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Imparare (ed insegnare) una lingua viva è un umanesimo
Patrick Boylan, Università degli Studi Roma Tre
"Il complesso evento dell'incontro e dell'interazione con la
parola altrui è quasi totalmente ignorato dalle corrispondenti
scienze umane. [...] La semiotica si occupa essenzialmente
della trasmissione di una comunicazione già pronta mediante
un codice linguistico. Nel vivo discorso, invece, a rigore di
termini, la comunicazione si crea per la prima volta nel processo
della trasmissione e, in sostanza, non c'è alcun codice. [...] Il
codice è soltanto un mezzo tecnico dell'informazione e non ha
un creativo significato conoscitivo. Il codice è un contesto
appositamente stabilito e necrotizzato.”
Michail Bachtin, L'autore e l'eroe, Teoria letteraria e
scienze umane. (a cura di Clara Strada Janovic), 1988
[orig. Estetika Slovesnogo Tvorcestva, 1979], Torino:
Einaudi, pp. 362-366.
Premessa politico-culturale
Il recente decreto ministeriale che riordina i corsi di laurea offre un'occasione insperata per
riconoscere all'insegnamento universitario delle lingue vive – finalizzato
all'interiorizzazione di queste lingue proprio in quanto vive – la dignità, a lungo negata, di
disciplina umanistica a pieno titolo.
Negli attuali ordinamenti dei Corsi di Laurea in Lingue Straniere, infatti, le lingue vengono
considerate soltanto “discipline caratterizzanti”, non di base. Invece ora grazie alle nuove
Tabelle, le università che optano per la Classe 12 in “Mediazione Linguistica” potranno
conferire alle materie “Lingua e traduzione” il doppio status – quello di disciplina
caratterizzante e quello di disciplina di base – di cui godono da sempre le altre materie in
cui ci si laurea. A sua volta questo nuovo status consentirà alle università di raddoppiare il
numero di crediti assegnati alle lingue e, in tal modo, di correggere l'attuale squilibrio, nei
programmi di laurea in lingue, tra le discipline dei settori “Lingua e traduzione” e le
discipline umanistiche generali.
Attualmente, infatti, in un tipico Corso di Laurea in Lingue solo il 16% dei 180 crediti
previsti riguarda la lingua principale studiata (ossia 30 crediti in tutto). In altre parole, solo
un sesto del totale dei crediti viene assegnato alla disciplina di cui lo Stato, con la
laurea, certifica l'alta competenza. Meno ancora sono i crediti previsti per lo studio della
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seconda lingua in cui ci si laurea. Invece più dei due terzi del totale dei crediti vengono
destinati alle materie complementari. Questo squilibrio contrasta fortemente con le
proporzioni in un tipico corso di laurea in filosofia, dove il 60% dei crediti viene destinato
alle materie filosofiche e solo il 40% alle materie complementari (greco/latino, storia,
filologia, ecc.).
La prima tesi di questa relazione, dunque, è che vada senz'altro colta l'occasione offerta
dalla nuova normativa per rettificare l'attuale squilibrio tra le materie principali e quelle
complementari nei corsi di laurea in lingue, invertendo le proporzioni appena descritte. La
seconda tesi è che tale correzione possa attuarsi salvaguardando il carattere giustamente
umanistico della formazione complessiva impartita a Lingue. Lo si può fare recuperando
dall'Umanesimo il suo senso originario, attuando poi, in tale ottica, l'insegnamento anche
“pratico” delle lingue vive. Ciò significa fare in modo che vengano interiorizzate come
capacità di cogliere e di esprimere gli “infiniti mondi” di significati che si intrecciano nelle
diverse culture umane: creazioni di un homo faber che “fa sé regola dell’universo” (1.).
Ma in che cosa consisterebbe un siffatto “insegnamento umanistico delle lingue” in
pratica? Incentrandosi sull'uomo, nell'atto concreto di fabbricare significati attraverso
l'interazione con i suoi consimili, esso darà necessariamente meno peso alla lessicosintassi e alla riflessione metalinguistica. Quali discipline privilegerà allora? Lo vedremo
nella parte iniziale di questa relazione.
La classe 12 delle nuove Tabelle offre una seconda innovazione. Precisa che circa la
metà dei crediti per le lingue deve servire per dare allo studente non solo concetti bensì
“competenze linguistiche avanzate” [neretto aggiunto] che gli consentano di saper
mediare. Con questa formulazione, i nuovi ordinamenti accreditano a chiare lettere la
piena dignità accademica dell'insegnamento della lingua viva. Ma in che cosa potrebbero
consistere praticamente queste competenze? Nel seguito di questa relazione verranno
fornite alcune risposte, basate su una rivisitazione (neo-)saussuriana delle stesse nozioni
di “lingua” e di “linguaggio” che, nel contempo, si ricollega alle intuizioni del primo
Umanesimo.
L'insegnamento delle lingue vive
Ciò che distingue l'insegnamento delle lingue vive in quanto tali – e la ricerca sulle lingue
vive in quanto tali – è il ricorso massiccio a discipline che studiano la co-costruzione di
significati in tempo reale (che è l'essenza dell'interazione comunicativa viva).
Tra queste materie disciplinari figurano:
1. l'etnografia svolta tramite l'osservazione partecipante e le interviste qualitative,
corredate anche da analisi quantitative (Agar, 1980, 1994);
2. la sociolinguistica, in particolare per la parte che riguarda l'analisi conversazionale (CA)
e l'ethno/CA (Gumperz, 1978; Have, 1999) ;
3. l'etnometodologia (Garfinkel,1967, Castañeda, 2006);
4. la teoria e la tecnica del negoziato multiculturale (Brett, 2001; Lewicki et al., 2003);
5. gli speech communication studies, in particolare per la parte che riguarda la
communication accommodation theory (CAT) – la quale studia l'emergere di
convergenze espressive negli scambi asimmetrici come quelli tra nativi e non-nativi
(Gallois et al., 1988, 2006);
6. i conflict resolution studies (Avruch et al., 1991, Cushner & Brislin, 1996);
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7. l'ermeneutica e il dialogo ermeneutico (Stein, 2002 [1917]; Michrina & Richards, 1996);
8. la psicologia sociale per la parte che riguarda la ethnolinguistic identity theory (Giles &
Johnson, 1987; Turner et al. 1987);
e via di seguito.
E' evidente, se escludiamo l'analisi conversazionale (punto 2.) e l'ermeneutica (punto 7.),
che questi ambiti di studio offrono strumenti d'indagine poco idonei allo studio delle lingue
morte – o delle lingue vive nelle loro manifestazioni puramente testuali.
N.B. Un'altra eccezione è la ethnolinguistic identity theory (punto 8) quando trova
applicazione nella creazione di testi in lingua culturalmente connotati. L'esempio
classico è la redazione di pastiches, sul modello del grande umanista Angelo
Poliziano (vedi più avanti). Ma è possibile teorizzare – e far riprodurre agli studenti
– anche discorsi orali in lingua che siano variamente connotati sul piano
socioculturale, a seconda dell'appartenenza identitaria che il parlante fa sua.
Insegnare una lingua viva facendo leva sulla ricerca nelle aree appena elencate – ed in
altre affini – non significa spiegare sistematicamente le varie discipline elencate per intero
e nel dettaglio. Significa spiegare quel tanto che basta per consentire agli studenti
frequentanti di condurre ricerche, corredate da tesine, che possano sostituire in parte i
testi indicati nel “programma di esame ufficiale” (si tratta di una Lista di Letture che i non
frequentanti devono invece leggere per intero).
In un insegnamento “vivo” di una lingua straniera (d'ora in poi, L2) svolto a livello
universitario, dunque, gli studenti acquisiranno saperi immanenti (phronesis, nella
terminologia aristotelica – Etica nicomachea, VI, 1140a) e non soltanto saperi concettuali
(episteme). Va tenuto presente che la phronesis – ossia “acume progettuale”,
“discernimento”, “saggezza”, “conoscenza procedurale” – è un sapere “pratico” ma anche
intellettivo e morale. Non va confuso, perciò, con il “saper fare” (techne, nella terminologia
aristotelica) che riguarda soltanto la destrezza e la creazione di oggetti.
Per illustrare concretamente in che cosa consiste un “sapere immanente”, è sufficiente
riformulare la lista appena data delle otto aree disciplinari strumentali allo studio della
lingua viva – sostituendo “consapevolezza” per “conoscenza” e “praxis” per “concetti” –
e indicando le attività di ricerca intraprese dagli studenti (in aula, fuori dall'aula) per
acquisire tale sapere.
1. L'etnografia (incentrata sulle indagini etnografiche svolte tramite l'osservazione
partecipante e l'intervista qualitativa) dà come saperi immanenti:
il saper condurre un'intervista qualitativa (corredata anche di domande
quantitative) ai parlanti nativi della L2, residenti nella città in cui gli studenti abitano
oppure che si trovano in quella città in visita turistica:
• per individuare la varietà diatopica da loro parlata, utilizzando l'atlas of
isoglosses illustrato a lezione (sarebbe teoricamente possibile, per quanto più
difficile, portare gli studenti a condurre interviste sulle varietà diastratiche),
oppure
• per documentare sperimentalmente il valore connotativo di un'espressione (vedi
la versione più elaborata di questa maieutica al punto 7 più avanti); oppure
• per costruire il “cultural identikit” dell'intervistato (vedi il punto 8 più avanti);
il saper osservare lo svolgimento di un rituale praticato dai parlanti nativi della L2,
partecipandovi da insider (v. punto 8), e il saper documentare l'interpretazione data.
Esempi di rituali: “la telefonata a parenti nel paese di origine”, “l'offerta e il rifiuto di
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bere nelle serate nei pub”, “l'iniziazione di un compatriota appena arrivato in Italia
alle 'stranezze' italiane”.
2. La sociolinguistica (incentrata sull'analisi conversazionale) dà come sapere immanente:
il saper sbobinare ed analizzare le proprie interazioni conversazionali con parlanti nativi
della L2 secondo i criteri CA (conversational analysis) o ethno/CA illustrati a lezione.
3. L'etnometodologia (incentrata sui breaching experiments) dà come sapere immanente:
il saper violare deliberatamente, per svelarli, i codici comunicativi taciti della L2,
all'interno di contesti ben definiti quali le Internet chat con parlanti nativi; oppure il saper
violare un valore culturale tacito del chat partner, secondo le ipotesi etnometodologiche
sviluppate a lezione, ed inferire il sistema tacito di valori (Weltanschauung)
dell'interlocutore.
4. La teoria e tecnica del negoziato (incentrata sui case studies) dà come sapere
immanente:
il saper condurre una trattativa da insider (v. punto 8) con enti ed aziende di un paese
L2 per stabilire le condizioni per un futuro viaggio, soggiorno, ammissione universitaria
o altro; l'interazione telefonica avviene in Internet tramite la telefonia VoIP (gratuita) e
utilizza le strategie negoziali culturalmente orientate che sono state spiegate a lezione.
5. Gli Speech communication studies (incentrati sulla communication accommodation
theory [CAT]) danno come sapere immanente:
il saper sperimentare gli effetti di determinati accomodamenti linguistico-culturali (ad
esempio, fonologici, lessicali, tematici, nel modo di interrompere...) pianificati e praticati
a gradi diversi su parlanti nativi della L2, per determinare quali convergenze migliorano
l'intesa e convalidano le ipotesi sulla forma mentis dei parlanti L2 (v. punto 8) e quali
invece vengono percepite come false o affettate.
6. I Conflict resolution studies (incentrati sugli “intercultural critical incidents”) danno come
sapere immanente:
il saper analizzare i communicative breakdowns – causati da un fraintendimento
linguistico-culturale o da un comportamento culturale inatteso – individuati in una delle
interazioni (registrate) svolte per le ricerche fin qui elencate e proporre repair strategies
da praticare in futuro, che siano in sintonia con la cultura della L2; nell'analisi gli
studenti potranno usare – criticamente – gli schemi sociometrici detti “cultural
dimensions” oppure le rappresentazioni grafiche alternative illustrate durante le lezioni;
7. L'ermeneutica (con verifica sperimentale dell'empatia raggiunta) dà come sapere
immanente:
il saper dialogare, applicando le tecniche ermeneutiche d'intesa e di verifica imparate a
lezione, con studenti ERASMUS L2 (o, da studente ERASMUS, con parlanti L2 del paese
ospite), tenendo un diario degli scambi conversazionali per 2/3 mesi – in cui viene dato
particolare rilievo alle sperimentazioni condotte per accertare l'effettiva condivisione di
significati – e poi scrivendo una tesina sull'esito raggiunto. Esso può essere una
“fusione di orizzonti” (Gadamer, 1975), la creazione di un “terzo spazio” (Bhabha,
1994), “l'accomodamento culturale unilaterale” (Boylan, 2007) o un altro ancora.
8. La psicologia sociale (incentrata sulla teoria di self-categorization) dà come sapere
immanente:
il saper creare un cultural identikit di un sosia L2, che corrisponde ad una persona
esistente nella cultura L2 con cui lo studente si identifica volentieri (un pen-pal o
webcam chat partner, una celebrità, un leader politico, al limite un personaggio di un
film). I valori esistenziali del sosia, documentati e trasformati in massime, costituiscono
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i tratti dell'identikit. Utilizzando i metodi stanislavskiani, essi vengono interiorizzati onde
poter svolgere molteplici ricerche:
•
quelle indicate nei punti 1, 4, 5, 7;
•
la momentanea messa tra parentesi (bracketing) della propria cultura tramite una
giornata passata a casa “etnometodologicamente” secondo la procedura indicata
al punto 3; vedi alla pagina web tinyurl.com/34tmqa le relazioni
etnografiche (alcune esilaranti) di studenti del primo anno che hanno praticato
questa tecnica di “distanziamento dalla propria cultura” e di “dislocazione nella
cultura della L2”;
NOTA: Non usare il prefisso “www” nel digitare gli indirizzi Internet forniti in
questa relazione. Il predetto indirizzo, dunque, va scritto semplicemente
tinyurl.com/34tmqa e non www.tinyurl.com/34tmqa.
•
rewriting oneself ossia la “riscrittura di se stessi” tramite un pastiche (breve brano
scritto che imita lo stile di un autore – qui, di un sosia), rievocando un evento
realmente vissuto dallo studente ed adattato o trasposto per un pubblico L2;
vedi alla pagina web tinyurl.com/2dsdgm l'esempio di un pastiche scritto da
una studentessa del primo anno.
N.B. Per altri progetti di ricerca che consentono agli studenti sia di analizzare sia di
assimilare la lingua viva da loro studiata, vedi Boylan 1983, 1995, 2003. Per i
resoconti giornalieri di come questa didattica si è svolta concretamente nei corsi
tenuti all'Università Roma Tre e altrove, soprattutto con studenti d'inglese del primo
anno (livelli A2 o B1 del Common European Framework), vedi il sito web
patrick.boylan.it – cliccare su DIDATTICA poi su CORSI. Per i risultati di una
valutazione dell'efficacia di questa didattica – anche per consolidare le conoscenze
puramente grammaticali degli studenti – vedi alla pagina web
tinyurl.com/2r23oh la relativa discussione.
L'interdisciplinarità di queste attività di ricerca studentesche, che va dalla sociolinguistica
della L2 all'etnografia alla psicologia sociale, è evidente. E' altresì evidente che, oltre a
dare concretezza alle indicazioni metodologiche fornite a lezione, esse consentono agli
studenti di migliorare le loro capacità produttive e ricettive nella L2 (ad esempio, sbobinare
una conversazione per poterla analizzare equivale in parte ad un dettato). Va sottolineato,
tuttavia, che diversamente dalle solite esercitazioni in lingua, queste attività danno anche
una consapevolezza, scientificamente fondata, dei meccanismi che determinano la riuscita
(o meno) di un'interazione in una L2. In altre parole, al posto della dicotomia manichea
praticata tradizionalmente nelle università di tutto il mondo (da una parte l'insegnamento
teorico, dall'altra “la pratica”), le attività appena elencate restituiscono al sapere scientifico
la sua fondamentale unità. Teoria e vissuto divengono un unico atto di apprendimento.
“Knowledge is experience – affermò Einstein – everything else is just information.”
Criterio ultimo, dunque, della validità scientifica delle ricerche intraprese dagli studenti – le
quali li portano esistenzialmente al cuore della lingua e della cultura oggetto di studio –
sono le forme di conoscenza denominate Erlebnis (esperienza vissuta consapevolmente –
Gadamer 1975:91) e l'Erfahrung (esperienza acquisita interagendo ossia dialogando con il
mondo – id.). Esse “restring[ono] le pretese del modello meccanicistico [della scienza]”
(op. cit., p.93) e, nel contempo, fondano come scientifica la phronesis aristotelica, il
saper discernere operativamente, considerata dal Filosofo come “saggezza” ascientifica.
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In pratica, indipendentemente dall'accuratezza della raccolta dei dati e dall'acutezza
dell'analisi che li accompagna, il criterio ultimo della validità delle nuove conoscenze
linguistico-culturali degli studenti rimane il grado di transformation of consciousness
(rielaborazione della propria visione del mondo dopo aver sperimentato quella di un Altro –
Boylan 2003, 2007) che essi avranno conseguito nel produrle. Quella trasformazione si
manifesterà poi nel modo più autentico ed efficace di relazionarsi e di esprimersi in lingua
durante l'esame orale. Gli studenti parleranno più autenticamente in lingua perché
penseranno e sentiranno più autenticamente in lingua.
Lo studio delle lingue in quanto vive, dunque, è una disciplina universitaria che è viva
anche epistemologicamente. In ciò si distingue nettamente dall'insegnamento
meramente prescrittivo delle lingue (quello che tutti noi abbiamo conosciuto a scuola e che
conferisce solo nozioni). In quanto epistemologicamente “vivo” si distingue anche
dall'insegnamento descrittivo delle lingue, ossia quello praticato nella quasi totalità degli
odierni corsi universitari di “Lingua e traduzione” (e delle relative filologie), fondato su
criteri epistemologici positivisti o neo-positivisti e capace di conferire, in termini
gadameriani, soltanto saperi meccanicistici, cioè non fondati sull'Erfahrung.
L'insegnamento “tradizionale” delle lingue
A questo punto la discussione diventa delicata. Se, per valorizzare lo studio della lingua
viva, occorre dare maggiore spazio, sia in aula che nei laboratori di ricerca, alle discipline
incentrate sulla co-costruzione di significati in tempo reale, di riflesso – essendo fisso per
legge il numero di esami e carenti per consuetudine i fondi per la ricerca – occorre ridurre
lo spazio attualmente concesso all'insegnamento e alla ricerca svolti con l'ausilio di quelle
discipline che hanno rappresentato fino ad oggi il cardine delle facoltà di lingue (in Italia e
in tutto il mondo), vale a dire le discipline elaborate attraverso i secoli per lo studio delle
lingue morte – e successivamente per lo studio squisitamente testuale delle lingue vive.
Si tratta delle discipline linguistiche descrittive cui abbiamo appena accennato e che
informano quasi tutti gli attuali insegnamenti di “Lingua e traduzione”, delle varie filologie e
delle discipline del settore L-Lin/01 (le quali descrivono o teorizzano le proprietà delle
lingue in generale). Queste discipline sono:
• la fonetica, la fonologia, la prosodia, la metrica (di una specifica L2 o in generale),
• la lessicologia e l'etimologia (di una specifica L2 o in generale),
• la morfo-sintassi, la semantica, le varie grammatiche (di una specifica L2 o in generale),
• la tipologia linguistica e la linguistica contrastiva (di specifiche L2 o in generale),
• la (neo-)retorica e la linguistica del testo (di una specifica L2 o in generale),
• la variazione stilistica, pragmatica, sociolinguistica (di una specifica L2 o in generale),
• i vari metodi di analisi del testo, come il (critical) discourse analysis o il genre analysis,
applicati a testi di una specifica L2 o a testi in generali,
• la paleografia e la diplomatica, la linguistica storica e le storie delle diverse lingue,
e via discorrendo.
N.B. Va precisato che, nello “studio testuale” delle lingue con gli strumenti appena
elencati, i testi sottoposti ad analisi non devono essere necessariamente
elaborazioni scritte. Qualsiasi discorso orale diventa “testo” suscettibile di analisi
con questi strumenti (e quindi cessa di essere “lingua viva”) non appena esso viene
percepito come campione di linguaggio, delimitato e non più in divenire – ad
esempio, non appena esso viene trascritto o semplicemente registrato su un
nastro.
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In altre parole, il concetto di “lingua viva” non coincide affatto con la nozione di
“linguaggio parlato”. Anzi, una lezione di lingua inglese nella quale vengono
commentate, poniamo, le conversazioni video-registrate di Henry Miller in cui il
celebre drammaturgo illustra con brio le sue tecniche (Evans, 1967), è a tutti gli
effetti un insegnamento di “lingua morta” . Lo è perché l'oggetto dello studio è un
testo, per quanto audiovisivo (dunque parlato) e di un personaggio contemporaneo
(dunque sincronico); cioè, è un campione di linguaggio delimitato, già bell'e
realizzato, che viene commentato in quanto tale.
Costituisce invece una lezione di “lingua viva” – per quanto basato interamente
sullo scritto – un corso sullo stesso argomento, svolto senza il video e quindi
senza il parlato, che faccia capire ed interiorizzare le tecniche scrittorie di Miller
(l'interiorizzazione può avvenire, ad esempio, attraverso l'invio ripetuto, da parte
degli studenti, dei loro pastiches della scrittura di Miller agli studenti di un corso
gemellato in una università americana, fin quando i pastiches non vengano
accettati come “abbastanza convincenti”). Al termine di un siffatto corso, gli studenti
dovranno essere in grado di illustrare, seppure con meno brio e perizia di Miller, le
sue tecniche e di imitare la sua scrittura. Dopo l'assimilazione di molteplici modelli
di stile e poi con la loro fusione in uno stile proprio, gli studenti acquisteranno una
capacità di scrivere nella L2 che sarà autentica, consapevole, efficace e, nel
contempo, propria ad ognuno di loro. Questa è la “lingua viva”.
Le diverse discipline linguistiche “tradizionali” appena elencate, elaborate attraverso i
secoli per l'analisi dei testi, hanno un indiscusso valore sia culturale che formativo. Infatti,
sapere una lingua è, necessariamente, saper interpretare anche le sue manifestazioni
testuali, che comprendono:
• sia l'immenso patrimonio di scritti che costituisce la nostra memoria storica, senza la
quale non saremmo letteralmente nulla;
• sia i nuovi hypertexts e i testi digitali in genere, i quali moltiplicano le potenzialità
espressive dei testi stampati;
• sia i testi sui generis, come i “testi audiovisivi”, indici dell'effettiva complessità dei
processi semiotici umani.
Le discipline linguistiche “tradizionali” sono dunque da includere immancabilmente, per
quanto variabilmente e anche facoltativamente in determinati percorsi di studio, nei
programmi di qualsiasi corso di laurea in lingue che pretende di essere
metodologicamente completo – le discipline filologiche perché insegnano il metodo
storico-comparativo e le discipline linguistiche perché insegnano metodi descrittivi e
formalizzanti per rendere conto dei processi semiotici e psico-sociali a monte delle
realizzazioni verbali.
Ma, premesso ciò, bisogna avere anche l'onestà intellettuale di riconoscere che queste
modalità conoscitive tradizionali, incentrate sulla descrizione e sull'interpretazione di testi
orali o scritti, non sono formative alla stessa maniera delle modalità conoscitive acquisite
con lo studio della lingua viva. Quest'ultime, infatti, nell'arco di un triennio preparano
meglio lo studente a studiare e ad afferrare l'immanenza dell'activité langagière e il suo
intrinseco carattere di bricolage; preparano meglio lo studente ad afferrare la stessa
lingua studiata come famiglia meticcia di idiomi in divenire. Queste percezioni
consentono agli studenti poi, una volta laureatisi, di ricoprire in maniera più competente
ruoli professionali quali: negoziatore internazionale, mediatore in incontri multiculturali,
addetto stampa, portavoce per gli esteri, language coach o traduttore per le realizzazioni
cinematografiche o televisive, ricercatore capace di condurre interviste qualitative in lingua
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(ad esempio, per prevedere tendenze editoriali europee o mondiali), ricercatore capace di
distanziarsi dalla propria cultura e di dislocarsi in altre (ad esempio, per studiare sul campo
l'integrazione multietnica o la riabilitazione dei profughi con traumi), ricercatore capace di
gestire processi complessi in lingua svolti in tempo reale (ad esempio, per studiare le
interazioni video-audio-testo nelle teleconferenze in lingua di tipo Skype nonché,
ovviamente, per parteciparvi) e via discorrendo.
N.B. Mentre è pacifico che una laurea in lingue non debba preparare lo studente a
svolgere le specifiche attività professionali elencate, è ugualmente evidente che se
un laureato in lingue non ha almeno le competenze linguistiche per svolgerle, il
suo titolo di studio attesta un falso. Non gli è stata insegnata la lingua
indicata sul certificato di laurea, bensì solo un sottoinsieme di quella lingua,
ossia la sola conoscenza necessaria per analizzare e commentare testi in
lingua: in pratica, la conoscenza che si ha di una lingua morta.
Infatti, le otto indagini sulla lingua viva descritte all'inizio di questa relazione forniscono a
chi le svolge determinate competenze che la filologia o le scienze del linguaggio – come
vengono solitamente insegnate nel triennio universitario – non danno né possono dare.
Queste competenze, infatti, rendono il discente capace di:
•
distanziarsi dalla propria lingua e cultura per capirne la relatività e per sperimentare lo
stato momentaneo di anomia che è la condicio sine qua non per svolgere con
competenza le indagini scientifiche e le attività professionali elencate qui di seguito;
•
cogliere il livello implicito presente in tutti i comportamenti espressivi dei propri
interlocutori L2 – anche di coloro che non sono parlanti nativi e persino di chi usa un
pidgin L2 – per poi ricostruire la relativa Weltanschauung a monte;
•
interiorizzare in tempo reale quanto indicato al punto precedente, onde poter
comunicare analogamente ed empaticamente in colloqui o in trattative dove è cruciale
ridurre la distanza tra se stesso ed i propri interlocutori L2;
•
mediare i misunderstanding, i critical incident e anche i conflitti che sorgono nelle
interazioni multiculturali, creando intese fondate su una reale comprensione tra tutti;
•
tradurre (parlando o scrivendo) dalla lingua straniera verso la propria lingua, partendo
dall'effettiva interiorizzazione della Weltanschauung di determinati fruitori L2 del testo,
presi a modello, tramite il già accennato processo di distanziamento e di dislocazione
(Boylan, 1999);
•
tradurre (parlando o scrivendo) nella lingua straniera le proprie realtà, vissute in
italiano, ma poi rese in termini che parlino anche il linguaggio dei destinatari stranieri,
per consentire ai prodotti della cultura italiana di affondare le radici pure in altre terre.
Le filologie e le linguistiche (testuali), invece, non mirano a conferire questa
competenza: descrivono prodotti in lingua già realizzati, non le tecniche per realizzare a
nostra volta prodotti simili, tenendo conto della cultura locale e delle attese di un
particolare pubblico destinatario. Anche quando le filologie o le linguistiche (testuali)
comprendono momenti di traduzione, essi servono anzitutto per illustrare le proprietà
formali della L2;
•
interagire in lingua sfruttando tutti i generi discorsivi professionali – dalla presentazione
al negoziato – e sfruttando tutte le funzioni del linguaggio (strumentale, regolatrice,
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interazionale, personale, euristica, immaginativa: Halliday, 1978:121) – e dunque non
soltanto la sola funzione ideativa/espositiva, l'unica che viene richiesta dalle discipline
testuali tradizionali e l'unica che serve per superare le prove di lingua negli esami
universitari tradizionali;
•
costruire una “linguistica della parole” che renda visibile l'altra faccia della luna che
Saussure ha indicato, ma ha rinunciato ad esplorare, preferendo studiare la “langue”.
La seguente tabella illustra le somiglianze e le divergenze tra i due tipi di disciplina.
LE DISCIPLINE ELABORATE PER
LO STUDIO DELLE "LINGUE VIVE"
IN QUANTO "VIVE"
come, ad esempio, l'etnografia,
l'etnometodologia, gli speech communication
studies e la CAT, etc.
LE DISCIPLINE ELABORATE PER
LO STUDIO DELLE "LINGUE MORTE"
(O DELLE MANIFESTAZIONI SOLO TESTUALI
DELLE "LINGUE VIVE")
come, ad esempio, la morfo-sintassi, la filologia, la
linguistica contrastiva, il genre analysis, etc.
Queste discipline studiano gli atti comunicativi in lingua in quanto:
● eventi
● testi
● perlopiù in svolgimento, in divenire.
● perlopiù conchiusi, delimitati.
Queste discipline studiano gli atti comunicativi in lingua tramite:
● metodi sia interpretativi che sperimentali:
– interpretativi in quanto mirano alla
comprensione dei fenomeni linguisticocomportamentali colti in divenire (“l'ermeneutica
dell'evanescente”);
– sperimentali in quanto alla verifica delle
interpretazioni, svolta interattivamente
attraverso, per esempio, l'osservazione
partecipante o i breaching experiments;
● (filologia) il metodo della comparazione formale,
storicamente suffragata, dei soli testi scritti (con preferenza
per i capisaldi della cultura) e dei sistemi di segni che li
compongono,
● (linguistica) il metodo della descrizione e della successiva
formalizzazione in meta-sistemi semiotici, anche generativi,
dei fenomeni segnici rilevati in “testi qualsiasi”, sia scritti che
orali,
● metodi che sono finalizzati all'introiezione dei
valori riscontrati, che si trasformano in
disposizioni a reagire e ad esprimersi in
determinate maniere per determinati motivi
(consapevolezza teleologica dell'activité
langagière),
● il tutto finalizzato all'elaborazione sia di concetti con valore
euristico (congetture, leggi, regole, tassonomie) sia di
sistemizzazioni definitive:
-- (filologia) testi canonici, genealogicamente ricostruiti,
-- (linguistica) grammatiche, vocabolari, teorie generali del
linguaggio,
● la quale introiezione dei valori modifica sia i
● le quali elaborazioni euristiche non provocano (né devono
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comportamenti espressivi degli studenti, sia la
loro Weltanschauung. Ciò relativizza il loro
etnocentrismo ereditato e li predispone alla
comprensione degli aspetti non sistematici
degli atti comunicativi unici in L2 che
incontreranno.
provocare) modifiche nel comportamento dello studente, né
facilitano la relativizzazione del pensiero (in quanto tutto
viene fatto rientrare in sistemi onnicomprensivi raziocinanti).
Queste discipline studiano gli atti comunicativi in lingua per promuovere nel discente:
● l'acquisizione della lingua in quanto viva,
quindi sui piani cognitivo, affettivo e, soprattuto,
volitivo,
● l'apprendimento della storia e della struttura della lingua,
generalmente sul solo piano cognitivo (e comunque non
volitivo)
● e la creazione di discorsi in lingua
pragmaticamente efficaci e culturalmente
autentici (per quanto limitatamente alle figure
culturali introiettate, anche figure marginali – ad
esempio, un parlante della sottocultura rap L2)
● nonché l'apprezzamento dei discorsi in lingua (ma non la
loro fruizione autentica, se non in misura limitata, in quanto
il discente non è stato portato ad interiorizzare il sistema di
valori che dà loro vita)
● attraverso la costruzione collegiale di un
"significato in divenire", il cui spessore
trascende il contesto di enunciazione per
ricollegarsi alla Weltanschauung di una
comunità,
● (filologia) attraverso il commento di testi compiuti, per
quanto aperti all'interpretazione nel caso di testi letterari,
giuridici, ecc.,
● (linguistica) attraverso il commento dei fenomeni linguistici
alla luce di sistemi teorici raziocinanti ed onnicomprensivi,
● – discorsi che giocano su vari registri per
svolgere molteplici funzioni (instaurare e
regolare rapporti, persuadere, divertire,
accertare) –
● il quale commento viene espresso in lingua all'esame,
usando un solo registro (quello accademico) e una unica
funzione (quella espositiva)
● il che consente di raggiungere un alto grado
di espressività in lingua, verbale e
comportamentale, e di capacità di vagliare
criticamente il raggiungimento di un “significato
condiviso” (ossia, di un'intesa) con interlocutori
L2 di qualsiasi provenienza.
● (filologia) allo scopo di dimostrare l'avvenuta
storicizzazione delle conoscenze dello studente,
raccordandole con ciò che esprime il testo, e una capacità
di lettura critica anche riportata al presente.
●.(linguistica) allo scopo di dimostrare le sole capacità
concettuali dello studente nel cercare di afferrare, di
interpretare e di inquadrare i fenomeni linguistici.
N.B. Per riformare un Corso di Laurea in Lingue ispirandosi a questa tabella,
occorrerebbe creare due curricula (o due percorsi all'interno di un curriculum) con le
due finalità formative indicate. Gli studenti dovrebbero poter scegliere liberamente
l'uno o l'altro percorso in base ai loro interessi reali. Qualora uno dei percorsi
mancasse di studenti, andrebbero create incentivazioni quali borse di studio (non
imposizioni nei programmi di studio per “dirottare” gli studenti verso il curriculum più
esposto). Inoltre, dal momento che un certo numero di insegnamenti risulteranno
necessariamente comuni ai due percorsi (ad esempio, la storia della lingua
studiata), bisognerebbe variare il numero di crediti concessi a tali insegnamenti in
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ciascun percorso, per poter inserire o valorizzare altri insegnamenti e così garantire
una effettiva differenziazione finale.
L'insegnamento umanistico della lingua viva
La creazione di uno specifico percorso formativo in lingua viva, con le caratteristiche
appena illustrate nella colonna sinistra della tabella, consentirebbe dunque alle università
di laureare studenti che abbiano acquisito contemporaneamente, negli stessi corsi ufficiali:
a) sia conoscenze “operative” espressive nella L2 – cioè, le capacità produttive e ricettive
necessarie per poter interagire in una lingua efficacemente e consapevolmente;
b) sia conoscenze “operative” scientifiche – cioè, le capacità necessarie per discernere e
verificare, in eventi comunicativi in svolgimento, i meccanismi di produzione e di
condivisione di significati in lingua, attraverso sperimentazioni formali ed informali;
c) sia conoscenze “operative” didattiche (ed autodidattiche) che consentiranno agli
studenti di continuare ad imparare la L2 per conto proprio dopo la laurea, usando le
tecniche di (auto-)apprendimento acquisite a lezione – o inventando, sulla falsa riga di
quelle tecniche, attività autodidattiche consone con le esigenze che man mano si
manifesteranno nel corso della vita di ciascuno (lifelong learning).
L'insegnamento di queste tre conoscenze – in particolare la prima, la quale
consente di capire e di governare il processo di co-produzione e di condivisione di
significati in lingua in tempo reale – è un umanesimo a pieno titolo; anzi, è la ragion
d'essere stessa della presenza delle discipline “Lingue e Traduzione” all'università.
E' un umanesimo poiché incentrato sull'uomo in quanto costruttore del proprio universo di
significati, il che rappresenta l'insegnamento più profondo dell'Umanesimo e del
Rinascimento (Garin, 1973). Infatti, le tre conoscenze elencate, proprio come lo stesso
Umanesimo, non si fondano epistemologicamente sugli auctores né su leggi date;
esigono che lo studente diventi eticamente responsabile del proprio sapere (2.).
E' un umanesimo poiché costruisce un sapere che non è il mero commento critico di testi
o la rielaborazione di “saperi consolidati” – pratiche euristiche tipiche degli Scolastici,
deprecate dagli Umanisti e tuttavia prevalenti ancora oggi, persino tra i docenti universitari
che più si richiamano all'Umanesimo. Ogni corso di lingua viva è, invece, autenticamente
umanistico in quanto riscoperta dei saperi. L'apprendimento della grammatica della L2,
per esempio, non si fonda sui “testi autorevoli” di per sé, bensì, in prima istanza, sui dati,
diastraticamente più vari e più contestualizzati di quelli forniti da qualsiasi grammatica,
raccolti nei chat etnolinguistici condotti dagli studenti in Internet (3.).
E' un umanesimo poiché privilegia un modo di studiare che parte dall'interazione col reale
per poi ricongiungersi ad esso. Una lezione di lingua viva, ad esempio, raccoglie i tentativi
di osservazione partecipante svolti dagli studenti presso una comunità straniera per poi
elaborare maieuticamente con gli studenti in aula le condizioni per un dialogo interculturale
più autentico in futuro. In ciò fa propria la massima umanista Agere et intelligere.
Secondo Giannozzo Manetti (De Dignitate et Eccellentia Hominis, 1451), infatti, l'uomo
deve prima agere per poi intelligere ed infine agere sul mondo intorno per migliorarlo (4.).
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Incentrato, dunque, sull'essere umano nell'atto concreto di co-costruire significati,
negoziando la propria collocazione in un nuovo universo di valori culturali,
l'insegnamento delle lingue vive in quanto vive è un umanesimo:
nelle sue finalità,
nei suoi contenuti
e nei suoi metodi.
N.B. L'insegnamento della lingua viva, abbiamo detto, comporta la dislocazione del
parlante nell'universo di valori del suo interlocutore per poi ricercare punti di
contatto con il proprio mondo. Ma questo atto è anche l'essenza della traduzione.
Perciò insegnare la lingua viva, più ancora che insegnare le linguistiche areali,
rientra nella ratio dei settori disciplinari denominati “Lingua e Traduzione”.
Anzi, per fare chiarezza, le linguistiche areali, che predominano attualmente negli
insegnamenti di lingua all'università, andrebbero tolte dai settori “Lingua e
Traduzione” e collocate nel settore disciplinare L-Lin/01 con le altre scienze
linguistiche descrittive, proprio per via:
dei loro contenuti, incentrati sulle sistemizzazioni formali degli atti
comunicativi più che sulla loro interpretazione ed interiorizzazione, nonché
della loro epistemologia positivista o neo-positivista, a cui si è già accennata,
per nulla umanistica nella prospettiva sviluppata qui: quella di una ricerca
ermeneutica senza certezze, fondata sull'Erlebnis che diventa Erfahrung.
Con ciò non si vuole negare la grande utilità dei saperi di stampo positivista
ma solo sottolineare il loro rifiuto programmatico di contemplare l'esperienza
soggettiva uamana sul suo stesso terreno. Ciò spiega le accuse di “antiumana” e persino di “disumana” spesso rivolte alla scienza moderna.
Se ciò avvenisse, le declaratorie delle discipline “Lingue e Traduzione” potrebbero
essere sostituite con la dicitura data, nella nuova Classe di Laurea 12, alle
cosiddette “materie caratterizzanti”.
La ridefinizione dei concetti di “lingua” e di “linguaggio”
Sul piano propriamente scientifico, la proposta di un siffatto spostamento di enfasi – dalle
discipline linguistiche nate per analizzare testi o per descrivere il linguaggio testuale come
sistema, a quelle elaborate per afferrare gli aspetti dinamici delle interazioni in lingua –
porta necessariamente alla ridefinizione dello stesso termine “lingua“. Del resto, la
definizione corrente (“sistema semiotico verbale”) è stata già messa in discussione dalle
nuove conoscenze emerse in campi affini, come ad esempio:
•
la ricerca sulla fisiologia del linguaggio – Gli studi sul cervello umano tramite, ad
esempio, l'imaging con la risonanza magnetica (la quale visualizza su uno schermo le
zone dinamizzate da determinate attività cerebrali), portano ad ipotizzare che la genesi
di un enunciato abbia sede nel sistema limbico del cervello, dove vengono elaborati gli
atti volitivi (e dunque forse anche gli intenti comunicativi) e non, ad esempio, nelle aree
di Broca e di Wernike (sedi che coordinano le realizzazioni ed interpretazioni verbali); e
•
le ricerche sulle lingue dei segni – Da tempo queste ricerche hanno riconosciuto alle
lingue dei segni lo status di lingue vere e proprie e non di semplici ricalchi gestuali delle
lingue verbali. Infatti, oltre ad esprimere i tratti universali della sub-culture sordo-muta,
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esse esprimono, come fanno le lingue verbali, culture nazionali ed anche regionali
diverse, dunque modi di essere e di volere diversi, ecc. Si può dunque ipotizzare la
comune genesi di ogni tipo di enunciato, sia verbale che segnato, in un'area presemiotica in cui volizione e condizionamenti ambientali (naturali e culturali) si
intersecano.
Questi ed altri studi suggeriscono dunque che le lingue non sono, essenzialmente, né
insiemi di parole né insiemi di gesti, legati da regole combinatorie – e pertanto non
andrebbero insegnate a partire dal lessico e dalla sintassi. Esse sono piuttosto matrici
volitive – sedimentazioni storiche di atti di voler dire – che, per esternarsi, sfruttano
una pluralità di possibili repertori di segni. (Tra gli udenti il repertorio prevalente è
quello verbale – ma non sempre e comunque non necessariamente come canale
predominante, come ha notato acutamente Malinowski quasi un secolo fa (1972:52
[1923]).
Perciò lo studente che non vuole o che non arriva ad interiorizzare la sua L2 come matrice
volitiva non può asserire di parlare quella lingua, anche se sa formulare enunciati
grammaticalmente corretti e pragmaticamente appropriati usando il relativo repertorio
verbale. Egli è come il bambino apatico a cui i genitori hanno fatto fare tante lezioni di
pianoforte ma che continua a strimpellare. Anche quando egli riesce a suonare la corretta
successione di note mantenendo il tempo appropriato, suona comunque male perché non
sente, dentro di lui, la musica (la quale, appunto, non è semplicemente un'insieme di note
legate da regole di armonia e di ritmo).
A sua volta, la nostra ridefinizione del concetto di “lingua” comporta anche la ridefinizione
dei concetti saussuriani di langue e di parole, le due facce dei sistemi espressivi basati su
segni articolati “non calcolabili” (cioè, illimitati in quanto a numero, combinazioni e
sinonimie – De Mauro, 1980:94) che abitualmente chiamiamo “l'italiano”, “il finlandese”
oppure “la LIS” (Lingua Italiana dei Segni), “l'ASL” (American Sign Language) ecc.
Nella nuova ottica prospettata qui, che potremmo chiamare neo-saussuriana, per langue
s'intenderà dunque la “disposizione” o lo “stato esistenziale” che predispone l'individuo ad
esprimersi in modo culturalmente condizionato (usando parole e/o gesti, smorfie, effetti
paralinguistici ed altri mezzi, da italiano, da finlandese, da sordo-muto italiano, da sordomuto americano, ecc.) e che viene acquisito attraverso la sedimentazione – sia nella
psiche collettiva di una comunità sia nella psiche di ogni suo membro – delle
configurazioni pulsionali, valoriali ed espressive che formano la memoria storica di quella
comunità (e, variabilmente, di ogni suo membro).
In modo analogo, il termine saussuriano parole si riferirà, nella nuova ottica prospettata
qui, non tanto agli “enunciati concreti” – come, per esempio, l'enunciato prodotto da un
marito che saluta la moglie che rientra dal mercato:
“Ciao!” (ITALIANO)
(ASL),
[sguardo silenzioso] (FINLANDESE)
– quanto agli “stati volitivi articolati” a monte, che l'individuo cerca di imprimere su un
evento comunicativo attraverso certe parole, attraverso certi gesti e smorfie o persino
attraverso il silenzio di un certo tipo. Ecco perché insegnare le lingue in quanto vive –
tramite, ad esempio, le otto attività di ricerca illustrate all'inizio di questa relazione – vuol
dire insegnare agli studenti a cogliere (e a saper riprodurre a loro volta) particolari “stati
volitivi articolati” variamente rappresentati (Boylan 2006).
Per meglio chiarire queste distinzioni, possiamo ricorrere ad una metafora. Ciò che noi
chiamiamo abitualmente “l'italiano” o “il finlandese” – oppure “la LIS” o “l'ASL” – è soltanto
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la buccia, cioè la parte esterna della langue. La polpa, invece, è la matrice volitiva che
costituisce l'essenza della langue e che dà ad un atto di parole (come la polpa di un frutto
dà ad una macedonia) il suo sapore caratteristico.
N. B. La nostra definizione di “lingua” (nonché di “langue”/“parole”) ci consente di
vedere in che senso l'italiano parlato e la LIS (Lingua Italiana dei Segni) possono
considerarsi essenzialmente la stessa lingua. Infatti, entrambe le varietà
espressive derivano dalla stessa matrice volitiva ed espressiva “italica”,
culturalmente sedimentata attraverso i secoli. Solo le loro “bucce” sono diverse.
Lo stesso può dirsi per l'ASL (American Sign Language) e l'inglese americano
parlato. Queste due varietà sono gemellate, non perché l'ASL sia la semplice
traduzione in gesti delle parole dell'inglese americano parlato (non lo è), ma perché
sia i gesti degli americani sordomuti che il parlato degli americani udenti traducono
un medesimo modo oltreatlantico di porsi, di esprimersi e di vedere il mondo, per
quanto vario ed ibrido sia quel modo da individuo ad individuo.
Certo, tra le varietà parlate e segnate di una stessa lingua, esistono molte
differenze, dovute anche alla diversità dei procedimenti di esternazione. Per
esempio, la sonorità di un verso dantesco in italiano parlato è difficilmente
riproducibile tramite gesti in LIS, mentre la complessità dei verbi di movimento resa
dai gesti in LIS è difficilmente riproducibile a parole in italiano parlato. Inoltre esiste
tra i sordomuti italiani e quelli di altri paesi una subculture trasversale che consente,
tramite la traduzione da una lingua dei segni in un'altra, una comunicazione tra di
loro più ricca – per certi aspetti – di quanto spesso non avviene tra loro e gli
udenti segnanti delle loro rispettive culture nazionali. Perciò l'italiano parlato e la
LIS potrebbero sembrare, a prima vista, due idiomi linguisticamente e culturalmente
diversi e non, come abbiamo appena asserito, due varietà espressive di una
medesima lingua. Lo stesso, almeno in apparenza, tra l'ASL e l'inglese americano
parlato, tra la LSF (Langue des signes française) e il francese parlato, ecc.
Tuttavia bisogna riconoscere che l'intraducibilità esiste anche tra i canali espressivi
usati da una stessa lingua nelle sue manifestazioni puramente verbali: ad esempio,
tra la prosodia nell'italiano orale e i grafemi stilizzati nell'italiano scritto, tra i gesti
batonici che punteggiano variamente l'italiano parlato e la punteggiatura assai più
scarsa prevista per l'italiano scritto. Inoltre esistono subculture trasversali anche tra
udenti italiani e udenti di altri paesi, ad esempio quella rap di recente diffusione. Un
giovane rapper italiano, udente, può intendersi meglio – per certi aspetti – con i
rapper di Singapore, affidandosi nelle chat su Internet alle traduzioni automatiche
molto approssimative dei suoi versi italiani e dei loro versi singlish, di quanto egli
non s'intenda con i membri della propria famiglia, tutti udenti e italiani. Eppure in
tutte queste manifestazioni espressive continuiamo a riconoscere, nonostante le
intraducibilità linguistiche e le incomprensioni culturali, l'esistenza di una medesima
lingua e cultura che chiamiamo l'italiano, descrivibile essenzialmente:
in quanto langue, come matrice volitiva/espressiva “italica” (per quanto
sentita e utilizzata diversamente da individuo ad individuo) e,
in quanto parole, come specifici atti di intenzionalità espressiva “italica” (per
quanto ibridi o meticci, ossia contaminati da altre influenze culturali).
Lo stesso discorso vale per i parlanti e segnanti di una stessa comunità linguisticoculturale.
La nostra definizione di lingua come “matrice volitiva”, anziché come “sistema semiotico
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verbale”, trova riscontro anche nei corsi aziendali, che proliferano nelle multinazionali da
oltre trent'anni, incentrati sulla comunicazione interculturale. Questi corsi mirano ad
insegnare ai manager in partenza per l'estero come relazionarsi con la gente del posto.
Invece di insegnare loro nuovi vocaboli nella lingua franca che dovranno adoperare (di
solito, l'inglese), i corsi cercano di dare ai discenti la “transformation of consciousness” e il
nuovo “will to be” e “will to mean” necessari per potersi dislocare (e quindi agire con
efficacia) nel mondo di valori dei loro futuri interlocutori. Una volta acquisita questa
capacità, basteranno ai manager i vocaboli della lingua franca che già posseggono, per
poter stabilire intese più autentiche e più solide.
La nostra definizione di lingua come “matrice volitiva” – esistenziale prima ancora che
verbale – collima anche con la definizione del linguaggio e poi dello stesso concetto di
lingua che il grande filologo e linguista Antonino Pagliaro ha formulato in questi termini:
“il linguaggio, che è energeia, attività individuale, è pure nomos, poichè
l'individuo è pur esso nomos";
e poi:
"La lingua esiste in quanto un individuo la parla, vi imprime ed esprime il
proprio sentimento, il proprio pensiero, la propria volontà ... La lingua
non è dunque un mezzo di cui l'uomo si appropri a suo gradimento, ma
esso è in lui appunto perché è lui; ha nell'individuo la sua legge, è nomo,
come ha visto Platone. Un individuo parla in una determinata lingua e in
una determinata maniera perché egli è quel determinato individuo che ha
nella storia un posto ben distinto. Chi parli una lingua straniera, saprà
veramente parlarla quando gli sarà riuscito di porre se stesso al posto
dell'individuo che la parla da quando ha avuto l'uso della parola, e di
essa conosce tutte le risonanze e tutte le sfumature che solo a lui perché è
lui sono svelate" – Pagliaro (1993 [1930]: 100, 1001) (neretto aggiunto).
Tutte le attività di ricerca per gli studenti che sono state descritte all'inizio di questo saggio,
in particolare l'ottava attività ossia il cultural identikit, sono tentativi di implementare la
visione di Pagliaro in un corso universitario di lingua viva.
Aggiungiamo, per concludere, che la nostra definizione di lingua come “matrice volitiva”,
anziché come “sistema semiotico verbale”, trova un riscontro anche nella radice latina
della parola “umanesimo”, ossia humanĭtas che indica “le qualità umane”, come nella
locuzione “ad humanitatem informare” = “incivilire”, “acculturare ad un insieme di valori”.
Infatti, per il grande umanista italiano Angelo Poliziano, sapere il latino significava sapersi
immergere nella matrice volitiva (humanĭtas) degli antichi romani – fino al punto di trovare
gusto a scrivere poesie come essi avrebbero fatto per poi discuterne in latino con amici in
cenacoli (qualcuno addirittura indossava per l'occasione toga e sandali). Significava, cioè,
far propria la umanità degli antichi, la quale era un modo sia di essere e di vedere che di
esprimersi. Con meticolosità, scrive Petrilli (1996:742), Poliziano “ricostruiva la matrice
culturale che dotava ogni autore classico della sua fisionomia distinta, evidenziata nel suo
linguaggio”, per poi farla diventare sua.
Questo, del resto, è fondamentalmente ciò che abbiamo proposto con l'attività di ricerca n°
8 – la costruzione, da parte degli studenti, di un identikit linguistico-culturale di un sosia L2
e la sua introiezione. Si tratta dunque di una modalità di apprendimento autorevolmente
suffragata, non di una didattica “fantasiosa” o “fantascientifica”. Il grande filologo Pagliaro
la giustificò teoricamente tre generazioni fa e il grande umanista Poliziano la mise in
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pratica per apprendere il latino e il greco cinque secoli fa. Anzi, se tutti i docenti di latino e
di greco che operano oggi nelle scuole e nelle università italiane fossero come il Poliziano,
allora potrebbe sì giustificarsi la didattica praticata da tanti docenti oggi, sia a Scuola che
nelle facoltà universitarie, i quali perseverano nell'insegnamento delle lingue vive usando
gli stessi metodi praticati dai loro colleghi nell'insegnare le lingue morte!
Insegnare oggi le lingue vive – in quanto vive – in una prospettiva umanistica, dunque,
vuol dire essenzialmente farle interiorizzare come matrici volitive, attraverso la metodica
sperimentazione in situ dei meccanismi e dei rituali, elaborati dalle diverse comunità
linguistiche umane, per co-costruire e condividere i loro infiniti universi di significati e di
valori (5.).
<<<>>>
Note
1. L'espressione “infiniti mondi” è ovviamente di Giordano Bruno (De l'Infinito Universo et
Mondi, 1584), il quale, per Lollini (1995), rappresenta il punto di arrivo dell'Umanesimo.
Bruno infatti relativizzò l'antropocentrismo del primo umanesimo, collocando l'uomo tra
infiniti universi di significati. L'espressione “fa sé regola dell'universo", riferitasi a colui che
“non sa” ma anche implicitamente a colui che pensa di sapere (poiché solo Dio sa con
certezza), è invece di G. B. Vico (Scienza Nuova, Libro Primo, II,1 e soprattutto Libro
Secondo, II,2,1). L'opera di Vico, sempre per Lollini, sintetizza i due estremi
dell’umanesimo italiano: Pico della Mirandola, per il quale l'uomo è faber fortunae suae, e
appunto Giordano Bruno, “spirto inquieto, che subverte gli edificii de buone discipline e si
fa fondator di machine di perversitade” (De l'Infinito, Proemio). Per entrambi il sapere è
prodotto della volontà dell'uomo ed è pertanto anche scelta etica.
2. Secondo Ong (2004 [1958]), l'enorme diffusione del “Ramismo” nell'Europa umanista
sarebbe inspiegabile, considerata la modesta statura di Petrus Ramus (Pierre de la
Ramée), se non fosse per via del messaggio che esso trasmetteva: vale a dire, le regole
vanno ricercate, non dapprima nei testi aristotelici – anche se accuratamente ripristinati –
e tanto meno nelle sistematizzazioni trasmesse dalla tradizione scolastica, bensì
attraverso una certa pratica:
qualora la conoscenza ricercata riguardasse l'autenticità di una fonte e il
reperimento dei co-testi per giustificarne l'interpretazione, la pratica filologica
concreta svolta su testimoni manoscritti;
qualora la conoscenza ricercata fosse, poniamo, la ars bene dicendi, la pratica
retorica concreta svolta, penna in mano, per realizzare discorsi capaci di produrre
determinati effetti,
e via discorrendo per le altre conoscenze, ognuna con una pratica concreta sua.
3. Abbagnano (1973:134) nota che l'umanista Lorenzo Valla (Dialecticae disputationes,
1439) era giunto a far giurare ai suoi studenti di non commentare Aristotele nemmeno tra
di loro ma di trovare motivi per criticare i testi aristotelici di retorica o di politica agendo sul
mondo. Così il successivo confronto metodico con i testi sarebbe stato fondato su dati
effettivamente riscontrati.
4. La massima Agere et Intelligere, formulata da Manetti, fu subito adottata come motto
dell'Umanesimo e poi del Rinascimento (Garin, op. cit.). Essa indica (1.) sia un preciso
metodo pedagogico, ossia agire sul mondo per poterlo capire, (2.) sia una precisa finalità
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etica, vale a dire, capire il mondo per poter agire su di esso (migliorarlo). E' quindi ironico
che oggigiorno i più rumorosi difensori dell'impostazione umanistica nei curricula
universitari siano proprio i più accaniti critici di qualsiasi tentativo, nelle Facoltà di Lingue,
di agganciare gli insegnamenti: (1.) ai vissuti in lingua degli studenti acquisiti agendo nel
mondo, e (2.) alle nuove esigenze di comunicazione interlinguistica ed interculturale
espresse dal mondo produttivo e dalle nuove forme di telecomunicazioni e mass media.
5. Questo concetto verrà ulteriormente sviluppato nei saggi a partire dal n° 31 che
appariranno sul sito patrick.boylan.it/ricerca.htm nonché sul sito universitario
host.uniroma3.it/docenti/boylan/ricerca.htm .
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