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Salute e disuguaglianze in Europa

Strumenti per la didattica e la ricerca

This work analyses the relation between social inequality and health by focusing on the social processes and individual mechanisms that construct it within the area of action of the economic sphere, the cultural sphere and the social and territorial sphere. Within this framework, the body is conceived as a link between the physical, biological and material dimensions and the social, relational and emotional dimensions. At the same time, the proposal is to go beyond the well-known relationship between economic resources/social position and levels of health/life expectation, concentrating on the specific social and psychological dynamics generated by the availability of socio-economic capital. The over-simplified perspective of the social gradient of health is overtaken by an analysis of the relational dimension of the individual and his/her reference groups, and finally by appraising both the individual and collective aspects that can be traced to the social and political context and...

strumenti per la didattica e la ricerca – 103 – Giulia mascagni Salute e disuguaglianze in Europa processi sociali e meccanismi individuali in azione Firenze university press 2010 salute e disuguaglianze in europa. processi sociali e meccanismi individuali in azione / Giulia mascagni. – Firenze : Firenze university press, 2010. (strumenti per la didattica e la ricerca ; 103) http://digital.casalini.it/9788884539793 isBn 978-88-8453-981-6 (print) isBn 978-88-8453-979-3 (online) progetto grafico di alberto pizarro Fernández © 2010 Firenze university press università degli studi di Firenze Firenze university press Borgo albizi, 28, 50122 Firenze, italy http://www.fupress.com/ Printed in Italy Indice prefazione 7 di Paolo Giovannini introduzione 11 prima parte capitolo 1 Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 17 capitolo 2 Welfare e salute in europa: uno sguardo d’insieme 37 capitolo 3 tre paesi, tre modelli: svezia, regno unito, italia 65 seconda parte capitolo 4 disuguaglianze sociali e salute: gli aspetti redistributivi 101 capitolo 5 la dimensione socioculturale 127 capitolo 6 la dimensione relazionale 143 conclusioni 167 Bibliografia 179 Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 6 Salute e disuguaglianze in Europa indice delle FiGure e delle taBelle Figure trend della mortalità per malattie cardiovascolari 43 piramide delle età - svezia 80 principali cause di mortalità per genere e gruppo d’età in svezia. confronto con la media europea (eur-a=100), 2001 82 piramide delle età - regno unito 84 principali cause di mortalità per genere e gruppo d’età nel regno unito. confronto con la media europea (eur-a=100), 2001 85 piramide delle età - italia 87 principali cause di mortalità per genere e gruppo d’età in italia. confronto con la media europea (eur-a=100), 2001 89 tabelle aspettativa di vita alla nascita, per genere 38 aspettativa di vita in salute (dati 2006) 39 disuguaglianze nella mortalità in base alla posizione socio-economica 40 Fumatori per genere e fascia di età (in percentuale) 45 tumore al seno (anno di rilevazione 2002) 47 percentuale del pil destinato alla spesa sanitaria 70 percentuale della popolazione per fasce di età – svezia 81 percentuale della popolazione per fasce di età - regno unito 83 percentuale della popolazione per fasce di età - italia 87 incidenza dei fattori di rischio sulla vita media in salute 90 indicazioni relative al consumo di alcol 92 modello demand-control 118 Prefazione sono almeno tre decenni che le società europee, ma in modo ancor più accentuato l’italia, vedono estendersi al loro interno aree sempre più vaste e numerose di disuguaglianza sociale, nelle quali si allargano progressivamente le forbici tra ricchi e poveri, tra chi ha e chi non ha – sul piano economico, ma anche su quello più generale delle chance di vita. siamo vicini a un pericoloso livello di intollerabilità, che rischia di mettere in gioco le residue condizioni di integrazione e coesione sociale, con i rischi che ne conseguono per la stabilità delle istituzioni e per la tenuta del tessuto societario. in italia, non sono ormai pochi quelli che individuano proprio in questa anomala divaricazione della struttura di classe la causa fondamentale della persistente situazione di ristagno economico e di blocco culturale del nostro paese. Quando i parametri della ricompensa sociale appaiono infatti fuori misura, quando si è dimostrato debole o inesistente il rapporto tra impegno e risultato, la società si fa immobile, prevale una figura sociale che potremmo definire di «cittadino scoraggiato», si diffonde tra la gente un senso di inutilità di ogni sforzo di mobilitazione personale, familiare e di gruppo, che finisce per allontanare anche dai terreni della politica e della socialità. l’autore affronta questo campo d’indagine – la disuguaglianza sociale – disponendo di un solido bagaglio teorico e metodologico, ma soprattutto facendo uso intelligente e misurato di quello strumento, patrimonio indispensabile di ogni buon ricercatore, che è l’immaginazione sociologica. una qualità, per dirla con mills, che permette di tenere insieme biografia e storia e di coglierne il mutuo rapporto nell’ambito della società, pur mantenendo distinte le difficoltà personali (troubles) dai problemi pubblici e sociali (issues). una qualità che si applica ad ogni campo di indagine, un prerequisito ritenuto universalmente indispensabile in particolare in campo sociologico per impostare correttamente i più diversi problemi Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 8 Salute e disuguaglianze in Europa di ricerca. per dare un solo riferimento, è significativo da questo punto di vista che in un recentissimo manuale di sociologia (quello di alexander e thompson, appena uscito con il mulino) gli autori, nell’affrontare ciascuno dei molti argomenti presi in analisi (dalla sessualità al genere, dal lavoro all’istruzione, dalla devianza alla salute, e così via), si pongano ossessivamente la stessa domanda – «problema individuale o problema sociale?» – ad indicare che solo sciogliendo decisamente questo nodo con gli strumenti offerti dall’immaginazione sociologica si possa procedere a un serio lavoro di ricerca. È soprattutto per analisi come quelle condotte in questo libro che l’immaginazione sociologica si rivela una capacità cruciale. Giulia mascagni ne è ben consapevole e affronta decisamente il punto richiamando nell’Introduzione il classico esempio del Suicidio: un problema di indiscutibile natura individuale di cui pure durkheim dimostra con ricchezza di dati la natura sociale. osserva l’autore che, se è vero che gran parte dei temi con i quali si confronta l’analisi sociologica si presenta agli occhi e al sentire dei più sotto un profilo assolutamente personale e unico che ne occulta la natura sociale e pubblica e che dunque pare affrontabile ed è affrontata con mentalità e strumentazione individuale, nell’ambito particolare della salute e delle disuguaglianze c’è in più una soggettiva difficoltà di ricondurre una condizione indubbiamente privata e personale (come è appunto lo star bene o lo star male) a una problematica pubblica e sociale. in effetti, non bisogna andare molto oltre la propria esperienza di vita per capire come la salute (buona o cattiva che sia) possa essere percepita emotivamente dal soggetto come un dato tipicamente individuale. non è un caso che la figura professionale dominante e pressoché esclusiva con la quale ci si rapporta su questo piano sia il medico, un professionista che solo molto raramente mette in campo strumenti diagnostici e tanto meno terapeutici di portata e di senso sopraindividuale. mascagni accetta fin dall’inizio e senza incertezze queste sfide teoriche ed empiriche, procedendo via via a ricostruire la dimensione sociale dello stato di salute e la relazione sicura ma non semplice di questo con il sistema delle disuguaglianze. una relazione pazientemente indagata su vari terreni e da varie prospettive. Quello della storia sociale, politica e istituzionale dei principali paesi europei, prima di tutto. con due risultati rilevanti: primo, di sottolineare l’importanza delle storie nazionali e in particolare dei modi e tempi del passaggio alla società industriale nella scoperta e nella specifica configurazione del rapporto tra salute e disuguaglianze sociali; secondo, di evidenziare il ruolo cruciale anche se non univoco che i differenti sistemi nazionali di welfare giocano nel rendere più o meno stretto e vincolante quel rapporto. ma è sul terreno dell’analisi sociale che Giulia mascagni porta i contributi di maggior interesse. non limitandosi, come troppo spesso si registra nella letteratura di settore, a documentare lo stretto legame tra disugua- Prefazione 9 glianza sociale e salute su un piano quantitativo e materiale, che guarda ai meccanismi distributivi e redistributivi della ricchezza come determinanti dell’ineguale distribuzione degli stati di salute: allargando invece l’orizzonte interpretativo agli aspetti qualitativi e immateriali, alle dinamiche sociali e relazionali, all’influenza esercitata dai patrimoni e dalle eredità culturali di gruppi sociali e territoriali sull’intensità e sulle modalità della relazione tra salute e disuguaglianze. È in particolare su questo terreno che l’autore mette a profitto la sua non comune sensibilità per le dinamiche di lungo periodo, facendo largo ricorso a materiali empirici (fondati su storie di vita, studi di caso, analisi ecologiche e di storia delle società locali) in grado di gettare luce sui meno conosciuti processi sociali e meccanismi individuali che agiscono sul terreno della salute. star bene o star male si rivelano allora con chiarezza condizioni almeno parzialmente dipendenti dai contesti sociali che vi si accompagnano. una dipendenza che però non segue né riproduce piattamente la scala e la direzione della disuguaglianza sociale, ma si fa più forte e lascia meno spazio all’azione individuale via via che si scende nella gerarchia economica e sociale. sono i poveri cioè che, sperimentando sofferenze più che proporzionali rispetto alla loro realtà di deprivazione, dimostrano con assoluta nettezza la forte determinazione sociale dello stato di salute. le ragioni sono molte e di diversa natura, assai bene argomentate nel libro. ne richiamo solo una, che però risultata essere di grande peso. i servizi sanitari ed assistenziali – pure essendo istituzionalmente preposti a sorreggere e assistere i ceti più deboli della popolazione – si rivelano non di rado di scarsa efficacia e capacità attrattiva, venendo dunque meno alle proprie funzioni e aggravando ulteriormente la relazione positiva tra disuguaglianza sociale e salute. come ho detto, questa dinamica di influenza non opera però meccanicamente in una sola direzione. l’autore è in questo senso molto attento a cogliere i segnali meno chiari e più controversi del rapporto che si stabilisce tra salute e disuguaglianze nella concretezza dell’esperienza sociale. ricordo solo due analisi tra le più convincenti. la prima riguarda la relazione tra stato di salute, mobilità e destino sociale, di cui mascagni indaga le reciproche influenze, sia lungo percorsi intragenerazionali che intergenerazionali. Vi intervengono variabili di diversa natura e vi gioca spesso un ruolo non secondario il caso e la buona o cattiva sorte. una malattia o una morte, ad esempio, sono eventi che possono cambiare il corso di una vita, interrompere un processo sociale, modificare un progetto lungamente coltivato. ma le possibili direzioni di questo cambiamento, gli sviluppi negativi o positivi di esso, sono ancora una volta da riportare al peso e all’azione delle condizioni sociali alle quali è soggetto l’individuo (o meglio, l’individuo-famiglia) colpito dall’evento; come, e ancor più, al clima culturale e alla rete di relazioni sociali nelle quali è immerso. la seconda analisi si collega a quest’ultimo punto. Facendo tesoro della tradizione scientifica della scuola fiorentina sulle problematiche terri- 10 Salute e disuguaglianze in Europa toriali, di cultura e società locale, Giulia mascagni propone alla fine del suo lavoro un’interessante sintesi delle reciproche influenze tra salute e disuguaglianze guardando a come le determinanti economiche, culturali e sociali si incrociano empiricamente sul territorio, fornendo all’azione individuale una specifica cornice culturale e relazionale, limitata nel tempo e nello spazio, riportabile all’unicità e alla diversità di ogni società locale. È un tentativo – come potrà vedere il lettore – che offre una configurazione e una concretezza storica inusuale al problema al centro del libro, proponendo convincentemente spiegazioni che normalmente sfuggono alle analisi non territoriali, e soprattutto riuscendo a dar conto delle differenze intranazionali di relazione tra salute e disuguaglianze che altrimenti resterebbero di incerta spiegazione. segnalo infine un ultimo pregio di questo libro, che per scelta del tema e stile espositivo si richiama alla migliore vocazione della sociologia: e cioè l’impegno civile che lo anima nell’affrontare un tema scientificamente scomodo e pieno di difficoltà interpretative, ma che dovrebbe assai più di quanto non accada oggi essere costantemente all’attenzione delle classi dirigenti e dell’opinione pubblica. perché è su questo piano, più che altrove, che si gioca l’eterna partita tra i due valori fondamentali della convivenza umana, quello della libertà e quello dell’uguaglianza. paolo Giovannini Introduzione come dimostra l’aspro conflitto sulla riforma sanitaria che sta caratterizzando la prima fase governativa della nuova presidenza statunitense, è sul terreno della salute che più chiaramente emerge il confronto tra le grandi scelte sociali e politiche, e si rinnova l’eterna competizione – costitutiva ma quasi inconciliabile opzione della civiltà occidentale – tra le ragioni della libertà e quelle dell’uguaglianza. l’idea di partenza di questa ricerca è stata quella di confrontarsi con il classico ma ancora non risolto problema sociologico della disuguaglianza andando a ricercare e, se possibile, a dimostrare le sue relazioni con lo stato di salute. le ragioni che hanno spinto ad indagare su questa ipotesi sono molte. la prima è di diretta ispirazione durkheimiana. come durkheim aveva affrontato il tema del suicidio per dare prova della natura sociale di un atto considerato da tutti individuale, così con questo lavoro si è scelto di dimostrare per quanto possibile la natura sociale (almeno parzialmente sociale, dato il suo essere stato indiscutibilmente anche fisico e biologico) della salute: nel duplice senso che su questa influiscono decisamente quelli che la letteratura disciplinare definisce determinanti sociali della salute, e la stessa a sua volta agisce causalmente in maniera rilevante nel determinare traiettorie ed esiti finali dei percorsi di vita. la seconda ragione sta nell’assoluta centralità attribuibile ed attribuita allo stato di salute per la vita dell’individuo così come per la vita della società. la natura sociale del problema della salute è per così dire enfatizzata dalla stretta, immediata e drammaticamente vissuta relazione che la lega alle questioni cruciali della sopravvivenza, a livello individuale, ma anche a livello familiare, di gruppo e persino di società1. È nella sfera della salute si pensi a cosa hanno significato, in passato, le grandi epidemie, e a come ancora oggi esse possano mettere in pericolo – è il caso dell’aids – l’esistenza stessa di intere società. 1 Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 12 Salute e disuguaglianze in Europa che la sensibilità è più avvertita, e più direttamente presente nella esperienza quotidiana e nella memoria individuale e collettiva. ciò ha significato avere a disposizione una enorme quantità di dati – cosa che, peraltro, ha creato qualche problema – sia sull’oggi sia sul passato anche remoto: per alcuni casi nazionali (come il regno unito, ma non solo) la possibilità di accedere ad una ricchissima documentazione, anche sul lungo periodo, ha consentito un approccio diacronico non facilmente esperibile in altri settori di ricerca. la terza ragione, infine. come si argomenterà meglio nel primo capitolo, guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale è sembrato, forse un po’ ingenuamente, un modo più semplice e meno arbitrario di disporre di dati e informazioni «oggettivi» e «misurabili» su una situazione – appunto, lo stato di salute – che tutta la letteratura specialistica ha ampiamente, anche se spesso genericamente, dimostrato essere in relazione con lo stato della disuguaglianza presente all’interno di una società. in altre parole, l’idea è stata quella di poter disporre di un indicatore sufficientemente preciso, o almeno comparativamente più preciso di altri possibili, che consentisse di valutare il peso e la configurazione dell’ineguale distribuzione delle risorse economiche, culturali e sociali all’interno di un paese. come si vedrà, l’analisi si è posta dei sicuri limiti spaziali e temporali. prima di tutto prendendo in esame la situazione europea solo nel suo nucleo originario, per garantirsi un livello sufficiente di omogeneità del campo d’indagine: risulterebbe infatti poco efficace mettere a raffronto su un tema come questo paesi a forte differenza di sviluppo, per la relazione troppo scontatamente lineare che si viene a stabilire tra salute e disuguaglianza sociale (come si accennerà all’inizio del quarto capitolo). secondo, focalizzando poi l’indagine su tre paesi, svezia, regno unito e italia, la cui storia recente, i profili istituzionali, e le stesse caratteristiche sociali e culturali li hanno candidati a rappresentare con buona approssimazione le diverse tipologie prevalenti in europa sotto i profili più direttamente collegati al tema della nostra ricerca: sistemi di welfare e politiche sanitarie in primo luogo. infine, ricostruendo i relativi contesti nazionali, sul piano dell’assetto sociale e culturale, ma anche dei loro percorsi storici e istituzionali e dei loro esiti contemporanei. ciò ha consentito una valutazione meno meccanica dei risultati via via emersi, mettendoli continuamente a confronto e, per così dire, ponderandoli con le rispettive realtà nazionali. entrando nel vivo della ricerca si è però dovuta affrontare una prima, e in buona parte inaspettata, difficoltà. a differenza dell’impostazione data a questo lavoro, che vuole indagare la salute nella sua relazione con la disuguaglianza sociale – ovvero si propone di affrontare il problema che fin dalle origini della disciplina è considerato centrale e in un certo senso costitutivo della sociologia – e ha dunque valenza specificamente sociologica, la maggior parte delle indagini condotte sul tema si rifà invece a discipline diverse, nei confronti delle quali la ricerca sociologica dimostra con Introduzione 13 poche eccezioni una forte subalternità teorica e metodologica. dominante, in campo nazionale e ancor più in campo internazionale, è l’epidemiologia, che opera scientificamente, nella maggior parte dei casi, dentro grandi dipartimenti o centri di ricerca medica, quindi in supporto e con obiettivi definiti nel campo della medicina più che in quello delle scienze sociali. lo stesso si può dire per le discipline economiche che, negli ultimi tempi, ormai dedicano non poca attenzione alla relazione tra disuguaglianza sociale e salute con l’approccio e le metodologie formalizzate tipiche del campo, e con risultati, a dire il vero, poco utilizzabili ai fini di una analisi di tipo sociologico. infine, sono spesso gli stessi medici a muoversi in questa direzione di ricerca, con contributi di interesse variabile, ma comunque – come è ovvio – poco addentro alle tematiche più tipicamente sociologiche. sono emerse anche altre problematicità. la ricerca sociologica sulla relazione disuguaglianza sociale/salute non solo occupa uno spazio quantitativamente ridotto ma – come già si è accennato – dà purtroppo l’impressione di essere spesso dipendente dagli approcci, dalle metodologie e persino dagli stessi apparati concettuali e definitori che sono normalmente adottati negli altri campi disciplinari. ci sarà più di un’occasione, nel corso del volume, di mettere in rilievo queste aporie, che si manifestano anche nell’uso poco riflettuto di terminologie quasi assenti nella tradizione sociologica e invece assolutamente dominanti nella letteratura sul tema – alle quali, alla fine, ci siamo quasi sempre dovuti adattare anche in questo lavoro. per fare solo qualche esempio, concetti ed espressioni come gradiente sociale, determinanti sociali della salute, disuguaglianze sociali nella salute, sindrome di status, inconsistenza di status, e così via, sono accettati senza opposizione nella ricerca sociologica, mentre sarebbe forse più opportuna una loro utilizzazione più critica e meno meccanica. sono difficoltà che manifestano tutta la loro importanza quando si vanno ad utilizzare le pur ricchissime banche dati nazionali e internazionali che dedicano attenzione al problema, e persino le stesse survey che periodicamente indagano la relazione tra disuguaglianza e salute. perché, come è per certi versi naturale, le categorie concettuali, i sistemi di classificazione e le tipologie di aggregazione dei dati seguono l’impostazione mainstream, alla quale dunque anche l’analisi secondaria, come in gran parte è stato fatto in questa stessa sede, si deve giocoforza adattare. la seconda parte del lavoro fa largo ricorso all’analisi delle più importanti ricerche sociologiche prodotte sul tema in funzione di un approfondimento dei principali meccanismi che mettono in relazione disuguaglianze sociali e salute. esaurito nella prima parte l’approccio comparativo, rimane un riferimento privilegiato anche se non esclusivo ai tre paesi prescelti. l’idea, come già detto, è che la valutazione e l’interpretazione dei risultati di queste ricerche possano risultare meno influenzate dalla varietà delle situazioni prese in esame, e trovino dunque una loro maggiore solidità per essere inserite in un contesto sociale, culturale e istituzionale già conosciu- 14 Salute e disuguaglianze in Europa to e descritto nelle sue linee essenziali. a fianco dell’analisi secondaria, ci si è avvalsi anche del materiale informativo accumulato in specifiche banche dati, o frutto delle poche ma importanti survey che hanno contribuito negli ultimi anni ad arricchire quelle analisi longitudinali così significative per questo lavoro. infine, soprattutto nel sesto capitolo, si è fatto ricorso quando possibile a studi di caso che meglio si prestano a dar conto di come si struttura il rapporto tra disuguaglianze sociali e salute in specifici contesti ambientali e territoriali. l’obiettivo principale di questa seconda parte è sicuramente – anche quando fa uso di dati hard – più di natura qualitativa che quantitativa. l’idea da cui si è mossi è quella di focalizzare l’analisi sui più importanti processi in gioco nella relazione tra disuguaglianze sociali e condizioni di salute. lo si fa in due modi. primo, seguendo il percorso conoscitivo che ha portato negli ultimi decenni a isolare e ricostruire alcuni di quei processi, così da identificare via via i passaggi teorici e concettuali che sono venuti progressivamente arricchendo (e complicando) la loro interpretazione. secondo, affrontando il problema sui due principali terreni nei quali si struttura il rapporto tra disuguaglianze sociali e salute, e cioè quello redistributivo (a partire dunque dagli aspetti quantitativi e materiali) e quello relazionale, dove si presterà più diretta attenzione agli aspetti qualitativi e immateriali (reti sociali, cultura, valori, stili di vita, ecc.). chiude il volume un’analisi che tiene insieme entrambi gli aspetti, ma tentandone una lettura a partire da più precise variabili di contesto ambientale e di società locale, con l’intento di valutare l’autonoma incidenza delle differenze territoriali e di ricostruire le relazioni tra disuguaglianza sociale e salute in una più concreta dimensione mesosociologica. PaRTE PRIMa Concepisco nella specie umana due generi di disuguaglianza: l’una che chiamo naturale o fisica, perché è stabilita dalla natura, e che consiste nella differenza di età, di salute, di forze corporee e qualità dell’intelligenza e dell’anima; l’altra che si può chiamare disuguaglianza morale o politica, perché dipende da una specie di convenzione ed è stabilita o almeno autorizzata dal consenso degli uomini. Quest’ultima consiste nei diversi privilegi di cui alcuni godono a danno degli altri – come essere più ricchi, più onorati, più potenti di loro, o anche di farsi obbedire. Non si può chiedere quale sia l’origine della disuguaglianza naturale, perché la risposta è già contenuta nella semplice definizione della parola. Ancora meno è possibile cercare se non ci sia qualche legame essenziale fra le due disuguaglianze perché sarebbe come chiedere con altre parole se quelli che comandano valgono necessariamente di più di quelli che obbediscono e se le forze del corpo o dell’intelligenza, la saggezza o la virtù, si trovino sempre negli stessi individui proporzionate alla loro potenza o alla loro ricchezza. (rousseau 1755, p. 32) Capitolo 1 Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale l’essere in salute può essere definito non solo con una accezione negativa come una generica assenza di patologie e rischi che compromettono le normali attività di un individuo fino a metterne a rischio la stessa sopravvivenza, ma più precisamente – come peraltro suggerisce fin dal 1947 la stessa organizzazione mondiale della sanità – tenendo anche conto della sua dimensione positiva, può essere esplicitato come stato di benessere delle condizioni psicofisiche dell’individuo1. l’essere in salute rappresenta dunque la precondizione necessaria affinché «una persona abbia piena capacità di misurarsi con la realtà, al fine di realizzare se stessa in modo proporzionale ai valori, ai compiti, ai bisogni, alle aspirazioni, alle potenzialità individuali che essa si pone, all’interno di un contesto sociale che avanza delle domande e introduce dei vincoli che la persona deve poter negoziare efficacemente» (costa, cardano, demaria 1998, p. 34). tra le molte possibili prospettive offerte da uno studio della salute di taglio sociologico, si è scelto di affrontare una questione per molti versi cruciale: quella della controversa relazione tra disuguaglianze sociali e condizione psicofisica dell’individuo. in un recente lavoro di sistematizzazione teso ad individuare le teorie principali e i futuri obbiettivi della sociologia della salute e della medicina (Williams, Gabe, calnan 2000) le dimensioni di maggiore interesse di studio e di riflessione tanto teorica quanto empirica il seguente brano di amartya sen si rivela utile per meglio comprendere questa proposta di definizione della categoria di salute: «il concetto di libertà individuale comprende, da un lato, tutte quelle caratteristiche positive e funzionali che ci mettono in grado di vivere da individui responsabili e attivi, dall’assistenza sanitaria all’istruzione, alla liberazione dalla fame e dalla miseria e così via. dall’altro lato, comprende anche nostre libertà e autonomie fondamentali quali la possibilità di partecipare ai processi politici e sociali che influenzano le nostre vite. la libertà in questo contesto viene valutata sia nel suo senso positivo (libertà di) sia nel suo senso negativo (libertà da)» (1998, p. 57). 1 Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 18 Salute e disuguaglianze in Europa sono state individuate in: disuguaglianze, corpo, rischi e consumi, emozioni. di queste la dimensione della disuguaglianza occupa lo spazio di maggiore interesse sociologico, anche se – come si vedrà – sarà necessario tenere conto dell’interazione con gli altri elementi in gioco, primi fra tutti il corpo, i comportamenti a rischio e le pratiche di vita e di consumo. 1. La scoperta del problema È opportuno, prima di tutto, soffermarsi brevemente sulla complessa e antica questione del riconoscimento della relazione tra disuguaglianze sociali e salute, della sua natura e della sua rilevanza2. oggi la salute è universalmente riconosciuta come uno specchio dello stato di benessere di una società, tuttavia la consapevolezza e l’ammissione di questa relazione sono maturate lentamente nel tempo. alcune tappe di questa scoperta sono particolarmente importanti ed emblematiche di come le differenze sociali nelle aspettative di vita e nei livelli di salute siano un dato costantemente presente nella storia delle società. per limitarsi comunque all’epoca moderna, si ricorda come già nella Ginevra del XVii secolo si registrassero differenze di vita media di ben 18 anni tra le classi sociali più facoltose, la cui aspettativa di vita si aggirava attorno ai 36 anni, e quelle più disagiate, per le quali la speranza di vita arrivava a soli 18 anni (perrenoud 1979). differenze rilevate con simili modalità di distribuzione – a conferma empirica della regolarità delle disuguaglianze della salute nella scala sociale – anche dallo studio di margaret Whitehead (drever e Whitehead 1997) basato sull’analisi dei dati registrati tra il XVii e il XViii secolo dalle anagrafi parrocchiali di diverse città della Gran Bretagna. Gli effetti perversi delle disuguaglianze sociali sulla salute cominciano ad essere osservati direttamente e combattuti apertamente proprio tra 2 la questione si presenta complessa anche dal punto di vista della definizione terminologica. Guardando alla letteratura di settore si sono incontrate almeno due formule ricorrenti: disuguaglianze sociali di salute e disuguaglianze sociali in/nella salute. la prima – per fare solo alcuni esempi – è stata adottata da Jean olivier mallet (a partire dal titolo della sua relazione Disuguaglianze sociali di salute, ricerca scientifica e dibattito pubblico: alcuni appunti sul caso francese presentata al convegno ais di pescara nel novembre 2006); da Johannes siegrist (si ricorda l’articolo del 2006 Le disuguaglianze sociali di salute: oltre le spiegazioni materiali pubblicato sul primo supplemento del 2006 di salute e società); da mario cardano (2008b). la seconda, rintracciabile anche in articoli in lingua inglese come A typology of actions to tackle social inequalities in health di margaret Whitehead (2007), è riproposta da diversi autori italiani, da costa (con cardano, demaria 1998; e con Bellini, spadea 2006) a stefanini (2006). in questo volume però parlare tanto di disuguaglianze sociali di salute quanto di disuguaglianze sociali nella salute non sembra sufficientemente in linea con l’impostazione adottata. perseguendo l’obiettivo di individuare quelle disuguaglianze sociali capaci di esercitare un’influenza particolare sullo stato di salute, ma anche di ricostruire processi sociali e meccanismi individuali di interazione tra le due dimensioni, si è preferito adottare (abitualmente) la formula disuguaglianze sociali e salute, proprio per sottolineare la relazione di reciproca influenza tra sistema delle disuguaglianze sociali e sfera della salute. Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 19 la fine del 1600 e l’inizio del 1700, allorché si potenziano ed articolano le strutture amministrative e di governo degli stati territoriali e si può cominciare a parlare di sviluppo organizzato del controllo medico sanitario. per la prima volta viene indicato un legame diretto tra l’esercizio di particolari attività lavorative, specifiche tipologie di mansioni e lo sviluppo di precise patologie: ne è artefice il medico Bernardino ramazzini, che illustra la sua innovativa teoria con il supporto di un pionieristico e accuratissimo studio sul campo, pubblicato nell’anno 1700 sotto il titolo di De morbis artificium diatriba. Qualche decennio più tardi, sulla scorta delle indicazioni politiche del dispotismo illuminato, nel continente europeo si diffonde gradualmente un interesse particolare per le condizioni di salute e le capacità riproduttive della popolazione, ormai sempre più vicina ad essere considerata forza lavoro, secondo le esigenze di una rivoluzione industriale alle porte. in quegli stessi anni vedono la luce numerose opere volte a promuovere la «medicina politica» come «arte di difesa» a vantaggio della salute collettiva, opere che contribuiscono non poco a fare adottare le prime misure in campo sanitario come l’istituzione di una «polizia medica» finalizzata al controllo della politica demografica. tra tutte si può citare System einer Vollständige Medizinischen Polizei (il primo dei quarantuno volumi venne pubblicato nel 1778), del medico renano Johan peter Frank. con quest’opera, nella quale sono affrontati sistematicamente i temi propri della «politica della salute pubblica», Frank introduce e diffonde alcuni concetti rivoluzionari per l’organizzazione sanitaria austriaca: primo fra tutti la separazione dell’assistenza medica dal campo della beneficenza; ma anche l’idea che allo stato fosse riconosciuto un ruolo nuovo, attivo e di vigilanza, in altre parole che lo stato fosse considerato per la prima volta depositario di un vero e proprio dovere di cura nei confronti dei suoi sudditi la cui salute è riconosciuta come uno dei beni più preziosi dell’impero3. Frank propone (come riportato da Valsecchi 1998) un progetto di istituzione di un corpo di polizia medica capace di vigilare sui cittadini dalla culla alla bara. ogni singolo individuo dovrà essere controllato nella sua concupiscenza, nel suo celibato, nei suoi matrimoni immaturi, troppo maturi, ineguali o malsani, nella sua fertilità, gravidanza, aborto, allattamento, nell’educazione dei figli, nei cibi e nelle bevande che assume, nella temperanza, nelle sue abitazioni, negli accidenti della vita (crolli, alluvioni, pazzie, meteore), nelle turbative della pubblica sicurezza (avvelenamenti, omicidi, suicidi), nel suo morire ed essere sepolto; specularmente al ramo di medicina veterinaria spetterà un altrettanto capillare controllo sugli animali. per poter provvedere a tutto ciò serviranno medici, chirurghi, bassi chirurghi, ostetriche, farmacisti e veterinari opportunamente addestrati e dotati di farmacie, spedali, lazzaretti e cimiteri. nonostante questi ed altri numerosi passi decisamente innovativi, come per esempio il lungo paragrafo dove l’autore raccomanda che i bambini siano allevati senza procurare loro spaventi con racconti di fiabe di befane e lupi mannari, un punto debole dell’enciclopedica opera di Frank è rappresentato dal fatto che per l’autore il contesto della vita umana rimanga circoscritto ad un ambito rurale non ancora urbanizzato e contaminato dall’affermarsi di nuove realtà produttive già capaci di incidere pesantemente sulla salute umana, e già acutamente elencate nel sopra ricordato De morbis artificium di ramazzini, edito per la prima volta ben 78 3 20 Salute e disuguaglianze in Europa l’interazione tra una medicina tesa a guadagnarsi ufficialmente lo status di scienza e una società proiettata verso il progresso in breve tempo porta a prestare maggiore attenzione al rapporto tra malattia e società. l’azione medica, nella sua nuova organizzazione in modo ancora più chiaro, incomincia a riconoscersi necessariamente orientata al valore sociale della salute (intesa come valore socialmente costruito, dal momento che le stesse interpretazioni di salute e malattia sono diversamente definite da ciascuna società), e si vede assegnare la nevralgica funzione di riabilitare o di guarire, ovvero di ripristinare condizioni considerate socialmente desiderabili. i provvedimenti in campo sanitario gradualmente si trasformano: da espedienti d’emergenza assumono sempre più le dimensioni e le funzioni di pratiche del benessere capaci di organizzare l’erogazione di servizi di massa seguendo criteri standardizzati e sempre più precisi interventi di routine. in una prima fase l’intervento dello stato si limitava ad una azione mirata sul singolo individuo, ad esempio nel tentativo di scongiurare la diffusione del male al resto della popolazione (basti ricordare l’istituzione di lazzaretti e la reclusione forzata in caso di pestilenze), e l’assistenza era assai limitata e discontinua. durante tutto il XiX secolo sulla spinta dei nuovi processi di industrializzazione si articolano e rafforzano forme di assicurazione contro le malattie e gli infortuni, alle quali si affiancano da un lato nuove modalità di regolazione dell’attività medica e delle organizzazioni sanitarie, dall’altro lato significativi interventi nel campo della sanità pubblica e dell’igiene, fino ad opere importanti di riorganizzazione degli assetti urbani4. a rendere più chiare le interrelazioni tra condizioni di vita, di lavoro e salute contribuisce anche lo studio sui differenziali di mortalità tra i diversi arrondissements di parigi compiuto poco dopo il periodo delle guerre napoleoniche (1826) dall’ex medico militare louis rené Villermé. dopo avere preso in considerazione i fattori ambientali quali condizioni meteorologiche, esposizione ai venti, altitudine, e non avendo rilevato alcuna correlazione plausibile con le differenze nei livelli di mortalità, Villermé passa ad osservare le caratteristiche socioeconomiche dei quartieri prestando particolare attenzione al reddito e alle condizioni generali di vita. Questa volta anni prima. altrettanto limitata al «rurale» è l’attenzione di Frank nell’analisi della formazione e organizzazione dei nuclei abitativi, analisi che purtroppo tralascia qualsiasi aspetto della crescente urbanizzazione industriale. ci si confronta dunque con una descrizione delle condizioni di lavoro negli opifici assai generica, con una rassegna delle lavorazioni insalubri limitata alle occupazioni legate all’artigianato (principalmente conciatori, macellatori, saponai), con riferimenti alla salubrità dell’abitato già largamente presenti nei regolamenti di sanità del medioevo. 4 a seguito della riforma della poor law del 1834, riscritta seguendo le indicazioni di un celebre documento curato da sir edwin chadwick e nassau William senior, nel 1837 fu istituito il Registrar General’s Office of England and Wales, prima e accurata banca dati nel campo delle statistiche demografiche deputata a registrare tutti gli eventi dello stato civile come nascite, atti matrimoniali e morti. Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 21 l’esito dell’indagine svolta strada per strada porta ad una scoperta significativa: «risultò per esempio che in rue de la mortellerie, dove risiedevano i più poveri tra i parigini, vi era una mortalità del 30,6 per mille mentre a breve distanza, nell’ile-saint louis, zona più spaziosa e confortevole abitata da ricchi, il quoziente era del 19,1 per mille» (Berlinguer 2006, p. 18). nonostante fosse stato in grado, tra i primi, di individuare l’insieme di variabili più significative per lo studio del fenomeno, Villermé ne dà poi una interpretazione fortemente improntata al determinismo biologico5, spingendosi ad affermare che i poveri come razza erano destinati a morire in eccesso conseguentemente al loro barbaro ed incivile riprodursi in eccesso, proponendo una loro civilizzazione anche grazie alla diffusione di precetti religiosi, e sollevando lo stato da un intervento in merito, al fine di preservare la libertà e l’iniziativa degli individui. Gli sconvolgimenti portati dalla rivoluzione industriale, a partire dall’esodo di massa dalle campagne verso le città, moltiplicano le minacce ambientali e i rischi per la salute: l’inquinamento, il sovraffollamento, la mancanza di cibo appropriato e sufficiente, le durissime condizioni di lavoro e gli infortuni che non risparmiano donne e bambini, la quasi completa assenza di strutture - a partire da dormitori, bagni pubblici, ambulatori medici, fino ad arrivare ad asili e scuole – il bassissimo livello di istruzione, si rivelano tutti elementi concomitanti al registrarsi di tassi di morbilità e mortalità elevatissimi nelle nuove realtà urbane industrializzate. in particolare, a manchester i primi rapporti delle commissioni di inchiesta6, alcune pubblicazioni che già avevano sollevato il dibattito sul tema7, e le denunce di diversi medici8 delle condizioni igienico-sanitarie, di 5 nelle soluzioni proposte da Villermé per affrontare le problematiche dei quartieri più degradati, poveri e malsani risuonano chiaramente echi malthusiani. come è noto, malthus nel suo Essay on the Principle of Population del 1798, si opponeva all’intervento dello stato e al mantenimento delle leggi inglesi a tutela dei più poveri, temendo una loro costante espansione demografica e un conseguente tracollo economico. 6 tra i primi, durissimi, Blue Books si ricorda del 1837 Evils of the Factory System Demonstrated by Parliament Evidence, compilato da charles Wing, e la sintesi di vari rapporti The Physical and Moral Condition of the Children and Young Persons Employed in Mines and Factories pubblicata nel 1843 a cura di J.W. parker (si veda engels 1845). 7 come quelle di thomas carlyle e di James leach. per indicazioni più complete si rimanda all’introduzione al testo di engels (1845) di laura caretti. 8 si riportano qui due passi dell’opera di engels che, appunto, riprendono fonti dirette. prima la nota del dottor southwood smith pubblicata nel «Weekly dispatch» di aprile-maggio 1844: «si cercano allora tutti i ripieghi possibili, si mangiano bucce di patate, avanzi di legumi, vegetali in putrefazione in mancanza di altro nutrimento, e tutto ciò che forse contiene ancora un atomo di nutrimento è avidamente portato via. se il salario settimanale è esaurito prima della fine della settimana, succede spesso che la famiglia, durante gli ultimi giorni di questa, non abbia alcun nutrimento o solo lo stretto necessario per non morire di fame. un tale genere di vita non può naturalmente che produrre malattie numerosissime, e se queste per sopra mercato colpiscono l’uomo, dal lavoro del quale la famiglia principalmente vive e la cui attività strapazzatissima richiede il massimo nutrimento, se quindi soccombe, se ammala, la miseria è ancora più grande; in tal modo si mostra la brutalità con la quale la società abbandona i propri membri appunto nell’ora in cui essi hanno il massimo bisogno del suo 22 Salute e disuguaglianze in Europa degrado sociale e morale e di deprivazione e fatica estrema degli abitanti dei cottage operai offrono spunti e materiali per la notissima indagine condotta da Friedrich engels: lavoro inizialmente pensato come capitolo di una storia sociale dell’inghilterra, poi pubblicato come volume autonomo, primo tra gli studi sulla condizione del proletariato ad adottare un punto di vista non settoriale, e ad includere in una prospettiva d’insieme oltre al proletariato strettamente industriale anche quello agricolo e delle miniere. un altro contributo importante è quello di le play che nel 1855 pubblica con il titolo di Les Ouvriers européens. Études sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières de l’Europe, précédée d’un exposé de la méthode d’observation, i risultati della sua pionieristica ricerca empirica. le play, mosso da principi che conciliano tradizione cattolica e socialismo, mettendo a confronto diverse realtà europee sviluppa un’analisi comparativa dei processi lavorativi nelle fabbriche e delle condizioni di lavoro e di vita degli operai. l’autore – convinto che l’indifferenza per la verità sarebbe stata imperdonabile in un tempo in cui l’errore scatenava tanti mali – non si limita a registrare l’antagonismo che opponeva gli imprenditori agli operai, il livello particolarmente disagiato delle condizioni di lavoro, e il permanere del «disordine morale» della classe operaia, ma si spinge ad affrontare attivamente il problema sociale incontrato fondando la rivista «la réforme sociale», strumento di divulgazione di quei principi essenziali per raggiungere e garantire una pace sociale duratura, a partire da una riforma basata su conoscenze scientifiche concrete. le tendenze tanto puntualmente denunciate cominciano però ad essere fronteggiate solo una cinquantina di anni dopo, verso la fine del 1800, quando nuove inchieste sociali e ispezioni pubbliche, insieme all’affermarsi di movimenti umanitari e forme associative diffuse e potenti – a partire dalle società di mutuo soccorso fino ai sindacati e alle aggregazioni di lavoratori su base religiosa – aprono la strada verso tutele e benefici importanti per i lavoratori (per primi i contratti collettivi e le leggi di regolamentazione delle attività lavorative di manodopera femminile e minorile) e verso il risanamento urbano. la riduzione dei tassi di mortalità generale ed infantile e il calo di molte malattie, a cominciare dalla tubercolosi, prima ancora che se ne conoscessero vaccini o cure efficaci, sarebbero da attribuire proprio al generale miglioramento delle condizioni ambientali, sociali ed educative di quello stesso periodo (mcKeown 1976). appoggio» (engels 1845, p. 58). poi un brano dove si fa direttamente riferimento ai rapporti stilati dal dottor James Kay dopo le sue visite ai cottage operai: «Feci menzione, sopra, di un’attività eccezionale, quella svolta dalla polizia sanitaria al tempo del colera in manchester […] il dr. Kay, membro della commissione, che visitò minutamente tutti i distretti di polizia, meno l’undicesimo, dà alcuni estratti del suo rapporto. Vennero ispezionate in tutto 6951 case, […] d’esse 2565 avevano urgente bisogno di essere intonacate internamente, in 960 si erano trascurate le necessarie riparazioni [...], 936 erano senza condutture sufficienti, 1435 erano umide, 452 mal ventilate, 2221 senza latrine» (engels 1845, pp.50-51) Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 23 seguendo le tappe fondamentali di questo processo secondo le linee indicate da Vicarelli (1997), emerge chiaramente come in europa – dopo un avvio nel secondo ottocento – le moderne politiche di welfare compiano il loro sviluppo nel novecento: ad una fase di sperimentazione collocabile indicativamente tra il 1870 e gli anni Venti del XX secolo, segue – fra gli anni trenta e Quaranta – un periodo di consolidamento, fino ad arrivare alla fase di massima espansione negli anni sessanta in concomitanza con il boom economico. negli ultimi decenni si è invece andati incontro, tanto a livello europeo quanto a livello nazionale, ad un nuovo stadio di mutamenti. la transizione, non sempre graduale né agevolmente sostenibile, da un’economia hardware ad un’economia software o di servizi, la crisi delle democrazie di massa, una nuova fase del processo di modernizzazione, tutti insieme questi fenomeni hanno comportato e ancora comportano trasformazioni profonde e spesso repentine delle strutture sociali ed economiche dei paesi coinvolti, alle quali hanno corrisposto significativi mutamenti nei sistemi di welfare. si vedrà meglio nel prossimo capitolo come ciò comporti lo stabilirsi di nuove relazioni tra salute e disuguaglianze sociali, in ambito europeo come nei singoli stati nazionali. 2. Disuguaglianze sociali e salute: ipotesi a confronto obbiettivo primario è fare maggiore chiarezza su uno dei temi centrali di questo lavoro: quando si può parlare di disuguaglianza e iniquità nella salute? una prima risposta è offerta da Whitehead (1990): quando si rilevano disuguaglianze non necessarie ed evitabili che – tenendo conto anche degli aspetti morali ed etici e del conseguente accostamento tra differenze e iniquità – vengono percepite come ingiuste. È solo quando si riscontra la presenza simultanea di particolari modalità di riproduzione della disuguaglianza – afferma l’autrice – che le variazioni dello stato di salute o le disuguaglianze ‘semplici’ possono essere valutate come inique e identificate sia come elementi agenti sia come effetto degli stessi meccanismi. le tre modalità individuate da Whitehead (1990), sono: 1) la natura sistemica che le disuguaglianze possono assumere; 2) la loro origine e riproduzione sociale; 3) i loro effetti perversi. al verificarsi concomitante di queste tre condizioni le variazioni nello stato di salute presentano una distribuzione sempre più regolare, come segnala il dato poco raffinato eppure fortemente significativo, che si richiama direttamente al punto 1: più si scende nella scala sociale ed economica, più aumentano i tassi di mortalità e morbilità. ancora, le variazioni dello stato di salute sono condizionate fortemente dai processi sociali e non (o non solo) da elementi biologici: spesso non sono le conseguenze di «leggi naturali ed immutabili» a decretare tassi di mortalità o aspettative di vita fortemente disomogenee all’interno di una popolazione, bensì la stessa società ed il modo in cui questa è organizzata (punto 2). infine le disuguaglianze e 24 Salute e disuguaglianze in Europa le discriminazioni sociali, in particolare quelle attive nel condizionare l’accesso ai servizi essenziali, sono frutto di un circolo vizioso, e a loro volta tendono ad alimentarlo (punto 3). più sinteticamente – e in linea con una indicazione di schizzerotto (1988) – è possibile definire le disuguaglianze sociali attive sulla salute come disparità oggettive e sistematiche riguardanti il possesso di risorse sociali, risorse economiche e risorse culturali, e insieme come la presenza o assenza di capacità di utilizzare queste risorse per preservare e massimizzare la propria piena efficienza psicofisica. se dunque le disparità in termini di salute sono il risultato di dinamiche complesse che maturano all’interno delle diverse dimensioni in cui si articola la società (dalla sua struttura sociale alle sue reti di relazioni, fino alle sue aggregazioni minime quali il gruppo dei pari, la famiglia, la diade affettiva) sarà opportuno ai fini di un’analisi più precisa del fenomeno definire caratteristiche e ambiti di azione dei molteplici fattori che prendono parte alla definizione dello stato di salute del singolo o, più estesamente, del suo gruppo sociale di appartenenza. un buon punto di partenza è sicuramente il modello presentato nel 1998 nel rapporto Inequality in Health del Department of Health dello Stationery Office di londra, poi adottato dall’osservatorio italiano sulla salute Globale: lo studio dei determinanti della salute costituisce la base e la sostanza della sanità pubblica, perché consente di analizzare (e possibilmente modificare) i fattori che in varia misura influenzano l’insorgenza e l’evoluzione delle malattie. il modello […] è espresso in una serie di strati concentrici, corrispondenti ciascuno a differenti livelli di influenza. 1. al centro c’è l’individuo con le sue caratteristiche biologiche: il genere, l’età, il patrimonio genetico. 2. lo strato successivo riguarda il comportamento, lo stile di vita degli individui, che includono fattori come l’abitudine al fumo e all’alcol, i comportamenti alimentari e sessuali, l’attività fisica, che possono promuovere o danneggiare la salute. Queste scelte […] possono essere libere o condizionate. 3. ma l’individuo non esiste da solo: egli interagisce con i familiari, gli amici, la comunità circostante. così la qualità di affetti e delle relazioni sociali influenza la qualità della vita delle singole persone e può determinare un diverso stato di salute sia attraverso meccanismi psicologici (la depressione e l’ansia), che attraverso condizioni materiali favorevoli o avverse (es.: la presenza o l’assenza di una rete di supporto familiare o sociale). 4. il quarto livello concerne un insieme complesso di fattori che riguardano l’ambiente di vita e di lavoro delle persone: il reddito, l’occupazione, l’istruzione, l’alimentazione, l’abitazione, le condizioni igieniche, i trasporti e il traffico, i servizi sanitari e sociali. 5. lo strato più esterno si riferisce alle condizioni generali – politiche, sociali, culturali, economiche, ambientali – in cui gli individui e le comunità vivono. (2° rapporto dell’osservatorio italiano sulla salute Globale 2006, pp. 36-37) Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 25 emerge già piuttosto chiaramente come la disuguaglianza sociale interagisca sullo stato di salute in concomitanza non tanto di determinate caratteristiche individuali quanto piuttosto con le condizioni sociali, con il contesto sociale così come con il contesto ambientale. con questo, ci si rende già bene conto di quanto sia importante non perdere mai di vista l’idea di interrelazione tra variabili direttamente riconducibili alla particolare complessità del fenomeno osservato, complessità della quale è opportuno essere consapevoli fin dai primi passi di questo lavoro. È inoltre opportuno prestare particolare attenzione a non subire il fascino di schemi interpretativi apparentemente semplici ed ordinati, in realtà troppo riduttivi e improntati al determinismo9; non sarebbe di grande efficacia euristica affidarsi (soprattutto se esclusivamente) ad un modello che ordina i «fattori» in strati concentrici rispetto all’individuo (dal più vicino e ricco di conseguenze al più distante e dalle ripercussioni più improbabili), e dichiara che ciascuno «strato» corrisponde a «differenti modelli di influenza». Questo perché, per fare un ultimo esempio, non si possono considerare distinti e avulsi l’uno dall’altro lo stile di vita (posto nella sfera 2) e il network sociale dell’individuo (posto nella sfera 3); né tanto più si ha modo di stabilire una regolarità che permetta di attribuire costantemente un maggiore impatto sulle condizioni di salute della variabile stile di vita piuttosto che della variabile network sociale10. per ricondurre l’analisi intrapresa su un terreno più strettamente sociologico, è utile andare oltre le cinque sfere individuate dal Department of Health, e raccogliere invece la proposta interpretativa di maggi (1977 e 1990) che a sua volta sintetizza la posizione di diverse scuole di pensiero. nello schema riepilogativo presentato dall’autore si fa preliminarmente riferimento a tre distinte concezioni di società: la prima vede la società come un sistema predeterminato rispetto agli attori; la seconda propone una lettura della società come prodotto delle interazioni dei singoli attori; la terza considera la società quale processo di azioni e decisioni. Queste tre diverse idee e rappresentazioni di società – che maggi utilizza per i suoi Gli stessi autori del 2° rapporto, in un passo successivo del testo avvertono: «nella realtà i vari livelli sullo stato di salute sono strettamente correlati e interagiscono tra loro, ad esempio gli stili di vita sono fortemente legati al contesto familiare e sociale, che a sua volta è condizionato dalle condizioni di vita e lavoro» (2006, p. 38). 10 spunti interessanti per avvalorare l’ipotesi di una reciproca e ineluttabile interconnessione tra variabili possono essere rintracciati già nell’opera di simmel, che, nel capitolo Lo stile della vita, sesto e ultimo di Filosofia del denaro (1900), aveva messo in luce la complessa relazione tra legami familiari (riconducibili alla dimensione del network sociale) e individualità (di cui lo stile di vita è una delle espressioni). per quanto riguarda, invece, l’opportunità o meno di ordinare gerarchicamente le variabili considerate è opportuno ricordare come merton nel 1949 (pp. 594-595) abbia proposto di utilizzare lo stile di vita come indicatore di stratificazione sociale, insieme a ricchezza, potere, prestigio, associazionismo, onore, autorità; in altre parole, nel definire gli attributi della posizione sociale, lo stile di vita va considerato come una delle variabili intervenienti, dunque da osservare e di cui tenere conto, ma in un quadro complessivo in cui interagisce con le altre. 9 26 Salute e disuguaglianze in Europa studi organizzativi – sono state utilizzate anche nel campo della sociologia della salute, dando vita ad altrettanti approcci. il primo si inquadra in una concezione della società quale sistema predeterminato rispetto agli attori11 e, come ricorda Vicarelli (2007), in tale direzione assume una posizione dominante, fin dai primi anni del secolo, l’approccio originariamente funzionalista di tradizione durkheimiana, poi ripreso e sviluppato da parsons e dalla scuola struttural-funzionalista. il secondo approccio, che si rifà all’individualismo metodologico, privilegiando una metodologia qualitativa e una prospettiva micro, lega la concezione di società all’idea di sistema come costituito dall’interazione tra singoli attori, e propone una lettura della società quale risultante delle interazioni culturali e cognitive dei singoli attori. la realtà sociale –costruzione non intenzionale, insieme di fenomeni unici e incomparabili – si rende conoscibile «nella fenomenologia dei casi concreti» la cui individualità «può essere compresa attraverso l’esperienza vissuta» senza generalizzazioni (Vicarelli 2007, p. 138). infine il terzo approccio propone una lettura della società quale risultante di un processo di azioni e decisioni. Questa posizione cerca di andare oltre le dicotomie struttura/attore, dimensione macro/dimensione micro e, nel superare rappresentazioni rigide e reificate, approda ad una idea di società come flusso di azioni e decisioni imprescindibili sia dall’insieme di regole e valori proprie del contesto in cui sono agite, sia dagli attori che le compiono. si tratta di una proposta interpretativa – di chiara ispirazione weberiana – secondo la quale è auspicabile una profonda comprensione del senso dell’agire, così da arrivare ad una sua spiegazione. la lettura dei fenomeni sociali avanzata da questo terzo filone, dove non mancano richiami alla teoria eliasiana della figurazione12, vuole dunque tenere insieme individuo e società «senza che l’uno prevalga sull’altro perché il sistema è processo d’azioni e di decisioni, senza cesure tra un prima e un dopo, perché il tempo vi è incorporato e ne costituisce elemento essenziale, insieme agli altri elementi riconducibili a questo approccio, oltre alle classiche correnti positiviste, anche le successive scuole del neopositivismo e del funzionalismo, entrambe maggioritarie negli anni trenta e Quaranta del secolo scorso. 12 come è noto, è utilizzando la metafora della danza che elias sostiene: «il concetto di configurazione può essere visualizzato con facilità facendo riferimento alle danze sociali, che sono in effetti l’esempio più semplice per rappresentare una configurazione costituita di uomini […]. Viene così a scomparire la contraddittorietà, basata in ultima analisi su valutazioni e ideali differenti, che di solito interviene quando si usano termini come ‘individuo’ e ‘società’. certamente possiamo parlare di una danza in generale, ma nessuno potrebbe immaginare una danza come una configurazione estranea agli individui o come una mera astrazione. la stessa configurazione può certamente essere creata nella danza da individui differenti, ma non esiste nessuna danza senza una pluralità di individui orientati gli uni agli altri e reciprocamente dipendenti» (1977, p. 90). centrale nella sociologia di elias è dunque l’interdipendenza tra individuo e processo: se, da un lato, i processi si strutturano divenendo possibilità, e insieme vincolo, per il comportamento soggettivo, dall’altro, il singolo attore sociale non può prescindere dall’interiorizzazione cognitiva ed emotiva di modelli appropriati di azione reciproca e dal muoversi in un contesto di interdipendenza esistenziale. 11 Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 27 di variabilità. in altri termini, proprio attraverso il tessuto delle routine, questa prospettiva di analisi permette di riconciliare il passaggio dal micro al macro. d’altro canto, là dove le routine cristallizzate possono essere modificate da nuove decisioni ed azioni degli individui si delinea la possibilità di leggere anche il passaggio dal macro al micro» (Vicarelli 2007, p.139). 3. Prospettive di analisi Guardando al complesso della letteratura internazionale, si delinea una tendenza diffusa a ricondurre di fatto lo studio degli effetti della disuguaglianza sociale sulla salute a un limitato e ben definito insieme di scuole di pensiero e di paradigmi interpretativi13. si è scelto di riprendere, sintetizzandolo, l’articolato contributo di cockerham che, in un suo recente lavoro sulle cause sociali della salute e della malattia, offre una sorta di mappa di quelle che sono state le più influenti correnti di pensiero nel campo della medical and health sociology. spingendosi oltre al pur fondamentale riferimento parsonsiano, l’autore prende in esame le più influenti correnti teoriche a partire dalla nascita della disciplina sociologica, lungo un continuum che va dalla struttura all’azione. a partire dunque dai lavori più vicini alla dimensione structure individua nell’opera di marx il paradigma ispiratore dei lavori di navarro (Medicine Under Capitalism del 1976) e di Wiatzkin (The Second Sickness del 1983). l’eco dell’opera di durkheim è invece forte nei lavori di parsons (in particolare The Social System del 1951) e di merton (The Student Physician del 1957). ancora, l’influenza di marx combinata con quella di durkheim e dello strutturalismo francese è elemento importante dell’opera di Bourdieu. in una posizione intermedia lungo il continuum si anche se più orientata allo studio della relazione tra ambiente e salute, va segnalata – per l’italia – la proposta di tognetti Bordogna. l’autrice ricostruisce i principali approcci teorici specificamente per quanto riguarda quello che chiama il «complesso sanitario» individuando anche in questo caso quattro filoni principali diversi da quelli illustrati, ma in parte sovrapponibili, e con richiami ai medesimi paradigmi interpretativi: 1. l’approccio struttural-funzionalista, richiamandosi direttamente al pensiero di talcott parsons, considera la sola dimensione del sistema sanitario, ambiente nel quale è possibile osservare e analizzare i comportamenti di ruolo del malato e la stretta relazione strumentale tra medico e paziente. 2. l’approccio fenomenologico si fonda sull’idea che la malattia sia una vera e propria esperienza umana, legata strettamente tanto all’idea di corpo di ciascun individuo, quanto ai modelli culturali e di vita, riconoscendo dunque uno spazio preponderante alla dimensione individuale. 3. il terzo, l’approccio di orientamento marxista, riconduce le tematiche della salute e della malattia nell’ambito del conflitto di classe: «la presenza di alcune malattie come il cancro, le malattie professionali o da lavoro, l’alienazione mentale, sono il risultato del dominio di individui su altri e dello sfruttamento economico» (2008, pp.34-35). 4. infine, l’approccio radicale, a partire da una rilettura della teoria marxista, imputa al modello culturale proprio dell’industrializzazione – più che al modello politico-economico del capitalismo – la deriva alienante presa dalla pratica medica. il suo esponente più conosciuto, come è noto, è ivan illich, che arriva a fare riferimento ad una vera e propria iatrogenesi medica. 13 28 Salute e disuguaglianze in Europa colloca il paradigma del costruttivismo sociale, declinato in una versione più vicina alla teoria dell’azione nell’opera di Berger e luckman, più vicina alla dimensione strutturale nell’opera di Foucault. Foucault, a sua volta, viene indicato da cockerham come importante punto di riferimento per turner, specificando però come sul lavoro di quest’ultimo, in particolare Body and Society del 1984, sia altrettanto importante l’influenza weberiana. infine, su posizioni ‘azioniste’ più estreme, si trova l’opera di mead, in particolare Mind, Self and Society del 1934, così come la teoria dell’etichettamento, e in particolare i lavori di Becker e scheff (cockerham 2007, pp. 32-33)14. È ora più facilmente possibile mettere a confronto le ipotesi fondanti di questo lavoro con i principali schemi teorici che hanno cercato di dare spiegazione dei differenziali di salute, e in particolare del rapporto tra disuguaglianze sociali e stato di salute. il riferimento è a tre diverse classi di spiegazioni15, che andando oltre i contributi degli autori di area strettamente sociologica si rifanno anche ad altri distinti settori teorici: 1. le spiegazioni genetiche o naturalistiche, con riferimento principale o esclusivo al corredo genetico; 2. le spiegazioni comportamentiste, ovvero quelle che chiamano in causa gli stili di vita e i comportamenti individuali; 3. le spiegazioni che prestano particolare attenzione ai contesti ecologici e sociali di vita. 3.1. si è scelto di affrontare per primi, seguendo lo schema appena proposto, i paradigmi fondati sulle origini strutturali (in senso biologico) delle durante la prima fase di ricognizione delle fonti bibliografiche e dei principali paradigmi teorici della sociologia della salute e della medicina, si è presentato il confronto con un contributo (siegrist 2006) che riconduceva i background della disciplina a due sole dimensioni interpretative. l’una, che privilegiava «spiegazioni materiali», veniva ricondotta ad un «paradigma durkheimiano»; l’altra che privilegiava «spiegazioni non materiali» veniva ricondotta ad un «paradigma weberiano». se da un lato questa proposta rassicurava nell’idea di tendere ad uno schema concettuale più semplificato, di tipo dicotomico, costruito a partire dalla natura delle variabili osservate e non dalle scuole di pensiero attive sul tema, dall’altro lato presentava non poche forzature. Forzature in parte riconosciute dallo stesso autore, come quando nelle conclusioni dichiara che «non è certamente appropriato equiparare l’approccio durkheimiano ad un’analisi materialista e l’approccio weberiano ad un’analisi non materialista, centrata sugli aspetti psico-sociali della realtà sociale. piuttosto la differenza sta nella sfera d’analisi delle interazioni tra le condizioni definite materiali e quelle definite non materiali» (siegrist 2006, p. 228). non è nemmeno appropriato etichettare come durkheimiana una prospettiva che consideri le sole variabili ‘materiali’ dimenticando come durkheim spenda numerose pagine di un suo notissimo lavoro per dimostrare la natura di fatto sociale del suicidio, negando o ridimensionando molto la portata proprio degli agenti esterni e materiali. come non risulta opportuno ricondurre il pensiero di Weber a variabili di tipo psico-sociale, quando come è noto l’attenzione dell’autore è tutta rivolta al ruolo della cultura e dei valori, che poco hanno a che fare con esse. senza considerare, e chiudendo questa nota critica su siegrist, che ci si dimentica un po’ sorprendentemente dell’approccio di ispirazione marxiana, quando si richiama l’attenzione sul peso dei fattori materiali. 15 il riferimento è alla tripartizione proposta da mario cardano (2008b), in questa sede parzialmente ampliata e rivisitata. 14 Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 29 disuguaglianze nella salute, che si presentano in due varianti. la prima variante attribuisce le disuguaglianze di salute a profonde e irriducibili differenze genetiche, fino a richiamarsi ad un vero e proprio effetto di selezione di stampo darwiniano (health selection effect) secondo il quale «lo stato di salute degli individui dipenderebbe solo in minima parte dalle condizioni economiche e sociali del proprio ambiente di vita; piuttosto, sarebbe lo stato di salute, o ‘capitale biologico’ proprio di un individuo, a condizionare l’accesso alle diverse posizioni sociali, così come la mobilità tra esse» (costa, spadea, cardano 2004, p. 6). alcuni limiti di questa teoria già emergono quando si prendono in considerazione due dei più rilevanti mutamenti di questo secolo: la transizione demografica e la transizione epidemiologica. a partire dalla fine del XiX secolo alla diminuzione del tasso di mortalità e all’abbassamento del tasso di natalità si affianca un considerevole fenomeno di trasformazione della morbilità: le malattie degenerative vanno gradualmente a sostituire quali cause prime di morte le malattie infettive, sempre più efficacemente combattute16. Quelle che un tempo erano considerate «malattie dell’opulenza», e principali responsabili della mortalità delle classi più abbienti, si estendono trasversalmente a tutti gli ordini di classi, diventando progressivamente «le malattie dei poveri che vivono nelle società opulente» (cardano 2008b, p.123)17. la plausibilità, o comunque l’esaustività, dell’ipotesi genetica è fortemente messa in dubbio da Wilkinson (1996) nel suo studio sulle unhealthy societies: facendo riferimento ad alcune ricerche condotte nei primi anni novanta, l’autore afferma come non sia possibile riscontrare empiricamente differenze genetiche significative in relazione alla classe sociale d’appartenenza. la seconda, più complessa, variante delle ipotesi di tipo naturalistico va delineandosi a partire dagli anni trenta del secolo scorso, soprattutto nel settore epidemiologico, ed è nota in letteratura come Health Selection Hypothesis. si è in presenza, in questo caso, di un rovesciamento della relazione causale tra disuguaglianze sociali e salute, dove non è più il sistema delle disuguaglianze ad agire sullo stato di salute ma al contrario è lo stato di salute che da questo approccio viene individuato come elemento in grado di facilitare o ostacolare l’accesso alle diverse posizioni sociali, quindi come variabile capace di strutturare a sua volta il sistema di disuguaglianze sociali e di incidere sui flussi e sulle direzioni della mobilità sociale. È opportuno chiarire però subito, su questa delicata e complessa questione 16 il crollo dei tassi della mortalità relativa alle malattie infettive è imputabile, prima ancora che a quei progressi strettamente medici quali cure e vaccini, al graduale miglioramento delle condizioni socio-economiche iniziato nei decenni tra fine ottocento e inizio novecento. 17 la plausibilità, o comunque l’esaustività, dell’ipotesi genetica è fortemente messa in dubbio da Wilkinson (1996) nel suo studio sulle unhealthy societies: facendo riferimento ad alcune ricerche condotte nei primi anni novanta, l’autore afferma come non sia possibile riscontrare empiricamente differenze genetiche significative in relazione alla classe sociale d’appartenenza. 30 Salute e disuguaglianze in Europa delle reciproche influenze tra la sfera delle disuguaglianze sociali e la sfera della salute, che nel volume si indagheranno soprattutto gli effetti agiti dalle disuguaglianze sociali sulla salute; si prenderà solo parzialmente in considerazione anche l’azione che lo stato di salute a sua volta esercita sulle disuguaglianze sociali, e limitatamente a quando risulterà importante valutare la circolarità del rapporto tra le due dimensioni. l’influenza dell’approccio genetico-naturalistico è andata gradualmente declinando nel tempo, al mostrarsi della riduttività della sua prospettiva, anche se negli anni ottanta sono ancora rintracciabili ricerche – e proposte politiche – ispirate a questa proposta teorica. l’idea che le differenze di collocazione sociale tra individui siano da attribuire ad un cinico destino, foriero di buona salute e conseguenti migliori chances di mobilità sociale ascendente solo per alcuni individui e non per altri segnati già in partenza da cattive condizioni di salute, solleverebbe di fatto la società da ogni responsabilità in merito, sia sul piano etico che su quello dell’intervento sociale. rilevante il limite di questa tesi: se, da un lato, numerosi contributi teorici ed empirici hanno dato conferma del nesso esistente tra stato di salute e processi di mobilità (Blane et al. 1993; Wilkinson 1996; cardano 2004), dall’altro lato il fenomeno riguarderebbe solo una minoranza dei casi di mobilità sociale discendente18, e sarebbe quindi insufficiente a dare spiegazione della parte maggiore dei casi toccati da questi fenomeni. Queste interpretazioni, tutte interne agli approcci tipici dei paradigmi naturalistici e del darwinismo, portano a un declassamento della variabile in oggetto dallo status di disuguaglianza a quello di differenza19: una operazione riconducibile ad un malcelato tentativo di sbarazzarsi più agevolmente di qualsivoglia riflessione di carattere etico e politico, che non permette di decifrare in modo completo e soddisfacente l’interrelazione fra disuguaglianze sociali e salute, limitandosi ad attribuire a questa una generica capacità di condizionamento sociale. 3.2. passando alla seconda prospettiva considerata, si trovano indicati quali determinanti primi delle disuguaglianze sociali più incisive sullo stato di salute gli stili di vita, ovvero i comportamenti individuali frutto di una diversa propensione ad abitudini salubri o insalubri per quanto riguarda quattro dimensioni tipiche: consumo di alcol, fumo, consumi alimentari, attività fisica; a queste spesso si aggregano gli effetti di altri comportamenti riconducibili alle sfere delle dipendenze e/o della sessua18 l’approfondimento curato da cardano, sulla base dello studio longitudinale torinese (slt), si è svolto prendendo nota dei processi di mobilità intergenerazionale occorsi nel decennio 1981-1991, e dei ricoveri ospedalieri (impiegati come indicatori dello stato di salute) avvenuti nello stesso decennio. la stima di una correlazione tra i due fenomeni, ovvero che precarie condizioni di salute abbiano comportato un peggioramento della posizione nella scala sociale, riguarda solo il 13% dei casi maschili e il 23% dei casi femminili (cardano 2004). 19 passaggio di status che, come già detto, porta a negare la natura sociale del fenomeno. Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 31 lità20. punto di riferimento teorico delle spiegazioni che chiamano in causa il comportamento individuale o, secondo le definizioni più recenti, lo stile di vita, è rappresentato dalla teoria classica del comportamentismo, o behaviorismo, elaborato nei primi decenni del novecento da autori statunitensi quali J.B. Watson. Questo approccio, con riferimento all’oggetto di studio prescelto, tende a negare il ruolo delle ingiustizie sociali sullo stato di salute come sulla produzione di eventuali situazioni di disuguaglianza: vuoi per la condizione di libero arbitrio peculiare di ciascun individuo, vuoi, come conseguenza di questo, per la responsabilità personale nei confronti del proprio stile di vita prima e della propria salute poi. in altre parole, ciò che è proposto è una lettura della salute come risultato di scelte individuali, sottolineando – da una prospettiva victim blaming che attribuisce ai singoli attori la totale responsabilità (e quindi la colpa in caso di danni) per quanto concerne il proprio stato di salute – il primato dell’azione personale. la predilezione per il paradigma della scelta individuale come principale chiave interpretativa degli stili di vita e della loro correlazione con il livello di salute presenta però diverse debolezze. due i principali motivi di perplessità: la progettazione dell’agire degli individui si rivela essere, soprattutto in materia di salute, un percorso difficilmente guidato da criteri di piena consapevolezza e libertà21. le esperienze di vita sono condotte, nella maggior parte dei casi, senza includere un calcolo della malattia come costo e della salute come obbiettivo, tanto che spesso qualora il corso di vita di un individuo venga attraversato da un significativo episodio di malattia si tende a parlare di «rottura biografica» (Bury 1982). inoltre, per alcune persone la capacità di effettuare una scelta è pesantemente condizionata dallo stesso retaggio biografico; dinamica questa che, per dirla con cardano, fa sì che le «scelte attuali dipendano, in buona misura, dalle scelte operate in passato, divenute parte della loro corporeità (embodied), ma anche da scelte che altri hanno fatto per loro e, più in generale, dal contesto in cui l’esercizio della scelta razionale viene svolto» (2008b, p.127). dunque in alcuni casi l’adozione di particolari stili di vita non deve essere letta come conseguenza di libere valutazioni, ma – più correttamente 20 per quanto riguarda la prima sfera, quella della dipendenza, il riferimento è all’uso e/o abuso di psicofarmaci, qualora la loro assunzione sistematica non sia legata a seri motivi terapeutici, e al consumo di stupefacenti (Wilkinson 1996); per quanto riguarda la seconda sfera, quella della sessualità, il richiamo è ai comportamenti sessualmente promiscui (costa, spadea, cardano 2004, p. 73). 21 Già costa nel suo studio sulla città di torino nella prima parte introduttiva e teorica pone particolare attenzione nel distinguere tra «comportamenti a rischio scelti ed esercitati con piena libertà dal soggetto» riportando l’esempio degli sport estremi, e comportamenti «scelti ed esercitati in condizioni di libertà limitata» con riferimento ad alcol, fumo, alimentazione. conclude ricordando che «le differenze sociali nei comportamenti del secondo tipo fanno parte a pieno titolo del tema delle disuguaglianze sociali nella salute e meritano l’attenzione delle politiche sociali e delle politiche di promozione della salute» (costa, cardano, demaria 1998, p.36). 32 Salute e disuguaglianze in Europa – come esito di vincoli. i comportamenti insalubri, a partire da un’alimentazione inadeguata fino al consumo massiccio di junk food (per citare ad esempio uno tra i comportamenti più diffusi e rischiosi), sono solitamente originati dal sommarsi di effettive difficoltà economiche a determinanti psicosociali. il cibo, così come in altri casi alternativi o concomitanti il fumo o l’alcol, assume una funzione consolatoria e rientrano nelle misure, sicuramente da una certa prospettiva poco efficaci ma per contro facilmente accessibili, attuate dall’individuo per fronteggiare o almeno resistere alla tensione che accompagna l’esperienza dell’indigenza, sia essa povertà in senso assoluto o, come sempre più spesso accade nelle società occidentali, povertà in senso relativo. 3.3. si passa infine all’ultimo gruppo di spiegazioni individuato. Questa terza prospettiva supera il riduzionismo delle teorie esclusivamente biologiche o comportamentali, aprendosi ad osservare il complesso intreccio dei corsi di vita che formano il tessuto sociale in una più ampia cornice teorica nella quale «le disuguaglianze di salute si configurano come la sedimentazione nei corpi di un insieme eterogeneo di esperienze sociali che attraversano le biografie degli individui e li legano – gli uni agli altri – in specifici contesti di interazione» (cardano 2008b, p.133). l’attenzione è qui rivolta fondamentalmente all’intreccio tra elementi sociali ed elementi biologici, ponendosi l’obbiettivo di interpretare la relazione spesso non immediatamente definibile tra disuguaglianze sociali, stato di salute e condizioni psicosociali di vita caratterizzanti le biografie individuali. le situazioni da osservare sono quelle tipiche della tradizione sociologica, ed efficaci – se ben utilizzati – sono gli strumenti che la disciplina mette a disposizione. lo sforzo principale da compiere è dunque quello di ritrarre i contesti dell’interazione e riconoscerne l’eventuale ‘tossicità’ individuandone sì la prospettiva specifica e le variabili principali in gioco, ma senza mai limitare i propri orizzonti interpretativi, ed evitando accuratamente spiegazioni riduttive e univoche. diversi sono gli ambiti che ricoprono un ruolo importante nella modulazione delle aspettative e delle azioni individuali relativamente ai temi della disuguaglianza sociale e della salute, come si vedrà più puntualmente nei prossimi capitoli. tutti sono però riconducibili alle due principali dimensioni che caratterizzano il contesto dell’azione sociale: la dimensione spaziale relativa ai luoghi di vita e la dimensione temporale riguardante lo svolgersi diacronico delle relazioni sociali. i contesti sociali, variamente definibili secondo la gradazione della scala macro-micro che si decide di utilizzare, possono essere osservati innanzitutto nella loro dimensione spaziale di luoghi di vita degli individui. precisando preliminarmente che l’eloquenza e l’efficacia delle analisi ecologiche aumenta in modo inversamente proporzionale all’estensione e all’eterogeneità delle aree osservate (cardano 2008b), si possono indivi- Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 33 duare tre principali tipi di luoghi di vita: aree territoriali22, aggregazioni di abitazioni individuali (comuni o quartieri), luoghi di lavoro. ognuna di queste realtà risulta imprescindibilmente intrecciata con la dimensione politico-istituzionale e la dimensione economica: oltre che per una connotazione strettamente spaziale, cioè, si qualifica per tipologia ed efficienza del sistema di welfare, livello medio di reddito e modalità di redistribuzione della ricchezza23. l’area geografica e territoriale, considerata anche nei suoi aspetti di profilo politico e istituzionale oltre che di livello di sviluppo economico, diventa lo scenario a partire dal quale muovono quelle teorie che privilegiano la dimensione spaziale e che da questa procedono per rintracciare le disuguaglianze e gli effetti derivati sulla salute24. rientrano in questo filone di studi i lavori di tarlov (1996) sui sistemi di welfare e la qualità e l’impatto delle cure mediche; le ricerche di Wilkinson (1996) sul senso di deprivazione relativa, a partire dall’effetto sulla salute attribuibile ad una distribuzione più o meno egualitaria del reddito; e infine quelle spiegazioni delle disuguaglianze di salute che chiamano in causa il concetto di capitale sociale, inteso nella sua accezione di proprietà ecologica. Quest’ultimo gruppo, che conta ormai un ampio numero di contributi25, analizzando la relazione tra capitale sociale e salute individua un nesso positivo tra le due proprietà, fino ad attribuire al capitale sociale una funzione di vero e proprio ‘scudo sociale’ capace di attivare risorse che proteggono dalla malattia. la seconda dimensione di analisi dei contesti di vita è, come si è detto, quella temporale26, fondamentale nel processo di sedimentazione delle differenze. È infatti il tempo l’ambito nel quale «le disuguaglianze di salute si qualificano come la sedimentazione nei nostri corpi delle differenze che separano le traiettorie biografiche degli individui in ragione della loro (mutevole) collocazione sociale» (cardano 2008b, p.135). Gli eventi e le relazioni che costellano il percorso biografico così come le concatenazioni di ruoli e di relazioni sociali condizionano gli stati di salute, gli stati di malattia e i passaggi tra questi (Blane 2006). in particolare, l’esposizione differenin molta della letteratura consultata come aggettivo di «luogo di vita» si è incontrato il termine «geografico». si è invece scelto di adottare il termine «territoriale» perché più adatto ad individuare una realtà che oltre ad avere caratteri spaziali ha anche imprescindibili connotazioni sociali, economiche e culturali (Becattini 1989). 23 si anticipa, come esempio, un noto studio a cura di Wilkinson (1996) condotto nei primi anni novanta, sul quale si avrà ampiamente modo di tornare a parlare nei prossimi capitoli. l’autore, partendo da una analisi ben documentata dei paesi contrassegnati da una distribuzione dei redditi maggiormente egualitaria e da aspettative di vita più ampie, arriva a formulare un’ipotesi di stretta e diretta correlazione tra distribuzione diseguale dei redditi e senso di privazione relativa, che a sua volta causerebbe un indebolimento della coesione sociale. 24 per un approfondimento su questi temi (in questa sede) si rimanda al sesto capitolo. 25 per una prima rassegna, si veda turner (2004). 26 la pluralità di ipotesi esplicative legate alla dimensione temporale può essere ricondotta a due fondamentali tradizioni di ricerca: l’interazionismo simbolico e la sociologia del corso di vita. 22 34 Salute e disuguaglianze in Europa ziata ad agenti stressanti e la conseguente probabilità di intessere relazioni sociali capaci di innescare situazioni di stress cronico sono condizioni sufficienti per segnare percorsi di disuguaglianze nella salute, come ben documentano gli studi di pearlin (et alii 2005) prendendo in analisi le statistiche di morbosità e mortalità, come si avrà modo di illustrare più avanti. 4. Posizione sociale e salute la discussione sulle ipotesi di lavoro può essere per ora provvisoriamente chiusa con un confronto, teoricamente inevitabile, con gli approcci di ispirazione weberiana sui nessi intercorrenti tra posizione sociale e salute, che costituiscono riferimento essenziale e di cui sarà possibile vedere qualche applicazione empirica soprattutto nel quinto e nel sesto capitolo. entra in gioco in questa relazione, come suggeriscono cardano e costa (1998), la nozione di controllo che a sua volta origina dalla nozione weberiana di potenza27. la sfera del controllo può essere scissa in tre diversi ambiti: il primo, dove è forte il richiamo alla categoria di classe di Weber come definita dal comune possesso di risorse, si riferisce a una disuguaglianza di tipo distributivo e lega il controllo alla maggiore o minore disponibilità di risorse economiche a partire dal reddito. il secondo ambito, e qui il riferimento è all’insieme di relazioni che Weber definisce come situazioni di ceto, riguarda le disuguaglianze di tipo relazionale, e cioè la diversa capacità di influenza che origina dalla collocazione nella stratificazione sociale. a queste due dimensioni si aggiunge infine un terzo aspetto: il controllo in quanto connesso al capitale sociale disponibile, sia, sul piano individuale, come capacità di mobilitare a proprio vantaggio solidarietà personali e collettive, sia, sul piano sociale, come azione che si esercita in un contesto più o meno elevato di coesione e integrazione sociale. alla nozione di controllo nelle sue varie declinazioni si rifanno molte delle teorie sviluppate negli ultimi anni. di particolare interesse per questo saggio quella proposta da siegrist (2000) che concentra la sua attenzione sull’acquisizione e l’esercizio di un ruolo a partire da una concezione dell’interazione sociale quale relazione di scambio i cui esiti possono qualificarsi in senso equo o iniquo. l’assunto teorico sotteso a questo modello è che lo scambio sociale sia governato da una grammatica elementare dell’equità e della reciprocità. l’esercizio di un ruolo sociale si giocherebbe dunque sull’alternanza effort-reward; per dirla più estesamente, ciascun ruolo da una parte sottenderebbe obblighi e impegni e dall’altra porterebbe al riconoscimento di diritti e ricompense specifiche. nel momento in cui 27 Weber, come è noto, definisce la potenza come «qualsiasi possibilità di fare valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad una opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità» (1922, p. 51). Guardare alla salute per leggere la disuguaglianza sociale 35 questa regola viene meno, cioè quando si fa intensa e frequente la percezione di uno squilibrio tra sforzi e ricompense, ecco che si innesca una situazione di stress cronico, come mostrato da alcune applicazioni di questo schema teorico presentate nel quarto capitolo. Quando poi il riferimento specifico è alle dinamiche operanti nel mondo del lavoro – centrale, come si vedrà, nello sviluppo dell’analisi – l’ineguale distribuzione di potere e autorità imprime particolari assetti alle strutture organizzative articolandole in senso vantaggioso per alcuni lavoratori, in grado di trarre vantaggio dalle abilità e dalle energie altrui, e svantaggioso per altri (Wright 1997). applicata alla sfera della salute tale disparità fa si che una parte di lavoratori investa una quota del proprio benessere psicofisico e si esponga ad una certa quota di rischio per la salute in cambio di una quantità di ricompense materiali e simboliche: le quali però risultano inferiori rispetto ai maggiori benefit di quanti investono meno in termini di salute, in virtù del fatto che occupano posizioni gerarchicamente superiori, e dispongono dunque di importanti strumenti di controllo. ultima, importante applicazione teorica della nozione di controllo alla quale si farà ampiamente ricorso nel quarto capitolo è quella assai nota della status syndrome, elaborata da marmot e pubblicata nella sua veste più aggiornata nel 2004. nelle situazioni in cui si stabiliscono relazioni costantemente asimmetriche in termini di potere e autorità, coloro che si trovano nelle posizioni meno privilegiate, disponendo pertanto di un controllo significativamente limitato sulla propria vita privata ma anche all’interno del sistema di relazioni sociali di cui fanno parte, sono più esposti a situazioni di stress cronico. Vivere e operare costantemente in posizioni di subordinazione, sostiene marmot, impone un forte senso di costrizione che inibisce persino il naturale processo di reazione definito in letteratura come fight or fly response 28: con conseguenze spesso assai pesanti sullo stato di salute specialmente nei suoi aspetti psicofisici. la teoria della status syndrome è frutto di diverse esperienze di ricerca, che possono essere lette come una conferma del rapporto stringente tra posizione sociale e salute, ricercandone la spiegazione in un sistema di relazioni relativamente stabili e costanti e nei loro squilibri interni. a partire da questo schema teorico, sono state operate alcune generalizzazioni che permettono di estendere la sua applicazione anche in una dimensione lon- 28 di fronte a sollecitazioni ambientali negative – a partire da una minaccia esplicita fino ad una variazione negativa della routine – l’organismo reagisce a livello fisiologico, mettendo in atto risposte alternativamente di fuga o di attacco, cui si correlano mutamenti a livello di equilibrio neuroendocrino. Quando episodiche queste sollecitazioni hanno effetti non necessariamente negativi, quando protratte e di difficile risoluzione ( un esempio tra i più comuni fa riferimento alla vita d’ufficio, dove a stimoli negativi non è consentito rispondere né con l’attacco ovvero lo scontro o l’insubordinazione, né con la fuga ovvero il licenziamento ) portano ad esperienze di stress cronico, fino a sviluppare quei già citati comportamenti autoconsolatori come consumo smodato di alcol, fumo, comforting food. 36 Salute e disuguaglianze in Europa gitudinale. ci si riferisce a quegli studi che hanno considerato in particolare gli eventi di vita propri di ciascuna traiettoria biografica, dimostrando come la distribuzione degli eventi di vita capaci di aggredire lo stato di salute degli individui si leghi in modo drammatico alla posizione sociale degli individui stessi (pearlin et alii 2005), fino a dare vita ad una «catena delle avversità» in base alla quale ciascuno degli eventi negativi predispone a sua volta ad ulteriori esperienze della medesima natura, aumentando la vulnerabilità individuale e sociale, e arrivando a colpire negativamente anche altri corsi di vita. ci si trova di fronte ad una delle possibili applicazioni del principio delle «vite legate»29, qui limitato a una dimensione intragenerazionale ma che potrebbe utilmente riguardare anche le relazioni intergenerazionali come alcuni studiosi hanno iniziato a fare30. È un terreno di grande interesse sociologico, perché arriva al cuore del processo di riproduzione delle disuguaglianze sociali. seppure in forma non sistematica, questo aspetto della relazione tra salute e disuguaglianze sarà più volte affrontato, al fine di individuare via via qualità e modalità dei passaggi di patrimoni health-related – negativi o positivi che siano – da generazione a generazione. il riferimento è agli studi di olagnero (2004), che a sua volta si rifà ad elder (1985). per le note ragioni di dominanza disciplinare, alcuni autori confinano però la propria attenzione ad aspetti di scarso interesse sociologico. È il caso degli studi sulla trasmissione del patrimonio di salute da una generazione all’altra, a partire dalla teoria della programmazione biologica elaborata da Barker (1994), secondo la quale lo stato di salute, il regime dietetico e gli stili di vita assunti dalla madre durante il corso della gravidanza operano un condizionamento più o meno positivo sullo stato di salute del figlio, e non limitato al solo momento della nascita. 29 30 Capitolo 2 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme le dinamiche di produzione e riproduzione delle disuguaglianze sociali sono inevitabilmente interconnesse alle idee, agli orientamenti, ai valori, ma anche alle strutture operative che caratterizzano i sistemi di welfare state1 paese per paese. non è facile offrire una lettura precisa e ‘quantificabile’ dell’impatto che hanno avuto e ancora oggi hanno le diverse configurazioni delle politiche sociali (comprese le politiche sanitarie, ma non solo) sul fenomeno della disuguaglianza sociale e sui suoi molteplici e biunivoci legami con lo stato di salute, ma certamente una relazione esiste, come si vedrà presto più avanti. Questo secondo capitolo sarà articolato nei seguenti punti: (1) dopo una prima visione d’insieme delle condizioni di salute dei cittadini nell’unione europea, (2) sarà presentata una breve rassegna del dibattito sulla controversa questione del ruolo dei servizi sanitari in relazione con le disuguaglianze nella salute. saranno ricordate brevemente (3) le principali tappe storiche che hanno portato alla nascita dell’unione europea, fino al suo assetto attuale, per una attenta valutazione delle tendenze socio-politiche che hanno ispirato e promosso la diffusione di un modello sociale europeo. su questo tema sarà poi effettuata (4) una veloce disamina dell’ormai copiosa letteratura, giustificando e rendendo esplicita la scelta di rivolgere lo sguardo all’europa, senza però varcare il confine più interno, scelta che porterebbe a ricomprendere i paesi dell’est, complicando inopportunamente lo schema del lavoro. infine, tornando a considerare natura, profilo e dimensione delle tendenze reali in sull’espressione welfare state è necessaria una precisazione. ormai entrato nell’uso comune come sinonimo di stato sociale, il concetto di welfare state «è riferibile storicamente solo a una precisa fase di sviluppo dei sistemi di sicurezza sociale: quella cioè che, sulla scorta di elaborazioni compiute negli anni quaranta del novecento, fu avviata nel regno unito subito dopo la seconda guerra mondiale e che poi finì con l’influenzare molte delle riforme attuate negli altri paesi europei» (conti e silei 2005, p. 9). 1 Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 38 Salute e disuguaglianze in Europa atto nelle diverse aree dell’europa, (5) saranno messe in luce le dinamiche complesse di affermazione e maturazione dei sistemi di welfare, e il peso che nella loro costruzione hanno avuto e hanno gli elementi più propriamente politici, le forme principali di aggregazione sociale, e gli orientamenti ideologici e morali diffusi nella società (paci 1988). affrontando l’analisi delle concrete tipologie di welfare state si potrà disporre degli strumenti necessari per indagare – nel prossimo capitolo, in una prospettiva comparata – le realtà politiche e sociali dei paesi che meglio ne rappresentano la realtà. 1. Condizioni di vita e di salute come recentemente ha ricordato uno studio sulle politiche sanitarie in europa e in italia: «le condizioni di salute dei cittadini nell’unione europea possono essere considerate fondamentalmente buone se comparate con quelle della maggior parte della popolazione mondiale, come si rileva dagli indicatori relativi alle aspettative di vita, al tasso di morbilità, alla mortalità perinatale. la popolazione europea rientra quindi in una sorta di élite mondiale del benessere, le cui condizioni di salute sono progressivamente migliorate negli ultimi decenni» (Genova 2008, p.119). a titolo esemplificativo si possono riportare i dati relativi alle aspettative medie di vita per gli uomini e per le donne nella così detta europa dei 15: come si può vedere nella tabella 1, pur con diverse velocità, si registra una tendenza all’aumento in tutti i paesi membri. Tab. 1 – Aspettativa di vita alla nascita, per genere paese/anno austria Belgio danimarca Finlandia Francia Germania Grecia irlanda italia lussemburgo olanda portogallo regno unito spagna svezia 1996 73,7 73,9 73,1 73,1 __ 73,6 75,1 73,1 75,5 73,3 74,7 71,6 74,3 74,5 76,6 uomini 2001 75,7 75,0 74,7 74,6 75,5 75,6 75,9 74,5 77,2 75,1 75,8 73,5 75,8 76,2 77,6 2006 77,2 76,6 76,1 75,9 77,3 77,2 77,2 77,3 77,9* 76,8 77,7 75,5 77,1** 77,7 78,8 Gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2004. Gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2005. Fonte: eurostat (2009) * ** 1996 80,2 80,7 78,3 80,7 __ 80,1 80,2 78,7 81,8 80,2 80,5 79,0 79,5 82,0 81,7 donne 2001 81,7 81,2 79,3 81,7 83,0 81,4 81,0 79,9 83,2 80,7 80,8 80,5 80,5 83,2 82,2 2006 82,8 82,3 80,7 83,1 84,4 82,4 81,9 82,1 83,8* 81,9 82,0 82,3 81,1** 84,4 83,1 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 39 lo scenario si fa però meno positivo quando si sceglie di andare a guardare oltre le medie e oltre i dati aggregati, operando confronti fra singoli paesi sotto il profilo di pur elementari disuguaglianze sociali. le statistiche – se lette correttamente – riportano sì un costante miglioramento dello stato di salute generale, ed un aumento delle aspettative di vita per entrambi i generi, ma al contempo lo scenario europeo nel suo complesso così come quello dei singoli paesi presenta anche fenomeni di persistenza e di accentuazione di significative disuguaglianze di morbosità e mortalità, tra i sessi, tra le diverse aree geografiche, e tra le distinte classi socio-economiche. Guardando infatti oltre il dato dell’aspettativa di vita, e scomponendolo in aspettativa di vita in salute (Healthy Life Expectancy, Hale) e anni vissuti con un grado più o meno intenso di infermità e/o disabilità, cominciano a delinearsi non trascurabili differenze tra paese e paese, in parte anche riconducibili a differenze nei sistemi di prevenzione, cura e assistenza. Tab. 2 – Aspettativa di vita in salute (dati 2006) paese aspettativa di vita in aspettativa salute di vita alla nascita (in anni) parte del aspettativa parte del corso di di vita in aspettativa corso di salute di vita alla vita senza vita senza disabilità (in anni) disabilità nascita uomini donne austria 58,4 77,2 75,6% 60,8 82,8 73,4% Belgio 62,8 76,6 82,0% 62,8 82,3 76,3% danimarca 67,7 76,1 89,0% 67,1 80,7 83,1% Finlandia 52,9 75,9 69,7% 52,7 83,1 63,4% Francia 62,7 77,3 81,1% 64,1 84,4 75,9% Germania 58,5 77,2 75,8% 58,0 82,4 70,4% Grecia 66,3 77,2 85,9% 67,9 81,9 82,9% irlanda 63,3 77,3 81,9% 65,0 82,1 79,2% italia* 65,8 77,9 84,5% 67,0 83,8 80,0% lussemburgo 61,0 76,8 79,4% 61,8 81,9 75,5% olanda 65,0 77,7 83,7% 63,2 82,0 77,1% portogallo 59,6 75,5 78,9% 57,6 82,3 70,0% regno unito* 63,2 77,1 82,0% 65,0 81,1 80,1% spagna 63,7 77,7 82,0% 63,3 84,4 75,0% svezia 67,1 78,8 85,2% 67,0 83,1 80,6% per italia e regno unito gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2005. elaborazione eurostat (2009) * 40 Salute e disuguaglianze in Europa Tab. 3 – Disuguaglianze nella mortalità in base alla posizione socio-economica2 rate ratio1 di mortalità per posizione socioeconomica uomini donne paese indicatore della posizione socioeconomica periodo austria education 1991-1992 45+ 1.43* 1.32* education 1991-1995 45+ 1.34* 1.29* 1991-1995 1991-1995 1991-1995 1981-1990 1991-1995 60-69 60-69 60-69 45-59 45+ 1.44* 1.28* 1.64* 1.33* 1.33* 1.43* 1.26* 1.47* n.a. 1.24 1991-1995 60-69 1.90* 1.73* 1990-1994 60-69 1.31* 1.14 Housing tenure 1990-1994 60-69 1.27* 1.25* occupation 1980-1989 45-59 2.15* n.a. occupation 1980-1982 45-59 1.38* n.a. education 1991-1996 45+ 1.22* 1.20* Housing tenure 1991-1996 60-69 1.37* 1.33* education 1981-1982 18-54 1.85* n.a. occupation 1981-1982 45-59 1.35* n.a. education 1990-1995 45+ 1.36* 1.27* Housing tenure 1990-1995 60-69 1.44* 1.36* occupation 1980-1990 45-59 1.47* n.a. education 1991-1997 25-74 1.92* 1.28 1980-1982 45-59 1.36* n.a. education 1991-1996 45+ regno unito (inghilterra Housing tenure 1991-1996 60-69 e Galles) occupation 1981-1989 45-59 1.35* 1.22* 1.65* 1.58* 1.61* n.a. Belgio Housing tenure education danimarca Housing tenure occupation education Finlandia Housing tenure education1 Francia irlanda italia norvegia olanda portogallo occupation età Fonte national censuslinked mortality follow-up national censuslinked mortality follow-up national censuslinked mortality follow-up national censuslinked mortality follow-up national censuslinked mortality follow-up representative sample national crosssectional study urban censuslinked mortality (turin) national censuslinked mortality follow-up national censuslinked mortality follow-up GloBe longitudinal study (eindhoven) national crosssectional study national censuslinked mortality follow-up representative sample Rate ratio: molto usato in epidemiologia, si utilizza per comparare differenti tassi, ad esempio tra gruppi di età, sesso, periodi di tempo, condizione socioeconomica e mortalità. il rate ratio si ottiene con una semplice divisione tra i due tassi che si vuole mettere in relazione. 2 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme paese indicatore della posizione socioeconomica periodo età rate ratio2 di mortalità per posizione socioeconomica uomini donne education 1992-1996 45+ 1.24* 1.27* occupation 1980-1982 45-59 1.37* n.a. occupation 1980-1986 45-59 1.59* n.a. spagna svezia 41 Fonte urban and regional censuslinked mortality follow-up (Barcelona and madrid) national crosssectional study national censuslinked mortality follow-up l’asterisco (*) indica che la differenza tra i tassi di mortalità delle diverse fasce socioeconomiche è statisticamente significativa, ovvero non imputabile al caso ma, in questa sede, a dinamiche di disuguaglianza sociale. n.a. indica ‘not available’, non disponibile. rielaborazione da: mackenbach 2006 3 inoltre, tanto per il contesto italiano quanto per l’intera realtà europea, si fa sentire il peso del gradiente sociale4 e la sua forte correlazione con lo stato di salute, come si può vedere nella tab. 3, in cui l’autore riassume sinteticamente una serie di risultanze di ricerca svolte nello scorso decennio, qui rielaborate ai nostri fini5. come osservano correttamente spadea, cois e Vannoni una maggiore incidenza della posizione sociale sullo stato di salute «è stata documentata in corrispondenza di livelli inferiori di scolarità, classe occupazionale, condizioni abitative. al contrario, l’associazione positiva con le classi sociali sovraordinate si limita oggi a poche e ben definite patologie – probabilmente più a causa di una maggiore attenzione diagnostica che di una reale maggiore incidenza – e ad alcuni tipi di tumore, come quelli del colon, delle ossa e, nella donna, della mammella e delle ovaie» (2004, p. 19). Rate ratio: molto usato in epidemiologia, si utilizza per comparare differenti tassi, ad esempio tra gruppi di età, sesso, periodi di tempo, condizione socioeconomica e mortalità. il rate ratio si ottiene con una semplice divisione tra i due tassi che si vuole mettere in relazione. 4 l’espressione gradiente sociale è molto utilizzata negli studi su disuguaglianze sociali e salute a livello nazionale e internazionale. pur con tutti i limiti teorici ed empirici che presenta questa espressione – di cui si è brevemente discusso nel primo capitolo – vi si farà spesso ricorso, adottandola come equivalente del concetto di stratificazione sociale. sul punto si veda spadea, cois, Vannoni, 2004. 5 in base alle banche dati e alle fonti consultate per costruire questa tabella, non è stato possibile inserire i profili di Germania, Grecia, lussemburgo. a causa delle differenze nella raccolta e nella classificazione dei dati, non è poi possibile comparare direttamente tra diversi paesi il peso della disuguaglianza sulla salute. si veda l’(*) in nota alla tab. 3 e il commento alla stessa tab. 3 nel testo che la segue. 3 42 Salute e disuguaglianze in Europa Quella rappresentata nella tab. 3 è una situazione comune a tutti i paesi europei che riportano dati in merito, e riguarda dunque anche l’italia. osservando i dati emerge – anche se per ora in modo elementare – quello che da più autori è indicato quale «gradiente sociale correlato alla salute»: ad ogni livello della posizione sociale misurata chi occupa una posizione più avvantaggiata presenta un profilo di salute migliore rispetto a chi occupa una posizione inferiore. È una prima risultanza empirica, propria dei paesi industrializzati, sulla quale si tornerà per successivi approfondimenti. l’attenzione si concentra ora sulle cause di morte. prendendo in analisi gli studi sul fenomeno condotti in europa, si può ben notare come queste siano rilevate con incidenze diverse, variabili in base alla fascia d’età e al genere: due disuguaglianze ‘naturali’ che, come noto, portano con sé anche forti elementi di disuguaglianza sociale. secondo dati del WHo (2002) – ma si veda anche Genova 2008 – tra la popolazione sotto i 29 anni, sia maschile sia femminile, la principale causa di morte è rappresentata dagli incidenti stradali. per gli uomini fra i 30 e i 34 anni e le donne fra i 35 e i 39 anni la prima causa di morte è il suicidio. a partire dai 40 anni, e fino ai 64, si delineano invece due trend distinti per genere: per gli uomini la prima causa di morte diventano le malattie cardiovascolari; per le donne il tumore al seno. infine, dopo i 64 anni le statistiche sulla mortalità presentano quale causa prima tanto per gli uomini quanto per le donne le malattie cardiovascolari. si procede ora con l’andare ad osservare più nel dettaglio prima dinamiche e dati relativi all’incidenza del fumo e al legame di questo con le malattie cardiovascolari, poi dinamiche e dati relativi al tumore al seno. le ragioni che inducono a prendere in più attenta considerazione queste due patologie sono chiare. il consumo di sigarette, ovvero l’abitudine al fumo, bene illustra il peso che gli stili di vita – i quali, come è noto in letteratura fin da max Weber, sono strettamente legati alla posizione di ceto – possono avere sullo stato di salute: ad elementi biologici di predisposizione per l’insorgenza delle malattie cardiovascolari si possono, infatti, sommare elementi derivanti da comportamenti a rischio direttamente riconducibili alla posizione sociale. Generalmente il fumo, così come altri comportamenti e stili di vita dannosi per lo stato di salute, risulta maggiormente diffuso in quei gruppi sociali particolarmente sfavoriti, che cumulano disuguaglianze sociali in più sfere e con modalità che tendono a permanere durante tutto il corso di vita6. il 6 come è noto in letteratura, la cumulazione di posizioni positive o negative impedisce o rende difficile il raggiungimento di un equilibrio complessivo tra vantaggi e svantaggi nelle diverse sfere della condizione di vita; anzi, perdurando nel tempo, il complesso di posizioni conquistate da o attribuite a ciascun individuo tende a cristallizzarsi e ad accentuare le disuguaglianze e il modo stesso in cui sono percepite. per un approfondimento sul tema si rimanda a dahrendorf (1959), in particolare al sesto capitolo. Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 43 fumo dunque rappresenta un importante fattore di rischio, capace di aumentare sensibilmente la probabilità di insorgenza di numerose patologie7. in questa sede, a fine esplicativo, ci si soffermerà sul legame specifico tra consumo di sigarette e, più in generale, stili di vita insalubri e insorgenza delle malattie cardiovascolari. a partire da un breve resoconto su questa patologia, risulta chiaramente come le malattie cardiovascolari, gruppo di patologie ricomprendente infarto, ictus, ed emorragia cerebrale, pur registrando in europa una graduale riduzione della loro incidenza (vedi tabella 4), continuino a rappresentare una delle più importanti cause di mortalità, e colpiscano soprattutto gli strati della popolazione meno abbienti, dando credito alle teorie che legano queste patologie al gradiente sociale. come già rilevato da costa (con cardano e demaria 1998), mackenbach (et alii 2000, et alii 2008), e marmot (2004) è quindi possibile affermare che in tutti i paesi europei si registra un andamento comune caratterizzato da peggiori condizioni di salute e da un più alto tasso di mortalità in quegli strati di popolazione con peggiori condizioni socioeconomiche. Fig. 1 – Trend della mortalità per malattie cardiovascolari* *dati rilevati per uomini di fascia d’età 35-74. periodo osservato: 1994-2003. Fonte: Eurostat 2008. Fonte: eurostat 2008. «il fumo rappresenta uno dei principali fattori di rischio per numerose patologie. i forti fumatori rischiano venti volte in più rispetto ai non fumatori di ammalarsi di tumore al polmone, riportano un rischio dieci volte maggiore per le malattie ostruttive delle vie respiratorie e una volta e mezza per le malattie cardiovascolari. Fumare aumenta anche il rischio di malattie cerebrovascolari, di aneurisma, di malattie vascolari periferiche e di tumore della laringe, della bocca, dell’esofago, della vescica, del fegato, del pancreas, del rene, dello stomaco e della cervice uterina» (spadea, cois,Vannoni 2004, p. 64). 7 44 Salute e disuguaglianze in Europa È interessante notare come, per quanto riguarda la distribuzione delle malattie cardiovascolari e dell’infarto in particolare, sia ormai acclarata la presenza in europa di un gradiente nord-sud, che segna disuguaglianze maggiori in termini assoluti e relativi nei paesi del nord – paesi scandinavi e regno unito – rispetto ai paesi del sud – portogallo, spagna, italia. come dimostrano varie indagini condotte nei paesi europei, l’andamento dei tassi di incidenza delle patologie cardiovascolari si lega direttamente all’incidenza del consumo del tabacco che però, naturalmente, cambia nel tempo. tra gli anni cinquanta e sessanta nei paesi nord europei le malattie cardiovascolari colpivano prevalentemente le fasce di popolazione più abbienti, caratterizzate da un alto consumo di cibi grassi, di sigarette, e con uno stile di vita più sedentario rispetto alle fasce di popolazione più povere (Frolich, potvin, corin 2001). a partire dagli anni settanta si registra una inversione di tendenza: una maggiore e più diffusa attenzione sulla salubrità degli stili di vita unita a campagne di sensibilizzazione contro il fumo fanno sì che le classi più favorite sul piano socio-economico mettano in atto nuove strategie e abitudini di vita che le aiutano a ridurre il tasso di incidenza delle malattie cardiovascolari, al contrario in aumento tra le classi meno abbienti dove si diffonde l’abitudine al fumo e al consumo di junk-food8. nell’area dell’europa meridionale questo fenomeno presenta invece una evoluzione dai contorni più sfumati, caratterizzata da tempi più lenti e con differenziali nella mortalità per le malattie cardiovascolari decisamente più ridotti. anche se il passaggio ad uno stadio di maggiore diffusione del fumo9, con il consumo di sigarette che diventa abitudine diffusa per entrambi i sessi e in particolare per i gruppi socio-economici più svantaggiati, espone anche questi paesi a dinamiche simili a quelle presentate per l’area nordica. (2° rapporto osservatorio italiano sulla Questa evoluzione degli stili di vita conferma le – per altro già accreditate – teorie che sottolineano la maggiore diffusione dei fattori di rischio nei gruppi sociali più sfavoriti, con disuguaglianze già attive in tutte le fasce di età, e la tendenza ad adottare più di un comportamento insalubre. per maggiori approfondimenti si rimanda: in questa sede al sesto capitolo in particolare; in letteratura ancora a Frohlich, potvin, corin 2001. 9 in un articolo pubblicato nel 2005 Huisman, Kunst, e mackenbach hanno individuato quattro fasi di diffusione del consumo di sigarette con momenti diversi di transizione tra i generi e le classi sociali: i. all’inizio del XX secolo l’abitudine al fumo comincia a diffondersi tra gli uomini delle classi sociali più agiate; ii. dopo la seconda guerra mondiale si registra una rapida crescita dei fumatori in tutte le classi sociali. le donne seguono i consumi maschili con un ritardo di 10-20 anni (il portogallo risulta essere l’unico paese ancora in questa fase negli anni novanta); iii. si registra una diminuzione dell’abitudine al fumo, soprattutto nelle classi più elevate, a seguito dell’attuazione di misure di prevenzione quali: divieto di fumare nei luoghi pubblici, aumento dei costi delle sigarette, campagne di sensibilizzazione contro il fumo (spagna, Francia e italia si collocano allo stadio iniziale di questa fase, Finlandia e Germania quasi al termine); iV. il fumo diventa – per entrambi i sessi – una abitudine diffusa soprattutto tra le classi socio-economiche più svantaggiate (in questa fase si trovano regno unito, norvegia, svezia, paesi Bassi). 8 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 45 salute Globale 2006). È un risultato di ricerca per certi aspetti controintuitivo, che avverte comunque della necessità di fare particolare attenzione nello stabilire relazioni troppo semplici e lineari tra sfera del welfare e sfera della salute. Tab. 4 – Fumatori per genere e fascia di età (in percentuale) paese/età austria Belgio danimarca Finlandia Francia Germania Grecia irlanda italia norvegia olanda portogallo regno unito spagna svezia 15 – 34 44,7 27,6 32,3 23,4 31,3 40,6 33,4 29,7 28,0 24,3 30,4 25,9 31,5 34,8 10,5 uomini 35 – 54 46,8 36,2 35,9 24,4 39,2 40,6 57,9 23,8 39,2 30,6 32,8 44,5 30,1 44,4 1,8 55 - 64 33,1 19,9 40,2 26,4 22,8 19,5 36,5 17,7 28,8 31,8 28,7 22,0 24,8 26,8 22,2 15 - 34 37,0 24,4 26,5 20,6 24,8 29,8 16,5 28,5 17,2 27,2 26,7 10,6 35,7 31,1 17,2 donne 35 - 54 39,2 28,6 36,0 21,3 29,7 30,6 30,3 21,1 25,3 29,6 33,3 15,0 28,1 36,0 22,3 55 - 64 26,1 16,3 33,5 16,4 11,7 13,1 8,0 15,1 14,1 27,5 22,7 2,2 22,4 7,5 22,8 Fonte: eurostat 2007 si prosegue ora con il secondo approfondimento. il tumore al seno è il tipo di carcinoma più diffuso e la prima causa di morte per tumore tra le donne in europa. tenendo presente che le differenze sociali nella mortalità per cancro sembrano avere un minore peso rispetto ad altre patologie e che, in particolare nella mortalità10, le donne presentano differenziali sociali minori rispetto agli uomini, è possibile purtuttavia osservare come il tumore al seno presenti alcuni aspetti particolarmente significativi per la nostra ipotesi. da un lato, con un rapporto invertito rispetto alla maggior parte delle patologie (e così come per il tumore della pelle), il 10 secondo la lettura data da costa (costa, Bellini, spadea 2006, p. 178) – che pure lascia indeterminata la spiegazione, sulla quale si cercherà di dare risposte più avanti – «alcuni fattori di rischio strettamente associati alla bassa posizione socio-economica, quali il fumo, l’abuso di alcol e una dieta povera di frutta e verdura fresca, sono più diffusi tra gli uomini che tra le donne; solo il sovrappeso e l’obesità mostrano differenziali sociali più alti tra le donne». 46 Salute e disuguaglianze in Europa tumore al seno presenta una incidenza maggiore al crescere dello status socio-economico; fenomeno non facilmente spiegabile e controverso, in parte riconducibile ad alcuni stili di vita tipici delle classi più abbienti: per citare solo i più importanti, la posticipazione della nascita del primo figlio, un basso numero di gravidanze, il rifiuto o la riduzione dei tempi di allattamento al seno. dall’altro lato è stato rilevato come le classi sociali più deprivate aggiungono agli altri svantaggi quello derivante da una particolare resistenza culturale a trarre benefici dagli interventi preventivi sulla popolazione, specialmente quando non accompagnati da specifiche azioni di supporto. analizzando i dati a disposizione sul caso, risulta chiaramente come le cause di morte varino al variare delle età considerate. se i tumori rappresentano la seconda causa di morte tra la popolazione europea (sul totale dei morti per anno, infatti, ai tumori è attribuibile il 29% dei decessi maschili e il 23% dei decessi femminili), il tumore al seno rappresenta la forma tumorale più frequente e la prima causa di morte per tumore nelle donne in europa (17% dei casi di tutte le morti per tumore), la prima causa di morte nella fascia di età fra i 34 e i 44 anni, e la seconda – dopo le malattie cardiovascolari – per le donne che hanno superato i 55 anni. come è noto, il tasso di mortalità di questo particolare carcinoma può essere significativamente ridotto grazie all’introduzione di strumenti per la diagnosi precoce11 affiancati da percorsi terapeutici e riabilitativi adeguati: all’analisi preventiva è stato infatti riconosciuto un ruolo cruciale dopo che numerosi studi clinici hanno evidenziato come la prognosi per tumore al seno sia fortemente correlata allo stadio in cui la malattia viene diagnosticata e trattata. se nei confronti della articolata questione del monitoraggio dello stato di salute e dei programmi di screening e di prevenzione le politiche nazionali possono avere attraversato fasi diverse, talvolta legate al colore politico del governo in carica, e ancora oggi si presentano nei vari paesi con standard non uniformi, ciò che è sicuro è che l’unione europea ha giocato, e tutt’oggi gioca, un ruolo importante in questo campo. a partire dagli anni novanta, in una fase che ha visto aggiungersi alle sfide di lungo periodo poste dai già ricordati trend demografici del continente le difficoltà congiunturali di una forte recessione e di un aumento della disoccupazione, l’unione europea è riuscita ad imporre come priorità un programma di salute pubblica comune ai paesi aderenti e ad incentivare lo studio delle dinamiche di disuguaglianza e il fronteggiamento delle loro ripercussioni sullo stato di salute. a partire dal 2003 specifiche direttive comunitarie, riconoscendo l’efficacia dello screening, ne sostengono progetti di diffusione in tutti i paesi membri, la diffusione di screening mammografici (ovvero esami radiografici del seno condotti sistematicamente su donne appartenenti alla stessa coorte anagrafica) rappresenta il metodo più accreditato per permettere una diagnosi precoce della patologia. 11 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 47 indicando le linee guida per la messa a punto di un servizio accessibile, capillare, efficace. «ciononostante» – come ricorda recentemente Genova rifacendosi a dati risalenti al 2006 dell’European Health Net – «al momento solo otto paesi europei hanno pienamente implementato programmi di screening a livello nazionale: Belgio, Finlandia, Francia, ungheria, lussemburgo, paesi Bassi, svezia e regno unito. in spagna, portogallo, Germania e irlanda, invece, i programmi nazionali sono quasi del tutto incompleti; mentre in austria, danimarca e italia esistono programmi pilota o esperienze regionali» (2008, p.130). oltre a queste differenze, anche importanti, tra paese e paese, nell’attuazione degli interventi di prevenzione primaria e secondaria e di diagnosi precoce, bisogna tenere conto delle differenze che condizionano l’accesso all’utenza da parte dei singoli. l’adesione spontanea ai programmi di prevenzione nella popolazione risulta generalmente – dunque ben oltre i confini del singolo paese membro, con riscontri a livello europeo – a vantaggio delle persone più istruite e di classe sociale alta, più sensibili ai messaggi di educazione sanitaria e dunque in grado di trarne i maggiori benefici. Tab. 5 – Tumore al seno (anno di rilevazione 2002)* incidenza mortalità numero di crude rate ** numero di crude rate % paesi casi all’anno ti casi all’anno tm di tm su ti austria 4635 112,7 1593 38,1 33,8 Belgio 7429 142,1 / / / danimarca 3879 144,2 1333 49,2 34,1 Finlandia 3609 136,4 787 29,6 21,7 Francia 41957 137,4 11172 36,4 26,5 Germania 55689 133,7 17780 42,1 31,5 Grecia 4543 84,4 1761 31,6 37,4 irlanda 1874 96,2 604 30,6 31,8 italia 36634 124,2 11309 37,8 30,4 lussemburgo 282 124,3 75 33,2 26,7 olanda 10447 129,9 / / / portogallo 4309 82,8 1550 29,0 35,0 regno unito 40928 135,5 12866 42,3 31,2 spagna 15855 77,8 5772 27,4 35,2 svezia 6583 148,1 1482 32,9 22,2 * i dati su mortalità e relativo crude rate della danimarca si riferiscono all’anno 2001. per Belgio e olanda non è stato possibile reperire dati. ** il ‘crude rate’ o tasso semplice rappresenta il numero di casi registrati ogni 100.000 abitanti per anno. in questo caso ci si riferisce alla sola popolazione femminile. mia elaborazione da: iarc international agency on research on cancer (2002) 48 Salute e disuguaglianze in Europa osservando i dati riportati nella tabella 5 emerge chiaramente come non si possano dare indicazioni univoche su efficacia del sistema di prevenzione ed esito della prognosi. regno unito e svezia, per fare un esempio concreto, risultano entrambi nel gruppo di paesi che hanno implementato pienamente programmi di screening a livello nazionale seguendo i parametri comunitari. eppure mentre la svezia a fronte di un crude rate di incidenza del carcinoma di 148,1 presenta un tasso di mortalità di 32,9, ovvero del 22,2%; il regno unito a fronte di un crude rate di incidenza di 135,5 presenta un tasso di mortalità di 42,3, il 31,2%. in questa sede non è possibile fare altro che rimarcare la complessità della questione, e lasciare aperto il dibattito relativo al peso e all’efficacia delle misure di prevenzione e delle terapie adottate. 2. La salute tra tutela e cura ancora oggi il dibattito sulla rilevanza delle prestazioni mediche, ospedaliere e assistenziali nel determinare il livello di salute di una popolazione è aperto. a livello teorico, nell’affrontare la problematica del ruolo dei servizi sanitari in relazione alle disuguaglianze nella salute, macintyre individua un continuum di orientamenti12 a partire dalle posizioni che considerano pressoché nulla o molto ridotta l’incisività delle politiche sanitarie sui livelli di morbilità e mortalità13 fino alle posizioni (prevalenti) di quanti considerano i servizi sanitari quali i principali responsabili della salute pubblica, così accreditando la troppo semplicistica equazione che mette in relazione disponibilità e fruizione dei servizi sanitari con il superamento delle disuguaglianze nella salute. È comunque presto per arrivare a conclusioni certe. si cita, per ora, solo un dato. secondo fonti aggiornate (2° Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, 2006) il peso complessivo delle cure mediche e degli interventi di prevenzione (vaccinazioni e screening) sul miglioramento delle aspettative di sopravvivenza varia tra il 20 e il 50%, con una incidenza più contenuta nel caso di malattie croniche e migliori risultati sulla riduzione di mortalità durante il parto e i primi mesi di vita. in generale, l’assistenza sanitaria può intervenire in due diversi modi sullo stato di salute dei suoi utenti. in modo diretto, fornendo i percorsi di orientamenti che secondo macintyre si caratterizzano entrambi per «mancanza di chiare evidenze empiriche», e che fanno riferimento «ad un circoscritto e limitato numero di esperti come mcKeown e cochrane per supportare la prima posizione, e a strategie di cura prenatale in Francia, svezia o Finlandia per supportare la seconda» (1989, p.318, mia traduzione). 13 posizione che riprende, estendendone e in un certo modo distorcendone il significato, gli studi compiuti da mcKeown (1965; 1976) sull’andamento della tubercolosi in europa nel XiX secolo e sul calo della mortalità registrato all’inizio del XX secolo. entrambi i fenomeni secondo l’autore erano da attribuirsi non tanto ai progressi della scienza medica (di fatto posteriori all’inversione di tendenza dei fenomeni) quanto al miglioramento delle condizioni di vita materiali e relazionali legati al particolare momento di sviluppo economico e di affermazione di diritti civili, politici e sociali. 12 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 49 cura e di alleviamento del dolore strettamente interconnessi alla malattia conclamata. in modo indiretto, «in quanto l’assistenza sanitaria costituisce una parte essenziale della protezione sociale di una persona: l’insicurezza circa la disponibilità dell’assistenza sanitaria, come quella relativa ad altre componenti del welfare, potrebbe concorrere a perturbare la salute, senza che però si possa parlare di un effetto diretto dell’assistenza sanitaria sulla salute» (costa, cardano, demaria 1998, p.43). in entrambi i casi la sua azione risulta essere al contempo parziale, poiché concausale, eppure importante proprio in funzione della sua stessa concausalità. i sistemi sanitari possono dunque rappresentare una piattaforma valida per promuovere l’equità, o all’opposto, quando guidati dalla Inverse Care Law (Hart 1971) che vede variare la disponibilità di servizi sanitari di qualità in modo inversamente proporzionale alle necessità e ai bisogni della popolazione servita, possono alimentare e rafforzare le disuguaglianze14. eppure, le cure e i servizi medici non bastano. per il mantenimento dello stato di salute è essenziale la sinergia tra amministrazione pubblica, forze sociali e singoli individui, e che la strategia delle politiche pubbliche abbia tra le sue priorità quella di correggere o almeno limitare le disuguaglianze sociali in ambito di salute. secondo il modello socio-ecologico proposto da tarlov (1996), tali politiche di correzione, per essere efficaci e avere un impatto sulla stessa struttura sociale, dovrebbero essere orientate su più fronti: quello della riduzione degli stati di deprivazione a cominciare dall’alimentazione e dalla sistemazione abitativa; quello di una più equa redistribuzione della ricchezza e delle opportunità anche mediante interventi di politica fiscale; quello del potenziamento delle infrastrutture per una migliore informazione, prevenzione e assistenza; e, infine, quello dei programmi di intervento volti a promuovere tanto la sicurezza fisica, economica, di certezza delle cure e dell’assistenza, quanto la consapevole e informata percezione di tale sicurezza. il problema della salute e delle interazioni che la legano alla variegata sfera delle disuguaglianze sociali va perciò ben oltre le competenze di un preciso settore delle politiche pubbliche. È forse possibile cominciare a dire che il problema vada persino oltre le competenze delle politiche pubbliche tout court. nel 1952 un pionieristico studio15 di Giovanni Berlinguer sulle differenze nella mortalità infantile, generale e per cause nei diversi quartieri di roma tra il 1935 e il 1950 mise in luce il notevole gap di equità nella salute secondo il reddito, il lavoro, l’abitazione, il livello di istruzione. È in particolare durante il quinquennio 1940-1945 che l’accresciuta incidenza delle disuguaglianze sociali aveva portato ad un notevole aumento del tasso di mortalità secondo la ‘legge’ di Hart le risorse assistenziali, seguendo dinamiche sociali e di mercato, tendono a distribuirsi in maggiore quantità e migliore qualità là dove le condizioni di vita sono migliori, inficiando così – di fatto – gli effetti redistributivi delle politiche sanitarie pubbliche. 15 si tratta della tesi di laurea dell’autore, discussa presso l’università “la sapienza” di roma. 14 50 Salute e disuguaglianze in Europa infantile. Quando pochi anni dopo l’autore ebbe l’occasione di confrontare i dati che aveva a disposizione con quelli di una ricerca analoga, condotta a londra nello stesso arco di tempo, scoprì che le tendenze che si rilevavano nel secondo caso erano di segno opposto: negli anni della guerra il divario sociale era diminuito. «Quali fattori agirono nel rendere così diversi i due casi? nella capitale italiana, che era sovraffollata di rifugiati i quali pensavano di essere più sicuri all’ombra della città aperta, vi era trascuratezza diffusa verso i bambini, e assenza di ogni aiuto per le famiglie. a londra, che subiva ogni giorno la crudeltà di pesanti bombardamenti, le istituzioni provvedevano assistenza e cure, distribuivano il latte, privilegiavano nell’alimentazione donne e bambini, e i legami nel popolo contribuivano ad affrontare le maggiori difficoltà. la differenza tra le due situazioni è stata cioè tra la presenza e l’assenza di politiche specifiche e di solidarietà organizzata. diremmo oggi: nell’impegno sui determinanti sociali delle malattie» (Berlinguer 2006, p. 23, corsivi miei). i dati e le osservazioni appena riportate ben sottolineano la centralità dell’aspetto relazionale, facendo emergere chiaramente tanto la crucialità del senso di appartenenza e di identità, quanto il peso agito da una minore o maggiore integrazione sociale nelle dinamiche di riproduzione delle disuguaglianze, in particolare nella dimensione della salute. l’osservazione delle disposizioni e dei comportamenti individuali, ovvero delle azioni dei singoli, deve dunque tenere conto, anche a costo di operare una complessificazione del quadro, delle interazioni e del contesto sociale e relazionale nel quale gli individui si trovano ad agire: insomma, come appunto suggerisce Berlinguer, dagli stretti legami che stringono indissolubilmente insieme l’azione delle politiche sociali al clima culturale e valoriale di una società. tale posizione va dunque ad accreditare ulteriormente quella prospettiva di studio dei sistemi sociali che muove da un’ottica ‘contestualista’, volta cioè a tenere conto della strutturazione complessiva dei sistemi pubblici e privati di protezione sociale, e non delle sole politiche pubbliche: di questa posizione, che trova concordi gli studiosi più avvertiti e sociologicamente più sensibili16, si terrà ampiamente conto nei successivi capitoli, adottando un’ipotesi di lavoro dove evoluzione storica, valori di riferimento e ‘modi di essere’ dei sistemi di welfare saranno fortemente interrelati sia con i valori, i principi e le forme di identità che si vanno a formare nel tessuto sociale, sia con le strutture organizzative e i sistemi di relazione sociale che caratterizzano le differenti agenzie sociali, dalla famiglia alla scuola al mercato17. cfr., per tutti, Vicarelli (1997, p.43): «Gli orientamenti e i valori diffusi nel corpo sociale giocano un ruolo presumibilmente non minoritario nella configurazione delle politiche sociali sia che i sistemi culturali dominanti se ne facciano carico o meno». 17 Già titmuss nella sua ultima opera, The Gift Relationship, del 1971, aveva indagato a fondo la relazione intercorrente tra struttura sociale, organizzazione di servizi e comportamento morale degli individui, arrivando ad affermare come le relazioni sociali (compreso lo stesso capitale sociale) fossero risorse che potevano essere valorizzate, o al contrario negate e compresse, a seconda dei valori cui si fosse ispirata la politica sociale e l’offerta pubblica di servizi. 16 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 51 3. Verso un Modello Sociale Europeo in breve, si è visto come le politiche sociali, per attenuare gli effetti delle diseguaglianze nella salute, debbano agire su più fronti, seguendo un quadro d’insieme che – senza limitarsi agli aspetti strettamente sanitari – ricomprenda diverse «fasce di problemi»: dall’accesso all’assistenza prenatale ai servizi di supporto familiare o per la nutrizione, dai programmi di prevenzione o trattamento dell’abuso di sostanze alle attività consultoriali in età scolare o adolescenziale (costa, cardano, demaria 1998, p. 45). ma si è visto anche quanto forti e imprescindibili siano le interrelazioni tra politiche pubbliche, sistema di welfare e rispettive realtà sociali. È tenendo conto di queste complesse relazioni che si tenterà ora di tracciare i confini geografici, storici e sociali entro i quali sviluppare la ricerca. partendo da una domanda fondamentale, e cioè se l’europa rispetto alle strutture di disuguaglianza, e in particolare rispetto al rapporto tra disuguaglianze sociali e salute, rappresenti veramente una unità sociale, e se dunque possa essere considerata una dimensione d’analisi indagabile e significativa sotto questo profilo. la domanda fondamentale da porsi ha dunque carattere storico. Quali sono state le linee principali di sviluppo del percorso storico che ha portato alla formazione di una società europea? se le prime tracce di una proposta non meramente utopistica di federazione di stati europei possono essere rilevate già nell’opera dell’abate di saint-pierre e nel saggio filosofico Per la pace perpetua di immanuel Kant, risalente al 1775, è con la fine della prima guerra mondiale che uomini come luigi einaudi, Giovanni agnelli, e aristide Briand portano all’attenzione delle istituzioni l’ipotesi della creazione di un’europa federale (lucarelli 2003). pochi decenni dopo, con l’inizio della seconda guerra mondiale nascono nuovi movimenti e associazioni che promuovono il federalismo tra gli stati europei. di particolare rilevanza rimane l’attività di un gruppo di intellettuali aderenti al movimento antifascista in esilio che nel 1941 con il manifesto di Ventotene Per un’Europa libera e unita, già chiaramente indicavano nella costruzione di un’europa federale la garanzia di una proficua collaborazione tra stati e la base per la costruzione di una pace duratura. tale proposta trovava credito e riusciva quindi a farsi strada a partire dalla fine della guerra, fino all’ufficializzazione di un progetto europeo con la firma del trattato istitutivo della comunità economica europea (cee), avvenuta a roma il 25 marzo 1957. nel trattato si affidava alle istituzioni comunitarie il compito di promuovere uno sviluppo armonioso delle attività economiche nell’insieme della comunità, e contemporaneamente di accrescere la stabilità, migliorare lo stile di vita, intensificare le relazioni tra stati membri mediante l’instaurazione di un mercato comune, operare un graduale riavvicinamento delle politiche economiche degli stati membri. in particolare le misure in campo sociale furono ribadite e rafforzate con la firma del trattato della comunità 52 Salute e disuguaglianze in Europa europea del carbone e dell’acciaio (ceca) a parigi il 18 aprile 195118, che – in particolare – promuoveva interventi mirati a migliorare le condizioni di lavoro imponendo standard di igiene e sicurezza (articoli 56 e 58), favorendo la libera circolazione di manodopera e l’armonizzazione dei salari (articoli 68 e 69) sostenendo i programmi di formazione professionale (articolo 46). inoltre il trattato prevedeva l’istituzione di un fondo sociale europeo per la promozione dell’occupazione, per il miglioramento del tenore di vita, e per la libera circolazione dei lavoratori in ambito comunitario19. nonostante le misure adottate e le risorse impiegate, la crisi economica del 1973 riporta impietosamente alla luce le grandi differenze a livello di sviluppo e i divari esistenti sia tra stato e stato, sia tra le regioni all’interno di ogni singolo paese, e spinge gli stati membri (che da quella data contano tra loro anche regno unito e irlanda) ad impegnarsi nella messa a punto di una nuova politica strutturale. a partire dal 1974, a seguito dell’attuazione del primo programma di azione sociale che ripuntualizzava obbiettivi e disposizioni relative a salute e sicurezza dei lavoratori, pari opportunità, e inserimento professionale di soggetti svantaggiati, vengono istituiti nuovi specifici fondi strutturali. altre tappe fondamentali sono state, alla fine degli anni ottanta, l’adozione di una carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori da parte dei paesi membri, con l’eccezione del regno unito, guidata da un governo conservatore; il trattato di maastricht, firmato nel 1992, che promuove la progressiva estensione della legislazione sovranazionale, ampliandone le competenze di policy in particolare negli ambiti più rilevanti dal punto di vista economico e sociale (come diritti sociali, istruzione, sicurezza, migrazioni, cultura, ambiente); e nel 1993 l’individuazione delle priorità relative allo sviluppo delle piccole e medie imprese, alla promozione del dialogo sociale, al passaggio ad una società dell’informazione, presentate nel libro Bianco della commissione intitolato «crescita, competitività, e occupazione». ad un ulteriore rafforzamento delle politiche sociali si arriva con il trattato di amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997, sia per il cambio di posizione del regno unito che, con il nuovo governo laburista, si sposta su posizioni di maggiore apertura aderendo all’accordo sulla politica sociale, così da permetterne l’inserimento nel trattato, sia per la promozione di una strategia comunitaria per l’occupazione articolata su precise linee direttrici. il consiglio europeo svoltosi a lisbona il 23 e 24 marzo 2000 segna un’altra tappa importante. preso atto del grave ritardo dell’unione sia in È grazie al lavoro e all’impegno di Jean monnet (autore nel 1950 della prima proposta di progetto per la nascita della ceca), dell’allora ministro degli esteri francese robert schuman, del cancelliere tedesco Konrad adenauer, e del presidente del consiglio italiano alcide de Gasperi che Francia, Germania, italia, Belgio, olanda e lussemburgo firmano il trattato. 19 i regolamenti esecutivi relativi alla sicurezza sociale e alla libera circolazione dei lavoratori furono delineati solo venti anni dopo l’istituzione del Fse. 18 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 53 ambito economico che tecnologico, soprattutto rispetto agli usa, si promuove una strategia di modernizzazione strutturata su programmi politici decennali volta a promuovere una economia della conoscenza, e una maggiore convergenza tra gli stati europei. Viene applicato un «metodo aperto di coordinamento» basato sull’adozione di linee guida e obbiettivi comuni (metodo collocabile in una posizione intermedia tra cooperazione intergovernativa e modello comunitario classico); si indicano nuovi obbiettivi da raggiungere e parametri da seguire sulle seguenti dimensioni: crescita economica, occupazione, inclusione sociale, ambiente (e a questi stessi items si rifanno le definizione dei nuovi indicatori strutturali); viene istituito un appuntamento annuale organizzato nella forma di Vertice dei capi di stato e di Governo, al fine di controllare sistematicamente i progressi compiuti sia a livello comunitario che dei singoli stati membri rispetto agli obbiettivi strategici dell’agenda di lisbona20. da questo rapidissimo excursus storico dovrebbe risultare più chiaro come a livello di unione europea si sia da tempo superata la fase di semplice giustapposizione di sistemi sociali dei singoli stati, e si possa invece rilevare – anche se con qualche difficoltà per la complessità del tema – la presenza di un insieme di principi e norme sociali rintracciabili negli stessi trattati, una base comune di garanzie sociali disciplinate da norme comunitarie, l’attivazione di programmi di intervento finanziario diretto (gestiti soprattutto dai Fondi strutturali specifici), l’implementazione di un progressivo coordinamento fra i sistemi nazionali di sicurezza sociale. Questo insieme di pratiche e di principi guida, nel momento in cui il dibattito per una più estesa partecipazione democratica dei cittadini e per una nuova e più completa definizione della cittadinanza europea ha cominciato a prendere campo e a farsi più animato, è stato analizzato, sistematizzato e ricondotto entro un parametro di riferimento noto come modello sociale europeo. È a partire da queste sedi e con questi spunti, infatti, che il modello sociale europeo diviene da un lato l’elemento simbolo di una rappresentazione, pure se ‘cristallizzata’, delle best practices comuni alle società europee, dall’altro lato un insieme di principi-guida per compiere ulteriori passi avanti nella costruzione di una integrazione europea anche nei campi politici e sociali (trenz 2008). esso si richiama direttamente alla lunga esperienza europea di promozione dello sviluppo economico sostenibile com«considerando la lentezza dei progressi, e più in generale la debolezza economica dell’europa, l’agenda di lisbona è stata sottoposta più volte a revisione, monitorata e analizzata criticamente in una sfilza praticamente interminabile di rapporti. […] il rapporto Kok ha sottoscritto gli obbiettivi dell’agenda di lisbona, affermando che raggiungerli entro il 2010 non è un traguardo impossibile. al tempo stesso, però, ha esposto una serie di punti critici. la strategia originaria era troppo generica, e non era scritto nero su bianco chi dovesse assumersi la responsabilità del cambiamento. […] il rapporto sapir, pubblicato poco prima, giunge a conclusioni analoghe» (Giddens 2006, pp. 20-21). 20 54 Salute e disuguaglianze in Europa binata alla difesa della coesione sociale. Questo legame tra giustizia sociale e solidarietà ha permeato le tradizioni di pensiero e i movimenti politici e sociali, tanto da diventare uno degli elementi fondamentali del sistema di valori europeo21, è stato capace di plasmare le istituzioni, ha temperato il modello economico liberista. se però si tenta di definirne meglio i confini, ci si ritrova a fare i conti con un concetto di modello sociale europeo ambiguo e polisemico, al centro di un dibattito ancora aperto. per semplificare il quadro è possibile raggruppare (senza troppe forzature) le molte diverse definizioni in quattro principali categorie22. il primo insieme di definizioni considera il modello sociale europeo come un’entità che presenta alcune caratteristiche comuni e originali degli stati nazionali – una serie di istituzioni, un insieme di valori, specifiche forme di regolamentazione – utili nel perseguire determinati obbiettivi di regolazione sociale e di competizione economica. il senso è dunque quello di considerare fondamentalmente il modello sociale europeo come caratterizzato dalla presenza di un particolare gruppo di istituzioni, e da una costellazione di valori e norme condivise dai diversi pesi membri. a questo filone di pensiero, seguendo il suggerimento di leonardi (2009), appartengono le definizioni di modello sociale europeo più diffuse, basate sull’individuazione delle caratteristiche comuni e delle dimensioni condivise dai paesi aderenti all’unione, fino all’enunciazione di quei principi comunitari che devono guidare i diversi paesi nelle comuni sfide da fronteggiare. È possibile ricomprendere in questo gruppo tanto la tesi di Vaughan-Whitehead23, che tiene principalmente conto della tipologia di welfare e delle forme di regolazione dell’economia di mercato, quanto quelle varianti (come ad esempio scharpf 2002) più propense a tener conto delle dinamiche e delle pratiche di promozione di una politica sociale volontaristica unitamente ad una promozione dello sviluppo economico. il secondo gruppo di definizioni considera il modello sociale europeo alla stregua di un modello ideale, un idealtipo in senso weberiano, cui i diversi modelli nazionali, con gradazioni diverse, tendono; in altre parole un’idea di modello sociale europeo identificabile in un particolare insieme di valori di riferimento. Questo approccio è condiviso da tutte quelle analisi (solo per secondo quanto riportato nel saggio di Habermas e deridda (2005) l’elemento ultimo che ‘tiene insieme’ l’europa, o – in altre parole – l’elemento ultimo su cui si fonda l’identità europea, è rappresentato dalle garanzie di sicurezza sociale offerte dal welfare e, insieme, dalla fiducia degli europei nel potere civilizzante dello stato. 22 seguendo l’esempio già proposto da Jepsen e serrano (2005). 23 Vaughan-Whitehead (2003) propone una articolata lista di componenti del modello sociale europeo, ricomprendente legislazione del lavoro e leggi per i diritti dei lavoratori, per l’occupazione, per le pari opportunità, anti-discriminazione, e così via. l’autore sottolinea come il modello sociale europeo non sia però riducibile solo a un insieme di regolamentazioni della comunità europea e dei propri stati membri, ma come rilevano Jepsen e serrano, anche ad «una gamma di pratiche volte alla promozione di una politica sociale volontaristica e comprensiva all’interno dell’unione europea» (2005, p. 234). 21 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 55 citare le più note, il riferimento è alle proposte di esping-andersen, Ferrera, Hemerijck) che considerano il modello sociale europeo alla stregua di un idealtipo utile per leggere le svariate combinazioni di efficienza economica e giustizia sociale via via operanti nei diversi sistemi nazionali. il terzo gruppo delinea il modello sociale europeo con i tratti di un particolare metodo utile per affrontare sfide e problemi comuni; un vero e proprio progetto transnazionale finalizzato al rafforzamento dell’identità europea e della coesione sociale interna, e ad una sempre più omogenea modernizzazione dei suoi stati membri. infine, in un quarto gruppo di definizioni il modello sociale europeo viene paragonato ad un progetto politico basato più che su valori comuni sulla condivisione di problemi e di interventi atti a risolverli, un programma capace di affrontare le nuove sfide economiche e sociali grazie alla promozione di strategie di attivazione, partenariato, flexicurity24. Gli ultimi due percorsi definitori – ovvero le idee di modello sociale europeo riconducibile (in estrema sintesi) rispettivamente ad un metodo o ad una strategia politica – presentano numerosi punti di contatto, e hanno spesso portato a sviluppare una comune accezione di modello sociale europeo quale progetto in grado di favorire i trend di convergenza comuni a tutti i paesi europei. il processo di mutamento economico e sociale proprio del panorama europeo, ma chiaramente interconnesso con il fenomeno della globalizzazione (tipicamente intercontinentale), è letto come l’occasione per una diffusione di principi e valori base (core values) del modello sociale europeo stesso, che incoraggia la convergenza dei diversi paesi membri verso una comune strategia – di politica sociale, investimento produttivo, concertazione, giustizia sociale – capace di fronteggiare le nuove sfide. tenendo dunque ben presente che il modello sociale europeo non si presta ad essere ricompreso in un concetto unitario, data la sua natura quasi alchemica di insieme di obbiettivi, politiche, valori variamente perseguiti e conquistati dai diversi paesi europei, è possibile seguire la proposta di Giddens (2006) ed elencare sinteticamente le componenti essenziali del modello in tre punti: a) la presenza di uno stato sviluppato e interventista, finanziato da livelli di tassazione relativamente elevati, unito a b) un robusto sistema di welfare teso ad erogare una protezione sociale efficace e consistente accessibile a tutti, e in particolare ai più bisognosi, e infine c) la limitazione, o il contenimento, della disuguaglianza economica e di altre forme di disuguaglianza sociale. il modello sociale europeo si fonda dunque sul riconoscimento della centralità e irrinunciabilità della con questo neologismo si intende il raggiungimento (o il perseguimento) di quel traguardo di autotutela sociale che riconosce il diritto alla scelta dell’attività lavorativa, ovvero la possibilità per il lavoratore di essere flessibile senza per questo subire la precarietà. 24 56 Salute e disuguaglianze in Europa giustizia sociale (o per lo meno di una sua continua ricerca) e si legittima ulteriormente nel ribadirne l’importanza al fine della piena affermazione di una economia efficiente25. nei momenti di congiuntura economica sfavorevole e/o di caduta del mercato, le politiche sociali agendo come una sorta di ‘vincolo benefico’ sono capaci di garantire, ben oltre le coperture offerte dalle assicurazioni private, importanti tutele contro i rischi sociali (dalla disoccupazione alle malattie e invalidità). esse contribuiscono ad incanalare il conflitto industriale e aiutano a mantenere alto il livello di fiducia tra governo e parti sociali, agevolandone il dialogo. per usare di nuovo le parole di Giddens: «alla base del mse c’è un insieme generale di valori: spartire rischi e opportunità fra la società nel suo complesso, coltivare la solidarietà e la coesione sociale, proteggere i membri più vulnerabili della società con interventi attivi, incoraggiare a risolvere i problemi con la concertazione invece che con lo scontro nell’industria e fornire un ricco quadro di diritti di cittadinanza sociali ed economici a tutta la popolazione» (2006, p. 4). il dibattito sulle possibili evoluzioni dei sistemi di welfare europei rimane quanto mai aperto e in questa sede, naturalmente, non è possibile offrirne una panoramica neppure parziale. È invece ipotizzabile chiudere su questo punto richiamando le posizioni principali che oggi si confrontano. per alcuni autori il modello sociale europeo si va sostanziando nel generale abbandono dei principi redistributivi e nella definizione dei confini di una nuova solidarietà competitiva. È in particolare Ferrera (2000) a prospettare uno scenario di convergenza secondo queste linee, favorito dall’azione di una sorta di governo sociale europeo; mentre streeck (2000), pur essendo anch’esso allineato su una lettura della trasformazione economica e sociale in direzione di una convergenza europea, la interpreta in chiave di graduale omogeneizzazione dei modelli nazionali di welfare state. altri autori, invece, privilegiano una prospettiva d’analisi diversa. secondo Hemerijck (2002) – forse il più rappresentativo di questa posizione – i sistemi di welfare state europei, pur sottoposti a pressioni simili, rispondono in modo differenziato, privilegiando chi la tutela della piena occupazione, chi dell’equa redistribuzione del reddito, chi il contenimento della pressione fiscale. per Hemerijck dunque il processo di convergenza in atto riguarderebbe principalmente gli obbiettivi di politica occupazionale e sociale, stimolati anche dalle direttive della stessa unione europea, e governabili a livello sovranazionale seguendo quel «metodo aperto di coordinamento» proposto in occasione del summit di lisbona: metodo che permetterebbe di definire le scelte strategiche 25 per dirla con Hemerijck: «contro l’assunto neoliberista circa l’esistenza di una solida relazione inversa tra efficienza economica e giustizia sociale, le élites politiche europee concordano che la politica sociale è un fattore essenziale per promuovere la regolazione economica, e che non esiste contraddizione tra competitività economica e coesione sociale» (2002, p. 192). Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 57 a livello nazionale, e allo stesso tempo di concordare gli obbiettivi a livello europeo, in nome di una lotta comune all’esclusione sociale ricompresa – proprio da lisbona in poi – nei principi guida della stessa costituzione dell’unione. ma date le reazioni dei diversi paesi europei, il risultato sarebbe forse più di articolazione che di omogeneità dei sistemi nazionali di welfare. 4. Limiti e confini dell’indagine le società-stato oggi aderenti all’unione europea hanno percorso la via della modernizzazione con tempi e modalità diverse che lasciano traccia nelle vistose asimmetrie e sfasature che rendono ancora incerto il processo di omogeneizzazione perseguito dell’unione. industrializzazione, liberalizzazione del mercato, urbanizzazione, affermazione e diffusione del Welfare state sono stati supportati e/o attuati attraverso politiche nazionali dai metodi e dagli obbiettivi estremamente diversificati. in altri termini, nonostante le dinamiche uniformanti del mercato e la spiccata propensione globalizzante (sufficiente secondo alcuni26 per condurre rapidamente gli stati coinvolti verso la mèta dell’integrazione), nonostante l’intensificarsi degli scambi economici e culturali, l’istituzione di un mercato comune, una sempre più fitta rete di comunicazioni resa possibile dalla diffusione capillare dei mass media, e un ben visibile trend di omologazione degli stili di vita – per citare solo alcuni tra i principali elementi concorrenti alla determinazione di quel fenomeno complesso e di lungo periodo che è il processo di integrazione europea – si è registrata non di rado una discontinuità e una disarmonia tra i progetti continentali e la loro effettiva attuazione a livello delle singole nazioni. Benché queste differenze, facilmente riscontrabili all’interno dell’europa su diversi fronti – politico, culturale e anche economico – rendano più difficile la rappresentazione dell’europa come entità unita (nederveen 1995), a partire dalla fine degli anni novanta la questione assume un posto sempre più centrale nelle discussioni costituzionali, attira l’attenzione mediatica, incomincia a diventare oggetto di attenzione politica e culturale e di interesse pubblico nella vita degli stessi cittadini. Vari autori, ad esempio Kaelble (1987) e Bailey (1992), pongono la questione dell’europa quale società reale, o meglio quale realtà sociale in divenire, stimolando così anche nell’ambito delle discipline sociologiche, fino ad allora relativamente assenti dal dibattito, l’avvio di una articolata discussione sulla dimensione socio-culturale dell’integrazione europea. si fa qui riferimento all’ipotesi di sviluppo originato dalla sfera economica e progressivamente esteso all’attività di governo grazie alla creazione di interessi comuni, ipotesi tipica della corrente funzionalista. per una chiara sintesi delle tre principali anime dell’europeismo – federalismo, funzionalismo, confederalismo – si rimanda alle pagine 57-60 di Bettin (1995). 26 58 Salute e disuguaglianze in Europa pur con un ritardo di circa quaranta anni, anche la sociologia inizia dunque ad occuparsi delle questioni legate a cittadinanza, democratizzazione, movimenti sociali, processi di esclusione, tutte legate a doppio filo al complesso processo di integrazione comunitaria. inoltre, altro stimolo forte alla crescita delle ricerche sociologiche, così come notato da rumford (2002), è l’affermarsi del paradigma teorico-metodologico del costruttivismo sociale che «si è imposto negli studi europei nello stesso momento in cui è apparso evidente considerare lo spazio europeo come spazio sociale in costruzione» (scartezzini, Bee 2007, pp. 1-2). infine anche il processo di globalizzazione, nelle sue declinazioni di internazionalizzazione dei flussi, di intensificazione delle reti globali, e dello sviluppo di legami e contatti sovranazionali, ha comportato una crescita dell’attenzione della sociologia verso la società europea quale attore indiscutibilmente coinvolto in esso. le tendenze di ricerca prevalenti – seguendo il suggerimento di ripartizione proposto dagli autori appena citati – possono essere distinte in due correnti principali: la prima «fa capo agli studi di carattere comparato che prendono in considerazione dati provenienti da diversi contesti nazionali» (scartezzini, Bee 2007, p. 1). la metodologia adottata è quella del confronto tra diverse istituzioni e strutture sociali proprie dei paesi presi in analisi, l’obbiettivo è quello di dedurre possibili «convergenze e divergenze» correlandole alla «crescente omogeneità – o disomogeneità – dei dati su base nazionale» (recchi 2005, p. 1). ne è un esempio tra i più noti il lavoro di colin crouch (1999), Social Change in Western Europe, sul quale si avrà modo di tornare tra breve. la seconda tendenza fa invece riferimento «a quell’insieme di studi che isolano tratti ritenuti caratterizzanti delle società europee» (scartezzini, Bee 2007, p. 1), ovvero individua un ristretto numero di attributi generali e astratti capaci di giocare un ruolo influente nelle dinamiche di unificazione o di rottura della società europea, che viene studiata principalmente attraverso l’analisi delle sue grandi strutture e istituzioni. istituzioni e strutture che mendras – autore tra i più autorevoli ad avere sviluppato questo approccio – individua in religione e sistema di valori, gerarchie e categorie sociali, famiglia e parentela, stato e capitalismo; e che utilizza per costruire «un modello di civiltà» capace di rendere in sintesi i tratti peculiari e imprescindibili dell’occidente europeo27. non sono pochi però gli autori che ricordano come in ambito europeo ancora oggi tanto le analisi dei processi di costruzione sociale quanto le teorie sulla società europea presentino ancora varie debolezze28. eppure, sul punto si veda, in particolare, il fondamentale libro di mendras (1997), L’Europe des européens. 28 Qui il riferimento è a trenz (2008), che in un suo recente saggio ricorda come la società europea non sia relegabile a semplice oggetto di un pensiero utopistico, ma costituisca ormai 27 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 59 aldilà degli approcci afferenti a diverse metodologie e scuole di pensiero, l’avvento della moneta unica, gli sviluppi in direzione di una integrazione sempre più intensa, il riferimento – come si è avuto modo di vedere ormai frequente nel dibattito politico ed economico – ad un modello sociale europeo possono oggi essere considerate ragioni sufficienti per giustificare lo sviluppo di una riflessione sull’europa come entità sociale, se ancora non si vuole parlare di una vera e propria sociologia dell’europa. per ragioni che verranno chiarite tra breve, si è deciso comunque – in questo lavoro di ricerca – di seguire le indicazioni presenti nei testi di crouch e mendras, e di limitare il campo di analisi all’area occidentale dell’europa29. come si vedrà subito dopo, giustificano questa scelta la considerazione di come si è sviluppata storicamente la società europea, ma anche di come si è affermato il modello sociale europeo, a partire dalle dinamiche sociopolitiche dei singoli paesi. la società europea può essere descritta come un «consenso percorso da linee di rottura» (crouch 1999, p. 540), consenso lentamente e faticosamente costruito bilanciando e riequilibrando tra loro quattro elementi potenzialmente confliggenti: industrialismo, capitalismo, istituzioni e cittadinanza. l’idea generale di un equilibrio tra queste caratteristiche costituisce il «modello del compromesso sociale di metà secolo», modello di riferimento che – una volta adottato – porta inevitabilmente a restringere il nostro sguardo all’area occidentale dell’europa. infatti i paesi dell’europa centro orientale hanno sì condiviso le vicende storiche comuni anche alla regione occidentale per buona parte dello scorso millennio, eppure non è possibile non tenere conto della rilevanza dell’intervallo intercorso tra la fine della seconda Guerra mondiale e la fine degli anni ottanta, quando, subendo l’influenza della russia sovietica, i paesi dell’est si differenziarono dal resto dell’europa proprio riguardo a struttura economica ed istituzionale, diritti, e intervento sociale. se dunque si vanno ad osservare singolarmente le principali dinamiche di mutamento che hanno caratterizzato il sub-continente occidentale risulta ancor più chiaramente quali e quante un vero e proprio fatto sociale in senso durkheimiano, con processi interni di integrazione e di scambi tra attori (istituzionali e non), capaci di promuovere norme e aspettative che legano questi attori tra loro in dinamiche insieme «indipendenti da» e «vincolanti per» le reazioni e le preferenze individuali. 29 una valutazione concorde su questo punto ci viene anche da un recente lavoro di Gianfranco Bettin lattes: «l’europa contemporanea è un terreno ideale per l’applicazione del metodo comparato in quanto, pur essendo costruito su una rete di differenze storicamente assai profonde, è oggi uno spazio transnazionale socialmente e politicamente denso di interconnessioni. il progressivo allargamento dell’unione europea complica il quadro delle potenziali comparazioni. l’europa, in altri termini, si presenta come un caso di macro-contesto societario che tende all’unità e all’interazione, ma che è attraversato da corpose e persistenti diversità. […] la problematica delle comparazioni all’interno del quadro europeo impone dunque scelte dei livelli di analisi e dei rapporti che si possono poi sviluppare tra stati, nazioni, regioni, culture» (2009, p.311). 60 Salute e disuguaglianze in Europa siano le difficoltà nel guardare anche verso oriente, e perché sia per noi condivisibile la scelta di crouch, così come quella di mendras, di non avere come riferimento l’europa nel suo complesso30. a sostegno della sua (e in questa sede condivisa) ipotesi, crouch propone una convincente lettura dei mutamenti dell’area europea occidentale dal primo dopoguerra ad oggi nei termini di un «processo di convergenza» sintetizzabile nei seguenti quattro punti: 1. quasi tutte le società dell’europa occidentale «avevano già assunto i tratti dell’industrializzazione oppure cominciavano a farlo, sostituendo l’industria all’agricoltura nella loro struttura occupazionale e nella produzione economica» (crouch 1999, p. 22); 2. ogni società dell’europa occidentale «era caratterizzata da un’organizzazione della proprietà sostanzialmente capitalistica» (ibid.); 3. «sulla scorta della sconfitta del fascismo e del rifiuto del comunismo, la maggior parte di queste società possedeva una struttura istituzionale liberale dal punto di vista sociologico, in rapporto alle tradizionali istituzioni comunitarie» (ibid.); 4. gradualmente si è diffuso il principio secondo il quale in queste società ogni individuo adulto poteva godere di diritti certi di appartenenza, e quindi di cittadinanza. È al risultato sia pure incerto e precario di questo processo di convergenza – la società europea nei suoi limiti geografici e sociali – che si farà riferimento nell’analisi sviluppata nei seguenti capitoli, pur con tutte le cautele metodologiche che si impongono per la persistenza delle diversità nazionali. 5. Prospettive di comparazione ma come si articola storicamente questa ancor poco definita unità sociale che si è arrivati ad individuare nell’europa occidentale? pur essendo evidente come non sia plausibile parlare di un modello sociale unico in europa, è però possibile identificare alcune fondamentali tappe di sviluppo comuni a tutti i sistemi di stato sociale dei diversi paesi europei, ma con delle articolazioni interne riconducibili a differenti tipi o modelli di welfare, che, come suggerisce opportunamente Vicarelli, hanno risentito del ruolo storico giocato nella loro genesi e nella loro configurazione sia da fattori strettamente economici che da non meno importanti fattori extraeconomici31. i più recenti sviluppi del processo di integrazione avrebbero poi ulteriormente complicato il quadro. con l’ultimo allargamento del 1º gennaio 2007, infatti, l’unione europea è giunta ad includere 27 stati membri: italia, Belgio, lussemburgo, paesi Bassi, Germania, Francia (stati fondatori); danimarca, irlanda, regno unito (1973); Grecia (1981); spagna, portogallo (1986); austria, Finlandia e svezia (1995); cipro, estonia, lettonia, lituania, malta, polonia, repubblica ceca, ungheria, slovacca, slovenia (2004); Bulgaria, romania (2007). 31 afferma Vicarelli: «in termini generali, due approcci caratterizzano le spiegazioni del welfare state. il primo sottolinea l’impatto della crescita economica e i fenomeni demografici e 30 Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 61 come è noto, la fase originaria di sviluppo dello stato sociale è orientativamente collocabile tra il 1880 e il 1920 (alber 1983), e vede il decollo istituzionale e l’introduzione dei primi schemi di assicurazione obbligatoria per i lavoratori. Gli anni che vanno tra la fine della prima e la fine della seconda guerra mondiale, sono quelli in cui si arriva ad una vera e propria ridefinizione programmatica ed anche ideologica delle forme dell’intervento statale nelle questioni economiche e sociali. l’impostazione bismarckiana, tipica delle fasi di avvio delle tipologie nazionali di stato sociale, comincia ad essere considerata specialmente nel regno unito, ovvero nel paese che più di ogni altro ridisegnerà le linee del moderno welfare state, troppo particolaristica e frammentaria, quindi superata e inadatta a fronteggiare le nuove problematiche che negli anni tra le due guerre si erano andate delineando32. prima il prevalere di una dottrina della sicurezza sociale33 importata nel continente europeo dagli stati uniti, poi l’esigenza di organizzare e gestire il fronte interno durante gli anni di conflitto, portano all’affermazione di una concezione universalistica dell’intervento sociale34. in contrapposizione al warfare – il perenne stato di guerra sul quale il nazismo aveva edificato il proprio stato – William temple, futuro arcivescovo di canterbury, conia l’espressione stato del benessere, o welfare state, tanto fortunata da essere subito utilizzata per indicare l’insieme dei primi provvedimenti sociali adottati negli ultimi anni di belligeranza e da diventare poi espressione di uso comune. alla fine della guerra, nel 1945, seguì il Trentennio glorioso, come lo definisce Fourastié (1979). in questa fase importanti elementi dello stato sociale prendono campo in vari paesi europei grazie anche alla concomitanza di altri processi di trasformazione riguardanti sia la sfera economica che quella politica e sociale. oltre ad alcuni importanti accordi internazionali – in particolare quelli di Bretton Woods e il piano marshall – che vanno burocratico-amministrativi ad essa connessi, il secondo sposta l’attenzione su fattori di natura non economica, connessi ai conflitti e ai bisogni di legittimazione delle nuove democrazie di massa. […] i due approcci, funzionalista e conflittualista, non sembrano escludersi a vicenda e possono invece integrarsi» (1997, p.23 e p. 25). 32 come già accennato, hanno avuto però il loro peso anche ragioni di tipo ideologico: il rifiuto del modello bismarckiano secondo gli storici sarebbe infatti da ricondurre anche ai meccanismi di identificazione che legavano il sistema occupazionale di matrice bismarckiana ai regimi totalitari di Germania e italia (conti e silei 2005). 33 l’espressione sicurezza sociale fu utilizzata per la prima volta dal presidente degli stati uniti theodore d. roosvelt con riferimento alla Grande crisi del 1929-1933 per indicare quei provvedimenti di legge adottati al fine di assicurare a tutti i ceti sociali, compresi i più deboli, una assistenza dignitosa e a liberarli dal bisogno. 34 l’intervento statale di tipo universalistico, più precisamente, può attuarsi seguendo una delle due distinte tipologie principali. nel caso dell’universalismo di tipo puro l’erogazione di servizi si rifà ad un sistema di assicurazioni nazionali «senza prova dei mezzi», cioè senza l’obbligo di comprovare l’effettivo stato di bisogno. nel caso dell’universalismo di tipo misto, invece, quale requisito preliminare per l’ottenimento di sussidi e/o servizi, è prevista la «prova dei mezzi» tesa a verificare il bisogno effettivo individuale rispetto all’autosufficienza personale, alle risorse economiche, o all’abitazione, per fare alcuni esempi(conti, silei 2005) 62 Salute e disuguaglianze in Europa a garantire maggiore stabilità di cambio tra valute e una nuova liquidità, la diffusione del sistema di produzione industriale fordista, l’avvento dei consumi di massa, l’introduzione di elementi di concertazione nelle relazioni industriali, un ruolo nuovo e attivo per i governi chiamati a promuovere e garantire il confronto fra le diverse strutture di rappresentanza, costituiscono tutti elementi capaci di contribuire ad una rapida espansione in europa dello stato sociale: dall’ampliamento delle coperture assicurative al miglioramento delle prestazioni sanitarie e assistenziali, fino al riconoscimento di «secondi pilastri» (come le pensioni) da affiancare ai tre già riconosciuti: assistenza, assicurazione e sicurezza sociale. È negli anni settanta, comunque, che si raggiunge «il culmine della parabola di crescita dello stato sociale come istituzione del mondo reale» (Ferrera 2007, p.344). ma già a partire dal 1975 si apre una fase di crisi tuttora non completamente risolta. nei singoli paesi – con modalità e intensità non uniformi – vengono meno alcune ‘premesse’ interne dei sistemi di welfare, riconducibili ai grandi processi di trasformazione, materiale e immateriale, che investono, sia pure in modo non omogeneo, tutti i paesi europei. dopo una fase di rapida crescita, anzi di vero e proprio boom economico, che aveva prodotto una sostanziosa crescita delle entrate fiscali da redistribuire sotto forma di prestazioni sociali, le economie industriali – fino agli anni settanta imperniate sul paradigma fordista – entrano in una fase di crisi, superata nei casi più positivi al prezzo di alti costi economici e sociali, e di spesso dolorose riconversioni produttive. sul piano demografico, l’allungamento della vita media e il simultaneo calo delle nascite trasformano radicalmente la composizione interna delle fasce di età, fino ad allora relativamente equilibrata. ciò che ne risulta è che le aspettative sempre più alte e le richieste sempre più articolate e diversificate da parte dei ‘beneficiari’ si rivelano sempre meno congrue rispetto ai profili attuariali delle diverse categorie professionali. si produce così una crescente instabilità parzialmente affrontata con le riforme degli anni novanta, ma che ancora oggi è al centro dei principali progetti di ricalibratura dei sistemi di welfare state, tanto singolarmente da parte dei singoli stati quanto collettivamente come unione europea. i processi ora rapidamente delineati hanno, come è ovvio, interessato pressoché tutti i paesi europei. i loro sistemi di welfare presentano oggi una commistione di elementi che rende meno nette le differenze nazionali, attenuando progressivamente il peso e l’influenza dei diversi percorsi storici che li hanno contrassegnati. purtuttavia, come argomenta Ferrera (1993, p.68), è ancora possibile, ed empiricamente utile, individuare delle tipologie di sistemi di welfare alle quali ricondurre con buona approssimazione le situazioni reali dei diversi paesi europei. e lo stesso Ferrera lo fa adottando uno schema esplicativo multicausale – anche se, come nota Vicarelli (1997), la dimensione di analisi privilegiata si rivela essere anche in questo caso quella politico-processuale – teso a operare una classificazio- Welfare e salute in Europa: uno sguardo d’insieme 63 ne basata sul tipo di copertura assistenziale, lungo un continuum che va da una inclusione universalistica ad una inclusione regolata da caratteristiche puramente occupazionali. lo schema proposto si articola in quattro casistiche principali: welfare universalistici, welfare universalistici misti, welfare occupazionali misti, welfare occupazionali. pur tenendo conto di questo contributo, si è qui preferito seguire la proposta di esping-andersen, che indubbiamente presenta qualche elemento di debolezza – di cui si fa cenno in nota – ma che ha il merito di tenere conto di molti degli elementi storici, ideologici ed economici che sono stati richiamati in questo capitolo35. secondo esping-andersen in europa sono individuabili tre principali tipologie di «capitalismo sociale»: socialdemocratico, liberale e conservatorecorporativo36. il modello socialdemocratico, o nordico – che si ritrova applicato principalmente nei paesi della regione scandinava – si basa su alti livelli di tassazione ed è caratterizzato dalla predominanza di prestazioni universalistiche con alti standard performativi. lo stato, ispirandosi al principio di universalità, mira a rendere marginali le prestazioni del mercato nel soddisfare le richieste dei cittadini. il modello liberale o anglosassone, costruito a partire dalle proposte presentate nel Beveridge Report37, si caratterizza per basi imponibili piuttosto contenute (soprattutto in origine, e se paragonate agli altri sistemi); prefigura uno stato sociale di tipo residuale con predominanza di interventi assistenziali condizionati da una verifica della disponibilità economica (quella che in gergo viene definita means-test, o prova 35 nella sua opera più importante sull’argomento (The Three Worlds of Welfare Capitalism, 1990) esping-andersen contribuisce originalmente al dibattito sui sistemi di welfare state su almeno tre punti: 1. suggerisce di guardare al ‘regime’ di welfare nel suo complesso andando oltre le sole politiche statali, ovvero tenendo conto dell’interazione tra stato, mercato del lavoro e famiglia; 2. mette a confronto i diversi regimi di welfare individuandone le radici storiche e ripercorrendone le tappe essenziali dello sviluppo; 3. suggerisce, infine, di approfondire l’analisi guardando agli esiti delle politiche sociali anche in termini di ciò che essi producono sul piano della stratificazione sociale. Questa proposta, nonostante i suoi numerosi punti di forza, presenta anche alcuni aspetti più controversi. l’area femminista rimprovera all’autore di non avere tenuto sufficientemente conto del peso dell’attore femminile sia sul mercato del lavoro che nelle attività di cura (langan e ostner 1991). massimo paci solleva alcune perplessità relativamente all’importanza che il modello accorda alle classi dominanti, dunque al suo essere troppo sbilanciato sul piano dei rapporti di potere. lo stesso maurizio Ferrera prende le distanze da una chiave interpretativa «classista-laburista» fondata sul concetto di de-mercificazione (la misura in cui, cioè, i regimi di welfare state riescono a sottrarre il cittadino/lavoratore dalla dipendenza del mercato), a sua volta basato su un giudizio sfavorevole nei confronti del mercato e pertanto «carico di valore». 36 a parere di Hemerijck (2002, p. 196) questi tre diversi tipi si ispirano ciascuno a specifiche categorie di valori espresse dalle particolari storie nazionali o di area europea: l’eguaglianza per il modello socialdemocratico, la giustizia sociale per il modello liberale, la solidarietà per il modello corporativo. 37 il riferimento è al noto rapporto su assicurazioni sociali e servizi curato da una comitato interministeriale coordinato dall’economista inglese William Beveridge. lo studio, con le relative analisi e proposte, fu presentato al consiglio dei ministri britannico dopo due anni di lavori, e pubblicato in veste di White Paper nel 1942; ma solo nel 1945 con la vittoria del labour party si può parlare di una sua effettiva attuazione. 64 Salute e disuguaglianze in Europa dei mezzi)38, trasferimenti monetari e schemi assicurativi modesti, regole restrittive di accesso alle provvidenze e politiche di intervento mirate. a ciò si aggiunge una pratica (sia passiva con la minima interferenza da parte dello stato, sia attiva sotto forma di incentivi per gli interventi privati) di incoraggiamento al ricorso a strutture non statali. Questo modello è diffuso in irlanda e nel regno unito. il modello corporativo o conservatore, di diretta ispirazione bismarkiana, si basa prevalentemente sui contributi provenienti dai redditi da lavoro. Questo sistema vede una predominanza di schemi assicurativi pubblici direttamente collegati alla posizione occupazionale, e tende quindi a proteggere la tradizionale categoria dei male bread winners, e a porre particolare enfasi sulla sussidiarietà degli interventi pubblici rispetto alla famiglia e alla società civile (in particolare la chiesa, o le chiese). Questo modello è diffuso, pur con non trascurabili differenze, in Germania, Francia, italia39. pur con tutti i limiti imputabili ad una ricostruzione necessariamente rapida delle principali analogie e differenze fra paesi europei, sembra che l’analisi condotta, tanto sul piano sociologico quanto sul piano storico e politologico, possa offrire alcune indicazioni valide per procedere alla scelta di specifiche realtà nazionali da osservare in modo più approfondito. come si vedrà nel prossimo capitolo, regno unito, svezia e italia rappresentano una buona esemplificazione di tre differenti percorsi e di tre diverse modalità attraverso le quali nell’europa occidentale sono state affrontate e ancora continuano ad essere fronteggiate le problematiche della disuguaglianza sociale in relazione allo stato di salute40. si rimanda alla nota 34. a questi tre tipi che, come già si è detto, sono stati originariamente individuati da espingandersen, si potrebbe aggiungere un quarto modello,il modello mediterraneo, identificato e descritto per la prima volta nel 1998 da maurizio Ferrera. presente in portogallo, spagna e Grecia, si sovrappone per alcuni aspetti al modello corporativo, come il carattere dualistico della protezione sociale (anche qui su garanzia del reddito) e la conseguente compresenza di categorie iperprotette e di altre a bassa o nulla copertura. presenta però anche alcuni tratti peculiari: famiglia come vero e proprio ammortizzatore economico, clientelismo, effetti di stratificazione sociale, rinforzati quando non prodotti dalla stessa disparità di trattamento. 40 anche nello studio di Burström, Whitehead, costa et alii (2007) si sceglie di prendere in esame italia, regno unito e svezia in quanto casi rappresentativi di tre tipi di welfare regime: l’italia come esempio di regime di stato sociale di ispirazione corporativista, la svezia di ispirazione socialdemocratica, il regno unito di ispirazione liberale. 38 39 Capitolo 3 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia l’obbiettivo di questo terzo capitolo è quello di fornire un quadro per quanto possibile esaustivo delle condizioni di salute registrabili nei tre paesi individuati come casi di approfondimento, a supporto di una analisi comparata delle relazioni tra disuguaglianza sociale e salute. poiché le diverse soluzioni proposte dai sistemi di welfare e portate avanti dalle politiche sociali sono, come già si è avuto modo di vedere, elementi capaci di incidere in modo rilevante nelle dinamiche di disuguaglianza sociale, ma anche sullo stato di salute, e nelle stesse interrelazioni tra le due dimensioni, il primo paragrafo di questo capitolo è dedicato ad una breve analisi storico-sociologica volta proprio a ricostruire come nelle tre realtà nazionali le diverse declinazioni di stato sociale si siano venute affermando e quali caratteristiche abbiano via via assunto. la loro importanza è per altro già apparsa chiara nei capitoli precedenti: delineare il profilo sociale di un paese vuole dire guardare alla particolare combinazione e interazione tra strutture sociali, politiche economiche e sociali, cultura e tradizioni locali1; ed essere consapevoli che la complessità del fenomeno della disuguaglianza sociale implica la necessità di tenere conto – per quanto possibile – di più dimensioni, e l’importanza di indagare su più fronti. di questa multidimensionalità tiene conto l’interessante modello elaborato da Giarelli. sviluppando la sua ipotesi da una prospettiva propriamente sociologica, l’autore individua quattro principali connessioni relative al 1 Questo reciproco influenzarsi delle diverse sfere della società è messa bene in evidenza in una analisi di massimo paci sul peso delle dinamiche pubbliche e private nei diversi sistemi di welfare: «l’intervento dello stato in campo sociale può essere sostenuto da riserve di altruismo presenti nella società (ed opportunamente mobilitate) come anche da sentimenti di identità e di appartenenza, alimentati da movimenti collettivi e da grandi aggregazioni sociali omogenee. le politiche sociali possibili allora […] non sono sempre ed esattamente quelle volute dalle classi dirigenti» (paci 1989, p.130). Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 66 Salute e disuguaglianze in Europa sistema di salute: una connessione ecologica che mette in luce la relazione tra sistema sanitario e risorse disponibili e utilizzabili in funzione dell’healthcare; una connessione strutturale relativa ai rapporti tra sistema sanitario e sistema sociale in particolare nei suoi ambiti politici, culturali ed economici; una connessione fenomenologica che ricomprende i momenti di interazione diretta tra sistema sanitario e soggetto nel suo percorso di salute/malattia; e infine una connessione bio-psichica relativa agli effetti agiti dal sistema sanitario sulla salute fisica e psichica dei soggetti (2006, p. 27). il sistema di salute pertanto, seguendo un approccio «connessionista multidimensionale», trascenderebbe «il sistema sanitario inteso in senso tradizionale» riconnettendolo a «quelle dimensioni sociali, culturali, ecologiche che anche gli epidemiologi hanno considerato come rilevanti quali determinanti della salute […]: l’ambiente fisico, l’ambiente sociale (istruzione, reddito, occupazione, ecc.), gli stili di vita (alimentazione, movimento, abitudini quotidiane, ecc.) e i tratti personali (età, sesso, patrimonio genetico, ecc)» (2006, p. 27). come già chiaramente emerge dalla proposta di Giarelli, e come è poi ben illustrato da recenti approfondimenti (tra tutti delhey e Kohler 2006), anche in tema di salute il principale riferimento per gli individui rimane il proprio contesto locale e nazionale2. non si può infatti dimenticare come sia proprio a partire da queste ancora forti appartenenze che i singoli compiono confronti e paragoni con le realtà circostanti, spesso arrivando a modificare in positivo o in negativo la percezione del proprio stato di salute e la stessa valutazione della propria posizione sociale. ai punti appena toccati si rifà la seguente semplice rappresentazione grafica che riassume di quali interazioni si cercherà di dare conto nei prossimi capitoli: Stato di salute e sue variazioni fra la popolazione Percorsi di salute lungo il corso di vita Ambiente culturale Politiche e interventi a livello sociale e/o individuale 2 in un interessante articolo sui contesti di riferimento nello studio delle disuguaglianze sociali, i due autori arrivano alla conclusione di come «non sia il caso di abbandonare del tutto approcci nazionali. la posizione relativa degli individui all’interno della società nella quale vivono continua infatti ad influenzarne la percezione delle rispettive condizioni, ed è difficile immaginare che questo riferimento nazionale vada a scomparire completamente» (delhey e Kohler 2006, p. 137, traduzione mia). Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 67 per ciascuno dei tre paesi dopo averne rapidamente ripercorso l’evoluzione del sistema di welfare con particolare attenzione per gli aspetti sanitari3, ci si domanderà se e quanto siano mutate le politiche sociali, in particolare quelle volte a fronteggiare gli effetti delle disuguaglianze sociali sullo stato di salute. l’attenzione specifica alle politiche sanitarie, oltre che per la loro capacità di incidere sulla relazione tra cittadini e istituzioni, è motivata dall’idea che i sistemi sanitari siano un buon indicatore di come la società vede se stessa. creare una istituzione dotata del potere di accogliere o rifiutare gli individui nei loro momenti di estrema vulnerabilità, ovvero istituire servizi sanitari autorizzati ad accettare o escludere alcune categorie di persone, significa legittimare una minore o maggiore esclusione sociale. le politiche sanitarie, dunque, dispongono di un duplice potere o, in altre parole, possono avere ruoli antitetici: da un lato quello di alimentare e rafforzare le disuguaglianze all’interno di una società, dall’altro lato di costituire il principale strumento capace di promuovere l’equità (intesa come uguale trattamento per uguale bisogno), assicurando benefici proporzionalmente maggiori agli individui più bisognosi. a ribadire il ruolo strategico delle politiche sanitarie ci ha pensato poi recentemente l’unione europea che, pur in una fase (cominciata negli anni ‘90) caratterizzata sia da problemi di lungo periodo legati ai trend demografici negativi del continente4 sia dai problemi congiunturale di una forte recessione economica e di un aumento della disoccupazione, ha imposto come prioritario un programma di salute pubblica comune a tutti i paesi membri, e ha incentivato lo studio delle dinamiche di disuguaglianza sociale e delle loro ripercussioni sullo stato di salute. nelle pagine che seguono si ricostruiranno dunque in breve le fasi salienti del processo di affermazione e sviluppo del sistema di welfare in svezia, regno unito e italia, cui seguirà la comparazione di alcune caratteristiche demografiche e sociali. particolare attenzione verrà prestata ai dati relativi all’aspettativa di vita, alla mortalità e alla morbilità, ai principali stati di vulnerabilità, all’esposizione a specifici fattori di rischio: l’obbiettivo sarà quello di ricostruire un quadro il più possibile preciso dello stato di salute di ciascuno dei tre paesi, arrivando a disporre di una base di dati e di conoscenze utili per operare più agevolmente il confronto fra i tre paesi sotto il profilo che sta al centro di questa ricerca. 3 Quanto i sistemi sanitari siano in grado di incidere sulla salute rimane ancora oggi una questione aperta e tema di accesi dibattiti, come peraltro si è già avuto modo di ricordare nei precedenti capitoli. difficile, però, obbiettare alla semplice considerazione espressa da Geyer in un recente articolo: «la struttura del sistema sanitario non può impedire l’esposizione a condizioni di vita patogene, ma, una volta che è stata contratta una malattia di tipo cronico, le differenze nella qualità dell’assistenza possono determinare la possibilità di sopravvivenza» (2006, p. 15). 4 trend caratterizzati, come precedentemente già illustrato, da bassissima natalità e allungamento dell’aspettativa di vita, quindi da invecchiamento della popolazione. 68 Salute e disuguaglianze in Europa 1. Vie diverse al Welfare State: un profilo storico La Svezia. l’interesse per i temi della salute e delle disuguaglianze sociali ad essa interrelate ha attraversato in questo paese momenti molto diversi nel corso del XX secolo, pur rimanendo costantemente saldo il valore della salute quale diritto fondamentale e da garantire universalmente. Fin dai primi anni trenta i governi svedesi espressi dalla maggioranza socialdemocratica hanno la possibilità di dare l’avvio a politiche anticicliche di ispirazione keynesiana finalizzate al raggiungimento del pieno impiego, e possono inoltre puntare a rinforzare la pratica del dialogo tra le parti sociali al fine di contenere il livello di conflittualità e per tutelare i ceti più deboli. il sistema delle relazioni industriali viene disciplinato da accordi di base riconosciuti a saltjöbaden nel 1938, e imperniati sui principi della politica di concertazione fra sindacato e datori di lavoro. precedentemente, nel 1937, era stato riformato l’intero schema previdenziale, vecchio ormai di 25 anni, ed era stata istituita una apposita commissione per l’assistenza sociale con il compito di monitorare, studiare e proporre riforme in questo ambito. durante gli anni del secondo conflitto mondiale la svezia, sfruttando anche la sua posizione neutrale, riesce a portare avanti senza grosse battute d’arresto il suo progetto di sviluppo delle politiche sociali. la così detta «legislazione di emergenza» emanata da un governo di larghe intese salito al potere alla fine del 1939 per gestire al meglio le emergenze legate alla vicenda bellica, mantiene invariati i propositi di riforma e conferma le misure già adottate. con la fine della guerra e le nuove elezioni ancora favorevoli per la coalizione socialdemocratica, la svezia può proseguire nel suo percorso di riforme. «sulla base di un programma elettorale dai contenuti molto avanzati, in larga parte redatto dall’economista Gunnar myrdal, il governo socialdemocratico svedese (destinato a rimanere al potere dal 1946 al 1969) si propone di modificare la struttura socioeconomica del paese attraverso l’adozione di politiche di piano […], l’incremento dei salari reali e il pieno impiego» (conti, silei 2005, p. 113). le teorie degli economisti della scuola di stoccolma5 combinate con le istanze della Folkhenpolitik sostenuta dalla coalizione socialdemocratica alleata al partito dei contadini e da una certa influenza esercitata dalle riforme attuate da Beveridge nel regno unito, portano a quello che esping-andersen (1984) indica come la realizzazione concreta del «prototipo dell’idea di t. H. marshall di cittadinanza sociale»6, un vero e proprio «welfare state popolare» imperniato sui diritti di cittadinanza e non più sull’appartenenza a specifiche categorie produttive. il diffondersi dell’idea che le politiche sociali non dovessero più essere concepite come una beneficenza ma fossero invece un diritto di ogni cittadino (Yhland 2005) porta ad 5 6 oltre a myrdal, si ricordano ohlin, Heckscher, lindhal. il riferimento, naturalmente, è al saggio Citizenship and Social Class (1950). Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 69 un duplice, importante risultato: fa sì che nel 1946 venga abolita la «prova dei mezzi», cioè l’obbligo di comprovare l’effettivo stato di bisogno per l’ottenimento dei sussidi; e inoltre promuove importanti riforme riguardanti politiche familiari e abitative. la forte spinta riformatrice non riesce invece a toccare in modo altrettanto innovativo le politiche sanitarie: nonostante l’introduzione per legge di una assicurazione sanitaria obbligatoria a partire dal 1947, la sua effettiva applicazione si avrà soltanto nel decennio seguente, ed in ogni caso limitatamente alla sola assistenza ospedaliera. ad una prima fase di sensibilità e di forte impegno della classe politica, oltre che dell’opinione pubblica, nel combattere gli effetti principali delle disuguaglianze sociali, e in particolare la mortalità infantile7, segue negli anni cinquanta e sessanta – in un clima di benessere crescente e diffuso – una fase di ottimismo e la progressiva diminuzione di attenzione e sensibilità verso i temi della disuguaglianza. anche nel decennio successivo, nonostante il venir meno dell’illusione di una società realmente avviata verso l’egualitarismo e l’emergere di dati in controtendenza, l’atteggiamento prevalente resta quello di non volere riconsiderare criticamente né la realtà sociale né le politiche pubbliche. in europa la crescita apparentemente progressiva e inarrestabile che aveva contraddistinto i primi decenni postbellici, i così detti The Glorious Thirties, stava però andando incontro ad una prima, dura, battuta d’arresto. alla fine degli anni settanta si diffonde rapidamente la consapevolezza dell’inizio di una nuova congiuntura decisamente più incerta e destinata a mostrare le debolezze e i limiti dei sistemi di welfare vigenti, e a rimettere in discussione il modo stesso di concepire le politiche sociali. dall’epoca del welfare optimism si stava transitando verso un’epoca di welfare pessimism. nemmeno la svezia – fino ad allora considerata, insieme agli altri paesi scandinavi, la «mecca del welfare» – riesce a passare indenne attraverso questo periodo di crisi. dopo una prima fase di tagli alla spesa pubblica e altri provvedimenti volti alla stabilizzazione del bilancio (condivisi giocoforza anche dagli stessi partiti di area socialdemocratica, dopo le prime pesanti sconfitte elettorali subite nei primi anni settanta), a partire dai primi anni ottanta segue una seconda fase caratterizzata da una vera e propria svolta sul piano ideologico e pragmatico8. sotto la pressione delle propole malattie infantili che, andando a colpire con notevole maggiore incidenza i bambini delle classi meno abbienti, rivelavano emblematicamente l’ingiustizia della disuguaglianza sociale, furono riconosciute quale fenomeno intollerabile per un paese la cui politica si ispirava apertamente ai principi della giustizia sociale, e divennero ben presto obbiettivo primario nelle politiche di lotta alla deprivazione e alla disuguaglianza dei governi socialdemocratici. 8 in svezia, come altrove, i due settori delle politiche sociali oggetto degli interventi più radicali da parte dei governi in carica, anche su indicazioni della stessa comunità europea, sono stati quello della previdenza e quello della sanità. in particolare, anche se la svezia opta per il mantenimento di un sistema sanitario nazionale pubblico, vengono comunque adottate misure importanti per il contenimento dei costi e introdotti criteri di gestione più propriamente manageriali. commentano conti e silei: «naturalmente non si trattò di una virata di 180 gra7 70 Salute e disuguaglianze in Europa ste di ispirazione neoliberista thatcheriana e reaganiana, ispirate ai principi dell’individualismo, del ‘ritorno al mercato’, della competitività, anche i policymakers di area socialdemocratica sono costretti a riorganizzare profondamente la struttura della protezione sociale. la nuova impostazione punta alla creazione di un sistema di protezione sociale di tipo misto, definito welfare capitalism (ryan 2003), teso da una parte a difendere lo stato sociale da riforme che ne implicassero lo smantellamento di fatto, dall’altra aperto ad alcuni principi riformatori tipici del neoliberismo, quali ad esempio la razionalizzazione e l’economicità. in svezia, così come nel resto della penisola scandinava, ciò comporta una progressiva liberalizzazione dei servizi, accompagnata da un netto ridimensionamento dell’esteso settore pubblico, costretto a pagare il prezzo di un forte aumento della disoccupazione. oltre al sistema previdenziale, l’altro settore delle politiche sociali oggetto di azioni riformatrici è quello della sanità. dal momento che le spese per un sistema di servizi articolati ed estesi erano ingenti, l’effetto dei tagli risulta severo. tuttavia, nonostante questi provvedimenti, non si riesce a frenare la crescita dei costi del settore: la spesa sanitaria, improntata a criteri di universalità ed equità, è fortemente influenzata (ed incrementata) dalle richieste di una migliore qualità dei servizi da parte degli utenti, dall’aumento della domanda di assistenza conseguente al progressivo invecchiamento della popolazione, da tempi di degenza e bisogno di cura mediamente più lunghi, legati ad una maggiore possibilità di sopravvivenza in fasi di cronicizzazione delle patologie, e infine dai progressi della scienza medica, che richiedeva costanti investimenti nella ricerca e nell’aggiornamento di personale e attrezzature. per dare qualche cifra, tra il 1997 e il 2000, la svezia presenta un investimento nella sanità dell’8,3% del pil (equivalente a 2.283 dollari pro capite annui) fino a raggiungere, nel 2006, una spesa annuale pro capite per la salute di 3.124 dollari9. di, poiché l’impatto complessivo del sistema di protezione sociale rimase inalterato. tuttavia questo approccio, destinato ad accentuarsi solo nel corso degli anni novanta, mise in luce come ormai anche nella patria del welfare state si imponesse la ricerca di nuove strade nella gestione delle politiche sociali» (2005, p.184). 9 la seguente tabella compara, relativamente agli anni 1990, 2000, e 2006, le percentuali di prodotto interno lordo impiegati in spesa sanitaria sia per quanto riguarda il caso svedese, sia per quanto riguarda i casi di regno unito e italia, osservati più nel dettaglio nelle prossime pagine. percentuale del pil destinato alla spesa sanitaria paese/anno svezia regno unito italia 1990 8,2 6,0 7,7 2000 8,3 7,2 8,1 Fonte: oecd Health data (2008) 2006 9,2 8,4 9,1 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 71 a fronte delle misure di contenimento relativo della spesa, non si assiste però ad una inversione di tendenza nella lotta – almeno sotto questo profilo – alle disuguaglianze sociali. la loro riduzione diventa uno degli obbiettivi programmatici del parlamento svedese, ribadito dall’impegno di presentare un rapporto sullo stato di salute e le disuguaglianze sociali nel paese con cadenza triennale, e dalla creazione di un istituto nazionale di salute pubblica, incaricato soprattutto di garantire l’equità nella salute. dopo una battuta d’arresto nel 1995, riconducibile sia al sopraggiungere di una forte recessione economica sia alla vittoria del partito liberale-conservatore, e che vede ridimensionata la priorità del programma sulla salute, l’atteggiamento nei confronti delle disuguaglianze sociali si è andato sempre più chiaramente ispirando ai principi della giustizia sociale, come è documentato da molte rilevazioni sul problema. una recente stima della redistribuzione della ricchezza calcolata con il classico indice di Gini10, offre forse un riscontro tangibile nel lungo periodo degli effetti di politiche ispirate al principio dell’universalità. la svezia, infatti, presenta un livello di disuguaglianza piuttosto contenuto: nel periodo tra il 1987 e il 1997 solo il 7% della popolazione svedese viveva sotto il livello medio di reddito, dato più contenuto rispetto alla media europea assestata intorno al 9%. inoltre, nel 2001 la percentuale di disoccupati era del 4,9%, 2,3 punti percentuali al di sotto della media europea, per arrivare nel 2008 a 6,2%, comunque al di sotto della media europea (eurostat 2008). Regno Unito. anche questo paese presenta una lunga tradizione di attenzione per le disuguaglianze nella salute, che può essere fatta risalire ai primi report del Superintendent of Statistics William Farr, datati al 1839. se per tutto il XiX secolo responsabilità e cure medico-sanitarie erano sostanzialmente delegate alle famiglie e alle loro più o meno scarse risorse, dopo un periodo di transizione che vede l’organizzarsi e istituzionalizzarsi da un lato della medicina ‘scientifica’ e dall’altro lato delle associazioni mutualistiche (le Friendly Societies), con la conseguente riorganizzazione dell’offerta medica, all’inizio del XX secolo la classe politica non può più esimersi dall’intervenire. a seguito delle crescenti pressioni di una élite di moderpoiché – come è noto – anche nei paesi più ricchi e con migliori condizioni di vita come gli stati membri dell’unione europea, i vantaggi e i benefici non sono equamente distribuiti ed esistono sacche di povertà, di disagio, di vulnerabilità, per indicare sinteticamente il livello di disuguaglianza è possibile adottare l’indice di concentrazione di Gini quale efficace parametro di riferimento. l’indice di Gini fornisce, infatti, un metodo per quantificare la concentrazione di variabili quantitative trasferibili, in questo caso la concentrazione del reddito. in modo molto semplificato, è possibile ricomprendere i valori dell’indice di Gini tra 0 e 100: dove 0 rappresenta la perfetta redistribuzione e 100 la perfetta disuguaglianza. secondo le stime del WHo (2002) per quanto riguarda l’europa un basso livello di disuguaglianza si attesta nell’intervallo 23-25; alti livelli nell’intervallo 35-36. in virtù delle note interrelazioni intercorrenti tra redistribuzione della ricchezza e stato di salute, è di sicuro interesse tenere conto di questo elemento anche ai fini di questa analisi. 10 72 Salute e disuguaglianze in Europa nizzatori (che politicamente mira a contrastare l’ascesa del movimento operaio11), lo stato si fa carico dell’intero sistema sanitario e stringe una duratura alleanza, resa più salda da numerosi reciproci interessi, con la professione medica. il progetto di riforma dello stato sociale presentato da Beveridge nel 1942 – che si richiamava espressamente sia alle riforme varate dal governo neozelandese del laburista savage, sia alla legislazione sociale statunitense del 1935 e del 1939 promossa da Franklin delano roosevelt dopo la crisi del 1929 – si caratterizzava non tanto per l’originalità delle proposte avanzate, tese a creare un nuovo sistema di protezione sociale basato su prestazioni universalistiche, quanto per la «lucidità e organicità degli interventi che vi erano postulati, nel loro essere ambiziosi sul piano dei principi ispiratori e degli obbiettivi, ma anche programmaticamente applicabili al contesto britannico del momento. in pratica si teorizzava un deciso intervento dello stato per garantire a ciascun cittadino la pienezza dei suoi diritti sociali attraverso la creazione di un sistema che lo seguisse, come si sarebbe detto di lì a poco ‘dalla culla alla tomba’ (from the cradle to the grave), assicurandogli reddito (ossia lavoro), alimentazione, alloggio, istruzione, cure mediche» (conti, silei 2005, p.108). i primi provvedimenti costituenti la struttura portante del nuovo sistema di welfare britannico vengono approvati nel 1946. di poco preceduti dalla riforma degli assegni familiari, ricomprendevano le assicurazioni obbligatorie, le assicurazioni sociali, una legislazione per gli infortuni chiaramente ispirata a principi universalistici, l’approvazione di un Trust Union Act con lo scopo di consentire ai sindacati piena libertà di rappresentanza e azione, e infine la creazione di un sistema sanitario nazionale che ben presto conquista un ruolo centrale nell’ambito del sistema di protezione sociale, e altrettanto rapidamente – dati i costi ingenti – suscita accesi dibattiti circa il reperimento dei finanziamenti e il contenimento delle spese. il National Health Service Act, richiamandosi direttamente a quanto realizzato nel 1938 in nuova Zelanda, prevedeva l’istituzione di un sistema sanitario gestito direttamente dallo stato, finanziato attraverso il prelievo fiscale, strutturato su tre livelli così da poter estendere i suoi servizi indistintamente e gratuitamente a tutti i cittadini. alle prestazioni erogate ai cittadini dai medici di base dislocati su tutto il territorio (primo livello), si andava ad affiancare una rete di strutture ospedaliere, in grado di fornire cure specialistiche, poste sotto il controllo diretto del ministero della sanità mediante un sistema di Regional Hospital Boards (secondo livello). sempre al ministero facevano capo i Local Executive Councils, formati da medici e personale amministrativo, con compiti di programmazione e gestione dei servizi: dalle prestazioni farmaceutiche a quelle dentistiche e oculistiche. infine un 11 per un approfondimento su questi temi si rimanda a paci 1989, in particolare al capitolo Medicina privata e politica sanitaria, pp. 40-49. Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 73 ultimo e innovativo ordine (terzo livello) era costituito dai Local Authority Health and Welfare Services, una rete di strutture decentrate il cui compito era quello di organizzare e seguire tutti quei servizi specificamente legati alla prevenzione ma di ambito non esclusivamente sanitario: dalle campagne di vaccinazione, all’organizzazione del primo soccorso, dai servizi di trasporto dei malati all’assistenza delle donne nel periodo della gravidanza. nonostante la forte avversità del partito conservatore ed anche della potente organizzazione di rappresentanza dei medici, la British Medical Association, il nuovo sistema sanitario nazionale viene comunque istituito con successo. Gli anni sessanta segnano nel regno unito così come in tutta europa una fase di sviluppo e rafforzamento del sistema di protezione sociale. le istanze di universalizzazione finalizzate ad estendere a sempre più soggetti la copertura dei servizi e a migliorarne il livello, sulla spinta dei movimenti sindacali e collettivi del 1968, toccano il loro momento di massima espansione e consenso nei primi anni settanta. a questa fase segue – come è noto – un periodo di dura recessione economica, che in breve tempo conduce in tutto l’occidente industrializzato ad una vera e propria svolta dell’opinione pubblica e delle sensibilità politiche nei confronti del welfare state12. il regno unito non ne è risparmiato, anzi qui il cambio di rotta avviene forse in modo più drastico e con effetti più rilevanti che altrove. nel 1974 – dopo una fase di profonda crisi politica – il partito laburista appena riconfermato al governo si trova così a varare un provvedimento volto a ristrutturare il sistema sanitario nazionale puntando su una nuova e più efficace organizzazione, una diffusione sul territorio meglio ripartita, e una qualità del servizio più alta. «sul piano organizzativo si procedette alla parziale unificazione delle strutture operanti a livello regionale (Regional Health Authorities), di zona (Area Health Authorities) e di distretto (District Management Teams). al rischio di eccessiva centralizzazione si ovviò prevedendo forme di collaborazione delle strutture periferiche al sistema di programmazione sanitaria, ma anche istituendo gruppi di pressione locali raccolti in appositi organismi (Community Health Councils). completarono la riforma nuove disposizioni riguardanti i medici generici e il personale infermieristico» (conti, silei 2005, p. 174). solo quattro anni dopo questa ristrutturazione, tenendo conto di alcuni segnali negativi a livello di servizi e del parallelo incremento dei costi, viene costituita una apposita commissione incaricata di studiare il problema e individuare le eventuali contromisure da adottare. Questa come altre decisioni adottate dal governo laburista ne svelano la conversione a politiche di contenimento del debito pubblico, dunque l’avvicinamento alle proposte di ‘ritorno al mercato’ mutamento significativamente rintracciabile anche a livello semantico che porta a rinominare l’insieme delle politiche sociali ora come «stato sociale», ora – con una non troppo velata accezione negativa – come «stato assistenziale». 12 74 Salute e disuguaglianze in Europa già apertamente sostenute a partire dal 1976 dalla leader del partito conservatore margaret thatcher. unitamente ad un clima di permanenti difficoltà la nuova linea dei labour scatena una pesante ondata di scioperi e manifestazioni, culminate nel 1978 con il così detto «inverno del malcontento». la vittoria del partito conservatore nel 1979 segna l’inizio del welfare pessimism: la ricetta di politica economica di ispirazione manchesteriana13 promossa dal primo ministro thatcher si prefiggeva di risanare i conti dello stato e di rilanciare l’economia del paese lasciandosi guidare dai principi del neoliberismo, anche a costo di vedere sostituite alle pratiche della concertazione scontri netti con le parti sociali. oltre a radicali riforme nel settore dell’amministrazione pubblica (la cui autonomia e il cui potere decisionale vengono drasticamente ridimensionati a vantaggio di un accentramento di compiti e prerogative per i ministeri) e nel sistema pensionistico (dove si incentiva il ricorso a schemi previdenziali di tipo privato), anche il sistema sanitario viene profondamente riformato. inseguendo l’obbiettivo di conciliare la diminuzione della spesa pubblica con l’adozione di criteri di maggiore efficacia ed efficienza terapeutica, quindi incentivando il ricorso a forme assicurative individuali e a strutture di tipo privato, e puntando il dito contro i notevoli limiti gestionali, contro i servizi scarsamente qualificati e ingiustificatamente dispendiosi, e contro una eccessiva burocraticità e centralizzazione dell’intero impianto organizzativo, la destra radicale e conservatrice impone un riassetto del National Health Service (nHs) in senso manageriale. una ristrutturazione, o deregulation, che spinge marcatamente verso il ridimensionamento del ruolo del governo e degli amministratori locali, a vantaggio di modelli di gestione e organizzazione direttamente mutuati dal settore privato, e porta a considerare l’utente non più in qualità di patient, quanto piuttosto di consumer. Gli effetti della riforma neoliberista si manifestano ben presto da un lato con un effettivo successo sul piano del ridimensionamento dei costi, dall’altro lato con un rapido e sensibile decadimento dei servizi erogati dal sistema sanitario pubblico. come osservato da paci già nel 1989, mentre in svezia la socialdemocrazia al governo si dimostra capace di recepire all’interno di un quadro istituzionale pubblico le emergenti richieste di meritocrazia e di apertura al mercato senza tradire l’originaria ispirazione ugualitaria e universalistica, il regno unito è, invece, teatro della netta ripresa delle forze di mercato e dell’azione volontaria, chiaramente favorite dalla politica economica e sociale dei governi conservatori. l’eredità lasciata dai governi conservatori vede un National Health Service profondamente riorganizzato nella struttura e nei compiti, ed improntato a severi criteri di economicità di gestione il governo thatcher riproponeva la lettura tipica della tradizionale scuola manchesteriana, che a sua volta si ispirava ai testi di Hume, smith e say, accentuandone marcatamente il liberismo, e arrivando a sostenere che il ruolo dello stato nella politica economica dovesse essere completamente eliminato. 13 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 75 tanto da registrare una spesa sanitaria per l’anno 2000 di ‘soli’ 1833 dollari pro capite annui (pari a 7,2 punti percentuali del pil) che arriveranno a 2885 dollari nel 2006 (oecd Health data, 2008). se, a livello programmatico, a partire dal 1990 fino alla vittoria elettorale del 1997 le forze dell’area labour e riformista riacquistano gradualmente peso politico e capacità propositiva, inaugurando un nuovo ciclo di riforme divenuto noto come terza Via14; per quanto riguarda invece l’ambito sociale, la proposta principale è quella di passare dal welfare al well-being, ovvero dallo stato di ‘benessere’ più legato a disponibilità prettamente materiali, allo ‘star bene’: stato più articolato e giocato tanto su dimensioni materiali che su dimensioni psicologiche e di accesso a risorse non materiali. purtroppo, nonostante queste innovative proposte programmatiche e di nuove linee guida, la terza Via vede venire gradualmente meno consenso, entusiasmo, applicabilità del progetto originale, e finisce per convergere su posizioni di compromesso in fondo piuttosto vicine a quelle delle agende conservatrici. Gli effetti di venti anni di neoliberismo e di politiche del risanamento hanno contribuito al permanere anche nel paese più ricco fra i membri dell’unione europea di sacche di povertà e situazioni di disagio, e ad una redistribuzione del benessere piuttosto sperequata. ciò accade in particolare modo nelle aree urbane. ancora oggi lo spostamento di nuovi abitanti verso i centri urbani spesso implica un peggioramento delle loro condizioni abitative, del tipo di impiego lavorativo, delle abitudini alimentari, talvolta delle stesse condizioni economiche, con un sensibile aumento dei rischi per la salute; svantaggi che di fatto vanno a distribuirsi con maggiore frequenza tra le fasce più vulnerabili della popolazione, in particolare in base – solo per ricordare gli aspetti principali – al sesso, all’età, alla rete parentale e amicale in cui il soggetto è inserito. nel periodo tra il 1990 e il 2000 il 13% circa dei cittadini britannici risulta così vivere sotto il livello mediano di reddito. Valutando però questa situazione con l’aiuto dell’indice di Gini, emerge come il regno unito presenti una distribuzione del reddito piuttosto diseguale, superiore al parametro medio europeo: l’Office for National Statistics ha infatti rilevato come la diseguaglianza nella distribuzione del disposable income sia aumentata da 28,5 nel 1981 a 33,6 nel 2005/200615; aumento ben più alto se si dovesse considerare l’original income, il reddito al lordo degli effetti ridimensionanti della tassazione. c’è da dire che le strategie attuate negli ultimi anni per fronteggiare le problematiche legate alla povertà hanno però dato risultati complessivamente positivi, anche se con esiti a volte controversi: solo per riportare un esempio – pur non pretendendo che da solo possa dare conto in modo esaustivo di un fenomeno tanto articolato e complesso – nel biennio per approfondimenti si rimanda al testo La Terza Via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, di anthony Giddens (1999). per maggiori chiarimenti si rimanda alla nota 10 di questo capitolo. 14 15 76 Salute e disuguaglianze in Europa 2002/2003 il numero delle famiglie indigenti era più contenuto rispetto ai dati degli anni ‘90, ma comunque più alto rispetto ai primi anni ‘80; sempre nello stesso periodo, poco meno di 800000 bambini vivevano in famiglie con un reddito inferiore del 60% rispetto al valore mediano. Italia. nel ripercorrere la storia del welfare state del nostro paese è necessario premettere che uno dei suoi più complessi e dolorosi problemi, fino ad ora irrisolto, è rappresentato dal permanere di differenze territoriali anche nella distribuzione delle malattie, specchio di profonde diversità storiche e socio-economiche. partendo dai dati raccolti da due differenti studi, uno sulla longevità che indica la speranza di vita degli italiani come una delle più alte al mondo, uno sul grado di soddisfazione dei cittadini verso i servizi sanitari del proprio paese che riporta invece una percentuale elevatissima di intervistati non soddisfatti (l’88%, il dato più alto in europa), Berlinguer (1994) sostiene che lo stato di salute dell’italia contemporanea porti conferme alla teoria per certi versi paradossale secondo la quale il livello di salute di una popolazione dipende, da un punto di vista globale, più da fattori ambientali, economico-sociali e culturali piuttosto che dall’assistenza medica. ipotesi che si è rivelata interessante e con la quale sarà necessario confrontarsi più volte nella ricostruzione del caso italiano. si procede dunque andando ad osservare, anche per quanto riguarda l’italia, da un lato quali siano stati gli sviluppi e le tappe fondamentali nella nascita del welfare state e del servizio sanitario nazionale, dall’altro lato grazie a quali risorse economiche, culturali e sociali dal dopoguerra a oggi si sia registrato un indubbio miglioramento dello stato di salute della popolazione italiana. il sistema di welfare italiano, caratterizzato dal rapporto di complementarietà tra forme pubbliche di protezione sociale relativamente nuove e il persistere di istituzioni tradizionali dotate di ampi margini di autonomia regolativa, quali le corporazioni professionali o la chiesa, è concordemente indicato quale variante ‘clientelare’ del modello corporativo di stato sociale, proprio dei paesi dell’europa continentale (paci 1989). se la tipologia principale si caratterizza, sul piano dei principi ispiratori, per la solidarietà categoriale e per la corrispondenza tra lavoro prestato e/o contributi versati e tutela offerta (per questo è anche indicato come modello particolaristico-meritocratico), e sul piano istituzionale per una distribuzione dei benefici disciplinata sulla base dello status occupazionale dei beneficiari, la variante italiana si declina in una forma più propriamente assistenzialeclientelare, caratterizzata da una elevata frammentazione ed eterogeneità istituzionale accompagnata da una influenza (talvolta vera e propria ingerenza) del potere politico sui punti nevralgici del sistema di welfare, dalla perdita di capacità di iniziativa e di rivendicazioni autonome da parte della società civile, dal delinearsi di un potere sempre più discrezionale che re- Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 77 gola la crescente domanda di assistenza con prassi improntate al favoritismo e al clientelarismo16. negli anni ‘60 e ‘70 si sono manifestati anche in italia «potenti fattori di salute», come li definisce Berlinguer (1994), capaci di esercitare una influenza positiva sul benessere fisico dei cittadini. sinteticamente è possibile ricordare i cinque principali: l’aumento della ricchezza, quindi del benessere, che in quel periodo tocca se non tutta almeno buona parte della popolazione andandosi a redistribuire in modo relativamente equo; la diffusione di istruzione e informazione, e di riflesso una maggiore consapevolezza e capacità di controllo sul proprio stato psicofisico; il miglioramento delle condizioni abitative e della quantità e qualità dell’alimentazione; l’igiene e la sicurezza nei luoghi di lavoro; infine, il riconoscimento di alcuni servizi di assistenza e cura fondamentali, quali ad esempio l’assistenza ospedaliera in caso di aborto. a livello politico e istituzionale, invece, innovazioni, riorganizzazioni ed adeguamenti sono sempre stati caratterizzati da un andamento spesso non lineare: le riforme dello stato sociale in italia nella maggior parte dei casi sono maturate attraverso pratiche di concertazione lunghe e travagliate approdate a soluzioni finali compromissorie. l’andamento altalenante, discontinuo, mai radicale delle politiche pubbliche, ha condizionato le scelte nei più svariati settori: dalla politica edilizia alla riforma della scuola e dell’università, dalla riforma previdenziale all’istituzione di un servizio sanitario nazionale che andasse a sostituire le casse mutue e rendesse gli ospedali non più solo enti con finalità di diagnosi e terapia ma anche con compiti di prevenzione e di riabilitazione. Fa forse eccezione l’istituzione del servizio sanitario nazionale, progetto di cui si parlava dal 1948, ma che viene approvato solo il 23 dicembre 1978, emblematicamente sei mesi dopo l’approvazione della legge Basaglia. Vi si era arrivati dopo trent’anni durante i quali erano state istituite numerose commissioni ministeriali17, sciolte l’una dopo l’altra via via che le loro analisi e proposte erano rimaste prive di seguito. prima di questa legge il servizio sanitario si basava su un miscuglio caotico di enti assistenziali e istituti privati, non di rado teatro 16 nel modello continentale di stato sociale, invece, le spettanze dei cittadini sono sì frammentate in base allo status occupazionale, ma la tendenza rimane comunque quella di erogare le prestazioni seguendo criteri standard e inequivocabili, e secondo procedure imparziali e difficilmente manipolabili. l’allocazione pubblica delle risorse di protezione sociale, pur essendo differenziata a seconda delle categorie occupazionali e sociali esistenti, non per questo è meno certa o obbiettiva. ciò è anche la conseguenza della presenza di forti rappresentanze categoriali dotate di autonomia finanziaria e amministrativa e di poteri forti di regolazione nei confronti dei propri rappresentanti. per maggiori approfondimenti si rimanda a Ferrera (1984) e paci (1989). 17 la prima, nell’italia repubblicana, fu la commissione per la riforma della previdenza sociale istituita nel 1947 e presieduta dal socialista ludovico d’aragona. Già questa prima commissione incontrò ben presto notevoli resistenze, in particolar modo nei confronti della proposta di copertura assicurativa globale per tutti i lavoratori e le loro famiglie. 78 Salute e disuguaglianze in Europa di corruzione, dati i legami di varia natura con il potere politico e il diffuso clientelismo. la legge del 1978 cerca di porre rimedio a questo sistema diversificato, autonomo, dispersivo e fortemente diseguale, istituendo la usl (unità sanitaria locale): un organismo responsabile dell’assistenza sanitaria su tutto il territorio nazionale e capillarmente diffuso, tanto da prevedere suoi distaccamenti in ogni comune e in ogni quartiere di tutte le principali città. la legge, inoltre, prevedeva di attribuire specifiche responsabilità in grado di eliminare sovrapposizioni e conflitti sulle aree di competenza, riformulando radicalmente le linee di sviluppo nei tre principali settori dell’assistenza sanitaria: la prevenzione, la cura, la riabilitazione18. i nuovi regolamenti prospettavano una struttura ambiziosa e innovativa, tanto da poter essere considerata «una delle più importanti acquisizioni della politica delle riforme in tutto il periodo repubblicano» (pastori 1980, p. 383). purtroppo la loro attuazione presentò da subito numerose difficoltà e gravi problemi: in particolare, le quasi settecento usl, pur ricevendo ingenti somme di denaro, non disponevano di criteri sufficientemente razionali e controllati per spenderlo in modo proficuo. Già nel 1984 il presidente della corte dei conti nella sua relazione annuale non mancava di presentare un lungo elenco di sprechi cui si erano abbandonate numerose usl. il quadro viene poi aggravato dalle ingerenze da parte della sfera politica che, sia per garantirsi posizioni di potere sia per avere accesso alla gestione di nuove risorse indubbiamente generose, dà il via ad un vero e proprio sistema di lottizzazione. poiché il diritto di controllo sulle usl era stato affidato ai consigli comunali, presto si afferma la consuetudine di suddividere i più importanti ruoli amministrativi, incluse le presidenze, tra i partiti presenti sulla scena politica delle diverse realtà locali. per questo e per altri motivi, la riforma del servizio sanitario del 1978 non riesce a ridurre lo squilibrio tra nord e sud del paese: sebbene in alcune zone del nord e del centro, come ad esempio in Veneto e in emilia romagna, il servizio sanitario si avvicinasse agli standard di efficienza degli altri paesi europei, nel meridione l’antico dramma di degenti ricoverati in stanze sovraffollate o nei corridoi degli ospedali, di familiari costretti ad occuparsi dei pasti e della pulizia dei congiunti ricoverati, fino al pagamento di vere e proprie tangenti per garantirsi l’accesso al ricovero o a particolari prestazioni medico-ospedaliere, continuò come prima della riforma, e in alcune realtà in modo anche più intenso. come esemplifica, in modo molto efficace, Ginsborg: negli anni ‘80 essere poveri a napoli era già di per sé triste, ma essere poveri ed ammalati diventava una vera e propria tragedia (1986, p. 296). il decennio successivo alla riforma si chiude in uno scenario dominato dalle incertezze un po’ in tutta europa, dove ciascun governo nazionale prima del 1978 ben poco si era fatto per la prevenzione, mentre la riabilitazione era da sempre considerata compito della famiglia. 18 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 79 tenta ricette più o meno originali per rilanciare l’economia senza intaccare – o almeno tentando di salvaguardare il più possibile – i principi della sicurezza sociale. l’italia negli anni novanta si trova in uno stato di profonda contraddizione, effetto di un sistema di protezione sociale di tipo ‘misto’ ispirato a principi universalistici per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, ma regolato da criteri occupazionali sul piano dell’assistenza previdenziale. disomogeneità, squilibri e insufficienze che affliggono anche il servizio sanitario producono alla fine un importante intervento di riorganizzazione: con l’entrata in vigore dei dlgs 502/92, dlgs 517/93 (e in seguito del dlgs 229/99) le usl sono riconvertite in asl (aziende sanitarie locali) e viene data maggiore rilevanza alle loro funzioni aziendali19. inoltre, si adottano specifiche misure di contenimento del consumo di farmaci, e si introduce una quota (ticket) a carico del paziente per coprire parte della spesa totale del servizio a lui erogato. a questa prima riorganizzazione – secondo una modalità tipica dell’evoluzione dello stato sociale nazionale – si aggiungono poi nel corso degli anni successivi, stratificandosi, le modifiche e gli effetti apportati da successive ‘riforme della riforma’, firmate dal ministro Bindi nel 1999 e dal ministro sirchia nel 2002-2003. Gli investimenti per la spesa sanitaria dei governi che dagli anni novanta in poi si avvicendano al potere rimangono tuttavia piuttosto cospicui, e se nel 2000 la cifra stanziata corrisponde all’8,1% del pil, pari a 2052 dollari pro capite annui (dunque collocabile in una posizione intermedia tra svezia e regno unito), nel 2006 si raggiungono i 2673 dollari pro capite annui (oecd Health data, 2008). a monte di tutte le ancora non risolte problematiche relative al servizio sanitario, un grave problema forse ancora troppo poco pubblicamente riconosciuto ed efficacemente affrontato riguarda la sperequazione delle risorse economiche tra la popolazione e tra le diverse aree del paese. se anche per quanto riguarda l’italia è confermata una relazione inversamente proporzionale tra livello di reddito (ed altri indicatori socioeconomici) e cattive condizioni di salute, il problema delle disuguaglianze sociali e del loro effetto negativo sullo stato di salute si fa ancora più grave in un paese nel quale il reddito è distribuito in modo piuttosto ineguale: secondo stime calcolate da WHo (2004d), adottando come parametro di riferimento l’indice di Gini, l’italia presenta una redistribuzione della ricchezza particolarmente diseguale, con un 13% della popolazione collocato sotto il livello mediano del reddito, e tassi di disoccupazione non trascurabili, pur se di poco al di sotto della media europea20. 19 in quanto aziende, le asl vengono dotate di autonomia organizzativa, gestionale, tecnica, amministrativa, patrimoniale, contabile. 20 il dato riferito all’anno 2008 è di 6,8% di disoccupati sul totale della forza lavoro del paese a fronte di una media europea di 7,1% (dati eurostat). 80 Salute e disuguaglianze in Europa 2. Radiografie dello stato di salute Viene presentato ora, per ciascuno dei tre paesi, un breve quadro sociodemografico, a partire dai dati principali relativi alla popolazione e alla sua distribuzione in fasce di età, per poi illustrare le stime di aspettativa di vita e aspettativa di vita in salute, concludendo con un riepilogo delle principali cause di decesso. La Svezia. dalla fine del 2003 il paese presenta una popolazione di 8,9 milioni di abitanti (WHo, 2004d), che nel giro di 5 anni raggiunge la quota di 9.182.927 abitanti (dati eurostat 2008): di questi più dell’80% risiede in aree urbane. il tasso di fecondità delle donne svedesi si attestava a quasi 1,6 figli per donna nel 2000 per crescere a 1,9 figli per donna nel 2007, rimanendo comunque al di sotto del livello sufficiente a garantire il ricambio generazionale (stimato a 2,1 figli per donna). Fig. 1 –Piramide delle età - Svezia Fonte: WHo (2004d) come bene si può notare dai grafici, oltre al calo delle nascite la caratteristica demografica di maggior rilievo degli ultimi decenni è rappresentata dall’aumento della percentuale di anziani sul totale della popolazione, con Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 81 una proiezione di crescita di altri 7,8 punti in percentuale entro il 2030. i dati relativi al 2001 indicavano una percentuale del 18,3 % di under 14 e del 17,2% di over 65 sul totale della popolazione; le ultime stime disponibili rese note dal Statistical Information System del WHo, aggiornate al 2006, pur con una piccola differenza nella ripartizione in fasce d’età (si considerano infatti gli under 16 invece che gli under 15, e gli over 61 al posto degli over 65) confermano la tendenza. Tab. 1 – Percentuale della popolazione per fasce di età – Svezia Fascia d’età 0-15 16-60 61+ % sul totale della popolazione 17 59 24 Fonte: WHosis (2009) secondo le stime del WHo (2004a) nel 2002 un individuo nato in svezia godeva di una aspettativa di vita di 80,4 anni. più precisamente 78,0 anni se di sesso maschile, 82,6 anni se di sesso femminile: rispettivamente 2 anni in più e circa 1 anno in più dei dati medi europei21. dati WHosis (2009) aggiornano i precedenti al 2006, indicando come per gli uomini l’aspettativa di vita media abbia superato i 79 anni, per le donne gli 83. emerge dunque chiaramente come gli svedesi abbiano fino ad ora beneficiato di una costante crescita degli anni di vita, guadagnando in media solo negli ultimi venti anni 4,1 anni di aspettativa di vita (in particolare 5,1 anni gli uomini, 3,5 anni le donne), e con un corso di vita caratterizzato per il 90% da condizioni di salute buone. il rapporto tra aspettativa di vita (le: Life Expectancy) e aspettativa di vita in salute (Hale: Healthy Life Expectancy) degli svedesi è infatti uno dei più alti in europa22. poiché le donne vivono più a lungo degli uomini e la probabilità di un peggioramento della salute aumenta con l’aumentare dell’età, le donne perdono in media più anni di vita in salute (7,8 anni) rispetto agli uomini (6,1 anni). ciò nonostante, una più lunga aspettativa di vita regala in ogni caso alle donne circa 3 anni in più di vita in salute. complessivamente la popolazione svedese presenta tassi di mortalità più bassi della media europea per ciascun gruppo d’età. in particolare, la mortalità neonatale nel 2007 è di 2,5 casi su 1.000 nati vivi, a fronte di una media europea di 3,7 nel 2006. inoltre la mortalità per gli adulti di sesso maschile al di sotto dei 55 anni risulta più bassa del 25% rispetto ai dati europei (WHo 2004d). 21 dati eurostat rilevati per l’anno 2006 aggiornano i precedenti a 78,8 anni per gli uomini e 83,6 per le donne. 22 per maggiori chiarimenti si rimanda al capitolo 2. 82 Salute e disuguaglianze in Europa ripartendo la popolazione per gruppi di età e le cause di morte in tre gruppi principali (cause esterne: ricomprendenti incidenti stradali e suicidi; malattie cardiovascolari; carcinomi), la svezia presenta una maggiore mortalità per cause esterne nella fascia d’età ricompresa tra i 35 e i 74 anni, in particolare per le donne tra i 35 e i 64 anni. i decessi attribuibili a patologie cardiovascolari sono più alti della media europea solo dopo gli 84 anni, mentre quelli per carcinoma solo per le bambine fino ai 14 anni e per le donne tra i 65 e i 74 anni. Fig. 3 – Principali cause di mortalità per genere e gruppo d’età in Svezia. Confronto con la media europea (Eur-A=100), 2001 Fonte: WHo (2004a) per l’anno 2002 l’83% delle morti sul totale della popolazione è riconducibile a malattie non infettive, il 7% a cause esterne, e circa l’1% a malattie infettive. le malattie cardiovascolari, in particolare le patologie ischemiche del cuore, rappresentano la prima causa di morte, superando del 24% la media europea con 120,7 casi l’anno per 100.000 abitanti, contro 97,3 casi per 100.000 abitanti. i tumori costituiscono la seconda principale causa di morte, anche se sul totale delle patologie prese in esame la svezia presenta mortalità più basse in media del 13,2% rispetto ai dati europei (con 157,9 casi su 100.000 a fronte dei 181,8 casi in europa). la mortalità risulta più bassa, in particolare, per i tumori al fegato e al seno. dati completamente opposti riguardano invece i casi di cancro alla prostata che segna, con 37,0 casi su 100.000 per anno in svezia contro 25,0 casi in europa, un 48,1% in più rispetto al resto del continente. anche la mortalità legata a problemi neuropsichiatrici presenta in svezia valori molto più importanti rispetto alla media europea: nel 2001 sono stati rilevati 23,4 casi su 100000 abitanti; ovvero il 79,8% in più rispet- Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 83 to al dato medio europeo (assestato intorno a 13,0 casi). altro importante aspetto legato alle patologie neuropsichiatriche è l’impatto che queste possono avere sulla qualità della vita, l’autonomia e l’autosufficienza degli individui. dati WHo (2004) mostrano chiaramente come i disturbi psichici siano la prima causa di disabilità in svezia, seguiti da malattie cardiovascolari, tumori maligni e, solo quarti, incidenti stradali23. per quanto riguarda invece il tasso di suicidio si registra una diminuzione del trend (considerando le statistiche a partire dagli anni ottanta); nonostante questo però i suicidi continuano a rappresentare il 2% di tutte le cause di morte nel paese, contando nel 2006 un dato di 8,0 casi l’anno ogni 100.000 abitanti a fronte di una media europea (europa a 25) stimata intorno ai 4,8 casi per 100.000 abitanti per anno24. Il Regno Unito. con una popolazione di 61.185.981 abitanti (dato non definitivo, eurostat 2008), il paese presenta una delle più alte percentuali di popolazione urbanizzata. il tasso di fecondità – sempre secondo fonti eurostat – è cresciuto tra il 2000 e il 2005 da 1,6 scarsi a 1,8 figli per donna25, performance comunque non sufficiente a garantire il ricambio generazionale. Questo elemento, combinandosi con una aumentata aspettativa di vita, ha portato anche nel regno unito ad una crescita della popolazione degli over 65. nel 2004, secondo dati raccolti dal WHo, la popolazione degli over sessantacinquenni si attestava su un 16% scarso del totale della popolazione: una percentuale destinata a crescere sensibilmente in questi anni, periodo nel quale la coorte nata negli anni ‘40 comincia ad entrare nell’età pensionabile (council of europe 2003). le ultime rilevazioni del WHosis, aggiornate al 2009, confermano il progressivo ‘assottigliamento’ della fascia d’età centrale, ovvero quella degli adulti in età lavorativa, accompagnato dal mantenersi su valori costanti della fascia dei più giovani, e dal progressivo aumento degli over 60. Tab. 2 – Percentuale della popolazione per fasce di età - Regno Unito Fascia d’età 0-15 16-60 61+ % sul totale della popolazione 18 60 22 Fonte: WHosis (2009) i dati riportati fanno indirettamente riferimento ad un indicatore messo a punto dal WHo per stimare il danno che le patologie, quando non mortali, infliggono allo stato di salute: il Disability-adjusted Life-years noto come dalYs. 24 italia e regno unito si assestano rispettivamente a 1,7 e 3,0 casi di suicidio per 100000 abitanti per anno (fonte eurostat 2006). 25 il tasso di fecondità nel regno unito, nonostante la forte flessione subita tra il 1980 e il 2003 (-35%), è ancora lievemente più alto della media europea, attestata intorno agli 1,49 figli per donna. 23 84 Salute e disuguaglianze in Europa per il 2030 è prevista una ulteriore crescita della fascia di popolazione anziana, fino ad arrivare – secondo le previsione del Office for National Statistics – ad un 25% del totale. il fenomeno è immediatamente visibile andando ad osservare il grafico sottostante. Fig. 3 Piramide delle età - Regno Unito Fonte: WHo (2004d) prendendo in rassegna alcuni indicatori, gli stessi già considerati nel caso della svezia, si tenterà di definire in modo più puntuale le condizioni di salute anche nel regno unito. a partire dal burden of desease (letteralmente: peso della malattia). Questo indicatore ‘misura’ la distanza tra l’effettivo stato di salute e una situazione ideale in cui ciascuno attraversa il corso di vita fino ad età avanzata sano e senza disabilità. secondo le stime più recenti di eurostat (2006), i britannici godono di una aspettativa media di vita di 79,5 anni, più precisamente di 77,3 anni per gli uomini e 81,7 anni per le donne. solo negli ultimi dieci anni dunque sono stati guadagnati in media 2,8 anni di vita, con una migliore performance degli uomini che hanno visto aumentare la loro speranza di vita di 3,3 anni, a fronte dei 2,4 anni in più per le donne. per ciò che riguarda invece la qualità della vita relativamente agli aspetti legati allo stato di salute, dati WHo (2004d) relativi al rapporto le /Hale (il rapporto tra la durata di vita media e la durata Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 85 di vita media in salute) aggiornati al 2003 hanno stimato che gli inglesi trascorrano in salute il 90% della loro vita, con un periodo medio di degenza/non autosufficienza di circa 7,6 anni. la mortalità infantile, invece, pur avendo registrato un calo sensibile anche negli ultimi anni passando da 6,1 decessi su 1000 nati vivi nel 1996 a 4,9 su 1.000 nati vivi nel 2006, rimane al di sopra del dato europeo, attestato intorno a 3,7. per quanto riguarda le principali cause di morte, i dati WHo (2004d) riferiti al 2002 evidenziano un quadro delle cause di morte che vede in primissima posizione i decessi imputabili a patologie non infettive con l’84% dei casi, seguiti dai decessi per così dette cause esterne (incidenti di varia natura e suicidi) nel 4% circa dei casi, e da malattie infettive nell’1% dei casi. Fig. 4 –Principali cause di mortalità per genere e gruppo d’età nel Regno Unito. Confronto con la media europea (Eur-A=100), 2001 Fonte: WHo (2004b) nel regno unito, le patologie ischemiche del cuore possono essere considerate the single biggest killer, essendo le responsabili di una morte su cinque. particolarmente colpiti sono gli individui tra i 25 e i 64 anni sia di sesso maschile (con dati superiore al 50% rispetto alla media europea) sia di sesso femminile (più 67% rispetto alla media europea). Va comunque segnalato come si tratti di un dato in fase di rapida modificazione: in soli 7 anni a partire dal 1995 nel regno unito i casi di decesso per ict si sono ridotti del 30%. un’altra importante causa di morte, responsabile del 12% 86 Salute e disuguaglianze in Europa sul totale dei decessi nel 2002, è rappresentata dalle malattie respiratorie che nel regno unito colpiscono in particolare le donne, raggiungendo il secondo più alto tasso in europa26, mentre gli uomini si collocano al quarto posto, sempre comunque nella fascia più alta delle stime del continente. per quanto riguarda la mortalità imputabile a patologie tumorali, nel regno unito essa raggiunge il 28% del totale dei decessi, pur con profonde differenze di genere. i tumori rappresentano, inoltre, la seconda causa di disabilità acquisita per gli uomini e la terza per le donne27. nel 2001 il tasso di mortalità per tumore è superiore al 6% della media europea: in particolare si registrano picchi di mortalità per le patologie dell’esofago, per le quali il regno unito detiene il non positivo primato dei casi incurabili per il genere maschile e il terzo posto per il genere femminile. per le donne, in particolare, il quadro risulta oltremodo sconfortante: le patologie tumorali tipicamente femminili (dati 2001 del WHo 2004d), ovvero quelle che vanno a colpire seno, cervice uterina e ovaie, sono tutti superiori alla media europea, rispettivamente del 15%, del 25% e del 40%. infine, le morti per ‘cause esterne’ dopo una lunga fase di decrescita, sono rimaste sostanzialmente su percentuali invariate per tutto il corso degli anni novanta e in questo decennio si attestano su cifre comparativamente piuttosto contenute: 27,3 sono i casi registrati per anno su 100.000 abitanti28, a fronte di un dato europeo di 39,5 casi. L’Italia. nel 2008, secondo dati eurostat, la popolazione italiana assomma a 56619290 abitanti29, con una concentrazione in aree urbane piuttosto ridotta. le donne inglesi sono inoltre particolarmente esposte a disturbi dell’apparato gastrointestinale e presentano un tasso di decessi legati a queste patologie più alto del 20% rispetto alla media europea per la fascia d’età 25-65. per approfondimenti si rimanda ancora al rapporto Highlights on Health in the United Kingdom del 2004, a cura di WHo-europe. 27 secondo l’indice dalYs (calcolato combinando gli effetti di degenza, disabilità e mortalità delle malattie) nel regno unito, così come in svezia e in italia, al primo posto per perdita di salute e autonomia – sia per gli uomini che per le donne – si trovano le malattie neuropsichiatriche. dato questo facilmente comprensibile se si considera da un lato la relativa bassa letalità della patologia e dall’altro l’alta probabilità che questa ha di limitare le capacità di autonomia e autosufficienza degli individui colpiti. 28 pur restando complessivamente su percentuali basse, se si scompone il dato delle «morti per cause esterne» nelle sottocategorie «incidenti stradali», «incidenti sul lavoro o in casa», «suicidi» e «atti violenti» (ovvero aggressioni e omicidi), si nota come, pur rimanendo tutti ben al di sotto della media europea, i primi tre si collocano percentualmente rispetto a quest’ultima rispettivamente a -39,7%, a -34,3%, e a -36,6%, mentre l’ultimo è inferiore solo del 9,4%. pur non essendo questa la sede adatta per un approfondimento sul tema, è però opportuno ricordare come il tasso di mortalità per omicidio nel regno unito, dopo anni di stabilità, abbia cominciato a registrare incrementi sensibili a partire dal 1997 (dal 1999 per le donne). 29 dati istat, pubblicati nel 2009 e riferiti all’anno precedente, stimano la popolazione dei residenti italiani a 60.045.068 individui, circa 426.000 in più rispetto all’anno precedente. Questo incremento è riconducibile al saldo attivo del movimento migratorio (+434.245 unità) che neutralizza l’effetto del saldo naturale (-8.467 unità). 26 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 87 Fig. 5 – Piramide delle età - Italia Fonte: WHo (2004d) il trend demografico più importante degli ultimi decenni, come ben illustra la piramide dell’età, è il progressivo invecchiamento della popolazione. se dati istat aggiornati al 2009, riportati nella tabella sottostante, attestano la percentuale degli over 65 sul totale della popolazione al 20%, le proiezioni del WHo (2004d) per l’italia indicano che gli ultra-sessantacinquenni raggiungeranno il 30% del totale della popolazione entro il 2030. Tab. 3 – Percentuale della popolazione per fasce di età - Italia Fascia d’età 0-14 15-64 65 + % sul totale della popolazione stimata per il 2009 14,0 65,9 20,1 Fonte: istat (2008) oltre ad una più lunga aspettativa di vita, giunta a 78,5 anni per gli uomini e 84,2 anni per le donne (dati eurostat 2006), il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione è frutto anche di un bassissimo tasso di natalità: solo 1,3 figli per donna nel 2006, al di sotto del livello capace di 88 Salute e disuguaglianze in Europa garantire il ricambio generazionale e inferiore anche al dato medio europeo 1,5. un aumento di popolazione è in parte garantito dal tasso netto di immigrazione, aumentato tra il 1980 e il 2001 di 30 volte30. il rapporto tra aspettativa di vita e aspettativa di vita in salute in italia è comunque piuttosto buono, e nel 2003 la parte di vita in salute si attestava intorno al 91%. anche la mortalità infantile e quella neonatale presentano oggi valori inferiori al tasso medio europeo (4,2 su 25 paesi), dopo una fase di progressivi e rapidi miglioramenti31. le principali cause di morte in italia sono imputabili nell’81% dei casi a malattie non infettive, nel 6% a cause esterne, e solo nell’1% dei casi a malattie infettive. pur registrando tassi inferiori di mortalità per le principali cause di morte rispetto ai dati medi europei, le malattie cardiovascolari rappresentano il 38% di tutti i decessi: in particolare le patologie ischemiche del cuore, oltre ad essere responsabili del 12% del totale dei decessi, registrano un recente (e preoccupante) aumento del 27% tra la popolazione femminile in soli sei anni, tra il 1995 e il 2001. le malattie cardiovascolari (indicate con la sigla cVd, Cardio Vascular Desease, nel grafico sottostante) colpiscono anche gli individui più giovani, e sono responsabili della maggior parte dei decessi nella fascia di popolazione tra 0 e 14 anni. di particolare significato il dato sui tumori maligni, arrivati a rappresentare il 31% di tutti i decessi nel 2001. secondo fonti eurostat le morti riconducibili al cancro nell’anno 2006 contano 164,9 casi ogni 100000 abitanti, più precisamente 223,5 casi per gli uomini e 122,6 casi per le donne. dati dell’istituto superiore di sanità, rielaborando rilevazioni dell’istat ferme purtroppo al 2002, mostrano come per gli uomini la prima causa di morte per tumore con 25.639 casi nell’anno e un tasso di incidenza di 92,6 casi su 100.000 abitanti sia rappresentata dal tumore al polmone, seguito dal tumore al colon retto (con 10.526 casi nell’anno e un tasso di incidenza di 38,0) e dal tumore allo stomaco (con 6.238 casi all’anno e un tasso di incidenza di 22,5). per le donne la prima causa di morte per tumore è rappresentata dal tumore al seno con 11.251 casi nell’anno e un tasso di incidenza di 38,2 su 100.000 abitanti, seguito come per gli uomini ma con una incidenza comunque più contenuta dal tumore al colon retto (con 9.529 casi nell’anno e un tasso di incidenza di 32,3) e dal tumore ai polmoni (con 6.495 casi all’anno e un tasso di incidenza di 22,0). infine, le morti riconducibili a questo quadro offerto dal WHo (2004d) si aggiunge, per dare un’idea del fenomeno, che le richieste di cittadinanza accolte dallo stato italiano sono passate dalle 13.406 del 2002 alle 35.266 del 2006 (dati eurostat). 31 i dati a disposizione confermano il trend di decrescita. il WHo riporta una diminuzione di questi fenomeni di due terzi tra il 1980 e il 2001; dati eurostat confermano la tendenza, mostrando più puntualmente come il tasso di mortalità infantile in italia passi dal 14,4 del 1980 all’8,2 del 1990, al 3,7 del 2007, ultimo dato reperito (Fonte: <http://nui.epp.eurostat.ec.europa. eu/nui/show.do> [10/09]) 30 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 89 Fig. 6 –Principali cause di mortalità per genere e gruppo d’età in Italia. Confronto con la media europea (Eur-A=100), 2001 Fonte: WHo (2004c) a cause esterne in italia risultano essere al di sotto della media europea anche tra le fasce d’età più giovane. tuttavia, scomponendo il dato, si può osservare come nel nostro paese i tassi riconducibili a incidenti automobilistici e a cadute accidentali32 siano più alti rispettivamente del 18% e del 58% rispetto ai dati medi europei. 3. I fattori di rischio socialmente rilevanti nei paesi sviluppati sono numerosi e diffusi i comportamenti negativi capaci di arrecare gravi danni, solitamente irreparabili, allo stato di salute. il WHo ha cominciato a stimarli in termini di dalYs (Disability Adjusted Life Years): ovvero di conseguenze permanenti (patologiche e/o menomanti) sullo stato di salute riconducibili ad alcuni comportamenti a rischio. la tabella che segue prende in esame i primi dieci tra i comportamenti negati- con l’etichetta «cadute accidentali» si fa convenzionalmente riferimento a tutti i tipi di incidenti legati ad attività sportive e ricreative, e ad incidenti domestici non necessariamente riconducibili a particolari attività (per esempio vi sono ricomprese le cadute dal letto, le cadute nella doccia o nella vasca da bagno, ecc.). per una classificazione più dettagliata si rimanda all’indice delle cause di morte stilato dal WHo, disponibile on line all’indirizzo <http://www. istat.it/strumenti/definizioni/malattie.pdf> [04/09], con particolare riferimento ai codici dal W00 al W19. 32 90 Salute e disuguaglianze in Europa vi e i fattori di rischio per la salute nei paesi sviluppati, mostrando quanto ciascuno di essi sia responsabile di uno stato di salute compromesso. Tab. 4 –Incidenza dei fattori di rischio sulla vita media in salute Fattore di rischio consumo di tabacco ipertensione consumo di alcool ipercolesterolemia sovrappeso scarso consumo di frutta e verdura sedentarietà consumo di sostanze stupefacenti comportamenti sessuali a rischio carenza di ferro incidenza (%) sull’indice dalYs 12.2 10.9 9.2 7.6 7.4 3.9 3.3 1.8 0.8 0.7 Fonte: WHo (2004a, 2004b, 2004c) molti di questi fattori di rischio hanno, come è chiaro, una forte rilevanza sociale per la netta interrelazione che presentano con il contesto socio-culturale in cui maturano. si tratta di ‘cattive abitudini’ che spesso si cumulano in uno stesso percorso di vita, incidendo gravemente sulla salute. date le ipotesi di partenza della ricerca, si è scelto di approfondire la valutazione sempre in un’ottica comparata di quattro di queste situazioni di rischio: il consumo di tabacco, il consumo di alcol, l’essere in sovrappeso, il consumo di quantità di frutta e verdura non adeguate. Questi quattro indicatori, da tempo individuati dalla letteratura sociologica come i più significativi per una analisi della relazione tra disuguaglianze sociali e salute, permettono di misurare le differenze derivanti sia da disuguaglianze socioeconomiche che socioculturali, con il vantaggio di poterle registrare nel breve-medio periodo, dato che i loro effetti hanno ripercussioni dirette sullo stato di salute e risultano visibili in tempi relativamente rapidi. Il consumo di tabacco. in europa il numero di morti riconducibili a patologie legate al consumo di tabacco è di circa 1,2 milioni all’anno. nei paesi sviluppati è diffuso soprattutto tra le fasce più deprivate della popolazione, con un’evidenza crescente in particolare nell’ultimo decennio, quando si afferma una relazione tra consumo di tabacco e livello socioeconomico che è sì inversa rispetto a quella che aveva caratterizzato tutto il secolo precedente, ma che ribadisce con chiarezza il nesso causale tra comportamenti a rischio e disuguaglianza sociale. come si afferma in una relazione dell’osservatorio italiano sulla salute Globale (ma la nota è valida per tutti i paesi sviluppati), «l’abitudine al fumo tende ad affermarsi sempre di più tra le femmine ed in particolar modo tra gli individui con un basso stato Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 91 sociale, in quella stessa parte della popolazione in cui sono più rilevanti anche altri comportamenti a rischio per la salute» (aa. VV. 2006, pp. 285-286). la svezia, tra i tre paesi in esame, si colloca in posizione virtuosa rispetto alla media del continente: dati dell’anno 2000 evidenziavano come il consumo di sigarette per persona in svezia fosse inferiore del 44% rispetto alla media europea. negli ultimi anni esso è ulteriormente calato e si è passati dal 17 al 16% di fumatori tra i maschi adulti, e dal 22 al 19% per le femmine adulte. nel regno unito, invece, ogni anno muoiono circa 120.000 persone per malattie riconducibili al fumo. analizzando più nel dettaglio i trend relativi all’abitudine al fumo, si scopre però che tra il 1994 e il 2002 il consumo di sigarette ha registrato una flessione e che la percentuale dei fumatori è passata dal 29% della popolazione al 27% per gli uomini e dal 28% al 25% per le donne (dati office for national statistic 2004). la flessione più importante ha riguardato gli individui over 50, mentre le giovani generazioni ancora non sembrano prendere troppo sul serio le informazioni sui danni provocati dal fumo diffusi dai presidi sanitari locali e sono piuttosto refrattarie alle campagne di sensibilizzazione sul tema. per quanto riguarda infine l’italia, nel 2000 il consumo di tabacco si collocava al di sopra della media europea, e i relativi trend – andando in controtendenza rispetto all’europa – risultavano in costante crescita con un aumento del 13% in soli cinque anni a partire dal 1995, fino a toccare le 1.700 sigarette circa pro capite all’anno. il quadro si fa però più preciso se si tiene conto oltre al numero di sigarette anche il numero dei fumatori effettivi: in italia i fumatori risultano essere in calo, sia tra gli uomini che passano da una percentuale del 38,0% sul totale della popolazione maschile nel periodo 1994-1999 ad una percentuale del 32,4% nel periodo 1999-2001, fino ad arrivare al 26,4% nel 2008 (secondo le più recenti stime doxa); sia tra le donne che negli stessi intervalli di tempo calano dal 26,0% al 17,3%, e nel 2008 si assestano su un 17,9%. si può quindi dire che in italia l’abitudine al fumo stia andando progressivamente a interessare un numero sempre più circoscritto di persone, ma che i fumatori siano sempre più ‘forti fumatori’, dunque particolarmente esposti a rischi per la salute. Il consumo di alcol. il consumo di alcol rappresenta, forse ancora più del consumo di tabacco, un importante elemento esplicativo delle differenze socioeconomiche nella mortalità per tutte le cause, soprattutto nei paesi del nord europa. in particolare numerosi studi hanno mostrato come coloro che svolgono professioni manuali presentino tassi di mortalità alcol-correlati molto più alti rispetto a coloro che svolgono attività non manuali33. i forti consumatori di bevande alcoliche sono classificati secondo due principali tipologie: chi consuma quotidianamente quantità di bevande al- 33 per tutti, si veda Harrison e Gardiner (1999). 92 Salute e disuguaglianze in Europa coliche superiori alle dosi consigliate34 è definito secondo le convenzioni regular drinker, o «bevitore abituale»; mentre chi in una sola occasione (festa, serata, uscita con amici, …) consuma nell’arco di poche ore una quantità di alcol equivalente ad una bottiglia di vino rientra nella tipologia del binge drinker35 che può essere reso in italiano con «forte bevitore occasionale». entrambe queste abitudini presentano conseguenze negative sullo stato di salute. in particolare il binge drinking risulta essere particolarmente diffuso nel regno unito36: alcuni studi specifici (Hemström 2002) calcolano che le occasioni per ‘ubriacarsi’ rappresentino il 40% di tutte le occasioni di consumo di alcol nel corso di un anno (per le donne la percentuale scende al 22%). il regno unito, dunque, detiene il primato europeo per il binge drinking, ed è seguito al secondo posto dalla svezia con il 33% di binge drinker uomini e il 18% donne. l’italia (come si avrà modo di approfondire tra breve) si attesta su dati decisamente più contenuti: 13% per gli uomini e 11% per le donne. la svezia consuma il 37% di alcol in meno rispetto alla media europea, attestata intorno ai 10 litri di alcol puro pro capite all’anno, e il suo tasso di decessi per malattie croniche del fegato, tipiche conseguenze di una abitudine agli alcolici, risulta essere uno dei più bassi nel panorama europeo. non va però trascurato il dato specifico relativo alla cirrosi epatica: nel 42% un consumo non dannoso di bevande alcoliche è stato stimato al di sotto dei 20 grammi al giorno di alcol per le donne e di 40 grammi al giorno per gli uomini. secondo i dati forniti dalla tabella sottostante (scafato, cicogna 1998), si può facilmente calcolare come una dose di alcol non preoccupante per un uomo adulto in salute non debba superare i tre bicchieri di vino al giorno. 34 indicazioni relative al consumo di alcol Bevanda alcolica Quantità massima raccomandata (donne/uomini) Grammi di alcol per dose Vino 250-400 ml (1 bicchiere = 125 ml = 14 grammi alcol) Birra 600-1000 ml (1 lattina = 330 ml = 13 grammi alcol) superalcolici 60-120 ml (1 bicchierino = 40 ml = 13 grammi alcol) 35 Binge letteralmente si traduce con «baldoria» dunque l’espressione binge drinking si riferisce al consumo di bevande alcoliche in particolari occasioni, solitamente conviviali: da feste, a incontri sportivi, alla routine delle uscite nel fine settimana con il gruppo di amici e/o colleghi di lavoro. 36 l’origine storico-sociale di questa diffusa abitudine all’abuso di alcol in particolari occasioni è chiaramente richiamata in un saggio sulla cultura del lavoro britannica di paolo Giovannini. a proposito delle condizioni di vita e di lavoro dei minatori tra ‘800 e ‘900 si legge: «l’intreccio tra lavoro, vita e appartenenze comunitarie è particolarmente stretto e vischioso, non turbato dal progresso tecnologico e solo scarsamente influenzato dalla cultura urbana. […] il controllo comunitario era così forte e onnipervasivo che non sorprende […] che i giorni di paga venissero celebrati con simbolici atti di libertà, dall’esodo verso le città più vicine agli attacchi alle caserme di polizia, fino ai due giorni di sbornia continua al canto di canzoni scurrili o blasfeme» (1989, pp. 214-215). Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 93 dei casi per gli uomini e nel 25% dei casi per le donne questa grave patologia non è imputabile a fattori patogeni (tipo epatiti) ma piuttosto allo stile di vita, e in particolare al consumo smodato di alcol. in conclusione, se da un lato in svezia il consumo di alcol non è particolarmente diffuso e dunque i danni legati ad un consumo di lungo periodo riguardano una porzione di popolazione piuttosto contenuta, dall’altro lato si può rilevare come tra i consumatori di alcol sia piuttosto alto il numero di forti bevitori e, di conseguenza, il numero di decessi per cirrosi epatica. il più volte citato rapporto WHo (2004) sezione europa, confrontando le statistiche ufficiali sul consumo di alcol, ottenute ponderando stime relative ad acquisto, produzione locale, import ed export, confermerebbe un andamento medio costante del consumo di alcol nel regno unito tra il 1980 e il 2000; il quadro si fa però più preoccupante se si integrano questi dati con quelli della General Household Survey del 2002, che ha reso noto come sia proprio la fascia d’età dei più giovani, compresa tra i 16 e i 24 anni, a prediligere il binge drinking. Questa consuetudine, che ha gravi e dirette conseguenze sul piano strettamente fisiologico, in particolar modo su fegato, sistema circolatorio e sistema neurologico, è riconducibile a comportamenti (spesso devianti) a loro volta a rischio per la salute. si tralasciano, in questa sede, approfondimenti sulla relazione tra binge drinking ed episodi violenti come risse, aggressioni a fini di rapina, aggressioni sessuali, incidenti e cadute, per concentrarsi invece solo su quei comportamenti che più propriamente espongono il binge drinker a rischi per la salute. la consuetudine all’ubriacatura in momenti di svago e socializzazione è tra le cause principali della diffusione tra i giovani di rapporti sessuali non protetti, e dunque può essere considerato un elemento che favorisce la trasmissione delle malattie sessuali (compreso, ovviamente, l’HiV). senza contare l’alto numero di gravidanze indesiderate: uno studio su campione condotto dall’università di southampton rileva che ben il 77% degli intervistati del campione dichiarava di avere bevuto in vista dell’incontro con un nuovo partner, di questi il 65% riconosceva di essere stato molto ubriaco; e tra le donne il 19% dichiarava poi di aver dovuto fronteggiare il problema di una gravidanza indesiderata. differente dai precedenti è il quadro dell’italia, che si può considerare ancora, almeno parzialmente, protetta da alcuni eccessi nel consumo di alcol in virtù di una lunga consuetudine alle bevande alcoliche, in particolare di una vera e propria cultura del vino che ricomprende profondi meccanismi sociali capaci di disciplinare tempi e modi di assunzione (cottino, rolli 1992). il consumo di alcol degli italiani, in calo da diversi decenni – tra il 1980 e il 2001 è infatti diminuito del 27% – si colloca al di sotto della media europea con poco più di 9 litri di alcol a testa per anno contro circa 11 litri a testa. la mortalità riconducibile a malattie croniche del fegato è in netto calo, pur attestandosi ancora al di sopra della media europea nel 2001; le malattie epatiche rimangono la prima causa di 94 Salute e disuguaglianze in Europa decesso per gli over 75 sia uomini che donne. il fenomeno del binge drinking in italia è ancora piuttosto ridotto, rappresentando solo il 15 % delle occasioni di consumo di alcol per gli uomini e il 10% per le donne. non vanno però sottovalutati alcuni recenti segnali che riguardano il consumo di alcol di giovani e giovanissimi. dall’ultima indagine su questo tema resa nota nel 2009 dall’istituto di Fisiologia clinica del cnr37, che mette a confronto i dati della prima rilevazione annuale risalente al 1999 con i più recenti del 2008, emerge chiaramente come in italia la percentuale di adolescenti dediti al binge drinking sia salita dal 39 al 43%. più in dettaglio: tra i diciassettenni il 50% dei ragazzi ed il 41% delle ragazze si è ubriacato almeno una volta durante l’anno, tra i diciannovenni rispettivamente il 58% ed il 45%. particolarmente preoccupanti risultano poi i dati riguardanti i più giovani: già il 30% circa degli intervistati quindicenni di entrambi i generi dichiara di essersi ubriacato almeno una volta l’anno, ben il 23% dei maschi ed il 20% delle femmine dichiara di fare smodato uso di alcol almeno una volta nel mese. anche il monitoraggio di una patologia quale la cirrosi epatica, tipicamente riconducibile allo smodato consumo di alcol, ci può offrire indicazioni utili per ricostruire le tendenze in atto nei tre paesi: mentre il dato medio europeo registra un calo progressivo e neppure troppo lento, il dato britannico pur rimanendo al di sotto della media europea mostra la tendenza ad aumentare. sul totale dei decessi per problemi al fegato tra il 1987 e il 1995 il regno unito conta 45 casi di morte per cirrosi epatica su 100 per gli uomini, e 38 casi su 100 per le donne. per la svezia, invece, i morti di cirrosi epatica sul totale dei morti per patologie epatiche di varia natura rappresentano 42 casi su 100 per gli uomini e 25 per le donne; l’italia si attesta su livelli molto più contenuti con 8 casi su 100 per gli uomini e 4 casi su 100 per le donne. si tornerà più avanti su questo punto, ma è chiarissima la relazione tra le dinamiche di disuguaglianza che vanno a combinare vantaggi e svantaggi riconducibili alle strutture sociali e culturali nazionali e la diversa importanza assunta dai fattori di rischio. Il sovrappeso. numerose ricerche hanno dimostrato come l’eccesso di peso a partire dall’età infantile contribuisca all’insorgere di patologie cardiovascolari e tumorali38. nei quindici paesi membri dell’unione europea prima dell’allargamento del maggio 2004, questa condizione poteva esi rapporti annuali su consumo di alcol condotti in italia da iFc-cnr fanno parte del progetto espad (European School Project on Alcool and Other Drugs), che promuove indagini per monitorare il consumo di alcol e droghe tra giovani in età scolare in trentacinque paesi europei. 38 si rimanda in particolare a Bergström (et alii, 2001), e petersen (et alii, 2005), in particolare il capitolo Overweight and obesity, pp. 79-85. approcci più critici e spunti per una problematizzazione del nesso tra obesità e cattiva salute ci sono offerti da Flegal e Graubard (2005) e lee (1999). sul punto si veda cardano (2008, p.130), che fa specifico riferimento a questi lavori. 37 Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 95 sere ritenuta la causa del 6% sul totale delle morti annuali femminili e del 3% di quelle maschili, raggiungendo un totale di circa 300000 morti l’anno. in generale la propensione ad una dieta e ad abitudini di vita obesogeniche risultano sempre di più legate alle risorse culturali di individui e famiglie, piuttosto che alle loro risorse puramente economiche. seppure una componente delle scelte nutrizionali, come già sottolineava Buiatti (in aa.VV. 2006, pp. 281 e seguenti), può essere rappresentato dal più alto costo degli alimenti di qualità migliore e più salutari, oggi – dato il peso complessivamente contenuto che la voci di spesa per i generi alimentari ricoprono sul totale del bilancio familiare – questo non sembra essere più il principale elemento dirimente in gioco e prendono invece campo variabili legate a capitale culturale e struttura familiare. in accordo con gli ultimi risultati rilevati applicando nuovi parametri, nel biennio 2002-2003 in svezia il numero di adulti (popolazione tra i 16 e i 64 anni) in sovrappeso raggiunge cifre significative: pur mantenendosi al di sotto della media del continente, risulta essere in sovrappeso il 50% degli uomini e il 36% delle donne. nel regno unito il sovrappeso è un problema in forte crescita: considerando come parametro di riferimento il Bmi (indice di massa corporea), più della metà degli adulti risulta avere superato il limite del normopeso. anche tra gli adolescenti le percentuali di individui in sovrappeso e di obesi superano il dato medio europeo, e si attestano rispettivamente su percentuali del 13,7 e del 3,9 per i maschi, del 10,9 e del 2,7 per le femmine. un recente studio sulle condizioni di salute nella sola inghilterra ha rilevato come, considerando la fascia d’età 2-15 anni, un bambino su 20 e una bambina su 15 siano obesi (spronston, primatesta 2003); la survey inoltre mostra come il sovrappeso sia molto più diffuso nelle aree socialmente più svantaggiate sia per i bambini che per i giovani e gli adulti di entrambi i sessi. anche l’italia, come la maggior parte dei paesi più ricchi, non è esente dal problema spesso sottovalutato eppure insidioso del sovrappeso: considerando anche qui come parametro di riferimento il Bmi, il 48% degli italiani e il 38% delle italiane risultano in sovrappeso. tra gli adolescenti emergono problemi di sovrappeso in percentuali superiori (di 4 punti) al dato europeo solo per gli adolescenti maschi con il 17,1% di così detti preobesi. in generale, però, secondo uno studio coordinato da robertson (2004), in italia gli obesi rimangono su percentuali al di sotto della media europea con il 9,5% degli uomini (a fronte di un dato europeo di 15,3%), e con il 9,9% delle donne (a fronte di un dato europeo del 17,0%). Squilibri alimentari e sedentarietà. oltre al problema del sovrappeso, forte incidenza sull’insorgere di ipertensione, malattie cardiovascolari, diabete e tumori è da attribuire alla qualità dell’alimentazione e alla quantità e qualità dell’attività fisica quotidiana: due fattori che risulta assai utile prendere 96 Salute e disuguaglianze in Europa in considerazione. una vasta bibliografia39 conferma infatti l’alto grado di correlazione esistente tra posizione socioeconomica, abitudini alimentari e tendenza alla sedentarietà: facendo di questi ultimi due buoni indicatori di come la disuguaglianza sociale agisca sullo stato di salute. per il primo aspetto, la letteratura internazionale e le fonti statistiche considerano soprattutto il consumo sistematico di frutta e verdura, ritenuto da medici e dietologi in grado di abbassare di un terzo la probabilità di sviluppare una delle patologie sopra ricordate: tanto che esso è stato adottato a livello europeo quale indicatore (forse un po’ grossolano, ma sicuramente di facile comparabilità) di una alimentazione sana ed equilibrata. lo studio specifico condotto nei paesi europei su questi temi da Joffe e robertson (2001) ha ulteriormente confermato le ipotesi di partenza: nei paesi dell’unione gli individui con redditi più alti presentano abitudini alimentari più sane (a partire appunto da un maggiore consumo di frutta e verdura) rispetto alle persone con redditi più bassi. per l’analisi in corso, ricorrerò quindi prevalentemente ai dati relativi a questa abitudine alimentare. la situazione nei tre paesi sotto esame è assai differenziata, con interessanti profili nazionali facilmente riconducibili ai rispettivi caratteri sociali e culturali. secondo gli ultimi dati disponibili del WHo – risalenti purtroppo al 1989 – la svezia si colloca ben al di sotto della porzione media giornaliera raccomandata di frutta e verdura (400 grammi) con soli 265 grammi a testa al giorno. dati più recenti (ma ancora fermi al 1996) rilevati dalla commissione europea per la salute, confermano come il consumo medio quotidiano di tali alimenti in svezia sia rimasto pressoché stabile, con 250 grammi a testa al giorno, indicando dunque una regolarità nazionale abbastanza accentuata e scarsamente sensibile ai cambiamenti di contesto. il dato riportato, presentandosi in veste aggregata, è ovviamente capace di offrire solo un valore medio e non correlato alla posizione socioeconomica: ma ricerche più mirate (oltre a quelle già citate, si veda anche lindström, Hanson, Östergren 2001) confermano la relazione positiva tra status sociale e abitudini alimentari, con l’interessante notazione – che si riprenderà nel quinto capitolo – di una ancora più forte e diretta relazione tra partecipazione sociale e stili di vita salutisti (che comprendono anche l’attività fisica)40. ancora più sfavorevole la situazione del regno unito, se si guarda al medesimo indicatore del consumo procapite di frutta e verdura. come risulta da uno studio sullo stato di salute nazionale del 2004, il regno unito si colloca agli ultimi posti in europa, con un consumo medio di 209 grammi al giorno, a fronte come si è detto di una media giornaliera consigliata di 400 grammi. anche in questo paese, comunque, i dati e le ricerche di39 da Wilkinson (1996) a marmot (2004), fino – per citare una recente ricerca condotta in svezia – a Vågstrand (2008). 40 il riferimento è al testo di lindström, Hanson, Östergren 2001, che approfondisce questo aspetto nell’ambito del Malmö Diet and Cancer Study. Tre paesi, tre modelli: Svezia, Regno Unito, Italia 97 sponibili indicano chiaramente come il livello socioeconomico e la ricchezza del capitale culturale delle famiglie incida positivamente sulla qualità dell’alimentazione e dunque indirettamente sullo stato di salute: secondo meccanismi e attraverso processi di cui si darà più ampio conto nei prossimi due capitoli. nel caso del regno unito – ma, presumibilmente, anche in altri contesti nazionali – queste differenze di status sociale assumono anche valenza territoriale, come dimostra il fatto che la scozia sia tra le grandi regioni del paese quella che presenta in assoluto il più basso livello di consumo di frutta e verdura e insieme il peggior stato di salute41. profondamente diversa la situazione dell’italia che si attesta su posizioni decisamente virtuose all’interno del panorama europeo con ben 479 grammi di frutta e verdura pro capite al giorno, dunque al di sopra della quantità giornaliera raccomandata. le ragioni sono varie: nel nostro paese la relativa diffusione di una alimentazione di qualità è riconducibile oltre che ad una particolare attenzione e consapevolezza anche (o forse soprattutto) ad una grande disponibilità di quella particolare tipologia di alimenti e a una specifica tradizione alimentare. Buiatti, nel corso di una attenta analisi delle trasformazioni dell’alimentazione – che la stessa autrice definisce «epocali» – ricorda come in italia la forte sensibilità per una alimentazione più adeguata si registri «in concomitanza con la ripresa economica nei decenni seguenti al secondo dopoguerra: la maggiore disponibilità di cibo associata al ricordo della fame recente porta le famiglie ad aggiungere, più che a sostituire, componenti nei propri consumi alimentari e ad aumentare le quantità: negli anni sessanta del secolo scorso le carni, i grassi animali e gli zuccheri sono in forte ascesa mentre permangono alti i consumi di cereali e di vino e si riduce l’attività fisica. in questo quadro ‘di transizione’ la distribuzione della dieta per classe sociale presenta alcuni paradossi: le popolazioni del sud, più povere, conservano però le tradizioni della dieta mediterranea sia in termini di qualità che di moderazione dei consumi, ed esprimono, infatti, un rischio più basso di patologie cronicodegenerative legate alla dieta, soprattutto nei maschi» (in aa.VV. 2006, p. 281). come il vantaggio delle regioni meridionali dura solo pochi decenni, così il vantaggio dell’intera penisola è oggi sempre più duramente messo in crisi da nuove abitudini alimentari e da stili di vita classificabili come obesogenici. infatti, se si considera l’altro importante indicatore dell’healthy lifestyle, le abitudini quotidiane degli italiani rivelano aspetti decisamente negativi: i dati, molto eloquenti, riportati dal WHo (2004c) ci mostrano come il 34% degli uomini e il 46% delle donne di età compresa tra i 35 e i 74 anni dichiari di condurre uno stile di vita marcatamente sedentario, e di non praticare nessun tipo di attività fisica o di svago. anche in questo caso si assiste al combinarsi insieme in modo esplicito di elementi tipica41 risultato già emerso nello studio di piacentini (et alii, 1995), e confermato da più recenti indagini WHo. 98 Salute e disuguaglianze in Europa mente culturali a disponibilità di risorse economiche. una parte importante dell’attività fisica, sia dei più giovani che degli adulti, coincide ormai con gli sport e/o le attività formali organizzate da specifiche strutture, che possono rappresentare un costo insostenibile per i singoli e/o per le famiglie. l’esercizio fisico non formale, e per i più giovani la possibilità di trovare fuori di casa spazi di aggregazione e di gioco ‘liberi’, dipende sempre di più da un lato dalla tipologia del quartiere di residenza (qui vengono richiamate in gioco le risorse economiche del nucleo familiare e le scelte pubbliche di gestione del territorio) e dall’altro lato dalle competenze individuali e familiari (e qui giocano invece un forte ruolo il capitale culturale e la rete familiare e amicale). PaRTE SECONDa Il corpo, il nostro corpo, accompagna - spesso in modo silente - le transizioni biografiche di cui siamo protagonisti. Marca, con i cambiamenti che lo plasmano, il passaggio da una stagione all’altra della nostra vita; testimonia, con la sua forma, con la nostra postura, con il nostro modo di incedere, di volgere lo sguardo, la concatenazione dei ruoli sociali che abbiamo ricoperto, le relazioni sociali che abbiamo intrattenuto, più in generale tiene traccia delle diverse esperienze maturate nel corso della nostra vita. (cardano 2009, p. 123) Capitolo 4 Disuguaglianze sociali e salute: gli aspetti redistributivi le esperienze e i percorsi intrapresi dal soggetto plasmano e lasciano segni anche nel corpo svelando così un nesso (ancora troppe volte sottovalutato), o – meglio – una interdipendenza tra dimensioni più propriamente fisiche, materiali e biologiche e dimensioni più propriamente emozionali, relazionali e sociologiche. eventi occorsi durante il corso di vita, anche in un passato non più prossimo, vanno a segnare la fisiologia ed eventualmente il quadro patologico del corpo dell’attore sociale, come le cicatrici segnano nel fisico (e forse non solo) il militare1. la stessa malattia, fenomeno indiscutibilmente corporeo, può essere letta da un lato come conseguenza ultima di un insieme di scelte, abitudini, e situazioni negative per l’individuo e dunque per il suo stato di salute; dall’altro lato come momento di svolta (solitamente, ma non necessariamente, in senso negativo) e come frattura capace di imporre una drastica ridefinizione di ruoli e di possibilità; ovvero come un complesso di mutamenti che, se in alcuni casi possono poi risolversi in una costruzione diversa del sé, più frequentemente spingono verso il basso nella scala della disuguaglianza sociale. se dunque il corpo di ciascun individuo rappresenta il catalizzatore di condizioni ed eventi che poi accumula e rielabora sotto forma di stati di benessere o malessere, fino al manifestare stati di vera e propria malattia, si rende necessario approfondire l’analisi di ciò che precede tale fase di embodiement (shilling 1993 e 2001, cardano 2009), guardando a quei processi sociali e a quegli elementi che, secondo una ormai consolidata letteratura internazionale confortata dai risultati della migliore ricerca sociologica in Questo esempio è riportato da david Blane che esemplifica così, con efficacia, la sua più recente ipotesi secondo la quale: «the social is, literally, embodied». per approfondimenti si rimanda al capitolo The Life Course, the Social Gradient, and Health, in marmot e Wilkinson 2006. 1 Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 102 Salute e disuguaglianze in Europa questo campo, presentano un legame, talvolta particolarmente stretto talvolta meno, con le condizioni di salute degli individui. È la stessa, imprescindibile, dimensione corporea dell’individuo nella sua estrema complessità che spinge ad adottare un’ottica sincretica in grado di riconoscere limiti e punti deboli delle diverse teorie che hanno affrontato il tema, non perdendo di vista la questione di quali siano le disuguaglianze più rilevanti per strutturare chance di vita (e percorsi di salute) complessivamente disuguali. in particolare, ci si deve porre il problema se considerare congiuntamente o se scegliere tra disuguaglianze di tipo ascrittivo o di tipo acquisitivo; e ancora tra disuguaglianze di tipo redistributivo o di tipo relazionale. riguardo al primo punto va di nuovo riportata l’attenzione sul fatto che, facendo riferimento a società così dette avanzate, caratterizzate da economia di mercato, regimi politici democratici, e da una forte istituzionalizzazione dei diritti dei singoli, si vedono «le disuguaglianze connesse a caratteristiche ascrittive e di stampo collettivistico e normativamente fondate [essere sostituite], almeno in linea di principio, da disuguaglianze di stampo fattuale collegate a caratteristiche prevalentemente individuali e di natura acquisitiva» (saraceno e schizzerotto 2009, p.14). in altri termini si assisterebbe ad una fase di progressivo indebolimento di molte delle disparità tradizionali, legate alle appartenenze di genere, di generazione, di etnia, e ad un permanere di importanti disuguaglianze fattuali, prime fra tutte ancora quelle legate alla sfera economica e all’esercizio dei ruoli occupazionali. anche riguardo al secondo punto, superando una divisione che alla prova dei fatti risulta essere più artificiale che reale2, si sono seguite le indicazioni di saraceno e schizzerotto. per i due autori «la posizione complessiva di individui e gruppi nel sistema della stratificazione sociale o, se si preferisce, le complessive condizioni di vita di individui e gruppi dipendono congiuntamente dagli aspetti relazionali e da quelli redistributivi delle ineguaglianze sociali (corsivo mio). ciò non toglie che questi due aspetti siano 2 dalla letteratura consultata, anche relativamente a questo tema, emergono due principali prospettive interpretative, spesso in netta polemica fra loro. la prima fa riferimento a quegli autori che imputano a spiegazioni hard o ‘materiali’ le problematiche di disuguaglianza e salute e ritengono che esista un gradiente sociale di morbilità e mortalità (ovvero che la distribuzione delle malattie e dell’aspettativa di vita segua la stratificazione sociale) direttamente riconducibile a dinamiche operanti a livello di società piuttosto che a livello individuale (mackenbach et alii 2008, costa, cardano, demaria 1998). Fanno parte di questo gruppo in particolare gli studiosi che si attestano su posizioni ispirate prevalentemente da logiche economiciste (lynch et alii 2000, macleod et alii 2005), fino a sostenere che gli approcci materialisti devono necessariamente escludere gli aspetti – e i dati – più soft o immateriali. la seconda prospettiva, partendo dal presupposto che la struttura sociale non agisca come semplice elemento costrittivo e predittivo nei confronti dell’azione umana, bensì come elemento di influenza e supporto della stessa, ritiene sia cruciale tenere conto della dimensione culturale e di valore (tra tutti, Wilkinson 2001, marmot 2004). si sostiene, non a torto, che il limitarsi alle sole dimensioni riconducibili a determinanti materiali rischierebbe di fare apparire consequenziale il legame tra stati di deprivazione e cattiva salute, portando così a perdere di vista le dinamiche più propriamente sociali. Disuguaglianze sociali e salute 103 analiticamente separabili e, di conseguenza, che la più proficua strategia di ricerca consista nell’esaminare in dettaglio le loro reciproche associazioni empiriche» (2009, p.16). È seguendo questi indicatori che saranno portati avanti, in questa seconda parte del volume, gli approfondimenti tematici promessi, con particolare attenzione per una possibile ricostruzione dei più importanti processi sociali che definiscono il rapporto tra disuguaglianze sociali e salute e dei meccanismi individuali che ad essi danno corpo e specificità. si muoverà dunque dall’analisi di ben definite variabili di tipo acquisitivo 3 (reddito, istruzione, consumo, capitale sociale, ecc.), tenendone insieme tanto gli aspetti più quantitativi e strutturali, quanto gli aspetti più qualitativi e relazionali. dati, ricerche, studi di caso saranno riferiti pressoché in via esclusiva a svezia, regno unito e italia, per le ragioni che sono state già esplicitate nei primi capitoli del volume. attraverso una ricostruzione dei principali passaggi teorici e concettuali che hanno accompagnato i relativi percorsi empirici nei tre paesi, si tenterà di far emergere con più chiarezza natura e modalità processuale della relazione tra salute e disuguaglianze sociali. 1. Capitale economico e salute le disuguaglianze – come ricorda sen (1992, p. 48) – possono strutturarsi in spazi diversi, possono cioè riguardare il reddito, i beni primari, la libertà, le opportunità, agendo effetti complessivamente molto diversi fra loro in ragione della forza della loro interconnessione. la possibilità per ciascun individuo di fronteggiare e limitare le eventuali dinamiche di cumulazione degli svantaggi dipende prima ancora che dai processi di distinzione sociale, di strutturazione delle disuguaglianze e di riproduzione delle classi sociali, dalla disponibilità e dalla capacità di saper disporre al meglio del proprio bagaglio di risorse economiche, sociali, culturali, a loro volta correlate tra loro e soggette a dinamiche di potenziamento, o depotenziamento, reciproco (Bourdieu, passeron 1970) 4. le tipologie di capitale di cui ciascun individuo può essere dotato (in modo variabile) si distinguono – come è noto – in: capitale economico, capitale culturale e capitale sociale. il capitale economico è costituito da red- si è cioè deciso di prestare maggiore attenzione alle dimensioni dinamiche e potenzialmente in mutamento lungo il corso di vita di ciascun individuo, tralasciando in questa sede di approfondire uno studio rivolto alle variabili di tipo ascrittivo quali genere, età, gruppo etnico. per una concisa ma efficace esposizione dei principali studi su queste dimensioni si rimanda al testo di cockerham (2007), in particolare al capitolo Age, Gender, and Race/Ethnicity as Structural Variables. 4 più precisamente Bourdieu individua quattro forme di capitale: oltre all’economico, al culturale e al sociale viene infatti individuato dall’autore il capitale simbolico, una sorta di capitale dei capitali, data la tendenza manifestata da tutte le altre forme di capitale di manifestarsi simbolicamente. per approfondimenti si rimanda a Bourdieu 1983 e a marsiglia 2002. 3 104 Salute e disuguaglianze in Europa dito5, beni materiali, mezzi di produzione, che bene si prestano ad essere convertiti in denaro e in diritti di proprietà istituzionalizzati, e sono perciò facilmente misurabili, valutabili e comparabili. il capitale culturale corrisponde all’insieme delle proprietà, delle qualificazioni, e delle esperienze culturali di cui ciascun individuo dispone, o perché trasmesse e/o incentivate dalla famiglia, o perché conseguite durante il percorso scolastico, o infine perché acquisite attraverso la ‘frequentazione’ di determinati ambienti, o per via dell’appartenenza ad un campo culturale specifico: tale capitale, quando ufficialmente riconosciuto in termini di credenziali educative, può facilmente riconvertirsi esso stesso in capitale economico. infine, il capitale sociale indica l’insieme delle relazioni sociali di cui dispone, e che può mobilitare, un individuo, ed è anch’esso convertibile, in alcune situazioni, in capitale economico. le relazioni intercorrenti tra disponibilità di risorse economiche e stato di salute emergono solitamente in modo lineare e chiaramente intelligibile qualora osservate da una prospettiva macro e ricondotte a dati aggregati, si presentano invece in forme più complesse ed ambigue qualora la prospettiva privilegiata sia più ravvicinata e i casi comparati meno estremi. in altri termini, se il confronto tra gli stati di salute a partire dai più semplici indicatori di mortalità o di speranza di vita alla nascita è operato tra molto ricchi e molto poveri – siano essi singoli individui afferenti a diverse classi sociali all’interno di uno stesso contesto nazionale, siano essi paesi di cui si mette a confronto il diverso prodotto interno lordo – emerge facilmente come le condizioni di deprivazione materiale conseguenti all’insufficienza delle risorse economiche disponibili pesino seriamente sulle aspettative di vita, o forse in alcuni casi è più giusto dire sulle possibilità di sopravvivenza, di individui, di gruppi sociali, o di popolazioni. laddove accesso ad acqua potabile, alimentazione, igiene, condizioni abitative, servizi sanitari e istruzione sono risorse scarse e inadeguate, le aspettative di vita risultano essere sensibilmente basse6. non stupisce dunque che andando ad osservare i dati relativi all’aspettativa di vita media alla nascita dei paesi più poveri del mondo questa sia drammaticamente inferiore rispetto ai paesi più sviluppati e benestanti: se la svizzera con 40.840 dollari di pil 5 le ricerche su quelli che in letteratura sono solitamente indicati come determinanti sociali della salute concordano nell’individuare il reddito quale elemento capace di favorire l’accumulo di elementi di rischio e/o elementi negativi per lo stato di salute (costa, spadea, cardano 2004). Qualora alla dimensione del reddito si aggiungano condizioni svantaggiose di lavoro e un basso livello di istruzione tali dinamiche generano effetti ancora più potenti. 6 come ricordato recentemente da Giuseppe costa in occasione del seminario Disuguaglianze sociali e salute. Un confronto interdisciplinare tenutosi presso la Facoltà di scienze politiche di Bologna nel novembre 2009, al di sotto della soglia dei 7.000 dollari procapite annui il miglioramento anche minimo delle condizioni economiche comporta notevoli miglioramenti nelle aspettative di vita e, più in generale, nelle condizioni di salute; oltre tale soglia, invece, la relazione positiva si riduce sempre di più, fino a sparire, mentre prende campo il peso della disuguaglianza di distribuzione di reddito tra la popolazione. Disuguaglianze sociali e salute 105 pro capite annuo guadagna la posizione di paese più ricco del mondo e con 82 anni di aspettativa di vita alla nascita si posiziona anche tra i paesi con popolazione più longeva, la liberia con 260 dollari di pil pro capite annuo è invece il paese più povero, e l’aspettativa di vita alla nascita dei suoi abitanti non supera i 44 anni (WHo-sis 2006). ed è anche vero che all’estremo inferiore della scala la correlazione tra pil e stato di salute è molto forte, e che nei casi di maggiore deprivazione piccoli aumenti di risorse, pur non garantendo il superamento della soglia di estrema povertà, corrispondono comunque ad incrementi sensibili della speranza di vita – come ci confermano gli esempi della repubblica democratica del congo che con 270 dollari di pil pro capite annuo presenta una aspettativa di vita media di 47 anni, e del Burundi che con 320 dollari vede ulteriormente crescere l’aspettativa di vita media fino a 49 anni. eppure, come sostiene buona parte della letteratura7 e come già emerso più volte nei precedenti capitoli, indicatori esclusivamente economici non riescono a rendere conto della complessità della realtà sociale: non sono pochi infatti i casi che, non rispettando la stessa semplice correlazione tra pil e aspettativa di vita, vengono a complicare e a contraddire in parte il quadro appena illustrato. il niger, per esempio, pur registrando un pil pro capite annuo di 630 dollari, quindi quasi triplo rispetto a quello della in assoluto più povera liberia, presenta una aspettativa di vita media di soli 42 anni. ancora più significativo è il caso dell’angola dove l’aspettativa di vita è di 41 anni, pur dichiarando un pil pro capite annuo di 3890 dollari. infine, nel ribadire come il solo miglioramento delle condizioni economiche anche in situazioni di povertà assoluta possa essere considerato elemento necessario ma non sufficiente per un guadagno in termini di salute, si riporta il caso del lesotho: qui nell’arco degli ultimi 16 anni una situazione economica positiva, che ha visto crescere il pil da 1190 dollari pro capite annui nel 1990 a 1810 dollari nel 2006, si è accompagnata ad un crollo dell’aspettativa di vita media alla nascita passata da 61 anni nel 1990 a 42 anni nel 2006. ma se si torna a considerare la seconda prospettiva, quella più ravvicinata, e se si sceglie di comparare casi meno estremi come sono appunto quelli sotto esame in questo lavoro di ricerca, emerge ben presto come anche in quelle società che da tempo si sono lasciate alle spalle veri e propri stati di deprivazione materiale e dove la maggior parte della popolazione presenta un tenore di vita ben superiore alla soglia di povertà le dinamiche che entrano in gioco ed esercitano il loro peso su aspettative di vita e stato di salute si manifestano con forme particolarmente complesse e sottili, che vedono in azione meccanismi potenti e fortemente discriminanti. si veda, per tutti, l’autorevole posizione di sen (2000), secondo il quale la correlazione tra ricchezza nazionale e stato di salute è fortemente condizionata dal livello di sviluppo dei servizi sanitari ed educativi di base e dal grado di equità di distribuzione delle risorse, economiche e non solo. 7 106 Salute e disuguaglianze in Europa nell’affrontare in modo più approfondito la discussione sul peso delle variabili socioeconomiche nelle dinamiche di disuguaglianza e degli effetti di queste sullo stato di salute, è necessario anzitutto tenere conto di due principali questioni: l’una relativa alla centralità della dimensione socioeconomica rispetto ad altre variabili, l’altra relativa alla scelta di osservare il fenomeno in termini assoluti o in termini relativi. riguardo al primo punto, numerose ricerche (il riferimento, in particolare, è a link e phelan 1995) hanno posto in evidenza la centralità della posizione socioeconomica: questa, infatti, sarebbe la dimensione attraverso la quale i sistemi di redistribuzione delle risorse messi in atto da parte delle principali istituzioni della società, come lavoro e mercato, entrano direttamente a contatto e in qualche modo modellano i corsi di vita degli individui. coloro che occupano posizioni di vantaggio nella scala sociale dispongono di maggiori risorse e sono più equipaggiati per evitare le situazioni di rischio, le malattie, le conseguenze delle stesse malattie. nel medio-lungo periodo diventa poi centrale, nella relazione tra disuguaglianze socioeconomiche e salute, la capacità di riproduzione delle stesse posizioni socioeconomiche. proprio perché le posizioni di vantaggio garantiscono un accesso a risorse essenziali anche in periodi di mutamento sociale (così come in periodi di cambiamenti sanitari e/o epidemiologici), l’associazione positiva tra posizioni di vantaggio e migliore salute continua a persistere in epoche in cui cambiano radicalmente sia i fattori di rischio sia le patologie potenzialmente più letali. per questa ragione numerosi autori tra cui gli stessi link e phelan, e in modo ancora più radicale lynch, riconoscono alla posizione socioeconomica il ruolo di variabile fondamentale. passando alla questione della scelta di prospettiva, ovvero se concentrare l’attenzione sugli effetti della povertà tout court, limitando dunque l’analisi a precise fasce della popolazione, o piuttosto guardare alla più indeterminata ma più ampia povertà relativa, si è optato per la seconda prospettiva, seguendo, tra le altre, le indicazioni di Wilkinson (2000, p. 27 e seguenti). Questo autore suggerisce – senza perdere mai di vista il contesto dell’analisi, ovvero il fatto che si stia guardando a società sviluppate e relativamente agiate – di ridefinire la linea di confine tra condizioni di povertà e non, andando oltre parametri strettamente materiali e tenendo conto della disponibilità di tutte quelle risorse (di varia natura) necessarie per condurre una vita mediamente dignitosa rispetto al resto della società. lo stato di salute, insomma, se è vero che non può non risentire di una condizione di indigenza, ovvero di povertà in senso assoluto, è anche vero che risulta fortemente condizionato da quelle situazioni caratterizzate da uno svantaggio anche solo relativo. come ben evidenziato da numerosi studi, di cui si darà conto in dettaglio nei prossimi paragrafi, esiste un gradiente sociale di salute anche tra quegli strati di popolazione che indubbiamente godono di risorse sufficienti per collocarsi ben al di sopra di un livello convenzionale di povertà. Disuguaglianze sociali e salute 107 pur con variazioni di intensità nel corso dei decenni, permane il dato che vede i più ricchi – anche se solo in termini relativi – godere di migliori aspettative di vita rispetto a coloro che hanno meno. in particolare, emerge anzi che se la mortalità in senso assoluto dal dopoguerra in poi si è sensibilmente ridotta, sono invece aumentate le differenze tra tassi di mortalità relativi ai diversi strati sociali, dunque sono cresciute le disuguaglianze tra più e meno ricchi8. anche affidarsi alla rilevazione e all’interpretazione di soli dati quantitativi medi, come per esempio il reddito medio pro capite (o pil pro capite annuo) comporta pesanti limiti; questi e altri indicatori del tenore di vita, se intesi in termini assoluti, non possono offrire da soli una efficace chiave interpretativa, poiché incapaci di dare conto delle effettive modalità di distribuzione delle risorse tra la popolazione. ad esempio, là dove le differenze nella distribuzione del reddito si presentano in modo più marcato, proprio in virtù della forte correlazione che lega lo stato di salute al livello di disuguaglianza, la popolazione gode di un’aspettativa di vita inferiore: tale fenomeno sottolinea in modo emblematico la necessità di tenere conto, oltre alle risorse materiali, ovvero oltre a ciò che autori come lynch e Kaplan definiscono determinanti strutturali della salute, delle dinamiche psicosociali attivate da situazioni di svantaggio e agenti sulla salute. diversi livelli e diverse combinazioni di ansia, insicurezza, depressione, come diversi gradi di controllo e molteplicità o povertà di legami sociali, sono tutti elementi che hanno effetti più o meno intensi sullo stato di salute e che si vanno a cumulare a quelli riconducibili alle condizioni di vita materiali9. per tirare dunque, almeno momentaneamente, le fila del discorso e avere ben chiaro l’interrogativo che dovrà guidare le successive analisi, bisogna chiedersi perché le risorse economiche siano così importanti per la salute. oltre al fatto di rappresentare la risorsa fondamentale per la soddisfazione delle esigenze primarie, il reddito e/o la disponibilità di risorse economiche e materiali sono rilevanti anche per la realizzazione di obbiettivi «sociali, psicosociali, e simbolici»: un maggiore reddito – per esempio – oltre ad una maggiore disponibilità economica è generalmente associato a prospettive di carriera più gratificanti e certe, a mansioni più qualificate, si vedano marmot e Wilkinson (2001), che fanno riferimento al caso inglese. recentemente alcuni autori hanno sottolineato la necessità di mettere a punto stime della disuguaglianza economica in grado di tenere conto simultaneamente sia delle risorse materiali disponibili sia dell’entità dei bisogni da soddisfare con quelle stesse risorse. si sono perciò sviluppati «approcci multidimensionali all’analisi degli stati di deprivazione nei quali la povertà (monetaria) rappresenta una delle componenti della deprivazione stessa […]. anche la nuova indagine europea sulle condizioni socioeconomiche degli individui e delle famiglie – eu-silc, che dal 2004 ha sostituito l’European Household Panel – adotta questo approccio. non si limita, cioè, a rilevare i livelli di reddito, ma utilizza anche altri indicatori di benessere o di disagio» (saraceno e schizzerotto 2009, p. 23). 8 9 108 Salute e disuguaglianze in Europa fisicamente meno logoranti e meno subordinate, a maggiore autonomia, controllo, prestigio; la ricchezza, pertanto, risulta essere strettamente interrelata alla posizione sociale, al successo, e alla rispettabilità «tanto quanto la povertà è stigmatizzante» (marmot e Wilkinson 2001, p. 1233, trad. mia). la deprivazione vissuta in ambito economico, anche se relativa, spesso implica rinunce importanti, talvolta assolute, nello spazio delle capacità10. per dirla con sen: partecipare liberamente e pienamente alla vita della comunità, e ancor prima, come già ricordato da smith, poter apparire in pubblico senza vergogna11 sono attività sociali di carattere generale che richiedono un investimento di risorse, e in particolare di risorse economiche, in quantità dipendente dalla disponibilità media degli altri soggetti della comunità (sen 1992, p. 162). 2. Dal Registrar General all’Acheson Report come si è visto, gli studi inglesi hanno dato forse il contributo più importante allo studio della disuguaglianza sociale e dei suoi effetti sulla salute: già da metà del 1800, infatti, era noto come il segmento più povero della popolazione fosse più esposto alle malattie e godesse di una aspettativa di vita inferiore (macintyre 1997). in particolare, l’attenzione per le differenze dei tassi di mortalità in base alla classe socioeconomica di appartenenza può essere fatta risalire ai già citati studi sulla mortalità occupazionale condotti dal Registrar General a partire dalla metà del 1800. nel corso dei decenni l’impegno nel voler compiere regolari rilevazioni statistiche in questo campo – supportato dalla convinzione che fosse il miglior strumento per poter osservare il peso e gli effetti di un persistente health gap12– ha dovuto tenere conto, oltre che della profonda trasformazione del quadro epidemiologico, del venir meno di alcune categorie professionali e dell’emergere di nuove, di una complessificazione della struttura occupazionale, della flessibilizzazione delle carriere. Questa lunga tradizione di studio ha però anche portato ad affinare e rodare gli strumenti di rilevazione, tanto che oggi nel regno unito tutti i decessi vengono censiti, registrando per ogni caso causa e classe occu- l’idea di reddito «adeguato», come più volte ricordato da amartya sen, guardando oltre la dimensione strettamente quantitativa, deve ricomprendere la problematica della conversione delle risorse economiche in capacità: «quando l’ordinamento dei redditi è inverso a quello dei vantaggi relativi alla conversione del reddito in capacità, l’ordinamento di povertà e l’identificazione dei poveri possono produrre esiti assai diversi a seconda se vengono effettuati sulla base dell’ammontare del reddito (come comunemente accade in molti paesi) o sulla base dei risultati in termini di capacità» (sen 1992, p.158). 11 Qui il riferimento è ad adam smith (1759), che indagò questo tema in occasione della sua analisi sui «beni necessari». 12 nello stesso Black Report si legge: «class and occupational differences in rates of age-specific mortality offer the best alternative means of exploring the health gap in present day Britain». 10 Disuguaglianze sociali e salute 109 pazionale13 del deceduto: è quindi possibile, accedendo alle banche dati del Registrar General e del Census, stimare i differenziali di classe della mortalità. i principali studi che a partire dalla fine degli anni settanta hanno riportato alla ribalta il problema delle disuguaglianze sociali nella salute, da una prospettiva che – restando nel solco della più classica tradizione britannica in materia, come appena illustrato – si concentrava sulle interrelazioni tra classe socioeconomica (o, più direttamente, classe occupazionale) e stato di salute (o mortalità) sono il Whitehall Study (1967-1970), cui è seguita una seconda edizione nel 1985, il Black Report, e l’Acheson Report. il primo studio Whitehall, patrocinato dal ministero della salute pubblica, si poneva l’obbiettivo di analizzare le dinamiche intercorrenti tra classe sociale di appartenenza e stato di salute, e concentrava la sua attenzione su un preciso e definito contesto lavorativo, quello della pubblica amministrazione, caratterizzato da una «eterogeneità controllata» dei livelli occupazionali, e da una chiara scala gerarchica per mansioni e prestigio (marmot, Kogevinas, elston 1987). sul perché allora si sia optato per dedicare l’intera indagine ad un unico ben definito settore occupazionale e sul perché oggi quell’indagine resti una pietra miliare per quanti vogliano occuparsi di disuguaglianze sociali e salute (anche in contesti completamente diversi) autori come marmot hanno idee ben precise. riguardo al primo punto marmot ricorda che la decisione di prendere in esame un contesto almeno apparentemente omogeneo che escludeva dimensioni estreme quali grande ricchezza e indigenza, che si rivolgeva ad un gruppo di uomini adulti, con una carriera professionale sicura e dediti ad un lavoro di tipo non manuale, ma allo stesso tempo rigidamente inquadrati in un sistema gerarchico ben definito, fosse utile per semplificare le fasi di classificazione (che invece sarebbero state rilevanti e avrebbero portato ad inevitabili forzature e semplificazioni riduttive contemplando contesti più vari), Viene qui di seguito riportato uno schema riassuntivo del sistema di classificazione dalle occupazioni e delle relative classi sociali messo a punto dal Registrar General e comunemente adottato nelle ricerche britanniche, compresi i rapporti e le indagini cui tra breve si farà riferimento. 13 classe sociale occupazione i professionisti medici, avvocati, ingegneri, … ii manager e Quadri tecnici dirigenti, insegnanti, giornalisti, infermieri, … iii iV V (iii n) lavoratori non manuali specializzati (iii m) lavoratori manuali specializzati lavoratori manuali parzialmente specializzati artigiani, autisti, cuochi, … Guardie, coltivatori diretti, addetti alle macchine, ... manuali non specializzati manovali, addetti alle pulizie, … impiegati, commessi, cassieri, …. 110 Salute e disuguaglianze in Europa e tuttavia potesse portare a valutare il gradiente sociale in modo piuttosto preciso, e verosimilmente vicino a quella che fosse la sua real size, in ogni contesto (2004, pp. 38-41). sul secondo punto marmot è altrettanto chiaro: poiché il gradiente sociale nella salute rilevato dal Whitehall Study è huge, enorme, evidentissimo, l’indagine fornisce ancora oggi un esempio molto chiaro di come le disuguaglianze sociali possano marcare lo stato di salute. inoltre toccando anche altri due temi di rinnovata attualità, il peso del gradiente sociale sulla morbilità, e il peso del gradiente sociale sulla sensibilità alla prevenzione e l’accesso alle cure, il Whitehall si conferma una fonte ancora oggi preziosa di dati e di interpretazioni. ripercorrendone le tappe principali, si può cominciare con il ricordare che primo obbiettivo dell’indagine sia stato fare luce sull’incidenza delle malattie cardiorespiratorie tra i dipendenti pubblici britannici di età compresa tra i 20 e i 64 anni. la rilevazione condotta su un totale di 18.000 casi nell’arco di 10 anni, a partire dal 1967, porta alle conclusioni che esista una robusta associazione inversa tra il livello di occupazione, ovvero il grado nella scala gerarchica, e la probabilità di decesso per patologia cardiorespiratoria: gli impiegati ai più bassi livelli dell’organigramma (portinai, fattorini, ecc.) presentavano una probabilità tre volte più alta di malattia rispetto agli impiegati di più alto livello (marmot, shipley, rose 1984). oltre all’esito stesso dell’indagine, è interessante notare come già in questa occasione siano stati presi in considerazione aspetti e abitudini della vita quotidiana quali il sovrappeso, il fumo, la disponibilità di tempo libero, l’attività fisica, l’altezza; variabili che oggi a pieno titolo rientrano nel panorama delle dimensioni osservate – se pur da una prospettiva talvolta più complessa – al fine di determinare lo stato di salute. a seguito di rilevazioni della pressione arteriosa degli impiegati sul posto di lavoro, si comincia inoltre a dare rilevanza ad elementi di tipo più relazionale (primo fra tutti lo stress da lavoro) che già secondo questi primi studi avevano un evidente effetto negativo sul benessere. in particolare emergevano già allora come particolarmente deleterie e frustranti le pressioni e le tensioni, l’impossibilità di fare valere i propri skills professionali, l’assenza di prerogative e riconoscimenti (elementi che, come tra breve si avrà modo di vedere, sono alla base della teoria demand-control di Karasek e theörell) dopo un periodo di sospensione della ricerca – purtroppo, dal punto di vista scientifico, sospensione particolarmente negativa dato l’approccio di tipo longitudinale dell’indagine – una seconda fase del Whitehall prende avvio nel 1985 con l’obbiettivo di approfondire l’analisi delle relazioni tra livello occupazionale e stato di salute. come il precedente Whitehall Study anche questa seconda indagine si rifà ad un campione che ricomprende tutti i livelli dell’organigramma dei dipendenti pubblici: dai quadri e amministratori agli impiegati di livello più basso ai dipendenti incaricati della sorveglianza; inoltre, tenendo debitamente conto delle trasformazioni del mercato del lavoro e della maggiore partecipazione e indipendenza delle Disuguaglianze sociali e salute 111 donne, la survey si apre anche alle dipendenti di genere femminile. tra il 1985 e il 198814 a tutti i dipendenti di età compresa tra i 35 e i 55 anni impiegati in mansioni non manuali negli uffici pubblici dell’area centrale della città di londra – all’epoca 20 departments in tutto – viene proposto di partecipare all’indagine. Ben 10.308 dipendenti, il 73% dei contattati, accettano. tra questi 3.414 sono donne. la rilevazione prevedeva uno screening cardiovascolare da effettuarsi sullo stesso posto di lavoro, e la compilazione di un articolato questionario auto amministrato. un altro studio di grande rilevanza sul tema delle interrelazioni tra livello socioeconomico e differenziali nei tassi di mortalità della popolazione britannica è il Black Report, forse anche per l’attenzione che è riuscito a destare, in patria ma soprattutto all’estero. a differenza dei due studi Whitehall, che – come appena visto – concentrano la loro analisi su uno specifico gruppo di lavoratori e si interrogano principalmente sull’esistenza e quindi la rilevazione di un gradiente sociale nella salute, obbiettivo principale del Black Report è offrire un quadro completo delle condizioni di salute nazionali a distanza di circa trent’anni dall’istituzione del National Health Service. se dal punto di vista strettamente metodologico questo studio non si segnala per innovazioni particolari, restando anzi nel già collaudato solco di analisi secondaria di dati raccolti principalmente dall’Office for National Statistics, è invece rilevante l’interpretazione sociologica che di questi si dà, e gli spunti che si traggono per indirizzare l’agenda politica. il rapporto si articola infatti in tre principali sezioni: una prima parte (description) più descrittiva si concentra sulle differenze tra classi occupazionali per quanto riguarda mortalità, morbilità e accesso alle cure, concludendosi con un confronto tra regno unito e altre realtà nazionali. una seconda parte (analysis) è dedicata ad individuare le principali linee teoriche ed esplicative del problema e si articola nella descrizione di quattro principali filoni: quello «dei detrattori» (ovvero di coloro che negano si possa dimostrare una relazione tra classe sociale e mortalità), quello della selezione sociale, quello materialista/strutturalista, e quello culturale/comportamentale. infine, la terza parte del Report (recommendations) elenca una lunga serie di punti cruciali e raccomandazioni per tutti coloro che volessero affrontare il problema delle disuguaglianze della salute, sia da una prospettiva di studio sia da una prospettiva di politiche sociali (macintyre 1997). 14 a questa prima fase di raccolta dei dati ne sono seguite altre sei, sempre organizzate secondo una metodologia mista. nel corso degli anni sia i questionari autoamministrati sia gli screening medici sono stati aggiornati e integrati affiancando ai tradizionali parametri per la rilevazione delle funzioni cardiovascolari test su diabete e funzionalità epatiche e aggiungendo nella parte autocompilata specifiche domande su abitudini alimentari, stile di vita e test psicologici per valutare la salute mentale. anche nelle ultime tappe della ricerca, a distanza di 20 anni dall’inizio del progetto Whitehall ii, l’adesione del panel è stata alta con 7.770 partecipanti, circa il 75% del gruppo originario, ancora disponibili a lasciarsi seguire. 112 Salute e disuguaglianze in Europa oltre ai risultati pubblicati, è interessante ricordare anche le tappe che segnano l’avvio e poi la pubblicazione del Black Report: da tale retroscena emerge infatti chiaramente quanto il tema trattato creasse imbarazzi alla sfera politica, o almeno ad una sua parte, e quanto fosse scomodo da affrontare e gestire. tutto ha origine nel 1976 quando richard Wilkinson, già affermato epidemiologo sociale, dalle pagine della rivista «new society» si rivolge all’allora ministro del governo labour david ennals con una lunga lettera nella quale rendeva noti i primi risultati di un’indagine indipendente da lui stesso coordinata presso l’università di nottingham sul rapporto tra disuguaglianze di reddito e stato di salute: si insisteva in particolar modo sulla relazione esistente tra livello di reddito e abitudini alimentari; e di quanto queste fossero rilevanti nel mantenere o compromettere un buono stato di salute; e si concludeva chiamando in causa il governo e sollecitandone una azione diretta di monitoraggio e di intervento. la provocazione ha effetto e in breve tempo lo stesso ennals commissiona per conto del Department of Health and Social Security (oggi Department of Health) un’indagine sul tema delle disuguaglianze di salute ad una commissione di esperti, il cui coordinamento è affidato a sir douglas Black, che nel giro di due anni conclude il suo lavoro e si prepara a divulgare il suo rapporto conclusivo. nel marzo del 1979 però con le elezioni segnate dalla vittoria del partito conservatore lo scenario politico subisce un radicale cambiamento. il Black Report viene divulgato solo ad agosto del 1980 durante le Bank Holiday, in 260 copie disponibili per i soli media. tuttavia nonostante il tentativo di limitarne la diffusione e di farne passare inosservati gli scomodi risultati, il rapporto in breve tempo si diffonde e condiziona fortemente l’orientamento politico nazionale e di oltremanica. i temi della salute e della disuguaglianza vengono posti al centro dell’attenzione delle politiche pubbliche di numerosi paesi europei, e divengono uno dei principali temi di analisi del World Health Organization che ne promuove il monitoraggio nel contesto europeo. ma quali risultati rendeva noti questo studio tanto ignorato in patria, quanto tenuto in considerazione e preso a modello all’estero? il testo metteva in evidenza come nonostante il livello di salute fosse complessivamente migliorato a partire dal primo dopoguerra con lo sviluppo del sistema di welfare, le disuguaglianze di salute fossero andate potenziandosi. inoltre riconosceva la povertà quale principale responsabile di tali disuguaglianze. secondo i risultati della ricerca, il tasso di mortalità degli uomini appartenenti alla V classe sociale15 era doppio rispetto a quello degli uomini della i classe, inoltre il gap tra classi era in una fase di espansione, e non di riduzione come ci si sarebbe aspettato in un’epoca il riferimento è nuovamente alla classificazione delle professioni e delle classi sociali stilata dal Registrar General illustrata nei suoi dettagli in questo capitolo alla nota 13. 15 Disuguaglianze sociali e salute 113 ancora contrassegnata, nonostante le recenti crisi economiche, da diffuso benessere. in particolare nel rapporto si dichiarava di avere posto al centro dell’indagine i differenziali di mortalità – preferendoli ai tassi di morbilità e al livello di salute nella sua accezione positiva – in quanto variabile meglio definibile e già tradizionalmente registrata dal sistema anagrafico nazionale. similmente si optava per l’adozione del livello occupazionale quale proxy di posizione socioeconomica, utilizzandolo dunque come indicatore di disuguaglianza. pur consapevoli del peso e dell’importanza di altri indicatori, e dei limiti di quello prescelto16, gli autori del rapporto difendono la scelta effettuata in quanto una delle poche che permetteva di reperire dati completi e comparabili. i risultati dell’indagine confermano l’esistenza (e la forza) di quello che gli autori definiscono social gradient. esclusi i casi di mortalità neonatale e di malattie violente (ovvero quelle la cui degenza si caratterizza per tempi molto brevi ed esito infausto) che colpiscono l’intera popolazione con una distribuzione si potrebbe dire ‘equa’, e fatta eccezione per una certa resistenza del genere femminile per il quale le correlazioni sono meno chiare17, il gradiente sociale esercita il suo peso in modo rilevante in tutti i casi osservati di decesso di individui adulti e attivi, e in modo particolare nei casi conseguenti a patologie dell’apparato respiratorio18. il deterioramento della salute – fino ad arrivare al decesso – dei lavoratori manuali non specializzati e dei lavoratori manuali parzialmente specializzati a partire dagli anni ’60 fino agli anni ’80 viene dichiarato di livello impressionante: pur confermando infatti i trend di riduzione della mortalità neonatale e dell’allungamento della vita per ogni classe, a partire dall’età di 10 anni comincia a delinearsi un gradiente direttamente riconducibile, secondo gli autori del report, alla categoria occupazionale. per esempio: prendendo in esame l’insorgenza delle malattie croniche i lavoratori manuali non qualificati presentano un’incidenza doppia rispetto ai lavoratori manuali qualificati, e ventuno volte più alta rispetto alle loro mogli e rinella parte introduttiva del rapporto gli stessi autori sottolineano tra i limiti principali della loro scelta metodologica quello di avere escluso la popolazione non attiva, tra cui categorie particolarmente vulnerabili per quanto riguarda la salute come gli anziani/pensionati; e quello di avere tralasciato una serie di altri indicatori già riconosciuti di estrema importanza nel chiarire le dinamiche tra disuguaglianza sociale e salute come reddito, condizioni abitative, livello di istruzione. 17 mentre per gli uomini la posizione lavorativa, intesa come proxy delle condizioni socioeconomiche, rappresenta un buon predittore del gradiente sociale di mortalità, per le donne è preferibile fare riferimento ad un indicatore capace di dar conto della posizione sociale nel suo complesso. per approfondimenti si rimanda a marmot 2004, in particolare pp.42-43. 18 Questo dato sulle patologie dell’apparato respiratorio rilevato nel Black Report è in linea con i risultati degli studi Whitehall II che a loro volta documentano come l’essere fumatori sia il fattore di rischio più chiaramente correlato alla stratificazione sociale, proprio perché sempre meno diffuso man mano che si sale la gerarchia sociale, e rispetto al quale si registravano maggiori differenze tra le diverse classi occupazionali. 16 114 Salute e disuguaglianze in Europa spetto ai professionisti. ancora, a partire dall’adolescenza e fino all’età del pensionamento – quando le differenze legate alla carriera lavorativa si fanno di nuovo meno marcate ed entrano invece più fortemente in gioco altri elementi a cominciare da quelli di tipo più ascrittivo da una parte e di tipo fisico e biologico dall’altra, come età e patrimonio genetico – la probabilità di decesso per tutte le cause di morte dei lavoratori manuali non qualificati è sensibilmente più alta rispetto a tutti gli altri livelli occupazionali, ed in modo proporzionalmente crescente man mano che si confronta con livelli più qualificati. inoltre, nel periodo storico osservato (come già detto, nel ventennio compreso tra il 1960 e il 1980) si registra un progressivo distanziamento delle condizioni di salute dei lavoratori manuali non specializzati (gruppo V) e dei lavoratori manuali parzialmente specializzati (Vi) rispetto ai professionisti (i) e ai quadri tecnici (ii), ed un complessivo peggioramento nel corso degli anni per i lavoratori specializzati (iii). un ultimo studio tra quelli selezionati sul caso inglese, l’Acheson Report, risulta di particolare interesse, soprattutto per la sua capacità di testare se e quanto lo studio delle disuguaglianze di salute getti a sua volta luce su alcuni aspetti delle disuguaglianze sociali. nel 1997 il ministero per la salute, anch’esso espressione di un governo laburista, sensibile alle nuove richieste dell’opinione pubblica di un più attento monitoraggio della salute nel paese e più propenso all’impegno diretto al fine di garantire una maggiore equità sociale, dà incarico ad un gruppo di esperti diretti da sir donald acheson di redigere un accurato rapporto sullo stato delle disuguaglianze nella salute in inghilterra a partire dagli anni settanta, al fine di mettere a punto una nuova e più efficace strategia di intervento delle politiche. lo studio, a carattere longitudinale, viene costruito tenendo conto delle richieste del committente ma anche guardando alle precedenti esperienze sul campo, prima fra tutte quella del già citato Black Report, ma anche ai più recenti lavori della sezione europea del World Health Organization19, e attingendo a banche dati dell’Office for National Statistics (ons) e del Department of Health. Vi si prende in esame l’andamento della mortalità per tutte le cause dal 1970 al 1993 nel regno unito considerando come campione i cittadini maschi di età compresa tra i 20 e i 64 anni. i tassi di mortalità, rilevati negli anni 1970-1972, 1979-1983, 1991-1993, sono messi in relazione con le classi lavoratrici nelle quali è ripartito il campione, seguendo la ripartizione ‘classica’ già descritta. l’Acheson Report, dato alle stampe nel 1997, nella sua forma conclusiva presenta almeno due importanti caratteristiche: l’una riguardante l’impostazione adottata, l’altra le conclusioni esposte. infatti, pur rimanendo centrale l’analisi delle condizioni socioeconomiche, sviluppata nei capitoli 19 in particolare i documenti pubblicati con il titolo di Health for All. Disuguaglianze sociali e salute 115 dedicati al reddito, alla povertà, alla tassazione dei cittadini, alla posizione occupazionale, l’inchiesta si spinge ad indagare anche la dimensione socioculturale, cui dedica le sezioni relative a istruzione, famiglia, maternità e abitudini alimentari; la dimensione socioambientale, occupandosi di salubrità, adeguatezza delle soluzioni abitative, inquinamento, mobilità territoriale; e non manca, infine, di considerare anche quegli aspetti della disuguaglianza della salute più direttamente legate a genere, età ed etnia. l’adozione di tale complessa prospettiva, unita ad una lettura critica dei dati, porta gli autori a sottolineare la preoccupante crescita del divario nelle condizioni di salute tra coloro che ricoprono le posizioni più svantaggiate e coloro che invece si situano al vertice della scala sociale, pure in un periodo caratterizzato da un diffuso miglioramento delle condizioni economiche, degli standard di vita, e da un allungamento dell’aspettativa di vita media. provando a fornire solo qualche esempio: tenendo insieme i dati delle classi ai vertici della scala sociale (dunque combinando i dati delle classi i e ii) e quelli delle due classi più svantaggiate (iV e V)20, i ricercatori mostrano come in un arco di tempo che va dalla fine degli anni settanta alla fine degli anni ottanta (più precisamente tra il periodo 19761981 e il periodo 1986-1992) tra la popolazione di età compresa tra i 35 e i 64 anni senza distinzione di genere, la distanza in termini di mortalità per tutte le cause tra classi sociali abbia registrato un aumento significativo, passando da un 53% di probabilità maggiore di decesso per le classi iV e V rispetto alle classi ii e i, ad un 68%. conferme all’aumento del gap nelle condizioni di salute tra le fasce più abbienti della popolazione e le fasce più disagiate provengono anche dai dati relativi alle aspettative di vita media: se per le classi i e ii l’aspettativa di vita nel periodo osservato era cresciuta in media di 2 anni, per le classi iV e V l’aumento era stato di soli 1,4 anni. in altre parole: alla fine degli anni ottanta l’aspettativa di vita tra coloro che si situavano agli ultimi posti della scala sociale era di ben 5 anni inferiore rispetto all’aspettativa di vita di quanti occupavano posizioni ai vertici. l’impegno dei ricercatori si traduce, infine, in un elenco di ‘raccomandazioni’ (ovvero spunti, segnalazioni, indicazioni) finalizzate a rendere più efficace una ricalibratura delle politiche pubbliche. non solo offrendo suggerimenti in materia di interventi in ambito strettamente sanitario, bensì – data la molteplicità delle dinamiche riguardanti le disuguaglianze di salute – proponendo misure capaci di incidere sulla strategia di welfare state nel suo complesso. a cominciare, in particolare, da interventi mirati a ridurre le disuguaglianze di reddito e a migliorare gli standard di vita, con specifica attenzione alle donne giovani e con figli a carico in pur essendo estremamente suggestivo, il confronto diretto tra le due classi agli estremi della classificazione (classe i e classe V) riguardava una percentuale dell’intera popolazione piuttosto limitata, dunque poco rappresentativa. per tale motivo gli autori in sede di analisi hanno preferito operare alcune semplificazioni che hanno quindi comportato l’uso di dati combinati. 20 116 Salute e disuguaglianze in Europa modo da scongiurare il rischio che il periodo dei primi anni di maternità segni negativamente la carriera lavorativa ed economica del genitore solo e contemporaneamente condanni il minore ad una infanzia segnata da deprivazione e carenze di vario genere (condizioni che, come noto, possono avere implicazioni importanti sull’intero percorso di vita e di salute); fino a politiche volte alla promozione di percorsi di scolarizzazione compiuti e di qualità, e a raccomandazioni per il sostegno generalizzato all’occupazione; infine alla segnalazione dell’importanza della messa a punto di progetti di edilizia popolare che garantiscano a tutti i cittadini la possibilità di una abitazione confortevole e inserita in contesti urbani non degradati. 3. Stress e status syndrome anche la letteratura svedese presenta contributi di grande rilevanza per le tematiche qui affrontate. se finora guardando agli studi britannici è stato messo in luce l’aspetto più strettamente legato alla dimensione reddito/professione, si darà ora spazio ad una differente prospettiva, emersa dal lavoro di ricerca portato avanti a partire dagli anni sessanta da un gruppo di studiosi svedesi in collaborazione con colleghi statunitensi. l’interrogativo che guida Karasek e theorell, e che li condurrà fino all’enunciazione della loro nota demand-control theory, ha origine dal domandarsi se lo stress generato dall’ambiente di lavoro sia sufficientemente potente da causare disturbi cardiaci, che rappresentano – come è noto – la prima causa di morte della popolazione attiva nelle società industrializzate (1990, p. 1); e, prima ancora, quali siano quegli elementi attivi in ambito lavorativo capaci di generare lo stress. lo studio degli ambienti di lavoro contava già numerosi precedenti: a partire dalla diffusione del modello di produzione di massa negli anni venti, infatti, la sfera del lavoro viene in un primo tempo osservata e concettualizzata nei suoi aspetti di carattere prevalentemente fisico, ambientale e tecnico, già al centro del modello ford-taylorista, poi anche nelle sue dimensioni sociali e psicologiche, in particolare dalla scuola delle Human relations21. dopo la guerra, il tavistock institute promuovendo un approccio socio-tecnico, pone le basi teoriche e metodologiche per uno studio del «fenomeno lavoro» nel suo complesso, aprendo le sue indagini anche all’individuazione di alcuni elementi più propriamente qualitativi. a partire poi dagli anni sessanta, sia in svezia che negli stati uniti si vanno sviluppando veri e propri movimenti «per la salute dei lavoratori» (occupational health) che vedono un primo riconoscimento ufficiale rispettivamente nel 1970 con Già le pionieristiche ricerche di mayo, così come quelle della scuola motivazionale e della scuola sistemica, si inquadrano inizialmente nella grande configurazione delineata dal taylorismo. tuttavia, pur rifacendosi a paradigmi ancora profondamente ispirati a quel modello e a quelle logiche, le ricerche di mayo approdano ad una considerazione del lavoro connotata tanto da aspetti formali e tecnologici, quanto da altrettanto importanti componenti informali, motivazionali e affettive. si veda, per tutti, madge 1962. 21 Disuguaglianze sociali e salute 117 il U.S. Occupational Safety and Health Act, e nel 1974 in svezia con un analogo decreto. Questi movimenti, attingendo anche alla metodologia e agli strumenti delle scienze sociali, si prefiggono l’obbiettivo di garantire condizioni di lavoro salubri e una ridefinizione pragmatica delle mansioni lavorative così da eliminare o ridurre insoddisfazioni e frustrazioni, conservando comunque uno sguardo sempre attento ai benefici che ciò avrebbe comportato per i livelli di produttività aziendale. riscontrato che ambienti di lavoro caratterizzati da una estrema parcellizzazione dei compiti e da forte isolamento sociale – così come prevedeva il modello taylorista diffusosi nel periodo tra le due guerre prima negli stati uniti e poi negli altri paesi industrializzati – comportano un’alta frequenza di disturbi fisici e psichici e forte demotivazione, iniziano a farsi strada proposte di ridefinizione delle mansioni e di ‘democratizzazione’ degli ambienti di lavoro. sulla scia di tali lavori, Karasek decide di andare oltre lo studio delle malattie professionali e degli incidenti, entrambi anche troppo chiaramente riconducibili a precise mansioni e azioni e/o ad uno specifico ambiente di lavoro, e di dedicare invece le sue ricerche a quelle dinamiche relazionali che ipotizzava legassero insieme organizzazione sociale del lavoro e patologie psico-fisiche22. il primo passo a livello di ricerca sul campo è compiuto nel 1968, su un campione casuale di 1600 lavoratori svedesi, cui viene somministrata una intervista su condizioni di lavoro ed eventuali problemi cardiaci. i sintomi di patologie cardiache risultarono più comuni, con una incidenza nel 20% di casi, tra quanti avevano descritto la propria routine di lavoro caratterizzata da forti pressioni psicologiche (high demand) e da scarse facoltà di decisione (low control), ovvero da una ridotta o nulla possibilità di fare ricorso alle proprie conoscenze professionali. seguendo dunque una distribuzione direttamente proporzionale ai livelli di stress da lavoro, i problemi cardiaci erano molto meno diffusi in quella parte del campione che dichiarava di godere di ambienti lavorativi caratterizzati da bassi livelli di demand ed alti livelli di discrezionalità operativa. iniziato il sodalizio di Karasek con thöres theorell, esperto svedese di cardiologia clinica già impegnato in ricerche specifiche sui life-stressor, i due autori decidono di riconsiderare la prima versione del modello teorico, fortemente ispirato alla teoria marxiana dell’alienazione, alla luce delle anche Bourdieu ne La distinction, pur senza poi approfondire il tema, fa riferimento all’importanza di tenere conto degli effetti della condizione professionale e dell’ambiente professionale: intendendo con la prima tutte quelle attività più direttamente legate alla mansione lavorativa svolta e alle pressioni e agli stimoli da questa agiti sul bagaglio di conoscenze e competenze del singolo; con il secondo all’insieme di atteggiamenti in senso lato culturali propri di un gruppo omogeneo, almeno nella maggior parte delle relazioni che lo interessano. Questa prospettiva, secondo l’autore, implicherebbe di «prendere in considerazione le caratteristiche stesse del lavoro (livello di fatica, ecc.), le condizioni in cui esso si svolge (rumore o silenzio favorevole alla comunicazione, ecc.), i ritmi che impone, il tempo libero che permette di avere e soprattutto la forma dei rapporti orizzontali o verticali che promuove nell’ambiente di lavoro (durante il lavoro o negli intervalli di riposo) o al di fuori di esso, ecc.» (1979, p. 106). 22 118 Salute e disuguaglianze in Europa ricerche sullo stress e a mettere più chiaramente in relazione gli effetti della pressione dell’ambiente sociale (nel caso specifico, di lavoro) sullo stato di salute, in particolare sulle funzioni anaboliche e metaboliche. Quale primo elemento di rischio legato alle condizioni di lavoro viene dunque individuato il lack of control percepito dall’individuo circa le sue maggiori o minori possibilità di utilizzare e mettere a frutto le proprie conoscenze tecniche a fronte di una situazione che lo espone a pesanti richieste performative (Karasek, theorell 1990, p. 9)23. scendendo più nel dettaglio, il modello messo a punto da Karasek e theörell si basa sull’osservazione di tre fondamentali aspetti dell’attività lavorativa e dell’ambiente di lavoro: da un lato la pressione psicologica che l’individuo può subire sul luogo di lavoro, dall’altro lato la capacità o meno di far valere conoscenze tecniche acquisite unita – terzo aspetto – alla possibilità di controllare le fasi di lavoro. l’analisi combinata di queste dinamiche, ricondotte alle due dimensioni base della teoria, ha permesso agli autori di individuare quattro tipi di psychosocial work experience, che dunque corrispondono ai quattro possibili modi di combinarsi di un alto o basso livello di richieste, aspettative, pressioni (demand), e un alto o basso livello di controllo, autogestione, libertà decisionale (control). lo schema seguente mette in evidenza le combinazioni del modello bidimensionale. modello Demand-Control Psychological Latitude (Demand) High Low-strain (es: architetti, scienziati, programmatori) Passive Low Decision Latitude (Control) Low (es: bidelli, custodi, commessi, corrieri) High Active (es: medici, manager, docenti, coltivatori diretti) High-Strain (es: operai non qualificati, camerieri, pompieri, personale ospedaliero) 23 conferme alla teoria demand-control arrivano anche da un confronto con il Whitehall Study che – come precedentemente ricordato – rilevava una maggiore incidenza dell’infarto del miocardio tra le fasce meno qualificate dei dipendenti pubblici. se lo studio inglese attestava la forte relazione tra classe lavorativa di basso livello e maggiore incidenza delle patologie cardiovascolari, la ricerca svedese portava nuovi risultati complementari a questa, evidenziando una relazione forte anche tra la dimensione della scarsa autonomia decisionale e le forti pressioni psico-fisiche da un lato, e l’incidenza delle stesse patologie cardiovascolari dall’altro lato. Disuguaglianze sociali e salute 119 partendo dal quadrante in alto a destra, e procedendo in senso antiorario, alla combinazione di forte pressione/forte libertà decisionale corrispondono gli Active Jobs che devono il loro nome al fatto che sia le ricerche condotte negli stati uniti sia quelle condotte in svezia, avevano mostrato come il gruppo di lavoratori corrispondente a questi requisiti fosse il più attivo anche nella vita privata, impegnandosi in numerose attività ricreative, organizzando il tempo libero, partecipando alla vita politica e culturale, nonostante il forte impegno già speso nel lavoro24. Questa tipologia di lavoro, che rappresenta la situazione tipica delle libere professioni, richiede alti livelli performativi (spesso anche sul piano fisico) ma, garantendo al contempo ampi spazi di auto–organizzazione e buone possibilità di gratificazione, presenta un livello di tensione alto ma non frustrante e privo di ripercussioni particolarmente negative sull’equilibrio psicofisico. passando agli altri quadranti, è possibile vedere come nella categoria Low-Strain Jobs siano ricomprese le occupazioni caratterizzate da un alto livello di autogestione del lavoro, accompagnato da un basso livello di pressioni e richieste. Bassi stimoli combinati a scarso impiego delle proprie qualifiche si rivelano invece elementi non positivi: se pure quanti si trovano impiegati in una attività di tipo Passive Jobs risultano esenti da forti pressioni e particolari sforzi fisici e/o mentali, questa stessa situazione di passività si ripercuote sul loro patrimonio culturale professionale, rendendoli propensi all’inazione anche in ambito politico e sociale. infine, nel quarto quadrante, High-Strain Job, sono ricomprese tutte quelle occupazioni che richiedono un grande dispendio di energie fisiche, che sono sottoposte ad una forte pressione psicologica, e che hanno ridottissimi spazi decisionali: situazione questa che porta a sviluppare prima ansia e fatica poi disagio fisico e stress. il modello degli effetti agiti da esperienze di lavoro stressanti sulla salute viene arricchito anche dal contributo di siegrist che, da una prospettiva dalla quale si uniscono elementi sociologici e riscontri epidemiologici, valuta l’incidenza delle reciprocità di scambio nella vita occupazionale, là dove cioè alti costi e basse ricompense possono significare molto in termini di stress. il modello dell’effort/reward, che in italiano può essere reso con impegno/ricompensa, suggerisce che gli sforzi che gli individui compiono sul lavoro siano ripagati con tre diverse monete: sotto forma di denaro, sotto forma di stima (intesa anche nel senso di autostima), e sotto forma di opportunità di carriera, ovvero di mobilità sociale ascendente. Qualora impegno e sforzo non siano appropriatamente ricompensati, si innescano si tratta di un risultato che trova conferma anche in altri campi di indagine, in particolare negli studi sulla partecipazione politica, dai quali emerge con chiarezza come coloro che sono impegnati nella vita politica sono in realtà attori partecipanti anche nelle altre sfere di attività della vita sociale (raniolo 2008). 24 120 Salute e disuguaglianze in Europa reazioni di sofferenza emotiva e percorsi di stress biologico. in particolare, considerando la combinazione di un basso profilo di status (per esempio insicurezza occupazionale, scarse possibilità di carriera, …) a forte impegno, estrinseco (pressioni) o intrinseco (personali strategie di azione), anche questo studio riscontra l’insorgenza di problemi a livello cardiovascolare (siegrist 1996). ancora, i due modelli del demand/control e dell’effort/reward sono stati ripresi e ulteriormente sviluppati da marmot che li ricomprende nella sua più ampia teoria della status syndrome, secondo la quale le disuguaglianze sociali agenti sullo stato di salute, o in altre parole il così detto gradiente sociale, non rappresentano un elemento marginale e secondario nel determinare cattive condizioni di salute, bensì il cuore del problema, specialmente in quelle realtà sociali caratterizzate da benessere diffuso (2004, p. 2). dunque, le differenze di posizione sociale individuale sarebbero all’origine delle differenze di controllo e di capacità di sfruttare positivamente quelle stesse risorse necessarie per realizzare i progetti di vita che il soggetto si è prefisso. le esperienze sociali di disuguaglianza accumulate nel corso di vita, secondo l’interpretazione della status syndrome, sarebbero in grado, tramite la mediazione di un organo altamente complesso quale il cervello umano, di produrre effetti profondi sull’intero assetto psicofisico dell’individuo (marmot 2004 p. 6)25. in altre parole: la scarsa probabilità di essere dotati di facoltà di controllo, dinamica per altro più volte indagata nella storia del pensiero da autori che vanno da adam smith fino ad amartya sen26, comporta, anche nell’interpretazione di marmot, importanti risvolti negativi sulla salute sia a causa di un accesso più limitato alle risorse utili per la salute stessa sia attraverso vissuti di per sé patogenici (costa 2009) in quanto segnati da esperienze di scarsa autonomia e da scarsi riconoscimenti tanto economici quanto più estesamente sociali27. 25 riconoscendo nella neurofisiologia dello stress la risultante di percorsi di trasposizione nell’idioma corporeo della salute e della malattia di esperienze biografiche, autori come pearlin e schieman (et alii, 2005) sostengono l’ipotesi che il controllo che gli individui esercitano sul proprio destino costituisca un elemento cruciale, fino a spiegare perché lo stress colpisca più duramente le persone che ricoprono le posizioni inferiori della scala sociale: «detto altrimenti, la probabilità di vivere eventi di vita stressanti o di sperimentare ripetutamente relazioni sociali che innescano la condizione di stress cronico cresce muovendo dalla cima alla base della scala sociale, ed è questo ciò che determina le disuguaglianze di salute osservate» (cardano 2008 b, p.136). 26 nel brano qui riportato lo stesso sen, per spiegare «l’apparente paradosso» della deprivazione nelle società moderne e sviluppate, fa riferimento a smith (frase in corsivo):«la deprivazione relativa nello spazio dei redditi può implicare una deprivazione assoluta nello spazio delle capacità. in un paese che è generalmente ricco può essere necessario un reddito maggiore per comprare merci sufficienti ad acquisire gli stessi funzionamenti sociali, come apparire in pubblico senza vergogna. lo stesso può dirsi per la capacità di prendere parte alla vita di comunità. Questi funzionamenti sociali di carattere generale richiedono ammontare di merci che variano con quello che altri soggetti nella comunità in media posseggono» (1992, p. 162). 27 È curioso ricordare come lo studio sui dipendenti pubblici, quello stesso Whitehall Study cui marmot aveva collaborato, offra – in modo fortuito – l’occasione per mettere alla prova questa Disuguaglianze sociali e salute 121 4. Lo studio torinese in italia, dove l’interesse è di più recente data e meno sistematico, si segnalano tuttavia alcune ricerche di eccellenza. all’inizio degli anni novanta, in un momento storico e politico caratterizzato da una nuova attenzione verso i sistemi informativi sanitari e in particolare epidemiologici, anche in italia, più precisamente a torino, viene costituita una rete di sorveglianza della mortalità occupazionale (reso). il gruppo di ricercatori coinvolti in questo progetto, privilegiando una prospettiva aperta e multidisciplinare si propone di indagare quattro dimensioni ritenute cruciali nel processo di strutturazione della disuguaglianza: la qualità delle condizioni di vita e di lavoro; la povertà di risorse e di potere materiale; la povertà di risorse di rete sociale e familiare; la scelta (a libertà variamente limitata) di comportamenti a rischio. il progetto però si trova fin da subito nella necessità di affrontare una nuova sfida sul fronte interpretativo e non pochi ostacoli sul fronte operativo. la consapevolezza che la ricerca nello studio dei fenomeni di disuguaglianza sociale e della loro relazione con lo stato di salute dovesse aprirsi a nuovi indirizzi interpretativi, rendeva improrogabile un radicale cambiamento nelle «strategie di raccolta e di organizzazione dei dati statistici di base» e una apertura «verso modelli di studio capaci di monitorare le traiettorie di vita delle persone» (costa, cardano, demaria 1998, p. 48), secondo approcci e metodologie già sperimentati, come si è visto, nel regno unito e in svezia. inoltre, si deve ben presto fare i conti con un sistema di registrazione delle cause di morte assolutamente povero di informazioni e lacunoso28. come ricordato dallo stesso costa, la via seguita per ottenere «statistiche più accurate e approfondite» è stata quella di recuperare le informazioni mancanti dalle fonti censuarie o amministrative «attraverso l’utilizteoria. dopo che la prima fase di indagine era stata avviata, e quando già era stata portata a compimento la rilevazione dello stato di salute del campione, il governo britannico decise di appaltare ad un’azienda privata alcune mansioni, cedendo uffici, immobili e – per così dire – gli stessi impiegati. il cambio repentino di ritmi di lavoro e l’aumento della competizione, la maggiore precarietà e le maggiori insicurezze – tutte condizioni decisamente inusuali per quegli ambienti – fecero sì che tra i lavoratori si sviluppassero alti livelli di stress. con grande fortuna dei ricercatori, meno del campione, fu chiaramente possibile mettere in evidenza il legame intercorrente tra stress e insorgenza di problemi cardiovascolari; e ancora, in modo più complesso, mostrare come un mutamento di condizioni di lavoro conseguenti ad una ‘semplice’ operazione di privatizzazione avesse avuto grande impatto sulla qualità della vita dei dipendenti, fino a comprometterne in alcuni casi lo stato di salute (Griffin, Fuhrer, stansfel, marmot, 2002). 28 ancora nel 2009 costa, riguardo allo stato delle ricerche italiane sui temi delle disuguaglianze nella salute denuncia la «fase di stallo, intermedia tra una consapevolezza iniziale dell’esistenza del problema e l’incapacità di darvi seguito con programmi di azione coordinati, coerenti e non settoriali». Quindi sottolinea come in italia sia «ancora difficile misurare le covariate sociali in associazione con gli indicatori di salute» e siano carenti «i sistemi di indagine longitudinale multiscopo, gli unici che sarebbero in grado di disarticolare i meccanismi di generazione delle disuguaglianze di salute lungo le traiettorie di vita» (2009, p. 251). 122 Salute e disuguaglianze in Europa zo di procedure di record-linkage» (costa, cardano, demaria 1998, p.47) attingendo alle banche dati del censimento istat della popolazione, o di inps, anagrafe tributaria, inail. lo studio longitudinale torinese, insieme ad analoghe esperienze seguite a partire dal 1991 a reggio emilia29 e dal 1998 in toscana30, ha segnato un momento di svolta nello studio delle dinamiche di disuguaglianza nella salute e ancora rappresenta in italia una opportunità di studio importante e originale, tanto per le dimensioni della popolazione censita quanto per la lunghezza del follow-up disponibile, e una fonte preziosa di informazioni non solo su dimensioni strettamente legate all’oggetto specifico del programma reso, quali salute e mortalità, ma anche condizioni socioeconomiche, socioculturali, socioambientali degli individui monitorati (ricavati in modo trasversale da ogni censimento, e con possibilità di lettura longitudinale connettendo le informazioni disponibili dei tre decenni relative ad uno stesso individuo), offrendo dunque un vasto materiale di riferimento per successive analisi e interpretazioni. lo studio longitudinale torinese (slt) prende in analisi contemporaneamente tre coorti fisse31 della popolazione dei residenti nella città di torino, ‘arruolate’ rispettivamente negli anni 1971, 1981, 1991. di ciascun individuo censito è raccolto un insieme di informazioni, o record, relative a diversi eventi riguardanti il suo corso di vita. i record possono essere incrociati tra loro in diversi modi a scopi di analisi statistica. Gli autori anche lo studio longitudinale di reggio emilia, curato dall’azienda sanitaria locale, adotta il parametro della coorte fissa, arruolando tutti i soggetti censiti nel comune di reggio emilia nel 1991 e seguendoli nel tempo fino al dicembre 2001, termine stabilito del follow-up. la coorte censuaria si compone di 131.978 soggetti dei quali 88.812 in età superiore ai 30 anni, (40.861 maschi e 47.951 femmine). a conclusione dell’indagine il 77,0% (68.365 individui) della popolazione osservata risultava ancora vivente, il 15.4% (13.656 individui) era deceduto, mentre i soggetti persi in data nota o ignota erano 6.791 (7,6%). i dati riguardanti la mortalità della coorte sono stati completati attingendo agli archivi del dipartimento di sanità pubblica dell’azienda usl di reggio emilia. il quadro delle condizioni socioeconomiche è stato effettuato facendo riferimento al censimento istat 1991, e considerandone singolarmente e/o in modo aggregato alcuni indicatori quali titolo di studio, stato civile, occupazione, posizione professionale, tipologia dell’abitazione e del nucleo familiare. 30 È infatti dal 1998 che la messa in opera dello studio longitudinale toscano (slto) ha permesso di tracciare un primo quadro delle condizioni di salute anche in questa regione e di offrire nuovi spunti alle politiche sanitarie locali. l’esperienza toscana consta di uno studio di coorte da fonti censuarie effettuato sui residenti nei comuni di livorno e Firenze, e su studi descrittivi della mortalità per tutti i comuni della regione. «in particolare viene riportata l’analisi della mortalità per le due coorti censuarie relative ai residenti nei comuni di livorno e Firenze per i periodi 1991-1997; il confronto tra la coorte del comune di livorno 1981-1987 e 1991-1997; l’analisi della mortalità 1987-1999 in relazione all’indice di deprivazione materiale e sociale per il complesso dei comuni della regione toscana» (Biggeri et alii 2001, p.7) 31 più precisamente: i censiti nel 1971 sono 1.023.957, nel 1981 sono 1.091.288, nel 1991 sono 930.072. coloro che sono rimasti presenti durante l’intero corso dei rilevamenti (ovvero non sono stati soggetti ad uscita: né morti né immigrati) sono 527.974. 29 Disuguaglianze sociali e salute 123 hanno scelto di selezionare tutte le persone residenti e registrate nel censimento di popolazione del 1971. a partire da quella data tutti i nuovi nati o i nuovi immigrati, dunque anch’essi censiti come residenti nel 1981 e/o nel 1991, sono stati inclusi nello studio; tutte le persone emigrate, invece, escono dallo studio al momento dell’emigrazione (costa, cardano, demaria 1998, p. 48). Gli eventi ricorrenti lungo il corso di vita sono ripartiti in tre principali categorie: eventi demografici, eventi sanitari, eventi socioeconomici. Gli eventi di tipo demografico vengono seguiti attingendo alle registrazioni dell’anagrafe comunale, sono eventualmente riconducibili l’uno all’altro grazie al numero anagrafico comunale, che corrisponde ad un solo individuo il cui ‘curriculum’ diventa così tracciabile, e ricomprendono cause di morte, emigrazione, nascita di figli vivi per donna, mortalità infantile. Gli eventi di rilevanza sanitaria danno conto di incidenza di tumori, ricoveri ospedalieri (per causa), prescrizioni farmaceutiche per tipo di farmaco, e altri eventi oggetto di registri di patologia più specifici32. infine lo studio longitudinale si completa con una serie di informazioni, principalmente di tipo socioeconomico, riferite a singoli individui o a nuclei familiari, relativi ad area geografica di residenza (quartiere), tipologia abitativa, tipologia familiare, classe sociale di appartenenza. i risultati dello studio pubblicato nel 1998, a cura di costa, cardano e demaria, attestano la presenza di disuguaglianze nel complesso intense, regolari, crescenti. essendo però originate da due distinte dinamiche, le stesse, osservate più da vicino, presentano potenza ed effetti differenziati: la prima dinamica vede coinvolti tutti i livelli della scala sociale (dunque l’intera popolazione) e tende a generare differenze nella salute lineari, regolari e di intensità moderata; la seconda colpisce, e con maggiore intensità, le fasce più deprivate della popolazione e, sommandosi a traiettorie di vita caratterizzate da insicurezza sociale, contribuisce alla spinta verso situazioni di emarginazione economica e sociale. al di là di questa differenza, gli autori sono comunque concordi nell’affermare che le disuguaglianze nella salute «si osservano su tutte le dimensioni della struttura demografica e sociale: a parità di età, il rischio di morire è più alto tra i meno istruiti, nelle classi sociali più svantaggiate, tra i disoccupati, tra chi abita in case meno agiate e in quartieri più degradati, tra chi vive solo o in situazioni familiari meno protette. ma tale fenomeno non interessa solo le fasce estreme più svantaggiate della popolazione: su ogni dimensione che sia misurabile su di una scala ordinale si osservano vantaggi nel rischio di morte tra 32 il record-linkage di tali dati con i precedenti dati demografici se pure possibile paga però il prezzo di omissioni e insuccessi riconducibili alla (ancora) scarsa qualità delle informazioni relative ai ricoveri ospedalieri e alle prescrizioni. costa e demaria (con cardano 1988) ricordano come durante la prima fase della ricerca, in occasione dell’elaborazione delle informazioni censuarie del 1971, prevalentemente a causa dell’allora iniziale e delicata fase di automazione dell’anagrafe, l’insuccesso del record-linkage abbia superato il 15%. 124 Salute e disuguaglianze in Europa le posizioni superiori rispetto a quelle immediatamente inferiori» (costa, cardano, demaria 1998, p.269). oltre che per le sue conclusioni, in linea con quanto già rilevato dagli studi inglesi33, lo studio longitudinale torinese ha il merito di avere ribadito anche in italia, e relativamente ad un caso di importanza nazionale, la natura complessa e sfaccettata delle disuguaglianze nella salute e la loro multi causalità. partendo da una prospettiva di analisi degli strati sociali che privilegia l’aspetto economico, la ricerca si sviluppa poi in ben più numerose dimensioni, dall’ambito familiare a quello lavorativo, dal contesto residenziale alle differenze per età, storia migratoria, livello di istruzione. particolarmente interessante è la proposta di condurre l’analisi della relazione tra posizione sociale e mortalità adottando una prospettiva che include la «collocazione di classe degli individui» ma al contempo va ad osservare «le risorse culturali, espresse con il titolo di studio, e il patrimonio, espresso – molto approssimativamente – dal titolo di godimento dell’abitazione di residenza» (costa, cardano, demaria 1998, p. 118). ciò consente un interessante allargamento della prospettiva. partendo infatti dall’ipotesi che determinati comportamenti e atteggiamenti siano da mettere in relazione non tanto con la singola posizione ricoperta dall’individuo in un preciso ordinamento sociale, bensì con il grado di congruenza tra le posizioni occupate nelle diverse gerarchie sociali34, si propone una analisi delle relazioni intercorrenti tra le tre dimensioni prescelte della posizione sociale (posizione lavorativa, livello di istruzione, condizione patrimoniale), che ne metta in luce quella che gli autori definiscono «consistenza o inconsistenza di status» (forse mutuando il termine dalla statistica) ma che in questa sede si è preferito definire congruenza o incongruenza di status, forti dei riscontri della letteratura sociologica35. semplificando il quadro dei profili di status e ripartendo le varie posizioni lavorative in quattro categorie (borghesia, classe media impiegatizia, piccola borghesia, classe operaia), gli autori operano dunque per ciascuna di esse una valutazione del grado di adeguatezza sia del titolo di studio conseguito sia del titolo di godimento dell’abitazione (assegnando diversi punteggi alla condizione di proprietario e a quella di affittuario) e mettonella parte conclusiva del rapporto la ricetta politica per contrastare le disuguaglianze nella mortalità si ispira in parte a strategie di empowerment di individui, comunità e servizi già illustrate per il caso inglese da margaret Whitehead (1997). 34 la teoria della cristallizzazione di status, nota anche come teoria dello squilibrio di status, era stata sviluppata dal sociologo americano Gerard lenski già nel 1954, a partire dai seguenti tre punti: innanzitutto l’autore sottolineava come lo status sociale si connotasse per un carattere multidimensionale, quindi osservava come spesso gli individui non occupino la medesima posizione nelle diverse gerarchie sociali, infine metteva in luce come tale discrasia tra le posizioni occupate potesse indurre particolari condizionamenti sugli atteggiamenti e sui comportamenti dell’individuo stesso. 35 oltre al già citato testo di lenski (1954), si rimanda a nelson (1973), Blalock (1996), ragone (1998). 33 Disuguaglianze sociali e salute 125 no in relazione questi risultati con i corrispondenti indici standardizzati di mortalità36. pur dovendo tenere conto del fatto che le tre variabili considerate pesano in modo diverso a seconda del genere, e a seconda della stessa classe lavorativa di appartenenza, si arriva comunque a dimostrare come per tutte le classi sociali la condizione di incongruenza di status si accompagni ad una mortalità sistematicamente più elevata rispetto a quella propria di coloro i quali, a parità di posizione sociale, godono di un profilo di status più convergente37. È questo un risultato di sicuro interesse sociologico che pone particolarmente in evidenza come, oltre ai forse più noti studi britannici e svedesi, anche l’analisi longitudinale compiuta sulla popolazione torinese tenga conto di quelle che nell’ipotesi di lavoro adottata rappresentano le dimensioni principali di strutturazione delle disuguaglianze cruciali per le loro implicazioni sullo stato di salute. l’indice standardizzato di mortalità o Standardized Mortality Ratio (smr) è ottenuto moltiplicando per 100 il numero delle morti osservate e dividendole per il numero delle morti attese. un smr di 140 significa che la mortalità è pari ad 1,4 volte quella della popolazione di riferimento. 37 emblematico, tra i risultati conseguiti, è il caso della classe media impiegatizia, dove si osserva il seguente andamento: «il possesso di un titolo di studio superiore alle attese non sembra pregiudicare lo stato di salute, e comunque il pregiudizio arrecato è il meno grave di quelli osservati. […] per il resto, pur nei limiti dettati dalla debolezza statistica dei dati, sembra che tra i soggetti di questa classe il non disporre – a tempo debito – di una casa di proprietà deprima lo stato di salute più del non disporre di un’istruzione adeguata al proprio lavoro. particolarmente penose sembrano infine entrambe le mancanze accompagnate da un smr [indice standardizzato di mortalità] elevato e statisticamente significativo» (costa, cardano, demaria 1998, p.122). 36 Capitolo 5 La dimensione socioculturale il capitale economico, come si è avuto modo di vedere, è ormai considerato a pieno titolo una risorsa cruciale nei percorsi di salute, stabilmente associata a maggiori o minori chances di vita. lo stesso si può dire per il capitale sociale, che in particolare nella sua accezione di network di supporto è riconosciuto essere elemento di grande peso in relazione allo stato di salute. se ne parlerà nel prossimo capitolo. È invece meno indagato, anche se di indiscutibile interesse e importanza, il legame tra capitale culturale e salute1. competenze e conoscenze, valori, preferenze, atteggiamenti accentuano o riducono la propensione al rischio del singolo, ne acuiscono o limitano la sensibilità e l’attenzione verso il corpo, ne modulano l’accesso e la capacità di fruizione ottimale dei servizi sanitari e di prevenzione. tuttavia nell’attuale dibattito sulle dinamiche intercorrenti tra disuguaglianze sociali e salute, le analisi incentrate sul capitale culturale – per altro ancora poco sviluppate rispetto a quelle relative agli altri due tipi di capitale2 – presentano due punti deboli che non possono essere taciuti. innanzitutto manca una definizione univoca e condivisa di capitale culturale rilevante per la salute. in secondo luogo, là dove ci si propone di osservare le dinamiche di disuguaglianza da una prospettiva multidimensionale che guardi alle interrelazioni tra capitali, solitamente il capitale culturale viene in un certo modo fatto oggetto di analisi, ma considerandone e indagandone solo quelle dimensioni facilmente rappresentabili statisticamente, e dunque spesso appiattendo le sue molte sfaccettature e articolazioni sul solo titolo come messo in evidenza da molti: si vedano ad esempio gli interventi di malat e Khawaja, entrambi del 2006. 2 in una recente pubblicazione cockerham (2007, in particolare p. 116 e seguenti) ricorda come nell’ambito della sociologia medica gli studi esplicitamente dedicati allo studio del rapporto tra disuguaglianze socioculturali e salute siano ancora molto rari. 1 Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 128 Salute e disuguaglianze in Europa di studio, che ne rappresenta invece un proxy, se pure importante. in questa sede, si cercherà – a partire dall’imprescindibile lezione di Bourdieu – di ricostruire un quadro teorico di riferimento quanto più possibile ricco ed esaustivo ripercorrendo le esperienze di ricerca più significative sui processi sociali e i meccanismi individuali attivati da questa risorsa nelle dinamiche di salute. 1. Capitale culturale e salute il capitale culturale si presenta in tre differenti forme, analiticamente distinte: in forma incorporata, in forma oggettivata, in forma istituzionalizzata. atteggiamenti, orientamenti valutativi e pratici, modi di pensare, cioè tutti quegli schemi di apprendimento e di valutazione della cultura fatti propri nei primi anni di vita mediante i processi di socializzazione primaria vanno a costituire il capitale culturale di tipo incorporato di cui ciascun individuo, in misura diversa, dispone (Bourdieu 1979b). «l’accumulazione di capitale culturale incorporato comincia molto presto nell’infanzia e dipende ovviamente dalla famiglia. essa richiede un lavoro pedagogico da parte dei genitori e degli altri familiari, specificamente orientato alla sensibilizzazione rispetto alle esperienze e alle distinzioni culturali; presuppone una distanza dalla necessità economica che traduce il vantaggio economico in vantaggio culturale; si esprime in un investimento che frutta all’interno della scuola in termini di successo e riconoscimento» (marsiglia 2002, pp. 88-89). Questo tipo di risorsa, le cui qualità e quantità sono dunque in buona parte condizionate dall’ambiente familiare d’origine, è essenziale per poter distinguere, apprezzare, trarre beneficio da qualsiasi tipo di bene culturale, di cui il semplice possesso, qualora non accompagnato da relativa consapevolezza o capacità di fruizione, non ne permette l’effettivo godimento. il capitale culturale incorporato si riferisce dunque alle disposizioni più profonde dell’individuo, non può essere fatto oggetto di transazione, e costituisce la risorsa fondamentale per poter disporre pienamente del secondo tipo di capitale culturale, quello oggettivato, costituito da quell’insieme di beni concreti (dai libri alla musica alle opere d’arte) ereditabili e/o scambiabili secondo le tradizionali regole di mercato. infine, il capitale culturale può manifestarsi in forma istituzionalizzata. poiché il livello di istruzione viene oggettivato sotto forma di titolo di studio socialmente riconosciuto, il possesso di capitale culturale può essere valutato anche in modo quantitativo e indipendentemente dalle caratteristiche peculiari del singolo individuo, andando a costituire una risorsa socialmente apprezzabile e spendibile3. il livello di istruzione conseguito presenta un duplice nelle società moderne la crescente importanza del capitale culturale istituzionalizzato ha comportato significative conseguenze sociali, prima fra tutte «la creazione di un mercato delle qualificazioni e delle credenziali educative come base per l’emergere di una nuova fonte di 3 La dimensione socioculturale 129 registro: considerandone gli aspetti più propriamente relazionali, designa innanzitutto il possesso di credenziali educative che autorizzano l’accesso a specifici segmenti del mercato del lavoro; come ricordato dallo stesso Bourdieu: «i principi più visibili delle differenze ufficiali (cioè ufficialmente registrate negli statuti salariali), che si possono osservare all’interno della classe operaia, sono l’anzianità e l’istruzione (tecnica o generale)» (1979a, p. 399). Guardando invece agli aspetti distributivi, il livello di istruzione conseguito può essere una significativa espressione della disponibilità (pregressa e attuale) di due risorse sociali particolarmente rilevanti anche nell’ambito della salute, il capitale culturale e il capitale sociale. il bagaglio di diversi capitali di cui l’individuo è (o, per certi versi, si è) dotato può orientarlo ad ambizioni di mobilità sociale ascendente, spingendolo quindi ad adottare quello che Bourdieu chiama atteggiamento ascetico: espressioni articolate in una serie di comportamenti che vanno dalla propensione ad avere un numero più contenuto di figli a «la pratica della ginnastica e del nuoto»; e insieme nella propensione a mostrare una buona volontà culturale «come la visita a castelli e monumenti, la frequentazione del teatro e dei concerti, il possesso di dischi, o l’iscrizione ad una biblioteca» (1979a, p. 401). oltre che per la carriera sociale, però, tali risorse, e in particolare il capitale culturale, risultano di fondamentale importanza, come tra poco si avrà modo di vedere, per difendere, mantenere, ripristinare un buono stato di salute. nel processo di accumulazione del capitale culturale un ruolo sicuramente centrale è giocato dal sistema scolastico. Questa istituzione, oltre a operare una prima ‘classificazione’ tra gli studenti, a sua volta si rivela essere «un sistema di classificazione oggettivato che riproduce, in forma trasmutata, le gerarchie del mondo sociale, con i suoi tagli tra livelli che corrispondono a strati sociali, e le sue divisioni in specializzazioni e discipline, che riflettono all’infinito delle divisioni sociali come la contrapposizione tra teoria e pratica, soggetto ed esecuzione – trasforma, apparentemente in modo neutrale, delle classificazioni sociali in classificazioni scolastiche, e stabilisce delle gerarchie (che non vengono affatto vissute come esclusivamente tecniche, e quindi parziali ed unilaterali, ma come gerarchie totali, fondate in natura) che in tal modo spingono ad identificare il valore sociale ed il valore personale, la dignità scolastica e la dignità umana. la cultura, che si ritiene garantita dal titolo di studio, è una delle componenti fondamentali di ciò che costituisce l’uomo compiuto, nella sua definizione dominante; sicché la privazione viene percepita come una sostanziale mutilazione, che colpisce la persona nella sua identità e nella sua dignità di uomo, condannandolo al silenzio in tutte le situazioni ufficiali in cui si depotere autonomo per gli intellettuali, e di una crescente autonomia della cultura dai poteri economici e politici, nonostante la permanenza di forme strutturali di dominio attraverso meccanismi come quello del mercato» (marsiglia 2002, p. 91, nota 30). 130 Salute e disuguaglianze in Europa ve comparire in pubblico, mostrarsi di fronte agli altri, con il proprio corpo, le proprie maniere, il proprio linguaggio» (Bourdieu 1979a, p. 399). il capitale culturale dunque – come peraltro ogni forma di capitale – può essere trasmesso, può essere acquisito ex novo, e necessita di adeguate capacità di utilizzo per essere ben speso4. ma quali sono le interazioni tra la risorsa capitale culturale e lo stato di salute? perché una buona convertibilità dei capitali l’uno nell’altro, garanzia della loro stessa riproduzione, è importante anche nell’aumentare le probabilità di una vita in salute? intanto perché il rendimento scolastico, in alcuni casi, può avere una funzione di affrancamento e offre una chance importante, una strada alternativa per acquisire (o riacquisire) prestigio e rinforzare l’autostima individuale condizionando in senso positivo anche le aspirazioni e le proiezioni per il futuro. inoltre, rispondendo a questi interrogativi da una prospettiva tipica del pensiero di sen: poiché la relazione tra beni primari (tra cui il reddito, ma non solo) e star bene varia a seconda delle individuali capacità/possibilità di convertire gli stessi beni primari in star bene acquisito (1992, p. 47), risulta chiaramente il ruolo chiave giocato dalle risorse culturali nel rinforzare la dimensione della capability. ruolo chiave che viene di nuovo messo bene in luce andando a riconsiderare le dinamiche che ruotano intorno ai comportamenti a rischio, questa volta proprio da una angolatura socioculturale. il peculiare amalgama di atteggiamenti credenze e valori che, declinato in un certo modo, può diventare propensione al rischio offre, infatti, una eloquente misura della rilevanza del capitale culturale nella dimensione della salute: la qualità e la quantità disponibili di tale risorsa contribuiscono a strutturare e modellare le preferenze temporali, e più in generale, a ridefinire l’ampiezza degli orizzonti entro cui progetti e preferenze prendono forma. all’estensione di tali orizzonti si lega la capacità di tenere conto delle conseguenze a medio e lungo termine delle proprie azioni o, rifacendoci a quanto detto da Fuchs (2004), la capacità di investimento in salute a lungo termine. se la consapevolezza delle conseguenze di alcune scelte e di alcune abitudini, per esempio l’adesione o meno a programmi di screening, o l’essere fumatori, costituisce una risorsa importante per la preservazione di buone condizioni psicofisiche, non meno importanti risultano essere le competenze linguistiche e relazionali che modulano accesso e utilizzo ottimale dei servizi sanitari e mettono a disposizione nozioni preziose per fronteggiare al meglio una eventuale emergenza sanitaria. per esempio, comprendere l’importanza di investire nel contenimento dei comportamenti insalubri, o nel tipo di alimentazionota cardano: «capitale culturale e capitale sociale – sotto questo profilo assai simili al capitale economico – possono essere trasmessi da una generazione alla successiva, dove chi eredita aggiunge a quello ricevuto il capitale cumulato autonomamente. il capitale ereditato può essere impiegato oppure, per così dire, lasciato in soffitta insieme ad altri scomodi ricordi di famiglia; può essere valorizzato, rendendolo più produttivo, ma può anche essere irrimediabilmente dissipato» (costa, spadea, cardano 2004, pp. 128-129). 4 La dimensione socioculturale 131 ne, permette di non dissipare il capitale di salute di partenza, e dunque di goderne i vantaggi con il trascorrere del tempo, potendo contare su una vita più lunga e in buone condizioni. inoltre, come ricorda cardano, esiste anche una relazione indiretta tra capitale culturale e salute: «la disponibilità di capitale culturale, assieme all’esperienza quotidiana della sua profittabilità, accrescono il senso di autostima e il sentimento della propria efficacia personale, disposizioni che hanno un nitido impatto positivo sulla salute» (2004, p.128). un riscontro empirico all’ipotesi che le disuguaglianze manifestatesi a livello di aspettativa di vita e stato di salute siano riconducibili a variabili socioculturali (nel caso specifico al livello educativo) è offerto dallo studio di recente pubblicazione (2009) curato da eikemo, Huisman, Bambra, e Kunst dove si pongono a confronto tra loro le diverse dinamiche di strutturazione delle disuguaglianze osservate in 23 paesi europei con diverse tradizioni di welfare. elaborando i dati raccolti dalla european social survey (ess) su un campione di 80.000 individui monitorati, lo studio si concentra su due grandi famiglie di indicatori: quelli relativi alla percezione di uno stato di salute mentale e fisica, e quelli finalizzati al rilevare la presenza di malattie invalidanti di lungo termine. le disuguaglianze nella salute riconducibili a diversi livelli di educazione sono valutate mettendo a confronto aspettativa di vita media e cause di mortalità di quanti presentano un numero di anni di formazione scolastica in media con i dati nazionali, con aspettativa di vita media e cause di mortalità di quanti presentano invece un numero di anni di frequenza delle aule scolastiche al di sotto di tale media. considerando come variabili di riferimento condizioni di salute e livello di istruzione, gli autori rilevano che i sistemi di welfare dell’europa meridionale presentano disuguaglianze più importanti, fatta eccezione per le malattie invalidanti di lungo periodo caratterizzate da differenze più contenute nei tassi relativi, mentre i paesi con regime di welfare bismarkiano5 tendono a presentare disuguaglianze più contenute (eikemo et alii 2009, p. 2 e seguenti). si distingue la posizione dei paesi scandinavi che, da quanto rilevato in questo studio, si collocano in posizioni meno virtuose rispetto a paesi anglosassoni ed europa dell’est: le garanzie e i servizi elargiti da un sistema universale e fortemente redistributivo pare, infatti, non siano in grado di annullare gli effetti negativi di deprivazione relativa e stile di vita legati all’appartenenza sociale. la spiegazione più convincente di ciò pare sia quella proposta da avendano, Jürges e mackenbach (2009)6, in questo lavoro – come specificato nella parte finale del secondo capitolo – si è scelto di riferirsi al modello di diretta ispirazione bismarkiana con i termini «corporativo» o «conservatore». 6 Gli autori effettuano una accurata indagine dello stato di salute della popolazione over 50 in relazione ai livelli di scolarizzazione in tre macroaree del continente europeo (nord, ovest, sud). per approfondimenti si rimanda al testo. 5 132 Salute e disuguaglianze in Europa che mette in evidenza come nei paesi scandinavi sia più forte la correlazione tra basso titolo di studio e posizione occupazionale svantaggiata, con relativo basso livello di reddito: un insieme di elementi e condizioni che, come noto, incentiva l’insorgere dei così detti comportamenti a rischio. un altro importante elemento da tenere comunque in considerazione è quello relativo ai limiti delle risorse sociali, siano esse di tipo economico o relazionale, siano esse di tipo culturale: se da un lato è giusto ribadire il peso del capitale culturale nel preservare da quelle patologie la cui insorgenza è più chiaramente riconducibile ad abitudini e stili di vita insalubri, dall’altro lato bisogna riconoscere l’impossibilità (almeno attuale) di incidere su alcune dinamiche più specificamente biologiche. la disponibilità dei diversi tipi di capitale sopra illustrati ha un riconosciuto effetto di protezione della salute, in particolare da quelle malattie croniche e invalidanti che vanno a colpire con minore frequenza gli individui socialmente più avvantaggiati. la stessa relazione non è però rilevabile per le sempre più diffuse patologie di tipo degenerativo (alzheimer, parkinson, sclerosi, …) che colpiscono la popolazione con modalità influenzate da altre variabili, di chiara natura non sociale. 2. Il peso dell’istruzione: approfondimenti empirici un primo importante lavoro è quello condotto da erikson (2001), sulla scorta dei risultati messi in luce dal Whitehall Study. È a partire da queste ipotesi di lavoro (frutto a loro volta di risultati di ricerca) che in vari paesi vengono condotti alcuni studi miranti all’approfondimento empirico delle relazioni tra capitale culturale, stato di salute e altre variabili di natura demografica e sociale. l’autore si pone l’obbiettivo di sondare l’esistenza di un gradiente sociale tra la popolazione adulta svedese a partire dai dati censuari del 1990. in virtù del fatto che la svezia presenta un profilo socioeconomico più egualitario, l’autore sceglie di concentrare in modo particolare le sue ricerche sull’eventuale esistenza di una correlazione significativa tra livello culturale e stato di salute, partendo dall’ipotesi che il titolo di studio giochi sui modelli culturali un ruolo spesso più determinante rispetto a quello agito dal reddito, e proprio per ciò presenti importanti implicazioni nel determinare le condizioni di salute, fisica e mentale. prendendo in considerazione il segmento d’età dei sessantaquattrenni nel 1990 tra la popolazione maschile, e registrando i decessi di questo campione fino al compimento dei 70 anni, quindi seguendolo fino al 1996, si rileva – dato per altro non sorprendente – una più alta mortalità tra coloro che presentano un livello di istruzione minimo (quello conseguito per aver frequentato la sola scuola dell’obbligo), fenomeno che va via via riducendosi in modo inversamente proporzionale al titolo di studio. l’autore però fa alcuni passi avanti. ciò che in particolare attira la sua attenzione è il fatto che gli uomini che avevano conseguito il titolo di dottori di ricerca, ovvero avevano raggiunto il livello più alto di capitale La dimensione socioculturale 133 culturale istituzionalizzato, presentassero un tasso di mortalità inferiore del 50% rispetto a coloro che sono laureati. anche considerando poi l’influenza di una serie di altri indicatori piuttosto facilmente quantificabili e ordinabili, quali reddito percepito, tipo di lavoro, standard di vita, la differenza di maggior rilievo tra i due sottocampioni resta proprio quella del livello di istruzione, cioè del capitale culturale. seguendo l’interpretazione di erikson – piuttosto vicina, per certi aspetti, alla teoria mertoniana del vantaggio cumulativo7 – si può leggere questo risultato come la dimostrazione che il gradiente di mortalità segna anche i destini degli individui appartenenti alle fasce più alte della sociètà8, per il fatto che un livello più alto di educational status offre alle persone un maggiore controllo sulle loro carriere di vita e tutta una serie di benefici – come riconoscimento sociale e prestigio, appagamento e gratificazioni – che, se pure difficilmente rilevabili con i parametri più classici, agiscono effetti fortemente positivi sulle condizioni generali di salute e sulle aspettative di vita. l’ipotesi di una significativa correlazione tra mobilità di classe intergenerazionale e mortalità per malattie cardiovascolari in una prospettiva che guarda specificamente al ruolo del capitale culturale è invece indagata da un altro studio svedese, frutto di un lungo lavoro di monitoraggio (tikkaja, Hemström, Vågerö 2009). il punto di partenza è il censimento di tutte le donne nate in svezia tra il 1945 e il 1959, e la costruzione di un database di 791.846 casi, che raccoglie dati su percorsi scolastici, carriera occupazionale, eventi legati allo stato di salute, eventuali decessi: dati che dicono molto anche su dinamiche strettamente riconducibili alle disponibilità e capacità di far fruttare il proprio capitale culturale, come risulta ad esempio dalla significativa influenza del titolo di studio conseguito sulla mortalità stimata, influenza più forte di quella attribuita alla variabile reddituale. anche in questo caso il capitale culturale dimostra quindi di essere un elemento chiave nel contrastare quando solido, o nel dare continuità quando povero o inadeguato, ai class-related risk di mortalità per patologie cardiovascolari. nella classe delle lavoratrici non manuali socialmente stabili9 ben il 62% del campione ha conseguito una laurea, mentre nella classe corriil concetto di vantaggio cumulativo viene utilizzato per la prima volta da merton nel 1968 per descrivere il processo di capitalizzazione dei vantaggi goduti dagli scienziati ad inizio carriera. secondo questa teoria alcuni percorsi professionali, in particolare, offrono l’opportunità di accumulare nel tempo risorse via via crescenti sotto forma di reddito, potere e reputazione. più in generale, dunque, i vantaggi cumulativi indicano dinamiche di graduale e crescente accumulo di diversi tipi di capitali. 8 Va ricordato che anche in questo caso il rapporto livello di istruzione/aspettativa di vita, se pure presente, per le donne non presenta una correlazione altrettanto forte ed univoca. 9 l’aggettivo indica percorsi non soggetti a mobilità intergenerazionale, quindi si riferisce alle carriere di lavoro e di vita di quelle donne che non hanno sostanzialmente modificato la posizione ‘ereditata’ dai genitori. 7 134 Salute e disuguaglianze in Europa spondente delle lavoratrici manuali solo il 2% è riuscito a conseguire tale titolo di studio; tra le mobili ascendenti è laureato il 41% del campione, tra le mobili discendenti l’8%. il patrimonio educativo disponibile sembra dunque fornire uno strumento utile oltre che per mantenere o raggiungere posizioni migliori nella scala sociale, anche per superare e lasciarsi alle spalle gli svantaggi provenienti da un’infanzia trascorsa in contesti familiari (relativamente) deprivati. spingendosi oltre nell’interpretazione dell’ampio materiale raccolto, Vågerö e colleghi sostengono che è la posizione sociale raggiunta nella prima età adulta quella che deve essere presa in considerazione per stabilire il rischio di manifestarsi di patologie cardiovascolari, e non l’appartenenza sociale dello stesso soggetto nella prima infanzia. Questo perché proprio durante gli anni di istruzione formale l’individuo può apprendere una serie di nozioni, valori, abitudini e strumenti cognitivi che sul versante della carriera scolastica prima e lavorativa poi possono garantirgli il conseguimento di alti titoli di studio e di una buona carriera lavorativa; mentre sul versante della salute lo tengono al riparo dai comportamenti più insalubri, primo fra tutti il fumo. le donne svedesi che hanno maturato titoli di studio più alti e che sono state protagoniste di traiettorie di vita ascendenti o che hanno mantenuto posizioni ai vertici della scala sociale, oltre a presentare un rischio più contenuto di sviluppare malattie cardiovascolari, fumano meno, hanno una dieta più variata e sana, praticano abitualmente attività fisica, consumano meno alcol. anche se gli studi in questo campo presentano ancora zone d’ombra e necessitano di ulteriori approfondimenti, riescono comunque a mettere chiaramente in luce come il capitale culturale accumulato durante i primi venti o trenta anni di vita rappresenti un elemento cruciale per la continuità, o la discontinuità, intergenerazionale per quanto riguarda il rischio di mortalità (in particolare per ictus e infarto). un’altra prospettiva di notevole interesse e originalità è quella adottata dalla ricerca, svolta in questo caso nel regno unito, da Östberg e modin (2008). come dichiarano le stesse autrici: «solo un esiguo numero di studi ha preso in considerazione l’importanza per la vita adulta e lo stato di salute delle relazioni tra pari in età infantile. eppure la rilevazione di relazioni deboli tra coetanei durante l’infanzia si è dimostrata essere un buon predittore di maggiori rischi di disoccupazione […], di stati depressivi […], e di una maggiore probabilità di avere necessità di cure psichiatriche nella prima età adulta» (Östberg, modin 2008, p. 837, trad. mia). la ricerca analizza l’effetto combinato dell’inserimento nel gruppo di coetanei da parte di bambini in età scolare, congiuntamente alla loro capacità e/o propensione ad acquisire capitale culturale; seguendone le principali tappe nel corso di vita va quindi ad evidenziare gli effetti di questa doppia dinamica in La dimensione socioculturale 135 età adulta10. i dati sui quali si sviluppa l’analisi si riferiscono alla coorte, di genere misto, dei nati ad aberdeen (scozia) tra il 1950 e il 1956. le informazioni sono state rilevate sia durante il periodo di frequenza delle aule scolastiche, nei primi anni sessanta, sia rintracciando lo stesso campione, ormai di età adulta, e somministrando a 6000 persone tra il 2001 e il 2003 un questionario postale mirato a ricostruire una mappa dell’incidenza di malattie croniche e dello stato di salute autopercepito, in relazione al percorso scolastico e lavorativo seguito da ciascun membro della coorte. l’analisi multivariata produce una associazione in scala tra posizione ricoperta nel gruppo dei pari – nel caso specifico gli altri bambini compagni di classe – e le difficoltà incontrate nella vita adulta. le condizioni socioeconomiche della famiglia di origine, in particolare la classe sociale di appartenenza, il numero di sorelle/fratelli, e lo stato civile della madre (se ragazza madre, divorziata/separata, regolarmente sposata e con marito presente), esercitano una forte influenza sia sul modo di porsi del singolo nei confronti dei coetanei, sia sulla sua dedizione, del suo impegno, della sua riuscita nello studio. resa scolastica e inserimento nel gruppo di compagni si influenzano dunque vicendevolmente e con aspetti rilevanti sulle capacità di acquisizione del capitale culturale. aspettative e trattamento ricevuto e riservato tra coetanei tendono inoltre a rafforzare o, qualora siano di tipo negativo, ad indebolire l’autoconsiderazione del singolo, portandolo in un caso ad un ulteriore consolidamento della sua posizione emergente o di leadership nel gruppo dei pari, nell’altro relegandolo in posizioni subalterne. Queste dinamiche, aggiungono le autrici, sono riconducibili agli effetti che le emozioni provocano tanto sullo stato di salute quanto sulla ‘carriera’ dei soggetti. la posizione sociale non è pertanto esente dall’effetto emozionale che si produce nelle relazioni tra pari, che anzi, se affiancate da altri elementi di vulnerabilità e/o svantaggio, possono essere all’origine di differenze sensibili anche nello stato di salute (Wilkinson 2005). se ne può dedurre, quindi, che una valutazione più complessiva dei percorsi e degli esiti di una carriera scolastica, non può prescindere dal fare riferimento anche al livello di integrazione nel gruppo dei pari, elemento non secondario e capace di diventare esso stesso strumento di ulteriore disuguaglianza anziché di una possibile ascesa sociale11. in queste pagine, vista la natura complessa della ricerca cui si fa riferimento, verranno anticipati solo gli aspetti riconducibili a dinamiche più tipiche di una dimensione relazionale e di capitale sociale. 11 anche relativamente a questo caso di studio emergono differenze di genere di una certa rilevanza. mentre per gli uomini lo status acquisito tra i pari sembra ricoprire un peso non troppo determinante nel segnarne la carriera socioeconomica e, conseguentemente, lo stato di salute, per le donne la correlazione tra posizione sociale e relazionale più o meno svantaggiata durante l’infanzia sembra avere conseguenze decisamente più importanti sulle condizioni psicofisiche in età adulta. per approfondimenti si rimanda al testo di Östberg, modin (2008), in particolare p. 846 e seguenti. 10 136 Salute e disuguaglianze in Europa 3. Il caso italiano i contributi relativi al tema degli effetti agiti dalle disuguaglianze socioculturali sullo stato di salute e relativi al caso italiano non sono purtroppo ancora molto numerosi. ciò nonostante due lavori recentemente pubblicati sullo stesso numero della rivista «polis» offrono significativi spunti di riflessione e fanno sperare che anche nel nostro paese il dibattito sul tema stia acquistando terreno. il primo lavoro (lucchini, sarti 2009) si pone l’obbiettivo di valutare gli eventuali effetti di variabili ascrittive e acquisitive sulle condizioni psicofisiche, al netto degli effetti legati all’età, costruendo un modello di stima del livello di salute multisample e multigroup che si rifà all’indagine istatmultiscopo del 2003, e prende in considerazione quattro principali dimensioni: background familiare, istruzione, condizioni economiche, salute. a seguito di un ulteriore approfondimento vengono quindi messe in evidenza alcune selezionate variabili significative al fine di ricostruire, grazie anche al supporto di un modello di equazioni strutturali, la trama dei nessi di causalità statistica che plausibilmente indica origini e destinazioni sociali. partendo dall’idea che l’influenza degli elementi ascrittivi sullo status sociale di destinazione si fa sentire principalmente attraverso la mediazione di capitale culturale e status sociale raggiunto con la prima occupazione, il modello dell’Health Attainment, guardando al collegamento cronologico di una serie di elementi espressivi delle disuguaglianze intergenerazionali e intragenerazionali e al loro impatto sul mantenimento o sulla acquisizione/perdita dello stato di salute, propone una sorta di efficace metafora elettrica. si suggerisce infatti, in modo piuttosto valido, di considerare l’azione delle disuguaglianze alla stregua di differenziali di tensione «che si propagano lungo i canali della sfera familiare, educativa e lavorativa dando luogo a un processo di deterioramento o conservazione del benessere psicofisico. […] la catena della trasmissione delle disuguaglianze si completa con la conversione delle dotazioni culturali e materiali in dispositivi di salvaguardia (o meno) della salute» (lucchini, sarti 2009, p. 63). il modello, costruito sulla lettura interpretativa dei coefficienti strutturali utilizzati per stimare la forza dei nessi causali tra le variabili contemplate, rivela un complesso sistema di «differenziali di possibilità», caratterizzato da alcune regolarità. prima fra tutte quella che vede il background della famiglia di origine, misurato in anni di scolarità del padre, strutturare in modo cogente il livello educativo del figlio12. Vengono anche confermate ipotesi questa che – come ricordato da cobalti e schizzerotto – trova da tempo importanti conferme: «alcuni autori [Blau e duncan 1967; Boudon 1973; Hauser e Featherman 1977; Jonsson 1987; Gattullo 1989] ritengono che la posizione sociale della famiglia di origine condizioni con intensità decrescente i livelli di scolarità raggiunti dai singoli. due sono le argomentazioni utilizzate, in alternativa o in congiunzione, per sostenere questa tesi. da un lato, sono state chiamate in causa le riforme di ispirazione egualitaria introdotte a più riprese nei sistemi 12 La dimensione socioculturale 137 la relazione inversa tra livello di istruzione e deprivazione economica, e la relazione positiva che invece connette la deprivazione economica al rischio crescente di cattiva salute. se, in ultima analisi, questo studio dà nuovo credito alla teoria dell’accumulo, secondo la quale lungo il corso di vita si stratificherebbero tutti quegli effetti negativi imputabili all’esposizione a fattori di rischio e/o a stili di vita insalubri, non manca però di riconoscere volontà individuale, caso e meccanismi istituzionali di redistribuzione delle risorse quali elementi cruciali nell’interrompere (o almeno attenuare) la trasmissione di disuguaglianze da una sfera all’altra e da una generazione all’altra. muovendo dalla considerazione che nel nostro paese la mortalità differenziale per classe sociale è stata fino ad ora evidenziata sulla base di tassi standardizzati, «con il risultato indubbio di far cogliere la relazione inversa tra gerarchie sociali e mortalità, ma non l’ampiezza delle differenze, come avverrebbe invece utilizzando la speranza di vita» (maccheroni 2009, p.128), il secondo contributo che si è scelto di osservare si pone l’obbiettivo di approfondire lo studio sul grado di correlazione tra titolo di studio conseguito e tassi di mortalità13. lo studio della mortalità differenziale, «difficile studio» anche secondo l’autorevole parere del demografo livi Bacci (1999), presenta però importanti problematicità. se è vero che il grado di istruzione può rappresentare un efficace parametro per gettare luce sul fenomeno, è pur vero che l’italia, più di altre realtà, nel mettere a punto un sistema articolato di indicatori specifici su questa relazione paga lo scotto dei gravi limiti delle attuali rilevazioni statistiche. poiché, ad oggi, nel nostro paese non esistono studi di tipo longitudinale a carattere nazionale declinati sul problema della salute, maccheroni, nel mettere a punto il suo studio sulla speranza di vita per grado di istruzione in italia nell’ultimo decennio, fa riferimento a due banche di dati: i censimenti curati dall’istat e le schede di morte per i decessi, con la consapevolezza di dover superare le problematicità di un confronto tra dati provenienti da fonti differenti. i due principali problemi di rilevazione riguardano la classificazione dei titoli di studio e il fenomeno dei missing data, ovvero la perdita di alcune informazioni cruciali. relativamente al primo punto si paga con una buona dose di approssimazione e con l’impossibilità di compiere analisi più speci- formativi delle società a economia di mercato e a sistema politico pluralista. dall’altro lato, si è fatto riferimento alla velocità differenziale di incremento degli accessi al sistema formativo da parte dei soggetti di diversa origine sociale. Quando in una società caratterizzata da forti disparità nei livelli di partecipazione scolastica, si manifesta una espansione generalizzata della domanda sociale di istruzione, i tassi di partecipazione formativa dei figli degli strati sociali inferiori sono destinati ad accrescersi in misura più consistente dei corrispondenti tassi dei discendenti dai gruppi socialmente privilegiati» (1994, p. 159). 13 si ricorda che, ai fini di questa analisi, sono stati osservati casi di età pari o superiore ai 35 anni, presumendo che a partire da quell’età il titolo di studio acquisito fosse ormai definitivo. 138 Salute e disuguaglianze in Europa fiche il fatto di utilizzare un modello di rilevazione articolato in solo cinque, e piuttosto generiche, categorie: nessun titolo o licenza elementare, licenza media, licenza superiore, laurea, non noto. per quanto riguarda il secondo punto, solo per fare un esempio, nel 2001 i deceduti con titolo non noto erano il 12% per tutte le fasce di età. e il fatto che – come ovvio – a rispondere alle domande dell’informativa non possa essere il diretto interessato ma un congiunto, quindi una persona non necessariamente in possesso delle corrette informazioni, espone ulteriormente alla distorsione del dato. le informazioni contenute nel database, costruito attingendo – come detto – a fonti istat e schede di registrazione dei decessi, vengono rielaborati ed interpretati adottando un sistema di funzioni di tipo logit14. più in particolare, vengono prese in considerazione per il confronto le due categorie agli estremi della classificazione: da un lato diplomati e laureati, dall’altro chi risulta non avere nessun titolo di studio o la sola licenza elementare. il fatto che quest’ultimo sottoinsieme di popolazione sia caratterizzato da una particolare struttura di età e di genere, con una forte presenza di nati prima del 1945 e di donne, ha reso necessario mettere a punto una operazione di correzione per ovviare al problema delle differenze strutturali tra i due gruppi. la soluzione è stata quella di operare il confronto sui tassi standardizzati di mortalità e sulla speranza di vita. dato che gli indici in questione sono delle medie ponderate, ovvero degli indicatori specifici di mortalità relativi a ciascuna categoria sociale che utilizzano quali pesi la composizione per età di un’altra popolazione, detta «tipo» o «standard», nel confronto fra tassi standardizzati si viene a eliminare l’effetto di disturbo delle differenze strutturali tra le sottopopolazioni osservate15 (maccheroni 2009, livi Bacci 1999). i risultati confermano la relazione positiva tra titolo di studio più alto e maggiori aspettative di vita, e un rafforzamento di tale legame in termini relativi. se a 35 anni, infatti, la speranza di vita di quanti presentano un titolo di studio basso è rispettivamente inferiore di circa 7,6 anni rispetto ai più istruiti per gli uomini, di 6,5 anni per le donne; a «65 anni − la soglia che convenzionalmente segna il passaggio alle età anziane − chi ha un grado di istruzione basso ha un’aspettativa di vita inferiore di un quarto se uomo, di un quinto se donna rispetto a chi ha un grado di istruzione alto» (maccheroni 2009, p. 136). in termini assoluti, invece, con l’avanzare dell’età si assiste ad una, per altro non sorprendente, riduzione delle differenze di mortalità. a livello aggregato, infatti, quanti sopravvivono fino alle età più avanzate presentano un importante grado di ‘omogeneità’, conseguenza il logit è una funzione applicabile a valori tipicamente rappresentanti probabilità, compresi nell’intervallo tra 0 e 1. per un approfondimento si rimanda a chiari e peri (1987). 15 È bene comunque ricordare che i risultati di ciascun tasso standardizzato non hanno un valore intrinseco, ma solo comparativo tra l’una e l’altra classe sociale rispetto al livello di mortalità generale della popolazione standard. 14 La dimensione socioculturale 139 dell’effetto del processo di selezione operato dalla mortalità, e dal fatto che in età via via più mature qualità e durata della vita vengono condizionate sempre più dagli elementi biologici e sempre meno dalle dinamiche sociali. un effetto particolare emerge infine per ciò che riguarda l’interruzione dell’attività lavorativa conseguente a pensionamento. da un lato l’andare in pensione, allontanando da quelle situazioni di rischio legate all’ambito lavorativo – particolarmente importanti per quanti si trovano all’estremo inferiore della gerarchia sociale e più spesso operano in situazioni particolarmente disagiate e nocive – può agire un effetto positivo sulle condizioni di salute; dall’altro lato il pensionamento, condannando alla rarefazione e/o estinzione delle relazioni sociali precedenti, o facendo venire meno il principale impegno di vita con conseguente crisi di identità e/o di ruolo, può invece incidere negativamente sulle condizioni di salute, a partire da quelle psicologiche, soprattutto in quei casi (che di nuovo trasversalmente riguardano qualsiasi tipologia di posizione occupazionale) in cui era presente un forte attaccamento al lavoro. in conclusione, soprattutto per quanto riguarda le generazioni più anziane, si delinea piuttosto chiaramente una dinamica di interrelazioni complesse tra capitale culturale, posizione socioeconomica, salute e interruzione dell’attività lavorativa. Gli individui che hanno sperimentato un percorso breve di scolarità presentano, generalmente, un inizio della vita attiva in età adolescenziale, e posizioni occupazionali svantaggiate (spesso nei settori dell’agricoltura e dell’industria) caratterizzate da orari particolarmente lunghi e condizioni di lavoro pesanti, con conseguente accentuazione del processo di deterioramento delle condizioni di salute. in questi casi l’uscita dal mondo del lavoro, e quindi l’età al pensionamento, pur presentando alcuni aspetti positivi, tende comunque ad innescare processi di controverso effetto sullo stato di salute, come una anticipata autoidentificazione con la vecchiaia. 4. Condotta di vita e salute il concetto di stile di vita gioca un ruolo di non piccolo rilievo nella dimensione della salute, sia nella sua accezione individuale di condotta di vita che qui verrà presa in analisi, sia nella sua accezione più propriamente relazionale e collettiva che sarà approfondita nel sesto capitolo. lo stile di vita, secondo la definizione significato weberiana cui qui si farà riferimento16, si fonda in ultima analisi su ciò che ciascun individuo consuma 16 a differenza di simmel, più attento alla dimensione individuale, Weber, concentrando la sua analisi sulle diversità intergruppi, privilegia gli aspetti caratterizzanti di quella che lui stesso definisce «comunità di consenso». mettendo in evidenza l’importante feedback tra stile di vita, consumo e professione, utilizza il Lebensstil per indicare il particolare tipo di condotta di vita segno di riconoscimento ed espressione del prestigio di ciascun ceto sociale, assegnando ad esso, in continuità con la scelta di specifici beni, quella funzione di differenziazione che invece simmel attribuisce alla moda. 140 Salute e disuguaglianze in Europa piuttosto che su ciò che lo stesso individuo produce, secondo una diversa accezione tipicamente riconducibile rispettivamente alle posizioni di Veblen e di marx. per Weber lo stile di vita ed in particolare modo le modalità di consumo sono insieme mezzi ed indicatori di stratificazione sociale. come egli stesso precisa: «determinati beni, ed infine certe attività economiche diventano oggetto di monopolizzazione da parte dei ceti; e ciò sia positivamente, nel senso che soltanto un determinato ceto può pretendere quei beni o esercitare quelle attività, sia negativamente, nel senso che quel ceto se vuole mantenere la sua specifica condotta di vita, non deve essere partecipe di quel possesso o di quelle attività» (Weber 1922, p. 238). le differenze di appartenenza a diversi ceti si registrano dunque non sul piano della produzione, bensì su quello del consumo: la «condotta di vita», o stile di vita ( si osserverà tra breve quale sia la distinzione tra le due categorie), con le sue regole e ‘convenzioni’ diventa sistema di riferimento per misurare quello che Weber chiama «onore di ceto»17. l’autore utilizza tre termini distinti per descrivere nella sua complessità lo stile di vita: con Lebensführung indica la condotta di vita, riferendosi al ventaglio di scelte, più o meno ampio ma comunque limitato, che ciascun individuo ha a sua disposizione; con Lebenschancen indica le chances di vita, intese come la probabilità di realizzare le proprie scelte in relazione a condizioni date; infine con Lebensstil, stile di vita, ricomprende le due declinazioni precedenti. pur essendo il legame tra scelte (o condotte di vita) e stile di vita molto importante per Weber (e accuratamente studiato e messo in risalto dagli studiosi contemporanei), altrettanto importante nell’analisi dell’autore (anche se successivamente meno studiato) è il legame tra chances di vita e stile di vita: in altre parole, il potere che le condizioni strutturali hanno nel forgiare ma anche nel consentire particolari stili di vita. infatti, ciascun individuo nella scelta dello stile di vita gode di una libertà più o meno ampia ma in ogni caso limitata; non si può dunque parlare di una completa determinazione del Lebensstil ma è più corretto dire – sulla scorta della riflessione sul tema condotta da cockerham, abel e lüschen (1993) – che ciascun individuo dispone di libertà di azione all’interno di quei vincoli sociali che connotano la sua specifica situazione. i legami sociali, come determinanti dello stile di vita, sono in buona parte – ma non esclusivamente – di origine socioeconomica; a questi si possono sommare le influenze del gruppo di appartenenza (sia esso ceto, gruppo di pari, o di altro tipo), e il patrimonio culturale disponibile. tutti insieme questi elementi spingono l’individuo verso specifiche scelte, e ne rendono difficili altre. come si è già detto, i comportamenti mirati al mantenimento della buona salute vengono adottati da quanti hanno acquisito la consapevolezza che una condotta di vita sana preserva da malattie e infortuni. rifacendosi Weber stesso puntualizza: «[…] ogni stilizzazione della vita, in qualsiasi forma si manifesti, ha un’origine di ceto, o viene comunque mantenuta in vita su base di ceto» (1922, p. 238). 17 La dimensione socioculturale 141 ora al paradigma weberiano, si può ricondurre l’idea di healthy lifestyle direttamente all’insieme di comportamenti volontari basati sulla scelta di opzioni disponibili per ciascuno in base alla sua posizione sociale, al capitale culturale e alla situazione di vita. esemplificando, gli stili di vita includono contatti con specialisti della medicina, check-up e cure preventive chiaramente finalizzati al mantenimento della salute, e in più nella maggior parte dei casi rimandano anche a prestazioni e servizi di fatto esterni al sistema sanitario. Queste attività si concretizzano solitamente in scelte e abitudini influenzate – come abbiamo detto poco sopra – dalla possibilità concreta offerta dalle chances di vita di realizzarle e vanno dal lavarsi i denti ad allacciare le cinture di sicurezza quando si è in auto, al frequentare centri di benessere e/o fitness. per la maggior parte delle persone, dunque, stile di vita salutare significa e ricomprende scelte che riguardano l’alimentazione, l’attività fisica, il relax, l’igiene personale, l’impegno nel ridurre il rischio di incidenti, l’evitare (o almeno contenere) lo stress e il consumo di sigarette, di alcolici, di droghe, il sottoporsi a controlli medici con regolarità (cockerham, abel, lüschen 1993, p. 419). secondo alcune letture (Gillick 1984, crawford 1984) la diffusione di massa di stili di vita salubri, o quantomeno della loro desiderabilità, va fatta risalire all’ampio affermarsi di una razionalità di tipo formale nel compiere scelte di vita riguardanti il benessere psicofisico. Gillick, con un approfondito studio su una attività fisica molto popolare negli usa, il jogging, avanza l’ipotesi che a partire dagli anni settanta negli stati uniti si sia registrato un vero e proprio cambio di marcia nel praticare attività sportive, in buona parte riconducibile alla crescente divulgazione di conoscenze mediche che mettevano chiaramente in luce le interconnessioni tra sport e vantaggi per il sistema cardiocircolatorio. l’autrice registra quindi come accanto a scelte operate seguendo una razionalità di tipo sostanziale (per esempio il pensare che «il jogging fa bene allo spirito», o che «tempra l’america») prenda campo una consapevolezza dei benefici ottenuti praticando un’attività sportiva più chiaramente riconducibile ad una razionalità di tipo formale. crawford, dal canto suo, indica tre precisi fenomeni come maggiori propulsori di questo mutamento: il prendere atto a livello di grande pubblico che le malattie più diffuse oggi non siano più quelle di natura infettiva bensì quelle di natura degenerativa; il ricondurre particolari piaghe sociali, per esempio il tumore ai polmoni o l’aids, a specifici comportamenti a rischio; e infine la divulgazione attraverso i mass media di un sapere medico semplificato e reso alla portata di tutti, che insiste sulla rilevanza di abitudini ‘benefiche’ e sulla responsabilità individuale nei confronti del proprio stato di salute. ciò ha fatto sì che si sia diffusa, da un lato, la consapevolezza che la medicina non sia la risposta automatica e infallibile a qualsiasi problema riguardante il fisico e/o la psiche; dall’altro lato, che abbia preso campo una responsabilizzazione del singolo individuo nei confronti del suo stesso benessere. la cura della salute, ormai percepita 142 Salute e disuguaglianze in Europa come bene esposto a fattori dannosi provenienti dall’ambiente circostante, non più garantito dalla sola medicina e perciò sempre più affidato alle iniziative del singolo, tende oggi a risentire molto delle stesse dinamiche che presiedono alle scelte di consumo e ad orientarsi verso quei prodotti commerciali che promettono valido supporto nel mantenimento, quasi ‘artigianale’, del benessere psicofisico18. per concludere sul punto, poiché il Lebensstil, lo stile di vita weberianamente inteso, è il risultato di un insieme di opzioni disponibili e di pressioni esterne da una parte, e di valori e patrimonio culturale del singolo dall’altra, ciò significa che esso risponde tanto a logiche dettate da una razionalità formale quanto da una razionalità sostanziale. si conferma dunque – ancora una volta – la necessità di considerare congiuntamente e nelle loro reciproche differenze i ‘capitali’ di tipo economico, culturale e sociale di cui l’individuo dispone e che in vario modo utilizza nell’operare le sue scelte di stili di vita. uno, perché maggiori risorse economiche permettono di disporre di tempi e spazi da dedicare ad attività ‘salutiste’; due perché maggiori strumenti di conoscenza portano ad una più accurata e consapevole capacità di distinguere ciò che è positivo e ciò che nuoce al proprio stato di salute; tre, infine, perché il contesto sociale nel quale si è inseriti può facilitare (o, al contrario, ostacolare) le strategie di salute messe in atto dal singolo. Quest’ultimo tema sarà affrontato nel prossimo capitolo. cockerham, a tal proposito, ricorda: «le attività commerciali associate all’attività fisica non solo producono profitti, ma tendono anche a favorire un approccio di tipo prettamente strumentale all’essere in salute e al fitness stesso» (cockerham, abel, lüschen 1993, p. 421, traduzione mia). 18 Capitolo 6 La dimensione relazionale 1. Capitale sociale e salute nell’affrontare l’analisi del terzo elemento che insieme a capitale economico e capitale culturale è stato individuato essere cruciale nelle dinamiche di strutturazione tanto della disuguaglianza, quanto di un corso di vita in salute, è opportuno ricordare preliminarmente la natura situazionale e dinamica dello stesso. con il termine capitale sociale infatti, come fa chiaramente notare piselli (1999), si fa riferimento a un concetto che non si presta ad essere appiattito in rigide definizioni, ma deve essere interpretato in relazione agli attori, ai fini che questi perseguono, e al contesto in cui gli stessi agiscono. le relazioni di autorità e/o di fiducia e il sistema di norme di riferimento sono sia forme sia promotori di capitale sociale che quindi si rivela e si sviluppa nei network di relazione nei quali gli individui sono inseriti e attraverso i quali attivano risorse e attuano strategie. la natura non solo situazionale ma dinamica e processuale del capitale sociale si spiega più facilmente se non si perde di vista da un lato l’imprescindibile legame tra questa risorsa e la struttura delle relazioni sociali, tra due o più individui; dall’altro lato la particolare natura di ‘capitale’ che rende tale risorsa spendibile in termini di azione e suscettibile a strategie di investimento, più o meno consapevoli: «il capitale sociale è il risultato di un processo di interazione dinamica: si crea, si mantiene, si distrugge. può essere creato intenzionalmente o inintenzionalmente, ma può essere distrutto attraverso comportamenti individuali […] o per il sopravvenire di fattori esterni che rendono le persone meno dipendenti le une dalle altre […]. richiede, dunque, investimenti continui, come qualsiasi altra forma di capitale» (piselli 1999, p. 399). dopo una veloce rassegna di alcuni dei principali contributi definitori del concetto di capitale sociale e della differenza sottile eppure importante tra lo stesso e il concetto di network, si procederà con una analisi delle Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 144 Salute e disuguaglianze in Europa dinamiche che più specificamente mettono in relazione capitale sociale, disuguaglianze e salute, alla luce anche di specifici studi di caso. sarà privilegiata una prospettiva di contesto, inteso nel suo senso propriamente spaziale e/o territoriale, per il peso che esso ha nel determinare la disponibilità e l’efficacia delle risorse relazionali1:guardando agli spazi residenziali come sistemi aperti caratterizzati da una duplice dimensione di ambiente delimitato da precisi confini, e insieme di spazio permeabile, attraversabile e aperto ad interconnessioni e interazioni con altri sistemi; e dunque considerando i luoghi come nodi spaziali dei networks di relazioni capaci di situare le azioni praticate (practices) nello spazio. il riferimento esplicito del concetto di capitale sociale2 risale agli anni sessanta e uno dei suoi primi utilizzi può essere individuato nel lavoro di Jane Jacobs (1961) sulla crisi delle grandi città americane: l’autrice arriva infatti a mostrare la problematicità della perdita di capacità auto-organizzativa della società, in particolare in quelle realtà urbane costruite senza tenere conto degli effetti perversi dell’agire economico. in seguito, importante è il contributo di pierre Bourdieu (1980) che introduce il termine capitale sociale per indicare le risorse reali o potenziali riconducibili alla disponibilità di una rete sociale stabile e più o meno istituzionalizzata e caratterizzata da relazioni di conoscenza diretta e riconoscimento reciproco, incentrando quindi il concetto sull’idea che una diversa distribuzione di tali risorse si associ ad una diseguale opportunità di posizionamento nella gerarchia della stratificazione e nella dinamica di riproduzione sociale. come noto, è coleman (1988, 1990) che, partendo da una prospettiva vicina all’individualismo metodologico e superandola una volta riconosciuta l’importanza delle organizzazioni e delle istituzioni sociali nella loro dimensione di contesti capaci di condizionare le scelte individuali e di produrre effetti sistemici, arriva a riconoscere alle relazioni sociali nelle quali i singoli attori sono inseriti la doppia natura tanto di componenti della struttura sociale quanto di risorse per l’individuo, in una continua interazione tra dimensione collettiva e dimensione individuale. l’autore definisce il capitale sociale come risorsa radicata nelle relazioni tra gli in- nella letteratura di settore il contesto sociale (in questa sede inteso nella sua dimensione tanto spaziale e istituzionale quanto dinamica e relazionale) viene frequentemente operazionalizzato ora come capitale sociale andando a guardare la forza dei legami sociali presenti in un determinato territorio (Kawachi e Berkman 2000), ora come efficacia collettiva valutando non solo il livello di coesione sociale e di fiducia propri della realtà presa in esame, ma anche la capacità della stessa comunità di organizzarsi e agire in vista di vantaggi comuni (sampson, raudenbush, earls 1997). 2 il concetto di capitale sociale ha origini ben più lontane. come ricordato da trigilia «un uso implicito dell’idea di capitale sociale si può trovare nel famoso saggio di max Weber Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo. […] Weber, pur non parlando di capitale sociale, utilizza di fatto l’idea di reticoli sociali come strumento che può influire sulla formazione dell’imprenditorialità e quindi facilitare lo sviluppo economico di una determinata area» (1999, pp. 420-421). 1 La dimensione relazionale 145 dividui, ma generata da diverse relazioni e spendibile per fini e con criteri diversi. individua quindi tre diverse tipologie di risorse potenzialmente vantaggiose ‘prodotte’ da contesti relazionali differenti, ma accomunate da due precisi aspetti: l’imprescindibile legame con una data struttura sociale e il rappresentare una opportunità/facilitazione di portare a termine azioni o progetti da parte di coloro che siano inseriti nella stessa struttura. il primo tipo, denominato obligations, expectations and trustworthiness riguarda le dinamiche di reciprocità tra doveri, aspettative e favori offerti e/o attesi, presenta forti le analogie con il capitale economico e finanziario, e viene illustrato da coleman con l’esempio seguente. l’individuo a nell’accordare un favore all’individuo B mostrandogli fiducia acquista anche un credito nei suoi confronti; poiché è probabile che l’individuo B (beneficiario del favore) compirà le sue future azioni nei riguardi di a tenendo conto di tale situazione di debito, si può leggere questa interazione come un condizionamento subito da B in virtù del favore ricevuto da a. il secondo tipo, potential for information, indica l’opportunità di avere accesso ad informazioni utili per organizzare le future azioni tramite determinati reticoli di conoscenze. infine il terzo tipo di capitale sociale, norms and effective sanction, indica le norme dotate di sostegno sociale, facendo appello alle quali gli individui possono condizionare l’agire di altri soggetti a vantaggio di cause/istituzioni di cui si sentono membri: dalla cerchia familiare ad un movimento sociale, al bene pubblico. un ulteriore contributo, fondamentale per lo sviluppo del concetto di capitale sociale, e importante e innovativo anche per ciò che riguarda la diretta relazione tra tale risorsa e lo stato di salute è quello di robert putnam. in Bowling Alone (2000)3, l’autore opera una distinzione tra capitale fisico, riferito alle risorse materiali di cui si dispone, capitale umano, riferito alle caratteristiche degli individui, e capitale sociale che riguarda le relazioni tra gli individui, le reti sociali e le norme di reciprocità e di affidabilità che ne derivano. in particolare, quest’ultima forma di capitale si definirebbe in base alla struttura di relazioni, norme e valori, capaci in alcune loro combinazioni di indurre gli individui ad agire in modo coordinato e in vista del conseguimento di obiettivi condivisi. il capitale sociale in altre parole sarebbe costituito da quei requisiti culturali e relazionali capaci di favorire una diffusa cooperazione finalizzata al bene pubblico, e in tal senso risulterebbe capace di dar luogo a numerose ‘esternalità positive’ e di essere strettamente connesso alla virtù civica, predisponendo gli attori sociali inseriti in particolari network a svilupparla. le quattro principali questioni affrontate dal testo – che in questa sede possono essere ricordate solo sinteticamente – sono: a) le tendenze contemporanee al rafforzarsi/indebolirsi di impegno civico e capitale sociale; b) le ragioni dell’erosione del capitale sociale; c) la rilevanza del capitale sociale sul sistema sociale; d) la messa a punto di una strategia efficace per ricostituire il capitale sociale. 3 146 Salute e disuguaglianze in Europa Forse meno noto, ma sicuramente importante in questo contesto, è il contributo dato da putnam nel riconoscere il peso esercitato dal capitale sociale sulle condizioni di salute individuali. pur senza arrivare a esplicitarne le precise dinamiche di influenza, l’autore propone comunque alcune interessanti ipotesi interpretative: riconosce il ruolo giocato dalle reti sociali nell’offrire, in caso di bisogno, supporto economico, logistico, e di cura; mette in evidenza come i network sociali siano capaci di promuovere i comportamenti virtuosi, spronando l’individuo ad evitare o moderare il consumo di alcol, il fumo, ad adottare abitudini alimentari e di vita più salubri; individua una relazione positiva tra il grado di coesione sociale di una comunità e la sua capacità di organizzare un servizio medico di qualità; infine, avvicinandosi molto alle posizioni di autori come Wilkinson, anche putnam rivendica per il capitale sociale un ruolo cruciale nel generare interconnessioni di tipo psicosociale capaci di rinforzare, o altrimenti di deprimere, il sistema immunitario dell’individuo e dunque di condizionarne esposizione e risposta agli stati di malattia (putnam 2000; cockerham 2007). la posizione dell’autore è ben sintetizzata dal seguente passo: «alcuni studi hanno documentato la forte correlazione tra interazioni sociali e salute a livello di comunità. altri hanno concentrato l’attenzione sugli individui, sia in contesti naturali sia in condizioni sperimentali. […] non si tratta semplicemente del fatto che le persone privilegiate (cui potrebbe anche accadere di essere socialmente più impegnate), in buono stato fisico e attente alla propria salute, tendono a vivere più a lungo. l’ampia gamma di malattie che hanno mostrato di essere influenzate dal sostegno sociale e il fatto che il legame sia anche più stretto alla morte che alla malattia, tendono a suggerire che l’effetto operi a livello decisivo della resistenza fisica complessiva» (putnam 2000, pp. 399 e 404). data la sua duplice natura di risorsa al contempo individuale e collettiva, il capitale sociale può agire sullo stato di salute in due modi. con un effetto individuale dal momento che status, abitudini e attività in mutuo rapporto con il capitale sociale di ciascuna persona sono anche in diretta relazione con il suo stato di salute (portes 1998, lin 2001). con un effetto collettivo dal momento che ambito sociale e politica, così come tipo di welfare state, agiscono – di nuovo in maniera non unidirezionale – sui potenziali capitali sociali e dunque influenzano in modo indiretto ma comunque importante lo stesso status di salute (Fukuyama 1995, Kawachi et alii 1997). in particolare, andando ad osservare più da vicino la dimensione individuale con cohen (cohen, underwood, Gottlieb 2000) si può notare come la disponibilità di capitale sociale protegga gli individui da rischi anche importanti per la loro salute, sia in condizioni ‘normali’ sia qualora siano esposti a particolari situazioni di stress. se per ciò che riguarda le dinamiche di salute l’isolamento rappresenta un elemento negativo capace di esporre gli individui a peggiori condizioni di vita e di salute, in modo La dimensione relazionale 147 speculare l’essere inseriti in una rete di relazione – in linea di massima – rappresenta una risorsa capace di offrire protezione, come già si era avuto modo di sottolineare a proposito dell’analisi della demand-control theory (cfr. capitolo quarto). la cautela della precedente affermazione e un solo parziale accordo con l’analisi di cohen e colleghi si deve da un lato ai tanti spunti che la letteratura classica offre in merito a cominciare da note ricerche come quella di Whyte (1943)4; dall’altro lato, all’idea questa volta pienamente condivisa che la spendibilità di capitale sociale dipenda in buona parte dal tipo di network da cui è generato (piselli 1999, putnam 2000). senza cadere nell’errore di considerarle categorie mutuamente esclusive, è opportuno distinguere tra reticoli sociali di tipo bridging, che guardano all’esterno, «permeabili», comprendenti persone di provenienza sociale disomogenea5; e reticoli sociali di tipo bonding, «impermeabili», tendenti per scelta o necessità all’isolamento, a rinforzare identità particolari, e – strutturandosi su una tipologia di legami che Granovetter definirebbe «forti» – a rendere il gruppo sempre più omogeneo. prima di procedere nell’indagare il filone di studi che si pone l’obbiettivo di esplorare più approfonditamente le interconnessioni tra reti sociali, capitale sociale e livello di salute, è bene segnalare esplicitamente la differenza tra capitale e network sociali, così da eliminare una certa ambiguità nell’uso dei termini e poter condurre le seguenti osservazioni in modo il più possibilmente chiaro e coerente. 4 il lavoro di Whyte, Street Corner Society, si poneva l’obbiettivo di ricostruire – come affermato dallo stesso autore – la struttura e il funzionamento di alcuni aspetti della vita sociale di una comunità italo-americana in uno slum di Boston, ridenominato ai fini della ricerca cornerville, attraverso un attento esame di alcune delle sue parti in azione. attraverso il metodo dell’osservazione partecipante, ovvero il «tentativo di fare sociologia basandola sull’osservazione di eventi interpersonali», si osservano le dinamiche interne a due gruppi di giovani e il loro interagire con l’ambiente sociale circostante, arrivando ad individuare due distinte subculture: la solidale, compatta e ‘vischiosa’ street corner society e la più ambiziosa e aperta organizzazione dei college boys. in particolare, nello studiare le «persone che si fanno avanti», e «il modo in cui ci riescono», Whyte – con alcune intuizioni che anticipano i risultati di importanti ricerche sulla diversa forza dei legami sociali (vedi, per tutti, l’ormai classico lavoro di Granovetter, 1973) – nota come il desiderio di successo e di ascesa sociale sia diffuso e comune ai giovani di entrambe le subculture. emerge dunque chiaramente, anche se non compiutamente per ciò che riguarda la dimensione teorica, che è proprio la natura dei legami tipici di ciascuno dei due gruppi l’elemento cruciale nelle dinamiche di mobilità: mentre i legami derivanti dal network di gruppo agiscono da potente freno nel caso dei corner boys, la stessa rete di relazioni (però declinata in altre modalità) funziona da incentivo nel caso dei college boys, molto più pronti a sacrificare le loro amicizie qualora il gruppo di amici non fosse stato in grado di progredire con il loro stesso ritmo. 5 per ciò che riguarda i network di tipo bridging, putnam (2000) riporta l’esempio di gruppi di volontariato e dei movimenti per i diritti civili; mentre per i network di tipo bonding fa riferimento a enclave etniche, associazioni di genere, sette religiose; l’autore, inoltre, sottolinea come un capitale sociale generato da legami di tipo bonding rappresenti una risorsa preziosa in termini di supporto e fiducia (ma limitatamente ad una cerchia ristretta), mentre il capitale sociale generato da legami bridging sia particolarmente utile nel supportare la mobilità sociale ascendente. 148 Salute e disuguaglianze in Europa le reti sociali, se pure strutturalmente legate alla risorsa capitale sociale, presentano una duplice valenza, ora positiva in qualità di risorsa utile e vantaggiosa per l’individuo, ora negativa qualora prevalga la dimensione costrittiva e limitativa di vincolo – che può riguardare sia gli aspetti morfologici della stessa rete sociale come ampiezza e densità, sia la natura del legame (di parentela, di amicizia, di vicinato), sia infine il ‘contenuto’ (materiale così come simbolico) veicolato dal network. invece, il capitale sociale – che pure risulta essere incorporato in modo imprescindibile nella struttura di relazioni e non può da essa prescindere – si rivela quale «risorsa specializzata» (Bianco e eve 1999), caratterizzata da una valenza sempre positiva in quanto «fonte di benefici» ovvero risultante dell’attivazione anche meramente strumentale di uno o più network attraverso i quali l’individuo si appropria di quelle risorse utili per la realizzazione di qualche suo obiettivo (piselli 1999). se è vero che forma e contenuti dei network di relazione condizionano la qualità e quantità di capitale sociale, non è opportuno ridurre questa dinamica a semplice relazione meccanica: «l’utilità del capitale sociale non dipende dalle caratteristiche della rete o dei legami, ma dipende dalle specifiche risorse che si rendono necessarie nei singoli casi. in altre parole, particolari risorse relazionali sono importanti solo in particolari contesti e in riferimento a specifici obiettivi, sono inefficaci e o dannose rispetto ad altri» (piselli 1999, p. 401). se dunque si presta una certa attenzione nel distinguere tra risorse e sistema, l’elemento che emerge con grande evidenza è l’importanza del contesto, anche in senso più propriamente spaziale/territoriale. È, infatti, in base allo specifico ambito nel quale l’individuo è inserito che determinate risorse relazionali acquistano maggiore o minore importanza e si rivelano più o meno efficaci in relazione agli obiettivi perseguiti. nel cercare di comprendere come le disuguaglianze sociali che affliggono lo stato di salute si possano strutturare anche a livello di relazione e dunque di capitale sociale disponibile è opportuno ricomporre i due paradigmi esplicativi che nel corso degli ultimi anni si sono affermati, animando un acceso dibattito6. le sole spiegazioni di tipo compositional, che attribuiscono il livello di salute delle specifiche aree territoriali alle rispettive caratteristiche comuni agli abitanti di un luogo non sono in grado di offrire una lettura completa ed esaustiva del problema. se da un lato, infatti, persone simili (per esempio in termini di posizione socioeconomica) tendono ad occupare spazi territoriali limitrofi e dunque a replicare in un dato contesto dinamiche di svantaggio, o di vantaggio, proprie del loro status sociale, dall’altro lato è opportuno non sottovalutare – come suggeriscono un simile tentativo di ricomposizione tra spiegazioni che guardano alla dimensione compositional e spiegazioni che guardano alla dimensione contextual viene presentato nel terzo paragrafo di questo capitolo dove si sviluppa l’analisi dello stile di vita collettivo. per approfondimenti maggiori si rimanda a Frolich, corin, potvin (2001). 6 La dimensione relazionale 149 le spiegazioni di tipo contextual – l’esistenza di peculiarità ecologiche proprie di determinate aree territoriali e capaci di agire importanti effetti, in aggiunta e oltre le caratteristiche individuali aggregate, sullo stato di salute degli attori sociali lì situati. affidarsi esclusivamente all’uno o all’altro paradigma costituisce una semplificazione troppo netta, subito evidente se si presta attenzione al fatto che la distribuzione degli individui nel territorio, nelle aree di residenza, non è né totalmente casuale, né totalmente intenzionale. Frutto di preferenze e insieme di vincoli di attuabilità che ci richiamano alla memoria il Lebenstill weberiano7, le scelte residenziali si strutturano seguendo da un lato le risorse disponibili di capitale economico, dall’altro lato le propensioni di stile di vita. i contesti di vicinato sono pertanto espressione diretta della disponibilità di risorse e servizi, della qualità dell’ambiente e delle strutture abitative, e di altri aspetti non meno importanti quali la reputazione del quartiere, la sua storia, la presenza di un tessuto sociale dinamico8. allo stesso tempo i contesti di vicinato non possono essere considerati aggregati statici: come mette in evidenza uno studio condotto da Galster nel 2001, le tendenze di mutamento di una comunità di quartiere, spesso concomitanti agli spostamenti e/o a variazioni di composizione «qualitati- si rimanda al paragrafo 4 del quinto capitolo. nel lavoro di elias e scotson Strategie di esclusione (1994), lo studio condotto nel quartiere operaio di Winston parva sui diversi modi di raggrupparsi all’interno di piccole comunità, riconoscersi, e percepire il senso di appartenenza ad un gruppo dotato di maggiore (o minore) virtù e rispettabilità, offre spunti rilevanti anche relativamente al significato simbolico dei luoghi. «sussistevano quindi differenze considerevoli tra i vecchi residenti e i nuovi arrivati, ma non era semplice trovare i concetti adeguati per esprimerle. esse, infatti, rappresentavano una forma distinta di stratificazione sociale. Gli immigrati occupavano un gradino più basso nella gerarchia sociale rispetto ai residenti di classe operaia radicati ma era difficile esprimere questa differenza tra i due quartieri operai in termini di differenza di classe. anche parlare di pure e semplici differenze di status è fuorviante, perché questo termine è in genere utilizzato in relazione alla collocazione nella gerarchia sociale di famiglie che abitano nello stesso quartiere. a Winston parva invece vi erano differenze nella collocazione nella gerarchia sociale dei tre quartieri stessi, che si erano manifestate dando luogo ad attriti non appena i vecchi residenti e i nuovi arrivati avevano cominciato ad entrare in contatto tra loro. un esempio, che risaliva agli inizi, ma che era ancora vivo nei ricordi al tempo della ricerca, riguarda la distribuzione dei membri dei due gruppi nei pub locali» (pp. 78-79) un altro esempio significativo riguarda gli stessi nomi con i quali gli abitanti indicavano le due parti del quartiere operaio: la zona 2 di Winston parva «era affettuosamente – e in certa misura orgogliosamente – chiamata dai suoi abitanti Villaggio, sebbene fin dall’inizio si fosse trattato di un insediamento industriale i cui abitanti non si occupavano affatto di agricoltura. […] la zona 3 fu costruita negli anni ’30 da una società privata di investimenti sul terreno compreso tra la linea ferroviaria principale e una diramazione a nord del canale. i vecchi residenti dicevano che questo terreno non era stato sfruttato da charles Wilson [l’industriale fondatore dell’insediamento, ndr] perché paludoso e infestato dai ratti; infatti gli abitanti del Villaggio continuavano a chiamare la zona Vicolo dei Ratti. un informatore, membro del consiglio locale, si ricordò che gli abitanti più in vista del Villaggio protestarono per lo sfruttamento di quel vicino terreno, perché lo consideravano al di sotto degli standard locali.[…] per quel che ricordava l’informatore, quasi nessuno degli abitanti della parte vecchia si trasferì nelle nuove case, malgrado per molto tempo gli affitti restassero più bassi» (pp.76-77). 7 8 150 Salute e disuguaglianze in Europa va» dei residenti, emergono chiaramente monitorando quattro dimensioni critiche nella produzione e nell’utilizzo delle relazioni di vicinato: le tipologie di famiglia, la dinamicità economica (cioè il tipo e il livello di affari), il rapporto affittuari/proprietari tra i residenti, e infine il tipo di governo locale. dunque, è «attraverso i consumi, il livello di fruizione di servizi, i processi politici in atto e i modelli di connessione sociale» che gli attori sociali protagonisti della dimensione di vicinato riproducono e trasformano il loro contesto; mentre allo stesso tempo secondo una dinamica di mutue influenze «stili di vita e salute degli individui sono resi più simili dai beni consumati, dai servizi utilizzati, e dalle relazioni intessute» (Bernard et alii 2007, p. 1840, traduzione mia). approfondendo ora l’analisi delle dinamiche di interrelazione tra capitale sociale e salute, sono quattro le principali teorie che a partire da prospettive diverse analizzano tale relazione9. una prima ipotesi, partendo dalla rilevazione di migliori livelli di salute nelle realtà sociali caratterizzate da maggiore egalitarismo e coesione, individua una sorta di legge secondo la quale la salute sarebbe qualitativamente e quantitativamente migliore, più tutelata e diffusa, in concomitanza con alti livelli di fiducia e partecipazione, e di politiche attente alla redistribuzione e a garantire sicurezza e prevenzione. al contrario là dove realtà meno ‘generose’ ed eque offrono un ambiente meno accogliente, in particolare per quei segmenti più vulnerabili e svantaggiati della popolazione, si registrano performance di salute molto negative sia per la popolazione nella sua media, sia per i singoli, in particolare quelli appartenenti a specifici strati sociali. una seconda ipotesi pone maggiore enfasi sull’importanza dell’accesso ai servizi e del contesto di quartiere e vicinato e, in ultima istanza, al sistema di welfare che in buona parte regola e influenza tale realtà. il tipo e la qualità di servizi garantiti, e insieme la possibilità di poter contare su aiuti e sostegni di tipo informale hanno infatti un effetto rilevante sullo stato di benessere e sulla salute. un’ulteriore ipotesi prende in considerazione la relazione di mutua influenza tra il capitale sociale e il capitale economico. in particolare Wilkinson (1996) nel definire la sua nota teoria dei determinanti psicosociali della salute ribadisce il peso che le risorse di tipo più strettamente materiale esercitano sulla percezione di sé, dunque sull’autoposizionamento lungo il continuum della scala sociale, con conseguente propensione a fare valere e/o coltivare lo stesso capitale sociale, o a perderlo gradualmente. applicando questa stessa chiave di lettura ad ambiti macro, l’autore individua nei contesti sociali caratterizzati da forti disuguaglianze nella Gli spunti per questa riflessione e la ripartizione teorica proposta sono stati offerti principalmente dal lavoro di ricerca di mikael rostila (2008), cui si rimanda per eventuali approfondimenti. 9 La dimensione relazionale 151 redistribuzione delle risorse un elemento di grave rischio per la salute, specialmente qualora questa caratteristica si combini a sistemi di welfare scarsamente redistributivi e a bassi livelli di capitale sociale. infine una quarta ipotesi suggerisce che più alti livelli di capitale sociale tra membri di un gruppo sociale siano essenziali per una rapida ed efficace diffusione di conoscenze e comportamenti dagli effetti positivi anche in ambito di salute. secondo l’interpretazione di Kawachi e Berkman (2000) questa relazione si spingerebbe oltre, fino a considerare gli individui in grado di condividere e socializzare esperienze e informazioni più capaci di auto-controllare i comportamenti in generale devianti e in particolare a rischio per la salute (e di esercitare controllo su quelli altrui). in una società con alti livelli di capitale sociale si registrerebbe dunque un diffuso senso di responsabilità, mutuo rispetto e controllo reciproco. Gli effetti agiti dal grado di embedding in un particolare reticolo sociale, in assoluto così come nello specifico ambito della salute, presentano esiti non scontati e si sviluppano in molteplici direzioni. se da un lato, infatti, le reti di relazioni tanto nella loro forma individuale quanto nella loro dimensione collettiva possono costituire un elemento importante per il mantenimento di un buon equilibrio psicofisico del singolo individuo (e/o della comunità), dall’altro lato l’impatto degli stessi network sulle condotte di vita più strettamente interrelate con il benessere psicofisico può avere conseguenze negative dirette o indirette. in particolare portes individua una serie di aspetti negativi che mettono in luce le potenzialità non univoche della risorsa capitale sociale10: sia nella sua dimensione collettiva, sia nella sua dimensione individuale, a proposito della quale l’autore suggerisce l’esistenza di quattro aspetti negativi relativi alla disponibilità della stessa risorsa. innanzitutto i legami forti che garantiscono ai membri di una determinata cerchia di conoscenze di avere accesso a specifiche risorse, possono costituire per altri individui esterni al gruppo – in particolare se in posizioni sociali più svantaggiate – un ostacolo insormontabile e un motivo di esclusione, favorendo dinamiche di disuguaglianza sociale. inoltre le relazioni tra gruppi inserite in un contesto permeato da forte solidarietà di tipo comunitario possono dare vita a gravi problemi di competizione, andando a svelare il così detto lato oscuro delle relazioni sociali. Qualora l’individuo si trovasse a dover fronteggiare una situazione di mobilità discendente infatti, il capitale sociale, invece di attivarsi in qualità di risorsa di supporto, potrebbe giocare un peso importante in senso peggiorativo attivando meccanismi di sanzione, riprovazione, esclusione. Questo ‘funnumerosi autori, tra cui gli stessi portes e rostila, parlano esplicitamente di effetti negativi del capitale sociale. in questa sede, come chiarito nel precedente paragrafo, è stata ritenuta più convincente la proposta di piselli. non è, pertanto, il capitale sociale in sé ad avere valenza negativa ma piuttosto il network sociale, da cui lo stesso capitale è, o può essere, generato. 10 152 Salute e disuguaglianze in Europa zionamento’ in senso negativo del capitale sociale rimanda direttamente alla terza caratteristica individuata da portes, che ricorda come le risorse di rete rappresentino un potente mezzo di diffusione di abitudini e comportamenti tanto di segno positivo quanto – in determinati contesti – di segno negativo. l’appartenenza a specifici gruppi, infatti, può avere tra le sue caratteristiche salienti una forte domanda di conformità ed esercitare una altrettanto forte pressione di gruppo; tale livello più o meno alto di controllo sociale può sì avere effetti positivi sulla salute, quando per esempio tende ad inibire abitudini rischiose e contemporaneamente a promuovere comportamenti virtuosi. ma può anche agire in senso diametralmente opposto: in contesti sociali particolarmente disagiati e deprivati lo stesso capitale sociale può indurre l’individuo a condividere le cattive abitudini diffuse in quell’ambiente. il capitale sociale diviene così il tramite per la diffusione di comportamenti insalubri. infine, in alcune particolari situazioni, relazioni di gruppo caratterizzate da legami particolarmente densi ed esclusivi, possono arrivare ad imporre la presa di distanza e l’autoesclusione dal resto della società, relegando i singoli individui all’interno di una enclave, e limitandone scelte di vita e comportamenti (anche quelli più direttamente legati a stili di vita e stato di salute) in base a specifiche regole. 2. Agire relazionale e stili di vita collettivi: variabili di contesto le ricerche empiriche che pure da decenni mettono bene in evidenza le ricadute agite dal contesto ambientale sulla salute mancano forse ancora di una struttura teorica solida e articolata in grado di supportarle compiutamente. Frolich, potvin e colleghi (2002) offrono un’interessante risposta a questo problema con il loro modello teorico di stile di vita collettivo, teso a ricomprendere e interpretare le dinamiche intercorrenti tra struttura sociale, pratiche sociali e agire sociale. sostengono gli autori che il voler guardare alla dimensione collettiva e relazionale e insieme all’individuo sia dato dalla necessità di riposizionare l’attore sociale all’interno del suo contesto di vita e di relazioni, quindi di leggerne le strategie e/o le singole scelte e azioni alla luce degli stimoli e delle espressioni provenienti dal suo milieu11 e di ciò che esso esprime. la scelta di adottare una prospettiva di analisi dello stato di salute prendendo in considerazione la dimensione di stile di vita collettivo si giustifica dunque come tentativo di superare la visione dicotomica che tende a ricondurre l’esposizione ai così detti fattori di rischio ora ai soli comporta- si tratta di una prospettiva di particolare importanza, che – inoltre – avvalora la proposta interpretativa presentata in questo saggio. tralasciare la dimensione del contesto sociale, come messo in evidenza, tra gli altri da susser (1999), significherebbe infatti perdere la dimensione relazionale dell’analisi delle dinamiche di disuguaglianza e ridurre i casi osservati a semplici dati epidemiologici più o meno sensatamente aggregabili. 11 La dimensione relazionale 153 menti individuali, ora al solo contesto sociale e ambientale. considerare simultaneamente tanto le condizioni socioeconomiche dei singoli, quanto le caratteristiche del contesto sociale (come livello di reddito, tasso di disoccupazione, qualità delle abitazioni, ecc.) situando quindi capitali e carenze individuali in un luogo concreto anch’esso caratterizzato dalla disponibilità o dall’assenza di precise risorse, offre un quadro forse più difficile da raffigurare ma sicuramente di maggiore efficacia esplicativa per ciò che riguarda la salute, sia percepita che esperita. se infatti sono ormai numerose anche in questo campo le indagini che si spingono ad analizzare la dimensione territoriale, per esempio al fine di testare le loro ipotesi sul ruolo della deprivazione materiale o del capitale sociale nell’eziologia della malattia, non è comunque scontato come si possa teorizzare, e quindi in un secondo tempo rendere operativa, la nozione stessa di spazio (o contesto) sociale12. nel corso degli ultimi anni anche la letteratura sociologica più attenta al tema della salute ha sviluppato analisi sul tema riconducibili a quattro principali prospettive. la prima considera il contesto quale ben definito confine fisico entro il quale è possibile registrare le condizioni di vita degli individui ivi situati mediante l’analisi di caratteristiche aggregate; la seconda attribuisce al contesto la valenza di dimensione territoriale caratterizzata da particolari fenomeni ambientali capaci di influenzare lo stato di salute; la terza identifica il contesto con le infrastrutture disponibili per la comunità locale (spazi verdi, esercizi commerciali, collegamenti mediante mezzi pubblici e privati); la quarta – infine – legge il contesto come sfera spazialmente situata delle relazioni sociali. tutte queste prospettive, in definitiva, sono accomunate da una interpretazione della dimensione spaziale/territoriale quale mediatrice di effetti della società sullo stato di salute: in alcuni casi, partendo dal presupposto secondo il quale persone socialmente simili presentano percorsi di salute simili lungo il loro percorso di vita, assumono che la distribuzione delle caratteristiche individuali della popolazione sul territorio influenzi i tassi di morbilità; in altri casi, con una operazione di rovesciamento di tale prospettiva ma sempre restando ancorati ad un’ottica di causa-effetto limitata a vedere lo stato di salute degli individui sensibile a mutamenti direttamente riconducibili al luogo di residenza e/o di vita, considerano le esperienze di cattiva salute di una popolazione principalmente riconducibili alle condizioni ambientali. un utile riferimento teorico, anche se non specificamente sviluppato sul tema delle implicazioni riguardanti lo stato di salute, è rappresentato dalla proposta interpretativa di territorio presentata da Giovannini (1999): «le relazioni sociali che l’uomo costruisce nello spazio e la cui specificazione locale costituisce l’identità di un territorio, si arricchiscono di una nuova consapevolezza: che accanto alle relazioni sociali dell’uomo nello spazio e alle relazioni culturali e materiali della società con gli ambienti ‘naturali’ di cui plasma la morfologia e la percezione, persiste comunque una irriducibilità fisico-biologica degli eco-sistemi rispetto al sistema sociale e alla sua capacità di riproduzione» (p.38). 12 154 Salute e disuguaglianze in Europa la proposta di Frolich (et alii 2002), invece, permette di superare tali consequenzialità, semplificazioni e rigidità dicotomiche, nel complesso fuorvianti. per capire come il contesto sociale possa esercitare influenze anche significative sullo stato di salute, l’idea è quella di analizzare la relazione tra comportamenti health-related, esposizione al rischio e conoscenza in termini di risultati dell’interazione tra struttura sociale e agency individuale13. Gli scenari concreti di tali dinamiche di interazione – i posti, gli spazi, i contesti – acquistano quindi grande importanza e ricchezza di significato sia per le loro caratteristiche fisiche e strutturali, sia per il loro significato simbolico, culturale, relazionale; importanza peraltro già messa bene in evidenza da Bourdieu che, a proposito delle differenze ovvero le «distanze effettive» tra un gruppo sociale e determinati beni e/o risorse, notava come a queste si dovesse aggiungere «la distanza geografica, che dipende a sua volta dalla distribuzione del gruppo nello spazio e, in termini più precisi, dalla sua distribuzione rispetto al punto focale dei valori economici e culturali, cioè [nel caso della Francia] rispetto a parigi o alle grandi metropoli regionali (sono noti, per esempio, i vincoli in materia di residenza, comportati da certe carriere, in cui l’accesso alla professione […] o le promozioni sono subordinate ad un esilio più o meno lungo)» (1979, p. 127)14. lo stile di vita collettivo è weberianamente concepito come un idealtipo costruito con finalità propriamente euristiche, o – come lo definiscono direttamente i suoi autori (Frolich, corin, potvin 2001; Frolich et alii 2002) – uno «strumento euristico» che, tenendo insieme i concetti di struttura sociale, pratiche sociali e azione sociale, si rivela in grado di spiegare come determinati output di salute subiscano l’effetto di particolari disuguaglianze sociali. definiti guardando oltre i comportamenti individuali, tenendo conto di come questi siano in realtà la risultante di articolate influenze agite dalle condizioni sociali degli individui stessi15, gli stili di vita collettivi rappresentano espressioni e mediazioni spazialmente localizzate tra come è noto, la relazione dialettica tra struttura e agency è stata ampiamente indagata anche da Giddens (1984) che in modo suggestivo teorizza quella che può essere definita dualità della struttura, cioè il suo essere, insieme, il mezzo e il risultato della riproduzione delle pratiche. più esplicitamente: la struttura sociale impone vincoli e offre opportunità che plasmano e orientano scelte e comportamenti degli individui; dall’altro lato gli individui in qualità di attori sociali con il loro agire, necessariamente situato nel tempo e nello spazio, riproducono e insieme modificano la struttura sociale. 14 in particolare, l’autore approfondiva queste sue osservazioni riguardo alla classe sociale degli agricoltori sottolineando come la loro distanza «dai beni della cultura legittima non sarebbe così immensa se alla distanza culturale vera e propria, che corrisponde alle dimensioni ridotte del loro capitale culturale, non finisse per addizionarsi anche la lontananza geografica, provocata dalla dispersione nello spazio che contraddistingue questa classe. analogamente molte differenze rilevate nelle pratiche (culturali e non) delle varie frazioni della classe dominante dipendono indubbiamente dal modo in cui esse si distribuiscono in base alle dimensioni della città in cui risiedono» (Bourdieu 1979, pp.127-128). 15 a partire da condizioni ascritte come il genere fino a condizioni acquisite come lo status socioeconomico (link e phelan 1995). 13 La dimensione relazionale 155 dinamiche individuali e dinamiche sociali; non riflettono passivamente e semplicemente lo stato socioeconomico e il tipo di welfare state da una dimensione macro ad una più circoscritta (meso o micro che sia) ma ne riarticolano e rimodulano gli stimoli; non sono semplici abitudini adottate da più persone, bensì rappresentano un segno della relazione intercorrente tra la struttura sociale e le pratiche sociali, e una indicazione dei gradi di potere di cui ciascun individuo dispone (sotto forma di agency) nel selezionare segnali e risorse dell’una e nel tradurli, in modo più o meno vantaggioso, nelle altre16. il concetto di stile di vita collettivo, così come teorizzato da Frolich, non si limita a guardare ai soli atteggiamenti direttamente legati allo stato di salute da una prospettiva di gruppo; tende piuttosto ad individuare e illustrare le forme complesse di interazione intercorrenti tra comportamenti individuali e comportamenti collettivi e set di risorse, aggiungendo dunque un importante tassello al paradigma teorico che individua il legame tra disuguaglianza sociale e salute nell’intreccio complesso di risorse e comportamenti propri di e/o riconducibili a ciascun attore sociale. il caso che si è scelto di approfondire, così da poter meglio comprendere anche nella sua parte applicata il modello teorico dello stile di vita collettivo, riguarda l’abitudine al fumo. tradizionalmente il consumo di sigarette, essendo oggetto di studi di approccio epidemiologico, viene considerato un comportamento frutto della combinazione di risorse socioeconomiche (indicate dalle variabili di classe, reddito, livello di istruzione) e di comportamenti individuali, ed è osservata limitatamente a queste due dimensioni. accostando il problema da una prospettiva relazionale (e sociologicamente più significativa) accanto alla dimensione della struttura sociale e a quella del comportamento diventa importante affiancare la dimensione di contesto. ciò non significa semplicemente aumentare il numero di variabili in un modello di regressione (Frolich et alii 2002), ma riconsiderare nel complesso il significato degli elementi registrati. riconcettualizzando l’atto del fumare da comportamento a pratica sociale non ci si limita cioè a darne una lettura in termini di atto compiuto dall’individuo in reazione ai condizionamenti della struttura sociale, ma piuttosto lo si considera una espressione sì di reazione ma anche di ‘traduzione’ tanto delle risorse quanto delle regole che caratterizzano in senso attivo e/o passivo la vita quotidiana del singolo e il suo ambito relazionale. Fumare dunque non deve essere considerato semplicemente un’azione frutto di costrizioni o pressioni, ma la trasformazione ovvero la traduzione dinamica di un insieme di stimoli lo stile di vita collettivo rimanda all’idea che la relazione tra condizioni sociali e azioni rappresenti una esperienza collettiva e possa perciò avere simili effetti su quanti condividano la stessa. se ciò comunque non implica che chiunque sia inserito in un medesimo contesto territoriale e/o sociale possa sviluppare ed esprimere un medesimo stile di vita collettivo, è pur vero che sono ritracciabili schemi e/o prassi di comportamento analoghi tra individui accomunati dalla condivisione degli stessi luoghi, o di luoghi simili. 16 156 Salute e disuguaglianze in Europa provenienti dalla struttura sociale tanto nella sua dimensione posizionale di status e redistributiva di risorse economiche e culturali, quanto nella sua dimensione di contesto sociale e di reti in esso attive. in quali luoghi la gente sceglie di fumare, in che modo si procura le sigarette, come percepisce l’azione del fumare, tutte queste dinamiche vanno ben oltre il semplice gesto individuale (comportamento), e mostrano come lo stile di vita collettivo sia espressione combinata tanto dello status socioeconomico individuale e di sue particolari pratiche, quanto delle risorse materiali e non, di una comunità. 3. Territorio e salute: studi di caso senza uno sforzo di comprensione delle relazioni intercorrenti tra vincoli e opportunità, scelte e comportamenti e struttura sociale (e dunque anche dei luoghi teatro di tali dinamiche) gli elementi associati alle esperienze di malattia dei singoli individui tendono ad essere spogliati della loro dimensione – e quindi del loro significato – sociale. perciò diventa importante osservare come le risorse di capitale sociale, intrecciandosi con quelle di capitale culturale e socioeconomico, si vadano a misurare con le risorse messe a disposizione dal territorio nel quale è inserito, si muove e agisce l’individuo; nel fare ciò è auspicabile munirsi dei più svariati strumenti teorici e tentare di cogliere le ipotesi più feconde, anche andando oltre la frattura tra le due principali scuole di pensiero (già incontrate nel primo paragrafo di questo capitolo a proposito del capitale sociale) che tradizionalmente hanno osservato tali fenomeni, e che qui si trovano applicate al concetto di stile di vita collettivo inserito in uno specifico contesto territoriale. come si è già accennato all’inizio del capitolo, l’approccio che concentra la sua analisi sul così detto effetto di composizione se da un lato privilegia una prospettiva che guarda al singolo attore sociale e alle sue specifiche caratteristiche, dall’altro lato tende a ridimensionare, fino a negarlo, il ruolo giocato dal luogo. secondo tale teoria le persone che presentano caratteristiche simili, a partire dagli aspetti socioeconomici, presenteranno percorsi di salute simili, a prescindere dalla loro concreta collocazione nello spazio sociale, ovvero ovunque essi vivano. un approccio che sviluppi la sua analisi intorno agli effetti di contesto, invece, considera le condizioni di salute individuali principalmente riconducibili ed attribuibili all’ambiente nel quale gli stessi attori sociali vivono più che alle loro caratteristiche personali, così che persone appartenenti alla stessa classe sociale presentano aspettative di vita anche molto diverse a seconda delle caratteristiche dell’area di residenza nella quale risiedono (shouls, congdon, curtis 1996). recentemente tali ipotesi sono state ulteriormente riprese e sviluppate dalla teoria ecologica, che tende a porre ancor più in rilievo gli effetti sovraindividuali, riconducibili alle caratte- La dimensione relazionale 157 ristiche dell’area17, proponendo analisi sempre più raffinate e aggiornate capaci di individuare i «fattori ecologici», ma senza poi essere in grado di spiegare come questi possano agire i loro effetti sulla salute, e appiattendo l’analisi delle aree urbane alla sola dimensione di spazio intesa in senso geografico, piuttosto che di contesto sociale, con tutte le sue implicazioni di configurazione sociale dinamica. osservare il quartiere di residenza, con la sua dimensione più specificamente culturale e ambientale, e insieme ad esso il relativo contesto di vicinato, nella sua accezione più tipicamente relazionale, rappresenta una opportunità particolare per comprendere come lo spazio più o meno circoscritto entro il quale si collocano l’abitazione e spesso buona parte della vita di relazione dell’attore sociale crei un ben definito e influente scenario per la sua azione: dove si presentano aspetti meramente strutturali, ma dove lo stesso territorio risulta interattivamente connesso tramite molteplici legami alle scelte e alle azioni dell’attore stesso18. legami che si presentano spesso come variabili, fluidi, socialmente costruiti, ma comunque capaci di agire effetti: per molte persone infatti la consapevolezza di vivere in un quartiere percepito e noto come di buona reputazione oppure come malfamato vuole dire molto. nelle pagine che seguono saranno messi a confronto due studi di caso tra loro molto diversi e distanti nel tempo e nello spazio. il primo si basa su una ricerca sociologica (tra le prime condotte in italia nel secon- 17 tra tutti si cita macintyre (2000) che, in uno studio su quattro distinte aree della città di Glasgow teso ad indagare i meccanismi mediante i quali le condizioni del luogo – sia in senso più propriamente ambientale che sociale – possono condizionare negativamente le possibilità dei residenti di vivere in salute, per esaminare la ‘qualità’ delle realtà locali individua quali indicatori principali la reperibilità e il costo di cibo sano, i tassi di criminalità, la possibilità di svolgere attività fisica. 18 a tale proposito è utile riproporre la puntuale definizione dei termini di quartiere e di vicinato proposta da luciano cavalli in uno dei capitoli de La città divisa. entrambe le espressioni si riferiscono «a una realtà che va al di la delle strutture materiali, case, strade, ecc.; una realtà sociale, evidentemente» (1965, p. 60). la relazione di vicinato tende a stabilirsi tra un numero di persone relativamente contenuto (e dunque a coinvolgere un limitato numero di abitazioni ovvero una porzione del quartiere) anche in virtù di alcune caratteristiche strutturali dell’area residenziale o, come nota l’autore, in virtù di «condizioni fisiche favorevoli» quali la vicinanza delle case tra loro, l’assenza di ostacoli naturali o artificiali, e invece la distanza spaziale e/o relazionale da altre aree abitate. entrano poi in gioco anche elementi di tipo sociale che possono consentire l’incontro, occasione cruciale per il formarsi di opinioni condivise: «empiricamente, è solo quando possiamo constatare dei modelli interattivi che tendono a ripetersi, che possiamo cominciare a parlare di vicinato; quando, per esempio, gli abitanti delle case in discussione si incontrano regolarmente in un certo locale, per esempio una chiesa, ed entrano in interazione» (1965, p. 60). il vicinato non si esaurisce però in un mero «ammontare di interazione sociale»: si caratterizza in realtà per un profondo sentire comune, per la condivisione «di valori comuni che influenzano il comportamento di tutti» (1965, p. 61). la differenza essenziale del quartiere rispetto al vicinato consiste dunque nel fatto che le dimensioni sono diverse «e quindi non può esserci quel generale rapporto informale vis-a-vis che è praticamente essenziale per lo sviluppo di rapporti primari. nel quartiere possono ben svilupparsi dei vicinati, ma il quartiere non è un vicinato» (1965, p. 93). 158 Salute e disuguaglianze in Europa do dopoguerra), commissionata dell’ufficio di studi sociali e del lavoro del comune di Genova, coordinata da luciano cavalli e pubblicata nel settembre 1957, volta a censire e analizzare le condizioni di vita degli immigrati (in gran parte meridionali) riparati in alloggi di fortuna ricavati in case danneggiate dai bombardamenti nel centro storico del capoluogo ligure. la seconda ricerca, basata su materiale prevalentemente di tipo qualitativo raccolto nel 1996 e pubblicata nel 2001 da cattell, si pone l’obbiettivo di esplorare le relazioni intercorrenti tra povertà ed esclusione sociale andando ad osservare nel dettaglio come in due quartieri notoriamente disagiati del hinterland londinese relazioni di vicinato e condizioni di salute siano complessamente intrecciate con le locali risorse di capitale sociale. l’obbiettivo della comparazione di questi due studi per certi aspetti così diversi è quello di mostrare come anche in realtà socialmente, geograficamente e temporalmente distanti, quartieri svantaggiati e caratterizzati da alcune particolari forme di vicinato possano essere teatro di, e insieme dare vita a, specifiche dinamiche sociali, in vario modo agenti sullo stato di salute. nel pionieristico e per molti aspetti innovativo lavoro di cavalli il termine «abitazioni deteriori», direttamente mutuato da slums, ha valenza relativa e vuole indicare le peggiori condizioni strutturali e sociali nelle quali può essere costretta a vivere la parte di popolazione più disagiata; nello specifico caso genovese è applicato a quelle abitazioni essenzialmente abusive nelle quali trova ricovero e organizza per più o meno lunghi periodi il suo domicilio la parte più povera della popolazione. cavalli, in particolare, individua tre principali ordini di cause per la nascita di questi «quartieri tugurio»: cause economiche che vedono le famiglie più disagiate costrette a rinunciare ad una abitazione regolare e più confortevole non alla loro portata per via delle logiche di mercato che regolano anche l’industria edilizia; cause amministrative, ovvero l’inadeguatezza delle politiche nazionali e locali nel fronteggiare il problema di garantire una casa a tutti i cittadini; infine, cause di ordine sociale che, se oggi possono essere rappresentate principalmente da carriere lavorative interrotte o fortemente precarie, da flussi migratori specialmente extracomunitari, da crescente instabilità delle relazioni matrimoniali e/o di coppia, nel contesto specifico dell’inchiesta si legavano ancora direttamente agli sconvolgimenti portati dalla guerra e alla massiccia immigrazione di meridionali, sinistrati e profughi delle colonie e dell’istria verso il triangolo industriale. l’insediamento oggetto dello studio, indicato come «s.», è situato in un’area prima occupata da un grosso edificio pubblico gravemente danneggiato dai bombardamenti degli alleati, e già riconvertito a ricovero di fortuna a partire dal 194819. nelle parti di edificio ancora parzialmente in 19 l’inchiesta si struttura sul rilevamento di dati mediante intervista guidata a 70 famiglie. complessivamente vengono coinvolti 155 adulti e 90 ragazzi. tra gli adulti viene individuato un sottocampione di 95 individui cui viene somministrata una seconda batteria di domande di approfondimento. La dimensione relazionale 159 piedi sono state ricavate camere riadattate alla meglio dagli immigrati stessi che ora vi abitano, o dai loro predecessori. tutta l’area rimanente è invece occupata da baracche in muratura, legno, latta e cartone, coperte da tetti di cartone incatramato. Gli spazi abitativi a disposizione degli intervistati sono frutto dell’occupazione abusiva di palazzi pericolanti e in stato di abbandono, nella maggior parte dei casi privi di acqua corrente, elettricità e sistemi di riscaldamento adeguati. nate come soluzioni di fortuna dove gli immigrati di varia provenienza trovavano un primo riparo, le «abitazioni deteriori» sono diventate il domicilio fisso delle famiglie più disagiate. la descrizione diretta resa da una delle intervistatrici coinvolte nel progetto riesce a ricostruire efficacemente in poche righe la condizione di estremo disagio di quell’ «area interstiziale» sorta nel cuore della città moderna: «alcune baracche hanno un po’ di orto davanti, altre uno spiazzo cintato in cui tengono cose da stanza buia; tutti, ad ogni modo, tendono, con griglie o staccionate, a barricarsi contro gli altri. in una baracca c’è un negozietto di frutta e verdura e, in un’altra, un negozietto di commestibili, senza insegna, ma che hanno tutta l’aria di guadagnare bene; il secondo è arredato di telefono, l’unico di questa zona» (cavalli 1957, p. 13). in questa sorta di «villaggio off-limits» situato nel cuore della città, ma lasciato a se stesso, le condizioni di vita sono assai dure. pur riscontrando una certa differenza tra caso e caso per ciò che riguarda la pulizia, l’ordine, e soprattutto l’arredamento (alcune soluzioni abitative, se pure abusive, sono dotate di buoni letti, cucine con forno, radio) «restano giganteschi inconvenienti […] a fare di s. un ambiente scomodo, malsano, pericoloso» (cavalli 1957, p. 18). l’analisi condotta da cavalli si articola in vari capitoli toccando diversi aspetti sia riguardanti le condizioni di vita, sia riguardanti le conseguenze che tale ‘soggiorno’ può determinare tanto a livello di deterioramento ulteriore del capitale sociale quanto di effetti negativi sullo stato di salute. in particolare si ricostruiscono e analizzano le condizioni materiali di vita proprie del quartiere disagiato: esso si caratterizza per una situazione di diffusa ed estrema deprivazione, mancanza di infrastrutture e norme igieniche, a partire dalle singole abitazioni spesso prive di acqua corrente, bagno privato, riscaldamento, senza divisione di spazi per le attività diurne e la preparazione del cibo e spazi per dormire, di metratura assolutamente inadeguata per il numero degli inquilini (in molti casi si era rilevato il numero di 6 inquilini per vano, in 16 casi di 8 inquilini per vano). mancano inoltre, per un significativo numero di famiglie, quei beni di uso particolarmente necessario come coperte e materassi. oltre che con le misere condizioni degli alloggi privati, gli abitanti dell’abituro s. devono anche fare i conti con l’assenza pressoché totale di servizi e infrastrutture pubbliche, a cominciare dall’illuminazione stradale (assente) alla manutenzione di strade e impianti di fognatura e raccolta delle acque piovane. inoltre, in particolare per quanto riguarda gli immigrati meridionali che rappresentano la percentuale più consistente dei residenti, non è previsto alcun tipo di aiuto 160 Salute e disuguaglianze in Europa mirato o pratica specifica di sostegno per favorire il trasferimento in un quartiere e in un contesto abitativo regolare. l’assenza di aiuti sia di tipo formale che di tipo informale unita ad un livello di istruzione generalmente molto basso20 si intrecciano con condizioni economiche di arrivo a Genova precarie e con la difficoltà di trovare una occupazione stabile e adeguatamente remunerativa. il cumularsi di tali condizioni di svantaggio segna in modo ulteriormente negativo il corso di vita e di relazione degli abitanti degli abituri anche nella dimensione della salute, minandone il fisico e la psiche, o comunque peggiorando condizioni già compromesse. per ciò che riguarda la rete di relazioni in particolare, la vita nell’abituro tende a rafforzare al suo interno la diffidenza e a rendere più grave la carenza di supporto reciproco; e a fare, invece, sentire in modo ancora più marcato nei confronti dell’esterno le condizioni di isolamento e il senso di esclusione, quando non di vero e proprio conflitto culturale con i «nativi»21. inoltre lo scarso livello di istruzione costituisce un ulteriore freno al processo di acculturamento22, rendendo difficili ed equivoci gli eventuali tentativi di comunicazione tra residenti nella zona degli abituri e abitanti della città «regolare». Gli scambi sociali tra i due gruppi sono poco frequenti e si registra una grave difficoltà da parte degli immigrati a conoscere, fare proprie e utilizzare ai fini di un più completo e vantaggioso inserimento conoscenze e abitudini locali; anche quelle informazioni che potrebbero essere acquisite mediante la lettura di giornali con cronaca locale e riviste rimangono comunque poco accessibili a causa del diffuso semianalfabetismo23. Gli abitanti dell’abituro genovese presentano un percorso di vita caratterizzato dall’accumulazione e stratificazione di disuguaglianze molteplici, che – con dinamiche ben note – si rinforzano le une con le altre segregando gli individui nelle posizioni più svantaggiate della società. cavalli offre una precisa ricostruzione sia degli aspetti materiali della vita negli abituri, soffermandosi sullo stato di deprivazione che connota la vita quotidiana degli intervistati, sia degli aspetti più relazionali e dinamici, prendendo in considerazione quindi risorse economiche, culturali, relazionali e relative chances di vita. 20 i casi di analfabetismo registrati tra gli adulti sono 23, ovvero il 14,8%, mentre in 44 casi (28,4%) il titolo di studio conseguito è la terza elementare. 21 a tale proposito cavalli nota: «così è che i gruppi nativi (o locali, per usare la definizione più comprensiva) e gli immigrati sembrano oggi divisi da un conflitto culturale, a volte latente, a volte manifestatosi in episodi di piazza. Qualche volta i nativi si preoccupano persino davanti allo spettacolo di mutua interpenetrazione e fusione dei caratteri. ci vedono, stante il numero crescente degli immigrati, un pericolo di confusione, o addirittura di annichilimento culturale, a tutto danno delle tradizioni settentrionali» (1957, p. 53). 22 cavalli, rifacendosi alla definizione di pratt Fairchild presente nel Dictionary of Sociology (1944), definisce «acculturamento» il processo di assunzione di cultura per contatto. 23 «il solo fatto di non leggere giornali è, si noti, un grave danno: perché la stampa quotidiana dà, forse più di ogni altra cosa, il senso di appartenere ad una medesima comunità» (cavalli 1957, p. 62). La dimensione relazionale 161 per ciò che più specificamente riguarda il legame reciproco tra disuguaglianza sociale e stato di salute, già l’autore – pur limitandosi a dedicare all’argomento poche sintetiche pagine – non manca di notare le mutue influenze tra le due dimensioni, anticipando di fatto (e risolvendolo in senso sincretico, superandone la frattura dicotomica) il sopra citato dibattito riguardo alla primazia delle dinamiche di contesto piuttosto che delle dinamiche di composizione. se infatti l’abituro offre un luogo di vita e di relazione sociale malsano ed alienante è pur vero che a comporre la sua popolazione sono i più deboli, «coloro che sono già denutriti, che hanno cattivi trascorsi di salute, la cui intelligenza e il cui spirito di iniziativa sono scarsi e via dicendo. e sono essi che alzano il tasso del rachitismo fisico e mentale, delle malattie e della delinquenza nelle aree degli abituri» (cavalli 1957, p. 79). in media lo stato di salute dei residenti nell’abituro s. si rivela precario: «Quasi la metà degli adulti, 76 per l’esattezza, sono stati ammalati da quando sono giunti in s., e molte sono, si noti, le malattie che possono essere ricollegate col freddo e con l’umidità degli abituri: per lo meno 56. […] ma occorre ricordare anche coloro che lamentano disturbi nervosi funzionali: probabilmente connessi con le pressioni sociali e culturali della città e con le abbiette condizioni d’abitazione. e ci sono coloro che, ammalatisi più seriamente, oggi sono altrove; almeno 5 persone, ad esempio, sono in sanatorio; non fanno parte della popolazione dell’inchiesta, ma, non pertanto, esse sono forse vittime di s.» (cavalli 1957, pp. 79-80). pur riconoscendo come troppo ‘grossolana’ e deterministica una ipotesi di causa effetto diretta tra abituro e malattia, l’autore comunque non nega l’esistenza di una qualche relazione causale. relazione segnalata anche dalla forte incidenza di patologie di tipo psicosomatico e/o di tipo più propriamente psichiatrico che cavalli, anticipando di diversi decenni la teoria dei determinanti psicosociali della salute (Karasek e theörell 1990, Wilkinson 2000), non manca di riconoscere e sottolineare24. Gli effetti delle condizioni di disagio sullo stato di salute e, prima ancora, sul rischio di sviluppare comportamenti antisociali sono le tematiche al centro anche del secondo studio di caso selezionato25. la ricerca si struttura a partire dalla comparazione di due distinte realtà residenziali della periferia londinese, le cui caratteristiche socioeconomiche, culturali e di capitale 24 in particolare, l’attenzione dell’autore per il fenomeno è messa bene in evidenza nella iV appendice dell’indagine dove le variabili malattia e nevrosi rientrano tra le «conseguenze antisociali degli abituri» (insieme a crimine, disoccupazione, prostituzione, ubriachezza, mendicità, anomia, famiglie divise o irregolari) e sono utilizzate per selezionare le storie familiari più significative. 25 la ricerca curata da cattell si inserisce in un più ampio progetto di monitoraggio dei quartieri degradati delle grandi città del regno unito promosso alla fine degli anni novanta dai politici fautori della terza via al fine di dare nuovo slancio alle policies e offrire nuovi strumenti per la riduzione delle disuguaglianze di salute. 162 Salute e disuguaglianze in Europa sociale sono ricostruite oltre che sulla base di analisi di dati quantitativi riguardanti la dimensione ambientale, anche dalla rilettura del ricco materiale offerto dalle interviste in profondità raccolte tra gli abitanti dei due quartieri26. entrambi i contesti sono accomunati da una ‘cattiva fama’ legata principalmente alle condizioni diffuse di estrema povertà, alla scarsa qualità dell’edilizia e alla loro scarsa manutenzione, all’afflusso piuttosto consistente negli anni ottanta di numerosi gruppi familiari così detti problematici, e all’alto livello di criminalità. tuttavia i due territori presentano una storia e vocazioni diverse che in parte possono aiutare a spiegare – tra le altre cose – il perché solo gli abitanti di uno dei due risultano avere interiorizzato, anche a livello individuale, le stigma derivate dai pregiudizi sul quartiere. il quartiere di Keir Hardie si compone di un mix di tipologie abitative ricomprendenti condomini risalenti al primo dopoguerra, villette indipendenti, e più recenti fabbricati di edilizia residenziale; l’area è delimitata da strade di grande scorrimento, dalla linea ferroviaria e dalla zona portuale: barriere architettoniche che tendono a isolare figurativamente e concretamente il quartiere. la presenza di attività commerciali (in particolare di pub), anche di vecchio insediamento, all’interno dell’area permette comunque ai residenti di godere di alcuni servizi e di avere alcuni punti di riferimento per le esigenze primarie e, soprattutto, per la vita di relazione. l’immediata vicinanza con i docks ha fatto sì che il territorio di Keir Hardie sviluppasse una forte identità legata all’attività portuale, ed è quindi facile comprendere come a partire dagli anni settanta, con l’avvento e la rapida diffusione dei container, l’area sia stata teatro di un lento ma progressivo e profondo declino. se le generazioni più anziane hanno avuto opportunità costanti di pieno impiego in occupazioni non qualificate o semi-qualificate legate proprio alle attività dei docks, i più giovani presentano frequentemente situazioni di disoccupazione di lungo periodo. tuttavia continua a sopravvivere e ad avere coscienza di sé una working class piuttosto definita e stabile che si caratterizza per una forte memoria storica, senso di appartenenza ai luoghi, un legame di comunità sentito e caratterizzato da valori di lealtà e reciprocità, un forte controllo interno al quartiere, paragonabile a quello che Jacobs (1961) definì eyes on the street, esercitato anche mediante lo strumento del pettegolezzo27. Keir Hardie presenta quindi un tessuto so- per ciascuno dei due quartieri sono state raccolte fra le 35 e le 37 interviste, condotte adottando un «metodo olistico»: la traccia semistrutturata cercava di guidare il colloquio sui temi della percezione dei rapporti di vicinato, sulla tipologia delle reti sociali, sulla possibilità di dare e ricevere supporto e aiuto, sulla propensione alla partecipazione, sulla auto-percezione di controllo sulle proprie scelte di vita e di qualità della vita e benessere (queste ultime finalizzate ad eventuali approfondimenti sul tema della salute). 27 sentimenti di appartenenza e di solidarietà diffusa che ben emergono da alcuni brani delle interviste, come i due seguenti: «la gente del vicinato è fiera di essere parte della working class: loro ti dicono mio padre era un portuale, mio nonno era un portuale», e ancora «il nonno 26 La dimensione relazionale 163 ciale tipico da quartiere «di classe», ancora prevalentemente omogeneo al suo interno e legato ai vecchi valori e alle vecchie ideologie; inoltre la realtà sociale del vicinato – come tipicamente avviene nei quartieri di città operaie di vecchia tradizione (cavalli 1965) – permette ancora lo strutturarsi di relazioni face to face, e una quotidiana esperienza di rapporti informali e mutuo aiuto. il quartiere di cathall è situato nel distretto londinese di leytonstone, a nord est della city e non molto distante da Keir Hardie, rispetto al quale presenta numerosi tratti analoghi: come la povertà diffusa, la disoccupazione, un’alta densità di nuclei familiari con un solo genitore. ciò che in particolare distingue il contesto sociale di cathall è lo scarso senso di appartenenza e di consapevolezza della storia e delle tradizionali vocazioni del territorio. le soluzioni abitative sono architettonicamente squallide28, poco adatte a favorire l’interazione sociale; si registra inoltre una netta assenza di luoghi di incontro nelle loro vicinanze (tanto di spazi pubblici come piazze attrezzate o giardini, quanto di spazi privati come spazi commerciali o ricreativi). ancora, aggiungendo ai precedenti elementi il continuo turn-over degli inquilini e i diffusi comportamenti antisociali, si completa il quadro di un ‘clima’ che certo non favorisce, anzi rende difficile, lo sviluppo di una rete di relazioni locali, tende anzi ad indebolire i legami preesistenti29, e mina il senso di appartenenza alla comunità. dalle interviste, infatti, risulta chiaramente come i residenti lamentino l’assenza di uno ‘spirito di comunità’, sostituito invece dalla presenza costante di sentimenti di sospetto, diffidenza e paura, e da un diffuso clima di indifferenza. come emerge direttamente da alcuni passi delle interviste raccolte, la necessità di fronteggiare quotidianamente un ambiente deprivato e percepito come ostile rappresenta un forte motivo di stress ed un elemento negativo per lo stato di salute. inoltre la scarsità di risorse economiche e l’inadeguatezza delle soluzioni abitative – già di per sé elementi negativi per il mantenimento di un buono stato di salute30 – si accompagnano frequentemente ad un forte isolamento. là dove sono presenti numerosi problemi da affrontare, e con scarsa disponibilità di capitali sia economico sia lavorava nelle navi per il trasporto di granaglie. e così noi eravamo sempre pieni di riso. allora davamo ai vicini un po’ di riso, e qualcun altro dava a noi un po’ di verdura» (cattell 2001, pp. 1504-1505, traduzione mia). 28 all’epoca della pubblicazione del saggio di cattell nell’area ricomprendente cathall aveva appena preso il via un progetto di riqualificazione delle abitazioni promosso dall’Housing Action Trust (Hat) di cui però – data la fase ancora iniziale dei lavori – non è stato possibile tenere conto degli eventuali effetti e benefici. 29 la nota cattiva fama di cathall spesso rappresenta un serio ostacolo per lo scambio di visite e la frequentazione tra chi è «fuori» e chi è «dentro», anche tra parenti e amici stretti. 30 come riportato direttamente da un intervistato: «tutte queste pressioni economiche affliggono la loro vita. a molte persone piacerebbe poter lavorare, ma allo stesso tempo la cosa li spaventa perché perderebbero il diritto al sussidio e potrebbero non essere in grado di farcela» (cattell 2001, p. 1511, traduzione mia). 164 Salute e disuguaglianze in Europa culturale, l’estensione della rete di relazioni e forse ancora più in particolare la qualità di tali relazioni rappresentano risorse cruciali. per esempio, si rivela molto importante per alcuni anziani abitanti di cathall la consuetudine, rigidamente regolata da norme informali e aspettative reciproche, di scambiarsi cibo nei momenti di bisogno. mentre sia l’isolamento dai parenti in conseguenza, in molti casi, alla rottura della relazione di coppia, sia l’isolamento dai colleghi di lavoro quando ai licenziamenti seguono più o meno lunghi periodi di disoccupazione, sia l’isolamento dal vicinato data la difficoltà strutturale a fare incontri e l’assenza di una consuetudine agli scambi sociali costituiscono tutti elementi capaci di far mutare condizioni di stress in vere e proprie patologie depressive e rappresentano un ‘terreno fertile’ per la diffusione di comportamenti a rischio quali – tra i più diffusi – l’abuso di alcol e il fumo. risulta dunque chiaro come le deprivazioni materiali combinandosi con quelle sociali tendano ad innescare dinamiche di esclusione sociale e a rendere l’individuo sempre più isolato e fragile, tanto più in quei contesti ambientali e territoriali caratterizzati a loro volta da scarsità di risorse economiche, culturali e relazionali. Questi studi di caso mettono bene in evidenza, dunque, come tanto la percezione del proprio livello di deprivazione, quanto la consapevolezza di tale disuguaglianza, modellano e condizionano i network di relazione sia nella loro capacità di creare capitale sociale sia nella loro valenza strategica in fatto di salute e benessere. Vergogna, mancanza di rispetto, senso di inferiorità e ansia tendono ad essere i sentimenti costanti che accompagnano le persone più disagiate nei loro momenti di interazione con individui di classe sociale superiore (o percepiti come tali), e che possono portare da un lato ad un ancora più netto isolamento, più o meno consapevolmente cercato; dall’altro lato, a trovare conforto e/o sfogo in pratiche dannose per il loro stato di salute: a partire dalla sedentarietà, al consumo di junk food consolatorio, fino all’alcolismo e alla depressione (Wilkinson 1996; Wilkinson e pickett 2009). alla luce di questi risultati di ricerca appare più chiaro quanto e in che modo la realtà territoriale intesa come spazio sociale possa giocare, anche in forma marcata, un ruolo ora positivo ora negativo nell’accesso alle diverse chances di vita e nella strutturazione delle disuguaglianze. in positivo, il territorio – sia per i suoi aspetti più propriamente strutturali come la buona tipologia e qualità delle strutture abitative, la favorevole posizione rispetto al resto del contesto urbano, l’accessibilità e la frequenza dei collegamenti; sia per le opportunità occupazionali, le occasioni di partecipazione ad attività comuni, le regole di vicinato improntate alla reciprocità, il senso di sicurezza e protezione da crimini, e infine lo scambio di informazioni e di mutuo aiuto – tende ad accrescere dimensioni e influenze del capitale sociale, con riflessi di rilievo sullo stato di salute. in negativo – quando si struttura su caratteristiche quali bassa o degradata qualità delle abitazioni, isolamento rispetto al contesto urbano, mancanza o insufficienza di lavoro, La dimensione relazionale 165 scarsa integrazione culturale, debolezza delle tradizioni di cultura civica, condizioni di vita modeste, comportamenti antisociali diffusi e inadeguatezza di servizi – diventa scenario e promotore di processi pesantemente rilevanti per le condizioni di vita: favorendo meccanismi di depauperizzazione del capitale, sia di tipo strettamente materiale sia di tipo relazionale, fino ad intaccare lo stesso patrimonio di salute. Conclusioni come accennato nell’Introduzione uno dei primi ostacoli che si sono dovuti affrontare nel prendere in considerazione la relazione tra salute e disuguaglianze sociali è stato quello non piccolo di doversi confrontare con una letteratura e con approcci metodologici in buona misura di altra appartenenza disciplinare: epidemiologica, medica, statistica, economica, solo per citare i principali. lo sforzo maggiore è stato allora quello di tentare una riappropriazione del tema da una prospettiva prettamente sociologica e di identificazione dei percorsi conoscitivi sui quali si potesse esercitare con profitto lo specifico sapere della sociologia. che questa fosse un’operazione del tutto legittima è apparso chiaro fin dalle prime ricerche sulla letteratura disponibile. la relazione – da sempre esistente – tra salute e disuguaglianza sociale emerge e si consolida lentamente e solo molto tardi, tra ’700 e ’800, alla consapevolezza pubblica e scientifica. come noto, è questo un periodo cruciale nella storia della società europea, percorsa dalle nuove correnti di pensiero dell’illuminismo e del positivismo, ma soprattutto investita dal ‘terremoto’ economico, sociale e culturale del capitalismo industriale. significativamente, in questo periodo prendono forma e acquistano spazio e legittimità le scienze sociali, che maturano il loro statuto disciplinare nel confronto con i nuovi problemi posti dalla società industriale: il depauperamento delle masse, lo sfruttamento esasperato del lavoro, il radicale mutamento delle condizioni di vita. la sociologia si forma e cresce prima di tutto su questi temi, acquistando rapidamente quel profilo scientifico che porterà un sociologo contemporaneo come dahrendorf a definirla «figlia della società industriale». con un inevitabile passaggio critico, anche il tema della disuguaglianza sociale si va dunque rapidamente a collocare al centro degli interessi della disciplina sociologica che lo affronta da diversi versanti: il lavoro, l’economia, la popolazione, le classi sociali, ecc. e fino dalle pionieristiche ricerche condotte Giulia mascagni, Salute e disuguaglianze in Europa. Processi sociali e meccanismi individuali in azione, isBn 978-88-8453-981-6 (print), isBn 978-88-8453-979-3 (online) © 2010 Firenze university press 168 Salute e disuguaglianze in Europa tra XViii e XiX secolo da scienziati sociali e analisti, emerge con tutta evidenza il tema della salute e il suo strettissimo legame con le più rilevanti disuguaglianze prodotte dal capitalismo moderno. lo si è visto chiaramente nei lavori di engels e di le play, ma anche in quello di Villermé. Questi loro studi hanno aperto la strada a una complessa riflessione sui processi sociali che si compongono e danno forma alla relazione tra salute e disuguaglianze. maturati sul comune terreno della ricerca urbana (Villermé e le play sui quartieri parigini, engels sulle periferie operaie di manchester), indicano già con precisione alcuni dei percorsi interpretativi utilizzati in questo lavoro di ricerca: primo fra tutti quello che collega causalmente condizione socioeconomica e stato di salute, non tanto (o non ancora) in modo astratto, quanto piuttosto guardando alla loro concretezza e specificità ecologica. inoltre, aprono la strada anche a quelle dimensioni d’indagine, messe a fuoco con chiarezza solo dalla letteratura successiva, che costituiscono un altro asse interpretativo quello relazionale: indagato sul terreno delle appartenenze sociali e di classe, ma declinato secondo specifiche appartenenze territoriali (di città, di quartiere, di vicinato). pur con periodiche oscillazioni, la salute rimane da allora in poi tra i temi centrali dell’analisi sociologica, in parallelo con la progressiva presa di coscienza del suo inestimabile valore sociale, tanto a livello popolare, quanto a livello di classi dirigenti. come dimostrano però le ricerche nazionali sul tema, e come anche in questa sede si è potuto ripetutamente registrare nell’analisi comparata tra diversi paesi europei, adottare una comune definizione di salute, proprio in virtù della sua natura di valore socialmente costruito e quindi strettamente dipendente dai profili culturali, economici e sociali nei quali ha preso forma, può essere altamente fuorviante. pur con tale consapevolezza, in alcuni passaggi è stato necessario e inevitabile dare per scontata una definizione comune di salute e malattia, in particolare nel fare ricorso a banche dati o survey di ambito europeo o sopranazionale, ma anche ad indagini nazionali di tipo campionario che tenevano scarso conto delle articolazioni sociali, culturali e territoriali del loro universo di riferimento. si è cercato di fare emergere più chiaramente e affrontare almeno parzialmente queste difficoltà utilizzando, in modo particolare nel sesto capitolo ma non solo, i risultati di ricerche più focalizzate su specifiche realtà sociali e territoriali. con tutti i noti limiti della metodologia dello studio di caso, pare infatti che questa impostazione abbia consentito di aggiungere alcune utili valutazioni di tipo qualitativo all’analisi delle relazioni tra salute e disuguaglianze sociali. nella scelta delle ipotesi da privilegiare si è deliberatamente tralasciato di considerare, pur senza sottovalutarlo, il peso degli elementi biologici sullo stato di salute, concentrando invece l’attenzione sulle variazioni imputabili a precisi processi sociali e i cui profili risultavano fortemente influenzati dalle specifiche modalità organizzative della società di riferimento, locale o nazionale che fosse. partendo dalla prima semplice rela- Conclusioni 169 zione che la letteratura di settore ha da tempo verificato senza incertezze – cioè che più si scende nella scala sociale ed economica, più aumentano i tassi di morbilità e di mortalità – si è arrivati alla formulazione di un’ipotesi, pur di non semplice verificabilità, che esplicitava la relazione causale o comunque di forte influenza tra disuguaglianze sociali e stato di salute. seguendo le indicazioni di schizzerotto, ci si è prima di tutto proposti di indagare le disparità oggettive e sistematiche di possesso di risorse sociali, economiche e culturali, e la capacità o incapacità di utilizzarle per preservare o massimizzare il proprio stato di salute. si è poi cercato di tener conto, nella predisposizione delle ipotesi di lavoro, di un aspetto di circolarità che sfuggiva alla precedente impostazione e che invece era ben presente nelle discussioni teoriche di Giovanna Vicarelli, tese a tenere insieme individuo e società, micro e macro, tempo e spazio, senza stabilire priorità o direzioni di influenza. ciò ha permesso di fare riferimento anche a prospettive poco coltivate, almeno in gran parte della letteratura, relative alle capacità di condizionamento esercitato dallo stato di salute, in particolare nel favorire od ostacolare i processi di mobilità sociale, quindi nel determinare le stesse differenze di posizione sociale; e, ancora, di non lasciarsi sfuggire le logiche di effetto perverso di quelle disuguaglianze sociali che ostacolano l’accesso ai servizi essenziali (magari pensati per farvi fronte) finendo così per retroagire su di esse con un tipico meccanismo di circolo vizioso; infine, come si è tentato di fare negli ultimi capitoli, di prendere in esame e valutare le dimensioni spaziali e temporali del problema (quando possibile congiuntamente) considerando i luoghi di vita degli individui nello svolgersi diacronico delle relazioni sociali, aiutati in questo soprattutto dalla ricca produzione teorica ed empirica sul capitale sociale e sul social network. una prima sommaria verifica delle ipotesi poste è stata condotta a livello europeo, utilizzando soprattutto banche dati di organismi sovranazionali, survey di istituti specializzati e le poche ricerche a carattere prettamente sociologico condotte sul tema in europa. se da una parte questa prima analisi ha consentito una immediata verifica dell’ipotesi principale, e cioè l’esistenza di una forte correlazione tra stratificazione (o gradiente) sociale e stato di salute (con le specificazioni di cui si dirà tra poco), dall’altra ha posto di fronte a problemi interpretativi in parte previsti, in parte inaspettati. alla luce del dibattito in corso, è stato piuttosto agevole risolvere i primi (esiste una società europea? quali sono i suoi confini geografici?) limitando il campo d’indagine all’area occidentale (l’europa dei 15): scelta che ha permesso di operare il confronto entro una realtà a sufficiente livello di omogeneità, rendendo meno banalmente dimostrativa la comparazione tra i diversi stati nazionali europei sotto il profilo al centro di questo volume. si è invece dimostrato meno semplice valutare le differenze nazionali nella relazione tra sistemi di welfare, disuguaglianze sociali e stato di sa- 170 Salute e disuguaglianze in Europa lute. su questi aspetti, infatti, le ricerche condotte portano a risultati controversi: in base ai quali è stato possibile affermare soltanto l’esistenza di indicazioni non univoche tra i vari paesi circa l’efficienza dei sistemi di welfare (politiche sociali, politiche di prevenzione, servizi sanitari, ecc.) nel rendere meno stringente la relazione tra salute e disuguaglianze sociali. eppure il laboratorio europa sembrava in ipotesi prestarsi a valutazioni positive in questo senso. primo, per la storia in buona parte comune che dal dopoguerra ad oggi ha segnato il percorso politico e sociale dei diversi stati europei (crouch); secondo, per l’azione di coordinamento tra i sistemi nazionali di sicurezza sociale che l’europa ha tentato con forza di portare avanti in questi decenni; terzo, per l’influenza culturale, ma non solo, che è stata esercitata dalla discussione sul modello sociale europeo, e dai tentativi di darvi almeno parziale attuazione nei vari paesi. la volontà europea di coltivare solidarietà, coesione sociale ed equità, di estendere universalmente i diritti di cittadinanza sociale, di socializzare rischi ed opportunità (Giddens), è stata però messa a dura prova dalle resistenze e dai dinieghi dei diversi stati nazionali, impegnati a fare i conti ognuno con la propria storia e modalità di affermazione dello stato sociale (Vicarelli) e inclini a rispondere in modo differenziato anche a pressioni simili. Forse solo negli anni più recenti, per gli effetti di una crisi economica grave, lunga e ancora non superata, sommata ai sempre più assillanti problemi demografici (primo fra tutti l’invecchiamento della popolazione), i diversi stati europei vedono attenuarsi le differenze storiche nazionali e convergere almeno parzialmente i rispettivi sistemi di welfare. l’analisi condotta a livello europeo ha comunque permesso di mettere in evidenza punti di forza e di debolezza dell’approccio comparativo sotto il profilo indagato in questa sede. il risultato di maggior interesse è quello che, partendo dallo stabilire una relazione generale (e generica) tra disuguaglianze sociali e stato di salute, riesce poi a guardare oltre specificandone le modalità per i diversi casi nazionali e classe per classe – o, più precisamente, categoria sociale per categoria sociale. c’è una conclusione comune che emerge dalle indagini europee: la correlazione tra posizione sociale e stati di cattiva salute è debole tra le classi sociali medio-alte, e diventa invece più forte man mano che si scende la scala sociale verso le posizioni meno privilegiate. detto più semplicemente, sono queste ultime a dimostrare con tutta chiarezza la relazione tra disuguaglianza sociale e salute, mentre al di sopra di un certo livello della stratificazione i fattori sociali si fanno sentire sempre meno, o comunque con dinamiche diverse e altre rispetto a quelle della diseguaglianza. inoltre i legami causali non sono così semplici né così univoci. alcune patologie, per esempio, colpiscono con maggior frequenza le classi sociali alte: ma non è facilmente dimostrabile se ciò dipenda da stili di vita tipici dei ceti privilegiati o se semplicemente questo dato registri solo la loro maggiore propensione a prestare attenzione ai segnali psicofisici e a sottoporsi a controlli medici periodici. Conclusioni 171 la relazione poi si rivela spesso spuria, dato che a complicare il quadro, aggravando o attenuando l’impatto della disuguaglianza sociale sulla salute, concorrono politiche sociali e servizi sanitari capaci a loro volta di agire con effetti differenziati sulle diverse classi a seconda dei modelli di intervento politico e sociale cui si ispirano. anche su questo ultimo punto dati e ricerche hanno dimostrato che non sempre esiste una relazione positiva tra qualità ed efficienza dei servizi sanitari e stato di salute. lo si è visto con chiarezza negli approfondimenti nazionali del terzo capitolo, dove alcune volte il confronto tra svezia e italia – che pure presentano politiche dell’assistenza non paragonabili – è andato a vantaggio del nostro paese. le ragioni sono molte. una ha carattere generale: esiste una sorta di ‘legge’ che modella il rapporto tra servizi sanitari e disuguaglianze sociali, che Hart ha chiamato la Inverse Care Law, secondo la quale le risorse assistenziali si distribuiscono in maggiore quantità e in migliore qualità in modo inversamente proporzionale ai bisogni della popolazione, paradossalmente andando ad alimentare le disuguaglianze sociali che dovrebbero invece fronteggiare. altre ragioni sono più specifiche, e indicano come le politiche sociali e sanitarie – qualora vogliano raggiungere i loro obiettivi – debbano essere accompagnate da specifiche azioni di supporto. le indagini su questo aspetto hanno infatti concordemente rilevato una sorta di overlapping negativo nella fruizione dei servizi sanitari da parte delle classi più deboli che presentano, oltre agli svantaggi già ricordati, una particolare resistenza culturale a usufruire delle prestazioni sanitarie per la prevenzione e la tutela della salute. concludendo su questo punto: senza voler negare l’influenza positiva diretta o indiretta che la disponibilità di servizi sanitari esercita sulle disuguaglianze nella salute – ad esempio contribuendo, come afferma costa, alla diffusione di un senso di sicurezza e di protezione sociale tra la popolazione – i materiali di ricerca riguardanti questo tema convergono su una valutazione che va oltre il giudizio sulla capacità di promuovere l’equità da parte delle politiche sociali in senso stretto e rimanda invece a uno stato più generale della società e delle sue articolazioni sociali. come ha dimostrato Berlinguer in un interessante confronto tra roma e londra, la differenza nei successi dei sistemi sanitari sta anche nelle condizioni nelle quali si trovano gli individui e i gruppi sociali destinatari degli stessi. la loro efficacia è direttamente correlata al senso di appartenenza e di identità della popolazione, alla capacità da parte delle classi dirigenti di favorire la crescita e la diffusione di solidarietà e coesione sociale, al clima culturale e alla rete di relazioni propri degli ambienti nei quali si va ad intervenire: tutti elementi in grado di sorreggere e di rendere più scorrevole e semplice – o al contrario, di ostacolare pesantemente – la realizzazione delle politiche pubbliche e sanitarie. È una indicazione adottata e seguita negli approfondimenti degli ultimi capitoli, dove si sono posti al centro dell’analisi elementi di tipo contestuale e relazionale. 172 Salute e disuguaglianze in Europa dall’approfondimento comparativo tra svezia, regno unito e italia si sono venuti delineando indicatori di particolare importanza ed utilità esplicativa, nei limiti delle capacità dimostrative del metodo della comparazione. limiti probabilmente aggravati dal modello interpretativo adottato, che ha cercato di tenere insieme la multidimensionalità delle relazioni tra disuguaglianza sociale e salute, guardando non solo alle differenze nelle politiche di welfare, ma anche alle diversità di struttura sociale, profilo culturale, tradizioni nazionali. si è preferito tentare questo percorso, anche se non privo di rischi, nella convinzione che non si possa semplificare troppo la realtà in funzione di esigenze metodologiche e/o tecniche – come purtroppo non di rado accade. il principale risultato empirico è sintetizzabile comunque nella persistente importanza del contesto nazionale, sia nei suoi dati obiettivi, sia nei processi sociali e nei meccanismi individuali che legano salute e diseguaglianza. lo si è visto, in particolare, nell’analisi sui fattori di rischio socialmente rilevati (fumo, alcol, sovrappeso, regimi alimentari). tutti si sono dimostrati strettamente dipendenti dal contesto culturale nazionale nel quale sono maturati: più legati, cioè, alla specifica configurazione delle risorse culturali disponibili che al maggiore o minore possesso di risorse economiche. Questo non vuol dire che non esista una stretta connessione con le rispettive appartenenze sociali, ma piuttosto che esse si presentano secondo profili nazionalmente – e culturalmente – differenziati. per fare qualche esempio: il consumo di alcol si è rivelato un buon strumento di rilevazione delle disuguaglianze sociali in svezia e nel regno unito, molto meno in italia. in particolare ha registrato differenze di rilievo tra lavoratori manuali e non manuali a testimoniare la permanente importanza anche sotto questo profilo di una disuguaglianza sociale ‘storica’. analogamente abitudini alimentari e sedentarietà presentano una stretta relazione con la posizione socioeconomica, ma al contempo contribuiscono a far luce su come le disuguaglianze sociali agiscono sullo stato di salute in base alle diverse modalità nazionali. l’analisi diacronica ha poi aggiunto informazioni di grande interesse, che hanno consentito di registrare i mutamenti intervenuti nelle rispettive strutture sociali nazionali. È un risultato consentito dalla stessa natura dei fattori di rischio prescelti, i quali si ripercuotono sullo stato di salute in tempi relativamente rapidi e dunque sono in grado di registrare nel brevemedio periodo i processi di trasformazione sociale e culturale. ad esempio: il consumo di tabacco presenta oggi una relazione con la struttura di classe di segno inverso rispetto al secolo scorso, segnalando come i rapporti tra disuguaglianze e salute non siano costanti ma mutino al mutare dei significati culturali associati ai comportamenti sociali. il consumo di alcol, così come l’abitudine al fumo, segue in media un trend di diminuzione, tranne che per alcune specifiche fasce di popolazione per le quali questi e altri comportamenti a rischio si modulano su livelli sempre più alti. ciò Conclusioni 173 è segnale di una generale riduzione quantitativa, almeno in europa, della marginalità sociale, ma anche di un suo aggravamento qualitativo, come se il processo di cumulazione dei comportamenti a rischio corrispondesse al processo di cumulazione delle disuguaglianze sociali. nella seconda parte di questo saggio si è cercato di dare risposta ad alcuni interrogativi fondamentali sul rapporto tra salute e disuguaglianza. attingendo prevalentemente al ricco materiale empirico prodotto nei paesi al centro dell’analisi, sono state approfondite le tre dimensioni di ricerca che non da oggi sono al centro dell’interesse sociologico sulla salute. assumendo il corpo quale nesso tra dimensioni fisiche, biologiche e materiali, da una parte, e dimensioni sociali, relazionali ed emozionali dall’altra, l’analisi si è concentrata in successione sui processi sociali e sui meccanismi individuali che strutturano la relazione tra disuguaglianze sociali e salute nello spazio d’azione della sfera economica, poi di quella culturale, infine di quella sociale e territoriale. i contributi di ricerca presi in esame per il primo punto hanno confermato l’assoluta centralità della dimensione economica nel tempo e nello spazio. nel tempo, perché le disuguaglianze su questo piano si mantengono chiaramente influenti sullo stato di salute anche quando avvengono cambiamenti radicali nei fattori di rischio (ad esempio mutamenti nelle abitudini alimentari) così come quando nuove patologie rappresentano le prime cause di morte (ad esempio non più la tubercolosi ma le patologie cardiovascolari). nello spazio, perché non c’è società o luogo che si sottragga alla relazione positiva tra disponibilità di risorse economiche e stato di salute: in senso assoluto ma soprattutto – per quanto riguarda i ‘ricchi’ paesi europei – in senso relativo. una relazione ben lontana dall’attenuarsi o dallo scomparire: come infatti si è visto, se è vero che in generale nelle nostre società si è andata riducendo la mortalità in termini assoluti, sono però aumentate le differenze tra i tassi di mortalità dei diversi strati sociali, persino all’interno degli strati sociali più ricchi, a dimostrazione che la disuguale disponibilità di capitale economico mantiene attivo un gradiente sociale anche nelle fasce medio-alte della popolazione (come emerge con grande chiarezza soprattutto negli studi inglesi). i casi presi in esame aggiungono però importanti specificazioni alla elementarietà di questa relazione, documentando come le condizioni materiali di vita mettano in moto dinamiche (sociali e psicologiche) capaci di darle forma e visibilità: è il caso delle molte situazioni di svantaggio sotto questo profilo strutturale, che – come emerso – costantemente si accompagnano a stati di insicurezza, di ansia o di depressione, a testimonianza di come la deprivazione economica (sia pure relativa) si traduca anche sul piano individuale, e di come non di rado possa esprimersi in sindromi psicopatologiche socialmente correlate. le ricerche condotte in svezia, regno unito e italia hanno portato distinti elementi di valutazione e anche metodologicamente si sono mosse 174 Salute e disuguaglianze in Europa secondo diverse prospettive. con la semplicità empirica che caratterizza il mondo anglosassone, gli studi inglesi hanno scelto quale proxy di posizione economica il solo livello occupazionale, concentrando le loro ricerche sugli adulti attivi, e mettendoli in relazione con i tassi (e i differenziali) di mortalità, convinti non a torto del più sicuro significato di questo dato rispetto a quello più incerto e variabile di morbilità. la relazione si delinea in modo chiaramente interpretabile, soprattutto per gli uomini, meno per le donne: ciò – come emerso in varie occasioni – rappresenta un problema costante, probabilmente riconducibile ad una maggiore resistenza della salute femminile ai fattori sociali e insieme una maggiore influenzabilità da parte di elementi biologici. i ricercatori svedesi che si sono confrontati con la relazione tra disuguaglianze economiche e salute hanno esteso le loro valutazioni anche agli aspetti qualitativi, a partire fondamentalmente da analisi sulle condizioni di lavoro. tutte le principali ricerche convergono su una conclusione apparentemente paradossale se si considera il basso livello di disuguaglianza sociale della svezia: e cioè che proprio nelle situazioni di benessere diffuso le disuguaglianze di salute sono causate fondamentalmente da disuguaglianze di tipo sociale. nel paese scandinavo, come nel regno unito, si presta molta attenzione al dato dell’occupazione, registrato e valutato non solo nella sua dimensione statistica ma anche in quella esperienziale espressa dalla vita di lavoro. in particolare, si guarda ad essa non tanto per la sua capacità di produrre maggiore o minore reddito, ma soprattutto per come e per quanto si accompagna a posizioni di potere e di controllo. in due direzioni: la prima, perché più si scende nella gerarchia del lavoro più aumentano insoddisfazioni, frustrazioni, stress ed altre condizioni psicologiche e relazionali che incidono negativamente sulla salute; la seconda, perché la gerarchia sociale espressa dalla posizione di lavoro si accompagna a possibilità decrescenti di controllo del proprio percorso biografico via via che si scende nelle posizioni inferiori della scala sociale: in altri termini, perché la possibilità di esercitare un controllo sul proprio destino costituisce un elemento cruciale nell’esperienza di vita, la sua mancanza o insufficienza provoca una situazione di stress cronico che, agendo anche a livello fisico, aumenta la vulnerabilità fino ad esporre a vere e proprie patologie. in italia, le poche ricerche che si sono mosse in questa prospettiva hanno registrato con tutta evidenza la persistenza (se non l’aggravamento) di un gradiente sociale di salute. lo studio longitudinale torinese, che rappresenta indubbiamente l’esperienza italiana più importante in questo campo, dimostra senza incertezze come le disuguaglianze di salute si registrino non solo nelle fasce estreme della scala sociale, ma in tutte le dimensioni della struttura demografica e sociale. la centralità della variabile economica è fuori discussione, ma i ricercatori torinesi si spingono oltre, sperimentando un’ipotesi di lavoro di grande interesse sociologico. estendendo la relazione anche a variabili extraeconomiche (composizione familiare, re- Conclusioni 175 sidenza, istruzione, ecc.), dimostrano infatti come i differenziali di salute (misurati principalmente attraverso quel chiaro indicatore che è costituito dai differenziali di mortalità) siano influenzati a parità di posizione socioeconomica dalla maggiore o minore incongruenza di status (tra ricchezza patrimoniale, lavoro e istruzione) dei soggetti in esame. È un risultato originale, soprattutto per il suo tentativo di tenere insieme più dimensioni della disuguaglianza e di valutarne nelle possibili combinazioni l’influenza sullo stato di salute. se non è negabile la centralità della dimensione economica nella relazione tra disuguaglianza sociale e salute, di non secondario rilievo si è dimostrato anche il ruolo esercitato in questa relazione dal capitale culturale. purtroppo, rispetto al capitale economico, questo è oggettivamente di meno semplice identificazione, tanto è vero che quasi tutte le ricerche esaminate optano per una radicale semplificazione, adottando come proxy del capitale culturale il dato sintetico relativo al livello di istruzione. indicatore che, indubbiamente, si rivela comunque prezioso in molti casi. se si considerano ad esempio i più consueti indicatori, quali mortalità e speranza di vita, vediamo come essi varino costantemente in modo proporzionale al titolo di studio, e senza significative differenze tra svezia, regno unito e italia. anche là dove le politiche sociali sono improntate a criteri di maggiore egualitarismo e i servizi sanitari e assistenziali si collocano ai più alti livelli di efficienza e di efficacia – come accade in svezia – chi possiede bassi titoli di studio registra peggiori stati di salute, tassi di mortalità più alti e speranza di vita più breve. specularmente, come emerge dai dati e dai risultati delle ricerche esaminate, quanti invece hanno raggiunto livelli di istruzione superiore godono di tutta una serie di vantaggi garantiti dal possesso di un più raffinato e complesso capitale culturale (strettamente associato, appunto, al livello di istruzione): che permette un più facile accesso ai servizi sanitari e una loro migliore fruizione; che favorisce scelte e abitudini capaci di salvaguardare la salute, ad esempio sottoponendosi regolarmente a screening preventivi ed evitando o moderando abitudini dannose come fumare o bere; che si accompagna a un livello di più forte autostima con dimostrati riflessi positivi sullo stato di salute. alcune ricerche di maggiore spessore sociologico hanno poi consentito di comprendere meglio i processi sociali e i meccanismi individuali che sottostanno alla relazione tra istruzione e salute: primo, evidenziando la centralità formativa e la capacità produttiva di capitale culturale del percorso scolastico e universitario che fornisce direttamente o indirettamente una strumentazione e un patrimonio (di abitudini, valori, stili di vita individuali, capacità relazionali) crescente al crescere del livello di istruzione formale; secondo, come ulteriore specificazione, sottolineando l’importanza delle relazioni che si creano durante gli anni di studio nell’interazione con quel cruciale agente sociale rappresentato dal gruppo dei pari (la classe scolastica, i compagni di università, ecc): tramite particolarmente effica- 176 Salute e disuguaglianze in Europa ce, perché opera direttamente sul piano emozionale, nel trasmettere codici comportamentali, considerazione o disprezzo di sé, capitale culturale specializzato, ecc. – tutti elementi che le ricerche considerate dimostrano in forte relazione con lo stato di salute. se tutto questo potrebbe sembrare confinato entro la sola prospettiva weberiana della «condotta di vita» – un Lebensstil inteso nella sua declinazione individuale – in realtà ha permesso di seguire una strada più specificamente indirizzata all’analisi della relazione tra capitale sociale e salute. attraverso un confronto e una discussione della produzione scientifica sul tema, e con il contributo di alcuni studi di caso, si è cercato di dimostrare come l’adozione o il rifiuto di un healthy lifestyle non sia né solo la conseguenza di scelte individuali né solo il frutto del condizionamento esercitato dal contesto sociale e ambientale. per superare i limiti interpretativi imposti da questo approccio dicotomico si è scelto di utilizzare modelli conoscitivi mutuati dalla letteratura prodotta in questi ultimi decenni dagli studiosi del territorio: in particolare, da chi si è occupato di capitale sociale localizzato e di stile di vita collettivo, nei contesti necessariamente circoscritti di vita e di relazione. Gli elementi emersi sono molti, e meriterebbero ulteriori approfondimenti. dallo storico caso degli abituri genovesi a quello più recente dei degradati quartieri dell’hinterland londinese risulta con chiarezza la capacità del territorio – nella sua accezione socioambientale – di declinare localmente le variabili macro della società di riferimento (dal tipo di welfare alla configurazione della struttura sociale e culturale) e di essere a sua volta modellato dal basso, dagli assetti sociali e dalle costellazioni culturali espresse dalle sue popolazioni. È questa realtà di sintesi, che dialoga costantemente con i network di relazione del luogo, a dar vita e consistenza a capitali sociali strategici in fatto di star bene o di star male. Vicinati, quartieri, città, con i loro caratteri materiali e immateriali, costituiscono la variabile decisiva nella determinazione del ruolo positivo o negativo, di opportunità o di vincolo, che può esercitare il capitale sociale localizzato nel favorire o nell’impedire l’adozione di stili di vita collettivi di salvaguardia o al contrario di rischio per la salute. ci si trova di fronte a processi sociali e a meccanismi individuali di cui la ricerca sociologica ha per ora soltanto intuito la logica e il funzionamento, ma che comunque sono lì ad indicare come gli interventi di prevenzione e cura della salute debbano prestare particolare attenzione alla diversità delle configurazioni sociali sul territorio, perché è attraverso queste che transitano informazioni e relazioni, possibilità e limiti, regole e risorse. È una indicazione particolarmente valida per paesi a livello di benessere diffuso come quelli europei e oggi accolta da molti studiosi, nel tentativo di affermarla anche in ambito politico e di implementazione delle misure sociali. in queste realtà, infatti, l’unica modalità di intervento realmente efficace per le sue conseguenze positive sulla salute è quella che agisce sui meccanismi della società, lavorando e operando là dove si produce e si vive quotidianamente la condi- Conclusioni 177 zione umana e sociale. come affermano tra gli altri due dei più autorevoli studiosi di questi processi (marmot e Wilkinson), la strategia vincente è quella di lavorare per una riduzione della disuguaglianza sociale perché è questo il principale meccanismo che condiziona lo stato di salute di una popolazione. Bibliografia aa. VV. (2006), A caro prezzo. Le disuguaglianze nella salute. 2° Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, pisa, ets. abel t. 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