Cinema e teatro
Cinematografia
e ispirazione
letteraria socialista
Forum Italicum
2020, Vol. 54(1) 473–557
! The Author(s) 2020
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DOI: 10.1177/0014585820910925
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Vittorio Giacci
Ateneo del Cinema, Roma, Italia
Abstract
Il saggio affronta il tema della relazione tra letteratura e cinema sia in termini generali che
in ambito più strettamente politico, soffermandosi sugli adattamenti di opere letterarie
scritte da autori di area e ispirazione socialista, ma anche su opere cinematografiche,
tratte da soggetti originali, realizzate da registi che si sono riconosciuti, stabilmente o
temporaneamente, nel socialismo italiano. Si vuole colmare l’evidente lacuna di una critica
che ha preferito guardare alle esperienze di autori che palesavano altre ispirazioni, come
quelle cattolica e comunista, benché il contributo di cineasti dell’area socialista sia stato
altrettanto, se non più ampio e profondo, come il presente saggio intende dimostrare.
Lo studio considera anche l’apporto fornito dai socialisti laddove hanno operato,
con incarichi di responsabilità, nelle politiche culturali italiane, partecipando anche alla
definizione legislativa di settore, con posizioni di rilievo in importanti istituzioni del
cinema pubblico (Centro Sperimentale di Cinematografia, Cinecittà, Italnoleggio, Istituto
Luce), senza escludere la Biennale, i vari festival e le organizzazioni del settore pubblico. Ne
risulta il ruolo determinante giocato dal pensiero e dai valori socialisti nel quadro del
rinnovamento culturale del paese attuato mediante lo strumento della settima arte.
La relazione cinema/socialismo non può essere colta in tutte le sue articolazioni se non
la si inscrive in un più ampio contesto storico/politico e all’interno delle due anime che
hanno da sempre caratterizzato le vicende del Partito Socialista, la tensione massimalista
e la progettualità riformista, le scissioni ed i tentativi di riunificazione, l’unità d’azione e il
contrasto a sinistra tra Partito Comunista e Partito Socialista, la propensione del primo al
monopolio culturale ed a tacciare di ‘‘revisionismo’’ qualunque tentativo di innovazione
politica che fosse al passo con i tempi e la refrattarietà del secondo a ogni forma di
immobilismo ideologico, di egemonia culturale e di subalternità.
Parole chiave
Cinema italiano, cultura socialista, politica culturale, registi, sceneggiatori
Autore corrispondente:
Vittorio Giacci, Ateneo del Cinema, Viale Parioli 41, 00196 Roma, Italia.
Email: giacci.vittorio@gmail.com
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L’autore di Fontamara, Ignazio Silone, uno dei più importanti scrittori del XX
secolo, militante socialista, redattore e poi direttore dell’Avanti!, spiegava la scelta
valoriale del socialismo con estrema semplicità: ‘‘Quanto più le teorie pretendono
di essere scientifiche, tanto più esse sono transitorie, ma i valori socialisti sono
permanenti. Sopra un insieme di teorie si può costruire una scuola e una
propaganda. Ma soltanto sopra un insieme di valori si può fondare una cultura,
una civiltà, un nuovo tipo di convivenza tra gli uomini’’ (Intini, 2002: 232).
Una premessa necessaria
La rottura definitiva del socialismo italiano con il massimalismo marxista avviene,
come è noto, con i ‘‘fatti d’Ungheria’’, con l’invasione dei carri armati sovietici nel
1956, e con il programma di Bad Godesberg nel 1959, quando il partito dei socialisti
dell’allora Germania occidentale, la SPD, decise di abbandonare
formalmente l’ideologia marxista. L’SPD riconobbe il valore del pluralismo politico
ed economico e che non poteva esistere pluralismo politico senza pluralismo
economico, come sosteneva il filosofo polacco Leszek Kolakowski (Kolakowski,
1979). Al tempo stesso, favorı̀ l’incontro tra cultura socialista e liberale, rappresentata
in particolare da Ralph Dahrendorf (1995). In Italia, con ritardo, si sarebbe avuto il
nuovo corso socialista di Bettino Craxi, un nuovo socialismo liberale ‘‘fondato sul
progetto riformista di recuperare le radici storiche e ideali del riformismo turatiano’’
(Acquaviva e Gervasoni, 2011: 12). Quel ‘‘lavoro di ricerca e di elaborazione veniva
soprattutto da Claudio Martelli e dai compagni dei Club e di ‘‘Mondoperaio’’, la
rivista di ricerca politica, ideologica e programmatica del PSI’’, ha osservato
Agostino Marianetti (2015: 93).
Guardando in particolare alla cultura, nel confronto tra comunisti e socialisti, fa
testo l’affermazione di Furio Colombo:
L’area culturale socialista è la zona di libertà a sinistra. La grande chance del Psi
consiste nel non avere confini negativi, in altre parole è un’area politica che si definisce
nelle sue battaglie, nelle sue iniziative, nel suo tipo di presenza, nelle sue proposte, nelle
sue scelte. Ma si priva di rigorose definizioni perché accetta una certa misura empirica
nella ricerca di soluzioni e si priva anche – ed è la sua grande qualità positiva – di
demarcazioni che escludano come una cavia anatemi che squalificano il dissenso.
Come dire che c’è, per ragioni naturali, nel Psi, la più alta tolleranza di differenza
e di dissenso che una aggregazione politica possa conoscere. E questo autorizza a
constatare e più ancora a sperare, in quel movimento di accostamento di opinione
che ha portato e può portare all’area del Psi le masse in movimento di chi
chiede immaginazione e riforme, ma non vuole scavare trincee o alzare muraglie.
(Alberoni, 1976: 91–92)
Ma è Franco Fortini, tra le personalità più vivaci del PSI e critico letterario
dell’Avanti!, a descrivere con maggiore efficacia, nelle parole di Bruno Pellegrino, i
difficili rapporti tra compagni socialisti e comunisti: ‘‘Avveniva nella discussione
Giacci
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sulla cultura quel che era pratica quotidiana della politica: per i comunisti – e per i
dirigenti socialisti assimilati – i socialisti erano compagni finché dicevano di sı̀, ma
cominciavano a non esserlo più quando dicevano di no’’ (Pellegrino, 2010: 18).
Ciò ha generato inevitabilmente differenti concezioni culturali e ha dato vita a
diverse espressioni cinematografiche che si sono rispettivamente orientate, come
si vedrà nel corso del presente studio, verso la grande esperienza del cinema
rivoluzionario sovietico e quella del realismo democratico del cinema del ‘‘New
Deal’’ americano, per svilupparsi poi in una produzione cinematografica nazionale
differenziata, in modo concorrenziale quando non alternativo e conflittuale,
tra cinema di impegno civile e commedia all’italiana, l’uno tendenzialmente più
appannaggio di cineasti di ispirazione comunista, l’altro di registi di ispirazione
socialista, con una propensione di questi ultimi verso il socialismo democratico e
umanitario di stampo deamicisiano, nel significato più appropriato e meno retorico
del termine.
Tale impostazione proviene, in modo spontaneo e genuino, dalla storia stessa del
Partito Socialista Italiano poiché esso nacque, chiarisce Claudio Martelli,
come partito di popolo e come partito colto ed espresse la fusione dei suoi elementi
costitutivi ponendo i suoi fini di emancipazione economica e sociale sul terreno
democratico e i fini di una vera giustizia sul terreno liberatorio. Nacque associando,
federando, affratellando uomini e donne, singoli e gruppi, non intorno a dogmi né a
rigide organizzazioni, ma intorno alla povera gente, a ideali e programmi illuminati
dalla ragione critica e dalla fede in un avvenire migliore. (Martelli, 1982: 9–10)
E lo stesso Martelli prosegue:
Penso che i soggetti sociali del riformismo siano tutti coloro che sono posti nelle
condizioni determinate dal bisogno e tutti gli individui e le persone possessori di
merito. [. . .] senza tener ferma questa alleanza, questa duplicità di destinatari, il
riformismo moderno rischierebbe di degenerare in opportunismo, o di rifluire nel
classico massimalismo. (Martelli, 1982: 9–10)
Il concetto è ribadito da Bruno Pellegrino:
Il riformismo è un sistema di valori che si misurano con la realtà e procedono per
tentativi e per errori; un metodo che usa il dubbio come criterio, vive evolvendo e
mettendosi continuamente in discussione, aggiornandosi. Le due anime culturali
della sinistra contrappongono metodo a dottrina, criteri a fede, valori a dogma,
dubbi a certezze. (Pellegrino, 2010: 10)
Accanto alla questione delle sue due anime politiche, il socialismo italiano ha
affrontato un’altra importante dualità, quella culturale, nella fattispecie della
dialettica forma/contenuto. Spiega Renato Barilli: ‘‘Le due rivoluzioni, quella
nell’ambito del sociale e l’altra a livello sui mezzi visivi, di linguaggi artistici’’,
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hanno costituito un ulteriore valore originario del socialismo, la ‘‘forza politica che per
prima ha assunto nel nostro Paese il compito di promuovere e rappresentarle’’
entrambe, in antitesi rispetto alla ‘‘condanna togliattiana delle espressioni formaliste’’
(Barilli, 1982: 19).
Il che è potuto avvenire, nota Attilio Mangano, perché il socialismo come
movimento storico
è una costellazione di valori e di simboli, di tradizioni e di memorie, di sogni sociali, una
rete di rappresentazioni simboliche di cui fanno parte le lotte e i bisogni, i luoghi
organizzativi e i simboli, la letteratura politica e la cultura popolare, la propaganda,
la vignetta, la raffigurazione, l’iconografia, i canti pubblici, i manifesti, le bandiere, vale
a dire un campo immenso, una funzione dell’immaginazione come fonte della coscienza
politica. (Mangano, 1988: 180)
Creando un rapporto dialettico tra dato politico e strutture dell’immaginario in
chiave identitaria, in una logica dove la libertà creativa ha priorità sulla
rigida appartenenza partitica, in accoglienza del dettato di Jürgen Habermas sul
fatto che i partiti di sinistra debbano comunicare senza subordinazione al potere.
Questo spirito naturalmente antidogmatico, solidaristico, libertario, insofferente
a rigidi schieramenti di partito, decisamente riformista, democratico e pluralista,
contraddistingue senza eccezioni tutti coloro che hanno operato, a diverso titolo,
riconoscendosi nel Partito Socialista.
Un produttore illuminato come Alfredo Bini, il cui principio ispiratore è sempre
stato quello di realizzare film d’autore e di qualità – e il cui nome è legato a titoli come
Il bell’Antonio (1960) e La viaccia (1961) di Mauro Bolognini, Accattone (1961),
Mamma Roma (1962), Il Vangelo secondo Matteo (1964), Uccellacci e uccellini
(1966), Edipo Re (1967) di Pier Paolo Pasolini, La mandragola (1965) di Alberto
Lattuada – giunge ad affermare che:
il cinema, per la sua esistenziale necessità di ricerca, di denuncia, di novità e di
rinnovamento e per la sua caratteristica irrinunciabile di spettacolo di massa [. . .] è
per sua natura socialista in senso lato. [. . .] Questa attività è forse una delle pochissime
possibilità ancora esistenti di lavoro creativo personale, ed insieme, di gruppo e di
collaborazione consapevole e indispensabile, dall’operaio all’autore al produttore.
Anche tecnicamente è strutturato in modo sociale. Anche senza saperlo chi opera
nel cinema, pur credendosi apolitico, oppure credendosi democristiano di sinistra,
socialista tradizionale, comunista dialogante, ecc., in pratica agisce e pensa in chiave
socialista. (Bini, 1969: 13)
Nella prima parte del presente studio vengono presi in considerazione, dopo un
doveroso preambolo sul rapporto cinema/letteratura, scrittori e letterati di
ispirazione socialista le cui opere sono state trasposte in film da registi di ispirazione
socialista e non, a ribadire il nesso anche politico, pur se non meccanicamente di
causa ed effetto, che sussiste tra le due forme di espressione, al quale segue un
Giacci
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capitolo dedicato specificamente ai film dei cineasti di area socialista, intendendosi
con questo termine coloro che, stabilmente o per un periodo più o meno lungo della
loro vita, si sono riconosciuti nei principi e nei valori del socialismo democratico e si
sono contraddistinti per essersi messi a disposizione con la loro militanza attiva,
accettando di essere designati in organismi rappresentativi o in enti di categoria;
partecipando ai lavori della commissione Cinema per la redazione di nuove leggi
di settore; firmando appelli e documenti oppure intervenendo in manifestazioni
organizzate dal partito; che si sono candidati nelle liste socialiste o hanno espresso
dichiarazioni di voto in occasione di elezioni politiche, amministrative o europee,
oppure ancora, più semplicemente, che hanno mostrato pubblicamente simpatia e
considerazione per quest’area politica.
Un ulteriore capitolo è dedicato a figure e personaggi di socialisti, storici o di
finzione, nel cinema italiano mentre l’ultimo è riservato a una sintetica esposizione
della politica socialista nel cinema.
Cinema e letteratura
‘‘Il cinema possiede un suo linguaggio, sue parole particolari’’, affermava tra i primi
il critico formalista Viktor Sklovskij (1979: 170). E che il cinema fosse, appunto, un
linguaggio non verbale, fu chiarissimo alle origini, per complicarsi successivamente.
Esso costituiva infatti un fenomeno talmente nuovo e strabiliante che bastava
proiettare brevi sequenze di vita quotidiana (Lumière) o piccole favole magiche
(Méliès) per incantare le platee. Il cinema sembrava poter fare a meno delle altre
arti che stava per surclassare nei gusti del pubblico e, forte di questa sua superiorità,
si esibiva in autonome espressioni visive.
In quel tempo il cinema era costituito da uno spettacolo breve, muto e in
bianco e nero, ma quei limiti tecnici, lungi dal costituire un impaccio, esaltavano
la sua capacità di astrazione e di evocazione immaginifica. Una storia non poteva
essere narrata se non visualmente ed il silenzio, come ci ricorda uno dei più
bei film sulla nascita di quest’arte, Il silenzio e` d’oro (René Clair, 1949), era
veramente dorato.
Ben presto il cinema si accorse, però, che le pantomime, le farse e le comiche non
potevano più bastare. Si cominciò allora a guardare verso l’espressione artistica
apparentemente più vicina, la letteratura, che permetteva al cinema di raccontare
storie già note al pubblico e in cui era più facile identificarsi. La scelta ricadde,
necessariamente, sulla letteratura più popolare, come i testi religiosi e i feuilleton
ottocenteschi. Il cinema sembrò allora non essere altro che un ‘‘adattamento
scenico’’ di opere letterarie.
Cosı̀, nei primi decenni di vita, il cinema è ricco di storie ispirate alla Bibbia ed ai
Vangeli, con una particolare predisposizione per la vita di Gesù, alle sacre
rappresentazioni e ai melodrammi, pre-testi narrativi molto efficaci per l’espressione
filmica del momento la quale, in assenza ancora della parola (il cinema nelle sale
sarebbe rimasto muto fino al 1929) era centrata in via esclusiva sull’azione e sulla
gestualità fisica.
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Con l’avvento del sonoro e via via che il linguaggio cinematografico si faceva
sempre più maturo, il rapporto tra cinema e letteratura si è venuto modificando e, per
qualche aspetto, complicando, soprattutto sotto i profili dell’adattamento e della
fedeltà all’opera letteraria preesistente. Il testo, ora che poteva essere interpretato
anche dagli attori di cinema e non solo da quelli di teatro, aveva il sopravvento,
mettendo in secondo piano il ruolo stesso dell’immagine e il linguaggio iconico che lo
contraddistingue e che è inevitabilmente diverso da quello della pagina scritta.
Chiara fino all’avvento del sonoro, la relazione fra cinema e letteratura si è andata
cosı̀ offuscando con l’invenzione del cinema parlato, che ha fatto perdere ai film quel
‘‘segreto perduto’’ che possedevano precedentemente a questa innovazione e che
solo i registi che avevano iniziato a lavorare nel periodo del muto, come Ford o
Hitchcock, hanno mostrato di conoscere appieno.
È George Bluestone il primo studioso a parlare di autonomia estetica dei
due generi, anticipando una vasta pubblicistica sull’argomento ed evidenziando le
distinte operazioni che deve compiere l’autore nei due casi (la differenza fra telling,
narrare, e showing, mostrare) e quelle mentali che deve compiere invece il fruitore:
concepts (concetti che attraverso le operazioni di comprensione diventano
immagini mentali) per il lettore e percepts (oggetti di percezione provenienti dalle
immagini sullo schermo) per lo spettatore (Bluestone, 1957). Per usare l’espressione
di André Gaudreault, è il passaggio dal messo in parola alla messa in scena, dalla
letterarietà alla narratività (Gaudreault, 2000). Ogni opera possiede poi una ‘‘doppia
struttura temporale’’ (il tempo della ‘‘storia’’ e il tempo della ‘‘rappresentazione’’,
che sono grandezze assolutamente non coincidenti: una storia può durare mesi o
anni mentre la sua rappresentazione filmica il tempo convenzionale e canonico di un
lungometraggio).
Un’altra distinzione strutturale è l’esistenza del ‘‘punto di vista’’ poiché, mentre in
un romanzo questi possono essere multipli, al cinema il punto di vista visivo è unico e
rigorosamente stabilito in quanto la macchina da presa necessita sempre di essere
collocata da qualche parte. Queste decisive differenze strutturali non devono
comunque far perdere di vista l’importanza, la bellezza e l’utilità di una relazione
cosciente e convinta tra il cinema e la letteratura.
Si tratta di due mondi di fatto molto più legati e comunicanti di quanto non siamo
soliti pensare, come osserva Armando Fumagalli, e:
ciò avviene non solo perché, spesso, le stesse persone scrivono romanzi e scrivono
film, non solo perché moltissimi film sono tratti da romanzi (dal grande classico alla
letteratura di genere, dal best-seller al libro sconosciuto capitato in mano al cineasta
solo per caso), ma anche, prima ancora, perché cinema e letteratura sono accomunati
dall’essere anzitutto forme ‘‘espressive’’ narrative. Si servono certamente di mezzi
materiali diversi (le parole da una parte, le azioni rappresentate dall’altra), ma hanno
una profonda e radicale comunanza, perché ambedue lavorano su storie, personaggi,
ambienti, desideri e paure, sogni e delusioni. Tanto gli scrittori quanto gli uomini di
cinema sono abitualmente persone che si nutrono abbondantemente e senza distinzione
di entrambe le forme narrative. (2004: 6)
Giacci
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Chiarisce Antonio Costa: ‘‘Lettura e visione si intrecciano e si rendono in vario
modo complementari’’ (1993: 29). Una complementarietà che si attua in quello
che, in termine tecnico, viene chiamato, appunto, ‘‘adattamento’’.
François Truffaut, grande fautore della trasposizione dell’opera letteraria in film,
precisa molto appropriatamente, chiarendo quella che potrebbe apparire come una
contraddizione (sono attività distinte o complementari?) che tende, più spesso di
quanto in genere si ritenga, a rendere turbolenta la relazione tra i due modi di
narrazione, che la sola fedeltà che conti non è quella verso l’opera bensı̀
quella verso il suo autore. Osserva il regista: ‘‘L’unico tipo di adattamento valido
[. . .] è quello fatto dal regista, cioè quello basato sulla riconversione in termini di
messa in scena di idee letterarie. [. . .] Nessuna ricetta, nessuna formula magica.
Conta solo il successo del film, legato esclusivamente alla personalità del regista’’
(Truffaut, 1988: 220).
L’originale, in tal modo, non è che una sorgente di ispirazione e la fedeltà non è più
un partito preso teso alla riproduzione di una ‘‘copia conforme’’ ma si trasforma in
un’affinità di temperamenti, in una simpatia congenita del cineasta per il romanziere.
È la cosiddetta ‘‘politica degli autori’’, coniata dal movimento della ‘‘Nouvelle
Vague’’ francese alla fine degli anni Cinquanta, che permette di considerare
l’opera filmica, con i suoi risultati e i suoi tradimenti, tutta in soggettiva, dalla
prospettiva di chi a quest’opera ha dato vita come a un autonomo soggetto
espressivo.
Osserverà André Bazin, il più autorevole critico cinematografico francese,
fondatore dei Cahiers du cine´ma:
Non si tratta più di tradurre nel modo più fedele e intelligente meno ancora di ispirarsi
liberamente, pur con amorevole rispetto, in vista di un film che sia la ripetizione di
un’opera; si tratta piuttosto di costruire sul romanzo con il cinema, un’opera posta in
una seconda posizione. Non già un film paragonabile al romanzo o degno di lui, ma un
nuovo essere estetico che è moltiplicato dal cinema. (Giacci, 2006: 137)
Le difficoltà dell’adattamento, cosı̀ limpidamente superate nella teoria baziniana di
un ‘‘effetto moltiplicatore’’ che non si confronta ma ‘‘si aggiunge’’, costituiscono
un’ulteriore prova della tipologia del linguaggio filmico nei confronti del linguaggio
verbale e l’importanza di una conoscenza dei rispettivi linguaggi per una loro
feconda intersecazione, ma anche la straordinaria opportunità che questo ‘‘effetto
moltiplicatore aggiunto’’ viene offerto all’ontologia e alla deontologia del cinema,
generando una narratività filmica che sa arricchirsi, e non impoverirsi, attraverso la
narrazione letteraria, come avviene nel cinema di David W. Griffith e nei suoi
capolavori, da Nascita di una nazione (1915) a Intolerance (1916), da Il giglio infranto
(1919) a Le due orfanelle (1921).
Da quella positiva esperienza grazie alla quale entrambe le arti hanno trovato
reciproca valorizzazione, si apre una felice e lunga stagione che vede trasporre nella
decima musa le opere di Austin, Bassani, Bevilacqua, Caldwell, Camus, Cassola,
Chandler, D’Annunzio, Dos Passos, Du Maurier, Dumas, Fitzgerald, Fogazzaro,
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Gor’kij, Hammett, Hemingway, Ibsen, Joyce, Hugo, Kafka, Kerouac, Mann,
Manzoni, Moravia, Pirandello, Pratolini, Prévert, Sartre, Sciascia, Silone,
Steinbeck, Tolstoj, Verga, Zola, solo per fare qualche nome, e vengono da ‘‘registi
letterari’’ come Luchino Visconti progettate e realizzate opere filmiche che non solo
coesistono ma eguagliano quelle letterarie, come Ossessione (1943) da Cain, La terra
trema (1948) da Verga, Le notti bianche (1957) da Dostoevskji, Il Gattopardo (1963)
da Tomasi di Lampedusa, Lo straniero (1967) da Camus, Morte a Venezia (1971) da
Mann, L’innocente (1976) da D’Annunzio.
Con il ‘‘Nouveau Roman’’ e l’‘‘École du Regard’’ avviene anche, a causa della
dissoluzione dei generi letterari e grazie a personalità cine-letterarie come Alain
Robbe-Grillet, Alain Resnais e Marguerite Duras, il percorso inverso di una
letteratura che fa ricorso al cinema in feconda ibridazione e dove fabula e soggetto
(si pensi a Flaiano, Eco, Calvino), diventano facilmente interscambiabili, ‘‘due rive
di un medesimo fiume’’, come ebbe a dire con efficace immagine poetica il ‘‘letterato/
cineasta’’ Cesare Zavattini.
In tali casi, strettamente connessa all’idea di ‘‘opera aperta’’ (Umberto Eco) è la
possibilità di prevedere, accanto alla scrittura, forme di ‘‘ri-scrittura’’, intendendosi
con questo termine l’esistenza di meccanismi di moltiplicazione narrativa che
concepiscono la costruzione di un’opera non come ‘‘prodotto’’ ma come ‘‘processo’’
combinatorio in cui vengano ripresi e confluiscano altri testi, frammentati e/o
trasformati.
Esempio insuperabile di questa nuova modalità è il romanzo di Eco Il nome della
rosa (1986), trasferito in film da Jean-Jacques Annaud, articolato sull’espediente del
‘‘manoscritto ritrovato’’, in realtà anch’esso scritto ex novo dall’autore.
Scrive al proposito Italo Calvino, che attorno a questa concezione ha costruito
tutta la sua opera:
La letteratura come la conoscevo io era un’ostinata serie di tentativi di far stare una
parola dietro l’altra seguendo certe regole definite, o più spesso regole non definite né
definibili ma estrapolabili da una serie di esempi o protocolli, o regole che ci siamo
inventate per l’occasione, cioè che abbiamo derivato da altre regole seguite da altri.
(Calvino, 1980a)
Questa libertà della letteratura moderna si adatta perfettamente alla conformazione libera e flessibile dell’opera cinematografica e ciò ha stimolato confluenze
sempre più evidenti e sempre meglio accolte tra i due sistemi di espressione, fino a
giungere a forme di letteratura spesso scritte pensando al cinema e in funzione di
essere tradotte in film, come i romanzi gialli (Chandler, Spillane, Woolrich,
Boileau-Nargejac), di fantascienza (Wells, Bradbury, Asimov, Clarke,
Matheson), i racconti di Fruttero e Lucentini, Scerbanenco, Baricco, Lucarelli,
Ammaniti, o, viceversa, in film successivamente editi come libri, in un fecondo
interscambio creativo che ha notevolmente smussato i contorni del tradizionale
antagonismo tra ‘‘romanzo cinematografico’’ e ‘‘cinema letterario’’, oggi sempre
meno netti, sempre meno definibili. In tal senso si orienta l’analisi di Gian Piero
Giacci
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Brunetta quando scrive: ‘‘Il problema cinema-letteratura non deve apparire come
un corpo separato ma come un campo di indagine in cui entrano in contatto e in
conflitto molteplici problemi, non ultimi quelli ideologici e soprattutto quelli di
una politica culturale’’ (1976: 9). Richiamando infatti di questa relazione anche
problemi di natura ideologica e di politica culturale, essa permette di considerarla
e comprenderla nel passaggio da letteratura di ispirazione socialista a cinema di
cineasti d’area o militanti.
Dalla letteratura di ispirazione socialista al cinema
Dopo questa premessa sui rapporti tra le due forme di espressione, va osservato
che il cinema ha sempre trovato di fronte a sé una vastissima fonte di
approvvigionamento, il che vale anche per quanto riguarda la letteratura
di ispirazione socialista, che affronta tematiche e valori che appartengono alla
tradizione del socialismo, come l’uguaglianza, la fratellanza, la solidarietà, la
considerazione verso il mondo del lavoro e le condizioni delle classi subalterne,
operaia e contadina, la denuncia dell’ingiustizia e dello sfruttamento, la costruzione
dello stato sociale, l’emancipazione della donna, la tutela dell’ambiente.
Argomenti di tale importanza politica, ma anche di altrettanta forza emotiva e
rappresentativa, richiamano l’attenzione di molti cineasti, socialisti convinti,
simpatizzanti o semplicemente progressisti, dando vita in tal modo a una
cinematografia tra le più sensibili nei confronti dell’impegno sociale, civile e
democratico.
E se è certamente vero che il più importante movimento cinematografico italiano,
il neorealismo, è stato guidato fino a risultarne egemonizzato da autori che si
riconoscevano nell’ideologia comunista (come Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis,
Luchino Visconti), non rispecchiando l’effettivo peso delle altre forze politiche in
campo, da quella socialista a quelle cattoliche e liberali, nella lotta al fascismo
(Vittorio De Sica, Roberto Rossellini), è altrettanto vero che sono autori
dichiaratamente socialisti quelli che danno maggiormente vita, nel periodo
immediatamente successivo, alla cosiddetta ‘‘commedia all’italiana’’, dai registi
(Luigi Comencini, Mario Monicelli, Alberto Lattuada, Lina Wertmüller accanto
al socialdemocratico Pietro Germi) agli sceneggiatori (Age, Scarpelli, Bruno Di
Geronimo, Nicola Badalucco), e agli attori-registi (Vittorio Gassman, Nino
Manfredi, Renato Rascel, Enrico Montesano), cosı̀ come nel cinema di impegno
civile dove, pur continuando la presenza massiccia di cineasti comunisti (Ettore
Scola, Francesco Maselli, Gillo Pontecorvo, Paolo e Vittorio Taviani, Bernardo
Bertolucci, Giuliano Montaldo, i ‘‘dissidenti’’ Visconti e Pasolini), si esprimono
figure isolate e indipendenti (l’anarchico Marco Ferreri, l’‘‘extra-parlamentare’’
Marco Bellocchio) o i cattolici sui generis (Pupi Avati, Liliana Cavani, Franco
Zeffirelli) e registi socialisti (Florestano Vancini, Damiano Damiani, Giovanna
Gagliardo, Marco Leto, Emidio Greco, Aldo Lado, Nino Russo, il documentarista
Luigi Di Gianni) su cui spicca l’autorevole figura di Francesco Rosi, mentre autori
come Michelangelo Antonioni, Nelo Risi e Federico Fellini, preferiscono non
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schierarsi apertamente ma esprimere di volta in volta simpatie e apprezzamenti per le
politiche culturali dei partiti, tra cui certamente quello socialista.
Per precisione storica e per chiarezza di argomentazione si deve a questo punto
distinguere tra opere letterarie di autori socialisti adattate da cineasti socialisti e non;
tra opere filmiche di registi socialisti non necessariamente tratte da testi letterari ma
da soggetti originali; e infine – e sono quelle che più interessano in questa sede – si
segnalano le pellicole d’autore socialista ricavate da lavori letterari di scrittori
socialisti.
Quanto alla prima distinzione, basta pensare, seguendo le indicazioni fornite dal
critico letterario Walter Pedullà, a scrittori come Edmondo De Amicis, Giovanni
Pascoli, Giorgio Bassani, Luciano Bianciardi, Carlo Cassola, Vitaliano Brancati,
Carlo Levi, Beppe Fenoglio, Ignazio Silone, Italo Svevo, Giuseppe Giacosa, Elio
Vittorini, Franco Fortini, Carlo Bernari, Carlo Castellaneta, Anna Maria Ortese,
Emilio Lussu, Fulvio Tomizza, Renata Viganò, Giorgio Saviane, Gianni Brera,
Domenico Rea, Saverio Strati, Ottiero Ottieri, Elio Pagliarani, Luigi Malerba.
Augusto Frassineti, Raffaele La Capria, Andrea Zanzotto, Mario Soldati e
Alberto Bevilacqua (nella duplice veste di letterati e regista), tutti scrittori da cui
sono state adattate opere cinematografiche, per comprendere la vastità e la valenza
culturale di questa ispirazione.
Soffermandoci brevemente sui risultati raggiunti da questa feconda
collaborazione e non essendo possibile esaurirla in una casistica esaustiva, vorrei
considerarne gli esiti più soddisfacenti sotto il profilo qualitativo, iniziando proprio
da Edmondo De Amicis (1846–1908), scrittore, giornalista e collaboratore, sin
dall’inizio, della terza pagina dell’Avanti!, con scritti come La maestrina degli
operai, Ai nemici del socialismo, Collaboratori del socialismo, Compagno, Lettera a
un giovane operaio socialista, Pensieri e sentimenti di un socialista, Socialismo e patria,
Il socialismo e l’eguaglianza, Il socialismo in famiglia. La causa dei disperati, Lotte
civili, Per la bellezza di un ideale, Primo Maggio, e pubblicando a puntate il suo
romanzo d’appendice Una tempesta in famiglia, un romanzo a tesi che narra i
conflitti domestici e generazionali provocati dal ‘‘ragionier Bianchini, furente
perché il figlio è socialista’’. Nell’editoriale pubblicato il 1 maggio 1898 su Lotta di
classe di Milano, intitolato Come si diventa socialisti, lo scrittore insegnava a
diventare militanti socialisti, candidandosi egli stesso in un collegio di Torino
dove viene eletto in quello stesso anno.
Come osserva giustamente Ugo Intini, ‘‘generazioni di italiani sono state educate
da De Amicis in modo più generale al senso civico, alla lealtà, al patriottismo,
all’onestà, a una religione laica in cui si deve riconoscere ciascun cittadino’’
(Intini, 2012: 32–33).
Autore particolarmente adatto alla drammaturgia cinematografica, De Amicis è
lo scrittore socialista più portato sullo schermo, in: Carmela (Flavio Calzavara,
1942, e nel remake di Piero Schivazappa dal medesimo titolo, 1968), tratto dal
racconto La vita militare, storia ambientata alla fine dell’Ottocento in un’isola
del canale di Sicilia in cui si narra di una donna, impazzita a causa dell’abbandono
da parte di un ufficiale di guarnigione, che crede di riconoscerlo in un nuovo ufficiale
Giacci
483
giunto sull’isola il quale prima la asseconda, poi se ne innamora davvero e la
guarisce); Dagli Appennini alle Ande (ancora di Calzavara, 1943, e nel remake di
Folco Quilici, 1959), ispirato all’omonimo racconto contenuto all’interno del
romanzo Cuore; Altri tempi (ep. Il tamburino sardo, sempre da: Cuore, Alessandro
Blasetti, 1952); Il romanzo di un maestro (Mario Landi, 1959), sceneggiato televisivo
in cinque puntate sulle vicende di un maestro elementare inviato a insegnare in una
scuola della provincia italiana alla fine del XIX secolo e sulle difficili condizioni in cui
si trova a operare in quel periodo storico; Amore e ginnastica (Luigi Filippo
D’Amico, 1973), dall’omonimo romanzo proto femminista ambientato nella
Torino di fine Ottocento sul folle innamoramento di un giovane ex seminarista
per la bella e, per i tempi, spregiudicata, insegnante di ginnastica; e, naturalmente,
Cuore, in tre diverse versioni, la prima di Duilio Coletti (1948); la seconda di
Romano Scavolini (1973); la terza, una miniserie televisiva in sei puntate di Luigi
Comencini (1986), sicuramente la più memorabile e la più fedele allo spirito
del capolavoro deamicisiano, in cui il regista, socialista convinto e autore
particolarmente interessato al tema dell’infanzia (avendo in precedenza già girato,
oltre a Bambini in città (1946) e I bambini e noi (1970), un altro colosso della
letteratura infantile, Le avventure di Pinocchio (1972), viene a trovarsi in piena
sintonia ideale ed emotiva con l’opera letteraria e con il suo autore.
Ricorda Comencini: ‘‘Più invecchio e più amo osservare i bambini che trovo tanto
differenti dagli adulti odiosi che diverranno in seguito [. . .] In Cuore c’è tutto un
mondo dell’infanzia descritto con delicatezza e intuizione’’ (Comencini, 2008: 227),
con quella stessa delicatezza e intuizione che Comencini, esperto ‘‘regista di
bambini’’, ha saputo magistralmente infondere nel film.
Del socialista Giovanni Pascoli (1855–1912), il maggior poeta decadentista
italiano, accademico, critico letterario e uomo politico impegnato in un socialismo
umanitario rivolto verso i deboli e la concordia universale tra gli uomini, e del suo
linguaggio ‘‘fonosimbolico’’ cosı̀ contiguo alla visualità non verbale, celebrato per
poesie come La picozza, un canto al merito e alla riscossa richiamato nel simbolo
caro ai socialisti in quanto strumento di ascesa e di accrescimento sociale, il cinema si
è occupato direttamente soltanto in un modesto film, La cavallina storna (Giulio
Morelli, 1953), ispirato all’assassinio del padre Ruggero, colpito da una fucilata il 10
agosto 1867 mentre tornava a casa sul proprio calesse, quando Giovanni aveva solo
undici anni, e alle poesie La cavalla storna, X agosto, Un ricordo, Il nido di Farlotti;
ma la sua poetica, in particolare quella chiamata ‘‘del fanciullino’’, ha invece
influenzato molti e diversi registi, da Luigi Comencini a Federico Fellini, da
François Truffaut a Steven Spielberg.
In virtù di questa poetica, devono rimanere all’artista ‘‘margini di purezza e
candore, che sopravvivono nell’uomo adulto, e sue caratteristiche sono il ‘‘rimanere
piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo
tinnulo squillo come di campanella’’; il ‘‘piangere e ridere senza un perché di cose,
che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione’’; il ‘‘guardare tutte le cose con
stupore e con meraviglia; non cogliere i rapporti logici di causa – effetto, ma intuirli’’;
‘‘lo scoprire nelle cose le relazioni più ingegnose’’ e ‘‘il riempire ogni oggetto della
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Forum Italicum 54(1)
propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in
simbolo’’; ‘‘il percepire l’essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica’’
(Pascoli, 1907: 1–55).
È evidente l’affinità emotiva di un simile approccio con quella ri-creata dall’immagine filmica e da qui l’importanza di questo autore nei confronti della settima arte,
che da lui è stata ampiamente permeata nella coscienza degli autori più che nel
contenuto di singole opere, al di là della trasposizione diretta da testo a film.
Tra le figure più intensamente coinvolte, nel bene e nel male, nell’arte
cinematografica, va senz’altro ricordata quella di Giorgio Bassani (1916–2000),
scrittore, poeta, uomo politico, fondatore e presidente di ‘‘Italia Nostra’’, di
benestante famiglia ebraica originaria di Ferrara, la bella città estense che ha dato
i natali a diversi cineasti (Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini, Folco
Quilici, Carlo Rambaldi) in cui trascorse infanzia e adolescenza e dove è ambientato
il suo romanzo autobiografico da cui Vittorio De Sica ha ricavato uno dei suoi film
più significativi, Il giardino dei Finzi-Contini (1970), vincitore del premio Oscar per il
miglior film straniero, uno straordinario racconto di memoria personale sulle
drammatiche vicende di una famiglia della ricca borghesia ebraica di Ferrara
durante gli anni del fascismo e della promulgazione delle leggi razziali.
Amico del poeta Attilio Bertolucci, padre del regista Bernardo, e di Pier Paolo
Pasolini con il quale ha condiviso l’esperienza di redattore della rivista Paragone,
fondata da Roberto Longhi e Anna Banti, Bassani, oltre all’attività di letterato
costellata dai più prestigiosi riconoscimenti (i premi Strega, Viareggio, Campiello,
Bagutta, Pirandello), di docente di Storia del Teatro all’Accademia Nazionale d’Arte
Drammatica e di consulente e direttore editoriale della casa editrice Feltrinelli – con
la quale riesce a far pubblicare Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Il
dottor Zivago di Boris Pasternak, entrambi non solo best seller internazionali ma
film tra i più celebri al mondo – svolge una intensa attività di sceneggiatore
cinematografico con importanti registi come Mario Soldati (Le avventure di
Mandrin, 1952; La provinciale, 1953; La mano dello straniero, 1954; La donna del
fiume, 1954; Questa e` la vita, ep. Il ventaglio, 1954), Alessandro Blasetti (Tempi nostri,
ep. Casa d’altri, 1954), Luchino Visconti (Senso, 1954), Luigi Zampa (La romana,
1954), Vittorio De Sica e Gianni Franciolini (Villa Borghese, 1953). Suoi sono i
soggetti de I vinti (Antonioni, 1953) o tratti da sue opere letterarie come Una
notte del ’43 (dal romanzo Cinque storie ferraresi) e Gli occhiali d’oro dai quali,
rispettivamente, furono ricavati i film di Florestano Vancini (con il titolo La lunga
notte del ’43, 1962) e Giuliano Montaldo (La lunga notte del ’43, 1987), oltre,
ovviamente, al già ricordato Il giardino dei Finzi-Contini, scritto in una camera
dell’hotel ‘‘Le Naiadi’’ di Santa Marinella, piccola cittadina sul mare vicino a
Roma, nota nell’ambiente cinematografico per essere stata abitata da Roberto
Rossellini e Ingrid Bergman e frequentata da numerose star del cinema italiano e
internazionale, da Anna Fougez a François Truffaut, da Totò ad Alberto Sordi, da
Jean Renoir a Gregory Peck, da Mario Soldati a Vittorio De Sica, da Sofia Loren a
Vittorio Gassman, da Charlie Chaplin a Michelangelo Antonioni, da Sophia Loren
a Esther Williams.
Giacci
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L’esperienza si rivelò, però, un evento negativo per Bassani, a tal punto da
fargli togliere il nome come sceneggiatore dai titoli di testa. La complicata e
sofferta vicenda produttiva, iniziata con Valerio Zurlini e poi trasferita a De
Sica passando per diversi sceneggiatori e revisori dei dialoghi (Salvatore
Laurani, Franco Brusati, Tullio Pinelli, Vittorio Bonicelli, Ugo Pirro), che testimonia ancora una volta i non facili rapporti tra cinema e letteratura, è stata
raccontata dallo stesso Bassani (2011).
A completare i suoi ‘‘incroci’’ con il cinema e la televisione si possono ricordare la
vicepresidenza della Rai (per un solo anno, il 1965), la presidenza della giuria della
mostra Internazionale dell’Arte Cinematografica di Venezia nel 1966, anno in
cui vinse il Leone d’oro La battaglia d’Algeri di Gillo Pontecorvo,1 e l’aver
prestato la sua voce a Orson Welles nel film Ro.Go.Pag (ep. La ricotta) di Pier
Paolo Pasolini (1963).
Luciano Bianciardi (1922–1971): scrittore, saggista, giornalista, critico televisivo e
collaboratore di case editrici, riviste e quotidiani, nato a Grosseto e poi trasferitosi a
Milano, uno degli autori che hanno meglio interpretato il fermento culturale del
dopoguerra e le trasformazioni del costume conseguenti all’esplodere del boom
economico, schierato ‘‘contro il conseguente consolidamento dei grandi gruppi
economici e dei cosiddetti ‘‘poteri forti’’, contro la meccanizzazione della vita e la
conseguente aridità e alienazione umana’’, ma anche contro i professionisti della
cultura di massa, attiva soprattutto nella Milano della fine dei Cinquanta da lui cosı̀
ben descritta (Bianciardi, 1957). Il cinema si interessa a Bianciardi trasponendo due
suoi romanzi: La vita agra (1964), alla cui sceneggiatura collabora lo scrittore
entrando nel film anche con una breve apparizione, opera che esemplifica la
richiamata tematica nella vicenda di un anarchico (chiamato Luciano Bianchi a
sottolinearne l’aspetto autobiografico) il quale vuole vendicare i compagni morti
in miniera (tragedia narrata nel romanzo I minatori della Maremma scritto in
collaborazione con Carlo Cassola) mettendo una bomba al Pirellone, il grattacielo simbolo della metropoli lombarda, sede della società colpevole di quel disastro e che permette al regista Carlo Lizzani di recuperare e ‘‘restituire il sapore
perduto delle atmosfere intellettuali di Brera o di locali mitici come il bar Jamaica
e la latteria Pirovini, animata da figure storiche e artistiche come Morlotti,
Cassinari, Quasimodo, Bontempi, Strehler, Fo, Gatto, Jannacci’’ (Giacci, 2009:
94); e Il merlo maschio (1971) per la regia di Pasquale Festa Campanile, tratto dal
racconto Il complesso di Loth, paradossale descrizione dell’esibizionismo
maschile.
A Carlo Cassola (1917–1987), scrittore, saggista e partigiano, una delle figure più
rappresentative e complesse della letteratura del Novecento, per ricordare i suoi
rapporti con il cinema è stato dedicato nel 2017, in occasione del centenario della
nascita, il ‘‘Carlo Cassola Film Festival’’, a Grosseto, la città toscana dove lo
scrittore è stato per molti anni insegnante di liceo. Sono stati presentati e analizzati
i film tratti dai suoi romanzi, a partire dal più celebre, La ragazza di Bube, vincitore
del premio Strega e portato sullo schermo da Luigi Comencini nel 1963, storia di una
ragazza di campagna che attende fino allo scontare della pena l’uomo di cui è
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innamorata, Bube, un ex partigiano costretto alla fuga in Francia dopo un omicidio.
Nello stesso anno Antonio Pietrangeli traduce per lo schermo La visita (1963),
liberamente ispirato a un racconto dell’omonima raccolta di scritti giovanili
dell’autore in cui si narra il primo incontro, durato 24 ore, tra una ragazza della
bassa ferrarese e il commesso di una libreria romana: i due si sono conosciuti per
corrispondenza, grazie a un annuncio pubblicato su una rivista. Vanno poi segnalati
Il taglio del bosco (Vittorio Cottafavi, 1963) dall’omonimo racconto sui drammi
quotidiani e personali di una squadra di legnaioli, e L’amore ritrovato (Carlo
Mazzacurati, 2004), dal romanzo Una relazione, vicenda d’amore adulterino.
A proposito de Il taglio del bosco, Cassola spiega:
Lo iniziai alla fine del ’48. Era concepito come una vicenda puramente esistenziale, la
vicenda, appunto di un taglio di bosco. Cinque boscaioli vanno a tagliare un bosco;
durante alcuni mesi fanno ogni giorno lo stesso lavoro, ripetono gli stessi discorsi, ecc.
Ecco un magnifico tema per una narrazione negativa: mi permetteva infatti di
raccontare qualcosa e, nello stesso tempo, di non raccontare nulla. Nulla, intendo
dire, che avesse un significato particolare. Il solo significato che avrebbe potuto avere
una vicenda del genere era puramente esistenziale. Ne avevo scritto una metà, quando
un avvenimento che sconvolse la mia vita mise in crisi anche la mia letteratura. Presi in
odio il mio passato, la mia educazione estetica, tutto quello che avevo scritto fino ad
allora; trovai mostruosa una poetica che isolava l’emozione esistenziale facendone
l’unico oggetto dell’espressione letteraria. Cosı̀, quando alcuni mesi dopo ripresi a
scrivere Il taglio del bosco, conservai la vicenda esistenziale del taglio, ma ne feci il
semplice sfondo di un sentimento particolare, il dolore del protagonista per la morte
della moglie. L’esistenza dei compagni, quest’esistenza fatta di nulla, di gesti quotidiani,
di discorsi quotidiani, è per Guglielmo lo specchio della sua condizione precedente, lo
specchio della sua felicità perduta. (Rondolino, 2014)
L’avvenimento sconvolgente è la morte della moglie, un traumatico elemento
autobiografico che Cottafavi riesce magistralmente a sviluppare partendo da una
descrizione apparentemente fenomenologica. Curiosità per i cinefili: il cognome
del protagonista de L’amore ritrovato (Mansani), è stato esplicitamente citato in
omaggio allo scrittore da Paolo Virzı̀ in Ovosodo (1997) e ne La prima cosa
bella (2010).
Notevole anche il contributo al cinema da parte dello scrittore Vitaliano Brancati
(1907–1954), uno dei massimi narratori della società e della cultura meridionale, in
particolare siciliana, descritta con tratti spesso caustici e satirici. È stato autore di
numerose sceneggiature per Rossellini (Viaggio in Italia e Dov’e` la libertà?, entrambi
del 1954); Zampa (Anni difficili, 1948; È più facile che un cammello . . ., 1950; Signori,
in carrozza!, 1951; Anni facili, 1953; Questa e` la vita, ep. La patente, 1954; L’arte di
arrangiarsi, 1954), per Blasetti (Fabiola, 1949; Altri tempi, 1952), per Monicelli-Steno
(Guardie e ladri, 1951), per Steno (L’uomo, la bestia e la virtù, 1953), per Genina
(L’edera, 1950; Tre storie proibite, 1952), per Chiarini (La bella addormentata, 1942),
per Freda (La lama del giustiziere, 1942), per Poggioli (Gelosia, 1942), per Carlo
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Ludovico Bragaglia (Orient-Express, 1954), per Pàstina (Buon viaggio, pover’uomo,
1953), per William Dieterle (Vulcano, 1950), per Jean-Paul Le Chanois (Vacanze
d’amore, 1955); mentre dalle sue opere letterarie Mauro Bolognini ha ricavato Il
bell’Antonio (1960), liberamente tratto in quanto la vicenda, ambientata a Catania, è
posticipata di circa trent’anni annullando in tal modo la critica antifascista che nel
romanzo era invece basilare; molti fatti sono accorpati o omessi, e quelli rimasti sono
avvicinati nel tempo, pur se rimane – anzi, nel film diventa determinante – l’analisi di
costume su una questione di impotenza maschile (da Brancati intesa come antitesi al
mito, dominante in epoca fascista, della virilità) che giustificava l’annullamento del
matrimonio presso la Sacra Rota (all’epoca in Italia non c’era ancora l’istituto
giuridico del divorzio) e sull’accettazione di una paternità esterna a tutela
dell’‘‘onore’’ famigliare offeso; Alberto Lattuada ha tratto da Brancati Don
Giovanni in Sicilia (1967), film sul fenomeno del ‘‘gallismo’’ riproposto in seguito
in una miniserie televisiva (Guglielmo Morandi, 1977); Marco Vicario ha riproposto
il romanzo postumo di Brancati Paolo il caldo in un film del 1963, impietosa analisi di
costume di un ambiente e, in particolare, di un giovane protagonista, figlio di un
padre mite e di idee socialiste, che vive di lussuria, arroganza e dipendenza dal sesso;
e, infine, Giovanni Grimaldi ha diretto La governante (1974), ambientato anch’esso a
Catania, liberamente ricavato dal dramma omonimo, sulle contraddizioni di una
società e di una famiglia, con la loro voglia di rispettabilità e le mortificazioni, gli
eccessi di intransigenza, tentati suicidi e rimorsi scatenati dall’arrivo di una nuova e
giovane governante francese.
Il nome di Carlo Levi (1902–1975), scrittore, pittore, medico, uno dei più
significativi narratori italiani del Novecento, condannato nel 1935 per antifascismo
al confino a Grassano e Aliano in Lucania, veniva solitamente collegato soltanto alla
trasposizione cinematografica del suo romanzo più famoso Cristo si e` fermato ad
Eboli, realizzato da Francesco Rosi nel 1979, in cui l’autore racconta la sua
esperienza di confinato in un paese povero e sperduto, primitivo e superstizioso,
sconosciuto persino a Cristo, a contatto con un ambiente contadino di cui impara
ad apprezzare semplicità e saggezza e al quale presta le sue cure come medico fino
all’amnistia concessa dal regime a seguito delle vittorie militari in Abissinia, e al
rilascio per ritornare a Torino. Del film esistono due versioni, quella per le sale di 150
minuti e quella televisiva di 270 minuti.
Recenti restauri della Cineteca Nazionale e di Ripley Film hanno fatto scoprire
che Levi ha collaborato alla sceneggiatura di Il grido della terra (Duilio Coletti,
1949), film sull’esodo dei profughi ebrei italiani da un campo di concentramento
del sud verso la Palestina, mentre per Patatrac (Gennaro Righelli, 1931), una
commedia brillante e uno dei primi film sonori italiani, Levi aveva collaborato alle
scenografie insieme al pittore Enrico Paulucci. A questi due titoli ne va aggiunto un
terzo, Pietro Micca (Aldo Vergano, 1938), tratto dal romanzo storico I dragoni
azzurri di Luigi Gramegna, sull’eroico militare sabaudo durante l’assedio di
Torino del 1706, per il quale l’artista ha realizzato, con Carlo Mollino, i bozzetti
preparatori dei costumi. Il film risulta perduto, a eccezione di pochi minuti
conservati presso il museo Del Cinema di Torino.
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Forum Italicum 54(1)
Dello scrittore, traduttore, drammaturgo e partigiano Beppe Fenoglio
(1922–1963), il romanzo Una questione privata è stato portato al cinema per
ben quattro volte, sempre con il medesimo titolo, caso più unico che raro. La
prima con la regia di Giorgio Trentin (1966), la seconda in un film per la
televisione diretto da Alessandro Cane (1982), la terza, sempre per la tv, da
Alberto Negrin (1991), la quarta, con Paolo e Vittorio Taviani (2018), ultimo
film girato in coppia poco prima della morte di Vittorio, senz’altro la versione
più autoriale ma anche più attuale del romanzo.
Il partigiano Johnny è considerato uno dei più importanti e controversi romanzi
della Resistenza, sia perché incompiuto e pubblicato postumo in diverse versioni, sia
per la spinosità tematica proposta dalla vicenda del suo protagonista. Johnny è
giovane studente universitario appassionato di letteratura inglese, disertore dell’esercito dopo l’8 settembre, inizialmente imboscato per dedicarsi agli studi, quindi
deciso ad arruolarsi dopo la morte di un amico. Prima militante in una formazione
comunista, ‘‘Stella Rossa’’, guidata da Tito, non condividendone l’ideologia la
lascia, arruolandosi nei partigiani badogliani, moderati e di estrazione borghese e
militare, con evidente riferimento autobiografico. L’opera è messa in scena molto
tardivamente soltanto nel 2000, dal regista Guido Chiesa, che lo aveva fortemente
voluto, dopo aver letto il romanzo nel 1984, ai tempi dell’università, averne scritto
una sceneggiatura dal titolo La guerra di Johnny, realizzato nel 1998 il documentario
televisivo su Fenoglio, Una questione privata. Nel definire il romanzo ‘‘antirealistico,
epico, pieno di poesia’’ e restando inizialmente affascinato soprattutto dal tema della
guerra civile, il regista ha dichiarato: ‘‘con il passare del tempo il centro della mia
attenzione si è spostato sulla ‘‘questione privata’’, sull’odissea umana narrata da
Fenoglio, ovvero sul suo faticoso e quotidiano farsi uomo nel tragico scenario
della caduta del fascismo e della guerra’’ (Guido Chiesa, 2000: 129). Il film termina,
come il romanzo, sull’immagine fissa di Johnny impegnato in combattimento, forse
sopraffatto dai nemici, seguita dalla scritta: ‘‘Due mesi dopo la guerra era finita’’.
Altro autore ritenuto ‘‘scomodo’’ dall’ortodossia comunista per le posizioni
social-liberali, nonostante sia annoverato tra gli intellettuali italiani più conosciuti
e letti in Europa e nel mondo e nonostante abbia ricevuto tra il 1946 e il 1963 ben
dieci candidature al premio Nobel per la Letteratura, è Ignazio Silone, (1900–1978).
Scrittore, giornalista, saggista, drammaturgo e politico, direttore dell’Avanti! nel
1945–1946, conta diversi film per la televisione tratti da suoi romanzi: Ed egli si
nascose (Giacomo Colli, 1966), La volpe e le camelie (Silverio Blasi, 1966), Il segreto
di Luca (Ottavio Spadaro, 1969), Vino e pane (Piero Schivazappa, 1973), L’avventura
di un povero cristiano (ancora Ottavio Spadaro, 1974). Ma è con Fontamara (1977)
che Carlo Lizzani ha realizzato per il cinema la sua opera più famosa, un romanzo
epico-drammatico scritto dall’autore abruzzese in esilio nel 1930 e pubblicato in
Italia soltanto nel 1958, che descrive i movimenti di ribellione contadina contro il
fascismo a Fontamara, paese della Marsica dimenticato dal mondo. I suoi abitanti
sono chiamati ‘‘cafoni’’ (si vedano le lettere sull’ambiente marsicano, preparatorie al
romanzo, pubblicate sull’Avanti! dall’autore) e grazie alle loro gesta per la prima
volta la plebe meridionale diventava protagonista di una storia.
Giacci
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A tal proposito scrive il critico socialista Lino Miccichè:
Non credo di dire nulla di nuovo sottolineando che un simile ritardo nello stampare e
diffondere un testo cosı̀ alto sia dovuto in non piccola parte al boicottaggio che la
cultura di sinistra italiana adottò, direttamente o indirettamente, nei confronti di
Silone, colpevole di essersi accorto fin dagli anni Trenta delle delizie del ‘‘socialismo
reale’’ e di avere rotto con il movimento comunista. [. . .] Ciò fece sı̀ che questo romanzo
col quale, pur nella sua originalità e autonomia, si anticipano molto temi e spunti
neorealistici, fu del tutto ignorato dal movimento neorealistico. Nello sguardo
in qualche modo ‘‘neorealistico’’ di Lizzani vi è dunque anche, non so quanto consapevole, una sorta di ammenda per quella colpevole rimozione. (Micciché, 1980)
E che sia stato proprio un regista comunista militante come Lizzani, dalla genuina
indipendenza culturale e dalla comprovata autonomia intellettuale, a farne un film
va ascritto, a suo onore.
‘‘Tutti i personaggi intorno al protagonista – spiega il regista – posseggono questo
spirito che li porta a una consapevolezza che non è semplicistica ma si incarna in gesti
rispondenti ad antiche tradizioni tipiche non solo dell’Abruzzo ma di tutta l’Italia
contadina’’ (Giacci, 2009: 127). È il ‘‘socialismo cristiano’’, propugnato dopo le
delusioni del movimento comunista da Silone, ‘‘cristiano senza Chiesa’’ come
amava definirsi, che auspicava un ritorno alla purezza del messaggio evangelico
delle origini senza compromessi con sovrastrutture e apparati. Nel tradurre in
immagini Fontamara il regista si è ispirato, dal punto di vista figurativo, in
particolare alla pittura divisionista di Pelizza da Volpedo e alle scene di vita
contadina del ceramista Giuseppe Di Blasio, compiendo un’efficace sintesi tra le
arti della letteratura, della pittura e del cinema.
Di Italo Svevo (1861–1928), altra figura eminente della letteratura italiana e che fa
parte in pieno della grande famiglia letteraria socialista (si ricorda che il suo racconto
La tribù fu pubblicato da Filippo Turati su Critica Sociale), il cinema si è occupato
trasferendo sullo schermo Senilità (Mauro Bolognini, 1962), opera che tratta
dell’inettitudine, cioè dell’insicurezza caratteriale, della pigrizia intellettuale e
dell’indecisione del protagonista a gestire la propria vita sentimentale che lo porta
fatalmente a rinchiudersi nel ricordo, in una sorta di inerzia emotiva, di vecchiaia
interiore, di ‘‘senilità’’, appunto, seguito nel 1980 da un film decisamente più
modesto di Andrea Barzini e Gianfranco Clerici dal titolo Desiderando Giulia,
ispirato sempre al medesimo romanzo, e poi La coscienza di Zeno, racconto
psicologico in prima persona da parte di uno psicanalista che, per ritorsione nei
confronti di un paziente, Zeno Cosini, che si era sottratto alle sue cure, minaccia
di rendere pubbliche le sue memorie redatte in forma autobiografica, mettendo cosı̀
in luce la psicologia del personaggio, afflitto anch’egli dalla malattia della
‘‘inettitudine’’, in forma di sceneggiato televisivo in due successive versioni, quella
di Daniele D’Anza (1966) e quella di Sandro Bolchi (1988).
Liberamente ispirato a due capitoli sempre de La coscienza di Zeno è Le parole di
mio padre (Francesca Comencini, 2001), dove la relazione famigliare padri/figli,
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fratelli/sorelle, trasferita dalla Trieste dell’epoca austro-ungarica del romanzo
alla Roma contemporanea del film fa intravvedere un non casuale rispecchiamento
autobiografico della regista nell’assenza/presenza dell’importante figura paterna (il
regista Luigi Comencini) e nel rapporto tra sorelle, quattro proprio come quelle con
cui, nel romanzo, si intrattiene Zeno nelle cene a casa dell’amico del padre. Per
completezza di informazione è opportuno citare anche il film dello svizzero francese
Claude Goretta La novella del buon vecchio e della bella fanciulla (1996). Ambientato
nella Trieste della Prima guerra mondiale, è la storia di un uomo anziano che si
innamora di una giovane donna e che, colpito da una grave malattia, rendendosi
conto dell’assurdità di una relazione d’amore, trasforma il sentimento nell’azione
meritoria di provvedere alla formazione culturale e morale della giovane,
designandola erede nel lascito testamentario e riversando l’esperienza e la decisione
nelle pagine di un libro. Tuttavia la donna non mostra particolare gratitudine
nei confronti dell’anziano. L’uomo verrà trovato morto proprio mentre sta
provvedendo alla revisione del manoscritto.
Giuseppe Giacosa (1847–1906), giornalista, scrittore, drammaturgo e librettista
(oltre all’adattamento di Una partita a scacchi per Pietro Abbà Cornaglia, sua la
collaborazione con Luigi Illica per tre opere di Giacomo Puccini, La bohe`me, Tosca e
Madama Butterfly), direttore della Scuola di Recitazione dell’Accademia dei
Filodrammatici e docente di Letteratura drammatica e Recitazione presso il
Conservatorio di Milano, amico di importanti personalità artistiche e culturali del
suo tempo come Arrigo Boito, Giosuè Carducci, Edmondo De Amicis, Eleonora
Duse, Antonio Fogazzaro e Giovanni Verga, è stato attento indagatore del
disagio morale della società borghese attraverso la minuziosa descrizione dei suoi
comportamenti. Sono stati trasposti in film il dramma teatrale Tristi amori, diretto in
una prima versione da Giuseppe Sterni (1917) poi da Carmine Gallone (1943), storia
di una fuga d’amore adulterina che si conclude con la decisione della donna di
ritornare dal marito sacrificando la propria felicità in nome dei doveri di coniuge
e madre, facendo soffocare per tempo lo scandalo sociale che ne sarebbe nato; e
Come le foglie (Mario Camerini, 1934), testo teatrale tipicamente borghese sul
tracollo finanziario di una famiglia di industriali e sulle diverse reazioni che
il trauma produce nella vita e nella coscienza dei suoi membri fino a un tentato
suicidio, alla risistemazione economica e al trionfo dell’amore.
Ha scritto al proposito il critico Filippo Sacchi, tornando sulla vexata quaestio del
rapporto cinema/teatro:
Gli autori hanno saputo trasportare l’azione nella cornice e nel tempo, senza alterarne
la piana lezione e l’intimo senso. Anche vestiti di panni moderni e alla guida
di automobili del ’35 il pubblico riconoscerà i personaggi giacosiani. Se in
qualche punto il rimaneggiamento non parrà abbastanza radicale e questi contorni
sembreranno arrotondati da troppi elementi teatrali bisognerà dire che senza queste
circospezioni non sarebbe stato possibile salvare lo spirito dell’opera originale e usarle il
rispetto che le era dovuto. Camerini ha trovato questa volta il migliore accento della sua
regia. Il film è uno dei suoi migliori e ispirati lavori. (Sacchi, 1935)
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Di lui Giovanni Pascoli scrisse, in morte, questi versi: ‘‘Cosı̀ la morte è bella, non è
partire, è non andar via. E tu restasti. Non si muore cosı̀, cosı̀, mio buon fratello, si
resta’’ (Perinetti, 1993: 48–49).
Di Elio Vittorini (1908–1966), scrittore, critico letterario, traduttore (per testi di
Faulkner, Poe, Lawrence), direttore di collane editoriali per Einaudi e Mondadori,
fondatore delle riviste di cultura contemporanea Il Politecnico e Il Menabò insieme a
Italo Calvino, politico impegnato prima nel PCI poi, dopo la rottura a causa della
mancanza di libertà di pensiero e di espressione nell’Urss di Stalin, candidato nelle
liste radicali del Partito Socialista, sono stati trasferiti in film: Uomini e no (Valentino
Orsini, 1980), primo testo a raccontare la resistenza italiana, ambientato nella
Milano occupata dai tedeschi, in cui si narrano le imprese dei partigiani impegnati
nella lotta clandestina intrecciandole con le vicende sentimentali del protagonista,
un giovane attivista innamorato senza speranza di una donna sposata, il quale si
interroga sia sull’esistenza e sulle ragioni del suo operare che sull’amore travagliato
che lo dilania, nella drammatica separazione tra essere uomini e non esserlo; Il
garofano rosso (Luigi Faccini, 1978), storia (in parte autobiografica) della
formazione adolescenziale del protagonista e di un suo amico, delle loro esperienze
esistenziali e sentimentali che sono anche quelle di una intera generazione durante il
periodo fascista; gli adattamenti di Jean-Marie Straub-Danièle Huillet del romanzo
Conversazione in Sicilia (Sicilia!, 1999) sul ritorno di un uomo nell’isola natia per
ritrovare il proprio passato, le proprie radici e la propria identità; e di Operai,
contadini (2001), su un gruppo di sfollati giunti, subito dopo la liberazione, presso
un villaggio semidistrutto, che decidono di fermarsi, di sminare il terreno, ricostruire
le case, seminare i campi e far cosı̀ tornare la vita dopo le tragedie della guerra; infine,
di Kommunisten (2014), sull’utopia rivoluzionaria, su come si possa andare da un
passato e un presente di guerra verso un futuro di pace. Qui i brani di Vittorini
vengono alternati a quelli di Malraux, Holderlin, Fortini.
Franco Fortini (1917–1994), critico letterario, saggista, poeta, una delle più
importanti personalità intellettuali del Novecento, antifascista e socialista, esule in
Svizzera collabora con L’Avvenire dei lavoratori e inizia a pubblicare sul periodico
del Partito Socialista ticinese Libera Stampa diretto da Luigi Comencini e sulla
rivista Arte, letteratura e lavoro. Al ritorno in patria scrive articoli per l’Avanti! del
quale diventa redattore; fonda con Elio Vittorini Il Politecnico e collabora con altre
prestigiose riviste tra cui Discussioni e Officina entrando in contatto con altri
intellettuali come Pasolini, Leonetti, Roversi, e stampa Ragionamenti, con l’intento
di farne una rivista di critica e di informazione sui temi del pensiero marxista in
prospettiva antistalinista.
Importante il testo scritto con Roberto Guiducci dal titolo Proposte per una
organizzazione della cultura marxista in Italia pubblicato su Ragionamenti: vi si
richiede l’autonomia degli uomini di cultura dalle direzioni culturali dei partiti.
Fonda a Parigi la rivista Arguments nel cui comitato di redazione siedono Edgar
Morin e Roland Barthes del quale recensisce Miti d’oggi sull’Avanti!. Una recensione
negativa sullo stesso quotidiano socialista, al libro Dieci inverni. Contributo ad un
discorso socialista che raccoglieva suoi scritti del periodo 1947–1957 e il silenzio
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della direzione del partito lo convincono a riconsegnare la tessera a Nenni e a uscire
dal PSI.
La sua attività letteraria ha attraversato il cinema in diverse e variegate occasioni,
dai documentari militanti All’armi siam fascisti! (Del Fra, Mangini e Micciché,
1962), Scioperi a Torino (C. e P. Gobetti, 1962) e Processo a Stalin (May e
Lucisano, 1963), al lungometraggio d’autore: Fortini/cani (J. M. Straub e D.
Huillet, 1976) e ad alcune produzioni industriali su commissione: Incontro con
l’Olivetti (Giorgio Ferroni, 1950), Divisione controllo numerico e Auctor.
Meccanica a controllo elettronico (Aristide Bosio, 1968) per Olivetti, Le regole del
gioco (Massimo Magri, 1968) per Ansaldo, Una strada d’acciaio e Progetto 128
(Valentino Orsini, 1968) per Fiat (Fortini, 1963).
Carlo Bernari (1909–1992), scrittore, giornalista e sceneggiatore, premio
Viareggio, considerato uno dei più validi letterati meridionalisti e tra i precursori
del neorealismo letterario italiano, antifascista e partigiano, da comunista approdò
al socialismo dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 come Bonaviri,
Strati, Rea (Bernari, 2001). Dal suo racconto Amore Amaro è stato ricavato nel
1974 il film dal medesimo titolo di Florestano Vancini, ambientato nella Ferrara
degli anni ’30, che narra l’amore tra un giovane studente e una trentacinquenne
vedova con figli, reso impossibile a causa di differenze sociali e inconciliabili
tendenze politiche, mentre da Tre operai Francesco Maselli ha tratto un film per
la televisione con la sceneggiatura di Enzo Siciliano. Bernari ha alternato l’attività di
scrittore con quella di sceneggiatore, realizzando, tra gli altri, I due sergenti (Enrico
Guazzoni, 1936), Terza liceo (Luciano Emmer, 1954), La garçonnie`re (Giuseppe
De Santis, 1960) e, insieme a Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e
Vasco Pratolini, Le quattro giornate di Napoli (Nanni Loy, 1964), candidato
all’Oscar per la miglior sceneggiatura originale di film straniero; infine,
L’immorale (Pietro Germi, 1967).
Altrettanta attenzione il cinema ha mostrato per Carlo Castellaneta (1930–2013),
originario di Milano città alla quale ha dedicato buona parte della sua opera, scrittore e giornalista, collaboratore de Il Corriere della Sera, direttore di Storia illustrata
e presidente del museo del Teatro alla Scala, avviato alla narrativa da Elio Vittorini
che gli fece pubblicare il romanzo Viaggio col padre, con il film Pelle viva (Giuseppe
Fina, 1962), storia d’amore tra un operaio della bassa lombarda e una ragazza madre
pugliese, che si conclude con un matrimonio ma che si apre a una difficile esistenza
quotidiana tra scioperi, proteste di operai pendolari, licenziamenti e lavori provvisori e precari per sopravvivere; e Un giorno alla fine di ottobre (Paolo Spinola, 1977),
apologo amaro del disadattamento giovanile, tra la noia di un lavoro di routine, la
mancanza di ideali e l’ebbrezza del fuggevole incontro d’amore che porta il giovane
protagonista a concludere tragicamente una giornata che avrebbe dovuto essere di
svago in una Milano autunnale attraversata da scioperi e manifestazioni di protesta,
schiantandosi in moto contro un autocarro. Per essi ha scritto la sceneggiatura.
Dal romanzo Notti e nebbie, che descrive le vicissitudini di un commissario della
polizia politica fascista durante il periodo della Repubblica Sociale e della resistenza
in una Milano lacerata dalla guerra civile, della sua esistenza tra attentati, torture,
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tradimenti, violenze di ogni tipo che mineranno progressivamente la sua coscienza e
le sue certezze, fino alla morte per mano partigiana il 25 aprile 1945, giorno della
caduta del regime repubblichino e della liberazione della città dall’occupazione
nazifascista, tre giorni prima dell’uccisione di Benito Mussolini, ha tratto una
miniserie televisiva Marco Tullio Giordana, realizzando quello che da sempre era
stato un sogno di Giorgio Strehler, come si vedrà in seguito.
Anna Maria Ortese (1914–1998), scrittrice e poetessa, collaboratrice per riviste e
quotidiani tra cui Belvedere, L’Ateneo veneto, Sud, Il Mattino, Il Messaggero e Il
Corriere della Sera, riconosciuta come una delle figure più alte della letteratura
europea per la capacità di raccontare la realtà sociale dell’Italia, vincitrice dei
premi Strega, Viareggio e Campiello, si è occupata di cinema una sola volta,
collaborando alla sceneggiatura del film per ragazzi Lauta mancia (Fabio De
Agostino, 1956), storia dell’amicizia tra un bambino, soprannominato Mosca
per la sua piccolezza, e un grosso cane alano di nome Cita, che passa attraverso
numerose traversie prima dell’immancabile lieto fine che li vedrà riuniti per sempre.
Dalle opere letterarie di quest’autrice ‘‘che muove dal ‘‘realismo magico’’ di
Bontempelli dei suoi primi racconti, all’invenzione fantastica di tipo surrealistico,
all’argomentazione saggistica, alla documentazione neorealistica nei romanzi del
dopoguerra fino alla polemica morale delle ultime opere’’ (Luperini et al., 1998:
338) sono stati invece tratti il cortometraggio Un paio di occhiali (Carlo Damasco,
2001) e L’Iguana (Catherine McGilvray, 2004); il primo deriva dal racconto
iniziale della raccolta Il mare non bagna Napoli, fulminante racconto di una bambina
poverissima alla quale la madre riesce a comprare, con grandi sacrifici, un paio di
occhiali che, indossati, mostreranno una realtà molteplice ed esplosiva che genererà
un profondo turbamento, racconto che era già stato oggetto nel 1972 di un
adattamento televisivo in una puntata del programma Piccole Donne per la regia
di Italo Alfaro; il lungometraggio L’iguana, invece, deriva dall’omonimo romanzo,
la cui trama allegorica e surreale si sviluppa intorno all’incontro di un giovane che
per uscire dalla quotidianità, in un’isola incontaminata abitata da tre nobili
portoghesi, si imbatte in una giovane domestica, tenuta in condizione di completa
sudditanza. Si ritrova irretito in una realtà allucinatoria tra la credenza popolare che
vede in lei l’incarnazione del demonio e l’impulso razionale e civile a porla in salvo
e ridarle la libertà. Inoltre, fu realizzato lo spettacolo Attraversando un paese
sconosciuto, ispirato al libro Corpo celeste (Adolfo Conti, 2005), sorta di
conferenza-confessione sul proprio straniamento di artista e di donna verso un
mondo che non riconosce più, dove si sono azzerati memoria e linguaggio e in cui
i deboli e i diversi non hanno più cittadinanza. Va ricordata infine l’inchiesta
televisiva ispirata al racconto I ragazzi di Arese contenuto in Silenzio a Milano,
realizzata nel 1968 dal regista Gianni Serra all’interno del programma
televisivo condotto da Enzo Biagi RT-Rotocalco Televisivo sui circa 200 orfani di
un riformatorio salesiano da cui traspariva il senso di infelicità e tristezza per una
esistenza senza famiglia.
Dall’opera di alcuni scrittori il cinema ha ricavato spesso soltanto una pellicola. Il
caso più illustre è senz’altro quello che riguarda Emilio Lussu (1890–1975), scrittore,
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militare, politico, senatore socialista dal 1949 al 1964, due volte ministro, fondatore
del Partito Sardo d’Azione e del movimento Giustizia e Libertà, ufficiale nella Prima
guerra mondiale nella brigata Sassari, partecipante alla guerra civile spagnola e alla
resistenza italiana, e dalla cui opera più importante, Un anno sull’altipiano, una delle
maggiori della letteratura italiana sulla Prima guerra mondiale, dove per la prima
volta si racconta l’insensatezza della guerra e l’esasperazione della gerarchia e della
disciplina militare, giunta alla follia disumana della decimazione dei soldati che non
obbedivano all’ordine di attacco, il regista socialista Francesco Rosi ha tratto uno
dei suoi film più vibranti ed emozionanti, Uomini contro (1970), per il quale venne
denunciato per vilipendio delle forze armate.
Dello scrittore giuliano Fulvio Tomizza (1935–1999), uno dei più significativi
interpreti della letteratura italiana e triestina del secondo Novecento, conosciuto
come ‘‘poeta di frontiera’’, è stato portato sullo schermo nel 1983 per la regia di
Aldo Lado il romanzo vincitore del premio Fiera Letteraria, La città di Miriam,
dove, nel narrare le vicende di un profugo istriano ospite di una famiglia di cui
sposa la figlia e la sua irrefrenabile propensione alle avventure extraconiugali,
viene mirabilmente tratteggiata una favola moderna sulle dinamiche di coppia
e sulla vittoria di un sentimento la cui profondità vince nei confronti del
richiamo del corpo.
Fra gli altri, si ricordano poi: Renata Viganò (1900–1976), scrittrice precoce (riuscı̀
a far pubblicare la prima raccolta di poesie, Ginestra in fiore, all’età di soli 12 anni),
che raggiunse la notorietà con un romanzo neorealista ispirato alla resistenza e alla
propria esperienza di partigiana, L’Agnese va a morire, portato sullo schermo dal
regista Giuliano Montaldo nel 1976; Giorgio Saviane (1916–2000), partigiano,
scrittore, giornalista e premio Campiello, membro dell’assemblea nazionale del
Partito Socialista, per Eutanasia di un amore, romanzo premiato con il Bancarella
e adattato per il cinema da Enrico Maria Salerno (1978), una contrastata storia
d’amore che tocca i temi dell’invecchiamento, della paternità e dell’aborto; lo
scrittore e giornalista sportivo Gianni Brera (1919–1992), per Il corpo della ragassa
(Pasquale Festa Campanile, 1979) sulla trasformazione di una ragazza bella ma
rozza e ignorante in una Fair Lady di provincia da parte di un anziano pigmalione
che ne diventerà la vittima; Domenico Rea (1921–1994) giornalista e scrittore
vincitore del premio Strega per Ninfa plebea (Lina Wertmüller, 1996), storia della
perdita dell’innocenza di un’adolescente semplice e spontanea, ambientata in un
paese dell’entroterra salernitano durante la Seconda guerra mondiale; lo scrittore
calabrese Saverio Strati (1924–2014) per Terra rossa (Gorgio Molteni, dal romanzo
La teda, 2001), ambientato nel 1943, sul finire del secondo conflitto mondiale, in
un paese dell’Aspromonte distrutto dalla guerra dove giunge un gruppo di quattro muratori che entrano in tal modo in un mondo di miseria, di sfruttamento e
di ingiustizia. L’esperienza cinematografica dello scrittore, poeta e sociologo
Ottiero Ottieri (1924–2002), vincitore del premio Bagutta e collaboratore della
rivista Il Mondo e del quotidiano Il Giorno, iscritto al Partito Socialista e autore
del libro Storie del PSI nel centenario, si limita alla collaborazione alla sceneggiatura de L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962), dando corpo e spessore alla
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nevrosi del personaggio femminile, mentre dal romanzo autobiografico
Donnarumma all’assalto, che narra di un disoccupato senza qualifiche disposto
a tutto pur di ottenere un posto nella fabbrica aperta nel meridione d’Italia in
una visione che trascende la semplice contrapposizione nord-sud, ha tratto un
film nel 1972 il regista Marco Leto, sottolineando la componente psicologica
della figura dello psicotecnico che deve valutare attraverso test attitudinali
l’abilità al lavoro ma che si trova al centro di tensioni provenienti sia dal direttore della fabbrica che dagli abitanti per i quali il posto fisso rappresenta la fine
dei problemi economici.
E ancora, Elio Pagliarani (1927–2012), poeta e critico teatrale, uno dei principali
esponenti della neoavanguardia, interessato al mondo del sottoproletariato,
redattore dell’Avanti! e dal cui poemetto La ragazza Carla, giovane ragazza della
periferia milanese pienamente immersa nell’alienazione procurata dalla società
industriale alla vigilia del boom economico, è stato ricavato nel 2015 il film omonimo
di Alberto Saibene che, nella transmedialità dei mezzi espressivi utilizzati (il bianco e
nero e il colore, disegni animati, interventi surreali da parte di Elio delle Storie Tese),
ben trasferisce in immagini il passaggio dal neorealismo alla neoavanguardia che
costituisce stile ed essenza del testo poetico.
Per quanto riguarda Luigi Malerba (1927–2008), scrittore e sceneggiatore
italiano, premi Flaiano e Viareggio per la narrativa, merita richiamare che ha
partecipato al movimento della neoavanguardia sperimentalista del ‘‘Gruppo 63’’,
al quale aderivano autori, critici e scrittori come Alberto Arbasino, Nanni Balestrini,
Renato Barilli, Achille Bonito Oliva, Furio Colombo, Oreste Del Buono, Umberto
Eco, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti. Ha
scritto, con Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore di cinema per Fellini e Antonioni,
storie per ragazzi e bambini. Va osservato che, pur non essendo mai stata trasferita in
immagini alcuna sua opera, l’innata propensione anche per il linguaggio filmico
Malerba l’ha sempre dimostrata, fin dagli anni Cinquanta, a Parma, dirigendo la
rivista cinematografica Sequenze, e poi scrivendo numerose sceneggiature: Il
cappotto (Alberto Lattuada, 1952), Di qua, di là del Piave (Guido Leoni, 1954), La
ragazza e il generale (Pasquale Festa Campanile, 1967), Lo scatenato (Franco
Indovina, 1967), Sissignore (Ugo Tognazzi, 1968), Toh, e` morta la nonna! (Mario
Monicelli, 1969), L’invasione (Yves Allégret, 1970), Appuntamento col disonore
(Adriano Bolzoni, 1970), Corpo d’amore (Fabio Carpi, 1972), Il vero e il falso
(Eriprando Visconti, 1972), Come perdere una moglie e trovare un’amante
(Pasquale Festa Campanile, 1978), La prossima volta il fuoco (Fabio Carpi, 1994).
Per la televisione ha scritto, con Biagio Proietti, Daniele D’Anza e Fabio Carpi, lo
sceneggiato Madame Bovary (Daniele D’Anza, 1978) e si è occupato di caroselli e
spot pubblicitari. In ragione di queste sue competenze, nel 2009 è stato istituito il
premio ‘‘Luigi Malerba’’ di narrativa e cinema, con sede a Berceto (Parma) dove lo
scrittore è nato, e a Roma, dove ha vissuto. Di lui è stato giustamente detto che era
scrittore divertente e curioso di tutto, dal linguaggio alla storia, dal costume
alle coincidenze della vita, passando dal romanzo al saggio linguistico, dalle
sceneggiature ai racconti per ragazzi.
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Analogo discorso vale per Augusto Frassineti (1911–1985), interprete complesso e
raffinato della letteratura italiana postmoderna che per il cinema ha collaborato alle
sceneggiature de Lo svitato (Carlo Lizzani, 1956) con Dario Fo, e di Italiani brava
gente (Giuseppe De Santis, 1966) con Ennio De Concini.
Diversi sono invece i casi dello scrittore Raffaele La Capria (1922) e del poeta
Andrea Zanzotto (1921–2011), le cui incursioni nel cinema sono caratterizzate dalla
collaborazione con un solo regista. Si tratta di Francesco Rosi per il primo, con la
sceneggiatura di Mani sulla città (1963), C’era una volta (1967), Uomini contro (1970),
Cristo si e` fermato a Eboli (1979), Diario napoletano (1992). Si tratta di Federico
Fellini per il secondo, con la collaborazione alla sceneggiatura de Il Casanova (1976)
e La città delle donne (1980).
Va sottolineata, infine, la specificità di due autori che uniscono in una medesima
persona le figure del letterato e del cineasta: Mario Soldati (1906–1999) e Alberto
Bevilacqua (1934–2013). Il primo, esempio di attività prolifica e poliedrica, essendo
stato scrittore, giornalista, saggista, regista, sceneggiatore e autore televisivo.
Fu premio Campiello per il romanzo L’attore, best-seller nel 1970, e autore del
romanzo sul mondo del cinema, Cinematografo: racconti, ritratti, poesie,
polemiche. Tra i fondatori del Centro Pannunzio intitolato al direttore de Il
Mondo, personaggio anticonformista, a volte discusso e controverso, interprete
della identità italiana nel mondo attraverso soprattutto le bellezze naturali
del paese (collaborò con Folco Quilici per la serie L’Italia vista dal cielo) e
l’enogastronomia, spicca per aver caratterizzato tutta la produzione artistica come
un dialogo non senza difficoltà tra letteratura e cinema – come ha osservato
Emanuele Morreale, se i cineasti storcevano il naso di fronte al letterato questi
ultimi disapprovavano il cineasta (Morreale, 2006) – e tra il cinema, che per lui
doveva essere industriale e popolare, e la televisione (suo è stato il primo film
trasmesso dalla Rai appena nata, il 3 gennaio 1954, Le miserie del signor Travet).
Dei ventotto film realizzati come regista e da lui stesso sceneggiati, ben tredici
sono tratti da opere letterarie preesistenti: Piccolo mondo antico, Malombra e
Daniele Cortis dai romanzi melodrammatici e popolari di Antonio Fogazzaro;
Quartieri alti da Ercole Patti; Le miserie del signor Travet dalla commedia Le
miserie ‘d Monsù Travet dello scrittore, giornalista e deputato torinese di ispirazione social-liberale Vittorio Bersezio, interessato ai problemi sociali e ai contrasti di classe dei ceti più poveri provocati dal processo di industrializzazione che
stava avvenendo nella capitale sabauda; Quel bandito sono io dalla farsa teatrale
di Peppino De Filippo; I tre corsari e Jolanda, la figlia del corsaro Nero ispirati ai
romanzi di Emilio Salgari; La provinciale, tratto dal romanzo breve di Alberto
Moravia inserito nella raccolta L’imbroglio; Il ventaglino, episodio del film Questa
e` la vita tratto dalle novelle di Luigi Pirandello; La mano dello straniero dal
romanzo omonimo di Graham Greene; Policarpo, ufficiale di scrittura dal
romanzo La famiglia De Tappetti di Luigi Arnaldo Vassallo (nome d’arte
Gandolin) con il quale ha vinto a Cannes nel 1959 il premio per la miglior
commedia, Fuga in Francia, un soggetto originale ma sceneggiato, oltre che da
Soldati, da personalità letterarie quali Cesare Pavese, Ennio Flaiano ed Emilio
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Cecchi; La donna del fiume, scritto da Alberto Moravia ed Ennio Flaiano e
sceneggiato da Bassani, Moravia, Pasolini e Vancini.
Analoga situazione si ha con le sceneggiature per film di altri registi, con undici
copioni su ventuno ricavati da opere letterarie o teatrali: Figaro e la sua gran giornata
(1931), dalla commedia Ostrega che sbrego! di Arnaldo Fraccaroli; Giallo (1933),
dalla commedia di Edgar Wallace The Man Who Changed His Name, e Il cappello a
tre punte (1934), dal romanzo omonimo di Pedro Antonio De Alarcón; Ma non e` una
cosa seria (1936), dalle novelle di Pirandello La signora speranza e Ma non e` una cosa
seria, tutti diretti da Mario Camerini; La cantante dell’Opera (Nunzio Malasomma,
1932), dalla novella di Gino Rocca Nel caffettuccio di San Stae; e La tavola dei poveri
(Alessandro Blasetti, 1932), dall’omonimo atto unico di Raffaele Viviani (che vi
recita nel ruolo di protagonista), attore teatrale, commediografo, compositore,
poeta e scrittore napoletano, inventore, nella prima metà degli anni Trenta, in
pieno regime fascista, di un ‘‘teatro sociale’’ basato sulla rappresentazione realistica
della povertà non funzionale alla propaganda di regime, che lo accusò di mettere in
scena ‘‘le vergogne d’Italia’’ allo stesso modo in cui, subito dopo la caduta del
fascismo, sarebbe avvenuto, nel cinema, con impressionante ‘‘continuità’’ storica
con il regime precedente, per ‘‘i panni sporchi’’ del neorealismo. Si aggiungono
L’orologio a cucù (Camillo Mastrocinque, 1938), dalla commedia omonima di
Alberto Donini; Castelli in aria (Augusto Genina, 1939), dalla novella Tre giorni
in paradiso di Franz Karl Franchy; Il peccato di Rogelia Sanchez (Carlo Borghesio,
1940), dal romanzo Santa Rogelia di Armando Palacio Valdés; Un colpo di pistola
(Renato Castellani, 1942), dal racconto di Aleksandr Puškin; Questi fantasmi
(Edoardo De Filippo, 1954), dalla commedia omonima dello stesso De Filippo;
Guerra e pace (King Vidor, 1956) dal romanzo omonimo di Lev Tolstoj.
Per la televisione, oltre ad aver realizzato, come ideatore, regista e conduttore, il
primo reportage enogastronomico Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi
genuini (1956) e numerosi altri documentari e inchieste, ha scritto, sceneggiato e
realizzato I racconti del maresciallo (1968) del quale verrà girato nel 1984 un
sequel dal figlio Giovanni.
Dalle opere letterarie di Mario Soldati sono stati ricavati soltanto i film La giacca
verde (Franco Giraldi, 1979) e La sposa americana (Giovanni Soldati, 1986). Il primo
è l’affascinante intreccio di caratteri di due orchestrali che, durante la guerra, si erano
scambiati di ruolo. Nei loro confronti il regista ha dichiarato, riproponendo nel
giudizio il medesimo schema narrativo dell’opera: ‘‘è il mio miglior film.
Interamente mio, ma nello stesso tempo interamente di Giraldi’’. Il secondo narra la
passione per la cognata di un docente italiano di letteratura sposato con un’americana,
come sottotesto per narrare l’America, i suoi miti e le sue contraddizioni.
Alberto Bevilacqua, scrittore, poeta, regista, sceneggiatore e giornalista, vincitore
dei premi Campiello, Strega, Bancarella, considerato uno degli autori più prolifici ed
eleganti della letteratura e della poesia italiana del secolo scorso, ha diretto otto film,
sei dei quali trasposti dalle sue opere letterarie. La califfa, ambientato a Parma, città
natale, immortalata in tanti racconti, romanzi e poesie, che narra di un industriale il
quale, grazie a una sua operaia contestatrice di cui è innamorato, capisce che può
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esistere una via più umana di fare impresa, ma proprio per questo viene ucciso dai
colleghi (in un finale più drammatico rispetto al romanzo dove muore invece per
cause naturali) che temono cambiamenti al loro status sociale di privilegiati; Questa
specie d’amore, confessione di un marito/narratore alla moglie per recuperare il loro
matrimonio in crisi in base a ritrovati valori di umanità, sincerità e spontaneità
della vita sullo sfondo della violenza fascista; Attenti al buffone, storia d’amore,
tradimento e rivincita da parte di un uomo semplice e pacifico contro l’arroganza
e il potere dell’avversario; La donna delle meraviglie, sull’atmosfera stregata che
coglie uno scrittore in crisi sia sentimentale che creativa, a causa di messaggi
telefonici provenienti dalla voce misteriosa di una donna sconosciuta che sembra
però conoscere tutto di lui e che lo conduce in un viaggio a ritroso nell’infanzia e
nella giovinezza rievocando memorie offuscate dal tempo; Tango blu, curioso giallo
ambientato in un locale notturno di Milano, il Tango blu appunto, dove il gestore
invita, in occasione della riapertura dopo molti anni, i figli di alcuni clienti
del passato, tra i quali un boss degli scaricatori, un fotografo di fotoromanzi, un
commissario di polizia, un misterioso serial killer che dopo quell’incontro si
costituirà spontaneamente all’incredulo poliziotto; Gialloparma, altra intrusione
nel giallo da parte di una donna che vuole vendicarsi di chi in città l’ha sempre
umiliata e si trova cosı̀ invischiata in una rete più grande di lei.
Non ricavati da sue opere letterarie sono Le rose di Danzica, tratto dal diario del
barone Erich von Lehner, ritrovato dal regista, che narra dell’amicizia che viene a
instaurarsi tra il barone e un generale prigioniero che ha il compito di scortare e
grazie al quale comprende il pericolo del clima politico che porterà la Germania al
nazismo sposando le idee rivoluzionarie di molti suoi connazionali; Bosco d’amore,
da una novella di Boccaccio, ambientato nella Roma papalina, sulle contrastate
vicende sentimentali di due giovani appartenenti alle famiglie rivali Orsini e
Colonna.
Per quanto riguarda le sceneggiature per film di altri registi che mostrano una
prevalenza dei generi horror-scientifico e commedia, solo due non derivano da soggetti originali ma da opere letterarie precedenti: I tre volti della paura (1963), articolato nei tre episodi Il telefono, da un racconto di F. G. Snyder, erroneamente
attribuito nei titoli di testa a Guy de Maupassant; I Wurdalak, da Lev Tolstoj; La
goccia d’acqua, da Anton Čechov e Terrore nello spazio (1965) entrambi di Mario
Bava, dal racconto Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero.
Il contributo letterario è presente anche in altre sceneggiature: La cuccagna
(Luciano Salce, 1962), oltre che da Bevilacqua, è stato scritto da Goffredo Parise
cosı̀ come Terrore nello spazio, mentre La smania addosso (Marcello Andrei, 1963),
satira sul tema del matrimonio riparatore in Sicilia, da Leonardo Sciascia.
Per completezza di informazione, meritano di essere citati i casi del poeta, saggista
e uomo politico iscritto al Partito Socialista Unitario Giacomo Noventa (1898–1960),
candidato alle elezioni del 1953 e collaboratore della rivista di area socialista Mondo
Nuovo stilisticamente diviso tra saggistica civile e polemica e poesia dialettale,
influenzato dal romanticismo europeo, amico fraterno di Soldati fin dalla metà
degli anni ’20, dai tempi dell’università a Torino dove aveva conosciuto anche
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Piero Gobetti, Giacomo Debenedetti e Carlo Levi, con il quale scrive la prima
stesura del poema eroicomico Castogallo e la sceneggiatura per un film che non
vedrà mai la luce; e di Stefano D’Arrigo (1919–1992), scrittore, poeta e
critico d’arte, autore di Horcynus Orca, opera sperimentale e raffinata, lungamente
elaborata (dal 1957 al 1975) che costituı̀, alla sua uscita, un vero e proprio caso
letterario sul tema eterno del ritorno a casa dell’eroe (il mito greco del nostos), da
Omero a Joyce, la cui unica esperienza cinematografica fu quella di interpretare la
parte del giudice istruttore nel film Accattone di Pier Paolo Pasolini, autore che pur
non amava.2
Può essere interessante ricordare Ada Negri (1870–1945), scrittrice, poetessa,
insegnante, nominata per il premio Nobel per la letteratura e prima donna
membro dell’Accademia d’Italia, antesignana dell’emancipazione femminile,
amica di Turati e di Anna Kuliscioff, che definisce ‘‘sorella ideale’’. Diventa, nel
primo Novecento, per le sue simpatie politiche, la ‘‘poetessa socialista’’ in contrapposizione alla ‘‘narratrice comunista’’ Sibilla Aleramo. La sua poetica, soprattutto
agli inizi, fu caratterizzata da aspri toni di denuncia sociale, tanto da farla definire la
‘‘poetessa del Quarto Stato’’. Un racconto sul cinematografo da lei scritto e pubblicato su Il Corriere della Sera del 27 novembre 1928, prima dell’invenzione del
sonoro, offre la storia di Bigia, scialba dattilografa che vive una seconda vita identificandosi con le vicende dello schermo. Vi è l’anticipazione di quasi sessant’anni del
Woody Allen di La rosa purpurea del Cairo (1985), che riflette sul potere di fascinazione e di coinvolgimento emotivo di massa della nuova arte. Scrive al proposito
Cristina Bragaglia:
Con grande lucidità, Ada Negri riassume in mezza pagina il senso della visione
cinematografica e descrive il processo di identificazione della sua misera dattilografa
con le eroine della pellicola: ‘‘ella trasmigra nella persona della protagonista, entra nel
suo mondo: ama, odia, pecca, arrischia, gioisce, patisce, trionfa, immedesimata in lei’’.
Cosı̀ che la ‘‘piccola dattilografa’’ conosce solo il mare del cinematografo, viaggia su
‘‘lussuose automobili’’, ‘‘treni fulminei’’ e ‘‘aerei velivoli’’, gioca con la vita e la
‘‘riprende, scompare e ricompare’’. Don Chisciotte ed Emma Bovary si trasformano
in una piccola dattilografa: è l’effetto di uno spettacolo di massa come il cinema e Ada
Negri sa ben cogliere l’incanto dell’immedesimazione che è in grado di esercitare.
(Bragaglia, 2001)
I film dei socialisti
È necessario precisare che non necessariamente la filmografia di un regista, di uno
sceneggiatore o di un attore/autore socialista rispecchia meccanicamente la sua
convinzione politica, poiché possono essere diverse le motivazioni per le quali egli
abbia optato per un film piuttosto che per un altro. Il regista socialista Mario
Monicelli soleva dire, a proposito, che il mestiere di cineasta è un mestiere precario
per definizione in quanto ciò che si è fatto prima non costituisce mai una garanzia
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Forum Italicum 54(1)
certa e sicura di nuove proposte. Decisivo è poi il fatto che la tradizione libertaria del
socialismo neghi in partenza e per principio il porsi schematicamente ed aprioristicamente alle dipendenze di un apparato ideologico, di ‘‘suonare il piffero’’ per uno
schieramento politico e per mera disciplina di partito.
L’atteggiamento e l’orizzonte dei registi socialisti (vengono qui considerati tali
coloro che hanno dichiarato pubblicamente di esserlo o che hanno preso parte
attivamente e sistematicamente ai lavori della commissione Cinema del PSI) è
dunque ampio e variegato. Si va da opere in cui lo stile personale prevale sulle
tematiche d’ordine generale (è il caso di registi come Luigi Di Gianni, Nino
Russo, Emidio Greco, Giovanna Gagliardo, Aldo Lado, Gabriele Salvatores, o di
uomini di teatro ‘‘prestati’’ al cinema come Giorgio Strehler e Maurizio Scaparro); a
quelle della ‘‘commedia sofisticata’’ contraddistinta dall’acuta osservazione del
costume nell’Italia fascista (Mario Camerini) o della cosiddetta ‘‘commedia
all’italiana’’ del dopoguerra e del boom economico; a quelle sul cambiamento dei
rapporti interpersonali e dell’affermazione dei diritti civili in cui eccellono registi,
tutti socialisti, come Mario Monicelli, Luigi Comencini, Alberto Lattuada, Lina
Wertmüller; sceneggiatori del calibro di Age e Scarpelli che di quel genere ne
hanno firmato quasi tutti i più importanti titoli; attori-autori come Vittorio
Gassman, Nino Manfredi, Enrico Montesano, Renato Rascel e Pino Caruso;
registi-scrittori come Alberto Bevilacqua e Mario Soldati o registi-critici come
Lino Miccichè e Luigi Chiarini; produttori quali Mario Gallo e Nello Santi
oppure ancora autori più direttamente ‘‘impegnati’’ sotto il profilo politico come
Marco Leto, Aldo Florio, Damiano Damiani, Florestano Vancini e, naturalmente,
Francesco Rosi.
Elemento unitario, ‘‘filo rosso’’ palese ed esplicito che lega ed unisce cosı̀ tante
diversificate esperienze artistiche, è l’umanesimo, il senso della libertà e il valore
della democrazia, l’antifascismo, l’insofferenza verso ogni forma di conformismo,
intolleranza, censura del pensiero e dell’espressione, obbedienza cieca a ordini di
un padrone o di una forza politica. Tutto ciò ha indiscutibilmente contribuito ad
accrescere il sentimento civico degli italiani e non solo, vista la notorietà e la
diffusione del nostro cinema nel mondo.
Di Luigi Di Gianni (1926–2019), dopo una intensa attività documentaristica sui
temi dell’antropologia magica ed arcaica, merita di essere ricordato il primo
lungometraggio Il tempo dell’inizio, straordinaria parabola sul bisogno inesausto
di libertà e di utopia, totalmente calata in una dimensione reversibile dove, come
dice Novalis, il tempo è trapassato nello spazio come il corpo nell’anima, in una terra
dell’immaginazione sensibile in cui ogni emozione è contemporaneamente azione e
visione, ogni sentimento è fisico e spirituale, ogni movimento materiale e
trascendente.
Il regista avvolge il suo racconto nei linguaggi fascinosi del realismo magico e
dell’immaginario simbolico, i più adatti a rappresentare i travagli dell’uomo/anima,
ambientandolo agli inizi del tempo, in una landa desertificata, un paesaggio
pretemporale, prestorico, preideologico, come una galassia magmatica e caotica
ancora in via di formazione, piena di energia allo stato fluido non ancora canalizzata
Giacci
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in ragione, utopia non ancora modellata in progetto, e tutto è visivamente
conseguente a questa limpida ipotesi morale: la macchina da presa non si agita, si
muove, con le medesime cadenze di un pensiero che si articola, struggente fusione
di stati estetici ed emotivi come solo i grandi riescono a ottenere, mentre la composizione
delle sequenze è rigorosa, quasi ascetica, nella sua estatica bellezza.
Non a caso per quest’opera e per il suo autore sono stati evocati Dreyer ed
Eisenstein, Kafka ed Orwell: la sensibilità cromatica (una sorprendente fotografia
in bianco e nero, livida e polverosa, unita alla ricerca impeccabile sulle scenografie
barocche e fatiscenti, i costumi laceri o carichi di orpelli, le musiche di sapore
ancestrale, la profondità narrativa, il gusto per la composizione visiva e
l’intransigenza estetica della regia, rendono il paragone non solo lecito ma doveroso,
con la precisazione che non si tratta di rimandi o citazioni ‘‘esterne’’ bensı̀ del saper
far proprio un ‘‘segreto’’, quello del cinema classico, e saperlo riutilizzare in una
propria personale poetica.
Dalla ‘‘itineranza metaforica’’ de Il giorno dell’Assunta (certamente uno dei più
significativi film italiani degli anni Settanta) alla ‘‘fissità simbolica’’ di Fondali
notturni, Nino Russo (1939), altro autore con cui le tematiche vengono trasfigurate
nello stile, supera radicalmente gli equivoci del realismo. Politicamente molto attivo
all’interno dell’ANAC (Associazione Nazionale degli Autori Cinematografici), ha
fondato una personale pratica filmica che prende forma in uno spazio mentale che si
infrange nei meandri di una dimensione temporale altrettanto virtuale, in un tempo
che è, o meglio, che è stato, esattamente come l’imprimersi di un’immagine sulla
pellicola ed il suo scorrere dentro un proiettore: la simulazione di un presente che
sembra essere ma non è più, illusione di una permanenza visiva non tangibile che si
fonda su un’impressione di realtà che invece è finzione allo stato puro e che si
(con)fonde nella memoria.
Coerentemente a tale concezione, i film di Nino Russo sono sempre frequentati
non da corpi ma da anime, entità evanescenti che si intromettono nei simulacri
corporei nei quali si manifestano le loro azioni, gesti rappresi in un passato chiuso
in sé stesso, circumnavigazioni senza sosta di pulsioni e speranze, già condannate
come idea prima ancora di emergere a sostanza. Gli atti ricordati sfioriscono in
atti apparentemente gratuiti, in gestualità atemporale, in tragica ironia, in moto
innaturale, fuori da ogni spazio, estraneo a ogni tempo.
La parola, nei suoi film, si fa filosofia, ed il gesto trascendenza. Scomparsa la
drammaticità del reale, insorge la violenza dell’abbandono: di una città, di un
popolo, di una cultura precedente, socialmente più divisa ma umanamente più
coesa, di una umanità da secoli aggredita, vilipesa, barattata, umiliata, in una statica
circolarità dell’angoscia e del cordoglio.
Quei fondali, quelle quinte, quelle scene, quelle luci da Piedigrotta, quei notturni
riletti nelle erranze di un sogno, quelle strade svuotate, quegli agglomerati di case
schiacciate le une sulle altre come a proteggersi da un alito raggelante che spazza via
gioia e festa, sono i simulacri di una ‘‘napoletanità’’ sincera e profonda, non di
maniera, che è lı̀, più di ogni altra geografia del sud, sorta di ‘‘questione meridionale’’
tutta interiore, a constatare attonita il degrado ambientale, lo sradicamento
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Forum Italicum 54(1)
culturale, il deserto esistenziale, a resistere nella immanenza di una remota
cognizione, di una antica sapienza.
È un genocidio e Nino Russo ce lo consegna senza drammi e senza proclami,
affidandosi esclusivamente alle risorse della poesia e del cinema, trasformando in
visione la fissità irreversibile di ‘‘anime del tempo’’ tornate a vivere per magico
incanto e per la durata di una notte, quel tanto che basta per ‘‘muovere tutta la
mole del mondo’’ e lasciarci un segno. Il segno della conoscenza, l’impronta della
vita, il desiderio della riscossa.
Atmosfera ugualmente evocativa è quella del cinema di Emidio Greco
(1938–2012) la cui opera prima, L’invenzione di Morel, tratto dall’omonimo
romanzo dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares, è un film di fantascienza
insolito nel panorama cinematografico italiano che, nel raccontare di una macchina
in grado di catturare l’immagine tridimensionale (oggi la si chiamerebbe olografia)
delle persone e mantenerla inalterata nel tempo, oltre la morte, affronta il tema
estremamente attuale della relazione tra realtà e virtualità.
La filmografia dell’autore, quasi sempre debitrice di opere letterarie (Ehrengard
dal romanzo omonimo di Karen Blixen; Notizie degli scavi da un racconto di Franco
Lucentini), incontra per due volte l’opera letteraria di Leonardo Sciascia, ne Il
consiglio d’Egitto, incentrato sulle vicende dell’erudito e falsario del Settecento
Giuseppe Vella e del rivoluzionario Francesco Paolo Di Blasi, e in Una storia
semplice. Ed è proprio in quest’ultimo caso che le atmosfere surreali del regista,
solitamente avulse dal contesto sociale in cui si muovono i personaggi, pur
rimanendo nel cono d’ombra del mistero e dell’ambiguità, impattano con le
tematiche caratteristiche dello scrittore siciliano, le connivenze tra criminalità e
pubblica amministrazione, tra omertà delle persone ed inerzia delle istituzioni, tra
organizzazioni mafiose e corpi dello stato.
Giovanna Gagliardo (1941), regista, sceneggiatrice, giornalista, redattrice e
collaboratrice di importanti giornali e settimanali come Il Giorno, Il Messaggero,
La Repubblica e L’Espresso, una delle autrici italiane più sensibili al tema della
psicologia femminile, membro dell’assemblea nazionale socialista, debutta come
attrice nel film L’assassino (Elio Petri, 1960) e si impegna in seguito nella scrittura
cinematografica sceneggiando per Nelo Risi (Una stagione all’inferno), Alberto
Lattuada (L’amica) e Miklós Jancsó (La pacifista; La tecnica e il rito; Roma rivuole
Cesare; Vizi privati, pubbliche virtù; Il cuore del tiranno). Realizza poi diversi
documentari tra cui Passi della memoria, sull’origine del movimento psicoanalitico
italiano; Viva l’Italia, la storia del Novecento ricostruita attraverso documenti visivi e
canzoni popolari e di protesta; Che colpa abbiamo noi, sulla storia d’Italia dal 1848 a oggi
attraverso le canzoni patriottiche e di impegno civile; Divi e Film e Il mito di Cinecittà
sulla storia del cinema e dei teatri di posa più famosi al mondo; Bellissime, due puntate
sul Novecento visto con gli occhi della donna, L’abito di domani sulla moda nel corso del
tempo; Vittime, un’analisi rigorosa sugli ‘‘anni di piombo’’ in Italia,3 Venti anni
docu-fiction che racconta due decenni della storia recente dalla caduta del muro di
Berlino al fallimento della multinazionale di servizi finanziari Lehman Brothers; Le
romane, descrizione di quartieri romani attraverso lo sguardo delle protagoniste, e Il
Giacci
503
mare della nostra storia, che ricostruisce i rapporti tra Italia e Libia dal 1911 a oggi,
documento essenziale anche per capire i possibili sviluppi dell’attuale questione libica e
dei suoi legami con l’esodo dei migranti africani verso il Mediterraneo.
Esordisce nella regia del lungometraggio con Maternale, opera intensa sui difficili
rapporti tra madre e figlia ispirata all’esperienza personale della regista presso
gruppi di sensibilizzazione sul tema costituiti in seno al femminismo degli anni
’70, cui fanno seguito opere ugualmente intrise di atmosfera e di analisi psicologica
di figure femminili come Via degli specchi, un noir sulle vicenda di una donna
magistrato incaricata di far luce sul suicidio di una ragazza: nel corso delle indagini,
scopre l’esistenza di una relazione sentimentale tra suo marito e quest’ultima e
rimane coinvolta lei stessa in un altro suicidio fino a trovarsi accomunata al coniuge
dalla medesima responsabilità; e Caldo soffocante, dove la riconsegna di una borsa e
di un passaporto smarriti precipita la protagonista in un’oscura vicenda di degrado
urbano nella torrida Roma dei Mondiali 1990, preda di una calura insopportabile e
già frequentata dal fenomeno extra-comunitario.
Regista di genere che ha attraversato praticamente tutte le modalità narrative del
cinema, dal western al noir, dal melodramma all’horror ed alla commedia, forte
dell’esperienza come aiuto-regista per Anatole Litvak, Marcel Carné, Bernardo
Bertolucci, e spinto dalla volontà di seguire e interpretare i cambiamenti del gusto
del pubblico, Aldo Lado (1934) si è mostrato sensibile alla relazione tra cinema e
letteratura con cinque opere tratte da testi letterari: La cosa buffa, dal romanzo
omonimo di Giuseppe Berto che descrive l’educazione sentimentale di una giovane
coppia il cui amore non avrà futuro perché contrastato dalla famiglia di lei e dalla
depressione di lui; Sepolta viva, melodramma in costume dal romanzo di
Marie Eugenie Saffray che nelle intenzioni del regista (poi non attuate per esigenze
produttive) avrebbe dovuto irridere il genere di letteratura popolare alla Carolina
Invernizio; La città di Miriam da Fulvio Tomizza; La cugina, da Ercole Patti sulla
relazione d’amore tra due cugini; La disubbidienza da Alberto Moravia, che rimane il
film più direttamente impegnato di Lado, parlando di un giovane che vive un difficile
rapporto con la propria famiglia borghese e fascista e che abbraccia la causa
partigiana partecipando attivamente alla lotta di liberazione anche se, deluso nelle
sue aspettative, cade in uno stato di autodistruzione dal quale verrà salvato
dall’amore. Aldo Lado si è mostrato interessato anche alla cronaca con due opere
ricavate da fatti veri: Venerdı` nero, ispirato alla terribile vicenda di tre giovani
‘‘pariolini’’ autori del cosiddetto ‘‘massacro del Circeo’’ che aveva riempito le
pagine di ‘‘nera’’ dei giornali negli anni Settanta4 e Il notturno di Chopin, che
adombra il rapimento e la morte di Yara Gambirasio, avvenuti nel 2010, caso che
aveva assunto anch’esso una forte rilevanza mediatica.5 In questa sua scelta, Lado
non trascura aspetti di critica sociale, come nel caso di L’ultimo treno della notte,
efficace risposta italiana al Rape and Revenge americano, o di Chi l’ha vista
morire?, diventato un vero e proprio cult movie mondiale, che si ricorda per un
‘‘raccapricciante’’ coro di bambini composto da Ennio Morricone e per
l’ambientazione, una Venezia avvolta da una atmosfera misteriosa, cupa,
inquietante, ‘‘la Venezia che amo di più’’, come ha dichiarato il regista.
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Forum Italicum 54(1)
Il film più interessante di quest’autore resta però l’opera d’esordio La corta notte
delle bambole di vetro, curioso esempio di fanta-politica in cui la storia di
un’organizzazione segreta mondiale che condiziona le menti delle giovani
generazioni con rituali orgiastici e demoniaci per spegnervi ogni scintilla di
ribellione, ambientata nella capitale cecoslovacca del post-68, può essere letta in
chiave metaforica come apologo tragico sulla cosiddetta ‘‘primavera di Praga’’,6
stroncata dall’intervento dei carri armati sovietici: una sorta di manifesto politico
contro il potere e i suoi abusi.
Di ancora maggior potenza visivo-evocativa sarebbe stata la trasposizione filmica
del romanzo di Carlo Castellaneta Notti e nebbie, sulla fine storica e sul rischio di
continuità e risorgenza del fascismo, tema quanto mai attuale nel momento politico
contemporaneo, un sogno purtroppo non realizzato del regista Giorgio Strehler
(1921–1997), una delle figure più eminenti del teatro italiano ed europeo, fondatore,
insieme a Nina Vinchi e Paolo Grassi, del Piccolo Teatro di Milano, innovatore e
visionario, che fece conoscere ed ammirare le opere di Bertolt Brecht con soluzioni
visive molto vicine nel ritmo nelle scenografie e soprattutto nell’illuminazione alla
concezione cinematografica della messa in scena teatrale, politicamente impegnato
nel Partito Socialista Italiano della cui commissione Teatro fu membro cosı̀ come
dell’assemblea nazionale. Nelle liste del PSI fu eletto parlamentare europeo.7
In una conferenza stampa del gennaio 1976, il regista annunciava il suo esordio
nel cinema con il progetto tratto dal citato romanzo di Carlo Castellaneta, appena
uscito, al quale fu dato, per non confonderlo con il documentario di Alain Resnais
Notte e nebbia, il titolo Un uomo d’ordine. La sceneggiatura avrebbe dovuto essere di
Alfredo Giannetti, la fotografia di Pasqualino De Santis, la scenografia di Enzo
Frigerio e le musiche di Fiorenzo Carpi, mentre il cast avrebbe visto recitare attori
del Piccolo Teatro di Milano del calibro di Tino Carraro e Giulia Lazzarini. Dopo
circa un anno dall’annuncio il progetto cambia ancora nel titolo che, adombrando
Céline, diventa Viaggio nella notte, nella sceneggiatura (Andrea Frezza), nelle scene e
costumi (Pier Luigi Pizzi) e nel cast (Gian Maria Volonté, Andrea Jonasson,
Miou-Miou, Agostina Belli, Yves Montand e Michel Piccoli). Si sarebbe trattato,
secondo quanto dichiarato dallo stesso regista, di una storia attuale che riguardava tutti:
Esternamente, nei fatti, è un film sulla fine storica del fascismo, ma internamente, nei
personaggi, è un film sul fascismo che è sopravvissuto e sopravvive dentro di noi, il male
oscuro della borghesia, di quella italiana in particolare, l’agguato dei sentimenti
d’ordine che nascondono e fanno da coperchio a un grumo contorto di irrazionalità.
(Pellizzari, 2014)
E ancora, mostrando le sue indubbie qualità anche di cineasta:
Il film avrà un andamento a zig-zag, a incastro, tra presente e passato . . . Avrà un
andamento critico-lirico. Non sarà una ricostruzione storica. Le immagini giocano
sulla geografia stilistica dell’epoca, le superfici fredde e falsamente eroiche del fascismo.
Tendo alla ricostruzione del retroterra dannunziano, base della nostra disfatta
Giacci
505
culturale. Non sarà un film neorealista, sarà una radiografia del fascismo interiore e
profondo del piccolo borghese. La realtà trasposta condurrà a quella vissuta.
Un racconto poetico-drammatico, senza espressionismi. Non si vedono tedeschi che
torturano. L’orrido viene da più lontano. Il protagonista sarà uno che non si sente mai
del tutto colpevole, perché non arriva alla vera consapevolezza dell’infamia. Un piccolo
borghese senza eroismi, sempre pronto a servire alla violenza delle degenerazioni della
società capitalistica, cioè il fascismo e il nazismo. Dietro, un mare di sottocultura.
(Pellizzari, 2014)
Le sue parole già mostrano uno sguardo filmico, fanno andare col pensiero a uno dei
film più profondi sul tema, Il conformista di Bernardo Bertolucci, dal romanzo di
Alberto Moravia, e fanno rimpiangere la mancanza di un oggetto che possedeva
tutte le caratteristiche per diventare un’opera eminente nella storia del cinema.
Quello che non è riuscito a Strehler, il trasferire la propria poetica dal teatro
al cinema, è stato invece possibile a un altro teatrante milanese, Gabriele
Salvatores (1950), già direttore del Teatro dell’Elfo. Da Sogno di una notte
d’estate, trasposizione cinematografica della commedia Sogno di una notte di
mezza estate di Shakespeare in un’ambientazione contemporanea, a Kamikazen,
passando attraverso peculiari esperienze creative di commercial e videoclip (realizzati
per Fabrizio De André e Grazia De Michele), a Marrakech Express, Turne´, fino a
Mediterraneo, vincitore del Premio Oscar, Salvatores da principio ha suggestionato
il pubblico, quindi ha attratto e modificato la difficoltà della critica verso un
universo visivo i cui ‘‘effetti speciali’’ sono rappresentati dalla straordinaria alchimia
di emozioni, sogni dell’anima, e l’impatto spettacolare con gli aggressivi fantasmi di
una realtà on the road.
L’esperienza di Gabriele Salvatores nel videoclip e nella pubblicità rivela proprio
la consapevolezza di un autore di volersi esprimere con il cinema attraverso la poesia
di un’immaginazione che crea ‘‘pensando cinema’’, prediligendo alle strutture
narrative o ai dialoghi l’intensità emotiva suscitata con i momenti della visione, la
definizione di un ‘‘corpo cinematico’’ nel quale personaggi e volti si stagliano come
gli inquietanti bassorilievi di un sogno. Quello del nuovo cinema italiano.
È il caso di Helzapoppin, opera teatral-cinematografica sulla consapevole
ribellione al linguaggio e al comportamento pianificato che esclude o emargina
l’attrazione dell’uomo contemporaneo verso il nonsense strutturale e linguistico
che rimette in discussione significati, valori, funzioni, e che riflette sull’eterna
relazione fra realtà e rappresentazione. Una ‘‘follia’’ come sola risposta possibile e
attuale all’ansia di verità ma anche come illusione/rappresentazione, come via
espressiva diversa alla comunicazione che non privilegi più la parola sull’immagine
(il teatro, tradizionalmente inteso) o l’immagine sulla parola (il cinema, altrettanto
tradizionalmente inteso) ma li superi entrambi, rischiando l’ibridazione, la fusione e
la con-fusione di strumenti espressivi diversi e non più antitetici ma cumulativi,
secondo gli insegnamenti della più aggiornata sociologia della comunicazione.
Helzapoppin si inscrive appieno in questa teoria, riproponendo testualmente una
libera interpretazione di un classico del cinema nonsense, il film omonimo di H. C.
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Potter (a sua volta riduzione per il cinema di una pie`ce teatrale) ma rielaborandolo
per sedimentazioni semantiche di tutta una tradizione cinematografica compresa fra
il testo filmico (del 1941) e l’attuale testo teatrale. Nello spettacolo, toccato dalla
grazia di un ritmo narrativo senza smagliature e del tutto inconsueto nella nostra
tradizione di ‘‘teatro di parola’’ e di un’altrettanto insolita inventiva figurativa che,
accanto all’effetto del verbo, riconosce ampio spazio al colore, alla luce, al suono, al
gesto ed al canto, si ritrovano espliciti riferimenti al cinema slapstick per eccellenza,
quello dei fratelli Marx – in particolare a Le noci di cocco (R. Florey e J. Santley,
1929), nella scena della stanza che si affolla sempre più di gente – fino a Woody Allen
e ai Blues Brothers; simboli del gag puro come Harold Lloyd e Buster Keaton;
dichiarate referenze a tutto il musical classico americano (nella scena del tip-tap a
sintesi iconica di tutto quel cinema che ha visto in Fred Astaire, Ginger Rogers e
Gene Kelly i modelli più eccelsi). Sottili rimandi, fra i quali quello del ‘‘quadro
bianco’’ delle ‘‘follie italiane’’ dove la musica è quella scritta da Nino Rota per
l’importante classico film sulla relazione fra realtà e sogno, verità e rappresentazione,
che è Lo sceicco bianco (1952) di Federico Fellini.
Il ‘‘matrimonio’’ cine-teatral-televisivo di Helzapoppin non si limita a questo,
perché sperimenta anche, ed è l’aspetto più innovativo, le infinite possibilità
d’integrazione espressiva fra messa in scena e ripresa televisiva, fra recita e
riproduzione su grande schermo, e non solo ‘‘in differita’’, con immagini
precedentemente registrate ma ‘‘in diretta’’, con la telecamera a spiare e a offrire
al pubblico, contemporaneamente, punti di vista diversi, campi d’osservazione
differenti e scomposizioni di prospettiva. Personaggi in scena e dietro le quinte,
al di qua e al di là di una porta; attori che appaiono sul palco dopo essere stati
visti di quinta; interpreti che conversano con se stessi; ‘‘totali’’ di attori sul palco
e ‘‘dettagli’’ in video delle loro espressioni: questi alcuni soltanto dei possibili
effetti, di un intelligente uso del mezzo elettronico. Salvatores aveva pensato di
usare nello spettacolo la televisione proprio perché la considerava il mezzo
più legato al rapporto finzione/realtà, al doppio e alla sua duplicazione, alla
‘‘divisione dei piani’’.
Non accettando il destino di un teatro lontano dalla vita, ripiegato su sé stesso a
celebrare i fasti di un’immutabile tradizione e del proprio lontano passato,
Salvatores dimostra di concepirlo, invece, come un lavoro inserito a pieno titolo
tra le esperienze artistiche più moderne, capace di rinnovarsi e di essere parte dei più
attuali sistemi della comunicazione.
Con tali scelte radicali sotto il profilo strutturale, inter-mediale e multimediale,
Salvatores, anche con le sue opere seguenti come Nirvana, Amnesia, Il ragazzo
invisibile, e senza dimenticare l’opportunità di una feconda relazione con le
espressioni letterarie (Denti, dal romanzo dello scrittore Domenico Starnone,
premio Strega e premio Campiello; Io non ho paura e Come Dio comanda, dai
romanzi omonimi del premio Strega e del premio Campiello Europa Nicolò
Ammaniti; Educazione siberiana, dal romanzo di Nicolai Lilin) e teatrali (dopo il
già ricordato Sogno di una notte d’estate, da Shakespeare; Happy Family, ispirato
dall’omonimo spettacolo teatrale di Alessandro Genovesi a sua volta influenzato dal
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dramma di Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore), ha sposato
concettualmente ed attuato praticamente l’idea che veniva portata avanti dal PSI,
attraverso le sue commissioni di lavoro sulla cultura e i suoi parlamentari, sulla
opportunità di un ‘‘matrimonio’’ tra le diverse forme di comunicazione (prima fra
tutti quello tra cinema e televisione), oggi promosso dalla prassi ma non ancora da
regole di riferimento, fuori da una progettualità che lo governi in maniera razionale
evitando preponderanze, opportunismi, lotte e prevaricazioni.
Esperienza analoga quella di Maurizio Scaparro (1932), socialista di lunga data,
membro anch’egli della commissione Teatro e dell’assemblea nazionale del partito, il
quale, oltre a una prestigiosa carriera teatrale iniziata come critico sulle colonne
dell’Avanti! e come fondatore della rivista Teatro Nuovo, proseguita come direttore
dei teatri Stabili di Bologna, Bolzano, Roma, del teatro di Roma e del teatro
d’Europa, nonché del festival Internazionale di Teatro della Biennale di Venezia e
come regista di teatro, con opere tra cui La Venexiana, commedia di anonimo
veneziano presentata al festival dei Due Mondi di Spoleto, poi con Vita di Galileo
(Bertolt Brecht, 1988); Memorie di Adriano (Marguerite Yourcenar, 1989), Teatro
Excelsior (Vincenzo Cerami, 1993); Le mille e una notte, un sogno
mediterraneo (Maurizio Scaparro, 1996); La coscienza di Zeno (Italo Svevo, 2013),
esordisce nella regia cinematografica, dopo il film televisivo Rocco Scotellaro,
adattando per lo schermo alcuni suoi spettacoli teatrali: Don Chisciotte, una
personale ed originale rivisitazione dell’omonimo romanzo di Miguel de
Cervantes, storia di un viaggio tutto mentale di un cavaliere errante che tenta di
migliorare il mondo con la fantasia, l’illusione e la follia; L’ultimo Pulcinella, da un
copione inedito di Roberto Rossellini che affronta in maniera attuale il tema del
degrado delle banlieue parigine a contatto con i problemi della seconda generazione
di emigrati nordafricani e della necessità di una loro integrazione grazie alla cultura;
Liolà, versione palesemente umoristica di una novella di Luigi Pirandello,
trasformata in favola giocosa ambientata in un piccolo ambiente rurale dove si
contrappongono sentimenti antitetici come generosità ed avarizia, spontaneità ed
interesse ed in cui si muove la stravagante figura di Liolà, contadino-poeta dotato di
un’irrefrenabile voglia di libertà, di carica vitale e di innata simpatia.
Per Mario Camerini (1895–1991), nato l’anno stesso dell’invenzione del
cinematografo e attivo durante il fascismo, dunque impossibilitato a realizzare
opere marcatamente politiche, va evidenziato il persistere non casuale dello sguardo
verso i ceti e gli ambienti più modesti, da quello piccolo borghese degli impiegati e
delle commesse a quello operaio. Cosı̀ nella descrizione delle disavventure di un
disoccupato che, spinto dalla necessità, ruba un’automobile (Molti sogni per
le strade), nonché la sua visione antimilitarista che gli impedisce di fare film
trionfalistici sul regime o sull’antica Roma.
Nelle sue opere, scrive Elisa Veronesi:
scorrono venature di un socialismo umanitario e sentimentale. La simpatia per
i semplici è più marcata, sia nelle commedie interpretate da Vittorio De Sica sia nelle
storie a filatura intimista, ma anche ne Il grande appello, dove la nota propagandistica è
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contrastata dalla schiettezza degli operai italiani che in Etiopia parlano ancora nei
dialetti della loro regione. (Veronesi, 2004: 102)
In un incontro che ebbi con lui al festival di Pesaro nel 1975 insieme a Roberto
Escobar per un’intervista sull’Avanti! ci confermò di essere socialista nenniano
e antifascista. Ci raccontò divertito di quando riuscı̀ a evitare di girare un film di
propaganda sull’aviazione voluto da Alessandro Pavolini, all’epoca ministro della
Cultura Popolare (Minculpop) adducendo come scusa di soffrire il mal d’aereo,
quando è noto a tutti che le sequenze di volo si possono ricostruire, e soprattutto
girare, a terra, e Pavolini mostrò (o fece diplomaticamente finta) di credergli, per non
privarsi di un cosı̀ valido regista.
Le cose non andarono però sempre cosı̀ bene poiché, come osserva ancora
Veronesi, ‘‘la sua fama di socialista gli procurò qualche guaio con il regime’’.
‘‘I miei film non erano graditi al fascismo – ha detto Camerini nel succitato
incontro – erano opere di evasione’’. Il termine, dal significato ambiguo, commenta
Roberto Escobar, va cosı̀ inteso:
[. . .] film come Il signor Max, Darò un milione, Grandi magazzini, e prima ancora Rotaie,
esprimevano una visione della vita e del mondo che era nettamente estranea al fascismo. È
chiaro che questa ‘‘evasione’’ non aveva nulla a che vedere con quella dei ‘‘telefoni
bianchi’’, che consisteva nel semplice disimpegno proposto al pubblico attraverso la fuga
cinematografica e mitizzata dell’alta borghesia e della nobiltà. Le ‘‘commedie’’ di Camerini,
al contrario, ironizzavano proprio sui ‘‘telefoni bianchi’’ e riproponevano al pubblico una
dimensione sociale ed umana molto più rispettosa della realtà. (Escobar, 1976: 5)
Il suo riscatto lo realizzò con il film Due lettere anonime, considerato la sua personale
Roma città aperta, girato anch’esso, come il capolavoro di Rossellini, nel 1945, in cui
si narra di un uomo e una donna che collaborano in una tipografia con la resistenza e
con i partigiani contro l’occupazione nazista. Carlo Lizzani, ricordando il suo
impegno come presidente dell’ANAC, lo ha definito ‘‘un combattente per la libertà
del cinema’’ (Fusco, 2011).
Di Alberto Bevilacqua si è in precedenza osservato come il contesto politico e
sociale sia presente praticamente in ogni opera, anche se quella in cui la sua posizione
politica spicca in modo più evidente è La califfa, dove si ripropone, nei personaggi
dell’imprenditore riformista e dell’operaia proletaria, la storica dicotomia tra
riformismo e massimalismo, gradualismo democratico e rivoluzione. Bevilacqua
ha mostrato spesso le convinzioni politiche socialiste attraverso un attivismo da
vero militante, come nel caso delle elezioni del 1979 quando teneva una rubrica
fissa a Radio Lazio, l’emittente messa a disposizione del partito dal cantante/
attore Claudio Villa, il ‘‘reuccio’’ della canzone italiana, già comunista poi fervente
socialista, nella quale dialogava con i radioascoltatori, in particolare proprio sulla
politica culturale del PSI.
Per quanto riguarda Mario Soldati va precisato che si è occupato di politica
iniziando a militare nell’area socialista già da subito dopo il delitto Matteotti,
Giacci
509
mentre nel dopoguerra si è candidato varie volte alle elezioni nelle liste del Partito
Socialista Italiano durante le segreterie di Pietro Nenni e Bettino Craxi, essendo
anche membro per diversi anni dell’assemblea nazionale.
La sua scelta di campo l’ha trasferita spesso nel lavoro di letterato e di
sceneggiatore, toccando temi e argomenti di evidente ispirazione socialista.
Per quanto riguarda, in particolare, l’attività di regista cinematografico, si pensi a
Fuga in Francia, film a soggetto originario nel quale si racconta l’espatrio clandestino
di un gruppo di disoccupati in cerca di lavoro, al quale si unisce, in incognito, un
criminale fascista che sta tentando di sfuggire alla giustizia.
Come osserva Bruno Torri, il calligrafismo e il formalismo con il ricorso al
romanzo italiano dell’Ottocento o del primo Novecento che è stato spesso
rimproverato al regista, di indubbia fede antifascista, era invece ‘‘un modo per
non correre il rischio di compromissione con il regime fascista ancora imperante’’
e mostra molto bene come ‘‘il sentimento, insieme cristiano e socialista che animava
l’uomo Soldati, il suo spontaneo atteggiamento solidaristico, trovava modo di
manifestarsi nella sua attività artistica’’ (Torri, 2006).
L’‘‘orrore e meraviglia’’ di cui parla Cesare Pavese sono invece i termini dentro cui
si iscrive tutto il cinema di Mario Monicelli (Consoli, 2011; Schembri, 2013), nato nel
1915 e morto nel 2010, che inizia facendo l’aiuto-regista del primo film di Pietro
Germi8 Il testimone (1946), per poi contare una filmografia di oltre sessanta film (e di
ben sei candidature all’Oscar), nei quali il cineasta racconta un’Italia vista con occhi
di poeta, da quelle ‘‘botteghe dei piccoli orrori’’ che possono essere le famiglie
(Parenti serpenti) all’orrore estremo e assoluto di una borghesia senza più valori e
dominata dal cupo istinto di sopravvivenza (Un borghese piccolo piccolo), per
soffermarsi sulla ‘‘meraviglia’’ del racconto picaresco (L’armata Brancaleone;
I picari; Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, Amici miei, Il marchese del Grillo),
sull’amara comicità del quotidiano (I soliti ignoti, La ragazza con la pistola);
sull’eroismo involontario (La grande guerra, uno dei migliori film sulla Prima
guerra mondiale ed uno dei capolavori della storia del cinema italiano, Leone
d’Oro al festival del Cinema di Venezia ex aequo con Il generale Della Rovere di
Rossellini e nomination all’Oscar come miglior film straniero); sul dramma sociale ed
esistenziale del boom e dell’integrazione (Romanzo popolare) e delle conquiste
politiche e sociali (I compagni, Speriamo che sia femmina); sulla storia recente del
paese (dalla resistenza di Lettere dei condannati a morte al rischio di colpo di stato di
Vogliamo i colonnelli, dal tema della lotta armata di Caro Michele alle proposte dei
giovani anti-G8 di Genova del documentario corale Un altro mondo e` possibile); sui
vizi nazionali su cui seppe posare lo sguardo ferocemente critico (Un eroe dei nostri
tempi, Le infedeli); sul mistero ironico/tragico della maschera sul cui volto attonito si
proiettano, come su uno schermo ‘‘secondo’’, i difetti dell’intera nazione (le opere
con Totò, da Totò a colori a Totò cerca casa, da Totò e Carolina a Guardie e ladri).
Di questo cinema cosı̀ violento, cosı̀ fragile, cosı̀ tenero, cosı̀ disperato, cosı̀ vero,
cosı̀ bello, cosı̀ felice, cosı̀ gaio, cosı̀ beffardo, Monicelli si è innamorato e da innamorato lo ha ri-trasmesso, magari in maniera burbera e caustica, com’era nel suo
carattere di ‘‘maledetto toscano’’.
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Forum Italicum 54(1)
Espressione di quella stirpe di geniali scrittori satirici e di costume come Flaiano e
Maccari e affiancato anch’egli da soggettisti e sceneggiatori di primo livello come
Age e Scarpelli, Benvenuti e De Berardi, Sonego e Suso D’Amico, Monicelli si è
dimostrato sensibile alla relazione cinema/letteratura con diverse pellicole tratte da
opere letterarie, a partire dal suo primo film I ragazzi della Via Pál, dal romanzo
omonimo di Ferenc Molnár a Proibito, da La madre di Grazia Deledda; da Caro
Michele, dal romanzo omonimo di Natalia Ginzburg a Un borghese piccolo piccolo di
Vincenzo Cerami; da Le due vite di Mattia Pascal, ispirato al Fu Mattia Pascal di
Luigi Pirandello a I picari, dal romanzo d’autore ignoto spagnolo Lazarillo de
Tormes; da Il male oscuro, da Giuseppe Berto a Facciamo paradiso, ispirato a un
racconto della raccolta Vite di Uomini non illustri di Giuseppe Pontiggia, un ritratto
al femminile della società italiana dal secondo dopoguerra al primo decennio del
XXI secolo, fino all’ultimo Le rose del deserto, ricavato da Il deserto della Libia di
Mario Tobino e da Il soldato Sanna, dall’opera La guerra d’Albania di Giancarlo
Fusco, uno dei più lucidi ed impietosi ritratti delle fallimentari guerre imperiali di
Mussolini.
Socialista convinto (ha detto di sé: ‘‘Ho una collocazione che è di sinistra,
socialista, unitaria, democratica, anticonformista’’ e, ancora, ‘‘Il punto di vista del
mio cinema è di sinistra, ma si potrebbe anche definire democratico per il suo stare
dalla parte dei deboli e mettere in luce le ingiustizie’’ (Schembri, 2013: 33). Iscritto al
partito e candidato alle elezioni comunali negli anni Cinquanta, figlio di Tommaso
Monicelli, commediografo di successo, redattore, direttore e critico teatrale
dell’Avanti!, suicida, come poi suo figlio, quando Mario aveva trentun anni,
Monicelli ha voluto dimostrare la sua convinzione politica occupandosi di
femminismo, antimilitarismo, sindacalismo e di classe operaia in molti suoi film ed
in uno in particolare, tra i suoi più intensamente e scopertamente politici, il cui
insuccesso gli causò molta amarezza perché animato da un forte sentimento civile
pur se all’interno degli schemi di quella ‘‘commedia all’italiana’’ che lo ha reso famoso
in tutto il mondo: I compagni. Scritto con gli sceneggiatori, anch’essi socialisti, Age e
Scarpelli, candidato all’Oscar per la miglior sceneggiatura, era una commossa rievocazione del socialismo torinese agli inizi del Novecento, con la descrizione della nascita
del sindacalismo. La storia è ambientata in una fabbrica tessile dove viene organizzato
per la prima volta, sotto la guida di un professore socialista, uno sciopero a oltranza per
la riduzione dell’orario di lavoro che sarà represso nel sangue ma che aprirà comunque
la via per le lotte future della classe operaia.
Ha scritto di lui Goffredo Fofi:
Era un socialista e credeva nella possibilità del cinema, e cioè nella cultura di massa
intellettualmente praticata, di rendere il popolo migliore. Come i migliori intellettuali e
artisti socialisti del passato, credeva nella possibilità di aiutare lo spettatore comune a
capir meglio il proprio contesto e sé stesso, a veder meglio i propri limiti e le proprie
menzogne e li metteva in luce per poterli combattere, per aiutare a cambiare. [. . .]
Monicelli non volle essere artista con la maiuscola ma artigiano con la minuscola,
conscio che questa parola debba avere gli stessi meriti dell’altra, non volle essere cantore
Giacci
511
di virtù inesistenti ma narratore e analista di vizi e virtù ben reali, vedendo le virtù
grandi e le virtù piccole non tra loro contrastanti ma rette dalle stesse finalità. [. . .] E
ancora: È stato un grande regista popolare perché era profondamente persuaso di una
visione del mondo e della storia, e cioè del rapporto tra le classi, tra potenti e sudditi, di
stampo decisamente socialista. (Fofi, 2011: 3–12)
Nel capitolo intitolato ‘‘L’eredità socialista’’, un’ampia intervista concessa sempre a
Goffredo Fofi, che lo sollecita a parlare delle sue convinzioni politiche, il regista
ricorda che la collocazione e l’idealità socialista gli vengono dal padre, che credeva:
in quel modello di socialismo d’area emiliana, umanitario, a volte perfino tolstoiano,
quello dei Prampolini, dei Massarenti. Un socialismo molto sentimentale, facile alla
commozione e alle lacrime. [. . .] Sono stato iscritto al Psi. Hanno voluto candidarmi, e
ricordo che Camerini mi disse di accettare, perché apparteneva anche lui a quella
generazione di socialisti che io chiamo degli affetti. La sera andavamo a fare la
propaganda per la mia elezione, a incollare i manifesti sui muri di Roma, che di
manifesti elettorali erano letteralmente ricoperti, e veniva anche Camerini, andava in
giro anche lui ad attaccare i manifesti col mio nome. Ma finı̀ che non fui
eletto . . . (Monicelli, 2011: 23)
Che cara immagine quella di questi due illustri cineasti che, come due semplici
attivisti di base, nottetempo affiggono manifesti per le vie della capitale! Che
sensazione di pulizia e di freschezza, e che testimonianza di servizio per un’idea!
Altro nome che nell’immaginario collettivo è indissolubilmente legato, insieme a
quello di Monicelli, alla ‘‘commedia all’italiana’’, è senza dubbio quello di Luigi
Comencini (1916–2007), con opere che ne costituiscono veri e propri capisaldi
come Pane, amore e fantasia; Pane, amore e gelosia; Lo scopone scientifico; Il
compagno Don Camillo. Va precisato che questo autore, che ha frequentato tutti i
generi, che è stato un pioniere del rapporto cinema-televisione e che ha calato il
realismo delle sue storie in atmosfere a volte satiriche, a volte melodrammatiche,
spesso fiabesche, con ritratti umani sempre filtrati da una forma di pietas sociale, si è
contraddistinto anche per la sua sensibilità al tema dell’infanzia e per la sua passione
per il cinema e la sua conservazione (ha fondato con Alberto Lattuada la Cineteca di
Milano) e, più in particolare, per la Storia.
Oltre a Cuore di De Amicis, che solo un regista socialista e interessato all’infanzia
come lui poteva concepire e attuare in modo cosı̀ magistrale e a La ragazza di Bube e
a La Storia, Comencini ha girato infatti Tutti a casa, ritenuto una delle punte più alte
del cinema italiano di quegli anni, ambientato tra le fila dell’esercito italiano
all’indomani dell’8 settembre 1943, data storica dell’armistizio che pose fine solo
formalmente alla guerra ma che diede avvio a uno dei periodi più difficili e
controversi del nostro paese nella sua transizione dalla dittatura alla democrazia,
e lo fa nella rappresentazione dolceamara dello sbandamento di un gruppo di soldati
improvvisamente privati di riferimenti e di valori in cui credere e, se del caso, per
cui morire.
512
Forum Italicum 54(1)
Comencini professò molto presto i suoi sentimenti socialisti e cosı̀ racconta
l’inizio della sua militanza:
Dopo l’8 settembre, pur essendo ufficialmente il fascismo rovesciato, la polizia politica
continuava ad arrestare e a mandare a Regina Coeli, e questa mala sorte toccò ad un
mio amico, Guglielmo Usellini, socialista, che riuscimmo a liberare fortunosamente dal
carcere. Prudenza volle però che Usellini lasciasse Roma dov’era segnalato e si decise
che andasse a Milano dove lo accompagnai. A Milano Usellini e io prendemmo
contatto con i compagni del partito socialista, in particolare con Lelio Basso, e ad un
certo punto fu deciso che andassimo in Svizzera dove, dopo varie vicissitudini,
approdammo a Lugano dove divenni un collaboratore del giornale socialista ‘‘Libera
Stampa’’. E cosı̀ fra il giornalismo e il cinema avevo scelto il giornalismo. Ritornai dalla
clandestinità in Italia dove entrai nella redazione dell’Avanti! e vi rimasi anche a
liberazione avvenuta, fino al 1946. (Luigi Comencini in Amaducci, 1994: 64)
Comencini iniziò dunque scrivendo sulle pagine de L’Avanti! (qualche volta gli
capitò addirittura di scrivere articoli firmati Pietro Nenni) con un’anima da
‘‘socialista speciale’’ al quale ‘‘più dei giochi politici, interessavano gli effetti della
politica sui comportamenti dei cittadini dell’Italia prima devastata e poi risorgente
dalla guerra’’ (La Stampa, 7 aprile 2007). Comencini è stato un maestro, spesso
sottovalutato, dal cui sguardo verso donne e bambini, i soggetti più indifesi della
società, traspare chiaramente una moderna ‘‘epopea degli umili’’ che si esprime nella
loro grandezza umana e quotidiana a rappresentare, in modo poetico, la realtà
sociale di tutto un paese.
Se è vero, come è vero, che un grande regista non è fatto di solo cinema ma anche
di letteratura, pittura, musica, Alberto Lattuada (1914–2005), aderendo in pieno
a questa scelta estetica e praticandola nel concreto di una prassi fotografica,
architettonica, letteraria e musicale, oltre che filmica, opta per una traiettoria
meno convenzionale e dunque più solitaria, in una dimensione estetica formale e
classica, spesso fraintesa come calligrafica quando invece era elegante e significante,
distaccata ed assoluta. Un percorso iniziato fin dalla gioventù nella città dove era
nato, Milano, figlio di un musicista, direttore d’orchestra e compositore, quando,
insieme ad altri giovani suoi coetanei (Alberto Mondadori, Mario Monicelli, Enzo
Paci, Remo Cantoni), polemizzava, da inquieto studente del liceo Berchet, con
Marinetti e il movimento futurista sulle pagine della rivista Camminare. Si iscrisse
poi alla facoltà di Architettura al Politecnico, fondando ed animando nel 1938,
insieme con Ernesto Treccani, la prestigiosa rivista ‘‘di fronda’’ Correnti (tra i
collaboratori Luciano Anceschi, Giaime Pintor, Eugenio Montale, Carlo Bo,
Gillo Dorfles, Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo), per le cui
edizioni pubblicò un bel libro di fotografie, Occhio quadrato; e poi ancora scrivendo
di cinema su Tempo Illustrato e di architettura su Domus; fondando nel 1938, insieme
a Luigi e Gianni Comencini e a Mario Ferrari, la Cineteca Italiana; organizzando nel
1940 un’importante retrospettiva cinematografica alla Triennale; ed entrando infine
nel cinema nel 1941 come sceneggiatore e aiuto regista di Piccolo mondo antico di
Giacci
513
Mario Soldati e nel 1942 di Sissignora di Ferdinando Maria Poggioli, iniziando in tal
modo una prolifica attività registica coronata dalla presidenza dell’Istituto Luce
negli anni Novanta.
Duro come un macigno quando serviva, per denunciare i disastri ed i crimini della
guerra (La Tempesta, Fraulein Doktor); le reti sottili e inquietanti della delinquenza e
del delitto (Il delitto di Giovanni Episcopo, Il bandito, Mafioso, L’imprevisto); i lati
oscuri e grotteschi dell’eros (Giacomo l’idealista, La lupa, Venga a prendere il caffe` da
noi, Le farò da padre, La cicala); o le perversioni dell’ipocrisia (Senza pietà, Il
cappotto, La spiaggia, Lettere di una novizia, La mandragola, Anna, Cuore di cane);
ma lieve come una nuvola quando parla dei sentimenti e delle inquietudini
dell’adolescenza e dei tabù dell’amore (La freccia nel fianco, Guendalina, I dolci
inganni, Cosı` come sei, Bianco, rosso e . . . , Oh! Serafina!), il suo cinema, sorta di
‘‘resistenza passiva’’ nei confronti del contenuto per affrontare in prospettiva il
discorso sullo stile, si incarna in un ideale formale dove il pre-testo narrativo,
scelto, ritrovato, adattato, riscritto dalle pagine della cultura letteraria della
nostra epoca (Bacchelli, Brancati, Bulgakov, Chiara, D’Annunzio, De Marchi,
Gogol, Landolfi, Piovene, Pushkin, Verga, Zuccoli) o del soggetto originale, arretra
per dar spazio e significato al solo elemento unificante di tanto eclettismo delle fonti,
l’essere segno e sogno della trascendenza e dell’allontanamento cosciente dall’Io,
forma che si fa struttura, luce che si fa colore, occhio narrante di corpi recitanti,
esibiti, trasgrediti e trasgressivi, corpi-scandalo duplicati nel piacere estatico e
sinuoso di un racconto che li fa belli e li fa essere spirito.
Nel cinema di Lattuada, corpo fantasmatico di corpi/spirito, non vi sono
personaggi interpretati ma attori che prendono il posto degli interpreti e che
dunque esibiscono se stessi, e tra i corpi dello scandalo e la rivelazione degli spiriti
Lattuada non dimentica la rivolta morale dell’autore nel suo essere visione del
mondo. Nel suo cinema senza inganno, infatti, c’è forse più denuncia sociale, più
battaglia contro l’ipocrisia, più lotta contro il malessere e l’ingiustizia di tanto
cinema ‘‘impegnato’’. Ciò che lo fa essere altro, e diventare ‘‘quell’obiettivo più
audace che dà la parte indiscreta della realtà’’, è lo sguardo limpido e crepuscolare,
filmico e meta-filmico, visione di violenza e di grazia, di asprezza e bellezza, di
macigni e di nuvole, di corpi e di inganni.
La sua scelta ideologica si vede più chiaramente in due opere, Senza pietà e Il
mulino del Po, entrambi sceneggiati da Federico Fellini e Tullio Pinelli. La prima si
svolgeva durante la Seconda guerra mondiale ed era fortemente antimilitarista ed
esplicitamente antirazzista, come spiega lo stesso regista: ‘‘Era il 1948, il momento
di mandare al mondo una lettera di sfida antirazzista, in modo particolare una
provocazione per l’opinione maccartista americana: la storia di un soldato nero
che ama una ragazza bianca’’ (Lattuada, 1995: 104).
Ugualmente esplicita la didascalia dopo i titoli di testa:
Soltanto quando cessa il rumore dei combattimenti gli uomini scoprono l’orrore della
guerra e si ritrovano persone ed il loro castigo si rinnova ogni giorno. Questo film vuole
essere una testimonianza di verità. La storia si svolge in Italia ma potrebbe svolgersi in
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Forum Italicum 54(1)
qualunque parte del mondo dove la guerra ha fatto dimenticare negli uomini la pietà.
(Lattuada, 1948)
Nella seconda, ispirata al terzo volume del romanzo omonimo di Riccardo Bacchelli,
la scelta appare anche più esplicita, trattando il film l’amore contrastato di due
giovani da parte delle famiglie, contadini e gestori di mulini nel delta ferrarese del
Po alla fine dell’Ottocento, e delle forti tensioni sociali provocate dalla tassa sul
macinato e dalle rigide condizioni di lavoro imposte dal padronato locale che
porteranno alla nascita della Lega dei Contadini, l’organizzazione socialista
che sosteneva le lotte dei coltivatori contro l’oppressione del governo. Si arriverà
allo sciopero generale, alla rivolta popolare e all’intervento armato dell’esercito che
si concluderà con una violenta repressione.
Con Lina Wertmüller (1928), pugliese da parte di padre e svizzera da parte di
madre, il che ne chiarisce in buona parte il carattere a un tempo elvetico e
mediterraneo, e prima donna regista della storia del cinema a ottenere una
nomination all’Oscar, il cinema italiano entra con forza ironica e provocatoria in
una grottesca ritrattistica tutta al femminile dei vizi italiani, esibiti, derisi e
demistificati con passionalità mediterranea. Dopo l’ingresso nel mondo del cinema
come meglio non si sarebbe potuto, in qualità di aiuto-regista di Federico Fellini per
La dolce vita ed 8 e mezzo, esordisce nella regia con I Basilischi, amaro affresco di
‘‘vitelloni’’ di provincia meridionale che girano a vuoto tra monotonia e pigrizia,
espresso già con maturo stile neorealista dal quale però la ‘‘scugnizza’’ Lina volle
subito fuggire per non rischiare di esserne ingabbiata girando due film musicali, Rita
la zanzara e Non stuzzicate la zanzara, con una scatenata Rita Pavone, e poi Il
Giornalino di Gian Burrasca sempre con la Pavone in ambiti maschili, figura di
‘‘discolo’’ in cui la regista stessa si è da sempre identificata.
L’incontro con Giancarlo Giannini e Mariangela Melato le permise di mettere in
scena opere dal sapore agrodolce che, pur descrivendo i vizi del nostro paese, la
fecero conoscere, ammirare e premiare in tutto il mondo: Pasqualino Settebellezze, il
suo film più noto, ottenne infatti ben tre nomination all’Oscar.
Di provata fede socialista, membro dell’assemblea nazionale del PSI e attiva nelle
campagne elettorali, Lina Wertmüller non si è distinta soltanto per la satira di costume ma anche per quella politica toccando, pur se con toni più ironici e
grotteschi che drammatici, temi come l’emigrazione meridionale, nella storia di un
giovane licenziato per le proprie idee di sinistra che si vede costretto a lasciare la sua
terra per trasferirsi a Torino, cuore del capitalismo del Nord per poi diventare
galoppino elettorale di un esponente della mafia siciliana; con la descrizione
dell’inevitabile scontro di costumi e valori (Mimı` metallurgico ferito nell’onore) o
nell’affresco di un gruppo di giovani emigrati a Milano dove qualcuno si integra e
qualcuno si perde (Tutto a posto e niente in ordine); il tentativo di un anarchico
che negli anni Trenta, per vendicare un amico ucciso dai carabinieri, progetta un
attentato non riuscito a Mussolini, viene catturato e muore in carcere in un omicidio
simulato da suicidio (Film d’amore e di anarchia); il temporaneo e trasgressivo
capovolgimento di ruoli sociali tra una ricca signora alto borghese ed un
Giacci
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sottoproletario comunista che rientra presto nell’ordine e nella norma (Travolti da un
insolito destino nell’azzurro mare d’agosto); la crisi ideale e politica di due giovani
sposi, lui italiano e comunista, lei americana e femminista, conosciutisi nel mitico
‘68, che sopraggiunge a dieci anni dal loro matrimonio (La fine del mondo nel nostro
solito letto in una notte piena di pioggia); i conflitti di classe di un operaio
di Rifondazione Comunista e di una parrucchiera leghista (Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica); la rete di malavita, criminalità, complicità e
omertà che coinvolge una città come Napoli senza risparmiare nessuno, uomini,
donne e bambini (Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti); oppure argomenti
dolorosi o scottanti come il terrorismo durante gli ‘‘anni di piombo’’ (Scherzo del
destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada); o l’Aids (Una notte di
chiari di luna) o più direttamente storico come gli ultimi giorni di vita di Ferdinando
di Borbone, re di Napoli, nell’Europa del 1789 scossa dal vento della rivoluzione
francese (Ferdinando e Carolina); o ancora la violenza e la lotta contro l’ingiustizia in
Sicilia subito dopo la marcia su Roma, incarnata nelle figure della vedova di un
avvocato socialista che tenta l’occupazione delle terre e viene punita con l’olio di
ricino dai fascisti e di un cugino della donna che ha fatto fortuna con il contrabbando
(Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova . . . si sospettano moventi
politici).
Abbastanza diversi invece perché più metaforici, anche se sempre radicati nella
realtà sociale, sono infine, Sabato, domenica e lunedı`, da Eduardo De Filippo; il
già ricordato Ninfa Plebea, da Domenico Rea; Io speriamo che me la cavo,
sull’educazione infantile fondata sull’umanità piuttosto che sull’autorità in un
quartiere urbano periferico e particolarmente degradato, che ricorda alcune
pagine del Cuore del socialista De Amicis rivisitato in chiave contemporanea; ed il
suo ultimo, in ordine di tempo, Peperoni ripieni e pesci in faccia, sull’organizzazione
di una festa in terrazza per ritrovare nell’amore e non nei doveri parentali, il senso
più autentico e genuino della convivenza familiare.
Damiano Damiani (1922–2013), esprimendo in maniera netta la propria
appartenenza progressista e socialista lungo la sua filmografia e nonostante le
apparenti ‘‘intromissioni’’ in generi diversi, dal western sulla rivoluzione messicana
(Quien sabe?; Un genio, due compari, un pollo) alla commedia (La rimpatriata, Una
ragazza piuttosto complicata), dal giallo e al poliziesco (Il rossetto; Goodbye & Amen;
Un uomo in ginocchio; Alex l’ariete), al gotico (La strega in amore) e all’horror
(Amityville Possession), ha sempre mostrato attenzione particolare sia alla storia,
con un film insolito come L’inchiesta, indagine condotta da un emissario
dell’imperatore Tiberio inviato in Giudea a cercare di capire la strana vicenda di
un uomo crocefisso e poi risorto di nome Gesù, e un film tv, Il treno di Lenin, dove si
narra che la Germania del 1917, convinta della possibilità di imprimere una svolta
alla Prima guerra mondiale se Lenin fosse rientrato in Russia e avesse fatto cadere il
governo provvisorio di Alexandre Kerenski per poi chiedere l’armistizio, concesse il
permesso di transito al leader bolscevico, cosı̀ contribuendo imprevedibilmente a
cambiare la storia. Damiani diede spazio anche alla cronaca, con Girolimoni, il
mostro di Roma, la vicenda di un fotografo ingiustamente accusato di pedofilia
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Forum Italicum 54(1)
e violenza sessuale nei primi anni del fascismo, arrestato e poi scarcerato per
mancanza di indizi ma ormai irreparabilmente distrutto nella sua reputazione,
uno dei primi casi di ‘‘linciaggio mediatico’’; con La moglie più bella, sulla vicenda
di Franca Viola, la prima donna a rifiutare il ‘‘matrimonio riparatore’’ diventando
in tal modo il simbolo dell’emancipazione femminile nell’Italia del secondo
dopoguerra9 e con Il sicario, ispirato al ‘‘caso Fenaroli’’.10
Damiani dà corpo a un cinema robusto e popolare di forte impatto civile,
soffermandosi in particolare sulla mafia e sulle sue collusioni con le istituzioni e la
pubblica amministrazione, con diversi film, come Il giorno della civetta, che trae
spunto dall’omicidio del sindacalista Accursio Miraglia a opera di ‘‘Cosa Nostra’’;
L’avvertimento, sui rapporti tra finanza e criminalità, e la corruzione del potere
ottenuta attraverso versamenti di denaro sui conti correnti degli investigatori; Io
ho paura, sul malaffare e i servizi segreti deviati; Pizza Connection e Il sole buio e
ancor più con la serie televisiva La piovra, andata in onda complessivamente in dieci
miniserie dal 1984 al 2001 e di cui Damiani ha diretto la prima (Florestano Vancini la
seconda; Luigi Perelli dalla terza alla settima e poi di nuovo la decima; Giacomo
Battiato l’ottava e la nona), ancor oggi considerata la serie italiana più famosa al
mondo, con altissimi indici d’ascolto e vendite in oltre ottanta paesi.
Altri temi principali sono i rapporti illeciti tra criminalità organizzata e finanza, il
cattivo funzionamento della giustizia e del sistema carcerario (L’istruttoria e` chiusa:
dimentichi) e la relazione tra politica e magistratura, argomento quest’ultimo che
sarà oggetto di ampia discussione (e divisione) politica nel paese a partire dagli anni
Novanta. Perche´ si uccide un magistrato, per esempio, descrive il conflitto che si viene
a creare tra chi si occupa di giustizia e stampa scandalistica, inducendo al suicidio, in
forte anticipo su quanto sarebbe in seguito avvenuto in Italia, mentre con L’angelo
con la pistola e con il film tv Parole e sangue Damiani si occupa poi, rispettivamente,
di un commissario di polizia che, disilluso per l’uscita dal carcere per decorrenza dei
termini di un gruppo di malviventi da lui arrestati, decide di farsi giustizia da
sé diventando un killer, e degli ‘‘anni di piombo’’, con protagonista un giovane
aspirante terrorista che per farsi accettare dalle Brigate Rosse rapisce un magistrato.
Questo cinema duro, diretto, privo di ambiguità o incertezze, che sembra non
‘‘ri-costruire’’ ma registrare gli avvenimenti riprendendoli come se si svolgessero in
quel momento davanti alla macchina da presa, si incrina in un’opera inconsueta
come Gioco al massacro, dove, senza dimenticare il cote´ poliziesco, il rapporto di
gioco-sfida-scommessa tra due registi cinematografici si tramuta in uno scontro
metalinguistico tra l’inadeguatezza artistica dell’uno e la maestria dell’altro.
Come la quasi totalità degli altri registi considerati, anche Damiano Damiani non
trascura la relazione del suo cinema con la letteratura, anche internazionale, a partire
dallo scrittore che più si è occupato dei temi cari al regista, Leonardo Sciascia, del
quale trasporta in film il romanzo omonimo Il giorno della civetta, per proseguire con
Elsa Morante (L’isola di Arturo) e Alberto Moravia (La noia). La strega in amore è
ricavato invece dal romanzo Aura dello scrittore messicano Carlos Fuentes;
L’istruttoria e` chiusa: dimentichi dal libro Tante sbarre di Leros Pittoni; Goodbye
& Amen da Sulla pelle di lui di Francis Clifford; Assassini dei giorni di festa dal
Giacci
517
romanzo dello scrittore argentino Marco Denevi. Per completezza di informazione,
si aggiunge che alle doti di regista, sceneggiatore e scenografo, Damiani ha aggiunto
quelle di pittore e, per una volta, di attore, interpretando, nel film di Florestano
Vancini Il delitto Matteotti, la parte del parlamentare Giovanni Amendola.
Una biografia sull’altra grande figura politica italiana di quegli anni, Antonio
Gramsci, fondatore del Partito Comunista Italiano, non viene effettuata, come ci si
sarebbe potuto attendere, da un cineasta militante di quel partito ma da un regista di
area socialista, Raffaele Maiello (1934–2013), regista cinematografico e teatrale,
sceneggiatore e giornalista. Assistente per dieci anni di Giorgio Strehler al Piccolo
Teatro di Milano, ha esordito a sua volta nella regia teatrale con l’Enrico IV di
William Shakespeare, dirigendo in seguito Unterdenlinden di Roberto Roversi;
Marat-Sade di Peter Weiss; L’isola purpurea di Michail Bulgakov; Nella giungla
della città di Bertolt Brecht.
Per il cinema ha realizzato Non si scrive sui muri a Milano, che narra le
drammatiche vicende di una giovane operaia milanese che cerca di comunicare il
suo malessere scrivendo sui muri della metropoli lombarda attraversata dalle
goliardiche incursioni di un gruppo ‘‘underground’’ che attacca i passanti fino
all’inevitabile, tragico epilogo: il suicidio. Con La vita di Gramsci, uno sceneggiato
in quattro puntate, precedentemente messo in scena nel film I giorni del carcere
(Lino Del Fra, 1977), Maiello costruisce la cine-biografia di uno dei maggiori
rappresentanti della politica italiana del Novecento in modo asciutto e
rigorosamente documentato. Si parte dal 1919, quando Gramsci fonda il giornale
Ordine Nuovo dopo l’uscita dall’Avanti!, comprendendo la scissione di Livorno del
1921 da cui nasce il Partito Comunista Italiano, passando per il periodo trascorso a
Mosca, il ritorno in Italia e gli anni del carcere fino alla morte nel 1937,
coniugando efficacemente la ricostruzione storica con lo stile documentaristico e
l’interpretazione affidata alla sobria recitazione di Matteo Sbragia.
Militante socialista di lunga data Marco Leto (1931–2016), dopo essersi formato
come aiuto-regista di Franco Rossi (Morte di un amico, 1959; Odissea nuda, 1961;
Smog, 1962) e di Florestano Vancini (La lunga notte del ’43, 1960) e aver esordito con
sceneggiati e programmi televisivi di tipo storico come Il processo di Verona,
Incidente a Vichy; L’affondamento dell’Indianapolis; Oplà noi viviamo; La resa dei
conti, sull’ultima seduta del Gran Consiglio, il 25 luglio 1943, quando, con ordine
del giorno Grandi, Mussolini viene messo in minoranza e arrestato; La rivolta dei
decabristi, sull’insurrezione di un gruppo di ufficiali contro lo zar avvenuta un secolo
prima della rivoluzione russa e repressa nel sangue, e il film Donnarumma all’assalto,
tratto dal libro di Ottiero Ottieri di cui si è già parlato, firma, con La villeggiatura,
uno dei film più efficaci su fascismo e antifascismo, certamente tra i più rispondenti a
una lettura politica socialista, in particolare per l’analisi compiuta sulle differenze e
divergenze ideologiche all’interno della sinistra, fra socialismo e comunismo e per
l’insolita interpretazione di un fascismo ‘‘in camicia bianca’’, che fece ottenere a
Mussolini, perlomeno inizialmente, anche il consenso del ceto medio moderato.
Il film prende spunto dal rifiuto del giuramento di fedeltà al regime di un titolare
di cattedra universitaria, il professor Rossini, il quale, a causa del gesto, viene privato
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Forum Italicum 54(1)
dell’incarico, sottoposto a processo e condannato a cinque anni di confino.
Condotto sull’isola, Rossini ha un primo impatto con la realtà della nuova
situazione ma il direttore della colonia, il commissario Rizzuto, vecchio allievo di
suo padre, famoso docente di diritto, quasi per non voler far torto all’illustre
cattedratico di cui serba un vivo ricordo, cerca progressivamente di conquistarne
la fiducia, alleviandone sempre più la condizione e concedendogli quelle comodità
delle quali il nuovo confinato sente la mancanza, giungendo perfino a consentire alla
moglie di raggiungerlo sull’isola.
Il professor Rossini si trova cosı̀ a dover trascorrere più una vacanza che una
detenzione, ma gli incontri con gli altri confinati comunisti11 per i quali la vita
della colonia è ben più dura, sottoposti come sono alle continue angherie ed alle
provocazioni di Guasco, il prepotente capo manipolo della milizia locale, lentamente
gli chiariscono il fatto che la sua condizione relativamente agiata non deriva tanto
dalla benevolenza del regime quanto da un privilegio di classe che è concesso a lui (e
agli altri come lui) in quanto intellettuale borghese.
Dibattuto tra il settarismo dei confinati, la propria coscienza democratica e le
melliflue attenzioni del commissario, Rossini è indeciso sul da farsi ma sarebbe quasi
pronto a cedere al compromesso che gli viene sollecitato per lettera anche dal padre,
se uno dei comunisti, Scagnetti, non venisse ucciso in un delitto nel quale è evidente
la mano del regime. Scosso da questa morte violenta e dalla logica della violenza di
stato che ne è la causa, Rossini decide di fuggire dal confino per continuare nell’opera
di Scagnetti di organizzare i gruppi dei fuoriusciti politici. La villeggiatura è finita.
Per il professore si apre la via della lotta.
Il film è compreso tra due didascalie: quella iniziale è un pensiero di Goethe, ‘‘Ciò
che qui è narrato è realmente accaduto: niente è accaduto cosı̀ come qui è narrato’’
mentre quella finale avverte che Rossini ha due date per morire: una morte eroica sul
campo di battaglia nella guerra di Spagna nel 1936 contro il fascismo di Franco o
una morte civile in Italia, dopo il 18 aprile 1948, giorno in cui le elezioni politiche del
nuovo stato repubblicano nato dalla resistenza diedero la maggioranza assoluta al
partito Democratico Cristiano. Entrambe le didascalie manifestano l’intenzione
metalinguistica del regista, che usa tutta una serie di dati storici ma che non vuole
fare un film di esclusiva ricostruzione storica. I modi, i tempi, le circostanze sono cioè
mediate dalla volontà dell’autore che traccia costantemente il fatto alla luce
dell’attualità più che della riproposizione esteriormente fedele di avvenimenti
passati, per metterne in evidenza costanti ed analogie.
Quello che conta è la volontà di far rivivere una determinata realtà d’oggi
attraverso l’immediata riflessione del regista (e dello spettatore). La villeggiatura è
allora un film simbolico sul fascismo e sull’antifascismo presentati non
oggettivamente ma plasmati dalla coscienza e soggettivati dallo sguardo
dell’autore che non vuole semplicemente immettere lo spettatore nella realtà del
1930 ma stimolare la sua riflessione sul peso che quella realtà ha sugli eventi
odierni. Nel film il fascismo è visto nel suo duplice aspetto, quello della brutale
violenza squadrista del capo manipolo Guasco, per cui il confino pagato a spese
dello stato è un regalo del tutto incomprensibile fatto a gente meritevole, secondo
Giacci
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lui, solo delle più volgari umiliazioni, e quello della cortese moderazione del
commissario Rizzato, ‘‘funzionario’’ più che ‘‘sbirro’’, civile e colto burocrate
di una macchina statale che deve essere perfettamente funzionante e per il
quale il gesto di ribellione di Rossini è soltanto un atto avventato giustificabile
dalla natura impulsiva e dalla giovane età (‘‘Via, lei, il figlio di suo padre, come
uno scavezzacollo!’’ (Leto, 1973)).
Il vero discorso sul fascismo che a Leto interessa proporre deriva appunto da
questa posizione. Non sono cioè i pittoreschi individui come Guasco a determinare le condizioni oggettive di un regime, non essendo altro che fantocci, cliche´ di
comodo, bensı̀ i Rizzuto, ‘‘quelle migliaia di persone per bene, gente d’ordine e di
legge’’ (Leto, 1973) che vedono nello stato un’entità di cui bisogna a qualunque
costo garantire la continuità, indipendentemente dai mezzi necessari per raggiungere il risultato.
‘‘Lo stato di per sé non è mai né autoritario né liberale’’ (Leto, 1973), afferma il
commissario, ma usa di queste diverse forme a seconda delle circostanze. Il direttore
del confino fascista cosı̀ può tranquillamente andarsene in pensione e, tra vent’anni,
assolto nella sua coscienza, scegliersi il partito per cui votare, senza minimamente
entrare in contraddizione con sé stesso.
Il fascismo, come lo intende Marco Leto, non è quindi quello dell’orbace e del
bastone ma quella sorta di moderatismo conservatore, di trasformismo politico, di
culto dello stato per lo stato che, attraverso le soluzioni in apparenza cosı̀ antitetiche
di dittatura e di democrazia, continua a essere l’espressione di un sistema dominante
contrario agli interessi delle classi popolari.
Anche l’antifascismo è osservato sotto un duplice aspetto, quello rivoluzionario
dei confinati proletari, che provano sulla loro pelle tutta l’ingiustizia del regime, e
quello ideale, più di gusto che di ferma convinzione politica, del professor Rossini
che con il suo rifiuto ha inteso dire di no solamente al fascismo ‘‘in camicia nera’’,
cioè all’aspetto più retrivo e più superficiale del regime ma che si lascia fin quasi
all’ultimo sedurre dai modi civili del commissario in doppiopetto.
Ha inizio cosı̀ la crescita politica, e il confino diventa una scuola di teoria e pratica
rivoluzionaria dove Rossini (docente di Storia Moderna) è l’allievo ed i proletari gli
insegnanti. Le lezioni sullo stato; i vari scambi di opinione con Rizzuto; le sue ciniche
giustificazioni dell’assassinio politico (‘‘La morte di Scagnetti è da addebitarsi ai
soliti, futili motivi: del resto questa è l’unica ipotesi possibile per le autorità
costituite’’ (Leto, 1973)); l’opposizione stessa ai funerali dell’ucciso ‘‘per evitare
una speculazione politica’’; i principi dell’ordine a tutti i costi in base ai quali ‘‘per
il bene di tutti è necessario chiudere la bocca alla verità’’ (Leto, 1973), rendono
sempre più evidente quella realtà che Rossini finora non aveva saputo comprendere.
Tutti i suoi credo politici si sfaldano facilmente contro l’incisiva affermazione di
Scagnetti: ‘‘Giolitti sarà stato un grande uomo politico, ma per te. Per noi è solo
un nemico di classe’’ (Leto, 1973).
‘‘Una scelta antifascista di fondo – dice Leto – è sempre una scelta di classe’’, il che
significa appunto l’abbandono delle posizioni neutrali e dell’estraneità alla militanza
politica per entrare nel vivo della lotta. Ma questa presa di coscienza era fino allora
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Forum Italicum 54(1)
stata ostacolata in Rossini dall’equivoco di una cultura distaccata dalla realtà sociale
alla quale era stato educato; un sottile gioco che il commissario cerca di proseguire
durante il confino con quei suoi richiami allo ‘‘studio come contributo all’ordine e
non alla sovversione’’ che non sono certo affermazioni indifferenti. Cosı̀ come non
sono indifferenti o neutrali la musica di Verdi, nella quale Rossini vede ‘‘un’arma per
la libertà’’ mentre per Rizzuto (che tiene in bella vista nel suo studio un busto del
compositore) essa è ‘‘un’arma per la libertà . . . della patria’’, né il teatro popolare dei
pupi, ‘‘questa egemonia culturale che dura da secoli e che può ammettere anche
un guizzo di ribellione, se è subito seguita dal pentimento’’; al contrario:
sono esempi di espressioni culturali che derivano da ben determinate condizioni
politico-sociali.
Dallo scontro dialettico tra le diverse personalità di Rossini e Rizzuto emerge la
verità e il professore si accorge del suo formale perciò inutile rifiuto di fedeltà a un
regime che di fatto appoggia con la propria neutralità e con l’accettazione dei
privilegi che da essa derivano. Ma per uscire dalla contraddizione, deve compiere
una scelta, ‘‘deve trasformarsi, da intellettuale borghese, in intellettuale d’origine
borghese’’ (Leto, 1973).
La villeggiatura tratta una serie di avvenimenti reali, ma non vuole essere un film
realistico, o perlomeno non solo. È piuttosto un itinerario mentale (figurativamente
reso mediante la morbidezza del bianco e nero che smussa e rende più evanescenti
i contorni) alla ricerca di quelle situazioni del passato che ancora possono
condizionare la vita odierna. Questo fa sı̀ che il film esca da una costruzione
rigidamente storica per allargarsi a forme e significati più vasti, a un incontro tra
certezza e possibilità, tra verità ed illusione politica. A Leto non interessa soltanto la
vicenda di un certo ben individuato professor Rossini (c’è, è vero, una possibile
allusione, sottolineata anche nel nome, alla figura storica di Carlo Rosselli, del
quale compare una fotografia durante i titoli di testa, e che effettivamente era
stato confinato a Lipari, era stato per un certo periodo di tempo anche raggiunto
dalla moglie, ed era poi fuggito assieme a Emilio Lussu, Gioacchino Dolci e
Francesco Fausto Nitti, ma rimane appunto solo un’ispirazione che non penetra
nelle ragioni più intime del film) quanto la rappresentazione di uno stato d’animo,
quello di chi si era illuso di poter passare attraverso la bufera fascista come se fosse
una ‘‘vacanza morale’’, un periodo da superarsi nel modo più indolore possibile con
il semplice ritiro dalla vita pubblica, anche a costo di abdicare alla propria coscienza
ed alla propria libertà.
Il film diventa allora il quadro simbolico di una villeggiatura dove ‘‘gli alibi non
mancano per convincerci a rinunciare’’ e di un mondo che vive il tempo del
compromesso, perché ormai ‘‘diventa sempre più difficile capire quando si è
cominciato a rinunciare’’ (Leto, 1973). E questa villeggiatura è la scelta del
disimpegno, dell’inattività politica, delle ore trascorse a far niente in attesa dei
momenti migliori; la metafora di una dolce prigione in cui il rifiuto dell’azione è
compensato dal regime con la tolleranza, la relativa liberalità, la comprensione.
L’isolamento in un posto tranquillo, il conforto dei libri, della musica e della
famiglia, non appartengono strettamente all’idea che ci si può fare del confino:
Giacci
521
forse piuttosto ricordano le migliaia di piccoli confini privati che venivano creati
senza muoversi dalla propria abitazione.
Marco Leto dimostra con questa sua opera prima di possedere anche eccellenti
doti di sintesi cinematografica. Basta pensare alle poche sequenze che gli sono
sufficienti per dipingere tutta una situazione, del contrasto tra anarchia e marxismo
ed i diversi stimoli di reazione alla provocazione fascista. Il comunista usa di un
maggior autocontrollo nel valutare le conseguenze positive e negative del proprio
gesto perché si impone una maggiore disciplina nell’organizzazione della lotta,
mentre l’anarchico non riesce a pronunciare le parole ‘‘Viva il Duce!’’ ed inneggia
all’anarchia, esponendosi cosı̀ troppo facilmente all’ira del fascista. È tuttavia
Scagnetti che lo difende, con un significativo gesto di solidarietà tra proletari, e
dei due è ancora Scagnetti che poi, in realtà, pagherà con la propria vita. ‘‘Uno
come Scagnetti – commenterà il professore – dà sempre fastidio. Dava fastidio
anche a me’’ (Leto, 1973).
Il film affronta un importante tema, che viene svolto con un ritmo largo e secondo
un linguaggio tradizionalmente puro, anche se spesso aperto a interessanti ed
originali soluzioni formali. E il fatto che il film non dissoci mai le intenzioni politiche
dalle scelte espressive, ma anzi rifletta costantemente la ricchezza delle sfumature
psicologiche nella ricerca dell’immagine significante, costituisce il riconoscimento
che il regista vuol dare, con un’opera fine ed intelligente, al gusto ed all’intelligenza
del pubblico.
La villeggiatura è dunque un’opera dialogica che vuole aprire alla discussione,
metodo che il regista, nella sua risposta a un articolo polemico di ‘‘Rinascita’’,
rivendica al patrimonio culturale socialista ed al suo ruolo di cineasta militante:
Nel Partito Socialista – in cui milito ormai da quasi vent’anni – siamo abituati a
discutere su tutto, in un clima di civiltà e di rispetto, ma senza inutili soggezioni.
Il diritto-dovere alla discussione me lo dà l’essere un militante della sinistra prima
ancora che autore cinematografico, perché questa seconda attribuzione non esclude
la prima; anzi, semmai, la rende più impegnativa. (Leto, 1973: 79)
Oltre ad altri lavori su temi storici e politici come Beatrice Cenci, Gli strumenti del
potere, storia di un tipografo di idee socialiste che all’inizio degli anni Venti viene
assassinato da una squadraccia fascista che resta impunita perché protetta dall’alto; Le radiose giornate, sull’ingresso in guerra dell’Italia nel maggio 1915 e a
Dodici uomini arrabbiati, sorta di remake del film di Sidney Lumet La parola ai
giurati, le opere successive di Marco Leto saranno quasi tutte ricavate da testi
letterari: Incidente a Vichy ed Erano tutti miei figli, dai drammi di Arthur Miller;
Oplà! Noi viviamo dalla commedia di Ernest Toiler; la serie televisiva Philo Vance,
dalle opere sul personaggio più famoso ideato da Dick Van Dyke; Al piacere di
rivederla, dal romanzo Ritratto di provincia in rosso di Paolo Levi, su un’inchiesta
di omicidio che porta alla scoperta degli affari illeciti e della vita corrotta della
vittima, a capo di una potente famiglia emiliana legata al potere; Rosso veneziano,
dal romanzo storico-politico di Pier Maria Pasinetti sul conflitto tra arte e
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Forum Italicum 54(1)
politica; I vecchi e i giovani, dal romanzo di Luigi Pirandello, ambientato nella
Sicilia dei moti dei Fasci del 1893, dilaniata dalle lotte di classe incarnate in
personaggi-simbolo, dal nobile fedele suddito borbonico all’esponente della
nuova borghesia capitalista post-risorgimentale, dal garibaldino deluso nelle sue
aspettative rivoluzionarie al giovane principe sostenitore delle nuove idee, e dove
vengono messi in scena i contrasti anche generazionali derivanti dai ‘‘fallimenti
collettivi’’ del risorgimento (come processo di rinnovamento; come strumento di
liberazione e di sviluppo) e del socialismo come ripresa del movimenti risorgimentale. In quest’opera, decisiva per meglio comprendere gli sviluppi storico
politici che lo avevano portato a realizzare La villeggiatura, Leto fa proprio il
giudizio severo di Pirandello sul processo di riunificazione dell’Italia.
Nelle opere successive, il regista abbandona l’analisi più direttamente politica per
privilegiare uno sguardo introspettivo sui personaggi, come in Quaderno proibito, dal
romanzo di Alba De Céspedes, dove il regista tratta della condizione femminile
attraverso la scrittura da parte di una donna vista nei suoi ruoli di moglie e madre
all’interno dell’ambiente chiuso e soffocante di una famiglia piccolo borghese
romana, di un diario in cui confessare anziché esprimere, come se fossero, appunto,
proibite, le proprie necessità e le proprie insoddisfazioni; o ne Il nocciolo della
questione, dalla novella di Graham Greene, che racconta di personaggi specchio di
un’umanità fragile, peccatrice, squassata da dissidi interiori, incertezze, passioni a
contrasto, in dialogo con Dio ma incapaci di pentimento e di perdono, alla continua
ricerca di quel ‘‘nocciolo’’ che è sempre uno scavare nella propria anima per
verificarne l’essenza interiore a confronto di un mondo esterno che irrompe
bruscamente nel destino di ciascuno mettendolo impietosamente di fronte alle
proprie scelte; e cosı̀ anche in Una donna spezzata, dal romanzo omonimo di
Simone De Beauvoir, il racconto di una donna borghese pienamente realizzata e
soddisfatta di sé che precipita nella depressione e nell’autodistruzione dopo aver
scoperto il tradimento del marito; per tornare alla tematica politica con L’uscita e
A proposito di quella strana ragazza, sul problema del reinserimento nella società
di ex-terroriste.
Di Aldo Florio (1925–2016), regista di genere essenzialmente avventuroso, va
ricordato in questa sede il film più politico, Una vita venduta, uno dei rari film
sulla guerra civile spagnola che narra di due italiani membri della legione fascista
‘‘Dio lo vuole’’ reclutatisi per ragioni ‘‘mercenarie’’ diverse, l’uno per uscire dalla
propria condizione di minatore di zolfo e acquistare un piccolo campo da coltivare,
l’altro per raggiungere l’America dove ha lasciato la famiglia. Entrambi hanno però
un destino tragicamente segnato: mentre il primo prende coscienza dell’orrore di una
guerra fratricida, l’altro non esiterà a passare al collaborazionismo giungendo a far
parte del plotone d’esecuzione che sparerà proprio sull’amico reo di essersi ribellato
all’ordine disumano di un superiore.
La scelta del regista di mettere in scena personaggi italiani nell’ambito di un
conflitto fuori dai nostri confini vuole con ogni evidenza elevarsi a riflessione sui
drammi terribili che ogni guerra civile reca con sé, compresa quella italiana sulla
Giacci
523
quale soltanto decenni dopo l’uscita del film gli storici avrebbero iniziato a
soffermarsi con maggiore obbiettività e profondità d’analisi.
Giornalista scrittore, regista, conduttore radiotelevisivo, socialista da sempre,
Gianni Bisiach (1927), abbandonata una brillante carriera di medico chirurgo per
abbracciare quella del cinema e della televisione, fa parte della redazione della rivista
Incontri oggi, diretta da Lucio Lombardo Radice insieme a Luchino Visconti, Carlo
Lizzani, Renato Guttuso, Ugo Attardi e Renzo Vespignani.
Dopo aver realizzato documentari in Africa, è sceneggiatore con Cesare Zavattini
de Il tetto di Vittorio De Sica e gira il documentario a episodi I misteri di Roma anche
come regista (co-regia: con: L. Bizzarri, M. Carbone, A. D’Alessandro, L. Del Fra,
L. Di Gianni, G. Ferrara, A. Giannarelli, G. Macchi, L. Mazzetti, E. Muzii, P. Nelli,
P. Nuzzi, D. B. Partesano, M. Mida Puccini e G. Vento. Per la fiction ha curato il
soggetto e la documentazione di L’avventurosa vita di Benito Mussolini, dalla nascita
alla morte).
Il film più noto resta I due Kennedy, prodotto da Angelo Rizzoli e Alfredo Bini,
insignito del premio Spoleto Cinema 1970 a pari merito con Luchino Visconti (La
caduta degli dei) e Federico Fellini (Fellini Satyricon), coraggiosa inchiesta sui fratelli
John e Robert Kennedy e sulla loro tragica fine per mano di oscuri mandanti, dalla
mafia agli esuli cubani. Chiamato da Roberto Rossellini, presidente del Centro
Sperimentale di Cinematografia, a coordinarne i corsi, vi tiene, per dieci anni,
l’insegnamento di Tecniche dell’Informazione Cinematografica e Televisiva. Per la
televisione ha ideato e curato oltre 3000 programmi, tra servizi, inchieste, puntate e
speciali di storia, sempre caratterizzati da un forte impegno politico e sociale ed
indirizzati all’indagine sui misteri di stato e alle attività delle organizzazioni
criminali, come Rapporto da Corleone, la prima inchiesta sulla mafia in Sicilia con
la collaborazione di Cesare Terranova (ucciso nel 1979 da Luciano Liggio che come
giudice aveva condannato all’ergastolo), Felice Chilanti, Girolamo Li Causi,
Michele Pantaleone, Antonino Rizzotto (fratello del sindacalista-eroe di
Corleone) e Ferruccio Parri a seguito della quale sarebbe nata la commissione parlamentare Antimafia (1963); La pena di morte nel mondo, con la collaborazione di
Robert Kennedy.
Prolifico anche il filone delle inchieste: sullo spionaggio con il direttore della CIA
William Colby e sull’Etiopia con l’imperatore Hailé Selassié; a Teheran con lo Scià di
Persia, a Londra con i Beatles esordienti, ad Haiti con i terribili tonton macoute,
tagliatori di teste di François ‘‘Papa Doc’’ Duvalier; in Amazzonia con gli Indios
della foresta; all’Actors Studio con Lee Strasberg e Paul Newman; in Venezuela con
il Presidente Caldera; in Perù con la pilota Hilde Goetz; a Dallas con Ruggero
Orlando; a New Orleans con il procuratore generale Jim Garrison (reso famoso
dal film JFK – Un caso ancora aperto, Oliver Stone, 1991); a Le Bourget col
cosmonauta Yuri Gagarin, primo uomo nello spazio; a Capo Kennedy con gli
astronauti del progetto Apollo per gli sbarchi sulla Luna.
Fin dagli inizi della carriera, Florestano Vancini (1926–2008) si è collocato nel
solco dei più seri registi nell’ambito di quel cinema d’indagine sociale e politica sulle
realtà del paese che trae direttamente le proprie origini da uno dei momenti più felici
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Forum Italicum 54(1)
del cinema italiano, il neorealismo. L’impegno ad affrontare queste tematiche lo si
trova già nel primo lungometraggio La lunga notte del ’43, tratto dal racconto di
Giorgio Bassani di un episodio di violenza fascista avvenuto nella sua città, Ferrara,
affrontato secondo uno stile di narrazione cronachistica mai disgiunta dalla sincera
commozione e percorso da grande intensità drammatica.
L’attività del regista continua con La banda Casaroli, ispirato a un fatto di
cronaca nera sullo sfondo di una Bologna all’indomani della fine della guerra,
quando la tragica situazione creata dai disastri del conflitto e la prima corsa al
benessere portavano all’inasprimento dei contrasti sociali ed al crescere della
delinquenza. Le stagioni del nostro amore era invece un film sulla crisi politica e
privata di un intellettuale di sinistra il quale, tornato nella città di provincia,
Mantova, che aveva lasciato pieno di ideali e di speranze per il futuro, la ritrova
sprofondata in un torpido conformismo, con gli amici di una volta immersi anch’essi
nello scoramento per il mancato realizzarsi di quegli ideali resistenziali nei quali
aveva creduto.
Vancini è tornato con vigore sugli schermi con altre due opere di alto
impegno politico: La violenza quinto potere, liberamente tratto dal dramma teatrale
La violenza di Giuseppe Fava sul problema della mafia (di cui il regista continua a
occuparsi girando la seconda miniserie de La piovra), e Bronte, film che lo scrittore e
critico di Le Monde, Jacques Nobécourt, ha definito ‘‘una delle opere più
significative della cultura contemporanea’’ (Nobécourt, 1972: 2–3), sui tragici fatti
del paese siciliano, inseriti nel contesto di un discorso più vasto nei confronti del
risorgimento.
La chiave di interpretazione di questo film si può trovare nello stesso sottotitolo:
Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato. In questa
espressione è indicato infatti sia il taglio della narrazione, l’asciutta cronaca
didascalica volta a insegnare una pagina di storia, sia l’intento polemico nei
confronti di una ‘‘cultura ufficiale’’ che ha tenuto nascosto, quando non apertamente
mistificato, il succedersi effettivo degli avvenimenti e la loro natura politica.
Attraverso il film, alla cui sceneggiatura ha collaborato Leonardo Sciascia, il regista
indaga con robustezza realistica e rigore civile le vicende risorgimentali con la
precisa volontà di cancellare la falsa immagine di mitica leggenda che ne ha celato
la caratteristica di classe, mostrando le cause della ‘‘rivoluzione tradita’’ da
parte della monarchia sabauda nei confronti dei ceti subalterni. Mentre Garibaldi
invadeva la Sicilia al grido di libertà e giustizia ed emetteva editti popolari e sociali
che rimangono sulla carta, le masse contadine, da secoli sfruttate dai proprietari
terrieri, insorgono perché quelle parole si trasformino in realtà concreta: la
distribuzione delle terre, espressione di vera giustizia e di vera libertà.
Ma gli scopi delle guerre risorgimentali erano altri: la lotta contro lo straniero era
condotta per arrivare alla creazione di uno stato nazionale borghese; l’impresa
garibaldina non doveva trasformarsi in sollevazione popolare bensı̀ rimanere
operazione politico-militare e l’unificazione in un unico regno era un’alleanza tra i
ceti privilegiati del nord e la borghesia agraria del sud, a spese delle masse popolari. Il
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loro uso in chiave ‘‘rivoluzionaria’’ era in funzione strumentale e limitata ai fini del
moto risorgimentale che era e doveva restare borghese.
Naturale che il nuovo stato dovesse reprimere i focolai di rivolta, ed è a Bixio, un
militare rappresentato da Vancini più in veste di conquistatore coloniale che di
liberatore, che toccò questo compito. Il fronte della popolazione, diviso tra riformisti
(l’avvocato Lombardo) e rivoluzionari (i carbonari) non permette una valida resistenza, anzi, i carbonari, sotto richiesta dei moderati, abbandonano le armi ritirandosi sulle montagne da cui erano venuti, trasformandosi in ‘‘briganti’’ mentre i
riformisti, capeggiati dal borghese illuminato avvocato Lombardo, pagano con la
vita la rivolta.
Vancini è un regista socialista e questa scelta di campo, presente da sempre nella sua
filmografia e maggiormente evidente in Bronte e nel film tv in 4 puntate La neve del
bicchiere, tratto dal libro omonimo di Nerino Rossi ambientato nei primi anni del
Novecento dove si raccontano le dure condizioni di vita di tre generazioni di una
famiglia contadina nel mondo agricolo della bassa Padana (‘‘gli scarriolanti’’) e la
nascita delle prime ‘‘leghe’’ dei contadini e dei lavoratori, ancor più si esplicita nel film
Il delitto Matteotti, una delle rare pellicole su una delle figure più illustri del socialismo
italiano, Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario, sequestrato e
assassinato nel 1924 per mano di una squadra di fascisti, dopo l’appassionato
intervento alla Camera nel quale aveva contestato la validità delle elezioni politiche
tenutesi nell’aprile precedente, in cui il Partito Nazionale Fascista aveva ottenuto la
maggioranza dei voti. Dell’omicidio, Mussolini si assunse la responsabilità politica e
morale ma non penale, ottenendo dal re di sciogliere le Camere e sopprimere la libertà
di stampa, aprendo le porte alla dittatura. A Florestano Vancini va riconosciuto il
merito non soltanto di aver realizzato un film su un eroe del socialismo italiano ma di
averlo fatto con grande serietà storica e profondo afflato emotivo.
Ma il regista che più di ogni altro, con maggior coerenza e maggior continuità, ha
ispirato la sua opera ai propri ideali rimane Francesco Rosi, socialista e membro
dell’assemblea nazionale del PSI. Film dopo film, come se ciascuno fosse un brano,
una sequenza, un capitolo di ogni altro suo film, Rosi, uno tra i protagonisti più
insigni ed eredi più diretti del neorealismo (inizia come assistente di Luchino Visconti
ne La terra trema), insegue e fissa le pagine più violente ed oscure della nostra epoca
esibendo la morte e gli ‘‘eroi’’ negativi di cui essa si alimenta, ma più la morte viene
manifestata, più l’autore grida, con imperiosa autorevolezza, di ‘‘dimenticarla’’, e
non tanto quella fisica bensı̀ quella morale e civile, quella morte della coscienza che
estendendosi alla collettività intera come un terribile contagio, rischia di colpire
sempre più a fondo, quando, proprio grazie alle troppe morti che affliggono gli
animi di un intero paese, la prepotenza e la sopraffazione si fanno stato, il delitto
norma, il disordine valore ed ordine criminoso.
Con Rosi l’esibizione della morte e della violenza che la genera si trasforma
immediatamente in un grandioso anelito alla vita, quella compiuta dove i valori
vengano rispettati e l’uomo possa realmente affermarsi nei principi irrinunciabili e
costituzionalmente garantiti della dignità e delle libertà democratiche. Ogni morte,
pur tragica, violenta, dolorosa che sia, è premessa per il risveglio, per un ritrovato
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desiderio di rinascita sociale e civile. La morte, atto supremo mai inutile e mai
gratuito, è continuamente, ripetutamente, ossessivamente messa in scena, per
‘‘dimenticarla’’ subito dopo, e non per rassegnazione o disperazione, ma per un
grande gesto di volontà positiva.
Vitale e sanguigno come una pagina di Hemingway o una sequenza di Welles, un
quadro di Guttuso o una musica di Bizet, il cinema di Francesco Rosi afferma la
maestria di una regia che, ‘‘fra estro ed armonia’’12 diventa ricerca rigorosa tra i
frammenti ‘‘incomprensibili’’ della cronaca, sociale e politica verso una ricostruzione ragionata dove l’uomo (il protagonista, il regista, l’occhio della cinepresa)
possa rintracciare, dedurre, scoprire. Inchieste del profondo che non terminano in
sentenze ma, semmai, in dubbi ulteriori sempre più vicini alla verità, le opere di Rosi
sono come mosaici della ragione, percorsi del senso critico atti a svelare, non con la
forza giudiziale della prova ma con la convinzione del ragionamento razionale, i lati
oscuri, le zone d’ombra, gli angoli bui della malvagità eretta a sistema. Sono
momenti, annunci, sfide, casi, cronache, diari che reinventano la realtà e la memoria
proprio come un mosaico la spezza per ricomporla, in altra e più perfetta forma.
Il suo cinema non unisce ma divide; non appaga ma inquieta; non risponde ma
interroga. E, cosı̀ facendo, supera i limiti di un documento sul nostro tempo per
diventarne la più convincente testimonianza, proprio perché sa allontanarsene con la
forza dell’‘‘irrealtà’’ che altro non è se non fare storia attraverso gli strumenti
dell’arte, ‘‘patina d’irrealtà’’ come la chiama il poeta Tonino Guerra, tale da
‘‘riuscire a darci l’unica e potente favola dell’Italia e di questo mondo che si avvia
verso il terzo Millennio’’ (Guerra, 1994: 55).
Favole, dunque, in forma di ‘‘cronaca’’, ‘‘inchiesta’’, ‘‘denuncia’’, ‘‘indagine’’,
‘‘investigazione’’, ma pur sempre favole, racconti dell’immaginario che sanno fissarsi
in presumibile verità per quel chiamare in causa il diretto destinatario, lettore o
spettatore che sia, e per quel coinvolgerlo a ‘‘partecipare’’, un meccanismo
questo comune sia alla costruzione narrativa che all’esercizio della più pura,
trasparente democrazia.
L’intreccio delle opere ricavate da testi letterari, da C’era una volta (dal
Pantamerone di Giambattista Basile, conosciuto anche come Lo cunto de li cunti)
a Uomini contro (dal romanzo di Lussu Un anno sull’altipiano); da Cadaveri eccellenti
(da Il contesto di Sciascia) a Cristo si e` fermato ad Eboli (da Carlo Levi); da Tre
fratelli (da Il terzo figlio di Platonov) a Carmen (l’opera lirica di Bizet da Prospero
Merimée); da Cronaca di una morte annunciata (dal romanzo omonimo di Gabriel
Garcı́a Márquez) e da Dimenticare Palermo (da Edmonde Charles-Roux) a La
tregua (dal libro di Primo Levi) e dei film tratti da soggetti originali, è la narrazione,
come pezzi di un medesimo mosaico, dei drammi, dei misteri, degli scandali della
nostra società.
Oltre a Il momento della verità, dove il regista, mescolando efficacemente realtà e
finzione, nell’escalation sociale di un giovane aspirante torero alla fama ed alla
ricchezza, interviene criticamente sull’epica violenta della corrida, La sfida mostra
le vicende di personaggi legati alle organizzazioni camorristiche del contrabbando di
sigarette ed ai mercati ortofrutticoli in una Napoli che reca ancora i segni delle
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devastazioni della guerra; I magliari, sull’emigrazione degli italiani in Germania e sul
fenomeno dei cosiddetti ‘‘magliari’’, venditori ambulanti e disonesti di tessuti e
indumenti, un mondo drammatico espresso però in una inattesa vena comica;
Lucky Luciano sulla vita del capo della mafia americana; Diario napoletano in cui
Rosi torna a Napoli dopo circa trent’anni da Mani sulla città per riflettere sui
cambiamenti avvenuti nel periodo. E poi ancora, il film-inchiesta Salvatore
Giuliano, vincitore dell’Orso d’Argento al festival di Berlino, un vero capolavoro
di interrelazione tra attualità e finzione, storia e rappresentazione, sul bandito che
dopo la liberazione della Sicilia partecipò al movimento separatista siciliano ed alla
strage di Portella delle Ginestre, un’opera che ricostruisce a flashback i legami nascosti tra banditismo, politica e mafia fino alla messinscena della morte del fuorilegge
attribuita a una operazione dei carabinieri, eseguita invece per mano del compagno
di banda Gaspare Pisciotta, poi avvelenato misteriosamente in carcere, che resta un
esempio insuperabile di questa scelta poetico-politica cosı̀ come Il caso Mattei, Gran
Prix al festival di Cannes, sulla figura e sulla figura del presidente dell’Eni Enrico
Mattei, morto in circostanze misteriose in un incidente aereo sul quale grava ancora
il sospetto mai fugato di un attentato ordito dalle cosiddette ‘‘sette sorelle’’, le
multinazionali del petrolio contrarie al processo di liberalizzazione dell’industria
degli idrocarburi voluta da Mattei che avrebbe disgregato il loro monopolio
mondiale. Se possibile ancor più avvincente e convincente Le mani sulla città,
Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, analisi implacabile sulla
speculazione edilizia, la corruzione politica e la rete di connivenze e complicità
nella Napoli degli anni Sessanta, portata a esempio tra i più eccelsi risultati di
quel cinema di impegno civile italiano di cui Francesco Rosi è stato uno dei principali
esponenti. Significativa è la didascalia del film: ‘‘I personaggi e i fatti qui narrati sono
immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce’’ (Rosi,
1963), sintesi perfetta tra necessità di finzione e ricerca di verità, tra emozione e
documentazione, tra politica e poesia.
La caratteristica che contraddistingue principalmente questo autore è proprio la
rappresentazione in chiave poetica, dove l’analisi sulla realtà non prescinde mai
dall’arte:
Viviamo momenti, afferma il regista, in cui i valori vengono mortificati da tendenze che
non li tengono in gran conto. Rossellini ebbe a dichiarare a questo proposito che si era
caduti tanto in basso, che egli si riproponeva ormai di girare un certo numero di cose
che avrebbero avuto soprattutto un valore didattico: ‘‘Non mi interessa fare arte’’
concludeva. Avevo anch’io fatto una dichiarazione simile al momento in cui il mio
film Mani sulla città divise gli animi, pur ottenendo il Leone d’Oro all’unanimità al
festival di Venezia del ’63. Malgrado fossero non pochi che si chiedevano se con un
contenuto tanto politico si potesse fare arte, avevo dichiarato: ‘‘Non ho voluto
fare arte’’. Provocazioni, tanto la mia quanto quella di Rossellini, dal momento che
nessuno, tanto meno chi fa di mestiere il critico, dovrebbe avere dubbi sul fatto che
non bastano la pedagogia e la politica a mettere in fuga la poesia. (Giacci e Pintaldi,
1995: 74)
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Certamente il suo cinema non ha mai ‘‘messo in fuga’’ la poesia, al contrario, l’ha
collocata costantemente al primo posto, facendola lievitare da una materia politica
altrimenti corretta ma inerte, ineccepibile ma inespressiva. Passare dalla realtà al
segno attraverso la luce: ecco la strada più semplice e diretta per trasformare un
atteggiamento politico in film e questo in opera d’arte e Francesco Rosi, ben sapendo
che la luce, al cinema, si realizza attraverso la fotografia, si fa affiancare, per quasi
tutta la sua filmografia, da C’era una volta a La tregua, da Pasqualino De Santis, uno
dei grandi della cinematografia italiana (il primo italiano a vincere l’Oscar per la
fotografia, con Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli), con il quale forma uno
straordinario sodalizio artistico.
Luce e realtà, arte e ragione, maturità e pietà, estro e armonia. Il cinema di
Francesco Rosi si è sviluppato tutto su queste ininterrotte duplicità che hanno
moltiplicato nel suo cinema rivoli di senso, evitando il rischio dell’univocità del
messaggio, sempre insito nella struttura del cinema politico, e rendendo ogni sua
opera un atto di poesia filtrata dalla ragione ed impreziosita dall’emozione, arte
musiva atta a comporre quel grande mosaico sull’uomo che, fortunatamente, non
sarà mai ultimato.
Accanto alle figure dei registi vengono in questa sede prese in considerazione
anche quelle degli attori-registi, di quegli interpreti che si sono cimentati, pur se in
modo occasionale e non sistematico rispetto alla loro attività prevalente, nella regia
cinematografica. Si tratta di personaggi molto popolari che hanno attraversato da
protagonisti lo spettacolo italiano ed hanno onorato il Partito Socialista con il
loro affetto e la loro testimonianza, iniziando da Vittorio Gassman (1922–2000), il
perfezionista ‘‘mattatore’’ del cinema e del teatro, membro dei ‘‘fab four’’ del cinema
italiano, con Alberto Sordi, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi a cui si aggiunse, negli
anni Sessanta, Marcello Mastroianni: gli attori, e talvolta registi, che fecero grande e
importante la ‘‘commedia all’italiana’’.
Leone d’oro alla carriera al festival di Cannes e vincitore, solo per il cinema, di
nove David di Donatello e di sei Nastri d’Argento, Gassman ha firmato come regista
quattro film da lui anche interpretati: il primo, con la collaborazione di Francesco
Rosi, Kean – genio e sregolatezza, opera cine-teatrale sul popolare attore inglese
dell’Ottocento dedito ai vizi e alla sregolatezza, tratto dall’opera teatrale Kean, ou
De´sorde et ge´nie di Alexandre Dumas (padre) e dal suo adattamento omonimo di
Jean-Paul Sartre, già portata precedentemente a teatro dallo stesso Gassman. Il
film, decisamente autobiografico, è interessante in quanto rivelatore di una doppia
personalità artistica, l’abilità istrionica di Gassman nell’affrontare ‘‘uno dei
personaggi più rappresentativi di una concezione romantica, luciferina dell’attore
[. . .] di una professione giocosa ma pericolosa’’13 e la maturità espressiva già evidente
del giovane Rosi, debitore della lezione del Visconti di Senso del quale era stato
aiuto-regista.14
Il secondo, L’alibi (co-regia: Adolfo Celi e Luciano Lucignani), storia amara e
anch’essa parzialmente autobiografica, dell’incontro dopo molti anni di tre ex allievi
dell’accademia d’Arte Drammatica di cui uno attore di cinema e teatro, l’altro
diventato famoso, sempre come attore, in Brasile, il terzo regista impegnato, che il
Giacci
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tempo ha notevolmente cambiato. Vengono messi di fronte all’impatto della grave
malattia di un amico comune, comunicata per lettera, e cercano di ignorarne la
richiesta d’aiuto finché questi non si presenta un giorno alla loro porta infrangendo
cosı̀ gli alibi costruiti per evitarlo. Nel terzo, Senza famiglia, nullatenenti cercano
affetto, opera anch’essa triste e disincantata sulla famiglia, l’amicizia e la società ma
piena di affetto verso gli umili e gli emarginati, Gassman, in coppia con Paolo
Villaggio narra le vicende di Agostino, povero vagabondo ossessionato dall’idea
fissa di ritrovare la propria madre e sul quale veglia Armando, altro sbandato
ma meno sprovveduto di lui. Il primo finirà in ospedale psichiatrico, il secondo in
prigione. Tornati entrambi in libertà, mentre Armando riprenderà la sua vita
errabonda, Agostino cercherà d’integrarsi nella società dalla quale era stato
sempre respinto.
Di padre in figlio, il film più palesemente autobiografico, mette in scena la
complessa relazione di Vittorio Gassman con il figlio Alessandro che lo interpreta
e ne firma anch’egli la regia, gli inevitabili contrasti familiari e gli altrettanto
insopprimibili conflitti generazionali, resi ancor più dialettici nel rapporto persona/
attore, vita e interpretazione.
Il socialismo, fattuale e non solo di parola, di Gassman, che lo ha portato in
diverse occasioni a schierarsi come socialista, anche con dichiarazioni di voto in
occasione di elezioni politiche, lo si ritrova pienamente nel sogno di un teatro
popolare, quel bellissimo progetto di costituire un teatro viaggiante, il ‘‘Teatro
Popolare Itinerante’’, in grado di portare in giro per l’Italia il teatro classico a
prezzi popolari ed alla portata di tutti, come era avvenuto con le istituzioni culturali
volute da Léo Lagrange sotto il governo socialista di Léon Blum nella Francia del
’36, quando il resto dell’Europa era fascistizzato.
Gassman voleva divulgare classici e nuovi autori, con prezzi popolari e luoghi
dove chiunque potesse entrare senza restare intimidito dall’ambiente, puntando a un
vero e proprio processo di alfabetizzazione e formazione socioculturale simile a
quella che, negli anni Settanta, Rossellini voleva impostare con il cinema e la televisione, un’esperienza di alto profilo ideale conclusasi purtroppo dopo solo un biennio ‘‘per animosità politiche cui si aggiungeva la scoperta ostilità delle istituzioni
teatrali, dagli Stabili agli impresari di sale’’, come ebbe a commentare tristemente lo
stesso Gassman (Cappelletti, 1988: 36).
In suo onore e alla sua memoria lo storico teatro di Roma Quirino è stato
denominato teatro Quirino - Vittorio Gassman, l’‘‘unico sogno’’, come ha rivelato
il figlio Alessandro, ‘‘che durante la sua prestigiosa carriera Vittorio non era mai
riuscito a realizzare’’ (Gassman, 2004).
Altro importante protagonista del cinema e dello spettacolo, Nino Manfredi
(1921–2004), oltre ad aver mostrato le sue qualità interpretative, grazie
all’insegnamento magistrale ricevuto da maestri come Orazio Costa, Giorgio
Strehler, Eduardo De Filippo, in ruoli comici e drammatici (si ricordano, per
tutti, l’emigrante di Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati e l’infermiere di
C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, per non dire dell’indimenticabile
mastro Geppetto di Le avventure di Pinocchio (1972) di Luigi Comencini), attore
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Forum Italicum 54(1)
pluripremiato (Palma d’Oro al festival di Cannes per la miglior opera prima, cinque
David di Donatello e cinque Nastri d’Argento), esordisce dietro la cinepresa con
L’avventura di un soldato, episodio del film L’amore difficile dall’omonima novella di
Italo Calvino, storia di un amore fugace sbocciato in uno scompartimento
ferroviario tra un soldato (interpretato dallo stesso Manfredi) e una vedova,
interamente privo di dialoghi ma risolto nel silenzio e nella gestualità, nella miglior
tradizione del cinema muto delle origini. Cosı̀ Manfredi racconta cosa accadde:
Mi diedero da leggere i racconti di Calvino – racconta Manfredi – mi soffermai su
L’avventura di un soldato, dove capii che c’era un’idea con cui potevo confrontarmi:
inconsciamente la molla dell’interesse mi scattò dentro anche perché io stesso avevo
vissuto una esperienza in certo modo simile quand’ero giovane, durante una gita a
Ostia. Mi decisi allora per questo racconto; e dato che i miei padreterni erano stati
Chaplin e Buster Keaton, mi dissi che se volevo dimostrare a me stesso di aver capito il
cinema, dovevo rifarmi al cinema muto, alla nascita del cinema. E la misura
dell’episodio mi pareva giusta, per un racconto di pure immagini. Volevo fare del
soldatino un piccolo Chaplin, un piccolo Keaton. (Bernardini, 1999: 99)
Dichiarazione inaspettata da un attore noto al grande pubblico televisivo per la
macchietta dialettale di ‘‘Bastiano, il barista di Ceccano’’ e per la celebre battuta
‘‘fusse che fusse la vorta bbona’’, rivelatrice del suo autentico spessore artistico.
Dopo la prima esperienza, accolta molto positivamente dalla critica, Manfredi
realizza il lungometraggio parzialmente autobiografico Per grazia ricevuta,
cimentandosi in un’impresa ancor più complessa, quella dell’educazione religiosa
dell’infanzia e delle sue ripercussioni sulla vita adulta, del rapporto tra scienza e fede
e tra il credere e l’essere atei. Osservò Giovanni Grazzini:
Si poteva temere che, per non mandare deluso il suo pubblico, il nuovo regista si sarebbe
adattato agli schemi facili delle sue commedie popolari. Per grazia ricevuta, invece, è un
film sorridente, vivace, e talvolta molto spiritoso, ma costruito su un tema tutt’altro che
umoristico, anzi drammatico e angoscioso. Nientemeno che quello della fede religiosa,
della difficoltà di vivere senza credere, e degli scompensi psicologici, dell’insicurezza, dei
tormenti procurati nei semplici da un tipo di educazione che, per quanto si creda di aver
superato, perdura nel tempo, e continua a darci rovelli [. . .] Manfredi si rivela invece
attore di piena maturità dando al suo personaggio un respiro assai profondo. [. . .]
Guardando agli esempi grandi (Manfredi non si perita di citare Chaplin), il regista
porta tanti piccoli colpi di spillo che sdrammatizzano con l’ironia il tema del racconto.
(Grazzini, 1971)
Nino Manfredi gira poi il terzo lungometraggio da regista, Nudo di donna, iniziato
da Alberto Lattuada, sulla crisi di identità di un uomo, da lui interpretato,
quando incontra una prostituta uguale come una goccia d’acqua alla moglie, il
che gli fa sospettare la doppia vita della sua signora. Le affannose ricerche della
verità, rese più angosciose da un’inquietante e misteriosa atmosfera veneziana,
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avranno termine durante il carnevale quando l’uomo incontra la donna che
indossa una maschera (è la moglie o la prostituta?) e decide di condividerne la vita
chiunque essa sia.
Socialista come Gassman, e come Gassman più nei fatti che nelle dichiarazioni di
principio, Nino Manfredi incide con Gianni Bonagura un disco di propaganda per le
elezioni politiche del 1970 a favore del Partito Socialista Italiano, Dialogo tra due
elettori al di sopra di ogni sospetto in cui, parlando con il suo interlocutore, lo invita a
votare PSI dopo aver provveduto a escludere tutti gli altri. Una posizione ed una
sensibilità politica che si può rinvenire in qualche modo nella sua ultima parte nel
film La fine di un mistero (Miguel Hermoso, 2003), uscito postumo, quella di uno
sconosciuto privo di memoria salvato da un pastorello durante la guerra civile
spagnola nel 1936 e ricoverato in un manicomio per quarant’anni che poi si
scopre essere il poeta Federico Garcı́a Lorca che si immagina miracolosamente
sopravvissuto alla fucilazione da parte dei franchisti. L’interpretazione è sobria ed
essenziale, quasi senza parole come il primo cortometraggio da regista, che gli valse il
premio ‘‘Pietro Bianchi’’ alla carriera.
Decisamente figlio d’arte fin dagli avi (il trisnonno Nicola attore comico; i
bisnonni Michele e Achille alla guida di una compagnia d’operetta; il nonno
Enrico noto direttore d’orchestra e la nonna Bianca anch’essa attrice) Enrico
Montesano (1945), attore di teatro e di cinema, caratterista, imitatore, cantante,
sceneggiatore e regista, dotato di una forte presenza scenica e di un’efficace verve
comica frutto anche della collaborazione con i ‘‘mostri sacri’’ del varietà italiano, da
Oreste Lionello ad Alighiero Noschese, da Garinei e Giovannini a Castellano e
Pipolo, qualità che lo hanno reso uno dei personaggi dello spettacolo più simpatici
al grande pubblico (famose la interpretazioni, a teatro, in Rugantino, e, al cinema, di
Febbre da cavallo e de Il conte Tacchia), si distingue come sceneggiatore, oltre che
interprete, per il film di Maurizio Lucidi Tutto suo padre, stravagante commedia
sulle vicissitudini di un giovane pizzaiolo cui la madre rivela, poco prima di morire,
di essere figlio naturale di Adolf Hitler, con vicissitudini che si susseguono fino a
quando uno storico americano appurerà che il dittatore nazista era impotente
e quindi non poteva essergli padre.15 È regista di un solo lavoro, A me mi
piace, vincitore di un David di Donatello e di un Nastro d’Argento come
miglior regista esordiente, brillante commedia di vita contemporanea dove si
intrecciano fino a confondersi amicizia e convivenza, amori e tradimenti, dissidi e
rappacificazioni, stati d’animo e sentimenti osservati e rappresentati, con sensibilità
e discrezione.
Dagli anni Settanta agli anni Novanta, Montesano si occupa molto attivamente
della propaganda del Partito Socialista Italiano, diventando anche consigliere
comunale a Roma per la componente socialista del PDS nel biennio 1993–1995 ed
eurodeputato nel gruppo socialista europeo (1994–1996).
Attore teatrale, cinematografico e televisivo, doppiatore, scrittore e regista, Pino
Caruso (1934–2019) esordisce in Sicilia, regione natale, come attore drammatico con
un ruolo ne Il giuoco delle parti di Luigi Pirandello, per poi interpretare un ruolo
recitante ne Il flauto magico di Wolfgang Amadeus Mozart e, una volta trasferitosi a
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Roma, optare per il cabaret e il varietà al Bagaglino per essere tra i primi a sdoganare
il dialetto siciliano in televisione e nella pubblicità. Svolge attività di scrittore e di
opinionista per la televisione e per diverse testate giornalista.
Come regista cinematografico ha diretto se stesso nel film Ride bene chi ride ultimo
(ep. Sedotto e violentato), film di costume in chiave grottesca che ha per protagonista
un sacrestano che gira con un pullmino nei paesi della Sicilia per reclamizzare un
programma di film a tema religioso da parte del cinema parrocchiale e che viene
‘‘sedotto e violentato’’ da tre ragazze straniere stuzzicate dal suo bigottismo. Non
creduto dai compaesani, per non accettare il capovolgimento dei rei ruoli sessuali
tradizionali, si trova costretto a dire il falso, ovvero di essere stato lui ad approfittare
delle ragazze, con ciò ricomponendo l’ordine e la morale ‘‘virile’’ della collettività.
Il film si conclude con l’ex sacrestano che, sempre girando l’isola con il pulmino,
adesso pubblicizza per un altro cinematografo film ‘‘a luci rosse’’.
Opera decisamente più impegnata, sempre a tinte di satira, è Lei e` colpevole, si fidi,
un documentario da lui scritto, diretto e interpretato ed ispirato al ‘‘caso Tortora’’
avente per tema la cattiva giustizia in Italia.16 La scheda di presentazione, nel sito
ufficiale dell’attore, riporta quanto segue:
Il documentario prevede un processo a Pino Caruso. Il quale allarga il discorso (e i
processi) a tutti i colleghi Si immagina una Italia dove la comicità è reato e i comici ed
eventuali complici (autori, registi, etc.) fuori legge. Il film si svolge come un’inchiesta
giornalistica condotta da Giuseppe Marrazzo, inviato Rai noto per le sue incursioni nel
mondo della criminalità organizzata (mafia, ‘ndrangheta, camorra). Monica Vitti,
Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman vengono arrestati (il loro arresto è
raccontato utilizzando sequenze di film dove interpretano personaggi fermati dalla
polizia). Gli altri (Franca Valeri, Paolo Villaggio, Ugo Tognazzi, Renato Rascel,
Carlo Dapporto, Carlo Campanini, Mario Castellani, Mariangela Melato, Massimo
Troisi, Beppe Grillo, Renato Pozzetto, Cochi Ponzoni, Carlo Verdone, Luciano De
Crescenzo, Francesco Nuti, Pippo Franco, Giancarlo Giannini, Maurizio Nichetti,
Lino Banfi, Diego Abatantuono, Gianfranco D’Angelo, Jerry Calà, Franchi e
Ingrassia, Ric e Gian, Lino Toffolo, Lando Buzzanca e Roberto Benigni) si nascondono
in Italia o riparano all’estero. Marrazzo riesce a scovarne alcuni e li intervista. Comincia
con Pino Caruso e prosegue con Oreste Lionello, Enrico Montesano, Renzo Arbore,
Gigi Proietti, Luciano Salce e Nanni Loy. Caruso vive in una baracca sul mare,
probabilmente in Sud America, Oreste Lionello e Nanni Loy vengono rintracciati a
Roma, rifugiati, il primo in uno stabilimento di doppiaggio, il secondo in una sala di
montaggio, Salce in una barca, sul punto di espatriare, Arbore in Messico, con poncho e
sombrero, munito di chitarra, mentre suona e canta per i clienti di un ristorante,
Montesano in Francia, camuffato, con grandi baffi scuri, occhiali e naso finto,
Proietti, mascherato da monaco domenicano, in un convento (il cui padre priore ha
le sembianze del comico catanese Tuccio Musumeci); nello stesso luogo hanno trovato
asilo quasi la totalità degli autori italiani di varietà e di rivista. (Garinei e Giovannini,
Castellacci e Pingitore, Age e Scarpelli, Terzoli e Vaime, Castellano e Pipolo, Amurri e
Verde, Amendola e Corbucci, Di Pisa e Guardı̀, Antonello Falqui). (Caruso, 2014)
Giacci
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Parallelamente alla professione di attore, Pino Causo ha svolto attività sia sindacale
che politica, ricoprendo l’incarico di segretario del SAI (Sindacato Attori Italiani) e
impegnandosi, in particolare, per il riconoscimento della recitazione in presa diretta,
il cosiddetto rispetto del rapporto ‘‘voce/volto’’ (a un attore deve corrispondere la
propria voce, senza doppiaggi), e militando nelle fila del Partito Socialista Italiano
per il quale ha realizzato, in occasione delle elezioni del 1975, un disco che reca sul
lato A un suo monologo, Basta con la libertà, in cui, dopo un inizio in chiave
paradossalmente conservatrice contro scioperi, manifestazioni e disordine, invita a
votare PSI, in quanto partito della libertà.17
Artista multimediale ante litteram, attore di cinema, teatro, televisione, rivista e
varietà, cantante e compositore, giornalista, regista, Renato Rascel (1912–1991) è
stato uno dei protagonisti più popolari ma anche più raffinati e sofisticati dello
spettacolo italiano. Creatore di un personaggio anticonformista, astratto, surreale
che si esercita in monologhi dell’assurdo ed in azzardati scioglilingua linguistici
completamente al di fuori degli schemi della comicità tradizionale italiana del suo
tempo, Rascel inventa, agli inizi degli anni Trenta, una nuova, personalissima
modalità di comunicazione controcorrente rispetto al clima chiuso ed asfittico
dell’epoca, procurandosi non poche noie con la censura fascista poco propensa ad
accettare le battute apparentemente innocenti e insensate di questo omino dall’aria
fin troppo candida e stravagante, sorta di nuovo Pierrot lunaire che inanellava
filastrocche astruse piene di inquietanti, veri o presunti ‘‘doppi sensi’’, come ‘‘È
arrivata la bufera, è arrivato il temporale, chi sta bene e chi sta male e chi sta
come gli par’’. Sue sono le macchiette del piccolo corazziere, del bandolero stanco
e di Napoleone, giocate sulla sua piccola statura, mentre i suoi varietà di successo e
commedie musicali come Attanasio cavallo vanesio; Alvaro piuttosto corsaro; Tobia
candida spia, vengono firmati dalla coppia Garinei e Giovannini. Come compositore
e cantante Rascel diventa famoso in tutto il mondo con le canzoni Arrivederci Roma
(da cui verrà tratto anche un film dal medesimo titolo di Roy Rowlands e Mario
Russo in cui egli recita accanto al tenore Mario Lanza), e Romantica, con la quale
vince, in coppia con Tony Dallara, il festival di Sanremo.18
Da ricordare anche, nel teatro di prosa, la messa in scena del testo di Neil Simon
La strana coppia (portato sullo schermo da Gene Saks nell’indimenticabile versione
con Jack Lemmon e Walter Mattau) dove è affiancato da Walter Chiari, e di Finale di
partita di Beckett, sempre con Chiari. Memorabile anche la sua interpretazione di
Padre Brown, una serie di telefilm girati da Vittorio Cottafavi dove veste i panni del
sacerdote investigatore ideato da Gilbert Keith Chesterton, e la sua partecipazione al
film tv Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli nella parte del cieco dalla nascita.
Per il cinema dà vita a una particolare figura di piccolo anti-eroe timido e
impacciato che però trova sempre nel classico ‘‘lieto fine’’ felicità e amore, e si
distingue per due interpretazioni da antologia ne Il cappotto di Alberto Lattuada,
dal racconto di Gogol, dove può esibire eccellenti doti di attore drammatico e in
Policarpo, ufficiale di scrittura di Mario Soldati che gli valse un David di Donatello.
Come regista Rascel ha realizzato un’unica opera, La passeggiata, liberamente
ispirata a un altro racconto di Gogol, La prospettiva, interpretato, oltre che da
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Rascel, da altri due assi del teatro e del cinema, Paolo Stoppa e Valentina Cortese,
sceneggiato da un team di tutto riguardo composto da Cesare Zavattini, Franco
Rossi, Turi Vasile e Diego Fabbri, che narra di un timido istitutore di collegio che si
innamora di una prostituta fino al punto da chiederla in sposa suscitando scandalo e
scherno nell’ambiente e venendo per tale gesto rimosso dall’incarico. Perso il lavoro
e soprattutto colpito dalla reazione sarcastica e derisoria anche della donna, l’insegnante lascia Roma per tornare sconfitto al proprio paese senza sapere che la ragazza,
scossa comunque da quella relazione e da quell’inaspettata richiesta di matrimonio,
cambierà vita lasciando anch’essa la città. Per l’argomento, troppo scabroso per i
tempi, il film ebbe problemi con la rigida censura che proibı̀ di farlo terminare, come
nel copione originario, con il suicidio dell’uomo. Pur se percorso da una sottile vena
di malinconia e da segnalare, oltre che per l’ambientazione e l’atmosfera, anche per
la mirabile interpretazione della Cortese, l’opera non ebbe successo né di pubblico né
di critica.
Sotto il profilo politico, Renato Rascel, dopo aver fatto propaganda per la
Democrazia Cristiana negli anni Cinquanta in segno di gratitudine per essere
stato nascosto in Vaticano con la moglie Tina De Mola durante l’occupazione
nazista di Roma, interpreta in Ho scelto l’amore (Mario Zampi, 1952) in chiave
anticomunista il personaggio di Boris Popovic, funzionario sovietico giunto in
Italia per partecipare a un congresso della pace il quale, pieno di pregiudizi contro
i paesi capitalisti ma non ottenendo sostegno da parte del Partito Comunista che lo
ritiene una spia, si innamora di una ragazza e, rendendosi conto che la realtà è
diversa da quella che gli era stata inculcata in patria, sceglie l’amore e la libertà.
La pellicola sembra adombrare il capolavoro di Ernst Lubitsch Ninotchka. Però, già
nel 1968 Rascel firma l’appello degli intellettuali a favore del PSU e, negli anni
Settanta, manifesta simpatia per il nuovo corso socialista, partecipando, tra
l’altro, al memorabile happening elettorale non stop in diretta con gli ascoltatori, i
compagni e i simpatizzanti di radio Lazio, la radio privata messa a disposizione del
partito da Claudio Villa, il ‘‘reuccio’’ della canzone italiana, nel PSI per le elezioni del
1979 insieme a Pino Caruso, Ottavia Piccolo, Walter Chiari, Christian De Sica,
Carlo Verdone, Sandra Milo, alternati a personalità della politica.19
Non sarà un caso, allora, se nel cinema il meglio di sé questo artista lo ha espresso
con le sue interpretazioni de Il cappotto (1952) e di Policarpo ufficiale di scrittura
(1959), diretti entrambi da due registi socialisti, Lattuada e Soldati, in evidente
sintonia non solo co-autoriale ma anche politico-culturale.
È doveroso a questo punto soffermarci anche su quelle figure professionali
che danno corpo, sostanza e concretezza alle ‘‘visioni del mondo’’ dei registi: gli
sceneggiatori. È con loro che le analisi si trasformano in vicende umane, le storie
individuali e collettive in narrazioni, le emozioni e i caratteri, le vite e le personalità,
in rappresentazione. Ed è anche attraverso il loro dialogo con l’autore che le
ideologie, i valori ideali e le posizioni sociopolitiche possono emergere intrecciandosi
figurativamente con lo stile.
Maestri indiscussi di tale relazione sono stati Age (Agenore Incrocci, 1919–2005) e
Furio Scarpelli (1919–2010), coppia storica che ha attraversato il cinema italiano
Giacci
535
accompagnando i nostri più validi registi, da Monicelli a Comencini, da Lattuada a
Dino Risi, da Magni a Scola, ed i nostri più capaci attori, da Sordi a Gassman, da
Manfredi a Tognazzi a Mastroianni, nella loro descrizione della storia e del costume
del paese, con ironia e amarezza, sarcasmo e sentimento, contribuendo a dar vita,
in maniera cosı̀ determinante, al genere, qui più volte richiamato, della ‘‘commedia
all’italiana’’.
Titoli come I soliti ignoti, La grande guerra, L’armata Brancaleone, Il mattatore,
Tutti a casa, Signore & signori, Sedotta e abbandonata, e i film di Totò, Dramma della
gelosia, I mostri, i compagni, C’eravamo tanto amati, solo per ricordare qualcuno dei
cento e passa film da loro sceneggiati, danno il senso dell’importanza della loro
presenza nel panorama non solo del cinema ma della storia d’Italia.
Entrambi di solida fede socialista Age & Scarpelli hanno realizzato, come registi,
il film corale Signore e Signori buonanotte, parodia grottesca ed esasperata di una
immaginaria giornata televisiva il cui palinsesto diventa satira contro la corruzione
politica e morale e verso le istituzioni, dai partiti alle forze armate, dalla chiesa alla
televisione stessa, una summa dei mali storici del paese concentrati in un solo film.
Tra i diversi sceneggiatori d’area socialista come Bruno Di Geronimo (1926), che
ha sceneggiato per Marco Leto (Donnarumma all’assalto), Enrico Maria Salerno
(Cari genitori); Alberto Lattuada (Le farò da padre); Gianfranco Mingozzi (Flavia,
la monaca musulmana); Vittorio Cottafavi (Sotto il placido Don); Aldo Florio (Una
vita venduta); Gianni Amelio (Dieci registi italiani, dieci racconti italiani, episodio:
L’isola), meritano di essere ricordati anche Ettore Maria Margadonna (1893–1975),
nato due anni prima dell’invenzione del cinematografo, saggista, scrittore di
successo (suo il libro Dio semina gli uomini), redattore del quotidiano Avanti! e
critico cinematografico, sceneggiatore e collaboratore dei registi socialisti
Lattuada, Comencini, Soldati, diventato famoso a livello internazionale per la
fortunata serie di Pane amore e . . . , presidente di Cinecittà e segretario generale
della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia nonché attore in un piccolo
ruolo ne Lo sceicco bianco di Federico Fellini; e Nicola Badalucco (1929–2015),
fortemente impegnato a livello politico, eletto a soli 23 anni consigliere comunale
a Trapani, critico cinematografico, recensore e saggista per l’Avanti! e
Mondoperaio. Come inviato in Sicilia Badalucco svolge un’inchiesta
sull’assassinio da parte di mafia del sindacalista socialista Salvatore
Carnevale,20 scopre i nomi degli assassini e li pubblica sul giornale ricevendo
per questo minacce di morte. Era la prima volta che dei mafiosi venivano
condannati
per
l’omicidio
di
un
sindacalista
e
dopo
circa
sessant’anni Badalucco ha ricevuto per questo atto dalla fondazione socialista
antimafia ‘‘Carmelo Battaglia’’ un’onorificenza intitolata appunto a Carnevale.
Diventato redattore capo del quotidiano socialista, collaborando intensamente
con Pietro Nenni durante il primo governo di centro-sinistra Moro Nenni, è sempre
in prima fila nelle battaglie civili del paese, dall’emancipazione femminile al divorzio
e, in particolare, al rapporto mafia-politica. Esordisce nel cinema scrivendo
Gotterdammerung che diventa il soggetto de La caduta degli dei di Luchino
Visconti con il quale ottiene la candidatura all’Oscar per la miglior sceneggiatura,
536
Forum Italicum 54(1)
e collabora in seguito con i più importanti registi italiani (Monicelli, Bolognini,
Montaldo, Lizzani, Damiani, Vancini, Wertmüller, Steno) e stranieri (Kalatozov,
Bondarciuk, Clément, Swaim, Gruber, Schwarzerberger). Suo è il soggetto de La
piovra, la nota serie televisiva sulla mafia.
Ha scritto sceneggiature di film non realizzati per Valerio Zurlini, Giorgio
Strehler, Elio Petri, Michelangelo Antonioni. Insignito dei premi Flaiano e
De Sica alla carriera, ha insegnato per tredici anni consecutivi drammaturgia
cinematografica al Centro Sperimentale di Cinematografia ed ha fondato la Sact
(Associazione degli Sceneggiatori Italiani). Ha recitato come attore, infine, nel ruolo
di un testimone nel film di Gianni Amelio Porte aperte ed in quello di un leader
socialista in Die Schuld der Liebe di Andreas Gruber.
Pur se in modo meno evidente e appariscente, anche la figura del produttore può
esercitare un ruolo essenziale di orientamento, condividendo o meno le scelte e le
opinioni del regista, selezionando, approvando o scartando copioni e soggetti. Si è
già visto in precedenza la posizione al limite del paradosso di Alfredo Bini, al quale
non si potrà mai essere abbastanza grati per il suo sodalizio con uno dei maggiori
intellettuali del Novecento, Pier Paolo Pasolini, quando identificava questa figura
con l’idea stessa di socialismo. Senza giungere a questi, comunque graditi, eccessi, vi
sono state figure grazie alle quali una scelta di campo di questo tipo ha favorito il
sorgere di autori e di opere di grande valore politico, sociale e culturale. È il caso di
Mario Gallo (1924–2006), giornalista, critico cinematografico, sceneggiatore, regista
documentarista a sua volta e produttore, e di Nello Santi (1918–1995) che hanno
riversato nella loro professione l’opzione socialista. Il primo, responsabile dal 1954
al 1974 della commissione Cinema del PSI e presidente dell’Italnoleggio
Cinematografico e dell’Ente Autonomo Gestione Cinema a cui si deve non solo la
realizzazione di opere come Roma di Federico Fellini, La caduta degli dei e Morte a
Venezia di Luchino Visconti, ma anche la fiducia riposta in giovani autori all’epoca
considerati ‘‘difficili’’ come Paolo e Vittorio Taviani, Marco Bellocchio, Bernardo
Bertolucci e Liliana Cavani. Il secondo, membro della segreteria di Ferruccio Parri
nel governo da lui presieduto, poi fondatore di Galatea Film e distributore,
presidente di Cinecittà dal 1972 al 1977, scopritore di Lina Wertmüller e produttore
di film che occupano un posto di prim’ordine nella storia del cinema italiano come Le
mani sulla città di Francesco Rosi, per il quale ha ottenuto il Globo d’Oro come
miglior produttore, e Italiani brava gente di Giuseppe De Santis.
È opportuno considerare altre figure di socialisti che hanno rivestito, oltre al
ruolo di regista, anche quello più generale di operatore culturale, e che hanno
svolto incarichi di rilievo in istituzioni cinematografiche. Tra questi, Luigi Chiarini
(1900–1975), critico e teorico tra i primi a riconoscere al cinema lo statuto di arte con
testi essenziali come Il film nei problemi dell’arte, Arte e tecnica del film; Il film nella
battaglia delle idee. Docente universitario, sceneggiatore e regista, tra i fondatori e
direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia e della rivista Bianco & Nero,
primo docente universitario di Storia e Critica del Cinema, direttore della Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia dal 1963 al 1968, anno della
contestazione. Sceneggia La peccatrice (Amleto Palermi, 1940) e Stazione Termini
Giacci
537
(Vittorio De Sica, 1953) ed esordisce nella regia con Via delle cinque lune, dal
racconto di Matilde Serao O Giovannino o la Morte, cupo me´lo ottocentesco su
una matrigna che ha trasformato il negozio di orologiaio della figliastra in un
banco di pegni irretendone il fidanzato e facendolo diventare il proprio amante sin
quando la ragazza, scoperta la tresca, disperata si suicida. La sceneggiatura viene
curata, oltre che da Chiarini, dagli altri dirigenti del Centro Francesco Pasinetti e
Umberto Barbaro i quali, per comodità tecnica e per valorizzarne la struttura e la
vocazione didattica, trasferiscono l’ambientazione da Napoli a Roma facendolo
interamente girare nei teatri di posa della scuola, ricorrendo anche a studenti e al
poeta Trilussa per la revisione dei dialoghi. Il film ottenne un discreto successo di
critica, ma non di pubblico, e viene considerato come uno dei più significativi film
calligrafici italiani.
Il successivo La bella addormentata, tratto dall’omonimo dramma teatrale di
Rosso di San Secondo, racconta, sempre in chiave melodrammatica, le tristi vicende
di una servetta di campagna, prima adescata dal notaio presso cui lavora, poi preda
di una megera che la vuole avviare alla prostituzione. Un giovane lavoratore nelle
zolfatare la sottrae a questo destino imponendo al notaio di riprenderla e di sposarla,
pensando cosı̀ di agire per il bene della ragazza ma questa, che sembra muoversi in un
perenne stato di trance, sviene prima di entrare in chiesa, si ammala e rivela, in punto
di morte, di essere stata sempre innamorata del giovane e che la causa della malattia
era stata proprio la sua incomprensione.
Dopo La locandiera, liberamente ispirato all’omonima commedia del Goldoni in
quanto non si voleva effettuare la mera trasposizione della commedia ma
farne, come ha affermato lo stesso Chiarini, ‘‘un Goldoni più moderno e non
semplicemente pizzi e trine’’ (Savio, 1979: 378), gira Ultimo amore, da un soggetto
dello scrittore e sceneggiatore Ettore Maria Margadonna e da lui sceneggiato con
Giuseppe De Santis e Brunello Rondi. Il film segna l’ingresso del regista in una
materia più dura rappresentata con occhio più realistico, una storia ambientata
durante il momento più critico della Seconda guerra mondiale sulle vicende di tre
amici aviatori in licenza a Roma, uniti tragicamente dall’amore per una giovane
canzonettista, la violenza e la morte. Chiarini realizza infine Patto col diavolo, da un
soggetto di Corrado Alvaro, uno tra i più grandi scrittori della Calabria, che lo ha
sceneggiato insieme a Sergio Amidei e Suso Cecchi D’Amico.
A differenza dei precedenti e sicuramente grazie al testo di Alvaro, in
quest’opera Chiarini mostra, nella vicenda ambientata sulle montagne calabresi
due personaggi, Rocco, agiato proprietario di greggi che rappresenta il capo dei
pastori, e Mola, proprietario di boschi a capo dei boscaioli, in perenne contrasto
di interessi. È l’attenzione, prima sconosciuta, ai temi sociali.
La questione infatti si aggrava quando Andrea, figlio di Mola, si innamora
di Marta, figlia di Rocco, in quella che sembra la rivisitazione del contrasto
shakespeariano tra famiglie che non vedono di buon occhio lo sbocciare di
quell’amore. A causa di un ulteriore violento diverbio Rocco minaccia di denunciare
Nola, ma mentre si reca in città per compiere l’atto viene travolto e ucciso da una
catasta si legna. Per dissipare ogni sospetto su di sé Mola chiede la mano di Marta
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Forum Italicum 54(1)
per il figlio Andrea ma durante il banchetto di nozze, Scoppola, lo ‘‘scemo’’
del villaggio, mentre recita una poesia, si lascia sfuggire che è lui il colpevole dell’omicidio di Rocco per ordine di Mola. Scoppola e Mola vengono arrestati e Maria,
sconvolta, si getta da un’altura in un burrone pronunciando, prima di morire, una
supplica alla concordia ed alla riappacificazione.
Alvaro avrebbe scritto a proposito di questa sua esperienza con efficacissima
forza d’analisi21:
Il mio paese è cinema a sua stessa insaputa. Ora che li ho visti, i miei compaesani,
davanti alla macchina da presa, mi sono accorto che sempre, quando si muovono,
quando si fermano, quando si raccolgono in gruppi o dai gruppi si separano, fanno
‘‘inquadratura’’, anche se non sanno cosa essa sia. Tutto questo non è artificio loro né
visione artificiosa in me che lo noto, ma deriva dalla naturale armonia di movimento e
di atteggiamento di questa gente che ha alle spalle i greci antichi e gli arabi, cioè dei
popoli armoniosi e ben proporzionati in ogni esteriore manifestazione di vita secondo
una consimile proporzione morale che li regge. (Scarfò e Briguglio, 2018: 23)
‘‘Fare inquadratura’’, dunque, bella ed efficace espressione per definire la legge
costante e lo statuto irrinunciabile di ogni opera che voglia definirsi film: la
‘‘composizione’’ dell’immagine. Al nome di Luigi Chiarini, proverbialmente legato
a quello di una persona intransigente (amava dire: ‘‘Esistono Onorevoli
compromessi, non esistono onorevoli compromessi’’) e dal difficile carattere
soleva precisare: ‘‘In Italia quando dicono che hai un brutto carattere vuol solo
dire che hai un carattere’’) è dedicata la biblioteca del Centro Sperimentale di
Cinematografia (Caldiron, 2001: 21).
Altra figura storica del cinema socialista è stato Lino Miccichè (1934–2004),
critico cinematografico dell’Avanti! per oltre trent’anni, sceneggiatore e regista,
docente universitario e storico del cinema, studioso, in particolare, del neorealismo
e di Luchino Visconti, editorialista ed organizzatore di eventi culturali, fondatore e
direttore del festival del Nuovo Cinema di Pesaro e del DAMS, il Dipartimento delle
discipline delle Arti e dello Spettacolo, ha ricoperto numerosi incarichi tra cui quelli
di presidente del Sncci (Sindacato Nazionale Critici Cinematografici); della Fipresci
(Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica), del Centro
Sperimentale di Cinematografia, della Biennale di Venezia.
Come regista, ha realizzato diversi cortometraggi di forte matrice antropologica e
sociale fra cui Nuddu pensa a nuautri; Inchiesta a Carbonia; La barca; Busa di dritta;
ed il documentario All’armi siam fascisti, insieme a Lino Del Fra e Cecilia Mangini,
che descrive la nascita, il consolidamento e la caduta del regime di Mussolini.
Nel 2013 il figlio Francesco ha realizzato un documentario sulla sua vita dal titolo
Lino Micciche`, mio padre. Una visione del mondo.
Al termine dell’excursus è giusto citare le figure di altri due grandi cineasti,
Vittorio De Sica (1901–1974) e Roberto Rossellini (1906–1977), che pur non
avendo militato direttamente nel Partito Socialista (anche se a proposito di De
Sica, in un articolo si dice: ‘‘Non fu comunista, piuttosto un socialista, potremmo
Giacci
539
dire, umanitario’’ (Morandi, 2016)), ne hanno incrociato almeno per una volta le
vicende e i percorsi.
Quanto a De Sica, che comunque aveva scritto per l’Avanti!, come Cesare
Zavattini e Nelo Risi, va senz’altro ricordato lo scambio epistolare intercorso tra
lui e il segretario del PSI Pietro Nenni in cui il leader socialista lo sollecitava a
candidarsi nelle liste socialiste alle elezioni comunali di Roma del 1962, con la lettera
seguente che si riporta integralmente:
Caro De Sica, non so quello che lei pensa del centro-sinistra e dello sforzo nel
quale sono impegnato per la sola soluzione democratica dei problemi italiani
attualmente possibile. Se il suo giudizio fosse positivo i miei compagni di Roma,
impegnati nella campagna elettorale per il Campidoglio, terrebbero molto a poterlo
dire. Ed il modo più efficace per dirlo sarebbe se lei accettasse di essere candidato
nella lista del Psi al Consiglio Comunale. Lo so che tutto questo è fuori dal mondo
delle sue preoccupazioni ed occupazioni se non del suo ideale di vita. Ma se un
uomo come lei desse il suo nome a una battaglia politica ciò sarebbe bello e utile.
Poi farà il consigliere o no, ma il suo impegno ne provocherà molti altri tra quanti
la stimano e la ammirano, che sono tanti e tra i quali io sono. Dunque? (Pietro
Nenni, Roma, 18 aprile 1962)
Nel declinare l’invito, il vincitore di quattro premi Oscar rispose22:
Il suo cortese invito a presentarmi nelle liste del Partito del P.S.I. mi riempie di orgoglio
ed è motivo di onore per me che questo invito mi venga da Lei, personalmente.
L’Onorevole Grisolia Le spiegherà le ragioni per le quali io mi trovo nell’incresciosa
situazione di non poter accettare. Desidero dirle che appena la mia carriera me lo
consentirà, io sarò felice di appartenere alla nobile famiglia socialista. Con i migliori
cordiali saluti, suo Vittorio De Sica. (Roma, 21 aprile 1962)
Che finezza di stile, che eleganza di rapporti, che atteggiamento di reciproco rispetto
tra politica e cultura e che ammirazione, da parte di De Sica, per quella che definisce
‘‘nobile famiglia socialista’’!
Roberto Rossellini mostrò invece molto interesse soprattutto per la scelta politica
che il nuovo corso socialista aveva fatto in particolare nei rapporti tra cinema e
televisione, propendendo per un ‘‘matrimonio’’ anziché per una contrapposizione,
come invece era idea corrente nell’ambiente cinematografico.
Era infatti iniziato per lui un percorso straordinario all’insegna di una visione
enciclopedica del sapere nel corso del quale, abbandonando il cinema per optare
decisamente a favore della televisione, che considerava una ‘‘evoluzione del cinema’’
e non viceversa, proprio negli anni in cui più violento si era fatto lo scontro fra i due
mezzi ed i cineasti, con la sua sola solitaria ed anticipatrice eccezione, consideravano
quest’ultima la loro più grande nemica, Rossellini sceglieva di occuparsi del
‘‘mestiere di uomo’’, con un approccio intellettuale che, nel più pieno spirito
enciclopedista ed illuminista, collocava l’uomo al centro di ogni speculazione
540
Forum Italicum 54(1)
considerandone ogni sua disciplina come un aspetto essenziale di conoscenza
generale, e dunque si opponeva proprio a quella distinzione romantica fra arte e
scienza, ispirazione poetica e tecnica, che tanti guasti avrebbe procurato alla cultura
e, più in particolare, proprio al cinema.
Alla media di un film all’anno Rossellini costruisce un complesso programma
poli-espressivo che avrebbe dovuto comprendere, oltre alle opere sulle grandi figure
del pensiero umano, da Socrate a Cartesio, da Pascal ad Agostino d’Ippona,
da Cosimo de’ Medici a Gesù, tutte realizzate appunto grazie alla televisione,
soprattutto pubblica, progetti su Caligola, Leon Battista Alberti, Diderot, Niépce
e Daguerre, la rivoluzione americana e quella industriale, l’islam, la scienza, Marx,
che avrebbe voluto sistematizzare non secondo un ordine cronologico per film bensı̀
per epoche storiche. Un progetto enciclopedico, dalla protostoria a oggi, basato su
quella ‘‘necessità spasmodica di conoscenza’’ che lo portava a leggere moltissimi libri
e a informarsi su ogni nuova invenzione, affascinato dal piacere di comunicare al più
vasto pubblico televisivo e in maniera ancor più indipendente dai condizionamenti
produttivi, sensibile alla grande responsabilità morale dell’educazione, nel
significato più ‘‘classico’’ del termine.
Riteneva infatti che l’educazione non dovesse essere più considerata come un tirocinio di durata limitata e di preparazione alla vita ma come una sua componente
essenziale. Scriveva nel 1973: ‘‘Comenio, il grande pedagogo moraviano del
XVII secolo disse che l’insegnamento è la regina delle arti, e che un metodo di insegnamento è altrettanto necessario delle mappe per il navigatore’’ (Rossellini, 1987: 427).
Quella ‘‘indagine sull’uomo’’ che aveva colpito François Truffaut ritornava cosı̀
prepotentemente al centro delle sue considerazioni, insieme con una diversa
concezione sul ‘‘realismo’’, che tanti equivoci aveva provocato ai tempi della
‘‘battaglia delle idee’’. In verità, Rossellini ha sempre valorizzato gli effetti di una comunicazione emotiva più che esplicitarla in una mera manifestazione del Reale, secondo un
principio che trovava la più ampia ed efficace attuazione proprio nella ‘‘messa in scena’’
televisiva, semplice e pura, lineare ed esemplare, ‘‘facile, piacevole ed integrale’’, dell’uomo, del suo pensiero e della sua azione nella storia dell’umanità. Una posizione
rigorosamente perseguita lungo dieci anni di attività che lo porterà a schierarsi contro la
‘‘specializzazione’’, che considerava una malattia della società moderna.
Per sostenere questa sua posizione, isolata altrettanto quanto quella del Partito
Socialista, partecipò a un’affollata riunione della commissione Cinema del partito
nel maggio 1977 alla quale erano presenti tutti i più importanti registi di area ed
anche l’ungherese Miklós Jancsó dove svolse un accalorato intervento, pochi giorni
prima di presiedere la giuria del festival di Cannes in cui, in piena coerenza con
le proprie convinzioni sull’argomento, fece ottenere la Palma d’Oro a un film
prodotto dalla televisione, Padre Padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani. Il
convegno organizzato nel giugno 1979 dal centro culturale ‘‘Mondoperaio’’ e
‘‘Progetto-Immagine’’ sul tema dal titolo Quella parte di cinema chiamata televisione
è stato a lui espressamente dedicato, con la pubblicazione anche di un piccolo libro
distribuito a tutti i convegnisti, Roberto Rossellini. L’abbecedario delle idee, a cura di
Silvia d’Amico.23
Giacci
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Ruoli e personaggi socialisti nel cinema
L’orientamento di mettere in scena, da parte del cinema e ancor più della televisione,
biografie, o, come si dice con termine anglosassone, biopic, ha riguardato soprattutto
figure di eroi, santi, artisti e luminari della scienza, della moda, delle professioni, ma
non ha particolarmente privilegiato i personaggi della storia politica del nostro
paese, quindi anche di quella del Partito Socialista. Del resto, neppure sotto il
fascismo, che pur considerava il cinema ‘‘l’arma più forte’’, erano stati prodotti,
tranne qualche rara eccezione, film espressamente attinenti a quel periodo storico
e ai suoi leader, preferendo rifugiarsi nella comoda e tranquillizzante evasione del
‘‘cinema dei telefoni bianchi’’ oppure esibire personaggi dell’antica Roma a
metafora eroica e positiva del regime, in continuità con il risorgimento e la Prima
guerra mondiale.
Con la liberazione e la nascita del neorealismo si assiste al ritorno alla realtà e
dunque anche alla storia recente, con una evidente prevalenza per quella riguardante
le aree politiche comunista e cattolica, da Roma città aperta (Roberto Rossellini,
1945) a Il sole sorge ancora (Aldo Vergano, 1946) che mettono entrambi in campo un
intellettuale comunista ed un sacerdote, per giungere all’elogio del bipolarismo
consociativo della serie Don Camillo e l’on. Peppone, premessa del compromesso
storico, e solo in subordine per quella delle forze intermedie che avevano partecipato
anch’esse alla resistenza, come i socialisti,24 e con una propensione verso figure della
vita quotidiana e del mondo sindacale.
La prima apparizione del movimento socialista si ha infatti solo con Il mulino
del Po (Alberto Lattuada, 1949) mentre per vedere in azione personaggi
dichiaratamente socialisti bisognerà attendere il 1962 con I compagni di Mario
Monicelli, il film più socialista di tutta la storia del cinema italiano, costruito su
due figure di socialisti, l’intellettuale e il maestro, che si attivano entrambi per
dare concretezza politica alla lotta e superare il drammatico dilemma
‘‘massimalismo-riformismo’’, ‘‘rivoluzionarismo/gradualismo’’ che ha sempre
lacerato la sinistra, ispirato a ‘‘quelle grandi figure di Costa, Treves, dei borghesi
che si erano dati alla riscossa della classe operaia’’ (Consoli, 2011: 21).
Nonostante la cattiva accoglienza al film in quanto privo di un finale apologetico,
consolatorio ma illusorio (vero solo nel cinema di propaganda), a trionfo delle
‘‘magnifiche sorti e progressive’’ della classe operaia ma che si concludeva con una
sconfitta, un insuccesso che amareggiò il regista, quest’opera contiene invece una
lezione profondamente socialista e riformista, e cioè che bisogna continuare a lottare
anche quando si perde una battaglia.
È lo stesso Monicelli a raccontare la prima proiezione del film al partito su invito
di Nenni:
Successe una mezza catastrofe . . . Il centro-sinistra non esisteva ancora ma era ormai
alle porte, e all’interno del Psi c’era un duro scontro tra i cosiddetti ‘‘carristi’’ (la
corrente filo-comunista del partito, ndr) e i moderati: durante la proiezione, in seguito
a non so quale frase detta da uno dei personaggi, alcuni carristi si scatenarono e si
misero a inveire, e insomma vennero alle mani con i sostenitori dell’ingresso nel
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Forum Italicum 54(1)
governo. Cosı̀ fecero accendere le luci e interruppero il film. Io ero seduto vicino a Nenni
e questo mi creava qualche imbarazzo. Nenni mi disse qualcosa per consolarmi.
(Monicelli, 2011: 22)
Come afferma Carlo Carotti nella sua approfondita analisi su socialisti e comunisti
nel cinema italiano (Carotti, 2017), nei primi anni Cinquanta emerge con ancora
maggior evidenza l’egemonia del Partito Comunista cosı̀ come negli anni Sessanta i
sindacalisti socialisti, di cui pure il cinema si occupava, o non erano nominati oppure
non si esplicitava la loro appartenenza politica anche se questa non è certamente
irrilevante, come nel caso di Placido Rizzotto, segretario della Camera del Lavoro di
Corleone, ucciso dalla mafia, nel film omonimo di Pasquale Scimeca (Placido
Rizzotto, 2000), che sollevò le proteste di Ottaviano Del Turco, all’epoca segretario
socialista nella Cgil, o in quello di Giuseppe Ferrara (Il sasso in bocca, 1969).
Altrettanto dicasi per Un uomo da bruciare (Paolo e Vittorio Taviani, Valentino
Orsini, 1962), ispirato al sindacalista socialista Salvatore Carnevale che, come già
ricordato, organizzò le lotte contadine in Sicilia contro il latifondo, anche lui ucciso
dalla mafia.
Un riuscito esempio di documentario biografico è invece Rocco Scotellaro (1979)
del regista socialista Maurizio Scaparro su vita e opere del poeta sindaco socialista,
premio Strega postumo, che si ricorda per lo studio di figure contadine ed in omaggio
al cui nome Luchino Visconti ha intitolato il suo celebre film (ispirato al racconto di
Thomas Mann Giuseppe e i suoi fratelli), Rocco e i suoi fratelli (1960).
L’analisi di Carotti si sofferma su diverse opere dove appaiono figure di socialisti
che meritano di essere brevemente evidenziate: in Metello (Mauro Bolognini, 1970),
tratto da Vasco Pratolini, film che a Cannes ottiene il premio per la miglior
interpretazione femminile di Ottavia Piccolo, un’opera che prende in considerazione
il periodo storico tra il 1875, dopo l’unità d’Italia e il primo Novecento, ed il cui
protagonista si impegna nelle prime lotte operaie iscrivendosi al Partito Socialista; ne
Il padre di famiglia (Nanni Loy, 1967), film sul contrasto tra famiglia e impegno
politico ambientato nel 1946, anno del referendum tra monarchia e repubblica, il cui
protagonista maschile è un architetto socialista mentre l’interprete femminile è
monarchica; in Rocco e i suoi fratelli in cui Ciro, operaio dell’Alfa Romeo, è in
sintonia con il riformismo degli anni Sessanta; ne Il caso Moro (Giuseppe Ferrara,
1986) che si sofferma sulle linee politiche antagoniste della fermezza di DC e PCI e
della trattativa del PSI nel solco della tradizione umanitaria socialista o in Giovanni
Falcone (sempre di Ferrara, 1993) in cui si dà atto della decisione dell’allora ministro
della Giustizia Claudio Martelli di averlo chiamato a Roma come direttore generale
degli Affari Penali e di averlo sostenuto nella sua battaglia contro Cosa Nostra; in
Uomini contro (Francesco Rosi, 1970) sul socialismo rivoluzionario del tenente
Ottolenghi contro l’ottusità criminale dei ‘‘generali fucilatori’’; Nella città perduta
di Sarzana (Luigi Faccini, 1980) che si occupa dei fatti avvenuti a Sarzana nel 192125
sulle due anime della sinistra esemplificate nel sindaco socialista, che cerca di evitare
la violenza, ed il capo comunista del comitato di difesa della città; in Fatto di sangue
fra due uomini per causa di una vedova. Si sospettano moventi politici (Lina
Giacci
543
Wertmüller, 1978), dove si parla dei Fasci siciliani26 e di occupazione delle terre,
tratteggiando una figura di avvocato socialista, amareggiato dopo la scissione di
Livorno ed in cui si evoca il socialismo umanitario e legalitario di Prampolini; in
Fatti di gente per bene (Mauro Bolognini, 1974) sulla figura dell’avvocato socialista
bolognese Tullio Murri e su come un delitto passionale sia stato strumentalizzato a
fini politici; nel film tv Il giovane Mussolini (Gianluigi Calderone, 1993)
sull’impossibile incontro tra il riformismo socialista di Treves, Turati e Bissolati e
il massimalismo estremista di Mussolini che lo porterà dal pacifismo
all’interventismo nella Prima guerra mondiale, descritto anche in Vincere (Marco
Bellocchio, 2009) che con La Cina e` vicina (1967) aveva indicato la via cinese in
opposizione alla scelta socialdemocratica del Partito Socialista Unificato.
Oltre che da figure quasi sempre di sindacalisti, avvocati o magistrati, spesso in
questi personaggi l’appartenenza socialista è rappresentata in modo ironico e
satirico quando non grottesco, per darne un’immagine, distorta quando non
negativa, o per diminuirne l’empatia, come nel caso de I vitelloni (Federico Fellini,
1955) dove il modesto intellettuale di provincia interpretato da Leopoldo Trieste si
dichiara socialista per evitare l’ira degli operai al famoso gesto di scherno loro rivolto
da Alberto Sordi (‘‘Lavoratori . . ..’’); di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni
sospetto (Elio Petri, 1970) in cui il commissario di polizia assassino, magistralmente
interpretato da Gian Maria Volonté, si dichiara anch’egli socialista; o Del perduto
amore (Michele Placido, 1998), un’analisi sul PCI e sul superamento dello stalinismo
e del settarismo dopo i fatti di Ungheria dove il Partito Socialista sembra
inizialmente comprendere meglio la necessità di questo distacco ma poi viene
nuovamente inglobato nelle dinamiche della conservazione; de L’arte di arrangiarsi
(Luigi Zampa, 1954) sul vizio tutto italiano del trasformismo, esemplificato da un
personaggio (Alberto Sordi) che, seguendo in modo esclusivamente opportunistico
gli sviluppi storici del paese, da socialista diventa fascista, poi comunista ed infine
democristiano; C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974), amara e sconsolata
allegoria dell’illusione riformista descritta nella saga di tre amici che s’incontrano
dopo tanto tempo e con esperienze che li hanno divisi anche politicamente, il primo
comunista di base, il secondo intellettuale cinefilo dell’extra sinistra, il terzo
assessore socialista raccomandato e venduto ai palazzinari; Cosmonauta (Susanna
Nicchiarelli, 2009) dove, nella storia della protagonista che incendia una sede del PSI
addossandone la responsabilità ai fascisti ed agli stessi socialisti (la nefasta teoria del
‘‘social fascismo’’ che torna e riemerge), viene presa in esame la nascita dei contrasti
tra i socialisti, visti come ‘‘traditori’’ quando, a seguito dell’invasione dell’Ungheria,
venne abbandonata l’unità d’azione a sinistra; oppure ancora Il portaborse (Daniele
Lucchetti, 1991) sui comportamenti del ministro socialista delle Partecipazioni
Statali, interpretato da Nanni Moretti, un misto di spregiudicatezza e cinismo.
Se si eccettuano Il delitto Matteotti (Florestano Vancini, 1973) sulla figura del
segretario del Partito Socialista Unitario e sulla storica divisione tra socialisti e
comunisti all’interno del comitato delle opposizioni che avevano lasciato il
Parlamento ritirandosi sull’Aventino, con i comunisti di Gramsci, che chiedevano
lo sciopero generale e i socialisti, con Turati, che erano invece per un governo di
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Forum Italicum 54(1)
socialisti e liberali e che si conclude con l’omicidio di Matteotti e la conseguente presa
del potere da parte di Mussolini; qualche opera su Sandro Pertini, che in gioventù,
durante il suo esilio in Francia, aveva partecipato lui stesso a un film americano come
comparsa27, tra cui un film tv interpretato da un giovane Maurizio Crozza ritirato
dalla programmazione perché fortemente contestato dalla moglie Carla Voltolina;28
alcuni documentari29 e sue fuggevoli apparizioni in Mussolini ultimo atto (Carlo
Lizzani, 1974)30 e in fiction televisive,31 ed oltre a un debole film tv su Anna
Kuliscioff del 1981 firmato da Roberto Guicciardini; all’evocazione dell’assassinio
di Carlo Rosselli in Francia ne Il conformista (Bernardo Bertolucci, 1970); a uno
sceneggiato televisivo in 3 puntate L’assassinio dei fratelli Rosselli (Silvio
Maestranzi, 1974); alla miniserie tv Altri tempi (Marco Costa, 2013) ispirata
alla senatrice socialista Lina Merlin ed alla sua legge sulla abolizione della
prostituzione;32 o al recente progetto Hammamet sull’esilio di Craxi affidato
all’autorevole regia di Gianni Amelio, non si ha riscontro, perlomeno a mia
memoria, di opere in cui la storia del Partito Socialista Italiano ed i suoi leader
più rappresentativi siano stati adeguatamente rappresentati.
A quando, dunque, qualche bel film su Turati, Costa, Treves, Prampolini,
Bissolati, Buozzi, Brodolini, Nenni, Fortuna?
La politica socialista nel cinema
Nel corso della lunga storia del Partito Socialista, le istanze politiche e sociali si sono
indissolubilmente legate a quelle culturali le quali hanno trovato nei valori di libertà,
indipendenza e democrazia la miglior garanzia possibile. Come osserva giustamente
Walter Pedullà in queste stesse pagine, il Partito Socialista era quello dove era
possibile per gli intellettuali ‘‘essere socialisti dal proprio punto di vista’’, perché
era più per l’egemonia culturale che per l’egemonia della cultura.
È avvenuto anche nel campo del cinema e spiega perché cosı̀ tanti registi, attori,
sceneggiatori e produttori, forse la maggioranza del cinema italiano, abbiano
trovato in quel partito un luogo dove esprimere in piena autonomia la creatività,
rispondendo in via esclusiva al proprio pensiero ed alla propria coscienza. Il che
chiarisce anche l’ampiezza e la varietà degli interessi, degli atteggiamenti, degli
argomenti che gli autori di ispirazione socialista, ma anche coloro che, con quella
stessa ispirazione, hanno ricoperto incarichi e ruoli di responsabilità in realtà
istituzionali e strutture culturali, hanno affrontato, identificandosi nei diritti di
libertà e nei valori di progresso che ne costituiscono l’anima irrinunciabile e non
trattabile, senza discipline ferree o rigidi dettami di partito.
Per quanto concerne, più specificamente il cinema, va ribadito che il PSI ha
costruito nel tempo un importante apparato legislativo e di governo per la
regolamentazione, lo sviluppo e la crescita del settore, partendo dalla legge 1213
chiamata ‘‘legge Corona’’ dal nome del ministro socialista che la varò nel novembre
1965, riconoscendo per la prima volta al settore non solo caratteristiche industriali
ma anche rilevanza culturale33; continuando con l’istituzione del FUS (Fondo unico
per lo spettacolo), concepito e voluto dal ministro socialista Lagorio: tuttora
Giacci
545
sostiene in modo programmato e sistematico l’intero settore dello spettacolo
(cinema, musica, teatro, danza, spettacolo viaggiante);34 con gli interventi
del ministro De Michelis per il sostegno ed il rilancio del gruppo cinematografico
pubblico (Cinecittà e Istituto Luce)35; con le battaglie per l’abolizione della censura o
per la libertà della cultura nei paesi dell’est con la ‘‘Biennale del dissenso’’ del 1977
fortemente voluta dal suo presidente, il socialista Carlo Ripa di Meana, per poi
soffermarci brevemente sull’impulso dato al settore della cultura, dello spettacolo
e dell’informazione dal nuovo corso socialista, durante la segreteria Craxi e sotto la
guida del suo responsabile Claudio Martelli.36
L’‘‘idillio’’ tra intellettuali e PSI, esploso già in occasione delle elezioni politiche
del 1968,37 si ripropone nel periodo 1976–197938 e poi con l’istituzione a Firenze nel
1981 del Club dei Club, che raccoglie le numerose aggregazioni culturali socialiste39 e
la creazione dell’assemblea nazionale del partito, istituita con il congresso di Verona
nel 1984, in sostituzione del comitato centrale e della quale entrano a far parte
numerosi esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo.
Scopo ed obiettivo di tale atteggiamento era di ragionare sui consumi culturali di
massa imposti dalla ‘‘società dello spettacolo’’ e sul rischio di una ‘‘partecipazione
non partecipata’’, riflettendo, a esempio, sulla contraddizione evidente dovuta al
fatto che al centro del sistema dei mass media si trovava il mezzo televisivo colpevole
di produrre esso stesso isolamento e alienazione, con la conseguente crisi di sistema
che si sarebbe effettivamente verificata e che oggi è all’attenzione di ogni politologo,
economista, sociologo, quella cioè di una ‘‘modernizzazione senza sviluppo e senza
governo’’ (Giacci, 1984: 25).40
Ed è per questa ragione che il PSI poneva al centro della propria politica culturale
l’internazionalizzazione del mercato; la relazione tra cultura e industria e tra
industrializzazione e sburocratizzazione; il rapporto cinema/televisione, con una
intensa, razionale ed articolata progettualità senza precedenti che non trovava
uguali nelle altre forze politiche ma che, proprio per questa sua capacità di
anticipazione, la isolava e non metteva in condizione il paese di dotarsi di una visione
di politica culturale ed industriale capace di affrontare con successo le sfide della
modernità.41
Claudio Martelli scriveva di:
uno sforzo di modernizzazione che si è manifestato in forme diverse, nel tentativo di
sprovincializzare la cultura italiana e di metterla in rapporto, anche con inevitabili
attriti, con i nuovi mezzi di comunicazione e nella pressione esercitata sui centri di
produzione e di spettacolo, di cultura e di informazione perché facessero propri, per
tempo, gli elementi fondamentali della rivoluzione tecnologica in atto. Conseguenza di
tale atteggiamento, una particolare attenzione ai profili legislativi ed istituzionali, alla
riforma e alla riqualificazione delle strutture di produzione e di diffusione, ai diversi
aspetti della professionalità e della competenza, alle esigenze di ritorno economico.
È stato giustamente osservato che l’Italia, se non dispone di materie prime ma soltanto
della laboriosità e della intelligenza di chi lavora e produce, dispone viceversa di veri e
propri giacimenti culturali, appartenenti alla sua storia, ma malamente amministrati e
546
Forum Italicum 54(1)
pessimamente tutelati e valorizzati, mentre l’era della telematica e dell’integrazione tra i
diversi generi dello spettacolo offre l’opportunità ed i vantaggi per una intelligente
valorizzazione di questo patrimonio, purché si sappiano cogliere i punti di contatto e
di interconnessione forniti dal nuovo statuto materiale, economico, tecnologico, delle
moderne comunicazioni di massa. (Giacci, 1984: 4–5)
E aggiungeva:
Si è trattato di uno sforzo in senso progettuale rispetto al quale è giusto rivendicare oggi – e
mi auguro non solo oggi per ieri ma anche oggi per domani – il ruolo effettivo di avanguardia, intendendo con questo termine, beninteso, non la parte dura, estrema, militante di
un movimento già dato e quindi già superato nei suoi connotati più generali, ma l’intelligenza, l’apertura, la lungimiranza, la globalità dell’approccio con cui un gruppo politico e
culturale riesce ad affrontare i problemi del presente, senza timore di perforare convenzioni, tabù, rigidità ideologiche o ancor più rigidi schemi di potere. (Giacci, 1984: 5)
Il prevalere della ‘‘democrazia elettronica’’ e la rivoluzione digitale che hanno
formato nuovi scenari impensabili fino a pochi anni fa, generando un unico
strumento comunicativo ed informativo, la rete, dove agiscono a livello planetario
nuovi soggetti, nuove aggregazioni e nuovi consumatori, rende ancor più evidente
l’assenza di una governabilità istituzionale che ne regoli gli andamenti e ne contenga
gli eccessi.
E ciò proprio per continuare a tutelare quei diritti collettivi e individuali di libertà
di pensiero e di azione che sono diventati patrimonio irrinunciabile dell’Italia, a
partire da quel lontano 1892, quando alcuni uomini di buona volontà, riuniti
sotto l’insegna di un partito, il Partito Socialista Italiano, hanno lottato e, in qualche
caso, dato la vita, per garantirli ad altri, e, nel campo specifico, ai professionisti della
settima arte, donando la loro creatività e offrendo emozioni senza fine che hanno
reso la nostra esistenza ancora più bella e più amabile.
Note
1. È stata una giuria autorevolissima composta, oltre che da Bassani (presidente), da: Lindsay
Anderson (Gran Bretagna), Luboš Bartošek (Cecoslovacchia), Michel Butor (Francia), Lewis
Jacobs (USA), Lev Vladimirovič Kulešov (URSS), Joris Ivens (Paesi Bassi). I film in concorso
erano, oltre a La battaglia di Algeri, Atithi (Tapan Sinha, India), Au hasard Balthazar (Robert
Bresson, Francia/Svezia), Chappaqua (Conrad Rooks, USA/Francia), Fahrenheit 451,
(François Truffaut, Regno Unito), Giochi di notte (Mai Zetterling, Svezia), I selvaggi (Roger
Corman, USA), Il primo maestro (Andrej Končalovskij, URSS), La calda preda (Roger
Vadim, Francia/Italia), La ragazza senza storia (Alexander Kluge, Germania Ovest), Les
cre´atures (Agnès Varda, Francia/Svezia), Un uomo a metà (Vittorio De Seta, Italia/Francia).
2. Nella lettera del 23 luglio 1957 all’amico e mecenate Cesare Zipelli, D’Arrigo aveva scritto:
‘‘È per me sottile motivo di piacere che alcuni mi citino in funzione antipasoliniana’’
(Firenze, Gabinetto G. P. Vieusseux, Archivio).
Giacci
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3. Con l’espressione ‘‘anni di piombo’’, ripresa dal titolo del film di Margarethe von Trotta
del 1981, ci si riferisce, in Italia, a un periodo storico compreso tra la fine degli anni
Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta del Novecento, che, a grandi linee, inizia dalla
contestazione studentesca del Sessantotto per raggiungere l’apice con il rapimento e
l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro (marzo-maggio 1978), contrassegnato da violenti
scontri di piazza, attentati, sequestri, stragi, sospetti di colpi di stato che vedono contrapposte organizzazioni di estrema sinistra (Lotta Continua, Potere Operaio, Prima
Linea), e gruppi di estrema destra (NAR, Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale,
Terza Posizione) e movimenti terroristici come le Brigate Rosse: un miscuglio di terrorismo di sinistra ed eversione di destra a cui si aggiunge l’inquinamento di corpi deviati di
apparati dello stato che danno vita alla teoria dello ‘‘stragismo di stato’’. Il cinema si è
ampiamente occupato, direttamente o indirettamente, del drammatico fenomeno con
opere di Marco Tullio Giordana (La caduta degli angeli ribelli; La meglio gioventù);
Francesco Rosi (Cadaveri eccellenti); Carlo Lizzani (San Babila ore 20: un delitto inutile);
Mario Monicelli (Vogliamo i colonnelli; Caro Michele); Bernardo Bertolucci (La tragedia
di un uomo ridicolo); Marco Bellocchio (Sbatti il mostro in prima pagina, Buongiorno,
notte); Gianni Amelio (Colpire al cuore); Giuseppe Ferrara (Il caso Moro; Guido che
sfidò le Brigate Rosse); Graziano Diana (Gli anni spezzati); Marco Leto (L’uscita; A
proposito di quella strana ragazza).
4. L’espressione ‘‘massacro del Circeo’’ si riferisce al rapimento, con successivo omicidio,
avvenuto tra Roma e San Felice Circeo nel settembre 1975. Le vittime, due giovani
amiche, Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, furono adescate da Gianni Guido,
Angelo Izzo e Andrea Ghira in una villa col pretesto di una festa e qui abusate e violentate
fino a provocare la morte di Rosaria Lopez.
5. Si tratta del rapimento e assassinio della tredicenne Yara Gambirasio, avvenuto il 26
novembre 2010 a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. Il relativo e controverso
procedimento giudiziario si è concluso il 12 ottobre 2018 con la definitiva condanna
all’ergastolo pronunciata nei confronti di Massimo Giuseppe Bossetti, riconosciuto
come unico colpevole, benché si fosse sempre dichiarato innocente.
6. Per ‘‘Primavera di Praga’’ s’intende il periodo storico legato al processo di destalinizzazione e di liberalizzazione democratica voluto dal comunista riformista cecoslovacco
Alexander Dubček stroncato dall’invasione dei carri armati sovietici il 2 agosto 1968,
dopo solo pochi mesi dall’inizio dell’esperienza passata sotto il nome di ‘‘socialismo dal
volto umano’’. Quell’evento cosı̀ drammatico, la soppressione violenta della speranza di
democratizzazione fortemente voluta dalla popolazione, simboleggiata dal suicidio del
giovane studente Jan Palach, che si immolò cospargendosi di benzina e dandosi fuoco
sulla piazza principale della capitale, ebbe notevoli ripercussioni e conseguenze anche
all’interno della sinistra italiana. Da parte dei socialisti, con Nenni poi con Craxi, ci fu
l’appoggio convinto al nuovo corso, espresso dal sostegno incondizionato delle riviste
Mondoperaio e Critica Sociale, ribadito con la candidatura al Parlamento Europeo di Jiřı́
Pelikán a capo della televisione cecoslovacca durante la ‘‘Primavera’’. Da parte dei comunisti si espresse dissenso sull’invasione con Longo poi con Berlinguer, ma con atteggiamento incerto ed ambiguo, ferma restando la contraddizione del mantenimento del
legame ‘‘antimperialista’’ con il PCUS; peraltro la minoranza di osservanza ortodossa,
con Cossutta, minacciava, con appoggio sovietico, la scissione. La ‘‘Primavera di Praga’’
ha ispirato il cinema, la musica, la letteratura, con l’eccellenza del romanzo di Milan
Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere. Per un’informazione più approfondita
sull’argomento si vedano Pelikán, 1978 e Scoppola, 2014.
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7. L’attenzione dimostrata da Strehler nei confronti del cinema trovò ulteriore conferma
quando nel 1982 fu nominato presidente di giuria al festival di Cannes. La Palma d’Oro
venne attribuita a Missing – Scomparso del regista socialista greco Costa-Gavras su un
giornalista americano sparito in Cile dopo il colpo di stato del generale Augusto Pinochet
che rovesciò il governo di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende. Uno
dei rari casi in cui l’emozione artistica si è mirabilmente coniugata con il sentimento
politico.
8. Pietro Germi (1914–1974), regista ‘‘fuori dal coro’’ in quanto socialdemocratico (si proclamava ‘‘socialista saragattiano’’), e anche per questa ragione emarginato e purtroppo
dimenticato, è stato uno dei pochi amici con cui Monicelli era in confidenza, ereditando e
realizzando in suo ricordo Amici miei; è stato difeso da Luigi Chiarini per il suo film Il
ferroviere (1956).
9. Per ‘‘matrimonio riparatore’’ si intende quell’istituto giudiziario, rimasto in vigore in
Italia fino al 1981, in virtù del quale un uomo che avesse commesso violenza carnale
nei confronti di una donna nubile o illibata poteva, onde evitare il processo, richiedere
alla donna offesa di sposarla, facendo in tal modo cessare ogni effetto penale e sociale del
suo delitto (art. 544 Codice penale abrogato). È utile aggiungere che l’eventuale rifiuto
della riparazione offerta comportava solitamente per la donna il disprezzo della collettività e la quasi certezza di non poter più trovare marito. La siciliana Franca Viola è il primo
caso noto di una ragazza che, nel 1966, rifiuta il matrimonio ‘‘riparatore’’, facendo
giudicare il rapitore e stupratore.
10. Il ‘‘caso Fenaroli’’, chiamato anche ‘‘il mistero di via Monaci’’, fu uno dei casi più
intriganti di cronaca nera degli anni Cinquanta che appassionò il paese dividendolo tra
innocentisti e colpevolisti. Riguardava l’uxoricidio di una donna, Maria Martirano,
architettato, secondo l’accusa, dal marito Giovanni Fenaroli, utilizzando come sicario
un proprio dipendente. Il processo, tra i più seguiti dell’epoca, terminò con la condanna
all’ergastolo per entrambi, anche se permasero dubbi sulla loro effettiva colpevolezza.
11. Il Partito Comunista Italiano, nato dalla scissione di Livorno del 1921, dopo aver seguito
dal 1924 la linea del ‘‘fronte unico’’, cioè della collaborazione con le altre forze della
sinistra, si trova nel 1930, periodo affrontato nel film, sulle posizioni intransigenti della
nascita, avendo fatta propria la tesi del ‘‘socialfascismo’’ affermata nel 1928 dal sesto
congresso del Comintern. La socialdemocrazia era definita il principale nemico dei comunisti, un’ala del fascismo.
12. ‘‘Nei napoletani,’’ dichiara Francesco Rosi, ‘‘c’è, fondamentalmente, un conflitto tra
l’estro e l’armonia. C’è un fondo di razionalità istintuale, un forte istinto, una forte
passionalità, ma c’è anche un’ispirazione a razionalizzarsi, a mostrarsi razionali.
Questo combattimento interno penso di rappresentarlo abbastanza marcatamente,
questo fondo di istinto e passione cerco sempre di correggerlo e di controllalo razionalmente’’ (Rosi, 1990: 135).
13. Vittorio Gassman, Parlando di Vittorio, contributi extra DVD Kean – genio e sregolatezza
(Gruppo Editoriale Espresso, Roma, 2010).
14. Sul personaggio di Kean esistono due precedenti versioni cinematografiche: Kean
(Alexandr Volkov, 1924), interpretato da Ivan Mozzuchin, e Kean (Guido Brignone,
1940) con Rossano Brazzi.
15. La trama del film si ispira alla cronaca vera del ferroviere francese Jean-Marie Loret il
quale sosteneva di essere nato dalla relazione tra Hitler e sua madre Charlotte Lobjoie
avvenuta durante la Prima guerra mondiale, a lui rivelata dalla madre quando lei è in
punto di morte.
Giacci
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16. Il ‘‘caso Tortora’’ costituisce uno degli esempi più clamorosi di errore giudiziario e di mala
giustizia italiana. Il popolare giornalista e conduttore televisivo (tra i lavori più importanti La domenica sportiva e Portobello) venne arrestato nel 1983 sotto l’accusa di gravi
reati come associazione camorristica e traffico di droga, sulla base di accuse provenienti
da pregiudicati, rivelatesi infondate. Fu liberato dopo sette mesi di carcere per essere
nuovamente condannato a dieci anni di reclusione. Fu riconosciuto innocente in via
definitiva nel 1986. Durante questo periodo, Tortora fu eletto eurodeputato per il
Partito Radicale, del quale divenne anche presidente. Morı̀ un anno dopo l’assoluzione,
stroncato dal dolore per una vicenda cosı̀ assurda.
17. Pino Caruso – Duo di Piadena, a cura del Partito Socialista Italiano. Lato A: Basta con la
libertà; (monologo di Pino Caruso); lato B: Vogliamo andare avanti (Duo di Piadena).
18. La canzone Romantica, vincitrice al festival di Sanremo del 1960, venne accusata di
plagio. Il tribunale assolse Rascel che fece ricorso al parere tecnico di un esperto come
Igor Stravinsky.
19. Che Renato Rascel fosse simpatizzante del Partito Socialista me lo disse lui stesso, in un
casuale incontro in treno da Roma a Milano, nel 1977. Emozionato di trovarmi di fronte a
un artista che avevo amato fin da bambino per le sue filastrocche e per i suoi film comici e
che in seguito mi aveva conquistato per le sue inattese doti di attore drammatico, non
persi l’occasione per dialogare con lui e quando apprese che in quel periodo ricoprivo
l’incarico di responsabile cinema del PSI, passando subito al tu come si fa tra compagni mi
confermò di essersi avvicinato al socialismo fin dal 1968 quando firmò un appello degli
intellettuali, e di guardare con simpatia ed attenzione a quello che stava proponendo nel
campo della cultura e dello spettacolo il nuovo corso socialista, dichiarandomi la sua
disponibilità a esserne coinvolto.
20. Salvatore ‘‘Turi’’ Carnevale (1923–1955), bracciante e sindacalista socialista di Sciarra
(PA), venne assassinato a colpi di lupara a 31 anni, all’alba del 16 maggio 1955, mentre si
recava a lavorare in una cava di pietra. Carnevale era inviso ai proprietari terrieri per aver
difeso i diritti dei braccianti agricoli. Nel 1951 aveva fondato la sezione del Partito
Socialista Italiano di Sciarra e aveva organizzato la Camera del Lavoro e nell’ottobre
dello stesso anno aveva organizzato i contadini nell’occupazione simbolica delle terre di
contrada Giardinaccio e per questa ragione era stato arrestato. Uscito dal carcere si
trasferı̀ per due anni a Montevarchi in Toscana dove scoprı̀ una cultura dei diritti dei
lavoratori ancora più forte e radicata. Nell’agosto 1954 tornò in Sicilia dove cercò di
trasferire nella lotta contadina le sue nuove esperienze. Fu nominato segretario della Lega
dei Lavoratori Edili e tre giorni prima di essere assassinato era riuscito a ottenere le paghe
arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore. Del suo
omicidio vennero accusati quattro mafiosi dipendenti della principessa Notarbartolo.
Al processo, la parte civile costituita dalla madre Francesca Serio, fu rappresentata dal
futuro Presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, e dagli avvocati Nino
Taormina e Nino Sorgi (che molte volte difese il quotidiano L’Ora da querele di politici
collusi con la mafia), anche loro socialisti come Carnevale. Il processo di primo grado si
svolse a Santa Maria Capua Vetere per legitima suspicione. Il 21 dicembre 1961 i
quattro imputati vennero condannati all’ergastolo. Nel collegio di difesa degli imputati
compariva un altro futuro presidente della Repubblica, l’avvocato Giovanni Leone.
In appello e poi in Cassazione il verdetto fu ribaltato e gli imputati assolti per insufficienza
di prove. Alla sua vita è ispirato il film Un uomo da bruciare di Paolo e Vittorio Taviani e
Valentino Orsini, interpretato da Gian Maria Volontè.
21. Corrado Alvaro, nella prefazione di Paride Leporace a Scarfò e Briguglio, 2018.
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Forum Italicum 54(1)
22. Angelo Gentile, ‘‘Caro De Sica’’ ‘‘Egregio Onorevole’’, Articolo 1, Fondazione
Pietro Nenni, reperibile online con la copia integrale delle due missive. Disponibile su:
fondazionenenni.it/wp-content/uploads/2015/12/42 (accesso: 31 agosto 2019).
23. ‘‘Quella parte di cinema chiamata televisione’’, da un’espressione di Jean-Luc Godard, è
stato un importante convegno internazionale organizzato a Roma nei giorni 28–29–30
giugno 1979 dal centro culturale ‘‘Mondoperaio’’ e da ‘‘Progetto Immagine’’ al quale
hanno partecipato: Alberto Abruzzese, Chantal Ackerman, Age, Gianni Amico,
Michelangelo Antonioni, Pupi Avati, Gianvittorio Baldi, Sandro Bolchi, Edoardo Bruno,
Franco Brusati, Veljko Bulajic, Liliana Cavani, Marvin J. Chomsky, Michel Ciment, Luigi
Comencini, Silvia D’Amico, André Delvaux, Serge Daney, Massimo Fichera, Giovanna
Gagliardo, Bruno Ganz, Vittorio Gassman, Claude Goretta, Paolo Grassi, Ulrich Gregor,
Tonino Guerra, Stephen Harvey, Villi Herrmann, Miklós Jancsó, Alberto Lattuada, Sergio
Leone, Marco Leto, Jean François Lyotard, Massimo Mida Puccini, Giuliano Montaldo,
Alberto Moravia, Italo Moscati, Jean Narboni, Ugo Pirro, Maurizio Ponzi, Donald
Ranvaud, Dino Risi, Francesco Rosi, Renzo Rossellini, Giuseppe Rossini, Mimmo
Scarano, Daniel Schmidt, Vilgot Sjöman, Hans-Jürgen Syberberg, Susan Sontag, Ingrid
Thulin, Daniel Toscan du Plantier, Giuseppe Vacca, Florestano Vancini, Paul Vecchiali,
Lina Wertmüller, Haskell Wexler, Krzysztof Zanussi, Cesare Zavattini, Mai Zetterling.
24. Il terrorista (Gianfranco De Bosio, 1965) che affronta il tema di un attentato dei GAP
(Gruppi di Azione Patriottica) contro un comando tedesco a Venezia senza preavvertire il
CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) è il primo film in cui sono nominate tutte le
forze in campo.
25. Con l’espressione ‘‘fatti di Sarzana’’ ci si riferisce agli avvenimenti del 21 luglio 1921,
quando nella città di Sarzana si registrarono diversi scontri armati tra squadre d’azione
fasciste e carabinieri reali e guardie del Regio Esercito cui seguirono, a opera della popolazione civile e degli Arditi del Popolo, alcuni episodi di resistenza antifascista spontanea
in risposta alle violenze squadriste, uno dei pochi episodi di resistenza armata all’ascesa
del fascismo con vittime da entrambe le parti.
26. I Fasci siciliani sono stati un movimento di massa di ispirazione libertaria, democratica e
socialista spontaneista sviluppatosi in Sicilia dal 1891 al 1894 e diffusosi fra proletariato
urbano, braccianti agricoli, minatori e operai.
27. Si tratta di Le tre passioni, un film di Rex Ingram del 1928. Cosı̀ racconta quella esperienza
lo stesso Pertini: ‘‘Ad un certo punto rimasi disoccupato, come accade. Ed allora si
interessarono di me un gruppo di anarchici miei amici, che mi dissero: ‘‘Senti, alla
Paramount, in una zona a ponente di Nizza dove c’erano delle case cinematografiche,
stanno girando il film di Rex Ingram ‘‘Le tre passioni: il gioco, la politica e la donna’’. Se ti
presenti in tuta da operaio appena aprono ti assumono come comparsa. Ti pagano anche
se poi non ti utilizzano’’. Ci andai subito. Fu la prima volta che vidi un trucco cinematografico: c’era un grande palazzo, ma vi era solo la facciata, dietro non c’era niente, una
facciata fatta in fretta e furia. Noi come comparse dovevamo, in finzione, scioperare e
durante una manifestazione rovesciare dei tram, ecc.’’ (Archivio Pertini, intervista del
presidente della Repubblica alla rivista ‘‘Abitare, costruire sempre’’, Roma, 17 marzo
1983, Caretti e Degli Innocenti, 2006. Sono riuscito dopo diverse ricerche a ritrovare un
DVD del film che contiene, in effetti, sequenze di sciopero ma sono scene di massa girate
in campo lungo per cui è impossibile individuare Pertini).
28. È il film Ci sarà un giorno. Il giovane Pertini, una produzione Rai del 1993 con la regia di
Franco Rossi e la sceneggiatura di Vittorio Bonicelli, interpretato, oltre che da Maurizio
Crozza, da Ivano Marescotti, Pietro Ghislandi, Luigi Montini.
Giacci
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29. Il documentario più recente si intitola: Pertini il combattente (Graziano Diana, Giancarlo
De Cataldo, 2018). Mi piace qui ricordare anche il documentario da me girato con la
collaborazione della Associazione Nazionale ‘‘Sandro Pertini’’, Mi mancherai. Ricordo di
Sandro Pertini, sceneggiatura di Giuliano Vassalli, musiche di Luis Bacalov, realizzato
sotto l’Alto Patronato del presidente della Repubblica, candidato al Globo d’Oro della
stampa estera in Italia e premio Internazionale ‘‘Gianni Di Venanzo’’. A proposito di
questo film il presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano ha dichiarato: ‘‘Il
presidente della Repubblica esprime vivo apprezzamento per la realizzazione del documentario su Sandro Pertini che celebra, nel trentennale della sua nomina a Presidente
della Repubblica, il lungo e appassionato impegno al servizio del Paese fino a ricoprire la
più alta carica dello Stato. Pertini era e resta nei cuori e nelle coscienze degli Italiani un
simbolo luminoso della lotta contro il fascismo, della riconquistata libertà e della costruzione e consolidamento della Democrazia Repubblicana. Il documentario rende onore
alla sua nobile figura animata sempre dalla profonda consapevolezza del rapporto che
deve unire le istituzioni e la società e ne rinnova la memoria soprattutto per le nuove
generazioni che proprio Pertini chiamava a operare per il futuro del Paese’’. Il testo, un
telegramma inviato dal presidente della Repubblica all’autore (Vittorio Giacci) del documentario Mi mancherai. Ricordo di Sandro Pertini, 2008, appare in testa al
documentario.
30. Alle preoccupazioni del regista per averlo rappresentato in modo troppo duro (nella
sequenza presso il vicariato di Milano in cui, alla notizia della fuga di Mussolini, viene
decisa dal CLN e, in particolare, proprio da Pertini, la sua fucilazione, il presidente, con
viva sorpresa di Lizzani, cosı̀ rispose: ‘‘Nel film, se c’è un personaggio ‘‘moscio’’, sono io!
All’Arcivescovado tenni un atteggiamento duro con Tiengo – il prefetto di Milano – e con
l’arcivescovo, tanto duro che sentii Lombardi e Marazza mormorare: ‘‘Pertini adesso ci
manda all’aria tutto’’ (cioè la consegna di Mussolini al colonnello Max Salvadori, che
attendeva in macchina in una via vicina all’Arcivescovado) [. . .] Sostenni che Mussolini
doveva essere fucilato e lo sostenni con la fermezza e il calore del mio temperamento. [. . .]
Il mio non è che uno sfogo che il vento si porterà via. Resta e resterà il tuo film, per me
riuscito. E questo è quel che conta [. . .] Ancora bravo, caro Lizzani, e saluti cordiali. Tuo
Pertini’’ (Lizzani, 2007: 235–236).
31. Sandro Pertini appare brevemente anche in Un mondo Nuovo (Negrin, 2014) film tv
dedicato al ‘‘Manifesto di Ventotene’’, prima pietra per la costruzione di un’Europa
unita e pacificata, democratica e federata, da un’idea di Stati Uniti d’Europa già di
Turati, scritto in esilio da un gruppo di intellettuali e personalità politiche formato da
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, con la collaborazione di Ursula
Hirschmann, in rappresentanza di tutte le forze dell’antifascismo. In esso si propugnava
la creazione di un movimento a carattere internazionale esterno ai partiti tradizionali ed
individuando nuove realtà politiche che avessero ‘‘come compito centrale la creazione di
un solido stato internazionale, che indirizzerano verso questo scopo le forze popolari e,
anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale’’.
32. Il nome di Lina Merlin (1887–1979), socialista, partigiana, insegnante, componente
dell’Assemblea Costituente e prima donna a essere eletta senatrice, è legato alla legge
20 febbraio 1958, n. 75 con cui venne abolita la prostituzione legalizzata in Italia.
33. La legge 4 novembre 1965, n. 1213 (Nuovo ordinamento dei provvedimenti a favore della
cinematografia), a firma del ministro socialista Achille Corona, riguarda l’intervento
dello stato a sostegno dell’industria cinematografica nazionale, per promuovere la
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34.
35.
36.
37.
Forum Italicum 54(1)
quale vengono creati diversi istituti, come quello della programmazione obbligatoria e dei
premi di qualità ma anche, per la prima volta, iniziative a sostegno della cultura
cinematografica.
Il FUS (Fondo unico per lo spettacolo) è il meccanismo finanziario per l’intervento
pubblico nei settori del mondo dello spettacolo. Istituito con legge 30 aprile 1985 a
firma del ministro socialista Lelio Lagorio, a favore di enti, istituzioni, associazioni,
organismi e imprese operanti in cinema, musica, danza, teatro, circo e spettacolo viaggiante, e per la promozione ed il sostegno di manifestazioni e iniziative di carattere e
rilevanza nazionale in Italia o all’estero.
Il socialista Gianni De Michelis, ministro per le Partecipazioni Statali, intervenne nel 1973
con un sostegno finanziario straordinario pluriennale a favore dell’Ente Autonomo
Gestione Cinema, evitandone cosı̀ la soppressione e permettendo il rilancio delle sue
società: Cinecittà e Istituto Luce.
Impressionante la mole della progettualità prodotta dal Partito Socialista di quegli anni
attraverso la sezione cultura o circoli come ‘‘Club Turati’’, ‘‘Mondoperaio’’, ‘‘Club dei
Club’’, per il rinnovamento della cultura, dello spettacolo e dell’informazione del paese
mediante proposte di legge, pubblicazioni e convegni. Tra le iniziative più rilevanti di quel
periodo: Proposte di legge per la cinematografia. Le attività musicali, il teatro di prosa;
convegno nazionale, Milano, 26–27 maggio 1978; Informazione e potere, convegno internazionale, Roma, 14–15–16 novembre 1978; Progetto spettacolo. La proposta di riforma
del Psi per cinema, musica, teatro, Marsilio, Venezia, 1979; Quella parte di cinema chiamata televisione. Verso l’integrazione del sistema audiovisivo, convegno internazionale,
Roma 28–29–30 giugno 1979; Musica e industria in Italia, convegno nazionale, Milano,
28–29 marzo 1980; Le strutture musicali verso la riforma: imprenditorialità o burocrazia?,
convegno nazionale, Roma, 8 aprile 1980; Progetto Arti visive. Arti visive ed enti locali: le
proposte del Psi, Marsilio, Venezia, 1981; Le proposte dei socialisti per il patrimonio
culturale, ‘‘Avanti!’’, 12 novembre 1981; Nello Stato Spettacolo. Cinquanta idee, dieci
proposte per la cultura italiana, convegno nazionale, Roma, 11–12 dicembre 1981;
Informazione e tecnologie: la sfida produttiva, convegno nazionale, Roma, 26–27 marzo
1982; L’immagine del Socialismo nell’arte, nelle bandiere, nei simboli, Marsilio, Venezia,
1982; Dieci anni di teatro a Milano, convegno nazionale, Milano 8 marzo 1982; La festa
tra spontaneità e istituzioni, convegno nazionale, Napoli, 18–19 settembre 1982;
Riformismo, nuovi saperi, società complessa: decidere e garantire, convegno nazionale,
Roma 19 aprile 1983; La velocità e la politica, convegno nazionale, Napoli, 6–7 maggio
1983; La cultura italiana all’estero, convegno nazionale, Roma, 29 novembre-1 dicembre
1983; Il villaggio elettronico. La democrazia elettronica. Italia. Informatica. Immagine.
Informazione, convegno internazionale, Roma, 11–12–13 aprile 1984; Lavorare per lo
spettacolo. Idee, proposte, programmi della progettualità socialista per cinema, musica,
teatro, mass-media, Gesualdi Editore, Roma, 1984; Perche´ il disco continui a girare, convegno nazionale, Roma, 3 febbraio 1984. A quei lavori hanno contribuito, a diverso
titolo: Romeo Ballardini, Claudio Barberio, Renato Barilli, Filippo De Luigi, Carlo
Fontana, Vittorio Giacci, Giovanna Granati, Pasquale Guadagnolo, Carlo
Macchitella, Luigi Mattucci, Stefano Munafò, Paola Pallottino, Bruno Pellegrino,
Stefano Rolando, Maurizio Scaparro, Francesco Tempestini.
In occasione delle elezioni politiche del maggio 1968, in piena contestazione studentesca,
l’Avanti! pubblica, in data 19 maggio, con il titolo: La cultura italiana con i socialisti, un
appello degli intellettuali dal seguente tenore: ‘‘[. . .] il ruolo dell’uomo di cultura nella
società moderna si svolge tra due estremi contrastanti: la speranza del superamento
Giacci
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definitivo delle difficoltà materiali in una società più ricca, fondata su una profonda
modificazione delle strutture del potere; il pericolo che questa società si realizzi come
un semplice fatto consumistico, attraverso una progressiva integrazione nel sistema di
gruppi e ceti per i quali i ruoli siano assegnati e non creativamente conquistati. (. . .) Lo
sforzo di realizzare la speranza di evitare il pericolo si traduce spesso in una contestazione
globale dei valori politici, culturali e morali della società contemporanea. Noi riteniamo
che questa posizione, che pure rispettiamo per la sua carica morale, sia da una parte
destinata alla sterilità e presupponga dall’altra un modello di organizzazione autoritaria
della società che noi rifiutiamo’’ (La cultura italiana con i socialisti. Avanti!, 19 maggio
1968). Il manifesto si concludeva con l’invito a votare Partito Socialista Unificato e la
seguente raccomandazione, illuminante ed anticipatrice come lo sono sempre le previsioni di chi opera nell’arte e nella cultura: ‘‘Noi riteniamo che il nostro compito di
partecipazione e di responsabilità può realizzarsi con maggior libertà, con maggiore
possibilità di traduzione in concrete proposte operative, nell’area del socialismo, che
oggi nel nostro paese è rappresentata dal Partito Socialista Unificato: un socialismo
cioè che abbia il coraggio di superare la mitologia dell’opposizione e accetti il rischio
anche della collaborazione di governo con altre forze politiche, ma lo accetti con una
tensione morale e un impegno intellettuale che impedisca oggi e domani all’accordo politico di trasformarsi in una semplice intesa di potere. Noi chiediamo quindi al Partito
Socialista Unificato di rinnovare e di approfondire questo impegno di ricerca culturale e
di tensione morale, e rivolgiamo agli elettori un appello a considerare tutte le possibilità di
rinnovamento e di progresso che il voto socialista apre alla società italiana’’ (La cultura
italiana con i socialisti. Avanti!, 19 maggio 1968). Seguono le firme autorevoli, alcune
decisamente inaspettate, di un movimento di opinione politica molto più ampio di quello
rappresentato dai semplici simpatizzanti di partito, anticipando i fermenti di quella che
sarà chiamata ‘‘società civile’’ che sempre più determina il fluttuante, perché non costituisce un dato a priori e per sempre. Il consenso dell’elettorato a questa o quella linea
politica è da conquistarsi ogni volta e su programmi concreti. L’appello è firmato, solo per
restare nel campo della cultura e dello spettacolo, da: Giorgio Albertazzi, Giorgio
Bassani, Alberto Bevilacqua, Sandro Bolchi, Mauro Bolognini, Gino Bramieri, Lilla
Brignone, Edith Bruck, Tino Buazzelli, Mario Camerini, Suso Cecchi D’Amico, Luigi
Chiarini, Luigi Comencini, Valentina Cortese, Vittorio Cottafavi, Daniele D’Anza,
Ferruccio De Ceresa, Giorgio De Lullo, Franco Enriquez, Sergio Fantoni, Edmo
Fenoglio, Federico Fellini, Paolo Ferrari, Pasquale Festa Campanile, Pietro Garinei e
Sandro Giovannini, Severino Gazzelloni, Paolo Grassi, Tullio Kezich, Raffaele La
Capria, Mario Landi, Alberto Lattuada, Ubaldo Laj, Marco Leto, Arrigo Levi,
Alberto Lionello, Folco Lulli, Luigi Lunari, Ettore Maria Margadonna, Lea Massari,
Mario Monicelli, Valeria Moriconi, Lucilla Morlaccchi, Ennio Morricone, Gastone
Moschin, Alighiero Noschese, Umberto Orsini, Paola Ojetti, Ottiero Ottieri, Geno
Pampaloni, Paolo Panelli, Vito Pandolfi, Giuseppe Patroni Griffi, Goffredo Petrassi,
Antonio Pietrangeli, Pierluigi Pizzi, Anna Proclemer, Paola Quattrini, Salvo Randone,
Renato Rascel, Leonida Repaci, Angelo Maria Ripellino, Mario Scaccia, Maurizio
Scaparro, Ettore Scola, Tino Scotti, Mario Soldati, Maria Grazia Spina, Saverio Strati,
Giorgio Strehler, Giovanni Testori, Aroldo Tieri, Romolo Valli, Luigi Vannucci, Roman
Vlad, Luigi Zampa, Andrea Zanzotto, Sergio Zavoli.
38. Alle elezioni legislative ed europee del giugno 1979, tra socialisti ‘‘storici’’ e nuove acquisizioni, fecero dichiarazioni di voto, pubblicate sull’Avanti! del 1 giugno: Renato Barilli,
Alberto Bevilacqua, Enzo Biagi, Gianni Bisiach, Norberto Bobbio, Achille Bonito-Oliva,
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Edoardo Bruno, Mario Camerini, Maurizio Costanzo, Mario Dal Pra, Paolo Flores
d’Arcais, Roberto Guiducci, Emidio Greco, Raffaele La Capria, Raffaele Maiello,
Ruggero Orlando, Walter Pedullà, Arrigo Petacco, Paolo Portoghesi, Aldo Rosselli,
Mario Soldati, Saverio Strati, Giorgio Spini, Andrea Zanzotto, Sergio Zavoli. Nelle
trasmissioni televisive a sostegno partecipano Gino Bramieri, Caterina Caselli, Adriano
Celentano,Vittorio Gassman, Nanni Svampa, Ornella Vanoni, Claudio Villa. Giorgio
Strehler e Ottavia Piccolo sono candidati a Strasburgo.
39. Il Club dei Club, fondato a Firenze nel 1981, è stato una associazione culturale d’orientamento socialista che ha animato una serie di convegni (tra cui: Nello Stato Spettacolo;
Riformismo, nuovi saperi, società complessa: decidere e garantire; Velocità e politica) ed
una rivista (1999). Raccoglieva oltre duecento centri culturali, un ‘‘circuito ben radicato’’,
come afferma il suo fondatore e presidente Bruno Pellegrino, ‘‘nel mondo del lavoro, delle
professioni, della ricerca e delle università che in pochi anni riesce a galvanizzare e a
mettere in rete una straordinaria fioritura di forze e centri culturali e professionali
che non ha pari nella storia della sinistra’’ (Pellegrino, 2010: 128). Oltre al presidente
Bruno Pellegrino, poteva contare su una direzione nazionale composta da: Gianni BagetBozzo, Tonino Bettanini, Leonello Castaldelli, Sandro Cerquetti, Claudio Emery,
Vittorio Fiore, Giuseppe Garesio, Vittorio Giacci, Pasquale Jemma, Pompeo Oliva,
Franco Piro, Sergio Restelli, Franco Reviglio, Carlo Ripa di Meana, Giampaolo
Sodano (Pellegrino, 2010).
40. Il Congresso del PSI di Verona del 1984 dà vita all’assemblea nazionale che sostituisce il
comitato centrale, composta da 412 membri e della quale fanno parte (Avanti!, 20
maggio): Francesco Alberoni, Adriana Asti, Carlo Maria Badini, Renato Barilli,
Norberto Bobbio, Gianni Brera, Carlo Castellaneta, Rita Dalla Chiesa, Piera Degli
Esposti, Franco Di Cataldo, Carlo Fontana, Vittorio Gassman, Vincenzo Gatto,
Vittorio Giacci, Paolo Grassi, Roberto Guiducci, Alberto Lattuada, Sandra Milo, Jiřı́
Pelikán, Ottavia Piccolo, Paolo Portoghesi, Carlo Ripa di Meana, Francesco Rosi,
Giorgio Saviane, Maurizio Scaparro, Jerry Scotti, Mario Soldati, Giorgio Spini,
Vittorio Strada, Giorgio Strehler, Giuseppe Tamburrano, Giuliano Vassalli, Lina
Wertmüller, Sergio Zavoli, Bruno Zevi. Al congresso di Rimini del 1987 partecipano
anche (come segnalato dall’Avanti! del 5–6 aprile) Claudia Cardinale,Vittorio
Gassman, Lea Massari, Ottavia Piccolo, Francesco Rosi, Pasquale Squitieri, Lina
Wertmüller.
41. Per una analisi sui valori della cultura socialista negli anni tra il 1976 e il 1979, si veda
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