Economia di guerra e Covid-19
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di Luca Michelini
1. Macron, Presidente della Repubblica Francese, si è spinto a invocare per l’emergenza
Covid-19 la “mobilitazione generale”, “perché siamo in guerra”1. Si invoca, insomma, la
creazione di una sorta di economia di guerra. Ciò che del resto sta accadendo in Italia e
nel resto d’Europa con un ritardo forse colpevole (il caso inglese essendo il più
sconcertante), è paragonabile a provvedimenti tipici di una economia di guerra, anche se
le nostre massime autorità, il Presidente del Consiglio Conte e il Presidente della
Repubblica Mattarella, hanno finora adottato toni assai più misurati di quelli usati da
Macron. Nel recente decreto del Governo italiano, in ogni caso, compaiono disposizioni
in merito ad eventuali “requisizioni”2, provvedimento tipico da economia di guerra. E non
bisogna dimenticare che le economie di guerra, quando è il “nemico” a dettare la
tempistica, nascono spesso con provvedimenti presi poco alla volta, sull’onda
dell’emergenza e dei repentini cambiamenti di scenario, senza alcuna predisposizione
precedente di una qualche effettiva rilevanza3. Siamo dunque agli esordi di una possibile
economia di guerra, i cui sviluppi dipendono dall’evolversi della situazione sanitaria. Così
almeno fu il caso dell’Italia nel corso della Prima Guerra Mondiale. E mi limito
volutamente a questo esempio perché vittorioso nonostante tutto; cioè nonostante il fatto
che è in questa guerra che hanno radici i turbamenti sociali che portarono alla dittatura
fascista e dunque alla seconda guerra mondiale.
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Se pur tra mille cautele dovute principalmente al fatto che sono uno spettatore di
quanto avviene e non appartengo al novero di coloro che guardano “la macchina”
dall’interno e quindi hanno informazioni oggi fondamentali per valutare la situazione, ciò
che sta accadendo può spingere a svolgere alcune considerazioni di carattere generale.
2. La prima considerazione è proprio sul concetto di economia di guerra e su quanto oggi
è ad essa paragonabile. La nazione, attraverso i suoi organi costitutivi e dunque anzitutto
attraverso gli atti dello Stato (in quanto governo parlamento regioni protezione civile
ecc.), decide di perseguire un obiettivo a cui vanno subordinati gran parte degli interessi
individuali. Notevole, però, che l’economia di guerra di oggi differisca dall’economia di
guerra vera e propria.
Come insegna la prima guerra mondiale, gli interessi indicati come “interessi della
nazione” storicamente non sono affatto coincisi con gli interessi di tutta la popolazione.
Erano infatti interessi di una parte di essa: una/più élites, una/più classi sociali, uno/più
partiti. In argomento teorici e storici si sono assai divisi, ma il fatto stesso che la prima
guerra mondiale sia frutto di nazionalismi in lotta e che dalla prima guerra mondiale
nascano rivoluzioni e controrivoluzioni segnala l’esistenza del problema: una parte si
erige a tutto, identifica i propri interessi e i propri bisogni come interessi e bisogni della
nazione. Nel caso del Covid-19, invece, la platea si può dire coincide con la cittadinanza
intera, se rimaniamo all’Italia per semplificare il discorso: tra individuo e nazione non
sembra per ora esserci l’esigenza (salvo i provvedimenti paternalistico-coercitivi volti a
cambiare le abitudini individuali: come quella della libera circolazione) che esista un
demiurgo (un capo, un partito, una razza, una classe, una élites) capace di imporre
coattivamente (con la forza: militare, delle squadracce, di un partito ecc.) che l’interesse
di una parte della nazione, che si arroga il diritto di rappresentare l’intero, coincida con
l’interesse di tutti gli individui. Tutti gli individui sono cioè oggi d’accordo nel sacrificare
alcuni dei loro interessi per conseguirne altri, ritenuti prioritari o indispensabili per
perseguire anche quelli che, momentaneamente, vengono sacrificati. Siamo insomma
lontani dalla retorica nazionalistica tipica del bellicismo novecentesco4.
3. Questa esperienza, dunque, credo (spero) sia di importanza decisiva perché insegna a
tutti, non più soltanto ad una parte della popolazione (sia questa parte individuata come
si crede: classi, élites, ceti, partiti, gruppi, nazioni ecc.), che l’opera collettiva può avere un
obiettivo che va a beneficio di tutti ma che si può raggiungere solo attraverso sforzi
comuni e anzitutto attraverso l’azione dello Stato. È un’esperienza fondamentale perché
ricorda a tutti che strategico, che frutto di uno sforzo collettivo immane e straordinario,
può non essere per forza di cose solo e soltanto la guerra guerreggiata: ma possono
invece essere strategiche “guerre” di carattere sociale come, p.es., la lotta al Covid-19 e
quindi la creazione di una sanità capace di garantire il diritto alla salute a tutti.
Tutto allora può diventare oggetto di emergenza sociale? La risposta è affermativa: tutto
può diventare frutto di emergenza sociale da affrontarsi con i mezzi tipici di una
economia di guerra.
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Basterebbe guardare la storia dello stato sociale del Novecento, certo. Ma l’evento
eccezionale che stiamo vivendo ci ricorda con maggior forza di quella che deriva dalla
faticosa ricostruzione della storia, che è frutto di incessanti lotte di ogni genere e di aspre
diatribe interpretative, che i diritti sociali sono stati conquistati solo se considerati
emergenze sociali improcrastinabili, cioè tendenzialmente accettate da ogni singolo
individuo. Come appunto il diritto alla salute, realizzazione di uno sforzo collettivo
eccezionale della Gran Bretagna appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale (il celebre
“piano Beveridge”). Per fare un esempio spero illuminante: non era inconsueto leggere
nella pubblicistica della Resistenza italiana ragionamenti che miravano a considerare che
l’enorme sforzo collettivo bellico offriva il concreto esempio che era possibile realizzare
collettivamente, sull’esempio dell’economia di guerra, obiettivi grandiosi e votati al
progresso dell’umanità e non alla sua distruzione.
Ecco dunque l’importanza che ha l’elaborazione di idee e la discussione pubblica, il
circolo virtuoso tra ricerca scientifica (in ogni ambito) e costruzione della pubblica
opinione. Anche pensare che sia la paura alla base di questo inedito idem sentire,
dobbiamo chiederci di che cosa dobbiamo imparare ad avere paura. Dobbiamo
chiederci quale ruolo in questa riflessione deve inevitabilmente avere non solo la scuola,
ma anche la più grande azienda culturale italiana, come la RAI, quale politica dell’editoria
deve essere realizzata e quali strumenti escogitare perché anche i social ne vengano
influenzati o determinati.
4. La seconda considerazione è che l’economia di guerra, di fatto, ha sempre posto in
crisi il paradigma economico liberista.
Rimaniamo al caso italiano: durante la Prima Guerra Mondiale vi erano economisti che
pensavano realizzabile una conduzione liberista della guerra e temevano e denunciavano
i ritorni all’interventismo statale in economia. Di fatto ha però sempre prevalso
l’intervento pubblico, per quanto esso si sia esplicato in forme molto differenti5.
Vanno dunque separati due momenti. L’individuazione degli obiettivi che sono
considerati strategici. Gli strumenti per realizzarli: che per forza di cosa devono essere
molteplici, senza preclusione ideologica alcuna. Oggi, non avere questa preclusione
ideologica significa capire che possono essere raggiunti anche, e spesso esclusivamente,
con il ricorso dello Stato.
Obiettivi strategici sul piano politico, sociale ed economico. Il termine appartiene
all’armamentario argomentativo antiliberista, è bene esserne consapevoli. Significa
considerare qualsivoglia divisione del lavoro (tra individui, come tra nazioni), del tutto
artificiale e per questo modificabile: non è F. List ad insegnarci questa verità, non è cioè il
principale teorico del nazionalismo economico, ma è A. Smith. Non esistono nazioni
industriali per vocazione naturale (per risorse date, di qualsiasi natura esse siano). Il
talento, le capacità scientifiche e industriali, si possono creare. Al centro dell’economia c’è
il lavoro umano, infatti. E nel corso della storia le varie forme di industriosità si sono
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create solo e soltanto limitando la libera concorrenza, solo governandola saggiamente,
con un intervento pubblico che di volta in volta ha inventato ed ha implementato i suoi
strumenti di intervento.
Se si tratta di una guerra, è doveroso chiedersi se eravamo preparati. Era considerato
strategico prepararsi ad un simile evento? La risposta è no e una prima analisi di quanto è
accaduto in Corea del Sud ci avverte che la crisi poteva essere affrontata in modo
diverso6. Ma non nell’immediato, ma come preparazione di medio-lungo periodo ad una
crisi di questo tipo. Una diversa preparazione sul piano sanitario, implica, ovviamente,
ben differenti conseguenze sul piano economico. È bene ricordarsi che le conseguenze
economiche del Covid-19 dipendono in gran parte dallo stato della sanità pubblica, dai
limiti industriali della sua capacità di risposta (numero di posti-letto di rianimazione
disponibili).
Rimane da chiedersi per quale motivo non eravamo preparati: difficile negare che il
motivo risiede nel fatto che lo Stato, cioè la collettività, ha perseguito l’utopia liberista,
anche se solo tendenzialmente, perché l’Italia della Seconda Repubblica ha avuto in
eredità la gestione dello Stato sociale costruito nel corso della Prima Repubblica, pur
avendo cercato in ogni modo di disfarsene. Oltre ai tagli alla sanità7 vanno ricordati i tagli
alla ricerca scientifica8. Di fatto si è poi rinunciato a definire strategico e dunque di
interesse nazionale, il comparto dell’industria sanitaria, che così si è trovata impreparata
al contagio. Mancano addirittura le mascherine, cioè prodotti industriali a bassissimo
valore aggiunto. Per non parlare dei macchinari (ventilatori), per non parlare delle
strutture (si parla di ospedali nella Fiera di Milano, di ospedali militari da campo), per non
parlare del capitale umano (medici, infermieri ecc.).
Nel corso della Seconda Repubblica si è pensato, di fatto (ma il calcolo nemmeno si è
fatto, evidentemente), che il costo della limitazione della ampiezza del mercato in questi
settori sarebbe stato minore del costo di una crisi del genere di quella che stiamo
vivendo: tipico argomento di critica del liberismo da parte dei protezionisti, sia chiaro, fin
dai primi dell’Ottocento. D’altra parte, nemmeno si è considerato che incentivare questi
settori, come argomentato da tutto il pensiero protezionista (J.S. Mill compreso), avrebbe
comportato riuscire a portarli sulla frontiera della produttività e della innovatività.
Colpisce, infine, come non si sia considerato strategico il comparto sanitario quando da
anni si decantano le “vocazioni” turistiche dell’Italia (anche queste, come se fossero
sostanzialmente naturali): oggi, per inciso, messe completamente in ginocchio.
5. Qualche considerazione sull’intervento dello Stato in economia. I commentatori
liberisti usano spesso il termine negativo di “statalismo”. Utilizzare questa terminologia
significherebbe rimanere intrappolati nell’ideologia liberista, che appunto mette in un
unico calderone l’intervento collettivo utilizzando la parola “statalismo”. È una tradizione
che risale almeno alle polemiche sul 1848 francese e basterebbe sfogliarsi i libri di F.
Bastiat! Lo Stato, invece, può e deve scegliere, ed ha scelto nel corso della storia, molte
forme di intervento economico e sociale per raggiungere i propri obiettivi. Lo Stato
Italiano ha inventato lo stabilimento siderurgico di Terni e poi di Taranto, l’IRI, la Cassa
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per il Mezzogiorno, il Ministero delle partecipazioni statali, l’Eni, l’Enel, le municipalizzate,
l’urbanistica, la programmazione economica, la Mobilitazione industriale (IGM), l’Istituto
dei cambi con l’estero. Non si è limitato, dunque, ai calmieri e alle requisizioni. E poi ci
sono i dazi doganali, gli incentivi alle imprese private o ai settori ritenuti strategici, aiuti di
diversa natura, le rottamazioni, i consumi obbligatori e via discorrendo. È da auspicare
che anche in questo campo il paradigma liberista entri definitivamente in crisi. Le riforme
di cui ha bisogno lo Stato non sono quelle costituzionali o elettorali o del sistema
parlamentare, tutte rivolte a restringere la rappresentanza e dunque la democrazia per
consentire una completa restaurazione liberista. Le riforme che sono necessarie sono
invece quelle che consentono l’invenzione e la realizzazione di strumenti di azione
collettiva i più adatti per raggiungere l’interesse generale e gli obiettivi strategici.
Sapendo che raramente questi obiettivi si raggiungono concependo istituzioni che
abbiano come obiettivo quello del conseguimento del profitto. D’altra parte, forse
sarebbe ora di capire, visto il carattere periodizzante dell’esperienza berlusconiana (negli
studi si parla di “ventennio berlusconiano”, infatti), che nessuna grande impresa ha per
scopo la realizzazione di obiettivi solo economici, né i mezzi che utilizza sono
esclusivamente economici.
6. Solo ora, grazie purtroppo ad un evento tragico come il Covid-19, i concetti che ho
brevemente passato in rassegna cominciano a ritornare, timidamente, di una certa
attualità, dopo decenni di retorica liberista volta a far coincidere questa riflessione, che
non ha pregiudizi nei riguardi del protezionismo e dell’azione statale in senso lato, con il
bellicismo nazionalista o di un inefficiente corporativismo consociativo. È segno di un
incipiente cambiamento che un banchiere sodale di Berlusconi si spinga, nel corso di una
nota trasmissione di Rete49, ad affermare che la Popolare di Bari vada nazionalizzata,
naturalmente sottolineando come il salvataggio interbancario oggi in vigore sia assai
rischioso per coloro che sono chiamati a parteciparvi. È forse segno del cambiamento dei
tempi che, di fronte al tracollo del trasporto aereo in tutto il mondo, Alitalia venga
nazionalizzata con i provvedimenti del governo riguardanti l’economia10. È segno del
cambiamento dei tempi che lo Stato cerchi imprese private capaci di produrre ciò che
occorre per fronteggiare l’emergenza sanitaria e decida di privilegiare queste imprese
per raggiungere i propri scopi. È segno di un certo cambiamento che il Presidente Conte
abbia scelto come consulente economico l’economista M. Mazzuccato, autrice di un libro
come Lo Stato innovatore (Laterza, 2014). Saranno però davvero tempi nuovi quando si
proporranno ragionamenti razionali e lungimiranti in tema di sicurezza del lavoro – forse
non è un caso che la geografia del Convid19 si sovrapponga a quella delle fabbriche e dei
posti di lavoro – capaci di superare la stagione liberista della deregolamentazione
selvaggia del mercato del lavoro. Una stagione talmente egemone sul piano culturale ed
economico da essere riuscita a trasformare, purtroppo, il reddito di cittadinanza in una
politica attiva del lavoro ed è significativo che non si sia pensato ad una sua estensione
per fronteggiare la crisi in corso. Una stagione talmente egemone da essere riuscita a
pensare che per tamponare la crisi economica derivante dal Covid-19 si possano dare
600 euro al mese (il costo, circa, di una stanza in affitto a Milano) alle cd. partite IVA, che
costituiscono, come noto, una delle svariate forme che ha assunto la forza-lavoro
salariata dei nostri tempi. E tuttavia, rassicura la consapevolezza del governo italiano, che
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siamo di fronte, con il decreto citato, solo ad una prima serie di provvedimenti.
L’importante è che si abbia la percezione precisa che i tempi del collasso economico non
sono quelli degli iter burocratici o dei criteri di eleggibilità tipici della finanza “normale”. Ci
vogliono provvedimenti coraggiosi, universali, di immediata praticabilità. Il QE non può
finanziare la speculazione finanziaria o incanalarsi solo faticosamente negli investimenti
privati, ma oggi deve finanziare i consumi, oltre che gli investimenti pubblici.
7. La guerra lampo, nell’era della produzione industriale (I e II Guerra Mondiale), ha
sempre lasciato il posto alla guerra di posizione. La guerra chirurgica, alla “guerra
totale”11. L’economia di guerra mobilita una immensa quantità di risorse. Come
ottenerle? Le alternative sono sempre state molto chiare: imposte, debito o cartamoneta. La guerra, ci insegnano gli economisti12, si fa con la carta-moneta e quindi con la
monetizzazione del debito pubblico. Non ci sono alternative realistiche, tanto più oggi
che siamo di fronte al collasso (la chiusura) di interi settori industriali. La BCE,
probabilmente su impulso americano e forse francese (non certo su impulso tedesco),
dopo un primo tentativo di “grecizzare” l’Italia (si può interpretare diversamente quanto
sostenuto dal Governatore della Banca Centrale Europea in tema di spread?), senza
probabilmente capire che l’impatto sull’economia europea sarebbe stato devastante
(anche per la Germania, per intenderci), pare voglia monetizzare il debito pubblico. Una
monetizzazione che tuttavia appare ancora timida perché i meccanismi attuali del QE
sono ancora ingessati, succubi delle logiche nazionali: come se la logica economica fosse
paragonabile alla logica amministrativa o elettorale. Il caso italiano, come dimostra
l’innalzamento dello spread, in ogni modo deve essere stato quello decisivo nello
spingere in questa decisione e decisiva deve essere stato il diffondersi del contagio in
tutti i paesi europei.
Tuttavia, vista la dinamica conflittuale inter-statale che l’attuale configurazione
dell’Unione Europea ha creato e sta alimentando, possiamo immaginare e prevedere che
la partita non sia affatto finita. Si tratta, infatti, di una dinamica nazionalistica, nonostante
la retorica europeista tenti di negarlo, trovando come comodo paravento l’insorgere dei
cd. sovranisti, presentati come focolai di irrazionale agire politico ed economico
(speculano sulla paura). Si deve infatti ricordare che è stato J.M. Keynes a mostrare che
una limitazione della libera circolazione delle merci (il protezionismo), se è vero che ha un
costo economico, è anche vero che protegge dall’assai maggior costo economico che
provocano le conflittualità che scatena quello che ad una prima analisi appare un costo
minore, cioè l’opzione globalista-liberista. Se è vero che produrre mascherine in paesi
asiatici consente di avere prezzi inferiori, e pur vero che in caso di crisi queste
mascherine diventano irreperibili e che il costo che ciò comporta, per esempio la
chiusura di interi rami industriali, ha un costo ben maggiore di quello che avremmo
dovuto sopportare se le mascherine le avessimo prodotte in Italia, ad un prezzo
maggiore. Anche se c’è da dubitare che in Italia non saremmo stati in grado di produrle,
dopo un certo periodo, a prezzi competitivi.
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La partita non è affatto finita sia perché potrebbero darsi (ma assomiglia ad un’utopia,
purtroppo: ma sembra che il cd. patto di stabilità sia finalmente saltato) i giorni decisivi per
una radicale trasformazione e riforma dell’Unione Europea: e in proposito rimando a
quanto lucidamente sostenuto da Paolo Savona in audizione alle Camere13. Sia perché
l’unanimismo patriottico di questi momenti potrebbe inevitabilmente lasciar posto alla
discordia politica e sociale. Una discordia generata dalla crisi economica e dal
cambiamento nella posizione economica di ceti sociali ed individui e dei loro rapporti,
provocati dai provvedimenti economici del governo e dal contemporaneo collasso di
settori rilevanti dell’economia. Non è insomma indifferente come i governi, e quello
italiano in particolare, deciderà di spendere il denaro. Ammesso e non concesso che il
debito venga effettivamente monetizzato. Ammesso e non concesso, insomma, che il
nazionalismo, quello vero, quello che ha devastato l’Europa, non prenda il sopravvento: o
in nome dell’europeismo e cioè della politica neo-mercantilista e di potenza della
Germania; o in nome di “sovranismi” ancora più aggressivi, ma che non sarebbero altro,
come già sono, il segno, la conseguenza, del fallimento dell’Europa politica e sociale.
Quella liberale e socialista del Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
8. Vorrei finire con una riflessione sul carattere delle ideologie economiche oggi in
campo in Italia. Il fatto che Paolo Savona, autore del famoso “piano b”14 che prevedeva
come possibile scelta strategica per l’Italia quella dell’uscita dall’euro, non sia potuto
diventare ministro fondamentale nel governo giallo-verde ritengo abbia costituito una
grave battuta d’arresto per il Paese. A prevalere, infatti, è stata l’ideologia liberistanazionalista del berlusconismo, oltre che la paura delle nostre massime istituzioni delle
conseguenze internazionali che la scelta di Savona si pensava provocassero. A
prescindere dai vincoli internazionali che non possono che costituire uno dei fattori di
fondamentale considerazione delle nostre istituzioni più rilevanti, a prevalere è stata
quell’ideologia che, ben altrimenti da quanto essa teorizza, ripudia il pensiero di Adam
Smith, perché ritiene che l’interesse privato, e più in particolare quello dell’imprenditore
(Smith parlava però di capitalisti), coincida con quello pubblico, finendo per idealizzare le
magnifiche sorti e progressive dell’Imprenditore-Stato, che ha sostituito lo Statoimprenditore. Una cultura economica che rimane di fatto mercantilista15, da questo
punto di vista, e che come il mercantilismo punta ad una compressione del potere
d’acquisto della forza-lavoro e nemmeno concepisce la necessità di uno Stato sociale.
Rivelandosi così erede di quella cultura nazionalista e liberista (Enrico Barone, Maffeo
Pantaleoni, Vilfredo Pareto) che ha improntato di sé una parte considerevole del
pensiero economico del ventennio fascista16 e che ha mal digerito le forme di intervento
pubblico, di matrice liberal-protezionista e per nulla fasciste, che il regime decise di
adottare per rispondere alla Grande Crisi del ‘29.
Un mercantilismo, insomma, che non riesce e non vuole evolversi in keynesismo17, la cui
filosofia sociale apre, di fatto – ma in Italia ci vorrà la guerra di liberazione e la nascita
della Repubblica –, a posizioni liberali e socialiste in quanto invoca la redistribuzione della
ricchezza e la socializzazione degli investimenti: considerate per nulla frutto di una
utopia politica, quanto di una necessità economica e sociale per salvaguardare gli aspetti
positivi del capitalismo. Anche la Lega non è riuscita a liberarsi di questa cultura
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berlusconiana18, come comprova l’atteggiamento tenuto su Autostrade e su Taranto,
dove nemmeno si è posta il problema dell’intervento pubblico. Il Partito Democratico al
momento non sembra essere riuscito a voltar pagina dal “liberismo di sinistra”, anche se
si intravvede qualche passo in avanti nella direzione di una ripresa della tradizione
socialdemocratica classica, visto il ruolo crescente che sta assumendo il forum sulle
diseguaglianze19. Ciò che più preoccupa è il pensiero economico cattolico, che, dalla
stagione Andreatta-Prodi, protagonista dello smantellamento (privatizzazioni) dello
Stato-imprenditore, della sovranità monetaria e dei primi fondamentali attacchi al potere
d’acquisto dei salariati (cd “pacchetto Treu”), sembra pervaso dal liberismo e che nelle
sue voci più audaci, come quelle che sembrano far capo a Papa Francesco, sembra avere
rinunciato a porsi il problema dello Stato, confidando, probabilmente, che il principio di
sussidiarietà consenta una riconquista da parte della Chiesa cattolica di spazi sociali
significativi e in prospettiva egemoni. E il Movimento 5 stelle? Non si è posto, al
momento, il problema della propria cultura economica: che non è solo un problema di
idee, ma anche di organizzazioni e di istituzioni capaci di intercettarle, di crearle, di
diffonderle. La sinistra cosiddetta radicale (termine tipico del liberismo di sinistra,
ansioso di liberarsi dalla tradizione keynesiana e socialdemocratica), pur avendo voci
critiche dell’austerità liberista20, non riesce più a trovare la strada dell’organizzazione
politica.
9. Che cosa fare allora? Al momento rimane da sperare che questa crisi e questa nuova
economia di guerra dia un notevole impulso al dibattito delle idee. E bisogna essere
guardinghi perché lo sforzo bellico in corso non si traduca in censura e in paura della
democrazia, come avviene in tipiche situazioni di guerra. Nulla di più facile che la retorica
patriottica si trasformi in censura, soprattutto quando all’unanimismo subentra il
conflitto sociale. La critica è e deve rimanere fondamentale, come il conflitto, che per una
democrazia è il sale della vita e il segno della propria forza, come scoprì Luigi Einaudi
dopo il delitto Matteotti (ricordate? Le lotte del lavoro, Torino, Piero Gobetti editore,
1924). È fondamentale che l’interesse pubblico sia dibattuto in Parlamento, come sulle
televisioni e sui quotidiani. I quali, guarda caso, si è scoperto che, come veicolo di
informazione, rivestono un ruolo strategico in questa crisi; come le edicole, che sono
dispensate dalla chiusura. Edicole, tuttavia, che nel corso di questi anni hanno chiuso a
migliaia, ben prima del Convid19, come conseguenza della crisi della carta stampata.
Segno – davvero curioso per un paese segnato tutt’ora dal conflitto d’interesse in campo
giornalistico e televisivo e da un centro-destra che in tutte le sue componenti fa perno sul
sistema televisivo –, che allora l’informazione è un settore davvero strategico e dunque
che non può essere affossato a causa delle sue pur evidenti criticità. Non può essere
affossato non in quanto veicolo di propaganda, funzione che svolge molto bene, come
dimostrano i palinsesti e gli assetti proprietari esistenti; ma in quanto veicolo di
collegamento dialettico tra il cittadino e la ricerca scientifica e le più alte forme di
pensiero; in quanto veicolo di informazioni, insomma, e di punti di vista capaci di
interpretarle. Come nella ricerca scientifica, l’intervento pubblico deve cristallizzarsi in
questo caso in un equilibrio delicato, tale da coniugare finanziamento pubblico e libertà e
autonomia dei finanziati, cioè del pensiero. Anche in questo caso, tuttavia, veniamo da
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anni ed anni in cui, in nome della aziendalizzazione perfino del sapere e della rincorsa
all’eccellenza e al merito, si tenta di minarne, con pratiche burocratiche apparentemente
neutrali e oggettive, l’indipendenza e la libertà e il pluralismo21.
1 Si veda il decimo minuto del discorso: https://www.youtube.com/watch?
time_continue=612&v=MEV6BHQaTnw&feature=emb_logo
2 Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, Gazzetta ufficiale. Edizione straordinaria, n. 70, art.
6, pp. 4-5.
3 Per una significativa testimonianza cfr. V. Giuffrida, G. Pietra, Provital:
approvvigionamenti alimentari d’Italia durante la Grande Guerra 1914-1918, Padova,
Cedam, 1936.
4 Condivido, dunque e al momento, la presa di distanza dalle teorie sullo stato
d’eccezione: P. Flores D’Arcais, Filosofia e virus: le farneticazioni di Giorgio Agamben,
MicroMega-on line, 16 marzo 2020.
5 Rimando a due testi: L. Michelini (a cura di), La guerra e gli economisti, “Il pensiero
economico italiano”, 2016, n. 1, con saggi di P. Barucci, R. Faucci, G. Serafini, M. Santillo,
R. Giulianelli, F. Amore Bianco, G. Della Torre; F. Bientinesi, R. Patalano (edited by),
Economists and War, London New York, 2017, con saggi di F. Bientinesi, F. Coulomb, A.
Giordano, T. Maccabelli, F. Masini, L. Michelini, T. Ohtsuki, L. Pagliai, R. Patalano, S.
Spalletti, T. Winslow.
6 https://www.milanofinanza.it/news/wsj-corea-e-italia-due-strategie-molto-diversenella-lotta-al-coronavirus-202003132153435845?
fbclid=IwAR08REs1C6VPR49FCThqk31rSACuQCBD-51JOh9UC-t4q_t2yEC8_ozyYag
7 Per una prima analisi cfr. F. Toth, R. Lizzi, Le trasformazioni silenziose delle politiche
sanitarie in Italia e l’effetto catalizzatore della grande crisi finanziaria, Stato e mercato”,2029,
n. 2, pp. 297-319.
8 Tre le altre analisi cfr. G. Viesti, La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione
universitaria, Bari, Laterza, 2018.
9 Stasera Italia, condotto da B. Pollastrini, puntata del 18 marzo 2020, dal minuto 39:
https://www.mediasetplay.mediaset.it/video/staseraitalia/mercoledi-18marzo_F310147101005501
10 Decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, cit., art. 79, pp. 37-38.
11 Cfr. S.T. Possony, L’economia della guerra totale, Torino, Einaudi, 1939.
12 Indispensabile leggere J.K. Galbraith, La Moneta, Milano, Mondadori, 1979. Rimando,
poi, ai due testi prima citati: L. Michelini (a cura di), La guerra e gli economisti, “Il pensiero
economico italiano”, 2016, n. 1; F. Bientinesi, R. Patalano (edited by), Economists and War,
Routledge, London New York, 2017.
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13 http://www.politicheeuropee.gov.it/it/comunicazione/mediagallery/video/audizionedel-ministro-savona-sulle-prospettive-di-riforma-ue/
14 P. Savona, Un Piano B per l’Italia, testo integrale in Scenarieconomici.it, dell’8 ottobre
2015: https://scenarieconomici.it/origini-significato-e-funzioni-di-un-piano-a-e-b-perlitalia-in-europa-di-paolo-savona/?fbclid=IwAR25Z8VVFwajkrBFkpZycfAo6HD3nCk7hPyPXm2V1oIbeUgQXegT2GsMhI
15 Utile leggere come anticipazione dell’idea di imprenditore-Stato il testo di T. Mun, Il
tesoro dell’Inghilterra nel commercio estero, ovvero la bilancia del commercio è l’indicatore
della nostra ricchezza, Introduzione e cura di G. Forges Davanzati, Napoli, Edizioni
Scientifiche, 1994.
16 Rimando a L. Michelini, From nationalism to Fascism: protagonists and journals, in M.M.
Augello, M.E.L. Guidi, Marco, F. Bientinesi, (Eds.), An Institutional History of Italian
Economics in the Interwar Period. Volume II. The Economics Profession and Fascist
Institutions, London, Palgrave Macmillan, 2020.
17 Pochissimi durante il fascismo gli studiosi che dal Keynes filo-protezionista e
autarchico passano al Keynes della Teoria generale: tra questi segnalo Franco Modigliani,
ascrivibile (prima di scappare negli USA in seguito alle leggi razziali) alla “sinistra fascista”
e in quanto tale osteggiato da quella che si definiva la “destra fascista”, di liberistica
matrice. Cfr. L. Michelini, Il nazional-fascismo economico del Giovane Franco Modigliani,
Firenze, Firenze University Press, 2019.
18 Sulle cui ultime performances cfr. T. Montanari, Coronavirus, la carità pelosa di B. e i
ricchi (evasori), “Il Fatto Quotidiano”, 19 marzo 2020: https://www.ilfattoquotidiano.it/inedicola/articoli/2020/03/19/la-carita-pelosa-di-b-e-i-ricchi-evasori/5741637/
19 Cfr. F. Barca, Cambiare rotta, Bari, Laterza, 2019 con saggi di S. De Luca, M. Florio, E.
Granaglia, V. Manco, A.L. Mandorino, A. Morniroli, A. Roventini.
20 Mi piace citare un volume al quale collabora anche A. Bagnai, oggi esponente
significativo della Lega: S. Cesaratto, M. Pivetti, Oltre l’austerità, MicroMega, 2012, con
saggi di M. Pivetti, G. De Vivo, S. Cesaratto, A. Bagnai, M. D’Angelillo, L. Paggi, R. Ciccone,
G. Zezza, A. Barba, V. Maffeo, A. Palumbo, A. Stirati, S. Gabriele, M. De Leo, S. Levrero, M.
Lucii, F. Roà.
21 Cfr. V. Pinto, Valutare e punire, Napoli, Cronopio edizioni, 2019.
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