uomo perspicace. Il giudizio, poi, non consiste né nel possedere né
171 , quando si fa uso della
nell’acquistare la saggezza; ma come "apprendere" si dice "comprendere"
scienza, così si dice "comprendere" quando si fa uso dell’opinione nel giudicare sulle cose che sono oggetto
[15] della saggezza, quando ne parla un altro, e nel giudicare adeguatamente (giacché "bene" e
"adeguatamente" qui significano la stessa cosa). Ed il nome di "giudizio", in base al quale parliamo di uomini
giudiziosi, è derivato da quello del "giudizio" di cui ci si avvale nell’apprendere: spesso, infatti, intendiamo
per "comprendere" l’apprendere.
11. [La comprensione e l’indulgenza. Loro rapporto con l’intelletto].
172 , per cui diciamo che certi uomini sono "indulgenti",
E quella che chiamiamo "comprensione"
[20] cioè che
hanno comprensione, è un corretto giudizio su ciò che è equo. Prova: soprattutto dell’uomo equo diciamo
che è disposto all’indulgenza, e che è equo l’avere indulgenza in certi casi. L’indulgenza è una comprensione
che giudica correttamente di ciò che è equo: e giudica correttamente quando giudica equo ciò che lo è
veramente.
[25] Ora, tutte le disposizioni di cui abbiamo parlato convergono, logicamente, verso la stessa
cosa: noi, infatti, quando attribuiamo agli stessi uomini comprensione, giudizio, saggezza e intelletto,
diciamo che essi hanno ormai comprensione e intelletto, e che sono saggi e giudiziosi. Tutte queste facoltà,
infatti, riguardano gli oggetti ultimi, cioè i particolari: appunto
[30] nell’essere capace di giudicare su ciò che
173 , ovvero indulgente, giacché l’equità è
è oggetto del saggio consiste l’essere giudizioso e benevolo
comune a tutti gli uomini buoni nel loro comportamento verso gli altri. Ora, gli oggetti di tutte le azioni sono
cose particolari e ultime, giacché il saggio deve conoscere i particolari ultimi, e il giudizio e la comprensione
riguardano
[35] gli oggetti delle azioni, e questi sono appunto dei termini ultimi. Anche l’intelletto riguarda
gli oggetti ultimi in entrambi i sensi: è infatti l’intelletto che ha come oggetto
[1143b] sia i termini primi sia
174 che, da una parte, coglie i termini immutabili e primi
gli ultimi, e non il ragionamento, ed è l’intelletto
nell’ordine delle dimostrazioni, e, dall’altra, nelle questioni pratiche, coglie il termine ultimo e contingente,
cioè la premessa minore. Infatti, i principi da cui si ricava il fine sono questi: è dai particolari, infatti, che si
ricavano [5] gli universali. Di questi fatti particolari bisogna avere apprensione immediata, e questa
apprensione immediata è l’intelletto. Per questo si ritiene che queste qualità siano naturali, e che, mentre
nessuno è sapiente per natura, è per natura che si ha comprensione, giudizio, intelletto. Prova ne è che noi
pensiamo che esse seguano le varie età, e che una determinata età ha intelletto e comprensione, in quanto,
noi crediamo, ne è causa la natura. [Perciò
[10] l’intelletto è sia principio sia fine: infatti, le dimostrazioni
175 . Cosicché bisogna tener conto delle affermazioni
partono da fatti particolari e riguardano fatti particolari.]
non dimostrate, cioè delle opinioni degli uomini d’esperienza e dei più anziani, ovvero dei saggi, non meno
che delle loro dimostrazioni, giacché essi, per il fatto di avere un occhio formato dall’esperienza, vedono
correttamente. Si è dunque detto che cosa sono
[15] la saggezza e la sapienza, quali oggetti abbia ciascuna
di esse, e che ciascuna appartiene ad una diversa parte dell’anima.
12. [Saggezza e sapienza. Loro utilità].
A proposito, poi, di saggezza e sapienza ci si potrebbe domandare a che cosa servono. (1) Infatti, mentre la
sapienza non considera nulla di ciò che può rendere felice
[20] l’uomo (giacché non riguarda nessun
divenire), la saggezza ha proprio questo come oggetto: ma per che cosa si ha bisogno di lei? La saggezza
ha per oggetto le cose giuste, belle e buone per l’uomo, ma queste sono le cose che è proprio dell’uomo
buono fare, e non è per il fatto di conoscere che noi siamo più atti a farle, se è vero che
[25] le virtù sono
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
delle disposizioni, così come non siamo più atti a metterle in pratica se conosciamo le cose sane e forti,
quelle che vengono così chiamate non perché producono la salute o la forza, ma perché derivano da una
disposizione: in realtà non siamo affatto più atti all’azione per il fatto di possedere la scienza medica o l’arte
ginnica. Ma se si deve dire che lo scopo della saggezza non è quello di possedere queste conoscenze
teoriche, ma quello di far diventare virtuosi, a coloro che sono già virtuosi la saggezza non serve a nulla.
[30] (2) Inoltre, non serve neppure a coloro che non l’hanno ancora: non ha, infatti, alcuna importanza se
possediamo noi stessi la saggezza o se diamo retta ad altri che la possiedono, ma ci basterà fare come nel
caso della salute: anche se vogliamo acquistare la salute, non ci mettiamo tuttavia a studiare medicina. (3)
176 , fosse
Oltre a ciò, si ammetterà che sarebbe strano se la saggezza, pur essendo inferiore alla sapienza
più di lei dominante:
[35] infatti, l’arte che produce una cosa qualsiasi comanda e impera su ciascun
prodotto. Ciò posto, su questi argomenti bisogna discutere: ora, infatti, ne abbiamo solo mostrato le aporie.
[1144a] (1) Quindi, in primo luogo, diciamo che esse sono necessariamente virtù per se stesse, poiché
ciascuna è virtù di ciascuna delle due parti dell’anima, anche se non producono niente, né l’una né l’altra.
(2) In secondo luogo, esse producono in realtà qualcosa; ma non come la medicina produce la salute, bensì
177 , così [5] la sapienza produce felicità: pur essendo, infatti, una parte
come la salute <produce se stessa>
178 .
della virtù nella sua globalità, per il fatto di essere posseduta e di essere in atto, essa fa l’uomo felice
(3) Inoltre, la funzione propria dell’uomo si compie pienamente in conformità con la saggezza e con la virtù
etica: infatti, la virtù fa retto lo scopo, e la saggezza fa retti i mezzi per raggiungerlo. Della quarta parte
dell’anima 179 , poi, quella nutritiva, non c’ alcuna
[10] virtù di questo tipo, giacché non dipende da lei agire
o non agire.
(4) Per quanto, poi, riguarda il fatto che la saggezza non ci rende più atti a compiere le azioni belle e giuste,
dobbiamo ricominciare da un po’ più in alto, prendendo come punto di partenza il seguente. Come, infatti,
diciamo che alcuni, pur compiendo delle azioni giuste, non sono ancora giusti, come, per esempio, coloro
[15] che fanno ciò che è prescritto dalle leggi o involontariamente o per ignoranza o per qualche altra
ragione, ma non per se stesso (eppure, almeno fanno ciò che si deve, cioè ciò che bisogna che l’uomo di
valore faccia), così, come sembra, c’ una certa disposizione per fare ciascun tipo di azioni in modo da
essere buoni, intendo dire, cioè, per compierle in base ad una scelta ed avendo come scopo ciò stesso
[20]
che si fa.
Dunque, è la virtù che fa retta la scelta, mentre tutto quanto contribuisce per natura a farci operare una
retta scelta non dipende dalla virtù ma da potenzialità diverse. Ma a chi ha già acquisito queste cognizioni
bisogna parlare in maniera più chiara. C’, dunque, una potenzialità che viene chiamata "abilità": questa è
tale per cui si è in grado
[25] di compiere le azioni che mirano allo scopo che ci si è proposti, e di
raggiungerlo. Quindi, se lo scopo è buono, essa è da lodare, se è cattivo, invece, si tratta di furberia: è per
questo che chiamiamo abili tanto i saggi quanto i furbi. La saggezza non è questa potenzialità, ma non
esiste senza questa potenzialità. Questa disposizione, poi,
[30] non si realizza in questo "occhio dell’anima"
senza la virtù, come s’ detto e come è evidente. Infatti, i sillogismi pratici hanno questo principio: "poiché
tale è il fine, cioè il bene supremo...", quale che sia (concediamo, tanto per ragionare, che sia uno
qualsiasi): ma questo principio non è manifesto se non a chi è buono, giacché
[35] la perversità stravolge e
fa cadere in errore sui principi pratici. Cosi è manifesto che non è possibile essere saggio senza essere
buono.
13. [Riflessioni conclusive sulle virtù dianoetiche].
[1144b] Per conseguenza, bisogna esaminare di nuovo anche la virtù. Infatti anche la virtù, come la
saggezza, ha un rapporto molto stretto con l’abilità: non lo stesso, ma simile; analogo rapporto c’ tra la
virtù naturale e la virtù vera e propria. Tutti ritengono che ciascun tipo di carattere ci appartenga
[5] in
qualche modo per natura: infatti, giusti, inclini alla temperanza, coraggiosi e così via, noi lo siamo subito fin
dalla nascita. Ma noi, tuttavia, cerchiamo qualcosa d’altro: il bene in senso proprio, e il possesso di tali
qualità in un altro modo. Infatti, le disposizioni naturali appartengono sia ai bambini sia alle bestie, ma
senza intelletto esse sono manifestamente dannose.
[10] In ogni caso, sembra che sia facile osservare che,
come ad un corpo vigoroso ma privo della vista succede, quando si muove, di cadere rovinosamente, per il
fatto che non ha la vista, così succede anche qui. Ma quando uno acquista l’intelletto si comporta ben
diversamente: solo allora la sua disposizione, pur essendo ancora simile a quella naturale, sarà
propriamente virtù. Per conseguenza, come nel caso della parte opinativa dell’anima ci sono due
[15] specie
di disposizioni, l’abilità e la saggezza, così anche nel caso della parte morale ce ne sono due: da una parte la
virtù naturale e dall’altra la virtù vera e propria; e di queste due, la virtù vera e propria non nasce senza la
saggezza. Perciò alcuni dicono che tutte le virtù sono forme di saggezza, e perciò Socrate in un senso
conduceva correttamente la ricerca, in un
altro sbagliava: pensando che
[20] tutte le virtù sono forme di
saggezza, sbagliava, ma dicendo che esse non sorgono senza la saggezza, diceva bene. Ecco la prova:
anche oggi, infatti, tutti, quando definiscono la virtù, dicono che è una determinata disposizione che
riguarda certi oggetti, e aggiungono che è conforme alla ragione e la retta ragione è quella conforme alla
saggezza. Sembra, dunque, che tutti, in qualche modo, presagiscano
[25] che è virtù quella disposizione
che è conforme alla saggezza. Ma bisogna andare un po’ più in là. Non è solo la disposizione conforme alla
retta ragione, ma quella che è congiunta con la retta ragione che è virtù: e la retta ragione in questo campo
è la saggezza. Socrate pensava che le virtù fossero ragionamenti (infatti diceva che sono
[30] tutte delle
scienze); noi, invece, riteniamo che esse siano congiunte con la ragione. È chiaro, dunque, da quanto si è
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI)
detto che non è possibile essere buono in senso proprio senza saggezza, né essere saggio senza la virtù
etica. Ma in questo modo resterà anche confutato l’argomento dialettico con cui si vorrebbe provare che le
virtù esistono separatamente l’una dall’altra: infatti, la medesima persona non è ugualmente ben disposta
per natura
[35] verso tutte le virtù, ma sarà tale che una l’ha già acquisita, l’altra non ancora; questo,
infatti, può capitare per quanto riguarda le virtù naturali,
[1145a] ma per quanto riguarda le virtù per cui
uno è chiamato buono in senso assoluto, non è possibile: quando, infatti, gli appartiene una sola virtù, la
saggezza, gli apparterranno insieme tutte le virtù. È chiaro, inoltre, che, anche se essa non fosse guida
all’azione, si avrebbe bisogno della saggezza per il fatto che è la virtù della parte dell’anima qui interessata;
ed è chiaro che la scelta corretta non sarà possibile senza
[5] la saggezza né senza la virtù: l’una
181 ci fa compiere le azioni atte a raggiungerlo. È certo, poi, che la saggezza non è
determina il fine, l’altra
padrona della sapienza e della parte migliore dell’anima, come neppure la medicina è padrona della salute:
infatti, non si serve di lei, ma cerca di vedere come essa si possa produrre: la saggezza, dunque, comanda
in vista della sapienza, ma non comanda alla sapienza.
[10] Inoltre, è come se si dicesse che la politica
comanda agli dèi, poiché regna su tutto l’ordinamento della città.
180
, infatti,
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO VII
1. [Vizio, incontinenza, bestialità].
[15] A seguito di ciò, dobbiamo assumere un altro punto di partenza e dire che, per quel che concerne i
comportamenti, tre sono le specie di comportamento da evitare: vizio, incontinenza, bestialità. I contrari di
due di esse sono evidenti, e li chiamiamo uno virtù e l’altro continenza. In contrapposizione alla bestialità il
termine più adatto da usare sarebbe quello di "virtù sovrumana",
[20] una specie di virtù eroica e divina:
così Omero rappresenta Priamo mentre dice che Ettore è stato eccezionalmente virtuoso:
"...e non pareva
182 .
figlio d’un uomo mortale, ma figlio d’un dio"
Cosicché, se, come dicono, un eccezionale grado di virtù trasforma gli uomini in dèi, è chiaro che una
disposizione di tale natura sarà quella
[25] che si contrappone alla bestialità. Infatti, come il vizio e la virtù
non sono di una bestia, così non sono neppure di un dio, ma, da una parte, lo stato di un dio è più
venerabile della virtù, e, dall’altra, quello della bestia è di un genere diverso da quello del vizio. E poiché è
raro anche l’essere un uomo divino, come gli Spartani sono soliti dire quando hanno una eccezionale
183 "), così anche
ammirazione per qualcuno (essi dicono: "uomo divino!
[30] il tipo bestiale è raro tra gli
uomini. Si trova soprattutto tra i barbari, ma certi caratteri bestiali sono prodotti anche da malattie e difetti
di crescita: e questo nome infamante diamo agli uomini che eccedono nel vizio. Ma di siffatta disposizione
dovremo fare menzione più avanti, mentre del vizio
[35] si è già parlato prima. Ora dobbiamo parlare
dell’incontinenza e della mollezza, cioè della sensualità, e della continenza e della fortezza: infatti,
[1145b]
nel caso di quelle disposizioni non bisogna considerare ciascun gruppo di esse come identico alla virtù o alla
perversità, né come costituenti un genere diverso. Bisogna, invece, come negli altri casi, tener fermo quello
che si manifesta e porre innanzi tutto i problemi, e così mostrare il più esaurientemente possibile tutte
[5] le
opinioni correnti su queste passioni, o, se no, almeno le più diffuse e le più importanti: infatti, se si
risolvono le difficoltà e si accettano le opinioni comuni, si otterrà una sufficiente dimostrazione.
Comunemente si ritiene che la continenza e la fortezza appartengano al campo delle cose virtuose e
lodevoli, l’incontinenza e la mollezza, invece,
[10] a quello delle cose cattive e biasimevoli, e che il
continente si identifichi con colui che persevera nella conclusione del suo ragionamento, e l’incontinente con
chi non vi si attiene. Mentre l’incontinente compie, a causa della passione, azioni che pur sa che sono
malvagie, l’uomo continente, che sa che i suoi desideri sono malvagi, non li segue, in forza del
ragionamento. Tutti dicono che l’uomo temperante è continente e
[15] forte, ma alcuni dicono che l’uomo
continente e forte è temperante in tutto, altri no; e gli uni affermano che l’intemperante è incontinente e
l’incontinente è intemperante, senza differenze, e gli altri, invece, che sono diversi. Quanto all’uomo saggio,
talora dicono che non può essere incontinente, talora affermano che alcuni, che pur sono saggi e abili, sono
incontinenti. Inoltre si parla di uomini incontinenti
[20] in fatto di impulsività, di onore, di guadagno. Questo
è, dunque, quello che si dice.
2. [Analisi e discussione delle opinioni correnti].
(1) Ci si potrebbe porre ora la questione: come può compiere atti di incontinenza uno che giudichi
rettamente? Ora, alcuni dicono che ciò non è possibile quando si possiede la scienza: sarebbe strano (così
pensava Socrate) che, quando in un uomo ci fosse la scienza, ci fosse poi qualche altra cosa che la
padroneggia e la trascina qua e là come una schiava.
[25] Socrate si opponeva totalmente a questa
concezione, nella persuasione che non esiste incontinenza: secondo lui, infatti, nessuno agisce in contrasto
con ciò che è il meglio in base ad un giudizio consapevole, ma solo per ignoranza. Questa teoria contraddice
i dati d’esperienza in modo lampante, e si deve indagare, nell’ipotesi che questo stato
passionale derivi
dall’ignoranza, quale sia il tipo dell’ignoranza che sopravviene.
[30] In effetti, colui che compie atti di
incontinenza non pensa di dover agire in quel modo prima di trovarsi in questo stato passionale. Ma ci sono
alcuni che in parte accettano e in parte no questa teoria: sono d’accordo sul fatto che niente è più forte
della scienza ma non sul fatto che nessuno agisca in modo contrastante con l’opinione migliore, e per questo
affermano che l’incontinente
[35] non possiede scienza quando si lascia dominare dai
piaceri, ma solo
opinione. Ma se si tratta di opinione e non di scienza, se non è una convinzione
[1146a] forte che si oppone
ai piaceri, ma una debole, come succede a coloro che sono incerti, c’ indulgenza per il non riuscire a
rimanere saldi in quelle opinioni di fronte all’attacco dei desideri intensi: non c’ indulgenza, invece, per la
perversità, né per alcun altro atteggiamento biasimevole. Allora è forse la saggezza che si oppone ai
piaceri? [5] Questa, infatti, è molto forte. Ma è assurdo: lo stesso uomo, infatti, sarà insieme saggio e
incontinente, ma nessuno dirà che è proprio del saggio commettere volontariamente le azioni più basse. Ed
oltre a ciò abbiamo mostrato prima che il saggio sa agire bene in pratica (è un uomo impegnato nei fatti
particolari) e che possiede tutte le altre virtù.
(2) Inoltre, se
[10] l'uomo continente è tale in presenza di desideri violenti e bassi, l’uomo temperante non
sarà continente, né l’uomo continente sarà temperante: infatti, è proprio dell’uomo temperante l’avere
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
desideri non eccessivi né bassi. Ma, certo, l’uomo continente deve averli: se, infatti, i desideri sono buoni,
cattiva è la disposizione che impedisce di seguirli, cosicché la continenza non sarà sempre
[15] virtuosa: se i
desideri sono deboli e non bassi, non c’ niente di glorioso <nel dominarli>, e se sono bassi e deboli, non
c’ niente di grande.
(3) Inoltre, se la continenza rende capaci di rimanere saldi in qualche opinione, sarà cattiva nel caso, per
esempio, in cui ci faccia rimaner saldi in una opinione falsa. E se l’incontinenza rende facili ad abbandonare
qualsiasi opinione, ci sarà una specie virtuosa di incontinenza, come nel caso del Neottolemo di Sofocle nel
Filottete 184 : egli è da lodare, infatti, perché non persiste,
[20] poiché gli dispiace mentire, in ciò di cui Ulisse
l’ha persuaso.
(4) Inoltre, il ragionamento sofistico contiene una aporia: infatti, per il voler confutare con dei paradossi,
per essere considerati abili, quando ci riescono, il ragionamento che ne risulta diventa un’aporia:
[25] il
pensiero rimane legato, infatti, quando da una parte non vuole restar fermo perché non gli piace la
conclusione, e dall’altra non può procedere perché non ha strumenti per sciogliere le difficoltà
dell’argomento. Dunque, succede che c’ un argomento in base al quale la stoltezza congiunta con
l’incontinenza è virtù: infatti, l’uomo, a causa dell’incontinenza, compie le azioni contrarie a quelle che
giudica di dover compiere, ma d’altra parte giudica che le buone
[30] siano cattive e che non si debbano
compiere, cosicché compirà le buone e non le cattive.
(5) Inoltre, chi agisce con convinzione e persegue e sceglie ciò che è piacevole, potrebbe essere ritenuto
migliore di chi agisce così non per calcolo, ma per incontinenza: infatti, il primo risulterebbe più facile da
guarire, perché si lascia indurre a cambiare persuasione. Invece, all’incontinente, si può applicare il
proverbio [35] che dice: "Quando è l’acqua che soffoca, che cosa bisogna berci su?".
Se egli, infatti,
[1146b] era persuaso di dover fare quello che fa, dovrebbe smettere di farlo, una volta che abbia mutato la
185 .
sua persuasione; ora, invece, pur essendo persuaso di dover fare una cosa, non di meno ne fa un’altra
(6) Inoltre, se incontinenza e continenza riguardano ogni tipo di oggetto, chi è incontinente in senso,
assoluto? Nessuno, infatti, possiede tutte le forme di incontinenza, ma diciamo che alcuni sono incontinenti
[5] in senso assoluto. Tali, dunque, sono, pressappoco, le aporie che sorgono in questo campo, ma di
queste alcune sono da scartare, altre da conservare, giacché risolvere un’aporia significa trovare la verità.
3. [Soluzione delle aporie riguardanti l’incontinenza].
Innanzi tutto dobbiamo vedere se gli incontinenti agiscono consapevolmente o no, e, nel primo caso, in che
senso "consapevolmente"; poi di qual natura sono gli oggetti
[10] che dobbiamo attribuire all’incontinente e
al continente, cioè se ogni tipo di piacere e di dolore oppure certe specie determinate; e se l’uomo
continente è identico a quello forte o diverso, e così di seguito per tutte le altre questioni che sono
imparentate con la presente indagine.
(1) Punto di partenza della nostra ricerca è la questione
[15] se il continente e l’incontinente si differenziano
186 , cioè, voglio dire, se l’incontinente è incontinente solo in
per i loro oggetti o per la loro disposizione
relazione a questi o quegli oggetti, oppure no, ma per il modo di comportarsi, o neanche per questo, bensì
per tutte e due le cose insieme. In seguito vedremo se incontinenza e continenza riguardano ogni tipo di
oggetto, oppure no. Infatti, chi è incontinente in senso assoluto non lo è in relazione ad ogni tipo di oggetto,
[20] ma in relazione a quelli che sono oggetto dell’uomo intemperante, né per il fatto puro e semplice di
essere in relazione a questi oggetti (giacché in tal caso l’incontinenza sarebbe identica all’intemperanza),
bensì per il fatto di essere in relazione con essi in un certo modo. L’uno, infatti, sceglie di lasciarsi
trascinare, ritenendo di dover sempre perseguire il piacere presente; l’altro, invece, non pensa di doversi
lasciar trascinare, ma persegue ugualmente il piacere presente. Per quanto riguarda il fatto che è opinione
vera e non scienza
[25] quella contraddetta da chi commette atti di incontinenza, non fa alcuna differenza
per il nostro ragionamento; infatti, alcuni di quelli che possiedono semplici opinioni non si sentono affatto
incerti, ma credono di possedere conoscenze esatte. Se è, dunque, per la debolezza delle loro convinzioni
che coloro che hanno semplici opinioni agiscono contro il loro giudizio più di quelli che possiedono scienza,
non ci sarà alcuna differenza tra scienza e opinione: alcuni uomini, infatti,
[30] di ciò di cui hanno opinione
hanno una convinzione non inferiore a quella che altri hanno di ciò di cui hanno scienza: ce lo mostra
Eraclito 187 . Ma poiché usiamo il termine "sapere" in due sensi (infatti, si dice che sa sia chi possiede la
scienza ma non se ne serve, sia chi se ne serve), ci sarà differenza se fa ciò che non deve uno che possiede
scienza e non la mette in atto o uno che la mette in atto:
[35] questo secondo caso viene ritenuto strano,
ma non il primo.
(2) Inoltre, poiché ci sono due tipi
[1147a] di premesse, niente impedisce che chi pur le possiede entrambe
agisca in contrasto con la scienza, se utilizza la premessa universale ma non quella particolare: infatti,
oggetti dell’azione sono i particolari. Ma anche dell’universale ci sono due tipi differenti: uno si predica
dell’agente e
[5] l’altro dell’oggetto. Per esempio: "i cibi secchi giovano ad ogni uomo" e "io sono un uomo",
oppure "tale cibo è secco": ma se "questa cosa qui è un tale cibo", l’incontinente o non ne ha scienza o non
la mette in atto; dunque, secondo questi tipi di premesse ci sarà una differenza tanto grande che, cosi si
pensa, conoscere in un modo non è affatto strano, ma conoscere nell’altro è straordinario.
[10] (3) Inoltre, avere la scienza in un modo diverso da quelli ora menzionati è cosa che può accadere agli
uomini: infatti, nell’avere e non usare la scienza vediamo che la disposizione può essere differente, così da
avere la scienza in certo qual modo e non averla, come nel caso di chi dorme, del folle e dell’ubriaco. Ma è
proprio in questa condizione che si trovano coloro che
[15] sono immersi nelle passioni: infatti, scoppi di
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
impulsività e desideri sessuali e alcune altre passioni simili, in maniera molto evidente, modificano anche il
corpo, e ad alcuni uomini producono anche accessi di follia. È chiaro, dunque, che bisogna dire che gli
incontinenti si trovano nella medesima disposizione di questi uomini. Il fatto che gli incontinenti facciano
discorsi fondati sulla scienza non prova niente, giacché anche coloro che sono immersi in
[20] queste
passioni enunciano dimostrazioni e recitano versi di Empedocle, e quelli che hanno appena incominciato ad
apprendere una scienza ne intrecciano le frasi, ma ancora non "sanno": bisogna, infatti, compenetrarsi negli
argomenti, e questo richiede tempo: per conseguenza, bisogna supporre che gli incontinenti parlino come
gli attori di teatro.
(4) Inoltre, si potrà studiare l’incontinenza anche analizzandone
[25] la struttura che la genera. Infatti, la
premessa universale è un’opinione, mentre l’altra premessa riguarda i fatti particolari, i quali stanno
immediatamente sotto il dominio della sensazione: quando da queste due premesse scaturisce una sola
affermazione, l’anima deve necessariamente affermare la conclusione, e nel caso di premesse pratiche,
deve passare immediatamente all’azione. Per esempio: se "bisogna gustare ogni cosa dolce" e "questa cosa
qui è dolce" (come singolo oggetto particolare), allora, necessariamente, chi può,
[30] cioè chi non ne è
impedito, deve anche, simultaneamente, compiere l’atto di gustare. Quando, dunque, siano presenti in noi,
da una parte, l’opinione universale che vieta di gustare e, dall’altra, l’opinione che "ogni cosa dolce è
piacevole", e che "questa cosa qui è dolce" (ed è questa l’opinione che produce l’atto), e ci sia in noi anche il
desiderio, l’opinione universale dice di fuggire questo oggetto, ma il desiderio ci conduce ad esso,
[35]
giacché il desiderio può mettere in moto ciascuna delle parti del corpo. Per conseguenza, ne deriva
[1147b]
che si commettono atti di incontinenza sotto l’influsso in certo qual modo di una ragione, cioè di
un’opinione, non contraria per sé, ma per accidente (infatti, contrario è il desiderio, non l’opinione) alla retta
ragione. Ne consegue anche che è per questo che le bestie non possono essere incontinenti, perché esse
non hanno un giudizio di carattere universale,
[5] ma soltanto la rappresentazione e la memoria dei
particolari. Com’ che si dissipa l’ignoranza e l’incontinente ritorna ad essere uno che possiede scienza? La
spiegazione è la stessa che per il caso dell’ubriaco e del dormiente e non è peculiare di questa passione, e
dobbiamo ascoltarla dagli studiosi della natura. Poiché l’ultima premessa è un’opinione
[10] che riguarda un
oggetto sensibile e che determina le azioni, un uomo o non ce l’ha quando è sotto l’influsso della passione, o
ce l’ha in modo tale che, come abbiamo detto, non è un possedere la scienza ma soltanto un recitare, come
l’ubriaco recita i versi di Empedocle. E poiché il termine ultimo non è un universale né viene considerato
come un oggetto di scienza parificabile ad un universale, sembra appunto che ne consegua quello che
[15]
Socrate cercava di stabilire: infatti, non è in presenza di quella che viene ritenuta essere la scienza in senso
proprio che sorge la passione dell’incontinenza, né è questa scienza che è trascinata qua e là dalla passione,
ma è in presenza della conoscenza sensibile. Posto questo, si consideri concluso il discorso sulla questione
se è con o senza conoscenza, e con che tipo di conoscenza, che si è incontinenti.
4. [L’incontinenza: il suo ambito e le sue forme].
[20] Proseguendo, dobbiamo dire se c’ chi è incontinente in senso assoluto o tutti lo sono in un campo
particolare, e nel primo caso di che natura sono gli oggetti dell’incontinenza. Che gli uomini continenti e
forti, e gli incontinenti e molli, lo siano riguardo a piaceri e dolori, è manifesto. Ora, delle cose che
producono piacere alcune sono necessarie, altre sono meritevoli di scelta
[25] per se stesse, pur essendo
suscettibili di eccesso. Necessarie sono quelle connesse col corpo (e come tali intendo quelle che riguardano
il nutrimento e l’attività sessuale, cioè quelle funzioni corporee che abbiamo detto essere oggetto
dell’intemperanza e della temperanza). Le altre, invece, non sono necessarie, ma meritevoli per se stesse di
scelta (e intendo,
[30] per esempio, vittoria, onore, ricchezza e le cose buone e piacevoli di questo tipo).
Posto questo, coloro che rispetto a questi oggetti eccedono, in contrasto con la retta ragione che è in loro,
non li chiamiamo semplicemente incontinenti, ma incontinenti con l’aggiunta di "in fatto di denaro, di
guadagno, di onore, di impulsività"; e non li chiamiamo incontinenti in senso assoluto, perché da questi
189 ai
Ánthropos 188 colui che ha vinto
sono diversi e
[35] sono chiamati così per analogia, come si chiama
giochi di Olimpia: nel suo caso, come
[1148a] dicevamo, la definizione generale differisce di poco da quella
individuale a lui propria, ma è tuttavia diversa. Prova: l’incontinenza del primo tipo, sia in senso assoluto sia
in qualche senso particolare, è biasimata non solo come errore, ma anche come una specie di vizio; ma non
è biasimato così nessuno degli incontinenti del secondo tipo. Di quelli che sono incontinenti
[5] in relazione
ai godimenti corporali (in relazione ai quali chiamiamo tali il temperante e l’intemperante), colui che, senza
avere operato una scelta, ricerca l’eccesso delle cose piacevoli, e fugge quello delle cose spiacevoli (fame,
sete, caldo, freddo, e tutto ciò che riguarda il tatto e il gusto), ma che anzi lo fa in contrasto con la sua
scelta ed il suo pensiero, è detto incontinente, senza l’aggiunta
[10] di "in relazione a queste determinate
cose", come incontinente "in relazione all’ira", ma solo puramente e semplicemente incontinente. Prova: si
parla di uomini molli in relazione a questi piaceri, ma non per alcuno degli altri. Ed è per questo che
mettiamo insieme nella stessa categoria l’incontinente e l’intemperante, ed il continente e il temperante (ma
non lo facciamo per nessuno di quegli altri),
[15] per il fatto che sono in qualche modo in relazione con gli
stessi piaceri e gli stessi dolori: essi, però, sono in relazione, sì, agli stessi oggetti, ma non nella stessa
maniera, bensì gli uni compiono una scelta e gli altri no. Perciò diremo intemperante piuttosto colui che, non
avendo desideri o avendone di deboli, persegue i piaceri eccessivi e fugge i dolori moderati, che non colui
che fa questo
[20] per l’intensità del suo desiderio. Infatti, che cosa farebbe quel primo se gli sopravvenisse
un desiderio giovanile o una sofferenza intensa dovuta alla mancanza del necessario? Dei desideri e dei
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
piaceri, alcuni sono cose nel loro genere belle e virtuose (giacché alcune delle cose piacevoli sono per natura
190 , mentre altre sono loro contrarie
meritevoli di scelta
[25] ed altre intermedie) secondo la nostra
191
precedente suddivisione
, come, per esempio, denaro, guadagno, vittoria, onore. Nei confronti di tutte
queste cose, di quelle dello stesso genere e di quelle intermedie, non si è biasimati per il fatto di esserne
attratti, di desiderarle e di amarle, ma per il modo con cui lo si fa, cioè per il fatto di eccedere (perciò <non
192 tutti quelli che, contro la ragione, o si lasciano dominare o perseguono qualcuna delle
sono biasimati>
cose che sono belle
[30] e buone per natura, come, per esempio, coloro che si preoccupano più di quanto si
debba per l’onore, o per i figli e per i genitori: infatti, anche queste cose sono buone, e vengono lodati
coloro che se ne preoccupano; ma tuttavia è possibile eccedere anche in questo, se uno, come Niobe
194 , [1148b]
mette in contrasto persino con gli dèi, o come Satiro
soprannominato Filopatore per l’amore
verso suo padre: si riteneva, infatti, che si comportasse da pazzo). Infatti, non c’ alcuna perversità a
questo riguardo, per il motivo che abbiamo detto, cioè perché ciascuna di queste cose è degna per se stessa
di scelta, ma sono cattivi e devono essere evitati i loro eccessi. Parimenti, in questo caso,
[5] non c’
neppure incontinenza: l’incontinenza, infatti, non solo è da evitare, ma è anche degna di biasimo. Ma per
una somiglianza dello stato d’animo corrispondente si parla di incontinenza con l’aggiunta di una
determinazione, caso per caso: per esempio, si chiama cattivo medico e cattivo attore chi non sarebbe
chiamato cattivo puramente e semplicemente. Orbene, come avviene in questo esempio, poiché
[10]
ciascuna di queste situazioni non è vizio, ma solo gli assomiglia per analogia, così è evidente che anche
nell’altro caso bisogna giudicare che l’incontinenza e la continenza sono solo quelle che hanno i medesimi
oggetti della temperanza e dell’intemperanza, e che, invece, è per similitudine che usiamo il termine in
relazione all’impulsività. Perciò diciamo "incontinente" aggiungendo "anche in fatto di impulsività", come
incontinente "in fatto di onore e di guadagno".
193
5. [Incontinenza, bestialità e morbosità].
[15] Ora, poiché alcune cose sono piacevoli per natura, e di queste alcune lo sono in senso assoluto, altre a
seconda dei tipi sia degli animali sia degli uomini, mentre altre cose non lo sono, ma lo diventano o per
difetti di crescita o per abitudini acquisite, altre ancora per depravazione della natura, è possibile vedere
anche di ciascun tipo di queste le disposizioni corrispondenti. Intendo per disposizioni bestiali,
[20] per
esempio, quella della donna che, dicono, sventrava le donne incinte e ne divorava i feti, o quelle di cui
195 , alcuni dei quali mangiano carni crude, altri
provano piacere, dicono, certi selvaggi delle coste del Ponto
carni umane, altri ancora si scambiano reciprocamente i figli per farne lauto pasto, o quello che si racconta
di Falaride 196 . Questi sono comportamenti bestiali;
[25] ma certi sono provocati da malattia (anche da follia
per alcuni, come quel tale che offrì sua madre in sacrificio e la divorò, o quello schiavo che si mangiò il
fegato del suo compagno), altri sono stati morbosi derivati da un’abitudine, come, per esempio, lo
strapparsi i capelli e il mangiare le unghie, e anche carbone e terra; ed inoltre, fare all’amore tra maschi: ad
alcuni questo succede per natura,
[30] ad altri in forza di un’abitudine, come a quelli che sono stati
violentati da bambini. Nessuno, dunque, può dire incontinenti tutti coloro la cui depravazione è causata dalla
natura, come non si possono chiamare incontinenti le donne, dal momento che nella copulazione non sono
attive ma passive. Altrettanto si deve dire di coloro che hanno disposizioni morbose a causa di un’abitudine.
Quindi, il possesso di ciascuno di questi tipi di disposizione
[1149a] è al di fuori dei confini del vizio, come lo
è la bestialità; per l’uomo che le possiede, dominarle o esserne dominato non costituisce la continenza o
l’incontinenza pure e semplici, ma solo per analogia, come chi è in questa situazione per i suoi scoppi di
impulsività non si deve chiamare semplicemente incontinente, ma incontinente in questa passione. Infatti,
ogni volta che
[5] arrivano all’eccesso, la stoltezza, la viltà, l’intemperanza, il cattivo carattere sono o
bestiali o morbosi. L’uomo, infatti, che per natura è di indole tale da avere paura di tutto, anche dello
strepito di un topo, è vile di una viltà bestiale, mentre chi ha paura di una donnola è determinato da una
malattia. E degli stolti, alcuni sono privi di ragione per natura
[10] e, poiché vivono soltanto col senso, sono
bestiali, come certe razze di barbari lontani; altri invece, che sono privi di ragione a causa di malattia come
l’epilessia o la follia, sono morbosi. Ora, di queste disposizioni morbose uno può possederne qualcuna
197 si fosse
soltanto qualche volta, senza esserne dominato: intendo, per esempio, il caso in cui Falaride
contentato quando desiderava divorare un fanciullo o quando desiderava
[15] procurarsi un piacere
sessuale contro natura. Ma è possibile anche essere completamente dominati da queste passioni, e non
soltanto possederle. Orbene, come anche nel caso della perversità, quella a livello umano è chiamata
perversità semplicemente, mentre quella con una determinazione aggiuntiva si chiama perversità bestiale o
morbosa, e non semplicemente perversità, nello stesso modo è chiaro che anche l’incontinenza è ora
bestiale ora morbosa,
[20] mentre è puramente e semplicemente incontinenza solo quella corrispondente
all’intemperanza umana. È dunque chiaro che incontinenza e continenza hanno per oggetti solo quelli
dell’intemperanza e della temperanza, e che riguardo agli altri oggetti c’ un’altra specie di incontinenza,
chiamata così per metafora e non in senso assoluto.
6. [Incontinenza dell’impulsività e incontinenza dei desideri].
Ora vedremo che l’incontinenza
[25] dell’impulsività è meno vergognosa di quella dei desideri. (1) Sembra,
infatti, che l’impulsività dia ascolto in qualcosa alla ragione, ma la fraintenda, come i servi frettolosi che
escono di corsa prima di aver sentito tutto quello che viene loro detto, e poi sbagliano l’esecuzione
, si
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
dell’ordine, e come i cani che, prima di aver visto se si tratta di un amico, si mettono ad abbaiare appena si
batte ad una porta. Così
[30] l’impulsività, per il calore e la vivacità della sua natura, sente, sì, ma non
ascolta l’ordine e si precipita alla vendetta. Infatti, la riflessione o l’immaginazione si limitano a mostrare
che c’ stata insolenza o disprezzo, l’impulsività, invece, come se giungesse con un ragionamento alla
conclusione che bisogna combattere contro un simile trattamento, si eccita, per conseguenza, subito: il
desiderio, poi, se
[35] solo la riflessione o la sensazione dicono che questa cosa è dolce, si precipita a trarne
godimento.
[1149b] Cosicché l’impulsività segue in qualche modo la ragione, mentre il desiderio no.
Dunque, l’incontinenza dei desideri è più vergognosa: l’incontinente nell’impulsività, infatti, soggiace in
qualche modo alla ragione, mentre l’altro soggiace al desiderio e non alla ragione. (2) Inoltre, si perdona di
più il fatto di seguire i desideri naturali,
[5] poiché anche quando si tratta di desideri si perdona di più a
quelli comuni a tutti gli uomini, e nella misura in cui sono comuni. Ora, l’impulsività e il cattivo carattere
sono più naturali che non i desideri di ciò che è eccessivo e non necessario. Come quel tale che, accusato di
picchiare il proprio padre, si difese dicendo: "Ma anche lui picchiava il suo",
[10] e, additando il figlioletto,
disse: "Anche lui picchierà me, quando sarà un uomo: è un’abitudine di famiglia, per noi!". E quell’altro che,
mentre era trascinato fuori dal figlio, gli ordinò di fermarsi alla porta, perché lui stesso aveva trascinato suo
padre solo fin là. (3) Inoltre, sono più ingiusti quelli che sono più subdoli. Orbene, l’impulsivo non è subdolo,
e neppure l’impulsività,
[15] ma è limpido; il desiderio, invece, è quello che si dice di Afrodite "tessitrice
198
d’inganni, nata a Cipro"
, e, come dice Omero a proposito del suo cinto trapunto:
199 .
"la seduzione che ruba il senno anche ai saggi "
Per conseguenza, se è vero che quella incontinenza è più ingiusta di questa relativa all’impulsività, e anche
più vergognosa, anzi essa è incontinenza in senso assoluto e
[20] vizio, in qualche modo. (4) Inoltre,
nessuno commette oltraggio soffrendo; ora, chiunque agisce in preda all’ira agisce soffrendo, mentre colui
che oltraggia lo fa con piacere. Se, dunque, le cose più ingiuste sono quelle contro cui si ha perfettamente
diritto di adirarsi, anche l’incontinenza causata dal desiderio sarà più ingiusta di quella causata
dall’impulsività, giacché nell’impulsività non c’ intenzione oltraggiosa. Che, dunque, l’incontinenza relativa
al desiderio è più vergognosa di quella relativa all’impulsività,
[25] e che la continenza e l’incontinenza si
riferiscono ai desideri ed ai piaceri del corpo, è chiaro.
200 , alcuni
Ma tra questi stessi piaceri si devono cogliere delle differenze. Come infatti si è detto all’inizio
sono umani e naturali, sia per genere sia per intensità, altri bestiali, altri, infine, sono dovuti a difetti di
crescita e stati morbosi.
[30] Ora, solo con i primi di questi hanno relazione la temperanza e l’intemperanza:
perciò non diciamo temperanti né intemperanti anche le bestie, se non per metafora, cioè nel caso in cui
qualche specie di animali, comparata nel suo insieme alle altre, si distingue per lascivia, istinto distruttivo e
voracità: le bestie, infatti, non hanno né possibilità di scelta
[35] né capacità di ragionamento, ma sono
fuori dai confini della loro natura, come,
[1150a] tra gli uomini, i dementi. La bestialità è un male minore
del vizio, ma più temibile; infatti, nel caso delle bestie non è che ci sia stata corruzione della parte migliore,
come nell’uomo, ma è che esse non ce l’hanno. Dunque, è lo stesso che mettere a confronto un essere privo
di anima con uno che ne è fornito, e chiedersi quale è più cattivo: infatti,
[5] la malvagità di un essere che
non ha in sé il principio dell’azione è, sempre, più inoffensiva, e, d’altra parte, principio è l’intelletto. Quindi,
è proprio come confrontare l’ingiustizia con un uomo ingiusto. Ciascuno dei due, infatti, è peggiore dell’altro,
a suo modo, giacché un uomo cattivo farà infinitamente più male che una bestia.
7. [Intemperanza, incontinenza, mollezza].
Per quanto, poi, riguarda i piaceri e i dolori,
[10] i desideri e le repulsioni derivati dal tatto e dal gusto, che
201 definiti come oggetti dell’intemperanza e della temperanza, è possibile, da
abbiamo precedentemente
una parte, trovarsi nella situazione di essere sconfitti anche da quelli che i più dominano, e, dall’altra,
riuscire a dominare anche quelli a cui i più soggiacciono: di questi due tipi di uomini, se si tratta di piaceri, il
primo è incontinente e il secondo continente; se si tratta di dolori, il primo è molle e il secondo è forte.
[15]
Nel mezzo sta la disposizione della maggior parte degli uomini, anche se essi inclinano di più verso quelle
peggiori. Poiché alcuni dei piaceri sono necessari e altri no, e poiché i primi sono necessari fino ad un certo
punto, mentre non lo sono i loro eccessi, né i loro difetti (e lo stesso vale anche dei desideri e dei dolori), chi
persegue gli eccessi nelle cose piacevoli o le cose necessarie in
misura eccessiva,
[20] e 202 lo fa per sua
scelta, e le persegue per se stesse e per nient’altro che possa derivarne, è intemperante: necessariamente,
infatti, questo tipo di uomo non è capace di pentimento, cosicché è incorreggibile, poiché chi è incapace di
pentimento è incorreggibile. Chi è in difetto nella ricerca del piacere è il contrario del precedente, mentre chi
sta nel mezzo è temperante. Lo stesso si dica anche di chi fugge i dolori corporei non perché ne è sconfitto,
ma per una scelta.
[25] Di coloro, invece, che non agiscono in base ad una scelta, alcuni si lasciano
trascinare dal piacere, altri dall’inclinazione ad evitare la sofferenza che deriva dal desiderio: perciò sono
diversi gli uni dagli altri. Ognuno, però, riterrà che, se uno compie un’azione vergognosa senza alcun
desiderio oppure con un desiderio debole, è peggiore di chi compia la stessa azione spinto da un desiderio
violento, e che, se uno colpisce senza essere in preda all’ira, è peggiore di chi colpisca
[30] in preda all’ira:
che cosa farebbe, infatti, se fosse in balia della passione? È per questo che l’uomo intemperante è peggiore
dell’incontinente. Delle disposizioni descritte, dunque, una è piuttosto una specie di mollezza; l’altro tipo di
uomo, invece, è l’intemperante. Ora, all’incontinente si contrappone l’uomo continente, all’uomo molle il
forte: l’esser forte, infatti, sta nel saper resistere, mentre la continenza consiste
[35] nel dominare, e
"resistere" e "dominare" sono cose diverse, come anche "non lasciarsi sconfiggere" e "vincere": per questo
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
la continenza è preferibile
[1150b] alla semplice forza d’animo. Chi manca di resistenza in quelle situazioni
di fronte alle quali la maggior parte degli uomini resiste e ha la forza di resistere, è un uomo molle e
sensuale (in effetti, la sensualità è una specie di mollezza): come chi trascina il mantello per non far la
fatica e darsi la pena di sollevarlo, e come chi, quando fa
[5] l’ammalato, non capisce di essere davvero un
disgraziato, se si fa simile ad un disgraziato. Lo stesso vale anche nel caso della continenza e
dell’incontinenza. Infatti, se uno rimane sconfitto da piaceri o dolori violenti ed eccessivi, non c’ da
203 morso dalla
meravigliarsi, ma ciò è perdonabile se uno cerca di resistere, come il Filottete di Teodette
Alope di Carcino 204 , e come quelli che, mentre si sforzano di trattenere il riso,
vipera, [10] o il Cercione nell’
205 ; ma è da meravigliarsi se uno, in situazioni di
scoppiano a ridere d’un tratto, come
capitò a Senofanto
fronte alle quali la maggior parte degli uomini è capace di resistere, si lascia vincere e non riesce ad opporre
resistenza, e ciò non per cause di natura ereditaria o per malattia: per esempio, tra i re degli Sciti
[15] la
mollezza è ereditaria, e come la femmina è per natura differente dal maschio. Comunemente si ritiene che
anche il tipo giocherellone sia un intemperante: in realtà è un uomo molle. Infatti, il gioco è un
206 . Il giocherellone appartiene alla classe di coloro che
rilassamento, se è vero che è uno stato di riposo
eccedono nel concedersi riposo. Dell’incontinenza, poi, ci sono due forme: la precipitazione e la debolezza.
[20] Gli uni, dopo aver preso una deliberazione non perseverano in ciò che hanno deliberato, a causa della
passione; gli altri si lasciano trascinare dalla passione per il fatto di non aver preso una deliberazione.
Alcuni, infatti (come quelli che, avendo sofferto il solletico in precedenza, non lo soffrono più, se hanno
presentito e previsto e se hanno risvegliato se stessi e la propria capacità di ragionare), non si lasciano
vincere dalla passione, né
[25] nel caso che sia piacevole né nel caso che sia dolorosa. Soprattutto gli
uomini vivaci ed eccitabili sono incontinenti per precipitazione: e gli uni per la fretta, gli altri per la violenza
della passione non stanno ad aspettare la conclusione del ragionamento, per il fatto che sono inclini a
seguire l’immaginazione.
8. [L’intemperanza è peggiore dell’incontinenza].
207 , non è capace di pentimento,
L’intemperante, come s’ detto
[30] giacché persiste nella sua scelta; ogni
tipo di incontinente, invece, è capace di pentimento. Perciò le cose non stanno come le abbiamo formulate
208 , ma l’intemperante è incorreggibile, mentre l’incontinente è correggibile. Infatti, la
nel problema
perversità è simile a malattie come l’idropisia e la tisi, mentre l’incontinenza assomiglia ad attacchi di
epilessia, giacché la prima è un male continuo, la seconda è intermittente.
[35] E incontinenza e vizio
appartengono a generi completamente differenti: infatti, il vizio rimane nascosto al soggetto, l’incontinenza,
invece, no.
[1151a] Degli incontinenti stessi, poi, quelli che sono come fuori di sé sono migliori di quelli che
la ragione ce l’hanno, ma non rimangono nei limiti di essa: questi ultimi, infatti, si lasciano sconfiggere da
209 .
una passione più debole, e non senza aver prima preso una deliberazione, come, invece, fanno gli altri
Infatti, l’incontinente è simile a quelli che si ubriacano rapidamente e con poco
[5] vino, anzi con una
quantità minore che la maggior parte degli uomini. Orbene, che l’incontinenza non è un vizio è manifesto
(ma forse per qualche aspetto lo è): l’incontinenza, infatti, è al di là della scelta, mentre il vizio deriva dalla
210 ai Milesi:
scelta; ma, tuttavia, una somiglianza c’ dal punto di vista delle azioni, come diceva Demodoco
"I Milesi non sono stupidi, ma si comportano come
[10] stupidi"; anche gli incontinenti non sono ingiusti,
ma commettono ingiustizie. Ora, l’incontinente persegue i piaceri corporali eccessivi e contrari alla retta
ragione, perché lui è fatto così e non perché sia convinto che sia bene, mentre l’intemperante ha la
convinzione che sia bene proprio perché lui è fatto in modo tale da perseguire quei piaceri: perciò, il primo
può facilmente essere persuaso a cambiare, il secondo no.
[15] Infatti, la virtù salva il principio, il vizio,
invece, lo distrugge, e nelle azioni il principio è il fine, come le ipotesi in matematica. Orbene, né lì né qui è
il ragionamento che ci insegna i principi, ma qui è la virtù, sia naturale sia acquisita con l’abitudine, che ci
insegna ad avere opinioni corrette sul principio. Dunque,
[20] chi è fatto così è temperante, e l’intemperante
è il suo contrario. Ma c’ chi, a causa della passione, esce fuori di sé, in contrasto con la retta ragione, uomo
che la passione domina in modo da non permettergli di agire secondo la retta ragione, ma non fino al punto
da renderlo capace di lasciarsi persuadere di dover perseguire tali piaceri senza ritegno. Questo è
l’incontinente, migliore dell’intemperante,
[25] e non puramente e semplicemente malvagio: qui, infatti, si
salva la cosa migliore, il principio. Ma contrario a questo c’ un altro tipo di uomo, quello che resta in sé e
non esce fuori di sé, per lo meno non a causa della passione. Da queste considerazioni, dunque, risulta
manifesto che l’ultima è una disposizione virtuosa, l’altra è cattiva.
9. [Continenza, perseveranza, ostinazione].
È continente, dunque, colui che persiste in una ragione qualsiasi ed in una qualsiasi
[30] scelta oppure colui
che persiste nella retta scelta? E, viceversa, è incontinente colui che non persiste in una scelta qualsiasi e in
una ragione qualsiasi, oppure colui che non persiste nella ragione non falsa e nella retta scelta? Questo è il
211 . Non dobbiamo forse dire che
problema come l’abbiamo posto prima
[35] l’uno persiste, l’altro non
persiste in una scelta qualsiasi per accidente, di per sé, invece, nella ragione vera e nella scelta retta? Se,
infatti, uno
[1151b] sceglie o persegue questa cosa in vista di quest’altra, per sé persegue e sceglie
quest’ultima, per accidente, invece, la prima. Ma con "per sé" intendiamo dire "in senso assoluto". Per
conseguenza, è un’opinione qualsiasi quella in cui l’uno persiste e da cui l’altro si distacca, ma in senso
assoluto è l’opinione vera. Ci sono, poi, di quelli che
[5] sono perseveranti nella loro opinione, e li
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
chiamiamo ostinati, i quali sono difficili da persuadere, cioè non è facile persuaderli a cambiare. Essi hanno
qualcosa di simile all’uomo incontinente, come il prodigo al liberale e il temerario al coraggioso, ma sono
diversi per molti aspetti. L’uno, infatti, il continente, non cambia opinione solo per una passione o per un
desiderio,
[10] ché anzi, all’occasione, l’uomo continente si lascerà facilmente persuadere; gli altri, invece,
gli ostinati, non si lasciano guidare dalla ragione, perché, se non altro, accolgono in sé desideri, e molti di
loro si lasciano trascinare dai piaceri. Ed ostinati sono i testardi, gli ignoranti e i rustici; i testardi lo sono a
causa del piacere e del dolore: essi, infatti, sono contenti della loro vittoria quando non
[15] si sono lasciati
indurre a mutare opinione, e soffrono quando le loro decisioni restano come decreti senza autorità. Per
conseguenza, assomigliano di più all’incontinente che al continente. Ci sono alcuni, poi, che non persistono
212 nel Filottete
di Sofocle.
nelle loro opinioni, ma non per incontinenza, come, per esempio, Neottolemo
Certo, fu a causa di un piacere che egli non persistette, ma di un piacere bello; infatti,
[20] dire la verità per
lui era una cosa bella, ma fu persuaso a mentire da Ulisse. Infatti, non è che chiunque faccia qualcosa per
piacere sia intemperante o perverso o incontinente, ma chi lo fa per un piacere vergognoso. C’, poi, anche
chi è tale da godere dei piaceri corporali meno di quanto si deve, e che perciò non persiste nella ragione:
[25] è tra questo e l’incontinente che sta in mezzo l’uomo continente; infatti, l’incontinente non persiste
nella ragione per eccesso, quest’ultimo, invece, per difetto; l’uomo continente, al contrario, persiste e non
cambia per nessuno dei due motivi. Se è vero che la continenza è virtuosa, bisogna che entrambe le
disposizioni contrarie siano cattive, come pure risulta manifesto:
[30] ma poiché una di esse si manifesta in
pochi uomini e poche volte, come si ritiene comunemente che la temperanza è contraria soltanto
all’intemperanza, così si deve ritenere anche che la continenza è contraria soltanto all’incontinenza. Poiché
molte espressioni si usano per analogia, ne è derivato, per conseguenza, che si parla per analogia anche
della continenza dell’uomo temperante: infatti, il continente
[35] è uomo che non fa nulla contro la ragione
a causa dei piaceri del corpo,
[1152a] come pure il temperante, ma uno possiede cattivi desideri, l’altro,
invece, no, e l’uno è tale da non godere in contrasto con la ragione, mentre l’altro è tale da godere, ma non
da lasciarsi trascinare. E, pur essendo diversi, l’incontinente e l’intemperante sono d’altra parte simili:
[5]
entrambi perseguono i piaceri del corpo, ma l’uno pensa di doverlo fare, l’altro, invece, non lo pensa.
10. [Conclusioni su continenza e incontinenza].
La stessa persona non può essere insieme saggia e incontinente, giacché si è dimostrato che il saggio è
insieme uomo di valore anche nel comportamento. Inoltre, uno è saggio non solo per il fatto di possedere
un sapere teorico, ma anche per l’essere capace di metterlo in pratica: ma l’incontinente non è capace di
metterlo in pratica.
[10] Nulla, invece, impedisce che l’uomo abile sia incontinente, ed è per questo che
talora alcuni sono ritenuti saggi ma incontinenti, perché l’abilità differisce dalla saggezza nel modo esposto
213 , nel senso che sono vicini secondo la definizione, ma differiscono per via
nei nostri primi ragionamenti
della scelta. L’incontinente, quindi, non è come quello che conosce e contempla,
[15] ma come colui che
dorme o è ubriaco. E agisce volontariamente (infatti, sa in qualche modo che cosa sta facendo ed in vista di
che cosa lo fa), ma non è cattivo: la scelta, infatti, è buona; per conseguenza, è cattivo a metà. E non è
ingiusto, giacché non è subdolo. Infatti, dei due tipi di incontinenti, l’uno non persiste in ciò che ha
deliberato, mentre l’altro, il tipo eccitabile, non delibera affatto. E così
[20] l’uomo incontinente assomiglia
ad una città che decreta tutto ciò che si deve ed ha buone leggi, ma non le applica per niente, come diceva,
214 :
scherzando, Anassandride
"Lo voleva la città, cui non importa nulla delle leggi".
L’uomo cattivo, invece, assomiglia ad una città che applica le leggi, ma ne applica di cattive.
[25]
L’incontinenza e la continenza riguardano ciò che costituisce un eccesso rispetto alla disposizione di
carattere della massa: il continente, infatti, persevera di più, l’incontinente di meno di quanto sia nella
possibilità della maggioranza degli uomini. Dei due tipi di incontinenza, quello da cui sono affetti gli uomini
eccitabili è più facilmente correggibile che non quello di coloro che, sì, deliberano, ma non perseverano, e gli
incontinenti per abitudine sono più facilmente correggibili di quelli che lo sono per natura. Infatti, è più facile
[30] cambiare un’abitudine che non la natura: è proprio per questo che anche l’abitudine è difficile da
215 :
cambiare, perché assomiglia alla natura, come dice anche Eveno
"Affermo che l’abitudine è un lungo esercizio, o amico, e che, dunque,
216 .
questo finisce con l’essere per gli uomini come una natura"
S’ detto, dunque, che cosa siano continenza e incontinenza, forza di carattere
[35] e mollezza, ed in che
rapporto stiano fra di loro queste disposizioni.
11. [Il piacere: teorie correnti].
[1152b] Studiare piacere e dolore è di competenza del filosofo politico: è lui, infatti, l’architetto che
217 .
determina il fine, guardando al quale noi chiamiamo ciascuna cosa buona o cattiva in senso assoluto
218 che la virtù ed il vizio morale
Inoltre, l’indagine su questi oggetti è necessaria,
[5] giacché abbiamo posto
hanno per oggetto dolore e piacere, e la stragrande maggioranza degli uomini afferma che la felicità implica
219 . (1)
il piacere: per questo hanno dato all’uomo "beato" una denominazione che deriva da "bearsi"
Alcuni 220 , dunque, ritengono che nessun piacere sia un bene, né per sé né per accidente, giacché, dicono,
221 ritengono, sì, che alcuni piaceri sono buoni, ma che
bene [10] e piacere non sono la stessa cosa. (2) Altri
222 ritiene che, anche ammesso
per la maggior parte sono cattivi. (3) Infine, una terza categoria di persone
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
che tutti i piaceri siano un bene, non è possibile che il sommo bene sia un piacere. (1) Dunque, il piacere,
nel complesso, non è un bene, a) perché ogni piacere è un divenire, percepito dal soggetto, che conduce ad
uno stato naturale, e, d’altra parte, nessun divenire appartiene allo stesso genere del suo fine: per esempio,
il processo di costruzione di una casa non appartiene allo stesso genere
[15] della casa. b) Inoltre, l’uomo
temperante fugge i piaceri. c) Inoltre, il saggio persegue ciò che non provoca dolore, non ciò che è
piacevole. d) Inoltre, i piaceri sono un ostacolo alla riflessione morale, e tanto più quanto più intenso è il
godimento, come nel piacere sessuale: nessuno infatti potrebbe pensare alcunché mentre lo prova. e)
Inoltre, non c’ alcuna arte del piacere: eppure ogni bene è opera di un’arte. f) Inoltre, bambini
[20] e
bestie perseguono i piaceri. (2) Dall’affermazione che non tutti i piaceri sono buoni il motivo addotto è a)
che ce ne sono di vergognosi e biasimevoli, e b) che ce ne sono di dannosi, giacché alcune delle cose
piacevoli producono malattie. (3) Infine, il motivo per cui il piacere non è il sommo bene è che non è un fine
ma un divenire. Questo è, pressappoco, quello che si dice.
12. [Confutazione della teoria secondo cui il piacere non è un bene].
223 né il sommo bene
224 , è
[25] Che poi da queste considerazioni non risulti che il piacere non è un bene
chiaro da quanto segue.
225 , poiché il termine "bene" ha due sensi (l’uno assoluto, l’altro relativo), anche le nature e
A) Innanzi tutto
le disposizioni avranno per conseguenza due sensi, e così anche i movimenti e le generazioni: e di quelli che
sono ritenuti cattivi alcuni lo sono, sì, in generale, ma per qualche individuo
[30] no, anzi per costui sono
desiderabili; alcuni, poi, non sono desiderabili neppure per una persona determinata, se non qualche volta e
per poco tempo, ma non sempre; altri, poi, non sono neppure piaceri, ma ne hanno solo l’apparenza: sono
quelli accompagnati da dolore e che hanno come scopo, per esempio nel caso degli ammalati, la guarigione.
B) Inoltre 226 , poiché una specie del bene è attività, mentre l’altra è disposizione, i processi che ci riportano
nella disposizione naturale sono piacevoli solo per accidente;
[35] ma l’attività che si realizza nei desideri è
quella della disposizione naturale residua, poiché ci sono piaceri anche senza dolore e desiderio (come, per
esempio,
[1153a] quelli della contemplazione), quando la natura non manca di nulla. Ne è prova il fatto che
gli uomini non godono del medesimo oggetto quando la loro natura si va ricostituendo e quando è
ricostituita, ma, quando la natura è ricostituita, essi godono degli oggetti piacevoli in senso assoluto;
quando, invece, si sta ricostituendo, godono anche dei loro contrari;
[5] infatti, in questo caso, godono
anche di sostanze aspre ed amare, nessuna delle quali è piacevole per natura o in senso assoluto. Per
conseguenza, non lo sono neppure i piaceri, giacché la stessa differenza che c’ tra gli oggetti piacevoli, c’
pure tra i piaceri che ne derivano.
C) Inoltre 227 , non è necessario che ci sia qualcosa di diverso, migliore del piacere, come alcuni dicono che il
fine sia rispetto al processo generativo: i piaceri, infatti, non sono dei processi né sono tutti accompagnati
da un processo,
[10] ma sono attività, cioè un fine: noi li proviamo non perché diventiamo qualcosa ma
perché esercitiamo qualche facoltà; e non di tutte le attività il fine è qualcosa di diverso da loro stesse, ma
solo di quelle che conducono alla perfezione della natura. Perciò non va neanche bene dire che il piacere è
un divenire percepito dal soggetto, ma bisogna piuttosto dire che esso è attività della disposizione secondo
228 ritengono che il piacere sia un
natura, [15] e al posto di "percepito" bisogna dire "non impedito". Alcuni
divenire, perché per loro è un bene in senso proprio; infatti, pensano che l’attività sia un divenire, mentre
essa è un’altra cosa.
Dire 229 che ci sono piaceri cattivi perché alcune cose piacevoli sono causa di malattia, è lo stesso che dire
che alcune cose che sono utili alla salute sono cattive dal punto di vista economico. Dunque, entrambe le
cose sono cattive in questo senso, ma non lo sono per questo solo,
[20] poiché anche il contemplare
qualche volta danneggia la salute.
Il piacere 230 che deriva da ciascuna facoltà non ostacola né l’esercizio della saggezza né alcuna
disposizione, ma sono i piaceri estranei che sono d’ostacolo, perché quelli che derivano dalla contemplazione
e dall’apprendimento faranno sì che noi contempliamo e apprendiamo sempre di più.
231 sia opera di un’arte è una cosa che accade logicamente:
Che nessun piacere
[25] l’arte, infatti, non ha
per oggetto alcun’altra attività, ma solo la potenza: eppure l’arte del profumiere e quella del cuoco si ritiene
che abbiano per oggetto il piacere.
Il fatto 232 che l’uomo temperante fugga i piaceri ed il saggio persegua la vita priva di dolore, e che i bambini
e le bestie perseguano il piacere, tutte queste difficoltà sono risolte dal medesimo ragionamento. Poiché,
233 in che senso
infatti, si è detto
[30] i piaceri sono buoni in senso assoluto ed in che senso non sono tutti
buoni: le bestie ed i bambini perseguono quelli che non sono buoni in senso assoluto, e il saggio persegue la
mancanza di dolore derivante dall’assenza di questi, dei piaceri accompagnati da desiderio e da dolore, cioè
quelli del corpo (ché questi sono di quel tipo) ed i loro eccessi, secondo cui l’intemperante è intemperante. È
per questo che l’uomo temperante fugge questi piaceri,
[35] giacché ci sono dei piaceri anche dell’uomo
temperante.
13. [Piacere, bene, felicità].
[1153b] Ma anche che il dolore è un male e che deve essere fuggito è ammesso concordemente: infatti, da
una parte c’ il dolore che è un male in senso assoluto, e dall’altra il dolore che è male per il fatto che in
qualche modo è per noi un ostacolo. Ma il contrario di una cosa che si deve fuggire proprio in quanto è
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
qualcosa da fuggire, cioè un male, è un bene. Dunque è necessario che il piacere sia un bene.
[5]
Speusippo 234 , infatti, cercava di risolvere il problema dicendo che il più è contrario sia al meno sia
all’uguale, ma la sua soluzione non regge: non si potrà dire che il piacere è per essenza un male. Niente
impedisce 235 che il sommo bene sia un piacere determinato, anche ammettendo che alcuni piaceri siano
cattivi, come pure una scienza determinata, anche nell’ipotesi che alcune scienze siano cattive.
236 che di ciascuna
A) Certo, poi, se è vero
[10] disposizione ci sono attività il cui esercizio non ha ostacoli, è
anche necessario che la felicità sia l’attività di tutte quante le disposizioni o di una sola di esse, purché sia
senza ostacoli, e che questa attività sia la più degna di essere scelta: ma questo è un piacere. Per
conseguenza, il sommo bene potrebbe essere un determinato piacere, anche ammettendo che la maggior
parte dei piaceri sia cattiva, magari in senso assoluto. E per questo tutti pensano che la vita felice sia una
vita piacevole,
[15] e contessono il piacere con la felicità, a buon diritto. Infatti, nessuna attività è perfetta
quando è ostacolata, e, d’altra parte, la felicità appartiene al genere delle cose perfette. È per questo che
l’uomo felice ha bisogno anche dei beni del corpo, dei beni esteriori e di quelli della fortuna, per non essere
ostacolato dalla loro
mancanza. Coloro, poi, che affermano che anche l’uomo messo al supplizio della ruota
o [20] precipitato in grandi disgrazie è felice, purché sia buono, dicono, volontariamente o non, una cosa
priva di senso. Per il fatto, poi, che si ha bisogno anche della fortuna, alcuni ritengono che la buona fortuna
sia la stessa cosa che la felicità, mentre non lo è, perché anch’essa, quando è eccessiva, è d’ostacolo, e
forse allora non è più giusto chiamarla buona fortuna: infatti,
[25] la sua definizione è relativa alla felicità.
237
B) Il fatto
, poi, che tutti, bestie e uomini, perseguano il piacere è segno che esso è in qualche modo il
sommo bene:
"La fama non si spegne mai del tutto,
238 .
quando molta gente <la diffonde intorno>…"
Ma poiché non è la stessa natura né la stessa disposizione che è
[30] o si ritiene che sia la migliore, non è
neppure lo stesso il piacere che tutti perseguono; eppure tutti perseguono un piacere. Forse anche non
perseguono il piacere che credono o quello che direbbero di perseguire, ma pur sempre un piacere. Tutti gli
esseri, infatti, hanno in sé qualcosa di divino. Ma i piaceri corporali si sono appropriati di tutta l’eredità del
nome, per il fatto che il più delle volte è ad essi che ci accostiamo e
[35] che tutti ne partecipano: poiché,
dunque, sono i soli ad essere noti, si pensa che siano i soli ad esistere.
239 , se il piacere non è un bene né un’attività, l’uomo felice non potrà
[1154a] C) È poi chiaro anche che
vivere piacevolmente: infatti, a che scopo avrebbe bisogno del piacere, se esso non è un bene, ma è anzi
possibile vivere anche soffrendo? Allora, il dolore non è né un male né un bene,
[5] se neppure il piacere lo
è: ma, allora, perché fuggire il dolore? In conclusione, neppure la vita dell’uomo virtuoso sarà più piacevole,
se non lo sono anche le sue attività.
14. [Considerazioni conclusive sul piacere].
240 che dicono che almeno alcuni piaceri
Per quanto riguarda, poi, in conclusione, i piaceri del corpo, coloro
sono molto desiderabili, per esempio quelli moralmente belli,
[10] ma non i piaceri del corpo, cioè quelli che
sono oggetto dell’intemperante, devono cercar di vedere perché, allora, i dolori contrari sono cattivi: infatti,
il contrario di un male è un bene. Non bisognerà forse dire che sono buoni i piaceri necessari, nel senso che
anche il non male è bene? O forse va detto che sono buoni fino ad un certo punto? Infatti, delle disposizioni
e dei conseguenti movimenti di cui non è possibile un eccesso che superi il meglio, non è possibile neppure
un eccesso del piacere; di quelli,
[15] invece, di cui è possibile un eccesso, è possibile anche l’eccesso del
piacere. Ma dei beni corporali è possibile un eccesso, e l’uomo vizioso è tale perché persegue l’eccesso, non
perché persegue i piaceri necessari: tutti, infatti, godono in qualche modo dei cibi, dei vini, degli atti
sessuali, ma non tutti come si deve. Il contrario succede nel caso del dolore: infatti, il vizioso non ne fugge
solo l’eccesso, ma fugge il dolore in generale,
[20] giacché non c’ un dolore contrario all’eccesso di piacere
se non per colui che questo eccesso persegue.
Ora, poiché bisogna dire non solo la verità ma anche la causa dell’errore (giacché questo contribuisce a
rafforzare la convinzione: quando, infatti, viene reso evidente e plausibile il motivo per cui qualcosa appare
come vero, pur non essendo
[25] vero, ciò fa aumentare la convinzione della verità), bisogna, per
conseguenza, dire perché i piaceri del corpo appaiono più desiderabili. Innanzi tutto, dunque, perché il
piacere del corpo caccia il dolore: e a causa degli eccessi del dolore, pensando che ne sia rimedio, gli uomini
perseguono il piacere eccessivo, cioè, in generale, il piacere del corpo.
[30] Questi rimedi, d’altra parte,
sono molto efficaci, ed è per questo che sono ricercati, perché si manifestano in contrasto con il loro
contrario. Per conseguenza, il piacere non è ritenuto buono per queste due ragioni, come s’ detto: da una
parte, alcuni piaceri sono azioni di una cattiva natura (sia per nascita, come quelle di una bestia, sia per
abitudine, come quelle degli uomini viziosi), altri sono, invece, dei rimedi di una natura difettosa, ed è
meglio essere sani che essere sulla via di diventarlo:
[1154b] ma questi ultimi sono caratteristici di coloro il
cui stato perfetto è in corso di ricostituzione; dunque, sono buoni solo accidentalmente. Inoltre, i piaceri del
corpo sono perseguiti, per il fatto di essere intensi, da parte di coloro che non sono capaci di godere di altri
piaceri: ci sono addirittura di quelli che si provocano da sé la sete. Quando questi piaceri non sono nocivi,
non c’ da biasimarli;
[5] ma quando sono dannosi, è male. Questi uomini, infatti, non hanno altre cose di
cui godere, e lo stato neutro per molti è doloroso, a causa della loro natura. Infatti, la natura animale è
sempre sotto sforzo, come testimoniano anche i naturalisti, quando dicono che vedere e udire implicano
pena: ma ormai siamo abituati, come dicono loro. Parimenti, poi, durante la
[10] giovinezza, per il fatto che
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII)
si sta crescendo, ci si comporta come uomini pieni di vino, e la giovinezza è piacevole; d’altra parte, gli
uomini di natura eccitabile hanno sempre bisogno di cura. Il loro corpo, infatti, a causa della loro
composizione biologica, vive continuamente come in una morsa dolorosa, ed essi si trovano perennemente
in uno stato di violento desiderio: ora, il piacere caccia il dolore, sia il piacere specificamente contrario, sia
un piacere qualsiasi, purché sia molto intenso: e per
[15] queste ragioni essi diventano intemperanti e
perversi.
Ma i piaceri non accompagnati da dolore non comportano eccesso: e questi piaceri derivano dalle cose
piacevoli per natura e non per accidente. Intendo, poi, con "piacevoli per accidente" le cose che piacciono in
quanto curano: perché, infatti, accade di essere curati grazie al fatto che ciò che in noi rimane sano compie
una determinata attività, ed è per questo che il rimedio è ritenuto piacevole.
[20] Chiamo invece "piacevoli
per natura" le cose che producono l’azione di una natura sana. Nessuna cosa, poi, rimane per noi sempre
piacevole, per il fatto che la nostra natura non è semplice, ma c’ in noi anche un altro elemento (per il
quale siamo corruttibili), cosicché se uno dei due elementi fa qualcosa, questo è, per l’altra natura, contro
natura, ma quando i due elementi si uguagliano, ciò che essi fanno non è né doloroso né piacevole: poiché,
[25] se la natura di un essere fosse semplice, sarebbe sempre la stessa azione ad essere la più piacevole
per lui. È per questo che Dio gode sempre di un piacere unico e semplice Infatti, non c’ solo un’attività del
movimento, ma c’ anche un’attività dell’immobilità, e il piacere sta più nella quiete che nel movimento. Ma
241 , a causa di una cattiva indole: infatti, come
"il cambiamento, in tutte le cose, è dolce", come dice il poeta
[30] l’uomo cattivo è un uomo che cambia facilmente, così è cattiva anche la natura che ha bisogno di
cambiamento: non è, infatti, né semplice né buona. Dunque, abbiamo detto della continenza e della
incontinenza del piacere e del dolore, e qual è la natura di ciascuno di essi e in che senso si tratta in un caso
di cose buone e nell’altro di cattive. Dobbiamo anche trattare dell’amicizia.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO VIII
1. [Necessità dell’amicizia. Dottrine sull’amicizia].
[1155a] Dopo queste cose, dovrà far seguito una trattazione dell’amicizia, poiché essa è una virtù o è
accompagnata da virtù, ed è, inoltre, radicalmente necessaria alla
[5] vita. Infatti, senza amici, nessuno
sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni; anzi si ritiene comunemente che siano
proprio i ricchi e i detentori di cariche e di poteri ad avere il più grande bisogno di amici: infatti, quale utilità
avrebbe una simile prosperità, se fosse tolta quella possibilità di beneficare che si esercita soprattutto, e con
molta lode, nei riguardi degli amici? Ovvero, come potrebbe essere salvaguardata
[10] e conservata senza
amici? Quanto più è grande, infatti, tanto più è esposta al rischio. E nella povertà e nelle altre disgrazie gli
242 i giovani a non commettere errori, i
uomini pensano che l’unico rifugio siano gli amici. Essa poi aiuta
vecchi a trovare assistenza e ciò che alla loro capacità d’azione viene a mancare a causa della debolezza, ed
infine, coloro che sono nel fiore dell’età
[15] a compiere le azioni moralmente belle: "Due che marciano
insieme..." 243 , infatti, hanno una capacità maggiore sia di pensare sia di agire. E sembra che tale
atteggiamento sia insito per natura nel genitore verso la prole e nella prole verso il genitore, non solo negli
uomini, ma anche negli uccelli e nella maggior parte degli animali, negli individui appartenenti alla stessa
specie fra di loro,
[20] e soprattutto negli uomini, ragion per cui noi lodiamo coloro che amano gli altri esseri
umani. E si può osservare anche nei viaggi come ogni uomo senta affinità ed amicizia per l’uomo. Sembra,
poi, che sia l’amicizia a tenere insieme le città, ed i legislatori si preoccupano più di lei che della giustizia:
infatti, la concordia sembra essere qualcosa di simile
[25] all’amicizia; ed è questa che essi hanno
soprattutto di mira, ed è la discordia, in quanto è una specie di inimicizia, che essi cercano soprattutto di
scacciare. Quando si è amici, non c’ alcun bisogno di giustizia, mentre, quando si è giusti, c’ ancora
bisogno di amicizia ed il più alto livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggiamento di amicizia.
E non solo è una cosa necessaria, ma è anche una cosa bella: infatti,
[30] noi lodiamo coloro che amano gli
amici, anzi si ritiene che l’avere molti amici sia qualcosa di bello; ed inoltre, si pensa che sono gli stessi
uomini che sono buoni ed amici.
244 . Alcuni, infatti, la definiscono
Non pochi, poi, sono gli argomenti di discussione in materia di amicizia
come una specie di somiglianza e affermano che gli uomini simili sono amici, dal che deriva il detto che "il
245 e "la cornacchia
[35] va con la cornacchia", e simili; altri, al contrario,
[1155b]
simile va col simile"
246 . E su questi stessi
affermano che tutti gli uomini che si assomigliano sono come dei vasai rispetto a vasai
argomenti conducono una ricerca più profonda, e fondata piuttosto su considerazioni naturalistiche, Euripide
quando dice "la terra inaridita ama la pioggia, e il venerando cielo, pregno di pioggia, ama cadere sulla
terra" 247 , ed Eraclito
[5] quando dice che "l’opposto è utile", "dai suoni differenti nasce la più bella armonia"
248 . In senso contrario a costoro, altri, e specialmente
e "tutte le cose si generano dalla discordia"
Empedocle 249 , dicono: "è il simile che tende al simile". Orbene, questi problemi di carattere naturalistico
lasciamoli a parte (giacché non sono appropriati alla presente ricerca). Occupiamoci, invece, dei problemi
riguardanti l’uomo
[10] e che concernono i caratteri e le passioni: ad esempio, se l’amicizia nasce in tutti gli
uomini, ovvero non è possibile che gli uomini malvagi siano amici, e se c’ una sola specie di amicizia o più.
Infatti, coloro che pensano che ce ne sia una sola, perché ammette il più ed il meno, danno credito ad un
indizio insufficiente, giacché ammettono
[15] il più ed il meno anche cose che sono differenti per specie. Ma
250 .
di queste cose si è trattato precedentemente
2. [I tre motivi dell’amicizia: bene, piacere, utilità].
A questo proposito ci sarà chiarezza una volta conosciuto ciò che è degno di essere amato. Si ritiene, infatti,
che non ogni cosa è amata, ma solo ciò che è degno di essere amato, e che questo è buono o piacevole o
utile: si ammetterà che utile
[20] è ciò da cui deriva un bene o un piacere, cosicché degni di essere amati
saranno il bene ed il piacere intesi come fini. Orbene, gli uomini amano il bene in sé o ciò che è bene per
loro? Talora, infatti, si tratta di cose discordanti. Lo stesso vale anche per il piacevole. Si riconosce che
ciascuno ama ciò che è bene per lui, e che in senso assoluto è il bene che è degno di essere amato, ma in
senso relativo a ciascun uomo lo è ciò che è bene per lui: ma ciascuno ama non ciò che è bene per lui, ma
ciò che gli appare tale. Ma non ha importanza: infatti, degno di essere amato sarà ciò che tale appare
Essendo, dunque, questi tre i motivi per cui si ama, per l’affezione alle cose inanimate non si usa il termine
"amicizia": esse, infatti, non possono ricambiarci l’affezione, né noi possiamo volere un bene per loro
(giacché sarebbe certamente ridicolo volere il bene per il vino;
[30] ma se pur così è, ciò che si vuole è che
esso si conservi, per averlo per noi); si dice, invece, che bisogna volere il bene per l’amico per lui stesso. Ma
253 , anche se non vengono da quegli altri
quelli che così vogliono il bene degli altri si chiamano benevoli
ricambiati: la benevolenza, infatti, è amicizia solo quando è reciproca. O non bisogna aggiungere anche
"quando non rimane nascosta"? Molti, infatti,
[35] sono benevoli verso uomini che non hanno visto mai, ma
[25]
251
252
.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
che giudicano virtuosi,
[1156a] o utili: questo medesimo sentimento potrebbe provare per loro uno di quelli.
Costoro, dunque, sono manifestamente benevoli gli uni verso gli altri: ma come si potrebbe chiamarli amici,
se tengono nascosto l’uno all’altro il proprio sentimento? Bisogna dunque, per essere amici, essere benevoli
gli uni verso gli altri e non nascondere di volere il bene l’uno dell’altro,
[5] per uno dei motivi che abbiamo
detto 254 .
3. [Le tre specie dell’amicizia].
Ma questi motivi differiscono tra loro per specie: quindi, anche le affezioni e le amicizie. Per conseguenza, le
specie dell’amicizia sono tre, di numero uguale agli oggetti degni di essere amati: per ciascuna classe di
essi, infatti, c’ una reciproca palese affezione, e quelli che si amano reciprocamente vogliono l’uno il bene
dell’altro, [10] bene specificato dal motivo per cui si amano. Orbene, quelli che si amano reciprocamente a
causa dell’utilità, non si amano per se stessi, ma in quanto ne deriva loro, reciprocamente, un qualche bene.
Parimenti nel caso in cui si amino a causa del piacere: infatti, essi non amano gli uomini spiritosi per il fatto
che posseggono quella determinata qualità, ma perché a loro risultano piacevoli. Dunque, coloro che amano
a causa dell’utile,
[15] amano a causa di ciò che è bene per loro, e quelli che amano per il piacere lo fanno
per ciò che è piacevole per loro, e non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole.
Per conseguenza, queste amicizie sono accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è
amato, ma in quanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, le amicizie di tale natura si dissolvono
facilmente,
[20] perché gli amici non rimangono uguali a se stessi: se, infatti, uno non è più utile o
piacevole, l’altro cessa di amarlo. E l’utile non è costante, ma è diverso di volta in volta. Quindi, svanito il
motivo per cui erano amici, si dissolve anche l’amicizia, dal momento che l’amicizia sussiste in relazione a
quei fini. Si riconosce che
[25] l’amicizia di questo tipo sorge soprattutto tra i vecchi (giacché gli uomini di
tale età non perseguono più il piacevole ma l’utile), e negli uomini maturi e nei giovani sorge solo tra quelli
che perseguono l’utile. Ma non è che costoro vivano molto in compagnia gli uni degli altri. Talora, infatti,
non riescono piacevoli gli uni agli altri: perciò non sentono neppure il bisogno di tale compagnia, a meno che
questi amici non siano utili. Infatti, in tanto
[30] risultano piacevoli gli uni agli altri, in quanto hanno la
speranza di un bene. Tra queste amicizie viene posta anche quella verso gli ospiti. Invece, si ritiene che
l’amicizia dei giovani sia causata dal piacere: questi, infatti, vivono sotto l’influsso della passione, e
perseguono soprattutto ciò che è per loro un piacere immediato. Ma col procedere dell’età anche le cose che
fanno piacere diventano diverse. È per questo che i giovani rapidamente diventano
[35] amici e
rapidamente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta insieme col mutare di ciò che fa piacere,
[1156b]
mutamento di un tale tipo di piacere è rapido. Inoltre, i giovani sono inclini alla passione amorosa, giacché
gran parte del sentimento amoroso segue la passione e deriva dal piacere: perciò essi s’innamorano e
cessano d’amare rapidamente, mutando sentimento più volte nello stesso giorno. Essi, però,
[5] vogliono
passare insieme i loro giorni e la vita intera: è in questo modo, infatti, che si procurano ciò che si
ripromettono dall’amicizia.
L’amicizia perfetta, invece, è l’amicizia degli uomini buoni e simili per virtù: costoro, infatti, vogliono il bene
l’uno dell’altro, in modo simile, in quanto sono buoni, ed essi sono buoni per se stessi. Coloro che vogliono il
bene [10] degli amici per loro stessi sono i più grandi amici; infatti, provano questo sentimento per quello
che gli amici sono per se stessi, e non accidentalmente. Orbene, l’amicizia di costoro perdura finché essi
sono buoni, e, d’altra parte, la virtù è qualcosa di permanente. E ciascuno è buono sia in senso assoluto sia
in relazione al suo amico, giacché i buoni sono sia buoni in senso assoluto sia utili gli uni agli altri. E come
sono buoni, sono anche
[15] piacevoli, giacché i buoni sono piacevoli sia in senso assoluto sia gli uni in
relazione agli altri: infatti, per ciascuno sono fonte di piacere le azioni conformi alla sua natura e quelle dello
stesso tipo, e le azioni dei buoni sono appunto identiche o simili. E una tale amicizia, naturalmente, è
permanente, giacché congiunge in sé tutte le qualità che gli amici devono possedere. Infatti, ogni amicizia è
causata da un bene
[20] o da un piacere, o in senso assoluto o in relazione a colui che ama, e si fonda su
una certa somiglianza. Ma in questa amicizia si trovano tutte le cose suddette in virtù di ciò che gli amici
sono per se stessi: in questa, infatti, gli amici sono simili, e c’ pure il resto (il buono e il piacevole in senso
assoluto), e sono soprattutto questi gli oggetti degni di essere amati; per conseguenza, in questi uomini
anche l’amore e l’amicizia sono del massimo livello e della migliore qualità. Ma è
[25] naturale che simili
amicizie siano rare, giacché pochi sono gli uomini di tale natura. Inoltre, richiede tempo e consuetudine di
vita comune: secondo il proverbio, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è
consumata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio. Per conseguenza, non è possibile
accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestato all’altro degno di essere
amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro. E coloro che
[30] si scambiano
rapidamente l’un l’altro i segni dell’amicizia, vogliono, sì, essere amici, ma non lo sono, se non sono anche
degni di essere amati e se non lo sanno: infatti, la volontà di amicizia sorge rapidamente, ma non l’amicizia.
4. [Confronto fra le tre specie di amicizia. Loro durata].
Questa amicizia, dunque, è perfetta sia per la durata sia per il resto, e sorge dal fatto che ciascuno riceve
[35] dall’altro cose identiche da tutti i punti di vista o simili; il che è ciò che deve accadere tra amici.
[1157a] L’amicizia, poi, che deriva dal piacere ha somiglianza con questo, giacché anche i buoni risultano
piacevoli gli uni agli altri. Lo stesso vale anche per l’amicizia che nasce dall’utilità, giacché i buoni sono
e il
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
anche utili gli uni agli altri. Ma anche in questi due ultimi casi le amicizie hanno la massima durata quando
gli uni ricevono dagli altri la stessa cosa, per esempio
[5] il piacere, e non soltanto la stessa cosa, ma anche
derivata da una stessa causa, come, per esempio, accade tra gli uomini spiritosi, e non come accade tra
amante ed amato. Infatti, questi non godono delle stesse cose, ma l’uno prova piacere a guardare l’amato,
l’altro ad essere corteggiato dall’amante. Ma quando il fiore dell’età appassisce, talora viene meno anche
l’amicizia (giacché per l’uno non è più piacevole
[10] la vista dell’amato, e per l’altro vien meno il
corteggiamento dell’amante). Ma molti, d’altra parte, persistono nell’amicizia, se in base alla consuetudine
finiscono con l’amare i rispettivi caratteri, essendo divenuti simili fra di loro. Coloro, poi, che nei loro
rapporti amorosi non si scambiano piacere, ma utilità, sono meno amici e meno costanti. Infine, l’amicizia di
quelli che sono amici a causa dell’utilità
[15] si dissolve insieme con l’interesse che la suscita, giacché essi
non sono amici l’uno dell’altro, ma del profitto. A causa del piacere e dell’utilità, quindi, è possibile che siano
amici sia uomini cattivi tra di loro, sia uomini virtuosi con uomini cattivi, sia chi non è né l’uno né l’altro con
qualunque tipo d’uomo, ma è chiaro che solo i buoni possono essere amici per quello che sono in se stessi: i
viziosi, infatti, non ricevono alcuna gioia gli uni dagli altri,
[20] a meno che non ne derivi un qualche
vantaggio. E soltanto l’amicizia tra gli uomini buoni non può essere incrinata dalla calunnia, giacché non è
facile prestar fede ad alcuno a proposito di un uomo che si è da se stessi per lungo tempo messo alla prova;
è in questi uomini che si trova la fiducia, la disposizione a non farsi mai reciprocamente ingiustizia, e tutto
quello che è considerato un valore nell’amicizia autentica. Nelle altre amicizie, invece,
[25] non c’ nulla che
impedisce che tali cose avvengano. Poiché, infatti, gli uomini chiamano amici sia quelli che lo sono per
l’utile, come fanno le città (giacché si sa che le alleanze militari le città le fanno in vista del vantaggio che ne
deriva), sia coloro che si amano tra di loro per il piacere, come i bambini, forse anche noi dobbiamo parlare
di amicizia in simili casi.
[30] Ma dobbiamo anche dire che ci sono molte specie di amicizia, e prima di tutto
e in senso proprio quella dei buoni in quanto buoni, e poi, per somiglianza, tutte le altre, giacché in tanto si
è amici, in quanto c’ un qualcosa di buono e di simile; anche il piacevole, infatti, è un bene per chi ama il
piacere. Ma queste due specie di amicizia non sono affatto convergenti, e non sono gli stessi uomini quelli
che sono amici per l’utilità
[35] e quelli che lo sono per il piacere, perché non capita spesso che si trovino
accoppiate le qualità accidentali.
[1157b] Ma una volta divisa l’amicizia in queste specie, diremo che gli
uomini malvagi sono amici per il piacere o per l’utilità, essendo in questo simili, mentre i buoni sono amici
per se stessi, cioè in quanto buoni. Questi ultimi, dunque, saranno amici in senso assoluto; quelli, invece,
per accidente e
[5] per il fatto che assomigliano ai buoni.
5. [L’amicizia come disposizione e come attività. L’intimità].
Come per quanto riguarda le virtù alcuni sono chiamati buoni in base ad una disposizione del loro carattere,
altri in base ad una effettiva attività, così avviene anche nel caso dell’amicizia: infatti, alcuni vivono insieme
procurandosi gioia a vicenda e facendo il bene l’uno dell’altro, altri, invece, in quanto dormono o sono
separati dalla distanza, non esercitano in atto l’amicizia,
[10] ma hanno la disposizione a farlo: la distanza,
infatti, non fa cessare l’amicizia in senso assoluto, ma soltanto il suo effettivo esercizio. Ma se l’assenza
dura nel tempo, essa, si ammette, fa dimenticare anche l’amicizia. Di qui il detto: "Molte amicizie, dunque,
ha fatto cessare l’impossibilità di parlarsi". I vecchi, poi, e gli uomini di carattere acido, manifestamente,
non sono inclini all’amicizia: infatti, c’ poco
[15] di piacevole in loro, e nessuno può passare la sua giornata
in compagnia di chi è affligente e di chi non è piacevole, perché è manifesto che la natura soprattutto
rifugge da ciò che è penoso, e tende, invece, a ciò che è piacevole. Quelli, poi, che sono disposti ad
accettarsi reciprocamente, ma non vivono insieme, sono simili più a uomini benevoli che ad amici. Niente,
infatti, è così tipico degli amici come il vivere insieme
[20] (l’aiuto, infatti, lo desiderano quelli che ne hanno
bisogno, ma trascorrere insieme il tempo lo desiderano anche gli uomini felici, giacché ad essi non si addice
affatto rimanere solitari). Ma non è possibile passare la vita insieme, gli uni in compagnia degli altri, se non
si è piacevoli e se non si gode delle medesime cose: è in questo, si ritiene, che consiste il cameratismo.
[25] L’amicizia, dunque, è soprattutto quella dei buoni, come s’ detto più volte. Si ritiene comunemente,
infatti, che degno di essere amato e scelto è il bene o il piacere, in generale, ma per ciascuno ciò che è
buono e piacevole per lui: e l’uomo buono è amato e scelto dall’uomo buono per entrambi questi motivi.
L’affezione assomiglia ad una passione, l’amicizia ad una disposizione, giacché l’affezione è rivolta anche
[30] agli esseri inanimati, ma ricambiare l’amore implica una scelta, e la scelta dipende da una disposizione
del carattere. E gli uomini vogliono il bene delle persone amate proprio per amor loro, non seguendo una
passione ma per intima disposizione. Ed amando l’amico amano ciò che è bene per loro stessi, giacché
l’uomo buono, divenuto amico, diventa un bene per colui di cui è diventato amico. Ciascuno dei due,
dunque, ama ciò che è bene per lui, e ricambia l’altro in ugual misura, col volere il suo bene e col
procurargli piacere: si dice, infatti, "amicizia è uguaglianza", e questa c’ soprattutto nell’amicizia tra uomini
buoni.
6. [L’amicizia perfetta e le altre forme di amicizia].
[1158a] Negli uomini di carattere acido ed in quelli che sono vecchi per temperamento l’amicizia nasce tanto
meno quanto più sono scorbutici e quanto meno hanno il gusto delle relazioni sociali: si ritiene, infatti, che
siano queste le cose che più di tutte dimostrano e producono amicizia. È per questo
[5] che i giovani
diventano presto amici, ed i vecchi, invece, no: non si diventa amici, infatti, di coloro dai quali non si riceve
[35]
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
alcuna gioia. Lo stesso vale per gli uomini di carattere acido. Tutt’al più, simili uomini sono benevoli gli uni
verso gli altri, giacché vogliono il bene reciproco e si aiutano nei bisogni; ma non sono affatto amici, in
quanto non passano insieme le loro giornate e non trovano la loro gioia gli uni negli altri:
[10] e questi sono
ritenuti i segni più tipici dell’amicizia. Non è, poi, possibile essere amici di molti di un’amicizia perfetta, come
non è possibile amare molte persone nello stesso tempo (giacché l’amore è simile ad un eccesso, e un
sentimento di questo genere si rivolge, per sua natura, ad un sola persona); non è facile, d’altra parte, che
molte persone siano fortemente gradite al medesimo uomo nel medesimo tempo, e certo non è facile che
siano buone. Bisogna, poi, anche
[15] fare l’esperienza di una consuetudine di vita in comune, il che è
difficilissimo. D’altra parte, è possibile piacere a molti per via dell’utile e del piacevole, giacché molti sono gli
uomini di tale natura, e questi servigi si rendono in poco tempo. Di queste due specie d’amicizia, quella che
assomiglia di più alla vera amicizia è quella che ha per motivo il piacere, quando ciascuno riceve dall’altro le
stesse cose ed entrambi godono l’uno dell’altro o delle
[20] medesime cose: di tale natura sono le amicizie
dei giovani, giacché maggiore è in queste l’elemento della liberalità. L’amicizia che ha per motivo l’utile è da
mercanti. E, poi, gli uomini felici non hanno per niente bisogno di amici utili, bensì di amici piacevoli: essi,
infatti, vogliono vivere in compagnia di qualcuno, ma sopportano ciò che è penoso per poco tempo, mentre
nessuno vi resisterebbe in continuazione, neppure se si trattasse
[25] del bene in sé, qualora esso risultasse
penoso per lui: è per questo che ricercano amici piacevoli. Bisogna, poi, certo, che tali uomini siano anche
buoni, e buoni per loro, per giunta, perché così essi avranno tutte le caratteristiche che devono avere gli
amici. Gli uomini altolocati hanno, manifestamente, amici di specie diverse: alcuni, infatti, sono loro utili ed
altri piacevoli, ma non capita spesso che siano gli stessi uomini ad avere entrambe le qualità.
[30] Infatti,
essi non cercano amici piacevoli e insieme virtuosi, né utili a compiere belle azioni, ma alcuni li cercano
spiritosi, quando mirano al piacere, altri, invece, abili ad eseguire gli ordini; e queste qualità non capita
255 che piacevole ed utile nello
spesso che si incontrino insieme nella medesima persona. Ma abbiamo detto
stesso tempo è l’uomo di valore; ma un tale uomo non diventa amico di chi gli è superiore, a meno che non
[35] gli sia superiore anche in virtù: se no, essendo superato, non realizza un’uguaglianza proporzionale. Ma
uomini di tal fatta non sogliono trovarsi spesso.
[1158b] Le amicizie suddette si fondano sull’uguaglianza:
infatti, da entrambe le parti derivano gli stessi vantaggi che gli uni vogliono per gli altri, oppure essi si
scambiano un tipo di vantaggio con un altro, per esempio, piacere in cambio di utilità; ma che queste due
256 . [5] A seconda,
ultime amicizie sono amicizie in misura minore e che durano di meno l’abbiamo già detto
poi, che assomiglino o non assomiglino alla stessa cosa, si pensa che esse siano e che non siano amicizie: si
manifestano come amicizie in quanto assomigliano all’amicizia fondata sulla virtù (l’una comporta il piacere
e l’altra l’utilità, cose queste che competono anche all’amicizia fondata sulla virtù); ma per il fatto che quella
non può essere incrinata dalla calunnia ed è permanente, mentre queste
[10] mutano rapidamente e ne
differiscono in molti rispetti, si manifestano come non amicizie, poiché non sono somiglianti a quella fondata
sulla virtù.
7. [Amicizia tra superiore e inferiore, e viceversa].
Esiste, poi, un’altra specie di amicizia, quella che implica una superiorità: per esempio, quella del padre
verso il figlio ed in genere dell’uomo più anziano verso il più giovane, del marito verso la moglie e di
chiunque eserciti un’autorità verso chi vi è soggetto. Ed anche queste amicizie differiscono l’una dall’altra:
[15] infatti, non è la stessa l’amicizia dei genitori verso i figli e quella di coloro che esercitano il potere
politico verso coloro che vi sono soggetti, né quella del padre verso il figlio e quella del figlio verso il padre,
né quella del marito verso la moglie e della moglie verso il marito. Diversa, infatti, è la virtù di ciascuna di
queste persone, diversa la funzione, diversi i motivi per cui amano: diversi, quindi, anche gli affetti e le
amicizie. [20] Per conseguenza, non è la stessa cosa quella che uno riceve dall’altro, né quella che deve
essere ricercata: ma quando i figli rendono ai genitori ciò che si deve a chi ha generato, e quando i genitori
rendono ai figli ciò che si deve a chi è stato generato, l’amicizia tra persone di questo tipo sarà permanente
e virtuosa. Ma in tutte le amicizie che implicano una superiorità ci deve essere anche un affetto
proporzionale: per esempio,
[25] il più virtuoso deve essere amato più di quanto ami, come pure chi è più
utile, e parimenti in ciascuno degli altri casi. Quando, infatti, l’affezione è proporzionata al merito, allora si
produce, incerto qual modo, un’uguaglianza, il che, per conseguenza, è considerato proprio dell’amicizia. Ma
è manifesto che il termine "uguale"
[30] non ha lo stesso senso nelle azioni giuste e nell’amicizia: infatti, nel
caso delle azioni giuste "uguale" significa innanzi tutto "ciò che è proporzionato al merito", e in secondo
luogo "ciò che è uguale quantitativamente", mentre nel caso dell’amicizia significa innanzi tutto "ciò che è
uguale quantitativamente", e in secondo luogo "ciò che è proporzionato al merito". Il che è evidente quando
c’ una grande distanza dal punto di vista della virtù o del vizio o della ricchezza o di qualche altra cosa:
infatti, in tal caso, non solo non sono più amici,
[35] ma non pretendono neanche di esserlo. E questo è
evidentissimo nel caso degli dèi: essi, infatti, in ogni specie di bene, hanno una superiorità assoluta. Ma è
chiaro [1159a] anche nel caso dei re: coloro che sono molto inferiori non pretendono neppure di essere
degli amici per loro, né quelli che non hanno alcun merito pretendono di essere amici per gli uomini più
virtuosi o più saggi. In situazioni di questo genere non è possibile determinare con precisione fino a che
punto gli amici restano amici: infatti, anche tolti molti motivi dell’amicizia,
[5] questa permane ancora: ma
se una delle parti è separata da una grande distanza, come avviene nel caso di Dio, l’amicizia non è più
possibile. Di qui nasce anche la questione se veramente gli amici vogliono i più grandi beni per gli amici,
come, per esempio, che siano dèi: in tal caso, infatti, non saranno più degli amici per loro, né per
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
conseguenza dei beni (giacché gli amici sono dei beni). Se, dunque, abbiamo avuto ragione di dire
l’amico vuole il bene per l’amico,
[10] proprio per lui, quell’amico dovrebbe continuare ad essere quello che
è, comunque sia: finché, dunque, quello rimane un uomo, l’amico vorrà per lui i beni più grandi. Ma, forse,
non tutti i beni, giacché ciascuno vuole il bene soprattutto per sé.
257
che
8. [Uguaglianza e disuguaglianza nell’amicizia].
La maggior parte degli uomini, lo si ammette, preferisce, per desiderio di onore, essere amata piuttosto che
amare: per questo i più amano gli adulatori, perché
[15] l’adulatore è un amico in posizione inferiore, o
simula di essere tale e di amare di più di quanto sia amato. Ora, essere amato è considerato qualcosa di
molto vicino all’essere onorato, ed è a questo che aspira la maggior parte degli uomini. Ma non sembra che
scelgano l’onore per se stesso, bensì per accidente. Infatti, i più godono nell’essere onorati da persone
altolocate,
[20] per via della speranza (perché pensano che, qualora avessero bisogno di qualcosa,
l’otterrebbero da quelle persone: essi, dunque, godono dell’onore come di un segno che riceveranno dei
favori); quelli, d’altra parte, che desiderano ricevere onore da parte di uomini virtuosi e che li conoscono,
aspirano a rafforzare l’opinione che hanno di se stessi: essi, quindi, godono dell’onore ricevuto in quanto si
convincono di essere buoni sulla base del giudizio di coloro che lo affermano.
[25] Ma godono di essere
amati per il fatto in sé: perciò si riconoscerà che l’essere amati vale di più che essere onorati, e che
l’amicizia è desiderabile per se stessa.
D’altra parte, si ritiene che l’amicizia stia più nel l’amare che nell’essere amati. Prova ne sono le madri, che
godono di amare: alcune, infatti, danno i propri figli a balia, e li amano, ben sapendo che sono figli loro,
[30] ma non cercano di farsi ricambiare l’amore, se non siano possibili entrambe le cose, ma sembra che sia
sufficiente per loro vederli star bene, ed esse li amano anche se quelli, non conoscendo la propria madre,
non le rendono nulla di ciò che ad una madre si conviene rendere. Poiché, poi, l’amicizia consiste soprattutto
nell’amare, e poiché quelli che amano gli amici vengono lodati,
[35] la virtù degli amici sembra essere
l’amare, cosicché quelli in cui ciò avviene secondo il merito,
[1159b] sono amici costanti e costante è la loro
amicizia. È soprattutto così che anche i disuguali potranno essere amici, perché in tal modo saranno resi
uguali.
Ora, l’uguaglianza e la somiglianza costituiscono l’amicizia, e soprattutto la somiglianza tra coloro che sono
simili dal punto di vista della virtù. Infatti, essendo costanti per se stessi,
[5] lo rimangono anche nei
rapporti reciproci, e non richiedono né rendono bassi servigi, ma anzi, per così dire, cercano di impedirli: è
proprio degli uomini buoni, infatti, non commettere essi stessi degli errori e non permettere agli amici di
commetterne. I malvagi, invece, non hanno stabilità, perché non rimangono simili nemmeno a se stessi:
sono amici per poco tempo,
[10] fin quando godono della malvagità gli uni degli altri. Gli amici utili, invece,
e quelli piacevoli, permangono più a lungo nell’amicizia, fin quando, cioè, si procurano reciprocamente
piaceri e vantaggi. Soprattutto tra contrari, poi, si ritiene che sorga l’amicizia fondata sull’utilità: per
esempio, il povero diventa amico del ricco, l’ignorante amico del sapiente: infatti, quando uno si trova ad
avere bisogno di qualche cosa, mirando a questa ne dà in cambio
[15] un’altra. Ma a questa categoria si
potrebbero ricondurre anche l’amante e l’amato, e il bello e il brutto. Per questo, anche gli amanti sono
talora manifestamente ridicoli, quando pretendono di essere amati come amano: se essi sono amabili allo
stesso modo, certamente la pretesa è giustificata, ma se non hanno affatto una simile qualità, è ridicolo.
D’altra parte, forse, il contrario non tende al suo contrario
[20] per se stesso, bensì accidentalmente,
mentre il suo desiderio si riferisce in realtà a ciò che è intermedio: questo, infatti, è il bene; per esempio,
per il secco è bene non diventare umido, ma il giungere allo stadio intermedio, e cosi per il caldo, e
ugualmente per gli altri contrari. Orbene, queste questioni lasciamole da parte, perché sono troppo estranee
258 .
alla presente ricerca
9. [Amicizia, giustizia e comunità politica].
259 , che l’amicizia e la giustizia abbiano i medesimi oggetti e
[25] Sembra, poi, come s’ detto all’inizio
risiedano nelle medesime persone. Infatti, si ritiene comunemente che in ogni comunità ci sia una forma di
giustizia, ma anche amicizia; certo è che si attribuisce il nome di amici ai compagni di navigazione e ai
compagni d’arme, e parimenti anche a quelli che si trovano in tutti gli altri tipi di comunità.
[30] Quanto si
estende il rapporto comunitario, altrettanto si estende l’amicizia, giacché tanto si estende anche la giustizia.
E il proverbio "le cose degli amici sono comuni" ha ragione, perché l’amicizia consiste in una comunanza.
Tra fratelli e tra amici tutto è comune, tra gli altri uomini, invece, soltanto cose determinate, e per alcuni di
più e per altri di meno, giacché anche le amicizie sono amicizie in misura maggiore
[35] o minore. Ma anche
i rapporti di giustizia sono differenti; infatti, non sono
[1160a] gli stessi quelli dei genitori verso i figli, e
quelli dei fratelli fra di loro, né i rapporti tra compagni né quelli tra cittadini, e così, allo stesso modo, anche
nel caso degli altri tipi di amicizia. Per conseguenza, anche gli atti di ingiustizia nei riguardi di ciascuno di
questi gruppi sono diversi, e diventano più gravi per il fatto di riguardare, per di più, degli amici.
[5] Per
esempio, è più grave spogliare dei suoi beni un compagno che non un concittadino, e non prestare aiuto ad
un fratello che non ad uno straniero, e più grave percuotere il padre che non chiunque altro. Per natura, poi,
la giustizia cresce insieme con l’amicizia, perché esse si trovano nelle medesime persone ed hanno uguale
estensione.
Tutte le comunità, poi, sono simili a parti della comunità politica:
[10] infatti, gli uomini viaggiano insieme in
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
vista di qualche vantaggio, cioè per procurarsi qualcosa che serve alla loro vita; anche la comunità politica si
ritiene che si sia costituita fin da principio e perduri in vista dell’utilità: è a questa, infatti, che mirano anche
i legislatori, e dicono che è giusto ciò che è di utilità generale. Le altre comunità
[15] hanno di mira
l’interesse particolare: per esempio, i naviganti mirano all’utile che traggono dalla navigazione diretta ad un
acquisto di ricchezza o qualcosa di simile, i camerati mirano all’utile che traggono dalla guerra, desiderando
ricchezza e vittoria, oppure una città, e lo stesso fanno i membri di una stessa tribù o di uno stesso demo
260 quelle degli appartenenti ad un tiaso
[Alcune comunità si ritiene che sorgano per un piacere, come
262 : queste, infatti, hanno come scopo quello di offrire un sacrificio e
[20] o ad una associazione conviviale
quello di stare insieme. Tutte queste comunità sembrano essere subordinate alla comunità politica, giacché
263 .],
la comunità politica non mira soltanto al vantaggio presente, ma a ciò che è utile alla vita intera
quando fanno sacrifici e riunioni ad essi relative, rendendo i dovuti onori agli dèi,
[25] e procurando a se
stessi piacevoli periodi di riposo. Infatti, i sacrifici e le riunioni di origine antica hanno luogo,
manifestamente, dopo la raccolta dei frutti, come offerta di primizia, giacché è soprattutto in quei periodi
dell’anno che gli uomini hanno tempo per lo svago. Dunque, tutte le comunità sono manifestamente parti di
quella politica, e le specie particolari di amicizia corrisponderanno
[30] alle specie particolari di comunità.
261
10. [Analogia tra costituzioni politiche e strutture familiari].
264 , intese come degenerazioni delle
Ci sono tre specie di costituzione, ma anche altrettante deviazioni
prime. Le costituzioni sono il regno e l’aristocrazia da una parte, e, dall’altra, in terzo luogo, quella che si
basa sul censo, che è manifestamente appropriato chiamare "costituzione timocratica",
[35] mentre i più
sono soliti denominarla semplicemente "costituzione". Di queste, la migliore è il regno, la peggiore è la
timocrazia 265 . Deviazione del regno è
[1160b] la tirannide: tutt’e due, infatti, sono monarchie, ma c’ tra
loro una grandissima differenza, perché il tiranno mira al proprio interesse, il re a quello dei sudditi. Non è,
infatti, un vero re colui che non è autosufficiente e che non è superiore per ogni tipo di bene:
[5] ma chi è
tale non ha bisogno di nulla; avrà, dunque, di mira non il suo interesse personale, ma quello dei sudditi; chi,
266 . La tirannide, invece, è il contrario di questa costituzione,
infatti, non ha tali qualità, sarà re solo di nome
giacché il tiranno persegue ciò che è bene per lui. E per quanto la riguarda è anche più evidente che è la
costituzione peggiore perché il peggiore è il contrario del migliore.
[10] D’altra parte, dal regno si trapassa
nella tirannide, giacché la tirannide è la perversione della monarchia, ed il cattivo re diviene un tiranno.
Dalla aristocrazia, poi, si passa nell’oligarchia per il fatto che sono viziosi i governanti, i quali distribuiscono
ciò che appartiene alla città senza tener conto del merito, e attribuiscono tutti o la maggior parte dei beni a
se stessi, e le cariche pubbliche
[15] sempre alle stesse persone, tenendo nel massimo conto il fatto che
siano ricche: per conseguenza, sono pochi e perversi quelli che comandano, al posto dei più degni. Dalla
timocrazia si passa alla democrazia, giacché queste due costituzioni hanno gli stessi confini: la timocrazia,
infatti, vuol essere governo della maggioranza, e uguali sono tutti quelli che hanno un determinato censo.
Delle costituzioni corrotte, poi, la meno cattiva è
[20] la democrazia, giacché la forma di questa costituzione
è deviante di poco. Orbene, è per lo più in questo modo che le costituzioni si trasformano: queste, infatti,
sono le trasformazioni più piccole e più facili.
Somiglianze con le costituzioni, che, anzi, fungono quasi da modelli, si potranno trovare anche nelle
comunità familiari. Infatti, la comunità che c’ tra padre e figli
[25] ha la struttura di un regno, giacché il
padre ha cura dei figli. È per questo che anche Omero chiama Zeus "padre": il regno vuol essere un’autorità
paterna. Tra i Persiani, invece, l’autorità del padre è tirannica: trattano i figli come schiavi. Tirannica, poi, è
anche l’autorità del padrone nei riguardi degli schiavi:
[30] in essa, infatti, si fa solo l’interesse del padrone.
Ma mentre quest’ultima autorità è manifestamente corretta, quella dei Persiani, invece, è errata, giacché
differenti devono essere i modi di governare uomini <socialmente> differenti. La comunità di marito e
moglie è manifestamente di tipo aristocratico: il marito, infatti, esercita l’autorità conformemente al suo
merito, e nell’ambito in cui è il marito che deve comandare; quanto invece si addice alla moglie,
[35] lo
lascia a lei. Il marito, invece, che comanda su tutto trasforma la comunità matrimoniale in oligarchia, perché
fa questo al di là del suo merito, cioè
[1161a] non per quanto è superiore alla moglie. Talvolta, poi,
comandano le mogli, quando sono delle ereditiere: quindi, la loro autorità non deriva dal valore personale,
ma si fonda sulla ricchezza e sul potere, proprio come nelle oligarchie. La comunità dei fratelli assomiglia a
quella timocratica: essi, infatti, sono uguali, tranne che nella misura in cui
[5] differiscono per età; perciò,
se la differenza d’età è grande, non sorge più l’amicizia fraterna. La democrazia, infine, si trova soprattutto
nelle case dove non c’ un padrone (giacché qui sono tutti su un piano di uguaglianza) e in quelle in cui chi
comanda è debole e ciascuno può fare quello che vuole.
11. [Costituzioni politiche, strutture familiari, e corrispondenti forme di amicizia].
[10] È manifesto che in ciascun tipo di costituzione c’ amicizia nella misura in cui c’ anche giustizia.
L’amicizia tra un re ed i suoi sudditi sta nel fatto che il re fa loro più benefici di quanti non ne riceva: egli,
infatti, fa del bene ai sudditi, se, essendo buono, si prende cura di loro, per farli star bene, come un pastore
267 chiamò
si prende cura delle sue pecore; perciò anche Omero
[15] Agamennone "pastore di popoli". Di tal
natura è anche l’amicizia di un padre: differisce, però, per la grandezza dei benefici, giacché egli dona ai figli
l’esistenza, che è ritenuta il più grande dei beni, e nutrimento ed educazione. E questi benefici si
attribuiscono anche ai progenitori. Inoltre, è per natura che il padre ha autorità sui figli, i progenitori sui
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
discendenti, il re sui sudditi.
[20] Ma queste amicizie si fondano su una superiorità, ed è perciò che i genitori
268
vengono anche onorati
. Per conseguenza, anche la giustizia, in esse, non è la stessa cosa, ma varia col
merito: così, infatti, varia anche l’amicizia. L’amicizia tra marito e moglie è la stessa che c’ anche nel
regime aristocratico, giacché è corrispondente al valore personale, e al migliore ne va di più, e a ciascuno
quanto ne conviene:
[25] ma è così anche per la giustizia. L’amicizia tra fratelli, poi, assomiglia a quella tra
compagni d’arme, perché sono uguali e vicini d’età, e quelli che hanno queste qualità hanno per lo più
passioni e caratteri simili. Ma assomiglia a questa anche l’amicizia corrispondente alla costituzione
timocratica, giacché in essa i cittadini vogliono essere uguali e virtuosi: per conseguenza, il potere è
esercitato a turno, e su una base d’uguaglianza; così, quindi,
[30] si caratterizza anche l’amicizia
corrispondente. E nelle deviazioni, come la giustizia si riduce a poco, così anche l’amicizia, e la più piccola si
trova nella costituzione peggiore: nella tirannide, infatti, non c’ affatto amicizia o ce n’ poca. Quando non
c’ nulla di comune tra chi governa e chi è governato, non c’ neppure amicizia tra loro, giacché non c’
269 , tra padrone e schiavo:
giustizia: per esempio, tra artigiano e strumento,
[35] tra anima e corpo
[1161b]
infatti, tutte queste cose ricevono delle cure da parte di chi le usa, ma verso esseri inanimati non è possibile
né amicizia né giustizia. Ma neppure verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo.
Non c’ niente di comune, infatti, in quanto lo schiavo è uno strumento animato, e lo strumento è uno
schiavo inanimato.
[5] Quindi, non è possibile amicizia verso di lui in quanto è schiavo, ma è possibile in
quanto è uomo: si ritiene, infatti, che ogni uomo può avere un rapporto di giustizia con chiunque abbia la
possibilità di avere in comune con lui una legge o un patto; e, per conseguenza, si potrà avere anche un
rapporto d’amicizia con uno schiavo nella misura in cui questi è un uomo. Quindi, è in piccola misura che
anche nelle tirannidi sono possibili le amicizie e la giustizia, mentre nelle democrazie
[10] sono possibili in
misura maggiore, perché tra coloro che sono uguali sono molte le cose in comune.
12. [I rapporti di amicizia tra parenti].
270 . Ma si potrebbero escludere l’amicizia
Ogni amicizia, dunque, si realizza in una comunità, come s’ detto
tra parenti e quella tra compagni d’arme. Ma le amicizie tra concittadini, tra membri di una stessa tribù, tra
compagni di navigazione e simili, sono le più somiglianti ad amicizie fondate su una comunanza di interessi,
[15] giacché è manifesto che nascono da una specie d’accordo. Tra queste si potrebbe classificare anche
l’amicizia tra ospiti.
E l’amicizia tra parenti ha, manifestamente, più forme, ma è tutta connessa con quella paterna: i genitori,
infatti, amano i figli perché li considerano come una parte di se stessi, e i figli amano i genitori perché sono
un qualcosa che da essi deriva.
[20] I genitori, però, sanno che i figli sono stati generati da loro più che i
figli non sappiano che è da quelli che sono stati generati, e il generante sente di più il legame di
appartenenza col generato di quanto il generato lo senta col generante: infatti, ciò che deriva da qualcuno
appartiene a colui da cui deriva (per esempio, un dente, un capello, qualunque cosa, appartengono a chi
l’ha); ma il generante non appartiene affatto al generato, o gli appartiene in misura minore. E c’ differenza
anche per la durata temporale:
[25] i genitori, infatti, amano i figli appena nati, mentre questi amano i
genitori solo quando è passato del tempo, e quando hanno acquistato giudizio o sensibilità. Da queste
considerazioni risulta chiaro anche per quali ragioni le madri amano di più. I genitori, dunque, amano i figli
come se stessi (giacché i figli nati da loro sono come degli altri se stessi, altri per il fatto di essere separati),
e i figli amano i genitori perché hanno avuto origine da loro,
[30] e i fratelli si amano l’un l’altro perché
hanno avuto origine dagli stessi genitori, giacché l’identità del loro rapporto con quelli stabilisce un’identità
tra di loro; perciò si dice "di uno stesso sangue", "di una stessa radice", e simili. Pertanto, essi sono in certo
qual modo una stessa cosa, benché in individui distinti. Molto, poi, contribuiscono all’amicizia sia il fatto di
essere allevati insieme, sia la vicinanza d’età, giacché il coetaneo ama il coetaneo,
[35] e quelli che vivono
insieme diventano camerati; perciò, anche l’amicizia tra fratelli è simile a quella tra camerati.
[1162a] I
cugini, infine, e gli altri parenti si trovano uniti da vincoli che derivano da fratelli, e ciò per il fatto che
derivano dai medesimi progenitori. E sono più o meno intimi a seconda che siano vicini o lontani rispetto al
capostipite.
L’amicizia dei figli verso i genitori
[5] e degli uomini verso gli dèi è come un’amicizia verso un essere buono
e superiore: essi, infatti, hanno loro dato i benefici più grandi, giacché sono gli autori della loro esistenza,
del loro allevamento, e, mentre crescono, della loro educazione. L’amicizia tra padri e figli, poi, è più
piacevole e più vantaggiosa che quella tra estranei, nella misura in cui tra i primi c’ maggiore comunanza
di vita. [10] Nell’amicizia fraterna, poi, ci sono gli stessi elementi che nell’amicizia tra camerati, soprattutto
quando questi sono virtuosi, e quando in generale si assomigliano, in quanto sono più intimi e si trovano ad
amarsi reciprocamente fin dalla nascita, ed in quanto sono più simili le abitudini di vita di quelli che derivano
dai medesimi genitori, e che sono stati allevati insieme ed educati allo stesso modo; e la prova del tempo è
in questo caso la più decisiva
[15] e la più sicura. Tra gli altri parenti, infine, i rapporti di amicizia sono
proporzionati al grado di parentela.
L’amicizia tra marito e moglie, si riconosce, è naturale: l’uomo, infatti, è per sua natura più incline a vivere
in coppia che ad associarsi politicamente, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario
dello Stato, e l’istinto della procreazione è più comune tra gli animali.
[20] Ma mentre per gli altri animali la
comunità giunge solo fino alla procreazione, gli uomini si mettono a vivere insieme non solo per generare
dei figli, ma anche per provvedere alle necessità della vita. Fin dall’inizio, infatti, si dividono le funzioni:
quelle del marito sono diverse da quelle della moglie, quindi si aiutano l’un l’altro, ponendo in comune le
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
specifiche qualità personali. Per questi motivi si ritiene che
[25] in questa amicizia ci siano sia l’utilità sia il
piacere. Ed essa può fondarsi sulla virtù, quando gli sposi sono persone per bene: c’ infatti una virtù
propria di ciascuno di loro, ed essi ne proveranno gioia. Infine, i figli sono ritenuti un legame: è per questo
che i coniugi senza figli si separano più rapidamente; i figli, infatti, sono un bene comune ad entrambi, e ciò
che è comune tiene uniti. Cercare come si deve comportare il marito
[30] verso la moglie ed in generale
l’amico verso l’amico, non significa nient’altro, manifestamente, che cercare qual è il comportamento giusto;
è manifesto, infatti, che il comportamento giusto per l’amico verso un altro amico, verso un estraneo, un
compagno d’arme o un compagno di scuola non è lo stesso.
13. [L’amicizia fondata sull’utilità].
Ci sono, dunque, tre specie d’amicizia, come s’ detto in
principio 271 , [35] e di ciascuna di esse ci sono
amici in rapporto d’uguaglianza o in rapporto di superiorità (infatti, divengono amici sia uomini ugualmente
buoni, sia
[1162b] uno migliore con uno peggiore, e allo stesso modo uomini piacevoli ed utili, sia
uguagliandosi con lo scambio di vantaggi anche quando sono diversi).
Gli amici uguali devono amare in modo uguale ed uguagliarsi anche nel resto; quelli disuguali devono
rendere ogni cosa in proporzione alla superiorità dell’altro.
[5]
Accuse e rimproveri nascono solamente, o soprattutto, nell’amicizia fondata sull’utilità, ed è ovvio. Infatti,
quelli che sono amici sul fondamento della virtù desiderano fare del bene l’uno all’altro (giacché questo è
proprio della virtù e dell’amicizia), ma, pur gareggiando in questo, non ci sono tra loro né accuse né
contese, perché
[10] nessuno si adira con chi lo ama e gli fa del bene, ma, se è di fine sentimento, lo
ricambia facendogli a sua volta del bene. E chi fa più bene, ottenendo ciò cui aspira, non può lamentarsi
dell’amico, giacché ciascuno desidera il bene. E neppure tra amici a causa del piacere ci sono contese:
infatti, ottengono entrambi insieme quello che desiderano, se il loro godimento sta nel vivere insieme:
sarebbe manifestamente ridicolo
[15] chi rimproverasse all’altro di non essere piacevole, dal momento che
ha la possibilità di non passare le sue giornate con quello.
Invece l’amicizia fondata sull’utilità può dar luogo ad accuse, perché qui gli amici sono in reciproca relazione
in vista di un vantaggio e chiedono sempre di più, e credono sempre di ricevere meno del dovuto, e
rinfacciano all’altro di non ottenere da lui tanto quanto chiedono, pur essendone meritevoli.
[20] E, d’altra
parte, coloro che fanno i benefici non possono soddisfare tutte le richieste di quelli che i benefici li ricevono.
272 ,
E sembra che, come la giustizia è di due specie, quella non scritta e quella secondo la legge positiva
anche dell’amicizia fondata sull’utile ci siano due specie, una morale e una legale. Orbene, le accuse
nascono soprattutto quando le amicizie non sono strette col medesimo tipo di rapporto secondo cui, poi,
273 . L’amicizia legale si fonda su patti espliciti ed è di due specie: quella
[25] sono messe in esecuzione
strettamente commerciale si realizza come scambio immediato da mano a mano, l’altra, più liberale,
concede del tempo, dopo aver stabilito la proporzione tra il prezzo e la merce. In quest’ultimo tipo di
rapporto il debito è chiaro e non equivoco, anzi c’ qualcosa di amichevole nella proroga del pagamento: è
per questo che presso certi popoli non c’ la possibilità di adire in giudizio per queste cose,
[30] ma si pensa
che coloro che stringono patti sulla fiducia debbano rassegnarsi al rischio.
L’amicizia morale, invece, non si fonda su un patto esplicito, ma, sia che si faccia un dono, sia che si renda
un qualsiasi altro servigio a qualcuno, glielo si fa in quanto amico: tuttavia, si pensa di meritare di ricevere
altrettanto o di più, come se non si fosse fatto un dono ma un prestito; e chi avrà stretto amicizia in modo
diverso da come questa sarà messa in esecuzione solleverà delle accuse. Questo succede
[35] per il fatto
che tutti, o i più, vogliono il bello, ma scelgono invece l’utile; e, d’altra parte, bello è fare il bene
[1163a]
senza avere di mira un contraccambio, mentre è utile ricevere dei benefici. Chi può, dunque, deve
contraccambiare il valore di ciò che ha ricevuto (non dobbiamo, infatti, farci uno amico contro la sua
volontà; quindi, bisogna comportarsi come se ci si fosse sbagliati all’inizio e si fosse ricevuto del bene da chi
non si sarebbe dovuto riceverlo, perché non era nostro amico né
[5] uno che lo facesse per il solo gusto di
donare; bisognerà, quindi, ripagare colui che ci ha beneficati, come se ci fosse stato un patto esplicito). E
l’accordo dovrebbe consistere nell’impegno di contraccambiare se si può: d’altra parte, neppure il
benefattore lo esigerebbe, se l’altro non può. Cosicché, se è possibile, bisogna contraccambiare. Fin dal
principio, però, bisogna badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per
sottostarvi o rifiutarle.
C’ poi la questione
[10] se si deve misurare il beneficio con
il vantaggio di chi lo riceve e proporzionare ad
esso il contraccambio, oppure se si deve commisurarlo alla benevolenza di chi lo fa. I beneficati, in effetti,
dicono di aver ricevuto dai benefattori cose che erano per questi ultimi di poco valore e che sarebbe stato
possibile ricevere da altri, minimizzandole; d’altra parte,
[15] i benefattori affermano, al contrario, di aver
donato i loro beni più grandi, e che non sarebbe stato possibile ricevere da altri che da loro, sia nel
momento del pericolo sia in simili situazioni di bisogno. Dunque, se l’amicizia ha per fondamento l’utile, non
si dovrà dire che la misura è il vantaggio di chi riceve? Questi è, infatti, colui che ha bisogno, e il
benefattore lo soccorre con l’intenzione di riceverne un vantaggio uguale. Quindi, l’aiuto è stato tanto
grande quanto il vantaggio di chi l’ha ricevuto,
[20] e, per conseguenza, si dovrà restituire al benefattore
tanto quanto se ne è ricevuto, o anche di più: è più bello. Al contrario, nelle amicizie fondate sulla virtù non
c’ luogo per accuse, ma ciò che funge da misura è la scelta del benefattore, perché l’elemento principale
274 .
della virtù e del carattere sta nella scelta
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII)
14. [L’amicizia fra disuguali].
Ci sono, poi, differenze anche nelle amicizie basate sulla superiorità:
[25] ciascuno dei due, infatti, pretende
di ottenere di più, ma quando questo succede, l’amicizia si scioglie. Chi è più buono, infatti, pensa che gli si
addica avere di più (giacché al buono si attribuisce di più); ma allo stesso modo pensa anche chi è più utile,
giacché si dice che chi è inutile non dovrebbe avere una parte uguale; ne deriverà, infatti, un servizio
gratuito e non un’amicizia,
[30] se i vantaggi tratti dall’amicizia non saranno rispondenti al valore dei
benefici fatti. Si pensa, infatti, che, come in una società finanziaria ricevono di più quelli che hanno
contribuito di più, così debba avvenire anche nell’amicizia. Ma chi è in condizioni di bisogno e di inferiorità
pensa il contrario, giacché è proprio dell’amico buono soccorrere nel bisogno: che vantaggio c’, dicono
infatti, [35] ad essere amico di un uomo di valore o di un potente, se non ci si può aspettare di ricavarne
qualcosa?
[1163b] Sembra, dunque, che ciascuno dei due abbia una giusta pretesa, e che ciascuno debba
ricavare dall’amicizia qualcosa più dell’altro, ma non della stessa cosa, bensì quello superiore più onore e
quello bisognoso più guadagno: infatti, premio della virtù e della beneficenza è l’onore, mentre soccorso
all’indigenza è il guadagno.
[5] Che le cose stiano così anche nelle costituzioni politiche è manifesto: infatti,
non si onora colui che non procura alcun bene alla comunità, giacché a chi benefica la comunità si dà ciò che
è comune, e l’onore è appunto bene comune. Infatti, non è possibile contemporaneamente arricchirsi a
spese della comunità e riceverne onori. Nessuno, infatti, sopporta di avere di meno in tutti i casi:
[10] per
conseguenza, a chi perde in ricchezza si attribuisce onore, e a chi ama ricevere si attribuisce ricchezza,
275 . È,
giacché l’attribuzione secondo il merito ristabilisce l’uguaglianza e salva l’amicizia, come s’ detto
dunque, in questo modo che devono regolare i loro rapporti gli amici disuguali, e bisogna che chi ha ricevuto
vantaggi in denaro o in virtù renda, in cambio, onore, restituendo quello che può.
[15] Infatti, ciò che
l’amicizia richiede è il contraccambio possibile, non quello che sarebbe adeguato al merito, giacché ciò non
sarebbe neppure possibile in tutti i casi, come nel caso degli onori da tributarsi agli dèi ed ai genitori:
nessuno, infatti, potrebbe mai rendere loro il contraccambio adeguato, ma chi li venera secondo le sue
possibilità è ritenuto uomo virtuoso. Per questo si riterrà che ad un figlio non è lecito ripudiare il padre,
mentre al padre è lecito ripudiare il figlio:
[20] questi, infatti, essendo in debito, deve contraccambiare, ma,
qualunque cosa un figlio faccia, non può fare nulla che uguagli il valore di ciò che ha ricevuto, cosicché
rimane sempre debitore. Ai creditori, invece, e quindi al padre, è lecito rimettere un debito. Nello stesso
tempo, però, si ritiene che nessuno ripudia un figlio se questi non è di una perversità eccessiva, giacché,
anche a prescindere dall’amicizia naturale, è umano non rifiutare l’assistenza a un figlio.
[25] Sarà, invece,
il figlio, se è malvagio, che potrà
evitare o non preoccuparsi molto di aiutare il padre: infatti, i più vogliono
ricevere del bene, ma evitano di farlo, perché non lo considerano vantaggioso. Quanto detto sull’argomento
sia sufficiente.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO IX
1. [II valore di scambio delle amicizie e nei contratti].
E’ la proporzione che pareggia le parti e salva l’amicizia in tutte le amicizie di tipo eterogeneo, come s’
detto 276 ; ad esempio, nell’amicizia politica il calzolaio riceve, in cambio delle scarpe, una remunerazione
[35] adeguata al valore, e così pure il tessitore e tutti gli altri artigiani.
[1164a] Ma, in quel caso, si è
277
apprestata come misura comune la moneta
, e, per conseguenza, tutto viene ad essa rapportato e con
essa misurato. Invece, nell’amicizia amorosa talora l’amante si lamenta che, pur amando moltissimo, non è
riamato, perché,
[5] in qualche caso, non ha nulla di amabile; ma spesso è l’amato a lamentarsi, perché
l’amante prima gli ha promesso di tutto, ora non mantiene nulla. Ma tali cose succedono quando l’uno ama
l’amato per il piacere, l’altro ama l’amante per l’utile, ma nessuno dei due ottiene ciò che desidera. Se
l’amicizia si fonda su questi motivi, la sua dissoluzione avviene
[10] quando non si producono gli effetti in
vista dei quali i due prima si amavano: non era, infatti, l’amico per se stesso che essi amavano, ma le
soddisfazioni che ne derivavano, e queste non sono permanenti; è per questo che non sono permanenti
neanche le amicizie. Invece, l’amicizia fondata sui caratteri, poiché sussiste per se stessa, è permanente,
278 . Sorgono, poi, contrasti quando essi ottengono cose diverse e non quelle che
come s’ detto
desideravano: è come non ottenere niente, infatti, quando
[15] non si ottiene ciò a cui si aspira, come è il
279
caso di quel tale
che promise ad un citaredo che la sua ricompensa sarebbe stata tanto maggiore quanto
meglio avesse cantato: al mattino, quando il citaredo reclamò il mantenimento delle promesse, l’altro gli
rispose di aver già dato piacere in cambio di piacere. Orbene, se fosse stato il piacere ciò che ciascuno dei
due voleva, sarebbe stato sufficiente: ma se uno vuole un godimento, l’altro un guadagno, e l’uno l’ottiene
[20] e l’altro no, le condizioni del loro reciproco accordo non saranno in tal modo soddisfatte, giacché ciò a
cui si è interessati è ciò di cui ci si trova ad aver bisogno, ed è per ottenerlo che si dà ciò che si ha. Ma a chi
spetta stabilire il valore, a chi dà o a chi riceve? In effetti, chi dà sembra che si rimetta a chi riceve. Il che,
280 : [25] quando insegnava qualcosa, invitava il discepolo a fare una stima
si dice, faceva anche Protagora
di quanto riteneva che valesse ciò che aveva imparato, e tanto prendeva. Ma in simili circostanze alcuni
281 .
approvano il detto "mercede all’uomo"
Ma quelli che prima prendono il denaro, e poi non fanno nulla di ciò che hanno promesso, perché le loro
promesse sono esagerate, è naturale
[30] che incorrano in accuse, perché non portano a termine ciò che
hanno concordato. Ma questo, forse, i Sofisti sono costretti a farlo, perché, se no, nessuno darebbe del
denaro per quello che essi sanno. Costoro, dunque, se non fanno ciò di cui hanno ricevuto la mercede,
incorrono in accuse. Ma nei casi in cui non c’ un accordo sulla remunerazione del servizio reso, coloro
[35]
282 , sono irreprensibili (di tal natura è, infatti, l’amicizia
che danno agli amici per loro stessi, come s’ detto
283 (giacché è
secondo virtù),
[1164b] e la ricompensa deve essere stabilita in conformità con la scelta
questa che è propria dell’amico e della virtù). E così sembra che ci si debba comportare anche nei rapporti
con chi ci mette a parte della filosofia, giacché il suo valore non si misura in denaro, né vi può essere un
onore che ne uguagli il valore, ma
[5] forse è sufficiente rendere ciò che si può, come si fa nei riguardi degli
dèi e dei genitori. Ma se il dono non ha questa natura, bensì ha uno scopo interessato, è certo che è
assolutamente necessario che il contraccambio sia ritenuto da ambo le parti adeguato al valore del servizio
reso; e se questo non avviene, non solo sarà ritenuto necessario che il valore lo stabilisca chi ha ricevuto
per primo,
[10] ma sarà anche giusto: se l’altro riceverà in compenso tanto quanto è stato l’utile o il piacere
ottenuto da costui, avrà da lui ricevuto il giusto contraccambio. Infatti, anche nelle merci in vendita è
manifesto che avviene così, anzi in certi luoghi vi sono delle leggi che proibiscono processi relativi a contratti
volontari, giacché si pensa che con colui al quale si è fatto credito ci si debba riconciliare
[15] nei termini
con cui si era concluso il contratto. Si pensa, infatti, che sia più giusto che il valore lo stabilisca colui di cui ci
si è fidati, che non colui che ha avuto fiducia. La maggior parte delle cose, infatti, non sono valutate allo
stesso prezzo da chi le possiede e da chi vuole ottenerle: a ciascuno appaiono di grande valore le cose
proprie e le cose che egli dà; ma, tuttavia, il contraccambio avviene al prezzo stabilito
[20] da chi acquista.
Ma certo bisogna valutare la cosa non al prezzo che appare adeguato quando la si ha, bensì al prezzo a cui
la si valuta prima di possederla.
2. [II dovere nei vari tipi di amicizia].
Anche quanto segue comporta un’aporia: per esempio, è al proprio padre che bisogna attribuire tutto ed
ubbidire in tutto, oppure, quando si è malati, è al medico che bisogna dar fiducia, e, quando c’ da eleggere
un generale, è l’uomo abile in guerra che si deve eleggere?
[25] Allo stesso modo, è all’amico, o piuttosto
all’uomo di valore che si devono rendere servigi? Bisogna dimostrare riconoscenza al benefattore, o,
piuttosto, fare un dono al camerata, quando non siano possibili insieme entrambe le cose? Non è forse vero
che non è facile definire con precisione tutte le questioni di questo tipo? Esse, infatti, presentano molte e
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
svariate differenze per grandezza, piccolezza, bellezza e
[30] necessità. Ma che non dobbiamo concedere
tutto alla medesima persona, è chiaro; e così pure che per lo più bisogna contraccambiare i benefici
piuttosto che fare dei piaceri ai camerati, come pure restituire un prestito a un creditore piuttosto che fare
un dono ad un camerata. Ma, certamente, neppure questo sempre. Per esempio: uno, che è stato liberato
dietro riscatto dai rapitori,
[35] deve a sua volta riscattare colui che l’ha liberato, chiunque egli sia, ovvero
[1165a] deve restituirgli il prezzo del riscatto, se quello lo richiede anche senza essere stato rapito, oppure
deve riscattare il proprio padre? Si
riconoscerà, infatti, che si deve riscattare il proprio padre piuttosto che
284 , in generale il debito va pagato, ma se il donare si presenta
se stessi, perfino. Come, dunque, s’ detto
superiore per nobiltà o per necessità, è verso questo che bisogna propendere.
[5] Talvolta, infatti, non è
neppure equo ricambiare chi ha beneficato per primo: ciò avviene quando, da una parte, c’ uno che
benefica chi egli sa che è uomo di valore, dall’altra, c’ uno il cui contraccambio andrebbe a chi egli ritiene
che sia malvagio. Talvolta, poi, non si è tenuti a fare un prestito neppure per ricambiare chi ce ne ha fatto
uno per primo: costui, infatti, ha fatto il prestito ad una persona onesta, nella convinzione di essere
rimborsato, mentre l’altro non ha speranza di essere rimborsato
[10] da un disonesto. Se, dunque, quello è
veramente disonesto, la sua pretesa di un prestito non è equa; se, invece, non è disonesto ma è creduto
tale, allora si riconoscerà che non si fa nulla di strano a rifiutare il prestito. Orbene, come s’ detto
spesso 285 , le teorie sulle passioni e sulle azioni hanno la medesima determinatezza degli oggetti su cui
vertono. Che, dunque, non si deve restituire a tutti le stesse cose,
[15] che non si deve concedere tutto
neppure al proprio padre, come neanche a Zeus si offrono tutti i sacrifici, è chiaro: ma, poiché diversi sono i
servigi dovuti ai genitori, ai fratelli, ai camerati, ai benefattori, bisogna attribuire a ciascuno quelli che gli
sono appropriati e confacenti. E così si fa, manifestamente: alle nozze si invitano i parenti, perché questi
hanno in comune la stirpe
[20] e, per conseguenza, tutte le azioni che la riguardano; anche ai funerali si
pensa che siano soprattutto i parenti che devono intervenire, per la medesima ragione. Si riconoscerà che i
figli devono soprattutto provvedere alla sussistenza dei genitori, poiché sono loro debitori, e perché è più
bello in queste cose provvedere agli autori della propria esistenza che a se stessi. Ai genitori, poi, bisogna
tributare onore come agli dèi,
[25] ma non ogni tipo di onore: al padre, infatti, non si deve lo stesso onore
che alla madre, né quello dovuto ad un sapiente o a un generale, bensì quello appropriato ad un padre, o,
rispettivamente, ad una madre. E ad ogni anziano si deve rendere l’onore dovuto all’età, con l’alzarsi, il
cedere il posto, e simili; ai camerati, invece, ed ai fratelli si deve concedere totale libertà di espressione e
[30] comunanza di tutti i beni. Ai parenti, ai membri della stessa tribù, ai concittadini e a tutti gli altri
bisogna sforzarsi di attribuire sempre ciò che è loro appropriato, e discernere ciò che si conviene a ciascuna
categoria di persone a seconda del grado di parentela, della virtù o dell’utilità. Orbene, il giudizio è facile
quando si tratta di persone della medesima categoria, ma è più laborioso quando si tratta di persone di
categorie diverse. Ma non
[35] per questo si deve rinunciarvi; bisogna, invece osservare le distinzioni
quanto si può.
3. [Rottura dell’amicizia].
C’, poi, anche un’aporia che riguarda lo sciogliersi o no dell’amicizia
[1165b] verso persone che non
restano le stesse. Non è forse vero che non è affatto strano che le amicizie fondate sull’utilità e sul piacere
si sciolgano, quando non si hanno più questi vantaggi? È di quei vantaggi, infatti, che si era amici: venuti
meno quelli, è naturale che non si ami più. Uno, poi, potrebbe lamentarsi,
[5] se uno, amando per l’utilità o
286 , la maggior
per il piacere, facesse finta di amare per il carattere. Come infatti abbiamo detto all’inizio
parte dei contrasti tra gli amici nascono quando non sono amici nel modo in cui credono di esserlo. Orbene,
quando uno si inganna e suppone di essere amato per il carattere, mentre l’altro non fa nulla di simile,
[10]
deve incolpare se stesso; quando, invece, resta ingannato dalla simulazione dell’altro, è giusto che accusi
l’ingannatore, ancor più che se fosse un falsificatore di moneta, nella misura in cui l’oggetto della sua frode
è più prezioso. Ma quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta
malvagio e ce se ne accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che non è possibile, dal
momento che non ogni cosa è amabile,
[15] ma solo ciò che è buono? E, poi, l’uomo malvagio non è degno
di essere amato, e non si deve amarlo. Infatti, non bisogna essere amanti del vizio, né rendersi simili al
287 che il simile è amico del simile. Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è
cattivo: si è poi detto
forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre
quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli ad emendare il carattere,
[20] più che non a
ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Tuttavia, si ammetterà
che chi scioglie l’amicizia in questo caso non fa nulla di strano; infatti, non è di un uomo di tal fatta che era
amico; quindi, non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa. E se, d’altra
parte, rimane come è mentre l’altro diventa più virtuoso e cambia molto dal punto di vista della virtù, deve
ancora trattare il primo come amico? Non bisogna forse riconoscere che è impossibile?
[25] Quando la
distanza tra i due diventa grande, questo risulta particolarmente evidente, come nel caso delle amicizie
strette nell’infanzia: se, infatti, uno rimane fanciullo nel ragionamento mentre l’altro è già un uomo maturo,
come potrebbero essere amici, dal momento che ad essi non piacciono più le stesse cose e non provano più
le stesse gioie e gli stessi dolori? Infatti, non hanno più l’uno per l’altro questi sentimenti,
[30] e senza di
288 , non possono essere amici, giacché non è loro più possibile vivere insieme. Ma di
essi, come dicevamo
289 . Orbene, in tal caso, ci si deve comportare con l’altro non diversamente da come
questo si è già parlato
ci si comporterebbe se non fosse mai stato amico? Non si deve forse mantenere il ricordo della passata
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
intimità, e, come pensiamo che si debba far piacere più agli amici che agli estranei, così
forse concedere qualche riguardo a coloro che amici sono stati, in ragione proprio della passata amicizia,
quando la rottura non è risultata da un eccesso di perversità?
[35] non si deve
4. [I sentimenti dell’uomo verso se stesso e verso gli amici].
[1166a] I sentimenti di amicizia verso il prossimo, ed in base ai quali si definiscono le amicizie, sembrano
derivare dai sentimenti che l’uomo ha verso se stesso. Infatti, definiscono amico chi vuole e fa il bene o ciò
che gli appare tale per l’amico in se stesso, o chi vuole che l’amico esista e
[5] viva per amore dell’amico
stesso: è questo il sentimento che provano le madri per i figli, e gli amici che hanno avuto dei dissapori.
Altri definiscono amico chi passa la sua vita con un altro ed ha i suoi stessi gusti, o chi prova dolori e gioie
insieme con il suo amico: e questo succede soprattutto nel caso delle madri. Ed è con uno di questi elementi
che [10] definiscono anche l’amicizia. Ciascuno di questi sentimenti l’uomo virtuoso lo prova verso se stesso
290 , misura di ciascun tipo
(e anche gli altri in quanto suppongono di essere virtuosi: ma, come s’ detto
d’uomo sembrano essere la virtù e l’uomo di valore). L’uomo virtuoso, infatti, concorda con se stesso, e
desidera sempre le stesse cose con tutta l’anima. E, quindi, vuole
[15] per se stesso ciò che è bene e tale gli
appare, e lo fa (giacché è proprio dell’uomo buono praticare il bene in continuità) e a vantaggio di se stesso
291 che è in lui, elemento che si ritiene che costituisca ciascuno di noi):
(a beneficio dell’elemento intellettivo
e vuole vivere e conservarsi, e che viva e si conservi soprattutto la parte con cui
[20] pensa. Infatti, per
l’uomo di valore è un bene esistere, e ciascuno vuole per sé il bene, ma nessuno sceglie di avere tutto a
292 ), ma rimanendo ciò che è: e si
condizione di diventare un altro (giacché anche ora Dio possiede il bene
ammetterà che ciascuno è, o è soprattutto, la sua parte pensante. L’uomo virtuoso, inoltre, vuole passare la
vita con se stesso, giacché ciò gli fa piacere: infatti,
[25] il ricordo delle azioni che ha compiuto gli è gradito,
e le sue aspettative per il futuro sono buone, e le buone aspettative sono piacevoli. E la sua mente abbonda
di oggetti da meditare. Inoltre, egli prova dolori e gioie soprattutto con se stesso: ogni volta, infatti, è la
stessa cosa che gli procura dolore e piacere, e non una volta l’una, una volta l’altra, perché, per così dire,
non si pente mai. Quindi, è perché il virtuoso prova
[30] verso se stesso ciascuno di questi sentimenti, e
perché li prova verso l’amico come verso se stesso (l’amico, infatti, è un altro se stesso), che si pensa che
l’amicizia sia un sentimento di questi, cioè che gli amici siano quelli che provano questi sentimenti. Si lasci
293 ; in base a quello che abbiamo
perdere per il momento se è o non è possibile amicizia verso se stessi
detto, si ammetterà, d’altra parte,
[35] che l’amicizia sussiste in quanto ci sono due o più termini,
[1166b]
che il livello più alto dell’amicizia è simile all’amicizia verso se stessi.
Quello che abbiamo detto, poi, capita manifestamente anche alla massa degli uomini, anche se sono viziosi.
Si può, quindi, dire che essi partecipano di questi sentimenti nella misura in cui compiacciono a se stessi e si
ritengono virtuosi?
[5] È certo che nessuno che sia completamente malvagio ed empio ne partecipa,
neppure apparentemente. Quasi quasi, neppure negli uomini malvagi in generale si trovano tali sentimenti.
Essi, infatti, sono discordi con se stessi, e desiderano cose diverse da quelle che in realtà vogliono, come gli
incontinenti: scelgono, infatti, al posto delle cose che essi ritengono buone per loro, quelle piacevoli, che in
realtà [10] sono dannose; altri, a loro volta, per viltà e pigrizia si astengono dal compiere le azioni che pur
pensano essere le migliori per loro. Quelli, poi, che hanno compiuto molti terribili crimini e che sono odiati
per la loro perversità, fuggono la vita e si uccidono. I malvagi cercano persone con cui passare il loro tempo,
ma fuggono se stessi,
[15] giacché si ricordano delle loro molte cattive azioni, anzi prevedono che ne
commetteranno altre di simili, se rimangono soli con se stessi, ma se ne dimenticano se sono in compagnia
d’altri. Non avendo nulla di amabile, non provano alcun sentimento amorevole verso se stessi. Uomini simili,
poi, non provano gioie e dolori in unità con se stessi, perché nella loro anima c’ la guerra civile,
[20] e una
parte, per la sua perversità, soffre quando si astiene da certe azioni, mentre l’altra ne gode, e una parte tira
in un senso, l’altra in un altro, come per farli a pezzi. E se non proprio nello stesso tempo, perché non è
possibile soffrire e godere nello stesso tempo, ma almeno poco tempo dopo soffre perché ha goduto, e
vorrebbe che non gli fossero risultate piacevoli le cose di cui ha goduto:
[25] i malvagi, infatti, sono pieni di
pentimento. L’uomo malvagio, quindi, manifestamente, non ha disposizioni amichevoli neppure verso se
stesso, per il fatto che non ha nulla di amabile. Se, quindi, questo stato d’animo è troppo miserando,
bisogna fuggire con tutte le proprie forze la malvagità e sforzarsi di essere virtuosi; così, infatti, si potrà
essere amichevolmente disposti verso se stessi e diventare amici di altri.
5. [La benevolenza].
[30] La benevolenza assomiglia ad un sentimento di amicizia, ma non è amicizia: la benevolenza, infatti,
può nascere anche verso chi non si conosce, e può rimanere nascosta, ma l’amicizia no. Questo si è detto
anche prima 294 . Ma non è neppure una affezione. Infatti, non ha né tensione né desiderio, mentre
l’affezione implica queste cose; e l’affezione si accompagna con l’intimità,
[35] mentre la benevolenza nasce
anche all’improvviso, come, per esempio, succede, anche nei riguardi degli atleti in gara:
[1167a] si
diventa, infatti, benevoli nei loro riguardi e si fanno propri i loro desideri, ma non si condivide con loro
alcuna azione; come abbiamo detto, si diventa benevoli all’improvviso e si ama superficialmente. Quindi, la
benevolenza sembra essere il principio dell’amicizia, come il principio dell’amore è il piacere derivante dalla
vista: [5] nessuno ama, infatti, se prima non ha provato piacere per l’aspetto dell’altro, ma chi gode
dell’aspetto di un altro non è detto che necessariamente ami; ciò avviene, invece, quando ne sente la
e
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
mancanza, se è lontano, e ne desidera la presenza. Così pure, dunque, non è possibile essere amici se non
si è cominciato a provare della benevolenza, mentre provare benevolenza non significa ancora amare,
giacché si vuole soltanto il bene di coloro verso cui si è benevoli, ma non si agirebbe insieme con loro,
né ci si darebbe da fare per loro. Perciò, metaforicamente, si potrà dire che essa è una amicizia
improduttiva, ma se dura nel tempo e giunge all’intimità diventa amicizia, ma non quella fondata sull’utilità
né quella fondata sul piacere, giacché neppure la benevolenza si fonda su di essi. Infatti, colui che ha
ricevuto un
beneficio [15] offre la sua benevolenza in cambio di ciò che ha ricevuto, e fa ciò che è giusto;
ma chi vuole la buona riuscita di un altro, nella speranza di ricavarne gran vantaggio, non sembra che abbia
della benevolenza per quella persona, ma piuttosto per se stesso, come pure non è suo amico, se gli è
devoto per qualche motivo interessato. Insomma, la benevolenza sorge per la virtù e per un certo valore,
quando una persona appaia ad un’altra
[20] nobile o coraggiosa o qualcosa di simile, come abbiamo detto
anche a proposito degli atleti in gara.
[10]
6. [La concordia].
Anche la concordia è, manifestamente, un sentimento di amicizia. È per questo che la concordia non è
identità di opinioni: questa, infatti, può esserci anche tra uomini che non si conoscono fra di loro. Né si dice
che sono concordi uomini che la pensano alla stessa maniera su un argomento qualsiasi,
[25] per esempio
sui fenomeni celesti (giacché non è un fatto di amicizia l’essere concordi su queste cose), ma si dice che
nelle città vi è concordia quando i cittadini la pensano alla stessa maniera a proposito dei loro interessi, e
scelgono e mettono in pratica le stesse cose, quelle che hanno comunitariamente giudicate opportune. Sono
concordi, quindi, sulle cose da farsi, almeno su quelle importanti e che possono soddisfare
[30] le due parti
o tutte le parti interessate. Per esempio, le città si dicono concordi quando tutti i cittadini ritengono
295 eserciti il potere per
opportuno che le cariche siano elettive, o che ci si allei con gli Spartani, o che Pittaco
tutto il tempo che anch’egli lo voglia. Ma quando, di due rivali, ciascuno vuol essere lui ad esercitare il
potere, come i due nelle
Fenicie 296 , allora c’ la guerra civile: infatti, essere concordi non significa che l’uno
e l’altro intendano la stessa cosa, qualunque essa sia;
[35] si è bensì concordi quando l’uno e l’altro
intendono che sia la stessa persona ad avere la stessa cosa, per esempio, quando sia il popolo
[1167b] sia
la classe dirigente vogliono che siano i migliori a detenere il potere: in questo modo, infatti, tutti ottengono
quello cui aspirano. Quindi, la concordia è manifestamente un’amicizia politica, come pure si dice
comunemente, giacché riguarda gli interessi e ciò che serve a vivere. Tale concordia si trova
[5] nella classe
dirigente: i suoi appartenenti, infatti, sono concordi sia ciascuno con se stesso, sia gli uni con gli altri,
poiché, per così dire, si tengono sul medesimo terreno (le volontà di tali uomini sono stabili e non rifluiscono
297 ), vogliono le cose giuste e vantaggiose, e a queste tendono anche come
continuamente come l’Euripo
comunità. Gli uomini cattivi non sono in grado di essere concordi,
[10] come anche di essere amici, se non
per poco, perché tendono a prendersi di più degli altri, quando si tratta di vantaggi, ma a tenersi indietro
quando si tratta di fatiche e di servizi pubblici. Poiché ciascuno vuole per sé questi vantaggi, spia il prossimo
e lo ostacola: e quando i cittadini non se ne curano, il bene comune va in rovina. Succede, quindi, che tra di
loro nasce la guerra civile,
[15] perché cercano di costringere gli uni gli altri a fare ciò che è giusto, mentre
essi stessi non vogliono farlo.
7. [Benefattori e beneficati].
Si ritiene che i benefattori amino i beneficati più di quanto coloro che hanno ricevuto del bene amino coloro
che l’hanno fatto, e, poiché, ciò accade contro ragione, se ne cerca il motivo. Orbene, per la maggior parte
degli uomini è manifesto
[20] che il motivo è che gli uni sono debitori e gli altri creditori: come, dunque, nel
caso dei prestiti i debitori vorrebbero che non esistessero i creditori, mentre coloro che hanno concesso il
prestito si preoccupano anche della sopravvivenza dei debitori, così anche i benefattori vogliono che
esistano i loro beneficati per riceverne la riconoscenza,
[25] mentre a questi non importa affatto pagare il
298 , probabilmente, affermerebbe che essi dicono così "perché guardano le
proprio debito. Orbene, Epicarmo
cose dal lato cattivo", ma ciò sembra umano, giacché i più hanno poca memoria e aspirano a ricevere
benefici piuttosto che a farne. Ma si ammetterà che la causa di ciò si trova piuttosto a livello generale di
natura, e che non è la stessa cosa che
[30] nel caso del prestito. Nel caso loro, infatti, non c’ nessuna
affezione, ma solo il desiderio che il debitore si conservi per recuperare il prestito. Invece, coloro che fanno
del bene amano, anzi amano profondamente i loro beneficati, anche se questi non sono loro di alcuna utilità
né potranno esserlo in futuro. E questo succede anche nel caso degli artisti: ognuno, infatti, ama
profondamente la propria opera,
[35] più di quanto sarebbe amato dall’opera stessa se questa diventasse
un essere animato.
[1168a] E questo succede soprattutto nel caso dei poeti: essi amano fin troppo
profondamente le proprie composizioni, volendo loro bene come a dei figli. È quindi ad un caso simile che
assomiglia quello dei benefattori: l’essere che ha ricevuto benefici da loro è una loro opera: per
conseguenza, l’amano di più
[5] di quanto l’opera non ami chi l’ha fatta. La causa di ciò sta nel fatto che
l’esistere è per tutti meritevole di scelta e di amore, e noi esistiamo in virtù di un’attività (in virtù, cioè, del
vivere e dell’agire), e chi ha fatto l’opera in certo qual modo esiste in virtù della sua attività: ama, quindi, la
sua opera, perché ama la propria esistenza. E questo è naturale: infatti, ciò che è in potenza, l’opera lo
rivela in atto. E, nello stesso tempo,
[10] per il benefattore ciò che deriva dalla sua azione è bello, cosicché
egli gode di colui in cui questa si compie, mentre per chi riceve non c’ nulla di bello in chi gli ha fatto il
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
beneficio, ma, se mai, qualcosa di utile: e questo è meno piacevole ed amabile. E, poi, ciò che piace del
presente è l’attività, del futuro la speranza, del passato il ricordo: ma ciò che piace di più
[15] e di più si
ama, è l’attività. Ora, per chi ha fatto del bene, l’opera rimane (giacché il bello dura molto tempo), ma per
chi l’ha ricevuto, l’utilità passa. E il ricordo delle cose belle è piacevole, mentre quello delle cose utili non lo
è affatto, o lo è meno; quanto all’attesa, sembra che avvenga il contrario. E l’amare assomiglia ad un fare,
299 , a chi è superiore nell’azione si accompagnano
l’essere amati
[20] ad un subire: per conseguenza
naturalmente l’amore ed i sentimenti di amicizia. Inoltre, tutti gli uomini amano di più ciò che hanno
ottenuto con fatica: per esempio, coloro che hanno personalmente conquistato la ricchezza l’amano di più di
quelli che l’hanno ereditata; ma si riconosce che ricevere del bene non costa fatica, mentre farlo comporta
uno sforzo. Per queste ragioni,
[25] anche, sono le madri che amano di più i figli: la generazione, infatti, è
per loro più faticosa e dolorosa, ed esse sanno meglio che i figli sono loro. Si ammetterà che questo
sentimento è proprio anche dei benefattori.
8. [L’amore per se stessi].
C’, poi, un’altra questione: si deve amare soprattutto se stessi o un’altra persona? Infatti, coloro che
amano soprattutto se stessi sono biasimati
[30] e sono chiamati, in senso dispregiativo, egoisti, e si ritiene
comunemente che l’uomo malvagio faccia tutto nell’interesse di se stesso, e tanto più quanto più è perverso
300 da sé). L’uomo virtuoso, invece, agisce per la
(e perciò lo accusano, per esempio, di non far nulla
bellezza morale, e tanto più per la bellezza quanto più è virtuoso, e a favore dell’amico,
[35] mentre
trascura il proprio interesse. Ma con queste teorie contrastano i fatti,
[1168b] e non senza ragione. Dicono,
infatti, che bisogna amare più di tutto chi è più di tutti amico, ed è amico più di tutti chi, quando vuole il
bene di qualcuno, lo vuole proprio per lui, anche se nessuno lo verrà a sapere: ma questi sentimenti si
incontrano soprattutto nel rapporto dell’uomo con se stesso, e, quindi, anche tutte le altre caratteristiche
301 , infatti, che tutti i sentimenti d’amicizia hanno
[5] in base alle quali si definisce l’amico. S’ già detto
origine dall’uomo e poi si estendono agli altri. Ma anche i proverbi sono tutti della stessa opinione: per
esempio, "un’anima sola", "le cose degli amici sono comuni", "amicizia è uguaglianza", "il ginocchio è più
vicino della gamba". Tutto questo, infatti, si applica soprattutto al rapporto con se stessi, giacché
[10] si è
amici soprattutto di se stessi: per conseguenza, si deve anche amare soprattutto se stessi. Sorge, quindi,
naturalmente il problema di decidere quale delle due correnti bisogna seguire, dal momento che entrambe
hanno qualcosa di plausibile.
Orbene, si devono certamente distinguere tali teorie le une dalle altre e determinare fino a che punto ed in
che senso le une e le altre colgono la verità. Se, dunque, riusciamo ad afferrare in che senso gli uni e gli
altri intendono il termine "egoista", forse ciò diventerebbe chiaro.
[15] Orbene, quelli che usano il termine in
senso ingiurioso chiamano egoisti coloro che attribuiscono a se stessi la parte maggiore in fatto di ricchezza,
di onori e di piaceri corporali: queste sono, infatti, le cose che i più desiderano e per le quali si danno da
fare, considerandole beni supremi, ragion per cui ci sono anche delle contese. Quindi, quelli che se ne
prendono una parte più grande indulgono
[20] ai desideri ed in genere alle passioni, cioè all’elemento
irrazionale dell’anima. Tale è la maggior parte degli uomini; ed è per questo che l’appellativo di "egoista"
deriva dalla massa, che è cattiva: è quindi giusto che quelli che sono egoisti in questo modo vengano
biasimati. Che poi sia la massa che è solita chiamare egoisti quelli che attribuiscono le cose suddette a se
stessi, è chiaro;
[25] se, infatti, uno si sforza sempre di compiere azioni giuste, lui più di ogni altro, oppure
azioni temperanti o qualunque altro tipo di azione conforme alle virtù, ed in genere riserva sempre a sé ciò
che è bello, nessuno lo chiamerà egoista né lo biasimerà.
Ma si riconoscerà che un tale uomo è "egoista" più dell’altro: in ogni caso, attribuisce sempre a sé le cose
più belle [30] e i beni più autentici, e compiace alla parte più autorevole di se stesso, e le ubbidisce in tutto:
ma come anche una città, ed ogni altro organismo, si pensa che sia soprattutto la sua parte più autorevole,
così anche l’uomo; e, quindi, è "egoista" soprattutto chi ama questa sua parte e le compiace. Ed il
continente e l’incontinente prendono il nome
[35] dal fatto che l’intelletto sia dominante oppure no, perché
302 : [1169a]
si intende che ciascuno è il suo intelletto
e si ritiene che siamo stati proprio noi a fare, cioè che
abbiamo fatto volontariamente, soprattutto le azioni accompagnate da ragione. Che dunque ciascuno è, o è
soprattutto, questa parte, è chiaro, ed è chiaro che l’uomo virtuoso ama soprattutto questa parte di sé.
Perciò sarà lui l’autentico "egoista", ma di una specie diversa da quella di colui che viene biasimato, ed è
tanto differente
[5] da quello quanto il vivere secondo ragione lo è dal vivere secondo passione, e quanto
desiderare ciò che è bello differisce dal desiderare ciò che si ritiene utile. Orbene, quelli che si danno
particolarmente da fare per le azioni belle, tutti li approvano e li lodano: e se tutti gareggiassero per ciò che
è moralmente bello e si sforzassero di compiere le azioni più belle, dal punto di vista della comunità,
[10]
tutto sarebbe come dovrebbe essere, e, dal punto di vista privato, ciascuno avrebbe i beni più grandi, se è
vero, come è vero, che la virtù è un bene.
Cosicché l’uomo buono deve essere "egoista" (e, infatti, se compirà buone azioni, trarrà vantaggio lui stesso
e gioverà agli altri); ma non deve esserlo il malvagio, giacché danneggerà se stesso ed il prossimo, perché
segue passioni cattive.
[15] Nell’uomo malvagio c’ dunque disaccordo tra ciò che deve fare e ciò che fa;
l’uomo virtuoso, invece, fa quello che deve fare: ogni intelletto, infatti, sceglie ciò che per lui è la cosa
migliore, e l’uomo virtuoso ubbidisce al suo intelletto. Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte
azioni in favore dei suoi amici e della patria, anche se dovesse
[20] morire per loro: egli, infatti, lascerà
ricchezza, onori ed in genere i beni che sono oggetto di contesa, riservando a se stesso ciò che è bello.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
Preferirà, infatti, godere intensamente per poco tempo piuttosto che debolmente per molto, e vivere in
bellezza un solo anno piuttosto che molti anni in qualche modo, e compiere una sola grande e bella azione
piuttosto che molte
[25] piccole azioni. Certo, è questo risultato che ottengono coloro che sacrificano la
propria vita: ciò che scelgono per sé è, quindi, qualcosa di grande e di bello. E darebbero la loro ricchezza
purché gli amici ne acquistassero una più grande, giacché l’amico ottiene ricchezza, e lui ciò che è bello: per
conseguenza, il bene più grande lo attribuisce a sé. E per quanto riguarda onori e cariche
[30] è la stessa
cosa: li lascerà, infatti, tutti all’amico; questo è bello per lui e degno di lode. Per conseguenza, è giusto che
sia giudicato uomo di valore, dal momento che preferisce ciò che è bello ad ogni altra cosa. Ed è possibile
che egli lasci all’amico anche le azioni, e può essere più bello per lui offrire all’amico l’occasione di agire,
piuttosto che agire lui stesso. Quindi, in tutte le cose
[35] degne di lode l’uomo di valore, manifestamente,
attribuisce a se stesso la parte maggiore di ciò che è bello.
[1169b] In questo modo, dunque, si deve essere
"egoisti", come s’ detto: ma non bisogna esserlo come lo è la massa.
9. [Anche l’uomo felice ha bisogno di amici].
Si discute, poi, anche se l’uomo felice abbia bisogno di amici, oppure no. Si dice, infatti, che gli uomini felici
[5] ed autosufficienti non hanno per niente bisogno di amici, perché essi possiedono il bene: essendo,
quindi, autosufficienti, non hanno bisogno di nessuno, mentre l’amico, essendo un altro se stesso, fornisce
ciò che un uomo non può ottenere da sé. Di qui il detto: "quando la fortuna è favorevole, che bisogno c’ di
amici" 303 . D’altra parte, sembra assurdo attribuire all’uomo felice tutti i beni e non attribuirgli gli amici, il
che [10] è generalmente ritenuto il più grande dei beni esteriori. Ma se è proprio dell’amico fare piuttosto
che ricevere il bene, e se è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare, ed è più bello fare del bene
ad amici che ad estranei, l’uomo di valore avrà bisogno di persone che ricevono i suoi benefici. È per questo
che ci si chiede anche se è nella buona o nella cattiva sorte che si ha più bisogno di amici,
[15] perché si
pensa che chi si trova in cattive acque ha bisogno di chi gli faccia del bene, e che coloro che sono nella
prosperità hanno bisogno di persone cui fare del bene. Ma è certo assurdo fare dell’uomo felice un solitario:
nessuno, infatti, sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo, infatti, è un
essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri. Questa caratteristica, quindi, appartiene
anche all’uomo felice: egli, infatti,
[20] possiede le cose che sono buone per natura, ed è chiaro che è
meglio passare le proprie giornate insieme con amici e con persone virtuose, piuttosto che con estranei e
con i primi che capitano. L’uomo felice, dunque, ha bisogno di amici.
Che cosa, dunque, intendono dire i sostenitori della prima opinione ed in che modo colgono la verità? Non
intendono forse dire che la massa considera amici quelli che sono utili? Orbene, l’uomo beato non avrà
affatto bisogno di amici utili,
[25] dal momento che i beni li ha già; per conseguenza, non avrà bisogno degli
amici neppure per ricavarne piacere, oppure poco (essendo, infatti, la sua vita già piacevole, non ha affatto
bisogno di un piacere aggiunto dall’esterno); ma poiché non ha bisogno di simili amici, si pensa che non
304 che la felicità
abbia bisogno di amici affatto. Il che certamente non è vero. All’inizio, infatti, si è detto
consiste in un’attività, ma è chiaro che l’attività
[30] è un divenire e non è come un possesso stabile. Ma se
l’essere felici consiste nel vivere e nell’esercitare una certa attività, e l’attività dell’uomo buono ha valore ed
305 , se anche ciò che ci è proprio ci fa piacere
306 , e se noi
è piacevole per se stessa, come s’ detto all’inizio
possiamo contemplare coloro che ci stanno vicini meglio che noi stessi, e le loro azioni meglio
[35] che non
le nostre, se le azioni degli uomini di valore che ci sono amici
[1170a] sono piacevoli per gli uomini buoni
307
che sono piacevoli per natura), allora l’uomo felice avrà
(giacché posseggono insieme entrambe le qualità
bisogno di tali amici, se è vero che desidera più di tutto contemplare azioni virtuose e che gli sono proprie, e
se e vero che tali sono le azioni dell’uomo buono che gli è amico.
Si pensa, inoltre, che l’uomo felice debba vivere piacevolmente.
[5] Orbene, per l’uomo solitario la vita è
difficile, perché non è facile esercitare un’attività in continuazione da soli, ma è più facile farlo in compagnia
di altri ed in rapporto ad altri. L’attività sarà, dunque, più continua, essendo di per sé piacevole, come deve
essere per l’uomo felice. L’uomo di valore, infatti, in quanto è uomo di valore, gode delle azioni conformi a
virtù, mentre soffre per le azioni derivanti dal vizio,
[10] come il musico gode delle belle melodie, ma prova
pena per quelle cattive. E dalla vita in compagnia con gli uomini buoni può derivare pure un certo esercizio
308 . Se si guarda più a fondo nella natura, sembra proprio che l’amico
della virtù, come dice anche Teognide
309 , infatti, che ciò che è buono
di valore sia per natura desiderabile per un uomo di valore.
[15] S’ detto
310 , poi, viene definita, nel caso
per natura risulta per se stesso buono e piacevole all’uomo di valore. La vita
degli animali, con la capacità della sensazione, nel caso degli uomini con quella della sensazione o del
pensiero: ma la potenza si definisce in riferimento all’atto, e l’essenziale sta nell’atto: per conseguenza, il
vivere sembra consistere essenzialmente nel sentire o nel pensare. Ma il vivere è
[20] una cosa buona e
piacevole per sé, perché è un che di determinato, e ciò che è determinato ha la stessa natura del bene: ma
ciò che è buono per natura lo è anche per l’uomo virtuoso, e perciò sembra piacevole a tutti. Ma non si deve
prendere in considerazione una vita perversa e corrotta, né una vita immersa nel dolore, giacché tale vita è
indeterminata, come lo sono i suoi attributi.
[25] Nella trattazione successiva si farà maggior chiarezza sulla
311 . Se l’atto stesso del vivere è buono e piacevole (sembra che sia così anche dal fatto che
natura del dolore
tutti lo desiderano, e soprattutto gli uomini virtuosi e beati; per questi, infatti, la vita è sommamente
desiderabile, e la loro vita è la più beata); se chi vede ha coscienza di vedere e chi ode ha coscienza di
udire, [30] e chi cammina di camminare, e se allo stesso modo negli altri casi c’ qualcosa che ha coscienza
che noi siamo attivi, cosicché noi abbiamo coscienza di sentire, se sentiamo, e di pensare, se pensiamo, ed
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
aver coscienza di sentire o di pensare significa aver coscienza di esistere (giacché l’esistere, come abbiamo
detto, significa sentire o pensare);
[1170b] se l’aver coscienza di vivere è piacevole per se stesso (la vita,
infatti, è un bene per natura, ed avere coscienza del bene presente in noi è piacevole); se la vita è
desiderabile, e lo è soprattutto per gli uomini buoni, perché per loro esistere è cosa buona e piacevole
(giacché prendere coscienza
[5] di ciò che è buono per sé dà loro godimento); se l’uomo di valore è
disposto nei riguardi degli amici come verso se stesso (giacché l’amico è un altro se stesso): se è vero tutto
questo, come la propria esistenza è per ciascuno desiderabile, cosi, o pressappoco, lo è anche quella
dell’amico.
Dicevamo che l’esistere è desiderabile per il fatto che si ha coscienza di essere buoni, e tale
è piacevole per se stessa. Dunque, bisogna prendere coscienza, oltre che della nostra esistenza, anche di
quella dell’amico, e questo può verificarsi se si vive insieme, cioè se si ha comunione di discorsi e di
pensiero: in questo, infatti, si ammetterà che consiste il vivere insieme, nel caso degli uomini, e non, come
nel caso delle bestie, nel prendere il cibo nello stesso luogo. Se, quindi, per l’uomo beato l’esistenza
desiderabile per se stessa, in quanto è cosa buona e piacevole per natura, e se lo è in modo pressoché
uguale anche quella dell’amico, anche l’amico sarà desiderabile. E ciò che per lui è desiderabile, bisogna che
lo abbia, se no, da questo punto di vista, egli risulterà manchevole. Per essere felici, dunque, ci sarà
bisogno di amici di valore.
[10] coscienza
[15] è
10. [Il numero degli amici].
[20] In conclusione, dobbiamo farci il più gran numero possibile di amici, ovvero, come nel caso
dell’ospitalità, si ritiene che sia stato giudiziosamente detto "non un uomo dai molti ospiti, né un uomo
312 , e si adatterà anche al caso dell’amicizia il consiglio di non essere senza amici né averne in
senza ospiti"
numero eccessivo? Si riconoscerà certo che questo detto si adatta molto bene a coloro che sono amici in
vista di un’utilità,
[25] giacché contraccambiare servigi a molti è assai faticoso, e per farlo non basta la vita
intera. Quindi, amici in numero superiore a quanti bastano alla nostra vita sono superflui e sono d’ostacolo
al viver bene: non c’, dunque, alcun bisogno di loro. Anche di quelli che sono amici in vista del piacere ne
bastano pochi, come il condimento nel cibo. Ma quanto agli amici di valore, bisogna averne
[30] nel più gran
numero possibile, o c’ una misura determinata anche per la quantità degli amici come per quella degli
313 Infatti, non si potrà fare una città con dieci uomini, e con centomila non è più una
abitanti di una città?
città: ma certo la loro quantità non è data da un singolo numero determinato, bensì da un numero qualsiasi
entro certi limiti. Anche il numero degli amici,
[1171a] per conseguenza, è compreso entro certi limiti, e
certamente saranno al massimo tanti con quanti è possibile vivere insieme (giacché questa, abbiamo detto,
si ritiene la cosa più tipica dell’amicizia); ma è evidente che non è possibile vivere insieme con molti e
dividersi tra di loro. Inoltre, anche quelli devono essere amici gli uni degli altri, se hanno intenzione
[5] di
trascorrere le loro giornate tutti insieme in compagnia: ed è laborioso realizzare ciò tra molte persone. Ma è
difficile anche gioire e soffrire insieme con molte persone con familiarità, giacché è naturale che capiti nello
stesso tempo di condividere la gioia dell’uno ed il cordoglio dell’altro. Dunque, è certo bene non cercare di
avere un gran numero di amici, ma soltanto quanti
[10] bastano per vivere insieme: si ammetterà, infatti,
che non è possibile essere molto amici di numerose persone. È per questo che non è possibile amare più
persone alla volta: l’amore, infatti, vuol essere una specie di amicizia portata all’eccesso, ma questo avviene
nei riguardi di una sola persona: dunque, anche l’amicizia profonda può essere rivolta solo a poche persone.
Sembra che le cose stiano così anche nei fatti, giacché non si diventa amici in molti, quando si tratta di
un’amicizia tra camerati,
[15] e le amicizie cantate dai poeti sono amicizie tra due persone. Ma coloro che
hanno molti amici e trattano tutti con familiarità si ritiene che non siano amici di nessuno (a meno che non
si tratti di amicizia tra concittadini), e ad essi si dà il nome di compiacenti. Se si tratta, dunque, di rapporti
tra concittadini è possibile essere amici di molte persone, senza essere compiacenti, ma veramente virtuosi:
ma un’amicizia che si fondi sulla virtù e sulle qualità della persona non è possibile che si rivolga
[20] a
molti, e bisogna contentarsi di trovarne anche pochi di amici simili.
11. [Gli amici sono desiderabili in tutte le circostanze].
C’ più bisogno di amici nella buona o nella cattiva sorte? Si ricercano amici, infatti, in entrambe le
situazioni: coloro che si trovano nelle avversità hanno bisogno di aiuto, e gli uomini fortunati hanno bisogno
di persone con cui vivere ed alle quali fare del bene, dal momento che essi vogliono fare del bene. Dunque,
l’amicizia è più necessaria
[25] nelle avversità, ed è perciò che si ha bisogno, allora, di amici utili, ma è più
bella nella buona sorte, ed è perciò che allora si cercano amici virtuosi, giacché è preferibile beneficare
uomini virtuosi e vivere in loro compagnia. Infatti, anche la presenza stessa degli amici è piacevole sia nella
buona sia nella cattiva sorte. Infatti, quando si soffre, si resta sollevati
[30] se gli amici soffrono con noi.
Perciò, si potrebbe porre la questione se ciò accade perché, per così dire, gli amici prendono su di sé una
parte del nostro fardello, oppure non per questo, ma perché la loro presenza, che è piacevole, ed il pensiero
che soffrono con noi rendono minore il nostro dolore. Se, dunque, si resta sollevati per queste ragioni o per
qualche altro motivo, lasciamo stare: in ogni caso è manifesto che accade quello che abbiamo detto. Ma
[1171b]
sembra che
[35] la loro presenza procuri un piacere misto. Da una parte, infatti, la vista stessa
degli amici è piacevole, specialmente per chi si trova nell’avversità, e ne deriva un aiuto contro il dolore
(l’amico, infatti, è una consolazione sia col farsi vedere sia col parlarci, se è un uomo garbato: egli conosce
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX)
il nostro carattere e sa ciò che ci fa piacere e ciò che ci addolora). D’altra parte, vedere che soffre
nostre disgrazie è penoso: ogni uomo, infatti, evita di essere causa di dolore agli amici. È per questo che chi
ha natura virile si guarda bene dal far partecipare gli amici al proprio dolore, e, a meno che non superi ogni
314 , non sopporta di provocar loro una sofferenza, anzi, in generale, non tollera che altri lo
limite di sventura
compatisca, per il fatto che egli stesso non
[10] è portato a compatire: sono le donnette, e gli uomini ad
esse simili, che hanno piacere se altre persone si lamentano con loro, e le amano come amiche e come
compagne nel dolore. Ma è chiaro che in tutte le cose bisogna imitare l’uomo migliore. La presenza degli
amici nella buona sorte, invece, ci fa trascorrere piacevolmente il tempo, e ci dà il piacevole pensiero che
essi godono dei nostri beni.
[15] Perciò si può ritenere che noi dobbiamo sollecitamente invitare gli amici a
partecipare alla nostra buona sorte (ché è bello comportarsi da benefattori), ma esitare a chiamarli nella
cattiva: bisogna, infatti, farli partecipare il meno possibile ai nostri mali. Di qui il detto: "Basto io ad essere
infelice!". Invece, bisogna fare appello a loro, soprattutto quando possono renderci un grande servigio senza
grande molestia per loro.
[20] Viceversa, conviene senza dubbio che noi andiamo a soccorrere gli amici
sfortunati senza farci chiamare, e sollecitamente (giacché è proprio di un amico far il bene, e soprattutto a
coloro che si trovano nel bisogno, anche se non pretendono nulla: per entrambi, infatti, è più bello e più
piacevole). Quando sono nella prosperità, invece, bisogna andare da loro sollecitamente se si ha intenzione
di collaborare alla loro attività (anche per questo, infatti, c’ bisogno di amici), ma senza fretta se si intende
riceverne dei benefici:
[25] non è bello, infatti, mostrarsi impazienti di ricevere dei servigi. Ma, senza
dubbio, nel rifiutare, dobbiamo evitare di farci giudicare villani: talora succede. In conclusione, la presenza
degli amici è manifestamente desiderabile in tutte le circostanze.
[5] per le
12. [L’amicizia è comunione di vita].
Non bisogna, dunque, dire che, come per gli innamorati la vista dell’amato è la cosa che amano di più,
[30]
e come essi preferiscono il senso della vista a tutti gli altri, perché è per questo senso soprattutto che
l’amore sussiste e sorge, così anche per gli amici la cosa più desiderabile è il vivere insieme? L’amicizia,
infatti, è una comunione, ed il sentimento che si ha per se stessi, si ha anche per l’amico: la coscienza della
[35] dell’amico; ma questa coscienza
propria esistenza è desiderabile, e lo è, per conseguenza anche quella
è in atto nel vivere insieme,
[1172a] cosicché è naturale che a questo si tenda. E per ciascun tipo di uomini,
qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro la vita è desiderabile, è in questo
che essi vogliono trascorrere il tempo in compagnia degli amici. E per questo che alcuni bevono insieme,
altri giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica e cacciano insieme
[5] o fanno filosofia insieme, e che
trascorrono insieme le giornate, ciascuno dedito a ciò che ama più di tutto nella vita: volendo, infatti, vivere
insieme con gli amici, fanno e mettono in comune le cose in cui, secondo loro, consiste la vita. Quindi,
l’amicizia dei cattivi risulta perversa (infatti, essendo instabili, mettono in comune cose cattive, e
[10]
diventano perversi rendendosi sempre più simili gli uni agli altri); l’amicizia, invece, degli uomini virtuosi è
virtuosa, e cresce col loro frequentarsi. Si ritiene, poi, che diventino anche migliori col mettere in atto
l’amicizia, cioè correggendosi a vicenda: essi, infatti, si modellano l’uno sull’altro, imitando le qualità che
315 . Sull’amicizia, dunque,
loro piacciono; di qui il detto: "Da uomini nobili, nobili azioni"
[15] basti quanto
s’ fin qui detto. Il piacere sarà oggetto della trattazione seguente.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
ARISTOTELE
ETICA A NICOMACO
LIBRO X
1. [Il piacere: teorie e fatti].
Deve a ciò far seguito la trattazione del piacere.
[20] Si pensa comunemente che il piacere sia
strettissimamente connaturato al genere umano, ragion per cui si educano i giovani governandoli col piacere
e col dolore; si ritiene, inoltre, che anche per la virtù del carattere sia della massima importanza godere di
ciò che si deve, e odiare ciò che si deve. Infatti, piacere e dolore si estendono per tutta la durata della vita,
ed hanno gran peso e grande influenza sulla virtù e sulla vita felice:
[25] si scelgono, infatti, le cose
316
piacevoli, e si fuggono quelle dolorose
. Si ammetterà che non si può proprio sorvolare su argomenti di
317 affermano che
tale importanza, che sono oggetto, oltre tutto, anche di molte controversie. Infatti, alcuni
318 , al contrario, che esso è affatto cattivo, e di questi ultimi alcuni, certo, perché
il piacere è il bene, altri
sono persuasi che sia proprio così, altri perché pensano
[30] che sia meglio per la nostra vita morale
mostrare il piacere come una cosa cattiva, anche se non lo è: la massa inclina ad esso ed è schiava dei
piaceri, e perciò bisogna condurla nella direzione opposta; così potrà arrivare proprio nel giusto mezzo. Ma,
probabilmente, questa non è una buona tesi. Infatti, per quanto riguarda le passioni
[35] e le azioni, le
teorie sono meno persuasive dei fatti; le teorie, quindi, quando sono in disaccordo con i fatti constatati,
vengono considerate con disprezzo e
[1172b] coinvolgono nel discredito anche la verità. Se, infatti, colui
che biasima il piacere viene una volta visto mentre tende anche lui ad un piacere, si pensa che egli inclini ad
esso, perché, secondo lui, ogni piacere è degno di essere perseguito: fare distinzioni, infatti, non è cosa per
la massa! Sembra, dunque, che, quando le teorie sono veritiere,
[5] sono utilissime non solo per il sapere,
ma anche per la vita: infatti, poiché si armonizzano con i fatti, vengono accolte con convinzione, ed è per
questo che riescono a stimolare coloro che hanno giudizio a vivere in conformità con esse. Ciò posto, basta
con tali considerazioni: esaminiamo ora le opinioni espresse sul piacere.
2. [La teoria di Eudosso e la critica di Speusippo].
319 pensava che il piacere è il bene per queste ragioni:
Orbene, Eudosso
[10] (1) vediamo che tutti i viventi,
sia quelli razionali sia quelli irrazionali, tendono ad esso; ma in tutti i casi ciò che è desiderato è il bene, e
ciò che è desiderato più di tutto è il massimo bene; quindi, il fatto che tutti i viventi siano portati al
medesimo oggetto indica che per tutti questo è il sommo bene (ciascun essere vivente, infatti, trova ciò che
è bene per lui, come trova il suo nutrimento), ma ciò, che è bene per tutti, cioè ciò verso cui tutti tendono,
320 . Le sue teorie, poi, ottenevano credito più per la virtù del suo carattere che
[15] è il bene per eccellenza
per se stesse: veniva considerato, infatti, eccezionalmente temperante, e, quindi, si pensava che egli
facesse queste affermazioni non perché amico lui stesso del piacere, ma perché le cose stanno in verità
proprio così. (2) Inoltre, pensava che ciò risulti non meno evidente in base all’argomento del contrario:
infatti, diceva, il dolore di per sé è per tutti un oggetto da fuggire;
[20] dunque, il suo contrario è parimente
per tutti qualcosa di desiderabile. (3) E massimamente desiderabile è ciò che noi non desideriamo per
qualcos’altro, né in vista di qualcos’altro. Tale oggetto è, per unanime consenso, il piacere: infatti, nessuno
chiede a che scopo si gode, considerando che il piacere è desiderabile per se stesso. (4) Infine, qualunque
sia il bene cui si aggiunge, per esempio,
[25] all’agire con giustizia e con temperanza, il piacere lo rende più
desiderabile; ma il bene resta accresciuto solo da se stesso. Quest’ultimo argomento, quindi, almeno così
com’, sembra mettere in chiaro che il piacere è uno dei beni, e per niente maggiore di un altro: infatti, ogni
bene è più degno di scelta se è accompagnato da un altro bene che non se resta solo.
Orbene, è con un ragionamento di questo tipo che Platone dimostra che il piacere non è il bene. Infatti, egli
dice 321 , [30] la vita di piacere è più desiderabile unita alla saggezza che non separata da essa, e se la vita
mista è migliore, il piacere non è il bene, giacché nessuna cosa aggiunta al bene può renderlo più
desiderabile. Ma è chiaro che il bene non sarà alcun’altra cosa che diventi più desiderabile se si accompagna
a qualcosa che è bene di per sé. Che cosa dunque è questa natura, di cui anche
[35] noi partecipiamo? È
una cosa di questo genere che stiamo cercando.
(1) E coloro i quali obiettano non essere vero che è bene ciò a cui tutte le cose tendono, non dicono nulla di
sensato.
[1173a] Infatti, ciò che è ammesso da tutti noi affermiamo che è vero: e colui che rifiuta questa
convinzione non troverà cose molto più convincenti da dire. Se, infatti, gli esseri privi di ragione fossero i
soli a desiderare i piaceri, l’obiezione avrebbe senso, ma se li desiderano anche gli esseri dotati di ragione,
come può aver senso l’obiezione? E poi, forse, anche negli esseri inferiori c’ un qualche istinto naturale e
buono, [5] più forte di quanto essi siano per se stessi, che li fa tendere al bene proprio della loro specie.
(2) E non sembra che affrontino correttamente neppure l’argomento del contrario. Non è vero, dicono, che
se il dolore è male, il piacere è bene: infatti anche un male può contrapporsi ad un male, ed entrambi
322 , ma non colgono la verità,
possono contrapporsi a ciò che non è né male né bene. In ciò non hanno torto
almeno non a proposito di ciò di cui stiamo parlando.
[10] Se, infatti, piacere e dolore fossero entrambi dei
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
mali, dovrebbero essere entrambi da fuggire; se, invece, non fossero né bene né male, nessuno dei due
dovrebbe essere fuggito, oppure dovrebbero esserlo entrambi allo stesso modo. Ora, è evidente che gli
uomini fuggono il dolore come un male, e che desiderano il piacere come un bene: dunque, piacere e dolore
si contrappongono come bene e male.
3. [La teoria di Speusippo e sua confutazione].
(3) Certo, non è neppure vero che se il piacere non è una qualità, non è, per questo, neppure un bene:
infatti, neppure
[15] le attività della virtù sono delle qualità e nemmeno la felicità.
(4) Ma, dicono, il bene è determinato, mentre il piacere è indeterminato, perché ammette il più ed il
meno 323 . Orbene, se fondano questo giudizio sul fatto che si può provare più o meno piacere, lo stesso
varrà anche per la giustizia e le altre virtù, a proposito delle quali dicono esplicitamente che i virtuosi sono
tali di più o di meno,
[20] e agiscono più o meno in conformità con le virtù: infatti, ci sono uomini più giusti
e più coraggiosi, ed è possibile comportarsi da giusti ed essere saggi in misura maggiore o minore. Se poi
fondano il loro giudizio sulla natura stessa dei piaceri, non ce ne indicano però la causa, se è vero che ci
324 . E che cosa impedisce che, come nel caso della salute,
sono due tipi di piaceri, quelli puri e quelli misti
che, pur essendo determinata, ammette il più
[25] ed il meno, così sia anche nel caso del piacere? Infatti,
non c’ sempre la stessa proporzione in tutti gli individui, e neppure nel medesimo individuo essa resta
sempre una e identica, ma, pur allentandosi, permane fino ad un certo punto, cioè differisce secondo il più
ed il meno. Tale, dunque, può essere anche il caso del piacere.
(5) Inoltre, essi, posto che il bene è perfetto, e i movimenti e le generazioni sono
[30] imperfetti, tentano di
325
dimostrare che il piacere è movimento e generazione
. Ma non sembra che abbiano ragione, né che il
piacere sia movimento. Si ritiene comunemente, infatti, che ogni movimento abbia una propria velocità o
lentezza caratteristica, e se non l’ha per se stesso, come nel caso del cielo, l’ha in rapporto ad altro: ma al
piacere non compete né l’una né l’altra cosa. Infatti, si può giungere a provar piacere, come
[1173b] si può
giungere ad essere adirati, rapidamente, ma non si può provar piacere rapidamente, neppure in rapporto ad
altro, mentre rapidamente si può camminare, crescere e così via. Dunque, mentre è possibile passare
rapidamente o lentamente ad una situazione di piacere,
[5] non è invece possibile essere in atto in una
situazione di piacere, cioè provar piacere, rapidamente. E poi, come potrebbe essere una generazione? Si
ritiene comunemente, infatti, non che da una cosa qualsiasi si generi una cosa qualsiasi, ma che ciò da cui
una cosa si genera sia la stessa in cui si dissolve: e di ciò la cui generazione è il piacere, corruzione è il
326 , inoltre, che il dolore è una mancanza di ciò che è conforme a natura, mentre il piacere è
dolore. Dicono
la restaurazione della sua pienezza. Ma questo è vero solo delle passioni del corpo. Se, quindi, il piacere è
restaurazione della pienezza dello stato conforme a natura,
[10] ciò in cui si restaura la pienezza sarà quello
che anche proverà piacere: sarà dunque il corpo. Ma si ritiene che non sia così. Dunque, non è che il piacere
sia la restaurazione di una pienezza, ma quando avviene la restaurazione della pienezza uno proverà
327 . Questa opinione, poi, si pensa che
piacere, come proverà dolore quando in lui si produce la mancanza
sia derivata dai dolori e dai piaceri relativi alla nutrizione: infatti, quando si è giunti in uno stato di
privazione
[15] e si è già provato dolore, poi si gode del riempimento. Ma questo non succede per tutti i
piaceri: i piaceri dell’apprendimento, infatti, i piaceri sensibili derivanti dall’olfatto, molte sensazioni uditive e
328 . Di che cosa, dunque, saranno la generazione? In essi,
visive, ricordi e speranze, sono privi di dolore
infatti, [20] non è venuto a mancare nulla, per cui si possa dire che sono la restaurazione di una pienezza.
(6) In risposta, poi, a coloro che mettono avanti i piaceri più riprovevoli si dirà che queste cose non sono
piacevoli: infatti, se esse sono piacevoli per coloro che hanno cattive disposizioni, non ne segue che si debba
pensare che esse siano piacevoli anche per altri che non siano questi viziosi, come non pensiamo che ciò
che è salutare o dolce o amaro per gli ammalati lo sia anche per i sani,
[25] né che ciò che appare bianco a
chi ha gli occhi malati lo sia realmente. Oppure si dirà anche così: tutti i piaceri sono desiderabili, ma non
certo quando derivano da atteggiamenti riprovevoli, come è desiderabile anche l’essere ricchi, ma non a
costo di un tradimento, e l’esser sani, ma non a costo di mangiare qualsiasi cosa. O ancora: i piaceri sono di
specie differenti: quelli che derivano dalle cose belle, infatti, sono diversi da quelli che derivano dalle cose
brutte, e non è possibile che si giunga a godere
[30] il piacere del giusto se non si è giusti, né quello del
musico se non si è musici, e lo stesso in tutti gli altri casi. Anche il fatto che l’amico è diverso dall’adulatore
sembra mettere in luce che il piacere non è bene o che ci sono specie differenti di piacere: infatti, come
comunemente si ritiene, il primo stringe rapporti con noi mirando al bene, il secondo, invece, mirando al
piacere, ed a questo viene rivolto biasimo, mentre quello tutti lo
[1174a] lodano, perché sono convinti che è
in relazione con noi per scopi differenti. Nessuno, poi, sceglierebbe di vivere per tutta la vita con
l’intelligenza di un bambino, anche se gode di ciò di cui soprattutto godono i bambini, né di procurarsi
piacere compiendo qualche turpissima azione, anche se non ne dovesse conseguire per lui alcun dolore. E di
[5] anche se non ci apportassero alcun piacere: per esempio, di vedere,
molte cose noi ci daremmo cura
ricordare, sapere, possedere la virtù. Se, poi, a queste cose conseguono necessariamente dei piaceri, non
ha importanza; le sceglieremmo, infatti, anche se non ne derivasse piacere. Orbene, che il piacere non è il
bene e che non ogni piacere è degno di essere scelto, sembra che sia chiaro; ed anche
[10] che ci sono
329 . Per questo si
piaceri degni di scelta per se stessi, che differiscono dagli altri per specie o per origine
consideri conclusa l’esposizione delle teorie correnti sul piacere e sul dolore.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
4. [La natura del piacere].
Che cosa sia il piacere e che natura abbia, ci apparirà con la maggiore chiarezza se ricominceremo da
principio. Si ritiene, infatti, che l’atto del vedere
[15] sia perfetto in qualunque momento della sua durata,
giacché non manca di nulla, che gli si aggiunga in seguito, per renderlo perfetto nella sua forma specifica: e
tale sembra essere anche il piacere. Esso, infatti, è un intero, ed in nessun momento si troverà un piacere
che se viene prolungato per più tempo resterà perfezionato nella sua forma specifica. Ed è per questo che il
piacere non è neppure un movimento. Infatti, ogni movimento si svolge nel tempo
[20] ed ha un fine
(come, per esempio, la costruzione di una casa), ed è perfetto quando ha compiuto ciò a cui tende. Per
conseguenza, è perfetto se è considerato o nella sua intera durata o nel suo momento finale. Al contrario,
nelle loro parti ed in quanto si svolgono nel tempo, tutti i movimenti sono imperfetti, e sono diversi quanto
alla forma specifica, sia dall’intero movimento sia l’uno dall’altro. In effetti, la sistemazione delle pietre è
diversa dalla scanalatura della colonna, e queste due operazioni sono diverse dalla costruzione del tempio: e
[25] la costruzione del tempio è opera perfetta (giacché non ha bisogno di nient’altro per realizzare il
progetto), mentre la costruzione della base e quella del triglifo sono imperfette, giacché l’una e l’altra sono
costruzioni di una sola parte. Esse, dunque, differiscono per specie, e non è possibile cogliere in un
momento qualsiasi della costruzione un movimento perfetto quanto alla forma specifica, ma, se mai, nella
intera durata. Lo stesso vale anche nel caso del camminare e degli altri movimenti. Se,
[30] infatti, la
traslazione è un movimento da un luogo ad un altro, anche di essa vi sono differenze di specie: volare,
camminare, saltare, e così via. Ma non c’ solo questo, bensì anche nel camminare stesso ci sono differenze
di specie: infatti, muoversi da un luogo all’altro nell’intero stadio non è la stessa cosa che muoversi in una
sua parte, né è lo stesso muoversi in una parte o in un’altra, né attraversare questa linea o quella:
[1174b]
infatti, non si tratta solo di attraversare una linea, ma anche di attraversare una linea tracciata in un certo
luogo, e questa linea è tracciata in un luogo diverso da quella.
330 si è trattato con rigore e precisione del movimento, ma sembra che esso non sia
Orbene, in altri scritti
perfetto in un qualsiasi momento, bensì la maggior parte dei movimenti sono imperfetti e differiscono
[5]
per la specie, se è vero che il punto di partenza ed il punto di arrivo sono ciò che ne determina la specie.
Invece, la forma specifica del piacere è perfetta in qualsiasi momento. È chiaro, dunque, che piacere e
movimento sono diversi l’uno dall’altro, e che il piacere è un che di intero e di perfetto. Si arriverà però ad
ammettere questo anche partendo dal fatto che non è possibile muoversi se non nel tempo, mentre è
possibile provar piacere in assenza di tempo: l’atto di provar piacere, infatti, è un qualcosa che sta tutto
nell’istante presente. Da ciò risulta poi chiaro anche
[10] che non hanno ragione quelli che dicono che il
piacere è un movimento o una generazione. Questo, infatti, non si può dire di tutte le cose, ma solo di
quelle suddivisibili in parti, che cioè non costituiscono un tutto inscindibile: non c’, infatti, generazione di
un atto di vedere, né di un punto, né di una monade, né di essi vi è movimento e generazione: per
conseguenza, neppure del piacere; esso, infatti, è un tutto indivisibile.
331 , [15] e lo è in modo perfetto
Poiché ogni senso è in atto quando è in relazione con l’oggetto sensibile
quando è nella corretta disposizione in relazione al più bello degli oggetti che cadono sotto quel senso (tale
si ritiene, infatti, che sia l’atto perfetto: non fa alcuna differenza dire che è in atto il senso oppure il soggetto
in cui il senso si trova); di conseguenza, per ciascun senso, l’attività migliore è quella del soggetto che si
trova nella disposizione migliore in relazione al più elevato degli oggetti che cadono sotto quel senso. E
questa attività sarà
[20] la più perfetta e la più piacevole. Infatti, per ogni senso c’ un piacere, come pure
anche per il pensiero e per la contemplazione, ma il più piacevole è il più perfetto, ed il più perfetto è quello
di chi è ben disposto in relazione all’oggetto di maggior valore che cade sotto quell’attività: il piacere, poi,
perfeziona l’attività. Ma il piacere non perfeziona l’attività nello stesso modo in cui lo fanno l’oggetto
sensibile [25] ed il senso quando sono pienamente validi, proprio come la salute ed il medico non sono nello
stesso modo cause dell’essere sani. Che il piacere si generi in corrispondenza di ciascun senso, è chiaro
(infatti noi parliamo di immagini piacevoli e di suoni piacevoli); ma è chiaro anche che il piacere è massimo
quando la sensazione è molto intensa e si attua in relazione ad un oggetto molto elevato:
[30] quando
l’oggetto ed il soggetto della sensazione sono siffatti, ci sarà sempre un piacere se saranno presenti insieme
sia ciò che lo produce sia chi lo prova. D’altra parte il
piacere perfeziona l’attività non come fa, con la sua
immanenza, la disposizione che la genera, bensì come un completamento che vi si aggiunge, come, per
esempio, la bellezza che si aggiunge a coloro che sono nel fiore dell’età. Finché, dunque, l’oggetto pensabile
o sensibile sono quali devono essere, e benché tali sono anche il soggetto che giudica o
[1175a] quello che
contempla, nell’attività del pensare e del sentire ci sarà il piacere: infatti, se restano uguali in sé e nel
medesimo rapporto reciproco l’elemento passivo e quello attivo, si produce naturalmente il medesimo
risultato.
Come avviene che nessuno prova piacere in continuazione? Non è perché ci si stanca? Tutto ciò che è
umano, infatti,
[5] non può restare in atto in continuazione. Dunque, neppure il piacere si produce in
continuazione, dal momento che fa seguito all’attività. Alcune cose, poi, producono godimento quando sono
nuove, ma in seguito non è più cosi, per la medesima ragione: all’inizio, infatti, il pensiero resta eccitato e si
trova in uno stato di intensa attività in relazione a questi oggetti, come fanno, nel caso della vista, coloro
che fissano lo sguardo su qualcosa, ma in seguito l’attività non è più la stessa, bensì
[10] si rilassa; perciò
anche il piacere si indebolisce. Si potrebbe pensare che tutti gli uomini aspirano al piacere, perché tutti
tendono a vivere. La vita è una specie di attività, e ciascuno esercita la sua attività in relazione agli oggetti e
con le facoltà che egli ama di più: per esempio, il musico con l’udito in relazione alle melodie, l’amante del
sapere con il pensiero in relazione
[15] agli oggetti della speculazione, e così anche ciascuno degli altri
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
uomini. Ma il piacere perfeziona le attività, e quindi anche quell’attività che tutti intensamente desiderano:
la vita. È naturale, dunque, che tutti tendano anche al piacere: esso, infatti, dà a ciascuno la perfezione del
suo vivere, che è ciò che si desidera. Se, poi, è per il piacere che desideriamo la vita, o è per la vita che
desideriamo il piacere, lasciamolo per il momento da parte. Infatti, la vita e il piacere
strettamente congiunti e non ammettono separazione: senza attività, infatti, non si produce piacere, e il
piacere perfeziona ogni attività.
[20] si presentano
5. [Le specie del piacere e il loro valore].
Questa è la ragione per cui si ritiene che i piaceri differiscano anche quanto alla specie. In effetti, noi
pensiamo che le cose diverse per specie vengono perfezionate da cose pure diverse per specie (così infatti
è, manifestamente, sia per le realtà naturali sia per i prodotti dell’arte, come, per esempio, animali, alberi,
una pittura, una statua,
[25] una casa, un utensile): e che, allo stesso modo, anche le attività che
differiscono per la specie sono perfezionate da cose differenti per specie. Ma le attività del pensiero
differiscono dalle attività dei sensi, e differiscono per specie fra di loro: e, per conseguenza, sono
specificamente differenti anche i piaceri che le perfezionano.
Ciò può risultare manifesto anche dal fatto che ciascuno dei piaceri è connaturale
[30] all’attività che
perfeziona. Infatti, l’attività è incrementata dal piacere che le è proprio, giacché in ogni campo chi agisce
con piacere giudica meglio ed è più preciso: così, per esempio, diventano veri geometri coloro che provano
piacere nell’esercizio della geometria, e sono loro che meglio ne penetrano ciascun aspetto, e, parimenti,
coloro che amano la musica, l’architettura e le altre arti,
[35] progrediscono ciascuno nella propria specialità
perché vi provano piacere: i piaceri incrementano le attività; ma ciò che incrementa una cosa le è
connaturale:
[1175b] e le cose che sono connaturali a cose specificamente diverse sono esse stesse diverse
per specie.
Ma ciò può risultare ancor più manifesto dal fatto che i piaceri che derivano da attività diverse sono
d’ostacolo alle attività. Per esempio, quelli che amano il flauto sono incapaci di concentrarsi nei
ragionamenti, se sentono qualcuno suonare il flauto, perché provano maggior piacere
[5] nell’arte del flauto
che nella loro presente attività; il piacere derivante dal suono del flauto distrugge dunque l’attività relativa
al ragionamento. Questo stesso fatto succede anche negli altri casi, quando si esercita la propria attività in
relazione a due oggetti contemporaneamente, giacché l’attività più piacevole scaccia l’altra, e ciò tanto più
quanto maggiore è la differenza dal punto di vista del piacere, cosicché non è più possibile esercitare
neppure [10] l’altra attività. È per questo che, quando proviamo intenso piacere in una qualsiasi cosa, non
facciamo più nient’altro; e facciamo altro, quando cose diverse ci piacciono poco, come, per esempio, quelli
che nei teatri si mettono a mangiare dolciumi lo fanno soprattutto quando gli attori non sono bravi. Ora,
poiché il piacere loro connaturale rende più precise le attività e le fa più durevoli e
[15] più efficaci, mentre i
piaceri ad esse estranei le guastano, è chiaro che
c’ una gran distanza fra le due specie di piaceri. I piaceri
estranei hanno sulle attività quasi lo stesso effetto che i dolori ad esse connaturali: infatti, i dolori ad esse
connaturali distruggono le attività, come, per esempio, succede se a uno non fa piacere, anzi è penoso
scrivere o far di conto: uno non scrive, l’altro non fa di conto, perché questa
[20] attività gli è penosa.
Dunque, i piaceri e i dolori ad essa connaturali hanno sull’attività l’effetto opposto: e connaturali sono i
piaceri e i dolori che si accompagnano all’attività per la sua stessa natura. I piaceri estranei, invece, si
chiamano così perché hanno un effetto molto simile a quello del dolore: hanno, infatti, un effetto distruttivo,
anche se non nello stesso modo.
Ma poiché le attività differiscono per la loro convenienza
[25] o sconvenienza morale, e poiché le une sono
da scegliere e le altre da evitare, altre né l’una né l’altra cosa, lo stesso è anche dei piaceri, giacché per
ciascuna attività c’ un piacere che le è connaturale. Dunque, il piacere connaturale all’attività virtuosa è
conveniente, il piacere connaturale all’attività cattiva è perverso: infatti, anche i desideri delle cose belle
sono degni di lode, quelli delle cose brutte sono meritevoli di biasimo.
[30] Ma i piaceri che risiedono nelle
attività stesse sono ad esse più strettamente connaturali che non i desideri: infatti, i desideri sono distinti
dalle attività, sia nel tempo sia per la natura, mentre i piaceri sono strettamente connessi con le attività, e
ne sono inseparabili, al punto che si discute se l’attività e il piacere siano la stessa cosa. Non sembra, infatti,
che il piacere sia pensiero né sensazione (sarebbe strano!),
[35] ma, per il fatto che non ne può essere
separato, ad alcuni appare identico ad essi. Dunque, come sono diverse le attività, così sono diversi i
piaceri. [1176a]
La vista differisce dal tatto per purezza, e l’udito e l’odorato differiscono dal gusto: allo stesso modo, per
conseguenza, differiscono anche i relativi piaceri, e da questi si
differenziano i piaceri del pensiero, e
nell’ambito di ciascun gruppo ci sono piaceri diversi fra di loro.
Si ritiene comunemente che ci sia un piacere connaturale a ciascun essere vivente, e così pure una
funzione 332 , giacché il piacere connaturale è quello che deriva dall’esercizio di questa funzione.
[5] E se si
considerano uno per uno, ciò risulterà manifesto: infatti, altro è il piacere proprio del cavallo, altro è quello
333 ; infatti, il cibo è
del cane e quello dell’uomo. Come dice Eraclito: "Gli asini preferirebbero la paglia all’oro"
per gli asini più piacevole dell’oro. Dunque, i piaceri degli esseri che sono specificamente diversi differiscono
specificamente, mentre sarebbe naturale che quelli della stessa specie non fossero differenti.
[10] Invece
differiscono non di poco, almeno per quanto riguarda gli uomini: infatti, le stesse cose dilettano alcuni e
affliggono altri, e per alcuni sono penose e odiose, per altri piacevoli ed amabili. Questo succede anche nel
caso delle cose dolci: le stesse cose, infatti, non sembrano ugualmente dolci a chi ha la febbre e a chi è
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
sano, né la stessa cosa sembra essere calda a chi è malato e a chi
[15] sta bene. Lo stesso succede anche
in altri casi. Ma si ritiene che in tutti questi casi sia reale ciò che appare all’uomo in buone condizioni. Se
questo è giusto, come in genere si pensa, e se di ciascuna cosa sono misura la virtù e l’uomo buono in
quanto tale, anche i piaceri saranno quelli che a quest’uomo appaiono tali, e piacevoli saranno le cose che a
lui procurano piacere.
[20] Che poi gli oggetti che sono sgradevoli all’uomo buono appaiano piacevoli a
qualcuno, non desta meraviglia, perché sono molte le corruzioni e le degenerazioni cui gli uomini sono
soggetti: non ci sono cose piacevoli in sé, ma cose piacevoli per uomini determinati e con determinate
disposizioni.
È chiaro che i piaceri concordemente giudicati brutti si
deve dire che non sono dei piaceri tranne che per gli
uomini corrotti: ma tra quelli comunemente ritenuti convenienti, quale specie di piacere o
[25] quale piacere
in particolare dobbiamo dire che è proprio dell’uomo? Non risulta forse chiaro dalle attività proprie
dell’uomo? È a queste, infatti, che fanno seguito i piaceri. Che dunque le attività dell’uomo perfetto e beato
siano una sola o più, sono i piaceri che perfezionano queste attività che potranno essere chiamati in senso
proprio piaceri dell’uomo; tutti gli altri, invece, potranno essere chiamati piaceri umani in un senso
secondario e molto meno appropriato, come le attività cui corrispondono.
6. [La felicità è un’attività fine a se stessa e conforme a virtù].
[30] Dopo aver parlato delle virtù, delle forme dell’amicizia e dei piaceri, resta da delineare uno schizzo
della felicità, dal momento che la poniamo come fine delle azioni umane. Se riprendiamo, quindi, quanto
334 che la felicità non è una
abbiamo già detto, la trattazione risulterà più concisa. Abbiamo dunque detto
disposizione, giacché apparterrebbe anche a chi dormisse per tutta la vita,
[35] vivendo una vita solo
vegetativa, e a chi si trovasse nelle più grandi disgrazie. Per conseguenza, se queste implicazioni
[1176b]
non soddisfano, e se, invece, bisogna porre la felicità in una qualche attività, come s’ detto
335 , e se alcune delle attività sono necessarie e da scegliersi per altro, mentre altre devono
precedentemente
essere scelte per se stesse, è chiaro che bisogna porre la felicità tra le attività che meritano di essere scelte
336 .
per se stesse e
[5] non per altro: infatti, la felicità non ha bisogno di nient’altro, cioè basta a se stessa
Meritano, poi, di essere scelte per se stesse quelle attività che non richiedono nulla oltre il proprio esercizio.
Tali si ritiene comunemente che siano le azioni conformi a virtù: compiere azioni belle e virtuose, infatti, è
una delle cose che meritano di essere scelte per se stesse. Lo sono anche i divertimenti piacevoli, giacché
gli uomini non
[10] li scelgono in vista di altre cose: da essi, infatti, ricevono danno più che vantaggio,
perché sono da essi indotti a trascurare il loro corpo ed il loro patrimonio. E la maggior parte degli uomini
che sono stimati felici si rifugiano in tali passatempi, ragion per cui alle corti dei tiranni sono apprezzati
coloro che in tali passatempi sono spiritosi: essi, infatti,
[15] si rendono piacevoli proprio in ciò cui sono
rivolte le tendenze dei tiranni, che hanno bisogno di tali uomini. Si ritiene, pertanto, che siano queste le
cose che rendono felici, per il fatto che è in esse che passano il tempo libero i potenti, mentre è certo che gli
uomini di questo tipo non sono affatto una prova: infatti, non è nell’esercizio del potere assoluto che si
realizzano la virtù e l’intelletto, dalle quali procedono le attività che hanno valore morale. Se poi i tiranni,
essendo incapaci di gustare
[20] un piacere puro e degno di un uomo libero, si rifugiano nei piaceri del
corpo, non si deve per questo pensare che questi piaceri siano più degni di essere scelti: infatti, anche i
bambini pensano che siano ottime le cose apprezzate da quelli. È ragionevole, quindi, che, come diverse
sono per i bambini e per gli uomini le cose che appaiono apprezzabili, così queste siano diverse anche per gli
337 , sono apprezzabili e
uomini cattivi e per quelli per bene. Come dunque
[25] abbiamo spesso detto
piacevoli le cose che sono tali per l’uomo di valore: per ciascuno l’attività più degna di essere scelta è quella
conforme alla disposizione che gli è propria, e, per conseguenza, per l’uomo di valore è quella conforme alla
virtù. La felicità, dunque, non sta nel divertimento: e, in effetti, sarebbe strano che il fine dell’uomo fosse un
divertimento, e che ci si affaticasse e si soffrisse per tutta la vita
[30] al solo scopo di divertirsi. Tutto noi
scegliamo, per così dire, in vista di altro, tranne che la felicità: questa, infatti, è fine in sé. Darsi da fare ed
affaticarsi per il divertimento è manifestamente stupido e troppo infantile. Divertirsi, invece, per potersi
338 , sembra essere un atteggiamento corretto: in effetti, il
applicare seriamente, come dice Anacarsi
divertimento è simile al riposo, giacché gli uomini,
[35] non potendo affaticarsi in continuazione, hanno
bisogno di riposo.
[1177a] Il riposo non è, quindi, un fine, giacché ha luogo in funzione dell’attività. Si
ritiene, poi, che la vita felice sia conforme a virtù: e questa vita implica seria applicazione, e non consiste
nel divertimento. Noi diciamo che le cose serie sono migliori di quelle fatte per ridere e per divertimento, e
che, in ogni caso, l’attività
[5] della parte migliore dell’anima e dell’uomo più buono è quella di maggior
valore; e l’attività del migliore è perciò stesso superiore e più idonea a procurare la felicità. Infine, dei
piaceri del corpo può godere un uomo qualsiasi, persino uno schiavo, non meno del migliore degli uomini:
ma della felicità nessuno farebbe partecipe uno schiavo, a meno che non lo facesse partecipare anche di una
vita da uomo libero. In effetti, la felicità non consiste in questi passatempi,
[10] ma nelle attività conformi a
339 .
virtù, come s’ detto anche prima
7. [La felicità consiste soprattutto nell’attività contemplativa].
Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù più alta: e questa
340 . Che sia l’intelletto o qualche altra cosa ciò che si ritiene che per
sarà la virtù della nostra parte migliore
natura governi e guidi
[15] e abbia nozione delle cose belle e divine, che sia un che di divino o sia la cosa
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
più divina che è in noi, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria sarà la felicità perfetta. S’
già detto 341 , poi, che questa attività è attività contemplativa. Ma si ammetterà che questa affermazione è in
342 la più
accordo sia con le nostre precedenti affermazioni sia con la verità.
[20] Questa attività, infatti, è
alta (giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che sono in noi, e gli oggetti dell’intelletto sono i più
343 delle nostre attività: infatti, possiamo contemplare in maniera più
elevati); inoltre, è la più continua
continua di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Noi pensiamo che il piacere sia strettamente
344 , ma la più piacevole delle attività conformi a virtù è, siamo tutti d’accordo, quella
congiunto con la felicità
conforme alla sapienza;
[25] in ogni caso, si ammette che la filosofia ha in sé piaceri meravigliosi per la loro
purezza e stabilità, ed è naturale che la vita di coloro che sanno trascorra in modo più piacevole che non la
vita di coloro che ricercano. Quello che si chiama "autosufficienza" si realizzerà al massimo nell’attività
345 . Delle cose indispensabili alla vita hanno bisogno sia il sapiente, sia il giusto, sia tutti gli
contemplativa
altri uomini;
[30] ma una volta che sia sufficientemente provvisto di tali beni, il giusto ha ancora bisogno di
persone verso cui e con cui esercitare la giustizia, e lo stesso vale per l’uomo temperante, per il coraggioso
e per ciascuno degli altri uomini virtuosi, mentre il sapiente anche quando è solo con se stesso può
contemplare, e tanto più quanto più è sapiente; forse vi riuscirà meglio se avrà dei collaboratori, ma
tuttavia egli è assolutamente autosufficiente.
[1177b] E questa sola attività si riconoscerà che è amata per
se stessa 346 , giacché da essa non deriva nulla oltre il contemplare, mentre dalle attività pratiche traiamo un
vantaggio, più o meno grande, al di là dell’azione stessa. Si ritiene che la felicità consista nel tempo libero:
[5] infatti, noi ci impegniamo per essere poi liberi, e facciamo la guerra per poter vivere in pace. Dunque,
l’attività delle virtù pratiche si esercita nell’ambito della politica ed in quello della guerra, ma le azioni
relative a questi ambiti sono ritenute affatto impegnative, ed in modo totale le attività militari (giacché
nessuno sceglie di fare la guerra per la guerra,
[10] e nessuno prepara la guerra per la guerra: sarebbe
giudicato un vero e proprio maniaco assassino, se degli amici facesse dei nemici per
provocare battaglie e
uccisioni!). Anche l’attività del politico è affatto impegnativa, e, oltre alla attività civica in quanto tale, mira
a ricavare poteri ed onori o almeno a procurare la felicità per sé e per i suoi concittadini, felicità
[15] che è
differente dalla attività politica, e che, chiaramente, anche ricerchiamo in quanto ne è differente. Se,
dunque, tra le azioni conformi alle virtù, quelle relative alla politica ed alla guerra eccellono per bellezza e
grandezza, e se queste azioni sono affatto impegnative, mirano a qualche fine e non sono degne di essere
scelte per se stesse; se, d’altra parte, si riconosce che l’attività dell’intelletto si distingue per dignità
[20] in
quanto è un’attività teoretica, se non mira ad alcun altro fine al di là di se stessa, se ha il piacere che le è
347 l’attività), se, infine, il fatto di essere autosufficiente, di
proprio (e questo concorre ad intensificare
essere come un ozio, di non produrre stanchezza, per quanto è possibile ad un uomo e quant’altro viene
attribuito all’uomo beato, si manifestano in connessione con questa attività: allora, per conseguenza, questa
348 : giacché non c’ nulla di
sarà la perfetta felicità dell’uomo,
[25] quando coprirà l’intera durata di una vita
incompleto tra gli elementi della felicità. Ma una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti,
non vivrà cosi in quanto è uomo, bensì in quanto c’ in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento
divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro
349 , anche l’attività
tipo di virtù.
[30] Se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina
secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana. Ma non bisogna dar retta a coloro che
consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al
contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte
più nobile che è in noi. Infatti, sebbene
[1178a] per la sua massa sia piccola, per potenza e per valore è
molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi, che ogni uomo si identifica con questa parte, se è vero
350 . Sarebbe allora assurdo che egli non scegliesse la vita che gli è
che è la sua parte principale e migliore
351 [5] verrà a proposito
propria ma quella che è propria di qualcun altro. Ciò che abbiamo detto prima
anche ora: ciò, infatti, che per natura è proprio di ciascun essere, è per lui per natura la cosa più buona e
più piacevole; e per l’uomo, quindi, questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che l’uomo è
352 . Questa vita, dunque, sarà anche la più felice.
soprattutto intelletto
8. [Assoluta superiorità della vita contemplativa].
[10] ad esso conformi sono
Al secondo posto viene la vita conforme all’altro tipo di virtù: infatti, le attività
esclusivamente umane. In effetti, atti giusti e coraggiosi, e atti virtuosi in generale, noi li facciamo gli uni
nei confronti degli altri nei contratti, nei servizi, nelle azioni di ogni genere come nelle passioni, rispettando
ciò che compete a ciascuno: e queste sono tutte, manifestamente, azioni esclusivamente umane. Si ritiene,
poi, [15] che la virtù del carattere per alcuni aspetti derivi dal corpo, e per molti aspetti sia in stretta
connessione con le passioni. Ma anche la saggezza è collegata alla virtù del carattere, e quest’ultima alla
saggezza, se è vero che i principi della saggezza discendono dalle virtù etiche, e che la rettitudine delle virtù
etiche discende dalla saggezza. Ma essendo queste virtù legate anche
[20] alle passioni, saranno relative al
composto; ma le virtù del composto sono virtù esclusivamente umane, e, per conseguenza, lo sono anche la
vita ad essa conforme e la felicità che ne deriva. La virtù dell’intelletto, invece, è separata: su di essa basti
quanto s’ detto, ché esaminarla con precisione sarebbe un compito più grande di quello che ci siamo
proposti.
Si ammetterà, poi, che essa ha anche poco bisogno di essere provvista di beni esteriori o ne ha meno
bisogno [25] della virtù etica. Infatti, si ammetta pure che entrambe abbiano bisogno, e in misura uguale, di
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
ciò che è loro necessario, anche se l’uomo politico si preoccupa di più del corpo e di quanto ha natura
corporea, giacché ci sarà poca differenza; ma per quanto riguarda le attività la differenza sarà grande.
L’uomo liberale, infatti, avrà bisogno di denaro per compiere atti di liberalità, e
[30] l’uomo giusto, quindi,
ne avrà bisogno per contraccambiare (le intenzioni, infatti, non si vedono, ma anche coloro che giusti non
sono fanno mostra di voler agire con giustizia); l’uomo coraggioso, d’altro canto, ha bisogno di forza, se
vuole mandare ad effetto una qualunque azione conforme alla sua specifica virtù, e l’uomo temperante ha
bisogno di avere disponibilità di beni. Se no, come potrà rivelarsi appunto virtuoso questo o quell’altro
virtuoso? Si discute se il costitutivo più importante
[35] della virtù sia la scelta o le azioni, pensando che
essa risiede in entrambe le cose.
[1178b] È chiaro, quindi, che la sua perfezione implicherà entrambe le
cose; per le azioni occorrono molte cose, e tante di più quanto più le azioni sono grandi e belle. L’uomo
contemplativo, al contrario, non ha bisogno di nulla di tutto ciò, almeno per la sua specifica attività, ma anzi
queste cose sono, per così dire, degli ostacoli,
[5] almeno per la contemplazione. Ma, in quanto è uomo e
vive insieme con molti altri uomini, egli sceglie di agire in conformità con la virtù: dunque, avrà bisogno di
tali mezzi per vivere da uomo.
Che la felicità perfetta, poi, sia un’attività contemplativa, risulta manifesto anche dalle considerazioni
seguenti. Noi ammettiamo che gli dèi siano beati e felici al massimo grado:
[10] ma che tipo di azioni
bisogna attribuire loro? Le azioni giuste? Ma non sarà manifestamente ridicolo pensare che facciano
contratti, restituiscano depositi, e così via? Allora le azioni coraggiose, immaginando che affrontino pericoli e
corrano rischi perché è bello? O forse le azioni liberali? Ma a chi doneranno? Sarà ben assurdo
[15] che
possiedano moneta o qualcosa di simile. E le azioni temperanti che cosa saranno per loro? Non sarà
grossolano lodarli perché non possiedono cattivi desideri? Se passiamo in rivista tutto questo, ci risulterà
manifesto che l’intero ambito delle azioni è piccolo ed indegno di dèi. Tuttavia, tutti ammettono almeno che
essi vivono e quindi sono attivi, ché non si può certo pensare che dormano come
[20] Endimione 353 . Ma se
si toglie, all’essere che vive, l’agire, e ancor più il produrre, che cosa gli rimane se non la contemplazione?
Cosicché l’attività di Dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa: e, per conseguenza, l’attività
umana che le è più affine sarà quella che produce la più grande felicità.
Una prova, poi, è anche il fatto che tutti gli altri animali non partecipano della felicità,
[25] perché sono
completamente privi di tale tipo di attività. Per gli dèi, infatti, tutta la vita è beata, mentre per gli uomini lo
è nella misura in cui loro compete una qualche somiglianza con quel tipo di attività: invece, nessuno degli
altri animali è felice, perché non partecipa in alcun modo alla contemplazione. Per conseguenza, quanto si
estende la contemplazione, tanto si estende anche la felicità, e a coloro cui
[30] appartiene in misura
maggiore il contemplare appartiene in misura maggiore anche l’essere felici, non per accidente, ma proprio
in virtù della contemplazione, perché essa ha valore per se stessa. Per conseguenza, la felicità sarà una
forma di contemplazione.
Ma il contemplativo avrà bisogno anche della prosperità esteriore, dal momento che è un uomo: la natura
umana, infatti, non è di per sé sufficiente per esercitare la contemplazione, ma occorre anche che il corpo
[35] sia in buona salute e che riceva cibo ed ogni altra cura.
[1179a] Certo non dobbiamo pensare che, se
non è possibile essere beati senza i beni esteriori, si avrà bisogno per giungere alla felicità di molte e grandi
cose: non è nell’eccesso, infatti, che consistono l’autosufficienza e l’azione, ma è possibile compiere belle
azioni anche senza comandare in terra e in mare,
[5] giacché anche con mezzi misurati si può agire secondo
virtù (e si può vederlo molto chiaramente: si ammette, infatti, che i semplici privati compiano azioni
virtuose non meno dei potenti, anzi anche di più). È sufficiente avere quanto basta alla virtù, poiché sarà
354 [10] definì certamente bene gli uomini
felice la vita di chi agisce conformemente alla virtù. Anche Solone
felici, dicendo che sono stati in giusta misura forniti di beni esteriori, che hanno continuato a compiere le
azioni più belle (le più belle secondo il suo modo di pensare) e a vivere saggiamente: infatti, anche coloro
355
che sono forniti di beni misurati possono compiere ciò che si deve. Sembra, poi, che anche Anassagora
concepisse l’uomo felice non ricco né potente, dicendo che
[15] non ci si deve meravigliare se un tale uomo
appare strano alla massa: questa, infatti, giudica dai beni esterni, perché solo questi percepisce. Le opinioni
dei sapienti, dunque, sembrano concordare con le nostre argomentazioni.
Insomma, anche considerazioni di questo tipo hanno una certa credibilità, ma la verità nelle questioni di
356 . È quindi
comportamento si giudica dai fatti e dalla vita vissuta: in questi,
[20] infatti, sta l’essenziale
necessario esaminare le cose precedentemente dette mettendole a confronto con i fatti e con la vita, e se
sono in armonia con i fatti dobbiamo accettarle, se, invece, ne sono discordanti dobbiamo considerarle
semplici teorie. L’uomo che è intellettualmente attivo e che coltiva il suo intelletto sembra che si trovi nella
migliore delle disposizioni e che sia il più caro agli dèi. Se, infatti,
[25] gli dèi si prendono una qualche cura
delle cose umane, come comunemente si ritiene, sarà ragionevole pensare anche che essi si compiacciono
dell’elemento umano più elevato e ad essi più affine (e questo sarà l’intelletto), e che ricompensano gli
uomini che amano e curano l’intelletto più d’ogni cosa, considerando che questi si curano di cose a loro care
e agiscono in modo retto e bello. Che tutto questo
[30] si ritrovi soprattutto nel sapiente, è chiaro. Questi,
dunque, è il più caro agli dèi. Ed è naturale che lo stesso uomo sia anche il più felice: cosicché anche da
questa argomentazione risulterà che il sapiente è sommamente felice.
9. [Etica e politica].
Se, dunque, di queste cose e della virtù, e poi dell’amicizia e del piacere abbiamo trattato a sufficienza, nelle
loro linee generali,
[35] dobbiamo pensare che il nostro programma abbia raggiunto il suo fine? O non si
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
deve piuttosto riconoscere, come si dice, che
[1179b] nelle questioni di comportamento il fine non è quello
di contemplare, cioè di conoscere i singoli valori, ma piuttosto quello di metterli in pratica? Quindi, anche
per quanto riguarda la virtù non è sufficiente il sapere, ma dobbiamo sforzarci di possederla e metterla in
pratica, o cercare qualche altro modo, se c’, per diventare uomini buoni.
Se, dunque, questi ragionamenti fossero sufficienti
[5] per renderci virtuosi, riceverebbero a buon diritto
357
molte e grandi ricompense, come dice Teognide
, e bisognerebbe farsene una provvista; ora, invece, è
manifesto che essi hanno la forza di stimolare ed incoraggiare i giovani di spirito libero, di rendere un
carattere, nobile per natura e veramente amante del bello, pronto a lasciarsi possedere dalla virtù,
[10] ma
che non sono capaci di stimolare la massa alla perfezione morale. La massa, infatti, per natura, non
ubbidisce al sentimento del pudore, bensì alla paura, e non si astiene dalle azioni basse a causa della loro
turpitudine, ma per timore della punizione; in effetti, poiché vive immersa nella passione, persegue i piaceri
che le sono propri e gli oggetti che glieli procureranno, e fugge i dolori opposti,
[15] ma di ciò che è bello e
veramente piacevole non ha alcun’idea, perché non li ha mai gustati. Uomini simili, quindi, quale
ragionamento potrà trasformarli? Non è infatti possibile, o non è facile, far mutare col ragionamento ciò che
da molto tempo si è impresso nel carattere: anzi, dobbiamo senza dubbio esser contenti se, possedendo
tutto ciò che secondo noi serve per diventar virtuosi, riusciamo a partecipare
[20] della virtù.
358 . Orbene, ciò
Alcuni pensano che si diventi buoni per natura, altri per
abitudine, altri per insegnamento
che deriva dalla natura è chiaro che non dipende da noi, ma per certe divine cause si trova in coloro che
sono veramente fortunati; il ragionamento, poi, e l’insegnamento non hanno, temo, sempre efficacia su
tutti, ma occorre preparare prima,
[25] con le abitudini, l’anima di chi li ascolta a provar piacere ed odio
come è bello che si faccia, così come si deve preparare la terra che dovrà nutrire il seme. Infatti, chi vive
secondo passione non ascolterà un ragionamento che lo distolga da essa, ed in ogni caso non comprenderà.
Com’ possibile che chi si trova in questa disposizione si lasci persuadere a cambiare? In generale, la
passione non sembra che ceda al ragionamento, bensì alla forza. Bisogna, dunque,
[30] che ci sia già in
precedenza, in qualche modo, il carattere che è proprio della virtù, cioè un carattere che ama il bello e mal
sopporta il brutto.
Ma è difficile avere fin dalla giovinezza una retta guida alla virtù, se non si viene allevati sotto buone leggi,
giacché il vivere con temperanza e con fortezza non piace alla massa, e soprattutto non piace ai giovani.
Perciò bisogna che l’allevamento
[35] e le occupazioni dei giovani siano regolati da leggi, giacché non
saranno penosi se saranno divenuti abituali.
[1180a] Certo non è sufficiente che i giovani abbiano magari un
allevamento ed una educazione corretti, ma, poiché anche quando sono diventati uomini bisogna che li
mettano in pratica e che vi si siano abituati, anche per questo campo abbiamo bisogno di leggi, e quindi in
generale per tutta la vita: la massa, infatti,
[5] ubbidisce di più alla necessità che al ragionamento, e più
alle punizioni che al bello.
359 pensano che i legislatori debbano, da una parte, esortare e stimolare alla virtù
È per questo che alcuni
per amore del bello, nella speranza che diano retta coloro che sono stati in precedenza convenientemente
guidati con le abitudini, e, dall’altra, stabilire castighi e pene per coloro che non si lasciano persuadere e che
hanno indole troppo cattiva,
[10] che anzi debbano bandire del tutto gli incorreggibili: essi pensano, infatti,
che l’uomo per bene, che vive orientato al bello, ubbidisce al ragionamento, l’uomo malvagio, che desidera
360 anche che le pene devono
solo il piacere, è punito con il dolore come una bestia da soma. Perciò dicono
essere di natura tale da costituire la massima contrapposizione ai piaceri agognati. Se, dunque, come s’
detto, l’uomo
[15] avviato a diventare buono deve essere allevato ed abituato bene, e deve poi vivere in
occupazioni virtuose e non compiere cattive azioni né involontariamente né volontariamente, questo si
verificherà per coloro che vivono secondo una certa intelligenza e un retto ordinamento: orbene, l’autorità
paterna non ha né la forza né la capacità coercitiva,
[20] né quindi, in genere, ce l’ha l’autorità di un uomo
solo, che non sia re o qualcosa del genere: la legge, invece, ha potenza coercitiva, essendo una regola
fondata su una certa saggezza e sull’intelletto. E noi odiamo gli uomini che si impongono ai nostri impulsi,
anche se lo fanno a buon diritto, mentre la legge non è odiosa se ordina ciò che è moralmente conveniente.
Si sa che solo
[25] nella città di Sparta ed in poche altre il legislatore si prende cura dell’allevamento e delle
occupazioni dei cittadini; nella maggior parte delle città, invece, si trascurano cose simili, e ciascuno vive
361 . La cosa migliore,
come vuole, esercitando la sua autorità su figli e moglie alla maniera dei Ciclopi
dunque, è che vi sia una corretta educazione pubblica;
[30] ma se queste cose vengono trascurate dal
punto di vista pubblico, si riconoscerà che è a ciascun individuo che conviene aiutare i propri figli ed i propri
362 , o, almeno, scegliere di farlo. In base a quello che
amici a raggiungere la virtù, e che ciascuno può farlo
abbiamo detto, poi, si ammetterà che possa far questo meglio se avrà acquisito capacità legislatrice. È
chiaro, infatti, che l’educazione pubblica
[35] si attua mediante leggi, ed è buona quella che si ottiene con
buone leggi:
[1180b] leggi scritte o non scritte, lo si ammette comunemente, non ha importanza, né
importa che con esse si educhi un solo individuo o tanti, come non importa nella musica, nella ginnastica e
nelle altre occupazioni. Come, infatti, nelle città hanno vigore le leggi e i costumi, così anche
[5] nelle
famiglie hanno vigore le ragioni del padre e le abitudini, anzi, ancora di più, a causa della parentela e dei
benefici che ne derivano: i bambini, infatti, le prevengono addirittura, perché amano i padri e perché sono
per natura disposti ad ubbidire. Inoltre, l’educazione diretta all’individuo è superiore a quella di un’intera
comunità, come nel caso della medicina: in generale, infatti, a chi ha la febbre giovano il riposo e la dieta,
[10] ma forse a qualcuno in particolare no; ed un pugile non impone a tutti i suoi allievi lo stesso stile di
combattimento. Si ammetterà, quindi, che il singolo caso è trattato con maggior accuratezza se l’educazione
è privata: infatti, ciascuno vi trova in misura maggiore ciò che gli giova.
ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X)
Ma potrà curare nel modo migliore il singolo caso il medico, il maestro di ginnastica, e chiunque altro
conosca l’universale,
[15] cioè ciò che giova a tutti o ad un certo tipo di persone (giacché si dice che le
scienze sono dell’universale, e lo sono, in effetti). Tuttavia, certo, niente impedisce che si prenda
adeguatamente cura di un individuo determinato anche chi non possiede conoscenza scientifica, purché
abbia osservato accuratamente, mediante l’esperienza, che cosa succede caso per caso, così come si pensa
che certi uomini siano i migliori medici di se stessi, pur non essendo in grado di portare alcun aiuto ad altri.
[20] Nondimeno, certo, si riconoscerà che, almeno chi vuole diventare competente dal punto di vista tecnico
o teoretico, deve percorrere la strada dell’universale, cioè deve conoscere l’universale quanto è possibile:
abbiamo detto, infatti, che è questo l’oggetto delle scienze. E così anche chi vuole con la propria attività
educativa rendere migliori gli uomini, sia molti sia pochi, deve sforzarsi
[25] di diventare competente come
legislatore, se è vero che è mediante leggi che possiamo diventare buoni. Infatti, produrre buone
disposizioni in chiunque gli si trovi davanti non è cosa del primo che capita, ma se mai lo è di qualcuno,
questi è colui che possiede la scienza, come nel caso della medicina e di tutte le altre arti che implichino
applicazione e saggezza.
Non si dovrà, dunque, dopo questo, esaminare su quale base ed in che modo si può acquisire la competenza
del legislatore? Non forse,
[30] come nel caso delle altre arti, basandosi sugli uomini politici? Infatti,
363
abbiamo già ammesso
che la legislazione è una parte della politica. O non è forse manifesto che non è lo
stesso il caso della politica e quello di tutte le altre scienze e capacità? Nelle altre, infatti, è manifesto che
sono gli stessi quelli che sanno trasmettere le proprie capacità e che sanno metterle in pratica, come, per
esempio, medici e pittori:
[35] al contrario, i sofisti proclamano, sì, di insegnare la politica,
[1181a] ma
nessuno di loro la mette in pratica. La mettono in pratica, invece, i politici, i quali, si ammetterà, lo fanno
364 : si vede bene, infatti, che
con una certa capacità derivata dall’esperienza, più che con pensiero riflesso
non scrivono né parlano di tali argomenti (eppure sarebbe certo più bello che far discorsi in tribunale
[5] e
all’assemblea), e che, d’altra parte, non hanno saputo fare dei propri figli, o di alcun altro loro amico, degli
uomini politici. Ma sarebbe naturale che lo facessero se lo potessero: non potrebbero, infatti, lasciare in
eredità alle loro città, né potrebbero desiderare per se stessi, e quindi per quelli che sono loro più cari,
niente di meglio che una tale capacità. Certo,
[10] l’esperienza sembra fornire un non piccolo aiuto;
giacché, senza di essa, non si potrebbe diventare uomini politici mediante la consuetudine con la politica:
perciò sembra che coloro che aspirano ad acquisire la scienza politica abbiano bisogno di esperienza. Ma
quei sofisti che pur lo proclamano sono manifestamente molto lontani, troppo!, dall’insegnare l’arte politica.
In generale, infatti, essi non sanno neppure che cosa essa sia o quali siano i suoi oggetti; giacché, allora,
[15] non affermerebbero che è identica alla retorica, né che le è inferiore, e non penserebbero che sia facile
365 . Dicono,
compiere opera di legislatore col fare una collezione delle leggi che godono di buona fama
infatti, che basta scegliere le migliori, come se la scelta non fosse opera di giudizio e il giudicare rettamente
non fosse una cosa molto impegnativa, come nel campo della musica. Sono gli uomini esperti, infatti, che in
ciascun campo
[20] giudicano rettamente le opere, che sanno cioè giudicare con quali mezzi od in che modo
esse possono essere portate a perfezione, e quali sono gli elementi che si armonizzano fra di loro; i non
esperti, invece, si devono contentare di rendersi conto se l’opera è stata fatta bene o male, come nel caso
della pittura. Ma le leggi non sono che opere della politica, per così dire:
[1181b] come, dunque, si potrà
acquisire competenza di legislatore, o saper giudicare quali sono le migliori, sulla base di una semplice
raccolta di leggi? È anche manifesto che non si diventa neppure medici leggendo i trattati di medicina.
Eppure gli autori si sforzano, per lo meno, di indicare non solo le terapie in generale, ma anche come si
possono guarire, cioè come si devono curare,
[5] i singoli casi, distinguendo le varie disposizioni fisiche: e
queste indicazioni si ritiene che siano, sì, utili agli esperti, ma affatto inutili a chi non possiede la scienza
medica. Orbene, è certo che le raccolte di leggi e di costituzioni sono utilissime a coloro che sono in grado di
meditarle e di giudicare che cosa è bene e che cosa è male, e quali elementi si armonizzano fra di loro; ma
a coloro [10] che affrontano tali argomenti senza la disposizione adatta non può accadere di giudicare bene,
se non, magari, per caso; tutt’al più diventerebbero più aperti alla comprensione di queste cose. Poiché,
dunque, chi ci ha preceduto ha lasciato inesplorato il campo della legislazione, sarà certo molto meglio che
ne affrontiamo noi stessi l’indagine, e, per conseguenza, affrontiamo in blocco l’indagine sulla struttura della
Città, [15] per portare a compimento, secondo le nostre capacità, la filosofia dell’uomo. Orbene, per prima
cosa, se qualche buona indicazione parziale è stata data dai nostri predecessori, cercheremo di esaminarla,
366 , quali sono le cose che
poi cercheremo di vedere, sulla base delle costituzioni che abbiamo raccolte
conservano e quali sono quelle che distruggono le Città e ciascun tipo di costituzione, e quali sono le ragioni
per cui [20] alcune Città sono ben strutturate e altre sono strutturate male. Una volta esaminate
teoricamente queste cose, potremo forse meglio abbracciare con un solo sguardo anche quale sia la migliore
costituzione, in che modo ciascuna costituzione debba venire ordinata, e di quali leggi e di quali costumi
debba fare uso. Che la trattazione abbia inizio.