Academia.eduAcademia.edu

Il giardino: natura, storia, arte

2012, Riscritture dell'Eden. Poesia, poetica e politica del giardino

I diritti di riproduzione, memorizzazione e archiviazione elettronica, pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche, i supporti digitali e l'inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi.

IL SEGNO E LE LETTERE Collana del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture moderne dell’Università degli Studi ‘G. d’Annunzio’ diretto da Nicola D’Antuono DIREZIONE Carlo Consani COMITATO SCIENTIFICO Giovanni Brancaccio Carlo Consani Paola Desideri Elisabetta Fazzini Andrea Mariani Il segno e le lettere Collana del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture moderne dell’Università degli Studi ‘G. d’Annunzio’ Saggi - 7 Riscritture dell’Eden Poesia, poetica e politica del giardino Volume settimo a cura di Andrea Mariani Edizione a stampa 2012 ISBN 978-88-7916-605-8 Copyright © 2012 Via Cervignano 4 - 20137 Milano www.lededizioni.com - www.ledonline.it - E-mail: led@lededizioni.com I diritti di riproduzione, memorizzazione e archiviazione elettronica, pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche, i supporti digitali e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da: AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108 - 20122 Milano E-mail segreteria@aidro.org <mailto:segreteria@aidro.org> sito web www.aidro.org <http://www.aidro.org/> Volume stampato con il contributo del Dipartimento di Lingue, Letterature e Culture moderne Università degli Studi ‘G. d’Annunzio’ di Chieti-Pescara In copertina: Mary Louise Heffernen, Giardino sotto il sole della Toscana. Acquerello. Per cortesia dell’Autrice. mlhssj@frontiernet.net Videoimpaginazione: Paola Mignanego Stampa: Digital Print Service SOMMARIO Premessa 7 Introduzione: Il giardino come palestra di produzione di senso 9 Il giardino: uno spazio per il tempo Rosa M. Calcaterra 23 Il giardino: natura, storia, arte Giorgio Grimaldi 37 The Garden of Eloquence di Henry Peacham, un trattato per insegnare l’arte retorica nel Rinascimento elisabettiano Paola Desideri 57 The Garden in the South Slavic Oral Tradition Persida Lazarević Di Giacomo 79 L’arte poetica in «The Garden» di Andrew Marvell Paola Partenza 111 La paradossale costruzione dell’Eden: il libro IX di Paradise Lost Marilena Saracino 129 Il giardino dei frutti proibiti: Ruskin e lo spazio segreto della memoria Michela Marroni Romola di George Eliot: giardini e rappresentazioni naturali Miriam Sette 5 143 157 Sommario Il giardino nella brughiera: rappresentazioni della natura in Tess of the d’Urbervilles Emanuela Ettorre Funzioni del giardino nella poesia e nella poetica di Joseph Brodsky Michele Russo L’Eden perduto della fantascienza Leo Marchetti 171 183 201 Il paradigma del giardino negli American Studies: dal 1950 ad oggi Carlo Martinez 213 Eine reine Augenweide. Il giardino del linguaggio. Aspetti di fraseologia tedesca e italiana a confronto Sylvia Handschuhmacher 233 Memoria storica, simbologia e scienza nel Giardino dei Semplici dell’Università ‘G. d’Annunzio’ Luigi Menghini 251 Bibliografia essenziale 269 Indice dei nomi 283 6 IL GIARDINO: NATURA, STORIA, ARTE Giorgio Grimaldi 1. «FINE DELLE IDEOLOGIE» E ATTENZIONE VERSO IL CONSUETO E QUOTIDIANO Negli ultimi anni, complice la cosiddetta «fine delle ideologie», una parte non marginale degli studi filosofici ha concentrato l’attenzione su aspetti e abitudini anche comuni della vita delle persone, cercando di indagarne e di esplicitarne il senso, non sempre così nascosto come potrebbe sembrare, e non sempre così poco profondo come potrebbe apparire. Se può essere salutare uno sguardo che si sofferma su quegli elementi che la filosofia aveva preso raramente (se non mai) in considerazione, in quanto intenta all’elaborazione di «massimi sistemi», per un altro verso il rischio è quello di accontentarsi di aver registrato attività dal risvolto più o meno profondo, ma da considerare quali «frammenti» di uno scenario più generale inattingibile o sempre desiderato ma inesistente. Si abbandona così il lavoro del concetto per privilegiare l’osservazione sia del consueto che dello straordinario, come se fossero eventi, manifestazioni dal valore micrologico. Tuttavia, la tentazione anche solo di azzardare una spiegazione di carattere più generale e più ampio, seppure dopo la fine delle ideologie e la crisi delle «grandi narrazioni» (le quali intendevano, più modestamente, prenderne il posto), sembra inevitabile. È questo il caso del recente studio di David E. Cooper, Una filosofia dei giardini, nel quale, all’attenzione nei confronti del giardinaggio quale pratica assai diffusa, segue il tentativo (presentato come tale dall’autore stesso) di esaminare tale attività in una luce più adeguata al proprio oggetto: non viene eluso, infine, l’impulso a ricercarne un senso più eminente. 37 Giorgio Grimaldi Il percorso di Cooper è quello che buona parte della filosofia contemporanea pensa debba essere privilegiato: uno sguardo il più possibile concentrato sugli individui, sulle loro attività, aspettative, passioni; il passo successivo è quello di enucleare, senza pretese di validità universale assoluta, una serie di contenuti che possano avere un carattere pressoché generale; quindi, si avanza un’ipotesi (si spera il più possibile convincente) che in qualche modo possa avere la posizione e la funzione degli elementi fondamentali di complessi sistemi filosofici, ma senza la potenza connaturata e vincolante del sistema. Potenza che si esprime anche nella confutazione di un sistema, che non può essere una confutazione che avanza le proprie riserve e le proprie ipotesi, e si riserva, se lo scontro si dovesse rivelare più aspro del solito, di risolverlo con una formula di cortesia, con il fatto che, in qualche modo, si tratta di opinioni personali. Il modello estremo, ma al contempo più chiaro, di quest’ultimo atteggiamento (e in cui il rigore di Cooper fortunatamente non cade né ha mai la tentazione di cadere) è quello della «provocazione». Quando si lancia una «provocazione», si lancia un guanto di sfida nei confronti di un ambiente e di un contesto che si considerano (magari a ragion veduta) irrigiditi su posizioni che hanno dalla loro parte solo l’autorità, ma al contempo ci si prepara, se l’assalto non dovesse riuscire, a nascondere la mano, a invocare uno spirito irriverente la cui funzione sarebbe stata solo quella di creare un po’ di scompiglio in un ordine piuttosto noioso o di scuotere in qualche modo le coscienze dal torpore in cui l’ordinario può far cadere: in realtà, la «provocazione» implica la nonassunzione della responsabilità in caso di discussione. La proposta di Cooper, che ci introdurrà all’esplorazione del significato dei giardini, se può non risultare del tutto convincente, ha però dalla sua parte il rifiuto di essere una «provocazione», e perciò ha il coraggio di assumersi la responsabilità di una proposta che nasce dalla consapevolezza di un disagio in cui ormai versa una parte non minoritaria della filosofia: a volte persino entusiasta di essere diventata una sorta di ancilla scientiae, essa si è ridotta ad essere filosofia da laboratorio, che seziona e classifica senza concetto. 2. SULLA «PROPOSTA» DI COOPER Il punto di partenza nonché l’ambito d’interesse di Cooper è quello della vita delle persone e del significato che queste danno alla loro esistenza e alle loro attività quotidiane. È, questa, una prospettiva cara a certa filosofia 38 Il giardino: natura, storia, arte contemporanea, che Cooper indica immediatamente con estrema chiarezza e precisione: «Quello che mi interessa – pertinente alla domanda fondamentale ‘Perché dedicarsi al giardinaggio?’ – è il valore che i giardini hanno per le persone» 1; egli è particolarmente sorpreso da un dato che stimola il suo interesse e la sua domanda circa il significato dei giardini: il 78% degli statunitensi pratica giardinaggio nel week-end 2. Si tratta di un dato senza dubbio importante ed è più che legittimo domandarsi cosa possa celarsi in un’attività così diffusa: chiedersi, in altri termini, se il rapportarsi dell’uomo con la natura nella cura dei giardini e nei momenti passati in un giardino (siano questi di semplice relax o di festa) sia in realtà la spia di qualcosa di più radicale. Per Cooper, sono le persone nella loro quotidianità gli interlocutori privilegiati rispetto alla risposta di cui egli va in cerca. È questa la prospettiva più adeguata per cercare di comprendere l’eventuale significato dei giardini? Per ora, seguiamo Cooper, il quale, cercando in qualche modo di portare a consapevolezza le impressioni degli individui, cita dichiarazioni quale quella, esemplificativa dello sbocco cui giunge un’impostazione di questo tipo (e che forse vi accede necessariamente), di Mirabel Osler: «Trovare un giardino legato alla produzione attiva […] ha un fascino irresistibile […]. C’è qualcosa di sano e di appagante nel vedere fisicamente ricomporsi i pezzi della vita di una persona […]. La vigna è uno stile di vita» 3. Poco prima Cooper aveva introdotto questo passaggio attraverso un’affermazione chiarificatrice rispetto all’approccio che informa l’intero studio: «La virtù della cura della vita del giardino si adatta, si potrebbe dire, alla cura di sé» 4. Si tratta di un’affermazione consequenziale alla questione di quale sia «il valore che i giardini hanno per le persone»: la risposta è che, con gradazioni più o meno psicologistiche, essi hanno valore per il sé delle persone. Che l’impostazione di Cooper, basata sulle persone, giunga a esprimere il significato dei giardini quale ulteriore appendice e strumento dell’individualismo contemporaneo, e che quest’ultimo mostri che quando il sé è sereno si esprime nel barbecue e quando è in crisi utilizza la natura come falso riflesso di sé, non deve necessariamente sorprendere. La grande assente di Una filosofia dei giardini, e della filosofia che si ritiene emancipata dalle ideologie, è la storia. Anche quando (ma in Cooper non ve n’è cenno) D.E. Cooper, A Philosophy of Gardens, New York, Oxford University Press, 2006 (trad. it. E. Stefanini, Una filosofia dei giardini, Roma, Castelvecchi, 2012, p. 9). 2 Cfr. ivi, p. 8. 3 Cit. ivi, p. 93. 4 Ibidem. 1 39 Giorgio Grimaldi ci si occupa di società e/o di politica, l’ambiente è quello del laboratorio, del laboratorio dello status quo, s’intende. Il laboratorio, che si presenta ideologicamente in quanto astorico o sovrastorico, è il contesto in cui in realtà le persone vengono osservate e interpellate come se il contesto non fosse mai tale ma assolutamente neutro. Qualcosa però si agita nella coscienza, qualcosa si ribella, e allora Cooper stesso non si accontenta della sua «modesta proposta»: «Il Giardino esemplifica la massiccia, ma spesso non riconosciuta, dipendenza della creatività umana dalla cooperazione del mondo naturale»; si tratta, in altre parole, di «un’intima co-dipendenza» 5. Della discreta insufficienza di questo approdo è peraltro consapevole lo stesso Cooper, che, in un moto di insofferenza nei confronti del pensiero che senza concetto ha operatività esclusivamente classificatoria, avverte l’esigenza di procedere oltre e di avanzare «un’ulteriore proposta» 6. Sennonché, se interpellare le persone, come prese per se stesse, non conduce se non ad apprendere di un’ipseità appagata oppure inquieta, se un contesto storico-sociale è del tutto assente, e se, in nome di un’intenzione in qualche modo universalistica, si intende escludere una qualsivoglia prospettiva teistica (anche perché si teme di poter apparire in qualche modo demodé), si rischia di approdare a ben poco, se non a un riconoscimento dello stretto rapporto che intercorre fra uomo e natura. Ed è proprio Cooper ad avvertire come in ultima istanza poco soddisfacente tale risultato. Interviene allora una sorta di deus ex machina post-moderno: lo zen. È lo zen ad essere chiamato a superare lo stallo, l’insoddisfazione di Cooper rispetto alle proprie analisi, e a offrire un vero e proprio salto qualitativo nell’esperienza dei giardini: Se Il Giardino esemplifica o incarna co-dipendenza, allora, questo non può avvenire semplicemente fra lo sforzo umano e la natura, ma con un’ulteriore, «più misteriosa» relazione. […] Secondo la modesta proposta, Il Giardino esemplifica una co-dipendenza fra lo sforzo umano e il mondo naturale. Nella mia attuale, per così dire, immodesta proposta, questa co-dipendenza stessa incarna o ci rimanda alla co-dipendenza dell’esistenza umana e al «profondo terreno» del mondo e di noi stessi. Incarnando qualcosa che in sé incarna qualcos’altro, Il Giardino […] incarna questo «qualcos’altro». Il Giardino, per dirla pomposamente, è un’epifania del rapporto dell’uomo con il mistero. Questo rapporto è il suo significato. 7 5 6 7 Ivi, pp. 128-129. Ivi, p. 135. Ivi, pp. 135 e 137. 40 Il giardino: natura, storia, arte Sorprende, in effetti, quest’ingresso dello zen in una prospettiva che, se nelle intenzioni non vuole affatto esserlo, è piuttosto utilitaristica: infatti lo zen «serve» a dare un senso al giardino, collegandolo poi con una X, «il mistero». In altri termini, per presentire la possibilità di un mistero a fondamento dell’esistenza, non si comprende perché si debba passare per la cura o l’osservazione meditante di un giardino. Perché quest’ultimo dovrebbe essere il luogo in qualche modo privilegiato di un tale sentire? Perché in esso si esprimerebbe il rapporto fra uomo e natura? Perché, allora, un giardino, e non semplicemente un paesaggio? Forse perché il giardino presuppone un’attività più o meno meditante con e nella natura e non una mera fruizione? E c’è poi la necessità di un «mistero»? La ricerca del significato dei giardini si concluderebbe con la celebrazione di una sensazione, con l’avvertire un «mistero» che, essendo appunto tale, cela tutto di sé fuorché il suo oggetto, che, detto altrimenti, è l’essere. Ciò che resta, una volta interpellate le persone, intenzionalmente nella loro concretezza, ma in realtà nella loro astrattezza perché del tutto avulse da qualsiasi contesto, è il giardino come luogo di una sorta di ontologia misterica dai tratti confusi. Di fronte al vuoto e a una certa, comprensibile, insoddisfazione, giunge in aiuto lo zen, che deve strumentalmente supplire alla percezione di una mancanza di significato. Che lo zen debba essere chiamato in causa per riempire un vuoto di significato, è un controsenso: esso non conferisce un significato a ciò che ne manca, ma mostra, nella propria prospettiva, come il problema stesso del significato non abbia fondamento. Il giardino «per le persone», che vorrebbe essere per le persone in se stesse e per se stesse, riflette invece ancora maggiormente le persone nella loro storicità, nella loro propria contingenza storica. Questo giardino che comunica un «mistero» che va al di là dell’uomo e lo abbraccia è un giardino troppo umano. Ciò che è sovrastorico si manifesta non in una dimensione astorica come presa per sé ma nella storia stessa. 3. «FUGA DALL’OCCIDENTE» E CRITICA DELLA MODERNITÀ C’è almeno un altro elemento di particolare interesse nell’analisi di Cooper, ed è quello di una «fuga dall’Occidente» espressa nell’indicare il giardino zen quale giardino che meglio rappresenta il «mistero» che un giardino stesso deve esemplificare. Questa tentazione della «fuga dall’Occidente» come luogo che ha espresso una tradizione contrassegnata da un rapporto di dominio, sfruttamento e distruzione della natura, una tradizione che, nel 41 Giorgio Grimaldi caso del giardino, è visibile nella costrizione della natura che il giardino (occidentale) opera per sua propria costituzione in maniera più o meno aggressiva, è presente in un altro testo assai recente, Breve storia del giardino di Gilles Clément. Descrivendo «il giardino balinese», Clément esprime una serie di considerazioni che lasciano trasparire, in maniera anche esplicita, quanto si tratti di una tipologia di giardino per molti versi preferibile a quella occidentale: La forza di un simile giardino scaturisce dal fatto che non si trova mai costretto in un involucro formale soggetto alle convenzioni, ai riferimenti e allo stile di un’epoca. È un giardino mentale, capace di assorbire le violenze della modernità senza perdere la propria integrità. Mentale e verticale, diametralmente opposto alla centralità dell’estensione che è caratteristica dell’Occidente, dove il potere si misura sulla base del terreno posseduto. 8 Per una neppur troppo singolare, e per molti versi salutare, dialettica, l’atteggiamento di superiorità dell’Occidente nei confronti delle culture extraeuropee considerate inferiori e barbare si è in taluni casi rovesciato nel suo opposto, dando origine a un mito contrapposto ma ugualmente falso: la superiorità di civiltà che, al contrario dell’Occidente, avrebbero saputo costruirsi non in contrapposizione con la natura ma in armonia con essa. In realtà, ad essere sotto accusa non sembra tanto essere l’Occidente ma la modernità, come esplicitato nel passo di Clément che parla delle «violenze» di questa. In Breve storia del giardino, nel nome dell’equilibrio uomo/ natura, ad essere bersaglio di polemica è, neanche troppo fuor di metafora, l’Illuminismo stesso: Da una condizione di fusione con la natura, in cui un termine che designasse il vivente estraneo all’uomo non era degno di esistere, si è passati a una condizione di distacco in cui un’umanità illuminata, colta e onnipotente enuncia i componenti della natura, li ordina e li suddivide in famiglie, li utilizza a proprio piacimento, li trasforma e li sottomette. Quest’umanità è diventata signora e padrona degli elementi, delle energie e del regno vivente … O almeno così crede. A partire dalla metà del XX secolo, l’ecologia – una svolta nella storia del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente, ma anche nella storia del pensiero – sconvolge queste convinzioni. L’umanità non è più al di sopra o al centro di un sistema che domina, ma è immersa in esso. E non può astrarsene. 9 8 G. Clément, Une brève histoire du jardin, Paris, Éditions J.C. Béhar, 2011 (trad. it. M. Balmelli, Breve storia del giardino, Macerata, Quodlibet, 2012, pp. 34 e 36). 9 Ivi, p. 46. 42 Il giardino: natura, storia, arte Occorrerebbe allora saper uscire da una visione antropocentrica rivelatasi distruttiva e irrispettosa dell’ambiente e vivere nella natura e con la natura, rispettandone dinamiche proprie e slanci vitali da non mortificare. Ma come realizzare questo progetto? Dove porre i confini fra uomo e natura? Oppure, consapevoli di una evidente co-appartenenza, come gestirla? E, più in profondità, di quale natura si parla? 4. GIARDINAGGIO COME ARTE Non è un caso che Cooper addebiti la sottovalutazione dei giardini, dal punto di vista filosofico, a un autore in particolare, Hegel 10. Questi, nelle sue lezioni sull’estetica, parla del giardinaggio come di un’arte imperfetta 11, dato che nell’arte del giardinaggio preponderante è la natura. Ma questo è un dato di fatto, e avrebbe poco senso bollare di insensibilità di matrice hegeliana il ravvisare che, ad esempio, la scultura, pur partendo da un elemento naturale, ha uno status artistico più definito. Possiamo aggiungere che nel giardino, fra l’altro, si possono incontrare statue: ed ecco che esso, pur non assurgendo (e non si capisce perché dovrebbe) ad arte perfetta, diviene il luogo ove un’arte quale la scultura può esprimere una sua funzione assai importante. Di più: può essere proprio un elemento artistico di questo tipo a istituire un giardino 12. Laddove vi è solo uno spazio naturale, un’opera dell’uomo istituisce uno spazio nuovo di senso. E però dobbiamo ammettere che la natura non è più «incontaminata», l’uomo vi ha posto un artificio, la sta organizzando e le sta conferendo un senso. Ma torniamo a Hegel, il quale dedica alcuni interessanti passaggi ai giardini e al loro significato. Cfr. Cooper, Una filosofia dei giardini cit., p. 14. Cfr. G.W.F. Hegel, Ästhetik, Berlin, Duncker und Humblot, 1836-1838 (trad. it. N. Merker - N. Vaccaro, Estetica, Torino, Einaudi, 1997, 2 voll., p. 703). 12 Per queste nostre osservazioni, essenziali sono le indicazioni heideggeriane presenti in M. Heidegger, Costruire abitare pensare (1952), in Id., Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Verlag Günther Neske, 1957 (trad. it. G. Vattimo, Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976). 10 11 43 Giorgio Grimaldi 5. SULLE PAGINE HEGELIANE DELL’«ESTETICA» L’osservazione hegeliana dalla quale si sviluppano le sue successive considerazioni circa i giardini è all’interno della trattazione dell’architettura civile del Medioevo: «[…] l’arte del giardinaggio […] non solo crea di per sé ex novo per lo spirito un ambiente come una seconda natura, esterna, ma anche arriva a trasformare il paesaggio naturale stesso e a trattarlo architettonicamente come ambiente delle costruzioni» 13. Dello stesso tenore è un’affermazione di molto precedente 14, nella quale si dice che «quel determinato modo di arte del giardinaggio […] può essere considerato come un’applicazione modificata di forme architettoniche alla natura reale» 15. Ma è ciò che segue che con ogni probabilità potrebbe irritare una coscienza post-moderna: Nei giardini come negli edifici è l’uomo la cosa principale. Vi è certo anche una diversa arte del giardinaggio, che ha a sua legge la varietà con la sua assenza di regole; ma la regolarità è da preferire. Infatti i labirinti complicati e i boschetti con il loro continuo alternarsi di tortuosi intrecci, i ponti su acque stagnanti, l’apparire inatteso di cappelle gotiche, di templi, di chioschi cinesi, di eremitaggi, urne funerarie, pire, poggi, statue, con tutte le loro pretese di autonomia stancano ben presto e, quando si guardano per la seconda volta, suscitano subito un senso di tedio. Ben diversa è la cosa per i paesaggi reali e la loro bellezza, che non esistono per l’uso e il diletto, e a cui è concesso di presentarsi per se stessi come oggetto di contemplazione e di godimento. La regolarità nei giardini non deve invece cogliere di sorpresa, ma nell’ambiente esterno della natura lascia apparire, come è giusto, l’uomo come il personaggio principale. 16 In questo passaggio, approfondito e ribadito nei contenuti più avanti nell’Estetica, Hegel giudica diversi aspetti peculiari del giardino come inutilmente stucchevoli (e ciò potrebbe attirargli le simpatie degli ecologisti post-moderni) ma dall’altro lato (e questo è il punto che i post-moderni non gli perdonano) afferma con forza la centralità dell’uomo nell’idea stessa del giardino. Si tratta di antropocentrismo ormai superato, che ha fatto il suo tempo e i suoi danni all’ambiente e all’uomo stesso grazie al suo mito esaltato della capacità di manipolazione umana? E questo rimettere al centro la natura, l’ambiente, reinserendo l’uomo al loro interno, non più in 13 14 15 16 Hegel, Estetica cit., p. 781. Essa è presente nella parte che tratta L’esteriorità astratta come tale. Hegel, Estetica cit., p. 278. Ivi, p. 279. 44 Il giardino: natura, storia, arte una posizione privilegiata a cui questi si era autoelevato, è l’uscita da un antropocentrismo (auto-) distruttivo o l’inconsapevole ricaduta in una natura cieca? In altre parole, quanto è realistico il rifiuto dell’antropocentrismo in quanto tale? Si tratta di una strategia efficace per superare il dominio? Ma proseguiamo con l’analisi hegeliana, la quale, seppure discutibile rispetto alla noia che giardini troppo «complessi» provocherebbero, non si riduce certo a questa osservazione; essa, sebbene rifletta in qualche aspetto formale impressioni personali di Hegel, nel contenuto intende criticare profondamente la pratica che riduce la natura a mero artificio, e in cui la sovrabbondanza e la giustapposizione di diversi elementi snaturano e inficiano la godibilità dell’ambiente (potremmo dire che in qualche modo Hegel procede a una critica ante litteram del kitsch): In un parco del genere, specialmente nell’epoca moderna, da un lato tutto deve conservare la libertà della natura stessa, dall’altro ogni cosa è tuttavia artisticamente lavorata e fatta e condizionata dall’ambiente circostante, per cui subentra un contrasto che non trova completa soluzione. A questo riguardo non vi è per lo più nulla che abbia maggiore cattivo gusto di questa ovunque visibile intenzionalità del non intenzionale, di questa costrizione dello spontaneo. Inoltre viene in tal caso a perdersi il carattere peculiarmente proprio ad un giardino, il quale ha la determinazione di servire a delle passeggiate, a dei trattenimenti in una località che non è più la natura come tale, ma è la natura trasformata dall’uomo per il suo bisogno di avere un ambiente da lui creato. 17 Hegel indica dei modelli particolarmente felici di giardini: «Il giardinaggio dei Mongoli, al di là della grande muraglia, nel Tibet, i paradisi dei Persiani» 18; ma ne individua poi uno a suo parere per eccellenza: […] il principio architettonico è realizzato soprattutto nel giardinaggio francese che abitualmente si esercita attiguo a grandi palazzi, pianta alberi rigorosamente allineandoli in grandi viali, li aggiusta con il taglio, forma delle pareti vegetali con le siepi tagliate regolarmente e così trasforma la natura stessa in una vasta abitazione sotto il libero cielo. 19 Se il privilegiare un modello del genere può infastidire le moderne coscienze dell’equilibrio dell’uomo con la natura, che vedono nel giardino francese uno dei dispositivi simbolici del dominio dell’uomo sulla natura e poi dell’uomo sull’uomo perché quel tipo di giardino è un simbolo del potere, 17 18 19 Ivi, p. 782. Ivi, p. 783. Ibidem. 45 Giorgio Grimaldi in realtà la «scelta» hegeliana è particolarmente interessante, in quanto è l’intervento umano che conferisce regolarità e forma a designare il giardino potremmo dire per antonomasia, e non interventi minimali rispetto a un libero corso naturale. Persino il giardino secco giapponese, «compost[o] quasi esclusivamente da rocce, ghiaia e sabbia e quasi del tutto priv[o …] di vegetazione» 20 ha una disposizione e organizzazione che mostra in maniera immediata l’opera umana, e non a caso è un modello di vero e proprio design, tra l’altro particolarmente studiato e ricco di spunti di innovazione. E lo è, potremmo chiederci, perché esprime un ritorno alla natura oppure perché sembra essere un modello di disposizione di oggetti ed elementi in un’organizzazione dello spazio che intende risolvere proprio quel «contrasto che non trova completa soluzione» di cui parla Hegel? Hegel stesso, nell’indicare il giardino francese come modello, non ritiene certo che quel «contrasto» sia stato risolto: esso sembra essere anzi, a questo livello, irrisolvibile. Non è negandolo che si può tentare di pensare la possibilità della soluzione, ma è al contrario pensandolo in tutta la forza del conflitto da cui proviene che si può cercare di intravedere le possibilità e le condizioni del suo superamento. Nella sua critica a un’artificiosità ridondante e fine a se stessa, e soprattutto nell’individuazione di quel fondamentale «contrasto» che nel giardino «non trova completa soluzione», il contrasto fra natura e arte, Hegel ha colto due punti importanti circa la natura del giardino; questo carattere, che rischia sempre di essere di vuota apparenza, lo convince così poco da fargli compiere un’affermazione per certi versi eccessiva 21: «Un giardino come tale deve essere solo un ambiente sereno e nient’altro che questo, e non pretendere di valere per sé e di distrarre gli uomini dall’umano e dall’interno» 22. Eppure, proprio nel periodo che in quella parte dell’Estetica Hegel sta trattando, il Medioevo, il giardino è stato qualcosa di più, e questo fatto potrebbe essere ben più rivelatore di quanto possa sembrare anche solo a prima vista. È stato il luogo, attraverso vari passaggi storici, nel quale non si è inteso contemplare una sorta di «mistero» evocato, si direbbe, quasi ad hoc, come quello cooperiano di uno zen utilizzato quale ultimo tassello per attingere alla consapevolezza di qualcosa di estremamente indeterminato e confuso. In questo modo non si fa giustizia nei confronti dello zen stesso, che non è un dispositivo d’emergenza per 20 21 22 Cooper, Una filosofia dei giardini cit., p. 142. Ne riporta una parte anche Cooper, ma solo per liquidare Hegel (ivi, p. 14). Hegel, Estetica cit., p. 782. 46 Il giardino: natura, storia, arte un pensiero occidentale in crisi e che opera sincretismi improvvisi. Nella tradizione occidentale, dalla quale non si può saltare via a piacimento, in un percorso che va dal Medioevo al Rinascimento, il giardino è divenuto il luogo simbolico della conoscenza e del potere che essa comporta e in qualche modo conferisce. Luogo simbolico, rappresentazione, apparenza, certo, ma non come fictio, bensì come manifestazione eminente. 6. GIARDINI MEDIEVALI E STORIA DELL’OCCIDENTE Prima di procedere a una sintetica ricognizione circa i giardini dal Medioevo al Rinascimento, possiamo rivolgere per un attimo l’attenzione a una sorta di vero e proprio appunto che Bronislaw Baczko pone in una nota del suo volume dedicato all’utopia nel Settecento: «Lo studio dei giardini e delle costruzioni in essi inserite potrebbe costituire un intero capitolo della storia delle utopie nel secolo XVIII. I giardini erano spesso concepiti come cornice o rappresentazione figurata di una certa idea di felicità situata a mezza via fra l’utopia e l’idillio» 23. Ed è proprio a questo slancio che torneremo, al luogo che è u-topia. Ma questa idea di luogo dell’«idillio», dell’armonia, di una serenità che non è solo momento in sé ma, anche se solo momento, indice di compiutezza, non nasce nel Settecento ma ha una lunga, lunghissima provenienza che affiora nel Medioevo con significati di particolare rilevanza. Ne danno una descrizione esemplare ed esaustiva Franco Cardini e Massimo Miglio già nell’Introduzione al loro studio sul giardino medievale: Il giardino (termine che la lingua italiana mutua dal francese jardin, che a sua volta deriva dal franco gard, dove significava «luogo chiuso») nel medioevo, come lo raccontano le fonti più accessibili, in immagini e scrittura, è un’idea ed un’allegoria, piuttosto che una realtà: la proiezione di una rarefatta gerarchia sociale, spesso espressione di una perfezione irraggiungibile e di un mondo perfetto. Nel giardino il tempo si ferma: in esso è sempre primavera, viene meno ogni necessità e ogni cambiamento legato all’avvicendarsi delle stagioni. Tutti i fiori del paradiso sono nel giardino del papa, dell’imperatore, del monaco, del mercante, del più umile ortolano: il giardino è un paradiso in terra. E infatti, come per molti altri aspetti della realtà medievale, anche per il giardino all’origine c’è la Bibbia: il giardino dell’Eden, che interpreta l’aspirazione 23 B. Baczko, Lumières de l’utopie, Paris, Payot, 1978 (trad. it. M. Botto - D. Gibelli, L’utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1979, p. 339 n.). 47 Giorgio Grimaldi archetipica dell’uomo per un mondo dove non vi siano animali feroci, non vi siano malattie, non vi sia la vecchiaia, con tanti alberi piacevoli a vedersi e con frutti buoni da mangiare, dove l’acqua dolce non manca mai, con qualche albero dalle virtù eccezionali […]. Il giardino è dunque il luogo dell’innocenza e della giustizia, dove si può dare soluzione al disorientamento dell’uomo: ma in quanto tale esso è anche il simbolo della sua più profonda ricerca interiore; è il mistero svelato, la meraviglia e il piacere assoluti; la riconquista di una dimensione perduta. Esso è anche il luogo in cui la natura si piega secondo la volontà umana sino a coincidere con il sogno paradossale di una natura perfetta e al tempo stesso perfettamente dominata dall’uomo […]. 24 Sono temi che, declinati in contesti diversi e con diverse sensibilità, ricorrono così spesso attraverso periodi pur distanti fra loro, da poter quasi rimandare, in se stessi, a una sorta di insieme di elementi fissi i quali, di volta in volta, assumono una particolare configurazione storica che, certo, in alcuni casi ne cambia il senso anche radicalmente, ma che in ogni caso sembra avere uno stesso contenuto concettuale, o per lo meno del tutto affine. Cardini e Miglio, per «la memoria medievale», individuano «cinque ‘archetipi’» che ispirano e informano i giardini: il «giardino di Alcinoo dell’isola dei Feaci nell’Odissea (recuperato però attraverso letture mediate e non dirette)», i giardini pensili di Babilonia, una delle Sette Meraviglie del mondo. […] l’Eden, dai traduttori latini interpretato come «paradiso di piacere» (paradisus voluptatis); l’hortus conclusus del Cantico dei Cantici; il giardino di Giuseppe di Arimatea, nel quale era stato scavato il Sepolcro e dove il Signore – nelle vesti di hortulanus, di giardiniere – era apparso dopo la Resurrezione a Maria Maddalena. Giardino dell’Eden e Campi Elisi si sarebbero più tardi incontrati nell’immagine del Paradiso: il luogo di pace, refrigerium, dei beati […]. 25 Come si vede, il significato del giardino ha davvero una lunga provenienza. Di estremo interesse è la definizione di hortus offerta da Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie (Etymologiae) scritte nel primo terzo del VII secolo […]: «Si chiama orto [parola che egli fa derivare dal verbo orior, ‘nascere’] perché vi nasce sempre qualcosa. Negli altri terreni nasce qualcosa una volta 24 F. Cardini - M. Miglio, Nostalgia del paradiso. Il giardino medievale, Roma - Bari, Laterza, 2002, pp. VI-VII. 25 Ivi, p. 5. Per l’etimologia di Paradiso il riferimento è «ai giardini pensili di Babilonia, ai pairi-daëza (in persiano ‘parco reale di caccia e di piacere’, da cui l’ebraico pardës e il greco paràdeisos) dei Gran Re iranici, che l’avventura di Alessandro Magno aveva reso famosi anche in Occidente. Un luogo perfetto per abitanti privilegiati, ma anche un luogo pericoloso, dominato da un eterno rischio di squilibrio e dunque di sparizione» (ivi, p. 8). 48 Il giardino: natura, storia, arte l’anno: l’orto invece non è mai senza frutto»: in questa osservazione sembra di cogliere l’eco dell’idea dell’eterna primavera, già proposta da Omero a proposito del giardino di Alcinoo. 26 L’idea di fondo è, nella sensibilità medievale, quella di poter, attraverso «l’ingegno e il lavoro» 27, riscattare per quanto possibile il peccato originale, cercando di «restaurare, per goderne, quelle forme di vita precedenti» 28 ad esso. A uno sguardo storico può aprirsi un’ulteriore interpretazione: se, come nota Clément, «il primo giardino è quello dell’uomo che ha scelto di interrompere le proprie peregrinazioni. […] L’orto è il primo giardino» 29, l’«idea dell’eterna primavera» è, in prima istanza, quell’ideale, quella meta, quell’ou-topos, che, proiettati in un passato che appare come irrimediabilmente perduto, fungono da sprone, da stimolo, da progettualità che si proietta nel futuro. Si potrebbe affermare che, in questo senso, l’«idea dell’eterna primavera» istituisce il futuro, e in senso forte, vale a dire come elemento (non l’unico, certo) che permette il passaggio dalla natura alla storia. Divenendo sedentario e iniziando un processo che programma una ciclica necessità naturale che non è più, quindi, cieca, l’uomo compie uno dei decisivi passi che lo sottraggono alla natura come pura necessità e aprono gli spazi, immensi, della libertà, il che costituisce il passaggio alla storia. Ma questi sono appunto spazi immensi e terribili. Se l’«eterna primavera» diviene la distruzione di qualsivoglia meccanismo naturale inteso come impedimento al «libero» sviluppo delle esigenze e dei desideri umani, si confonde la libertà con l’arbitrio, con un agire indiscriminato e disattento quale quello della ridicola scena di chi taglia il ramo su cui è seduto. Superare la cieca necessità naturale non equivale a rimuovere la natura in quanto tale, quasi che l’uomo sia un totalmente altro da essa. In questo senso la «svolta» ecologica celebrata da Clément non è solo salutare, ma necessaria: il problema è che si rischia, in nome del rispetto della natura, di ricostituirla come totemica. Simpatizzando, neanche troppo nascostamente, con la concezione propria degli aborigeni australiani del loro rapporto con la natura, Clément si chiede e poi deduce: Come arare, aprire la terra, ferirla, senza colpire lo Spirito che vi si riposa? Per un aborigeno australiano è impensabile concepire un giardino come inteso dall’Occidente. […] Per gli aborigeni d’Australia, come per gli achuar e 26 27 28 29 Ivi, p. 12; il testo posto fra parentesi quadre è degli autori. Ivi, p. 13. Ivi, p. 12. Clément, Breve storia del giardino cit., p. 17. 49 Giorgio Grimaldi i kogi d’America latina [… il] territorio d’azione non potrebbe mai limitarsi allo spazio intorno alla propria casa. Non esiste giardino, esiste la Terra. 30 È una prospettiva assai lirica, affascinante, e salutare per un Occidente che in nome del progresso distrugge le fondamenta stesse della possibilità del progresso, ma non è anche (e forse, soprattutto) una nostalgia del passato, di un passato che non può tornare, nel quale vi era un equilibrio fra uomo e natura? O meglio: non è una percezione di questa forma di nostalgia il considerare quel passato come un equilibrio fra uomo e natura? È l’hortus definito da Isidoro di Siviglia l’inizio di una parabola discendente che vede l’Occidente opprimere e soggiogare la natura ed esportare questo modello a livello planetario, oppure esso è l’inizio di un complesso processo storico che, emancipandosi dalla natura come cieca necessità, volge a considerare l’intero pianeta come giardino, ma non come semplice verità originaria, immediata, bensì, mediatamente, come risultato? Ma, a ben vedere, sostenere che «non esiste giardino, esiste la Terra» non comporta la ricaduta in un indistinto, in un indifferenziato che invece il millenario lavoro del logos ha cercato e cerca di distinguere e di porre compiutamente alla coscienza? È il logos, indistintamente, e necessariamente, violenza? E, analogamente, il potere è sempre dominio? Potremo porre più adeguatamente entrambe le domande solo dopo aver osservato alcune caratteristiche fondamentali del giardino rinascimentale. 7. DALL’«HORTUS» AI GIARDINI DELLA FIRENZE RINASCIMENTALE Per Clément, se «l’orto è il primo giardino», ne deriva che «quest’ipotesi va contro l’idea diffusa di giardino come spazio di distensione, d’ozio, di piacere, di rappresentazione e di lusso» 31. Sembra, questa, una verità inoppugnabile, eppure dobbiamo procedere attraverso una diversa interrogazione che dispone a un differente punto di vista: se questo è vero per l’origine dei giardini, continua però ad esserlo per ciò che sono diventati? La loro verità risiede nell’origine o nel risultato? Ciò che i giardini sono divenuti è un errore, cifra di una parabola rovinosa dell’Occidente (ma, a ben vedere, non solo di esso) oppure, non senza oscillazioni e contraddizioni, è parte 30 31 Ivi, pp. 97-98. Ivi, p. 19. 50 Il giardino: natura, storia, arte di una storia come movimento di libertà, e di libertà in primo luogo dalla cieca immediatezza naturale? Ab origine, la natura è, va da sé, vita, ma intrisa di una violenza irriflessa, cieca, un meccanismo di sopravvivenza che al logos, man mano, appare brutale. Ma la natura, in sé, non partecipa di questo sentire, può pre-sentire in alcune forme più sviluppate, ma non emette valutazioni e giudizi. In sé, originariamente, è indifferente alla violenza che in essa si perpetua e che in forma autocosciente, non più come natura immediata, percepisce come orrore, quasi brutale insensatezza. Essa è al di qua del bene e del male, come vede con assoluta acutezza e lucidità Rousseau nel descrivere per ipotesi l’uomo pre-sociale: questi non è il «buon selvaggio», ma un individuo premorale 32. L’hortus è uno dei primi dispositivi di questa emancipazione dalla natura come cieca immediatezza. Esso diviene, attraverso una serie di passaggi storici che non descrivono nessuna storia della decadenza bensì storia, di certo tormentata, della libertà, «immagine del Paradiso terrestre e figura di quel Paradiso eterno del quale la vita monastica doveva già essere anticipazione» 33 nel chiostro benedettino; «luogo di quieta riflessione, come paradiso nel quale condurre una vita serena e agiata, come spazio nel quale esercitare attraverso le conoscenze naturali e l’esperienza il dominio dell’uomo sulla natura» in «pieno Trecento» 34. Con Lorenzo il Magnifico, il giardino acquista la sua vera e propria dimensione filosofica. Da una parte abbiamo così il giardino interpretato come Eden rinnovato, come luogo di una recuperata armonia tra il divino, l’umano e la natura; dall’altra il giardino come luogo privilegiato dell’insegnamento e dell’apprendimento ispirati alle verità neoplatoniche. 35 Proprio nella Firenze rinascimentale, la simbologia (che mantiene alcuni elementi cambiandoli di senso rispetto alle diverse sensibilità storiche: si pensi alla centralità dell’acqua, prima «allegoria del Cristo-Sorgente della vita, Fons vitae» 36, poi «rinvio a un’immagine mitica, quella della Fonte della giovinezza» 37, quindi, secolarizzata, «elemento santificante, sorgente 32 Per l’analisi di questo aspetto in particolare del pensiero di Rousseau, si veda G. Grimaldi, Leviatano o Behemoth. Totalitarismo e franchismo, Perugia, Morlacchi, 2009, pp. 117-130. 33 Cardini - Miglio, Nostalgia del paradiso cit., p. 17. 34 Ivi, p. 92. 35 Ivi, p. 157. 36 Ivi, p. 17. 37 Ivi, p. 97. 51 Giorgio Grimaldi di vita» 38) mostra un contenuto apertamente politico e illuminante: dal «giardino segreto, […] non visti, si ammira l’intero quadro del parco» 39. Cosa è dunque diventato qui il giardino, assurgendone a rappresentazione simbolica concreta? Leggiamo l’analisi di Cardini e Miglio: Luogo d’incontro di natura e d’artificio, esso è anche luogo d’estrinsecazione della volontà sovrana. In esso il potere manifesta la sua più autentica natura e la sua più intima vocazione: giocare con la volontà dei sudditi come con gli automi, trattare lo Stato con la stessa energia demiurgica con la quale il mago tratta, nell’universo artificiale evocato dagli incantesimi, le sue creature. 40 E se, dove è scritto «potere», leggessimo «dominio»? Il giardino allora diverrebbe non lo specchio del potere, che in sé sarebbe, per Cardini e Miglio, inganno e manipolazione strumentale, ma, in questo caso, espressione e rappresentazione del dominio sulla natura e dell’uomo sull’uomo. Chi avesse una concezione edificante della storia potrebbe ritenere che in realtà, con l’avvento della modernità, si rompe l’armonia medievale e sopravviene un lato oscuro di un potere che si basa e vive di strategie, fredde tecniche e inganni, per soggiogare e dominare i governati e la natura. Ma nel medioevo non si consuma un idillio: il giardino è, come abbiamo visto, anche «la proiezione di una rarefatta gerarchia sociale», e semmai si può sottolineare che l’elemento ideologico, tutt’altro che assente, ha la sua forza proprio nel non presentarsi e nel non apparire come tale. La modernità, che secolarizza, ha reso più espliciti, più riconoscibili, gli strumenti del dominio. Ma c’è di più, e non si tratta di un aspetto marginale: la modernità porta con sé, nella lunga durata, proprio grazie alla sua spinta universalistica, una sensibilità più avanzata rispetto al passato della coscienza del concetto universale di uomo, che impedisce la sussunzione dei subordinati quasi si trattasse di elementi naturali o strumenti di lavoro. Si tratta di un processo che, lungi dall’essere pienamente compiuto, vede però proprio nella modernità uno dei suoi momenti di maggiore accelerazione, accompagnati a controspinte dalla portata regressiva innegabile. In altri termini, il giardino rinascimentale non fonda di certo il rapporto dominanti/dominati, ma, secolarizzandolo, lo esplicita. E tuttavia, il giardino medievale e rinascimentale non mostra elementi di verità solo a contrario: in entrambi (ma si tratta di un elemento costante sia precedentemente che successivamente, proprio perché è un elemento costante del 38 39 40 Ivi, p. 169. Ibidem. Ibidem. 52 Il giardino: natura, storia, arte rapporto uomo/natura) vi è una tensione verso un equilibrio, un’armonia fra uomo e natura, vissuti e interpretati con sensibilità secolarizzata o meno, che traluce dagli elementi e dai simboli propri dei giardini: dell’arte è il compito di suggellare il potere ma anche di prefigurare il novum e custodire il vero per i tempi a venire. In questo senso l’arte afferma, nega e trascende, testimonia e rammemora. 8. IL GIARDINO E LE «COSE» Cosa si manifesta dunque nel giardino? Seguendo le indicazioni heideggeriane presenti in maniera rilevante in due Conferenze, la prima tenuta a Brema nel 1949 e intitolata Sguardo in ciò che è, e la seconda tenuta a Darmstadt nel 1951, dal titolo Costruire abitare pensare, possiamo ripensare il giardino come spazio nel quale le cose acquistano un senso eminente. Secondo Heidegger, la tecnica determina un tempo, qual è il nostro, in cui «tutte le distanze nel tempo e nello spazio si accorciano» 41. Che vi siano questa accelerazione e questa vicinanza non determina affatto una relazione autentica con le cose: al contrario si genera un’«uniformità in cui tutte le cose non sono né lontane né vicine» 42. Non si tratta di una situazione che fa irruzione solo nella modernità: in realtà la tecnica moderna è per Heidegger il punto finale di una parabola 43 che inizia con Platone. Al termine di questa parabola si annuncia una nuova epoca del pensiero, non più rappresentativo-metafisico, ma in cui le cose sono esperite autenticamente nella loro essenza. In altre parole, le cose non sono più semplicemente oggetti, bensì sono nella loro essenza nell’ambito del Geviert (la Quadratura), dove vicendevolmente i Quattro si rispecchiano: cielo, terra, divini e mortali. Proviamo a pensare queste indicazioni in relazione a quello che il giardino può essere 44: uno spazio privilegiato per esperire le cose nella loro 41 M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge. 1. Einblick in das was ist. 2. Grundsätze des Denkens, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1994 (trad. it. G. Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, Milano, Adelphi, 2002, p. 19). 42 Ivi, p. 20. 43 La posizione di Heidegger è assai complessa e non certo liquidabile come un rifiuto assoluto della tecnica in quanto tale. Nonostante questo, gioca un fortissimo ruolo la sua nostalgia, di ascendenza nietzscheana, del pensiero pre-socratico. 44 Come suggestioni, queste riflessioni heideggeriane attraversano il testo di Cooper sui giardini, e vengono riprese nelle ultime pagine. Si tratta di un approccio indicativo e prezioso, che tuttavia rischia di «utilizzare» Heidegger a guisa dell’uso che si è fatto dello zen: un deus ex machina che deve liberarci dall’impressione che l’orizzonte si esaurisca in 53 Giorgio Grimaldi autenticità. E proviamo a farlo seguendo ancora Heidegger: «Il rapporto dell’uomo ai luoghi e, attraverso i luoghi, agli spazi, risiede nell’abitare. La relazione di uomo e spazio non è null’altro che l’abitare pensato nella sua essenza» 45. Ma è un passaggio di poco successivo che per noi riveste particolare importanza, in quanto, pur riferito al costruire, vale, nella riflessione heideggeriana, per le cose in generale (per le cose in senso eminente, s’intende): «Aver cura della Quadratura, salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali – questo quadruplice aver cura è la semplice essenza dell’abitare» 46. Al di là del linguaggio heideggeriano, la cui esplicitazione ci porterebbe troppo lontano e fuori rotta rispetto al nostro interesse specifico, il senso d’insieme di queste indicazioni è quello di istituire un rapporto con le cose (e più in generale, con il mondo) che non le riduca a meri oggetti ma ne riconosca l’essenza più autentica e profonda: il Geviert (cielo, terra, divini, mortali) indica l’ambito di manifestazione di questa essenza, un ambito che mostra le cose non più semplicemente come reificate, ma all’interno di una serie di relazioni e funzioni che le salvano dall’essere meri oggetti d’uso. L’avvertenza heideggeriana è allora che la tecnica nasconda tale esperire autentico, e al contempo, per un singolare percorso della storia stessa dell’essere, lo ponga all’attenzione. Può il giardino essere un luogo privilegiato dove le cose, sottratte al loro mero essere oggetti, siano potenzialmente più esperibili nell’ambito del Geviert? E, al di là della lettera heideggeriana, tale ambito non può essere un’indicazione, una figura del tempo del conciliato? Dobbiamo però, giunti a questo punto, interrogare la storia. 9. NATURA E STORIA Quale significato o tensione il giardino intende indicare, sia nella forma più immediata dell’hortus più o meno raffinato che nel fasto di Versailles, fino al giardino privato di tradizione anglosassone? Innanzitutto, nei giardini pensili persiani così come nel chiostro benedettino, fino ai parchi cittadini odierni, nella configurazione degli spazi in un quotidiano che lo stesso pensiero filosofico ha appiattito in uno status quo, scialbo persino agli occhi di quello spirito che tanto ha voluto imitare la scienza come catalogazione e logica senza concetto. 45 Heidegger, Costruire abitare pensare cit., p. 105. 46 Ivi, p. 106. 54 Il giardino: natura, storia, arte cui si instaura una relazione più o meno immediata, più o meno sofisticata, fra ambiente naturale e mondo umano, si riflettono rapporti storici e sociali ben precisi. Il giardino, quindi, ci dice innanzitutto della storia dell’uomo e di come nella storia si configurino i rapporti sociali concreti e la storia del rapporto conflittuale dell’uomo con la natura. Nella storia dei giardini si legge la storia dell’emancipazione dalla natura immediata e la si legge non in una storia astratta, ma in quella concreta dei rapporti storici e sociali, e cioè in una storia del conflitto. A partire da questo conflitto, che inizialmente è sopravvivenza in un ambiente spesso ostile e in cui il pericolo è onnipresente, il giardino è quello spazio naturale chiuso, conosciuto, controllato, in cui il pericolo, la minaccia, sono stati ridotti al minimo. La natura, nell’hortus, dà i suoi frutti grazie al lavoro, allo studio, alla programmazione di un piano che cerca di sottrarre il meccanismo di garanzia di sopravvivenza alla causalità e alla casualità naturali: è l’impulso al controllo e all’organizzazione, la spinta alla fuoriuscita dalla natura come instabilità e ostilità, è il mantenimento e lo sviluppo all’ennesima potenza della natura come vita e, esteticamente, come bellezza e grazia. Più si emancipa realmente dal bisogno, più il giardino diviene espressione di una coscienza estetica che cerca non di rappresentare un modello irraggiungibile di armonia che sulla terra può essere solo sperato e pensato (quest’ultimo è però, certo, un primo essenziale passo per pensare il superamento dello status quo), ma di pensare un’utopia che non deve rimanere tale, bensì deve volere il suo tramonto come u-topia, deve volere il suo divenire reale. Questa emancipazione dal bisogno è, storicamente, un privilegio, e un privilegio possibile attraverso il dominio dei pochi sui molti. L’otium del giardino della classicità si rende possibile in una società schiavistica. Ma nella lunga durata la storia è, hegelianamente, storia della libertà: «L’Oriente sapeva e sa soltanto che uno solo è libero, il mondo greco e romano sapeva che alcuni sono liberi, il mondo germanico sa che tutti sono liberi [Alle frei sind]» 47. L’emancipazione compiuta è la compiuta coscienza dell’umanità di se stessa, autocoscienza compiuta; a questo processo si accompagna la coscienza che, resa la natura una forza (il più possibile) non più ostile, non si considera più in contrapposizione con essa ma in armonia. Non nell’immediatezza, come originaria, ma come risultato. «Il sogno paradossale di 47 G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, Berlin, Duncker und Humblot, 1837; Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1970, p. 134 (trad. it. G. Bonacina L. Sichirollo, Lezioni sulla filosofia della storia, Roma - Bari, Laterza, 2008, pp. 90-91). 55 Giorgio Grimaldi una natura perfetta e al tempo stesso perfettamente dominata dall’uomo» che contraddistingue il giardino medievale è presente come istanza in ogni giardino, anche in maniera confusa e inconsapevole. È la tensione di un conflitto verso cui la sensibilità e la coscienza crescono anche nel momento in cui la potenza del logos si rovescia in potenza naturale irriflessa, quando diviene distruttiva della natura. Natura redenta o, in termini secolarizzati, natura conciliata (non riconciliata, perché non vi è nessuna armonia originaria se non l’inconsapevolezza immediata e irriflessa): ma la conciliazione non si dà nella natura, bensì come lavoro dello spirito, che riconosce la natura come non-assolutamentealtro-da-sé. 56