Invertire la rotta
Il rapporto tra crescita e disuguaglianza secondo Joseph Stiglitz (2018). Elaborato di
Gabriele Turco
1. La teoria dell’alta marea
Il testo di Stiglitz viene introdotto dalla teoria dell’alta marea, ossia la convinzione, a metà del XX
secolo, che “l’alta marea solleva tutte le barche”. Questa metafora poteva spiegare una politica di
stampo regressivo, che avrebbe favorito solo le classi più ricche, avrebbe generato benefici a cascata
per tutte le classi sociali, secondo la logica del “trickle down”. La tendenza del periodo post bellico
verso una maggiore uguaglianza si è invertita, sono rimasti a galla solo i grandi yatch mentre le
barchette sono andate a infrangersi contro gli scogli. Stiglitz dimostra come la disuguaglianza
crescente non ha portato benefici alla crescita economica, anzi, al contrario, ne è un ostacolo. Per
questo motivo è necessaria un’inversione di tendenza.
2. La disuguaglianza crescente nei redditi medi negli USA
Negli ultimi 30 anni, specialmente negli USA, i ricchi
si sono arricchiti sempre di più. Fra 1980 e 2014, il
reddito medio reale dell’1 per cento più ricco della
popolazione è aumentato del 169 per cento (da
469.403 dollari a 1.260.508 dollari al netto
dell’inflazione) e la sua quota di reddito nazionale
è più che raddoppiata, dal 10 al 21 per cento. Allo
0,1 per cento di super ricchi è andata persino
meglio, il loro reddito reale è aumentato del 281
per cento (da 1.597.080 dollari a 6.087.113 dollari)
e la loro quota del reddito nazionale è quasi
triplicata.
Nello stesso intervallo di tempo, il reddito familiare
mediano (delle famiglie comuni) è cresciuto solo dell’11% e solo nei primissimi anni: nel 2014 era più
alto di appena lo 0,7 rispetto al 1999. Ma nemmeno questo basta per capire il peggioramento delle
condizioni di vita degli strati sociali più bassi: i redditi sono aumentati perché sono aumentate le ore
di lavoro.
3. Salari e produttività netta negli USA
Dal 1973 al 2014, la retribuzione oraria mediana (al
netto dell’inflazione) è aumentata solo del 9 per cento,
nonostante nello stesso periodo la produttività sia
cresciuta del 72,2 per cento. Siamo in controtendenza
rispetto al periodo post-bellico: dal 1948 al 1973
produttività e salari crescevano di pari passo, dopo il
1973 questi ultimi si sono arrestati.
Nei primi tre anni della cosiddetta ripresa dalla Crisi del
2009, il 91 per cento dei guadagni è andato all’1 per
cento della popolazione. Nel 2014 il restante 99 per
cento ha lievemente migliorato la propria posizione
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ma, anche tenendone conto, dal 2009 al 2014 il 58 per cento dei guadagni di reddito è andato a
beneficio dell’1 per cento.
La disuguaglianza ha anche una connotazione etnica: dal 2005 al 2009 la famiglia americana bianca
media ha visto il proprio patrimonio ridursi del 16 per cento, la famiglia afroamericana del 53 per
cento e la famiglia ispanica del 66 per cento.
4. Una tendenza internazionale generalizzata
Gli USA sono in testa nella gara degli stati più iniqui
del pianeta, ma molto di quanto è stato descritto
avviene anche altrove. L’indice di disuguaglianza di
Gini è aumentato del 29 per cento in USA, del 17 per
cento in Germania, del 9 per cento in Canada, del 14
per cento in UK, del 12 per cento in Italia e dell’11
per cento in Giappone. Più i paesi seguono il
modello economico nordamericano, più i risultati
sembrano coerenti con quanto accade negli USA.
Oggi il Regno Unito è al secondo posto per
disuguaglianza tra i paesi dell’Europa Occidentale e Nordamerica, in Cina la disuguaglianza di reddito
è paragonabile a quella di USA e Russia. Dal 1985, l’indice di Gini è aumentato, spesso in maniera
significativa, il 17 dei 22 paesi Ocse.
5. Spiegare la disuguaglianza
La giustificazione di Nassau Senior e la teoria neoclassica
Nell’Ottocento si provò a giustificare l’iniquità sociale, presentandola come inevitabile. Nassau Senior
[Naso Sinioo], il primo titolare della cattedra Drummond all’All Souls College di Oxford (la prima
cattedra di economia della storia) parlava dei rendimenti di capitale come “ricompensa” dovuta ai
capitalisti per la loro oculatezza e parsimonia, era un premio per la loro rinuncia al consumo.
I neoclassici, successivamente, svilupparono la teoria della produttività marginale. Seconda questa
teoria, ognuno riceve un salario pari alla propria produttività marginale: ha un reddito più alto chi
apporta un contributo maggiore alla società.
Queste teorie giustificano disuguaglianze e tasse più basse ai redditi più alti: se decidessimo di tassare
molto i ricchi, li priveremmo della “giusta ricompensa” per il loro lavoro, non potrebbero esprimere il
loro talento e diminuirebbe il contributo che essi danno alla società tutta, con effetti negativi per ogni
classe sociale.
Questo può essere vero in parte: da un lato chi è più ricco ha più possibilità di contribuire al benessere
della società, d’altro canto, la disparità può derivare dallo sfruttamento, dalla discriminazione,
dall’esercizio di un potere di monopolio sul mercato.
Qual è la verità? I rentiers, i grandi manager e il settore finanziario
Prima con rentier si indicava colui che traeva una rendita dal possesso di un terreno, oggi il termine
“rendita” comprende tutti i profitti che derivano dal controllo di un monopolio e diritti di proprietà
affini. La rendita da monopolio non crea ricchezza, anzi la distrugge. Il monopolista, per controllare il
prezzo del prodotto, deve limitare la produzione.
La crescita dei redditi più alti, negli ultimi decenni, è stata trainata dai grandi manager e dal settore
finanziario.
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Per quanto riguarda i manager, secondo uno studio di Jensen e Murphy, si è osservato come l’aumento
delle loro retribuzioni non rifletteva la produttività delle imprese per cui lavoravano. Arrivano alle
stesse conclusioni Bebchuck, Fried e Grinstein: l’aumento del salario dei dirigenti era dovuto a una
governance aziendale imperfetta, che consentiva ai manager di stabilire da soli il proprio compenso,
piuttosto che alla loro produttività. Mishel e Sabadish osservarono che addirittura queste retribuzioni
aumentavano quando le quotazioni in borsa scendevano. E anche laddove i sistemi di remunerazione
dei manager sono regolati dal valore delle azioni, bisogna considerare che questo sale e scende in
funzione di molti fattori che non dipendono dagli amministratori. Negli USA, il rapporto tra il salario
di un AD e un lavoratore medio è salito da 20 a 1 a 354 a 1 nel 2012.
Per quanto riguarda il settore finanziario, è ormai nota la questione delle banche too big to fail, troppo
grandi per fallire. Le grandi banche prosperano non perché siano più efficienti, ma perché sono
finanziate dai contribuenti. Stiglitz spiega che sia Bush che Obama, in tempi di crisi, hanno cercato di
applicare una strategia di trickle down salvando le banche e i banchieri, nella speranza che tutti
avrebbero potuto beneficiare del salvataggio. Alle banche, però, non è stata imposta alcuna
condizione, nemmeno l’obbligo di erogare più prestiti, aiutare i proprietari di case o di mettere fine
alle pratiche più rischiose. Il salvataggio ha arricchito coloro che si trovavano più in alto, ma la ricchezza
non è filtrata verso il basso. A ciò si accompagnano pratiche anticoncorrenziali nel settore delle carte
di debito e di credito, che hanno generato rendite colossali, nonché la mancanza di trasparenza che
ha consentito il proliferare di strumenti come i Credit Default Swaps e simili.
I banchieri che hanno portato le loro aziende e l’economia globale alla rovina con la crisi del 20082009 hanno continuato a percepire compensi alti. Uno studio ha dimostrato che nel periodo 20002008, i dirigenti della Lehman Brothers hanno portato a casa retribuzioni per il valore di un miliardo
di dollari, mentre la Bearn Stearns per 1,4 miliardi di dollari. Queste cifre non sono state recuperate
in seguito al tracollo delle due società.
La debolezza dei sindacati nell’era della globalizzazione asimmetrica
L'indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori è stato un elemento importante nell’aumento
della disuguaglianza. Nella maggioranza dei paesi industrializzati c’è stato un calo degli iscritti ai
sindacati; senza la protezione di un sindacato, le condizioni dei lavoratori sono peggiorate. A questo
ha contribuito la politica: basti pensare alla repressione dei minatori ad opera della Thatcher o dei
controllori di volo ad opera di Reagan negli anni ‘80; inoltre, bisogna considerare la politica monetaria
delle banche centrali, imperniata sulla lotta all’inflazione: ogni volta che i salari aumentano, le banche
aumentano i tassi di interesse per timore dell’inflazione, portando ad un livello salariale e di
occupazione più basso.
Centrale in questo discorso è l’asimmetricità della globalizzazione: merci e capitali sono liberi di
spostarsi in ogni parte del globo, ma gli esseri umani no. I sindacati non sono in grado di proteggere i
lavoratori dal ricatto delle imprese che vogliono delocalizzare la produzione.
"Con un capitale altamente mobile, e con tariffe basse, le imprese possono semplicemente dire ai
lavoratori che se non accettano salari bassi e condizioni di lavoro peggiori l'azienda si sposterà
altrove. […] Immaginiamo per un attimo come sarebbe il mondo se i lavoratori potessero circolare
liberamente, ma il capitale no. I paesi farebbero a gara per attirare i lavoratori con la promessa di
fornire ai loro figli una buona istruzione e un ambiente sano in cui crescere, e di tassare poco i loro
stipendi: il tutto potrebbe essere finanziato imponendo tasse alte sul capitale. Ma non è il mondo in
cui viviamo."
Stiglitz, Invertire la rotta, p. 41
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6. Il prezzo della disuguaglianza
Quali sono le conseguenze della disuguaglianza? Contrariamente a quanto sostengono i teorici
marginalisti e del trickle down, la disuguaglianza è foriera di recessione, instabilità, riduzione di
opportunità e investimenti.
La disuguaglianza è associata all’instabilità
I ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno dimostrato che quando la disparità di reddito
è alta, i periodi di crescita tendono a essere più brevi. Per contro, una riduzione della disuguaglianza
di dieci percentili aumenta le aspettative di durata di un periodo di crescita economica del 50 per
cento. Anche gli studi dell’Ocse dimostrano che la disuguaglianza ha un effetto negativo sulla crescita:
negli USA, UK e Italia la crescita sarebbe stata tra i 6 e i 9 punti percentuali più alta se non fosse
aumentata la disuguaglianza di reddito.
L’indebolimento della domanda aggregata
La disuguaglianza porta a una riduzione della domanda per un semplice motivo: chi è in fondo alla
scala sociale consuma una quantità del proprio reddito maggiore rispetto a chi sta in cima. Se la
domanda di beni e servizi si riduce, le imprese decidono di ridurre la loro offerta, con la riduzione della
produzione si riduce l’occupazione e l’economia precipita in un circolo vizioso.
La disuguaglianza dei risultati genera una disuguaglianza di opportunità
L’economia paga il prezzo della disuguaglianza non solo con la riduzione della domanda
nell’immediato, ma anche con la riduzione della crescita nel lungo termine. Se un bambino americano
su quattro cresce in povertà, senza possibilità di avere istruzione, alimentazione e cure adeguate, è il
futuro del paese ad essere a rischio.
Minori investimenti pubblici nelle aree che aumentano la produttività
Nei paesi con maggiore disuguaglianza, le politiche economiche e gli investimenti pubblici tendono a
favorire il settore finanziario rispetto ai settori produttivi. Essi sono meno inclini ad investire in
trasporti pubblici, infrastrutture, tecnologia e istruzione. Oggi, negli USA, le tasse sui rendimenti delle
speculazioni finanziarie a lungo termine (plusvalenze) sono la metà di quelle sul lavoro. La normativa
fiscale incoraggia la creazione di posti di lavoro all’estero e non in patria, il risultato è un’economia più
debole e instabile.
Riformando queste politiche e adottandone altre per limitare la ricerca di rendita, diminuirebbero non
solo le disuguaglianze, ma ne gioverebbe l’andamento di tutta l’economia.
7. Invertire la disuguaglianza
Secondo Stiglitz, giunti a questo punto, occorre riscrivere le regole del gioco per prevenire
discriminazioni, creare diritti di contrattazione dei lavoratori, contenere i monopoli e limitare lo
strapotere di grandi manager. L'economia va rafforzata con una serie di riforme come un maggior
sostegno all’istruzione a tutti i livelli, l’aumento del salario minimo e il rafforzamento dei crediti
d’imposta sui redditi da lavoro.
La performance pay
Abbiamo visto che il compenso dei manager non riflette la loro produttività. Per ovviare a questo
problema occorre adottare la performance pay: basare il salario sull’andamento relativo di altre
aziende in circostanze comparabili. I criteri per disegnare simili sistemi di retribuzione sono noti da
oltre trent’anni, eppure i manager li ignorano e preferiscono sfruttare le falle della governance per
accrescere i loro guadagni, ricevendo compensi quando il valore delle azioni sale e persino quando
scende.
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Interventi macroeconomici
Occorre intervenire sulla stabilità economica e favorire la piena occupazione, considerando che i
lavoratori sono penalizzati dalla disoccupazione, dai salari deboli e dai tagli ai servizi pubblici, dovuti
al fatto che quando l’economia va male scendono anche le entrate dello stato. Occorrono maggiori
investimenti pubblici in infrastrutture, tecnologia e istruzione, per ridare slancio alla domanda e
alleviare la disuguaglianza. Non c’è bisogno di aumentare il debito rispetto al PIL: progetti
infrastrutturali intelligenti si ripagherebbero da soli, considerando che l’aumento del reddito (e quindi
le entrate fiscali) compenserebbero l’aumento della spesa pubblica.
Favorire l’istruzione
Se i governi garantiscono parità di accesso all’istruzione, la differenziazione delle retribuzioni rifletterà
la distribuzione delle capacità (compresa la capacità di trarre beneficio dall’istruzione). Se, come negli
USA, chi viene da una famiglia ricca potrà accedere a una istruzione migliore, le disuguaglianze si
trasmetteranno di padre in figlio e le disparità di salario e di reddito delle nuove generazioni
rifletteranno quelle della generazione precedente.
Intervenire sulla tassazione
Tutti questi investimenti potrebbero venire finanziati da una tassazione equa dei redditi da capitale,
che contribuirebbe a ridurre la disuguaglianza riducendo il rendimento del capitale. Le norme speciali
che garantiscono una tassazione favorevole di plusvalenze e dividendi alterano l’economia e
aumentano le disuguaglianze, favorendo i più ricchi. Allo stesso tempo, impongono costi enormi per
le finanze pubbliche, quantificati dall’Ufficio bilancio del Congresso USA in 2000 miliardi di dollari per
il decennio 2013-23. Occorre riformare il codice fiscale eliminando le norme speciali per plusvalenze
e dividendi, tassando le plusvalenze in base al capitale accumulato
8. Ridefinire il concetto di performance economica
In conclusione, occorre ridefinire il concetto di performance economica. Eravamo abituati a credere
che per il bene dell’economia occorresse sacrificare l’uguaglianza sull’altare della crescita economica.
Non è così: una minore disuguaglianza può solo fare bene alla crescita economica e sono necessari
interventi, azioni legislative e investimenti in questa direzione. Inoltre, occorre adottare nuovi
parametri per misurare la crescita: il Pil non è uno strumento efficace per valutare i risultati economici,
poiché l’aumento del prodotto interno può essere accompagnato da forti disuguaglianze e da una
riduzione del benessere generale. Bisognerebbe guardare, ad esempio, il reddito disponibile mediano.
Occorre tenere in considerazione la salute, la giustizia, la sicurezza, cose che le statistiche sul Pil non
sono in grado di analizzare. Se continuiamo ad usare i parametri sbagliati, continueremo a batterci per
le cose sbagliate.
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