Ministero della Cultura
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI E PER IL TURISMO
BOLLETTINO D’ARTE
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Ministero della Cultura
Editore
MINISTERO PER I BENI E LE AT TIVITÀ CULTURALI E PER IL TURISMO
DIREZIONE GENERALE ARCHEOLOGIA, BELLE ARTI E PAESAGGIO
BOLLET TINO D’ARTE
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In copertina:
ROMA, CASA LUPARDI
– PARTICOLARE DELLE FINESTRE DEL PROSPETTO SU VIA DEL GOVERNO VECCHIO
DOPO L’INTERVENTO DI RESTAURO
(ortofoto di Marco Setti)
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B O L L E T T I N O D’ A R T E
FONDATO NEL 1907
MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI E PER IL TURISMO
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OTTOBRE–DICEMBRE
ANNO CIV
SERIE VII
2019
SOMMARIO
In ricordo di Paolo Giorgio Ferri (1947–2020), di LORENZO D’ASCIA e JEANNETTE PAPADOPOULOS
1
GIULIA ROCCO: Frammenti di bassorilievi dal teatro di Spoleto. Una proposta di ricostruzione
5
e interpretazione
GIOVANNI BORACCESI: Croci astili del Quattrocento e Cinquecento nella diocesi di Tricarico
GIACOMO MONTANARI: Tomaso Orsolino tra Pavia e la Certosa (1628–1635). Precisazioni
cronologiche e nuovi spunti per il ruolo di Ercole Ferrata
LAURA GIGLI: Bartolomeo Lupardi si racconta nel programma architettonico e decorativo
47
65
93
del prospetto della sua casa
GABRIELLA MARCHETTI: Note a margine sui lavori di restauro della Casa di Bartolomeo Lupardi
113
TUTELA E VALORIZZAZIONE
ANDREA G. DE MARCHI: Mobili romani pseudo nordici con marmi archeologici e pitture.
119
Tracce per Francesco Allegrini e Daca Poelen
FABIOLA JATTA: La cromia ritrovata nel Complesso monumentale romano di San Michele
a Ripa Grande
127
ACQUISIZIONI
FRANCESCA ROMANA GAJA: Una nota per Jan Miel in Palazzo Reale a Torino
139
LA MEMORIA ISTITUZIONALE
FRANCO BOGGERO, CHIARA MASI: Nino Lamboglia e la salvaguardia del patrimonio artistico
145
del Ponente ligure negli anni del secondo conflitto mondiale
Ministero della Cultura
LIBRI
CARLO GASPARRI: recensione a S. PAFUMI, Disiecta membra. Frammenti di statuaria bronzea
di età romana del Museo Civico di Catania (Bibliotheca Archaeologica, 64), Roma 2020
ADRIANO GHISETTI GIAVARINA, ELENA CALANDRA: recensione a M. LAGOGIANNI–GEORGAKARAKOS,
E. PAPI, HADRIANUS – ΑΔΡΙΑΝΟΣ. Ο Αδριανός, η Αθήνα και τα Γυμνάσια – Adriano,
Atene e i Ginnasi, catalogo della mostra (Atene, Museo Archeologico Nazionale,
28 novembre 2017 – 31 dicembre 2018), Atene 2018
165
168
CARLO BERTELLI: recensione a La chiesa ipogea di San Sepolcro, Umbilicus di Milano. Storia
e restauro, a cura di A. RANALDI, Cinisello Balsamo 2019
171
SIMONETTA PROSPERI VALENTI RODINÒ: recensione a S. VENTRA, L’Accademia di San Luca nella Roma
del secondo Seicento. Artisti, opere, strategie culturali, Firenze 2019
174
SERGIO MARINELLI: recensione a Wart Arslan e lo studio dell’arte tra metodo e ricerca,
Atti del Convegno “Temperare sempre il giudizio con doverosa cautela”
(Università di Pavia, 4–5 giugno 2018), a cura di M. VISIOLI, Milano 2019
179
SERGIO MARINELLI: recensione a Rodolfo Pallucchini: storie, archivi, prospettive critiche,
Atti del Seminario di Studi “Sugli archivi degli storici dell’arte. Questioni di metodo,
esperienze a confronto” (Udine, 23 ottobre 2018) e del Convegno di Studi “Rodolfo
Pallucchini (1908–1989)” (Udine, 12–13 marzo 2019), a cura di C. LORENZINI, Udine 2019
182
GIOVANNI CARBONARA: recensione a Patrimonio e città storiche come poli di integrazione sociale
185
e culturale, sostenibilità e tecnologie innovative // Historic Cities and Heritage
as the Hubs of Social and Cultural Integration, Sustainability and Innovative Technologies,
a cura di R.A. GENOVESE, Napoli 2018
Abstracts
187
Per le abbreviazioni dei periodici del settore archeologico si fa riferimento a quelle dell’Istituto Archeologico Germanico, ora accessibili dal seguente link:
https://www.dainst.org/documents/10180/70593/02_Abbreviations+for+Journals_quer.pdf/a82958d5-e5e9-4696-8e1bc53b5954f52a
Ministero della Cultura
In ricordo di Paolo Giorgio Ferri (1947–2020)
PAOLO GIORGIO FERRI NEL SUO STUDIO
Ho conosciuto Paolo Giorgio Ferri nel 2013, quando cominciavo ad occuparmi, per conto dell’Avvocatura dello
Stato, dei processi in materia di recupero di beni culturali trafugati ed illecitamente esportati all’estero.
Ho trovato da subito un uomo di grande simpatia umana, estremamente disponibile e dotato di una preparazione
sterminata nel campo del processo penale e del diritto internazionale sui beni culturali. Ma soprattutto ho incontrato
una persona “entusiasta”, entusiasta del suo lavoro e delle ragioni per cui da tanti anni si dedicava con abnegazione
e senza mai risparmiarsi a martellare incessantemente il muro — nel quale ormai aveva fatto breccia — dell’apparente incomunicabilità con le polizie e le magistrature di tutto il mondo, in particolare di quei Paesi nei quali i beni
del nostro patrimonio culturale erano stati illecitamente e clandestinamente esportati.
Ora le cose sono cambiate, da un punto di vista culturale: le autorità giudiziarie e i musei, soprattutto americani, sono
molto sensibili alle richieste di restituzione provenienti dall’Italia, e questo va a grande merito di Paolo Giorgio Ferri.
Nella sua attività professionale di magistrato, Paolo Giorgio Ferri era un grande uomo d’azione, se così si può dire:
non si limitava a raccogliere il frutto delle indagini e a elaborarne i risultati, ma le orientava, eseguiva interrogatori,
contattava i colleghi delle magistrature estere, ha redatto innumerevoli rogatorie internazionali per il sequestro di centinaia di reperti archeologici.
Lo ha fatto sempre in uno spirito di leale, aperta e costruttiva collaborazione con tutti gli attori istituzionali della
materia, a partire dall’Avvocatura dello Stato, in particolare con l’Avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, con il quale
ha impostato e quasi “creato” dal nulla la politica dei recuperi fondata sull’abbinamento della diplomazia culturale
con una vigorosa azione di repressione giudiziaria.
Paolo Giorgio Ferri era anche un grande studioso, con cui ci si poteva confrontare su tutti i temi dell’assistenza giudiziaria internazionale e delle innovazioni legislative del nostro diritto penale: da ultimo abbiamo avuto modo di confrontarci sulla riforma del diritto penale dei beni culturali e sulla ratifica della Convenzione di Nicosia,1) alla quale
teneva moltissimo.
Con la sua scomparsa prematura, si chiude purtroppo una parte importantissima della storia giudiziaria della tutela del patrimonio culturale italiano.
Possiamo solo essere certi che i magistrati e gli Avvocati dello Stato, che continuano a combattere uniti la battaglia
in nome dell’articolo 9 della Costituzione, hanno tratto enorme profitto da tutto quanto Paolo Giorgio Ferri ha fatto e
ci ha insegnato, come magistrato e come uomo.
LORENZO D’ASCIA
Avvocato dello Stato
1
Ministero della Cultura
In occasione della improvvisa scomparsa di Paolo Giorgio Ferri, numerosi quotidiani, riviste specializzate e siti istituzionali ne hanno commemorato la figura e l’instancabile attività, ricordando le tappe della sua carriera di magistrato apprezzato in tutto il mondo.
Negli ultimi decenni il suo impegno contro i reati che riguardano il patrimonio culturale e, nello specifico, l’attività
di potenziamento della lotta al traffico illecito di reperti archeologici, ha determinato una svolta decisiva in un settore
che per decenni aveva registrato scarsi risultati a livello internazionale.
E dunque proprio sulle pagine di questa rivista, che costituisce uno degli organi editoriali del Ministero per i beni
e le attività culturali e per il turismo, è sembrato quanto mai opportuno offrire una testimonianza diretta e puntuale
dell’incarico di consulente giuridico, affidatogli dal Ministero stesso a titolo gratuito, in relazione alle tematiche relative al recupero di beni illecitamente sottratti al patrimonio nazionale.
In qualità di Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma collocato fuori ruolo, Paolo Giorgio Ferri è stato ospitato per motivi logistici presso l’allora Direzione Generale per le Antichità, ora accorpata nella
Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio, svolgendo negli anni 2010–2013 un’intensa attività di consulenza e di impulso propositivo, e partecipando anche in qualità di esperto designato dal Ministero a numerosi
incontri internazionali.
Com’è ampiamente noto, i procedimenti penali da lui avviati contro i maggiori trafficanti d’arte hanno permesso,
sulla base di prove inconfutabili acquisite nel corso delle indagini condotte in Svizzera, di portare in giudizio i
responsabili di uno dei più importanti musei americani, aprendo finalmente la strada a una serie di negoziati con
molte prestigiose istituzioni e consentendo il rientro in Italia di decine di reperti archeologici di straordinaria importanza.
Fino ad allora, infatti, era stato vano ogni tentativo del Ministero di reclamare la restituzione di opere rinvenute in
Italia a seguito di scavi clandestini, a causa della difficoltà di portare in giudizio evidenze certe sulla loro provenienza. La fondamentale azione del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale e l’attività tenace ed
innovativa della Procura di Roma hanno di fatto scardinato il sistema vigente, mettendo in discussione le politiche di
acquisizione fino a quel momento adottate dai grandi musei, in assenza di qualunque rispetto dei codici deontologici
esistenti e delle convenzioni internazionali relative al patrimonio culturale, e in violazione delle normative di tutela
dei Paesi di provenienza delle opere stesse.
La profonda conoscenza del fenomeno in tutte le sue implicazioni, la completa padronanza delle normative e della
giurisprudenza nazionale e internazionale, la capacità di tracciare un quadro organico di tutti gli aspetti normativi
e operativi da rafforzare, le proposte innovative in prospettiva di una efficace collaborazione internazionale sono state
illustrate da Ferri in occasione di vari incontri pubblici di discussione sul tema e nella vasta produzione di articoli fin
dall’inizio del nuovo millennio.2)
Sintetizzare questa lucida visione in poche righe sarebbe riduttivo e rischierebbe di togliere forza ai compiuti ragionamenti e all’analisi approfondita di fine giurista e studioso appassionato e instancabile quale egli era.
Preme qui tuttavia citare uno degli aspetti più rilevanti alla base del suo operato: la considerazione che le barriere
doganali non potessero esistere solo per gli organi inquirenti, mentre la criminalità era libera di circolare senza controlli. Pertanto la lotta al traffico illegale sarebbe potuta diventare vincente se svolta da un Pubblico Ministero in
grado di recarsi sul posto per la raccolta delle prove. Ciò in quanto le rogatorie apparivano sempre più insufficienti e
inefficaci, nonostante i possibili correttivi.
Pertanto, Ferri evidenziava la necessità di costituire, da un lato, un pool nazionale di magistrati con capacità operativa e investigativa oltre che di indirizzo, con un archivio autonomo di dati e informazioni, separato ma coordinato
con quello delle Forze dell’Ordine; dall’altro, un gruppo di esperti a livello nazionale, supportati da un archivio dei
dati raccolti e di esperienze per affrontare al meglio i processi penali.3)
Nel quadro delle molteplici problematiche affrontate per combattere il traffico illecito di beni culturali e di reperti
archeologici, i più a rischio a causa della loro provenienza da scavi illegali, due direttive appaiono fondamentali e
caratterizzano, tra le molte iniziative, l’intensa attività di Ferri: il contributo alla modifica della normativa penale
italiana in relazione ai reati contro il patrimonio culturale, da tempo auspicata, e l’impulso a un efficace adeguamento degli strumenti internazionali esistenti, di pari passo con una armonizzazione degli ordinamenti giuridici tra Paesi
e con il rafforzamento della cooperazione anche sul piano penale.4)
Nel contesto nazionale, uno degli argomenti di confronto nell’ambito della Direzione Generale riguardava possibili
previsioni normative per regolare l’utilizzo del metal detector, ampiamente impiegato per ricerche archeologiche abusive di monete e oggetti metallici, con l’irreparabile distruzione dei contesti stratigrafici e la sottrazione dei dati cono2
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scitivi connessi. L’introduzione di una norma in tal senso era da tempo peraltro prevista tra gli impegni assunti da
parte italiana nell’Accordo bilaterale Italia–Usa,5) in vigore dal gennaio 2001, ai sensi della Convenzione UNESCO
del 14 novembre 1970.6) In particolare, la proposta scaturita dalla Direzione Generale su formulazione di Paolo
Giorgio Ferri, in relazione al possesso ingiustificato e all’utilizzo di strumenti per il sondaggio del terreno o di apparecchiature per la rilevazione dei metalli in aree di interesse archeologico, era già stata recepita nel disegno di legge di
iniziativa governativa nel corso della XVIIa Legislatura.7)
In relazione al secondo punto, la presenza di Ferri in rappresentanza dell’Italia è stata determinante in occasione
di diverse riunioni degli Stati Parte presso l’UNESCO, dove egli ha relazionato sull’azione italiana alla lotta contro
il traffico illecito di beni culturali, portando all’attenzione mondiale la sua visione complessiva delle problematiche e
delle possibili azioni di contrasto al fenomeno.
Uno dei più importanti strumenti recentemente adottati sul piano penale nella lotta al traffico illecito di beni culturali è costituito dalla Convenzione di Palermo del 2000,8) applicabile a reati transnazionali commessi dalla criminalità organizzata e per i quali siano previste pene superiori ai 4 anni. Grazie alla tenace attività di Ferri, designato
dal Ministero tra gli esperti incaricati di elaborare apposite previsioni per l’applicazione di tale Convenzione ONU
anche ai reati contro il patrimonio culturale, il complesso negoziato, protrattosi negli anni 2010–2013 a causa di
forti resistenze da parte di alcuni Paesi Membri a inserire nella operatività dell’UNTOC il traffico di beni culturali,
ha prodotto nel 2014 un documento ufficiale con specifiche Linee Guida che rafforzano la possibilità di combattere il
fenomeno attraverso la cooperazione internazionale, apposite strategie di prevenzione e un adeguato rafforzamento
degli strumenti giuridici.9) Una svolta importante che ha finalmente riconosciuto a livello mondiale il traffico illecito
di beni culturali (compresi i diversi crimini connessi: esportazione illegale, furto e scavo clandestino, danneggiamento, riciclaggio) come un reato (serious crime) non meno grave rispetto al traffico di droga, armi ed esseri umani,
rafforzando in tal modo la portata degli altri strumenti internazionali in materia, in primis la Convenzione UNESCO del 1970 e la Convenzione UNIDROIT del 1995,10) prive di concreta efficacia sanzionatoria.
Per tornare nell’ambito delle attività istituzionali dell’allora Direzione Generale delle Antichità, sarebbe impossibile
elencare i tanti apporti offerti da Ferri nel periodo in esame: in quegli anni sia il Direttore Generale che i funzionari
in servizio hanno potuto avvalersi quotidianamente della sua grande esperienza e della rara capacità di individuare
le soluzioni più opportune per affrontare le molte questioni di tutela e i relativi aspetti penali, rendendo più efficace
l’azione di recupero anche a livello nazionale.
A tal proposito, preme segnalare, tra i tanti contributi, una circolare diffusa alle allora Soprintendenze per i Beni
Archeologici volta a facilitare l’intervento degli uffici periferici in occasione di procedimenti penali con sequestro di
reperti archeologici a privati: a salvaguardia degli interessi culturali e patrimoniali dello Stato, potenziale persona
offesa, e per evitare la restituzione dei beni al privato in assenza di contradditorio, è stata data indicazione agli uffici
di avanzare all’Autorità Giudiziaria competente una istanza di restituzione, ampiamente argomentata sulla base della
giurisprudenza, al fine di avvalersi di una presunzione di proprietà statale dei beni e ottenere la restituzione dei
reperti archeologici in questione.11) Questo intervento, attuato nel corso della procedura penale, permette peraltro di
evitare un lungo iter burocratico, per anni adottato a seguito di sentenze di confisca passate in giudicato: infatti era
il Ministero della Giustizia che chiedeva all’Amministrazione dei beni culturali un accertamento di interesse culturale
per i corpi di reato e l’indicazione di una destinazione degli stessi, con tempi e costi notevolmente maggiori.
Di fondamentale importanza è stato infine l’apporto di Ferri nel settore relativo alla tutela dei beni archeologici di
interesse numismatico: una classe di materiale tra le più a rischio di dispersione, nonostante il valore imprescindibile
delle monete antiche nella comprensione e datazione dei contesti archeologici di provenienza. I diversi contributi sul
tema inquadrano in maniera chiara tutte le implicazioni di un settore di traffico illecito particolarmente distruttivo.12)
Il lavoro di Paolo Giorgio Ferri resta un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di problematiche relative alla circolazione di beni culturali non solo per gli aspetti di ordine penale; la strada da lui aperta ha
determinato un profondo cambiamento negli scenari internazionali del mercato dell’arte e delle politiche di acquisizione da parte di istituzioni museali; e, come lui stesso auspicava, una positiva ricaduta nella coscienza sociale e nel
senso di responsabilità collettivo e individuale.
Egli è stato una guida preziosa per quanti hanno avuto il privilegio di lavorare con lui e una persona speciale,
generosa e riservata, per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e apprezzarlo.
JEANNETTE PAPADOPOULOS
ex Dirigente MiBACT
3
Ministero della Cultura
1) Convenzione del Consiglio d’Europa sulle infrazioni coinvolgenti i beni culturali, aperto alla firma a Nicosia (Cipro), il 19
maggio 2017.
2) Si vedano in particolare: P.G. FERRI, Il traffico illecito di reperti archeologici in ambito interno ed internazionale. Possibilità
di contrasto, in Traffico illecito del patrimonio archeologico, Internazionalizzazione del fenomeno e problematiche di contrasto,
Atti del 7° Convegno Internazionale CCTPC (Roma, 25–28 giugno 2001), in BNum, Suppl. n. 38, 2002, pp.125–142; IDEM,
Brevi cenni alle problematiche di maggior rilievo in tema di beni culturali. La tutela per i beni culturali. Aspetti giuridico-operativi, in Atti del Convegno organizzato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma (Roma, Città Giudiziaria,
Aula Magna della Corte d’Appello, 8 marzo 2007), in BNum, Suppl. n. 48–49, 2007, pp. 75–89. Ulteriori riferimenti in
http://www.eunomika.com/wp-content/uploads/2020/03/cv_ferri.pdf.
3) P.G. FERRI, The illicit traffic of cultural objects and the current changes in its evaluation, in International Meeting on Illicit
Traffic of Cultural Property, a cura di J. PAPADOPOULOS, E. PROIETTI (Roma, ex Chiesa di Santa Marta,16–17 dicembre 2009),
Roma 2010, pp. 205–214.
4) In merito al primo punto, si rimanda al suo recente articolo che — pur nella sintesi — tocca tutti i punti cruciali di una
riforma necessaria a favore dell’interesse della collettività all’integrità del patrimonio culturale (P.G. FERRI, in http://www.eunomika.com/2020/03/06/la-riforma-del-sistema-di-protezione-penale-dei-beni-culturali-luci-ed-ombre/).
5) Memorandum of Understanding (MOU). Si veda: https://eca.state.gov/cultural-heritage-center/cultural-property-protection/bilateral-agreements/italy/us-italy.
6) Convention on the Means of Prohibiting and Preventing the Illicit Import, Export and Transfer of Ownership of Cultural
Property, ratificata dall’Italia con Legge 30 ottobre 1975, n. 873 e in vigore dal 2 gennaio 1979.
7) Inserimento nel Codice Penale del Titolo VIII–bis, rubricato “Dei delitti contro il patrimonio culturale”, nel quale venivano
previste anche nuove fattispecie penali: A.C. 4220, A.S.2864; ora A.S. DDL S. 882.
8) United Nations Convention against Transnational Organized Crime, UNTOC.
9) Si veda: https://www.unodc.org/unodc/en/organized-crime/trafficking-in-cultural-property-mandate.html.
10) Convention on Stolen or Illegally Exported Cultural Objects, ratificata dall’Italia con Legge 7 giugno 1999, n. 213.
11) Circolare della Direzione Generale Archeologia n. 9 del 28 aprile 2010.
12) Si veda: https://www.numismaticadellostato.it/web/pns/in-evidenza.
4
Ministero della Cultura
GIULIA ROCCO
FRAMMENTI DI BASSORILIEVI DAL TEATRO DI SPOLETO
UNA PROPOSTA DI RICOSTRUZIONE E INTERPRETAZIONE
Il teatro di Spoleto, ubicato a ridosso del settore
meridionale delle mura, prossimo a un asse viario
che, con andamento nord–sud, conduceva a uno degli
accessi alla città, fu edificato a partire dalla seconda
metà del I secolo a.C. (fig. 1). L’avvio dei lavori è stato
datato nell’avanzata età repubblicana, tra il 50 e il 25
a.C., e sarebbe poi proseguito nel corso del periodo
augusteo, sebbene sia stata proposta anche una cronologia nella prima metà del I secolo d.C. Il monumento
conobbe, comunque, numerosi interventi edilizi, uno
dei quali dovuto al cedimento di un settore della
cavea, avvenuto durante la costruzione, o negli anni
immediatamente successivi, ma i rifacimenti continuarono fino al IV secolo d.C.1)
L’ultima menzione del teatro risale al 1320, anno in
cui esso fu trasformato in carcere per quattrocento
Guelfi, che vi furono poi uccisi, durante i sanguinosi
conflitti civili che contrapposero diverse fazioni politi-
c
b
a
a–
1 – PIANTA DI SPOLETIUM
TEATRO; b – FORO; c – ANFITEATRO
(rielaborazione da A. MORIGI, Spoleto romana. Topografia e urbanistica, Oxford 2003, tavola fuori testo)
5
Ministero della Cultura
GIOVANNI BORACCESI
CROCI ASTILI DEL QUATTROCENTO E CINQUECENTO
NELLA DIOCESI DI TRICARICO
La diocesi di Tricarico, nella regione ecclesiastica
della Basilicata, include diciannove comunità ecclesiali: Accettura, Albano di Lucania, Aliano, Armento,
Calciano, Campomaggiore, Cirigliano, Corleto Perticara, Gallicchio, Garaguso, Gorgoglione, Grassano,
Guardia Perticara, Missanello, Montemurro, Oliveto
Lucano, San Mauro Forte, Stigliano e Tricarico. In
antico essa aveva però una più ampia giurisdizione
canonica, che comprendeva anche i centri abitati di
Craco e Montalbano (oggi Montalbano Jonico), passati dapprima alla diocesi d’Anglona–Tursi (1949), poi
all’Arcidiocesi di Matera (1976); quello di Salandra, si
aggregò a quest’ultima circoscrizione ecclesiastica
nello stesso anno.
Scopo precipuo della presente indagine è sottrarre
all’oblio opere ingiustamente ignote o prive d’adeguata letteratura critica, così da fornire un quadro
quanto più completo dei manufatti liturgici in dotazione alle chiese del territorio della diocesi tricaricense, caratterizzato da incantevoli centri collinari e
montani, posto tra le province di Matera e Potenza.
Sul modello di quanto già fatto per la diocesi lucana
di Tursi–Lagonegro,1) anche questo contributo si sofferma ad analizzare un gruppo di oreficerie del Quattrocento e del Cinquecento, alcune di sorprendente
qualità, conservate negli edifici di culto della diocesi
di Tricarico. Al riguardo, però, occorre subito precisare che in questa sede si è preferito concentrare l’attenzione sulla presenza delle croci astili o processionali, rinviando altrove l’esame di altre tipologie di
suppellettili liturgiche.2)
La ricognizione sul patrimonio dei manufatti
argentei di tale diocesi, e in generale dell’intera Lucania, s’affianca ai pioneristici studi condotti agli inizi
del Novecento (in particolare da Wart Arslan, Biagio
Cappelli, Alfonso Frangipane e Angelo Lipinsky) su
taluni oggetti liturgici la cui più ampia conoscenza è
stata in seguito favorita dalle ricerche di Anna Grelle
Iusco3) e soprattutto dalla mostra Argenti in Basilicata,
del 1994.4) Ulteriori segnalazioni sono pervenute in
seguito da Antonella Cucciniello,5) da Marina Falla
Castelfranchi, da Clara Gelao e da Rita Mavelli.6) In
un recente contributo, inoltre, chi scrive ha già rimandato a qualche manufatto legato al contesto diocesano
in via d’esame.7) Ricordo, infine, che sia la Conferenza
Episcopale Italiana — nel 2007 — sia la Soprintendenza della Basilicata, in più fasi, hanno condotto
approfondite campagne di catalogazione dei reperti
in argomento.
Dalla lettura dei verbali della visita pastorale compiuta nel 1588–1589 dal vescovo di Tricarico Giovanni Battista Santonio (o Santoro) (1586–1592)8) emerge
la ricca e variegata consistenza di oggetti liturgici in
argento che, specialmente se di rara bellezza e di
grande perizia tecnica, conferivano ulteriore magnificenza alle celebrazioni rituali. Un altro inventario di
argenti in dotazione alle chiese di Aliano e della sua
Frazione di Alianello, nonché di Stigliano, si ricava
indirettamente dagli apprezzi degli anni Novanta del
Cinquecento dell’eredità del quondam principe di Stigliano, non meglio indicato.9) Rilevo, tuttavia, che è
sopravvissuta a distruzioni e a dispersioni solo una
parte di questo patrimonio, anche in considerazione
del fatto che sono andate disperse le carte della citata
visita pastorale relative alle chiese di Aliano, di Cirigliano, di Corleto Perticata, di Gallicchio, di Gorgoglione, di Guardia Perticara e di Missanello.
Pissidi, calici, ostensori e croci astili sono gli oggetti
liturgici più frequentemente riscontrati in ognuna
delle parrocchie ispezionate dal citato presule; reliquiari e altri particolari manufatti, invece, sono annotati solo nella Cattedrale di Tricarico, giacché specificamente usati dal vescovo. In seguito a un’esaustiva
inventariazione dei manufatti argentei dei secoli XV e
XVI nei luoghi sacri della diocesi di Tricarico, emergono, preponderanti, i prodotti di buona qualità artistica realizzati a Napoli, da dove a quel tempo vennero esportati in ogni provincia del regno aragonese e
del vicereame spagnolo. Gli orafi e gli argentieri della
capitale, infatti, erano organizzati nella Corporazione
dell’Arte, regolata da un’apposita normativa che
imponeva a ciascun artefice d’incidere sulle proprie
produzioni il punzone di garanzia, contraddistinto
dalla sigla «NAPL».
Sebbene in misura differente, anche a Matera diversi artigiani specializzati nella lavorazione dei metalli
preziosi10) si riunirono — presumibilmente poco
prima della metà del Quattrocento — in una vera e
propria corporazione, nell’intento d’osservare le regole condivise e di difendere i privilegi conseguiti. Gli
statuti di quest’associazione non ci sono pervenuti, ma
è noto che i suoi membri erano soliti punzonare i
manufatti con la sigla «MATA», la cui attestazione più
antica risulta esser stata impressa sul trafugato turibolo della chiesa dei Frati Conventuali di San Francesco
d’Assisi a Miglionico.11)
Dallo spoglio delle carte d’archivio emergono i
nomi di artefici lucani,12) finora sconosciuti, espressio-
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Ministero della Cultura
GIACOMO MONTANARI
TOMASO ORSOLINO TRA PAVIA E LA CERTOSA (1628–1635).
PRECISAZIONI CRONOLOGICHE
E NUOVI SPUNTI PER IL RUOLO DI ERCOLE FERRATA
Si può certamente affermare che l’attività dello
scultore Tomaso Orsolino (Ramponio 1589/90? –
Genova 1675) abbia ricevuto scarsa considerazione da
parte della critica, e non soltanto da parte di quella
recente. Assente dal catalogo di biografie artistiche di
Raffaele Soprani (1674) perché ancora vivente al
momento della redazione, il suo profilo non venne
considerato nell’imponente opera d’integrazione proposta da Carlo Giuseppe Ratti nel secolo successivo
(1768), così come di lui non si occuparono né Federico Alizeri — per rimanere tra gli eruditi liguri — né
altri che si dedicarono, nella penisola, a tracciare le
personalità note e meno note attive in campo artistico. Uno striminzito profilo emerge dalla biografia di
Ercole Ferrata curata dal Baldinucci: è la traccia più
significativa, dal momento che Ercole fu allievo diretto di Tomaso e, come dimostra la narrazione dello
storiografo e connoisseur, principalmente portò a termine il suo alunnato lavorando con il dispotico maestro agli importantissimi cantieri attivi in terra lombarda, più che a Genova e in Liguria. Non solo:
Baldinucci riporta i termini cronologici dell’apprendistato di Ferrata indicando come l’Orsolino, artista
assai spedito nella realizzazione di sculture, «per la
Certosa di Pavia ne condusse sino al numero di diciotto, nel corso solamente di sette anni, che stette con lui
il Ferrata».1) Una precisazione nodale, dal momento
che usualmente la storiografia e gli interventi critici
hanno voluto estendere per circa un trentennio l’impegno dell’Orsolino alla Certosa, mentre l’unica fonte
documentaria coeva ne indica praticamente l’intera
estensione come circoscritta a sette anni.2) A ulteriore
precisazione di questa forbice cronologica, il Ferrata è
documentato a Napoli a partire senza dubbio dal
1636, ma con tutta probabilità vi giunse già sul finire
del 1635, mentre conosciamo la data relativa all’inizio
dell’impegno di Tomaso nel cantiere della Certosa,
riconducibile per via documentaria al 1628.3) La realizzazione degli apparati scultorei per la chiesa del
monastero certosino, dunque, deve necessariamente
collocarsi in massima parte entro queste date, restringendosi la finestra temporale al 1628–1635.4) Da ultimo, il ricordo del percorso formativo presso l’Orsolino presentato con tale enfasi nella biografia del
Ferrata (e riferito come narrazione dell’artista stesso
al redattore, cosa di cui non abbiamo motivo di dubitare), presenta l’indubbia importanza tributata da
Ercole all’apprendistato vissuto — per quanto duro e
decisamente poco incoraggiante sotto il profilo dell’autonomia professionale — mettendo in luce la
necessità di ripartire proprio da quelle opere e quei
contesti per comprendere la formazione dell’estroso
scultore lombardo, come ho già avuto occasione di
evidenziare.5)
Obiettivo di questo saggio è cercare di fare ordine
all’interno della produzione orsoliniana, vasta per
quantità e complessa per qualità, cercando di ristabilire l’entità degli impegni di Tomaso in terra lombarda
(che non si limitarono alla sola Certosa) e di identificare spinte stilistiche e suggestioni che fecero di questa prima trasferta pavese un vero punto di non ritorno — come molte volte si è detto, ma senza addurne
le motivazioni6) — della sua carriera di scultore e di
commerciante di marmi, provando a enucleare, anche
attraverso l’indagine delle modalità esecutive utilizzate nella sua “ditta”, alcune prove giovanili di quello
che, senza dubbio, fu il suo allievo più dotato.
LA CERTOSA 1628–1635
L’arrivo di Tomaso Orsolino nel cantiere della Certosa di Pavia, nel 1628,7) costituì per la decorazione
plastica della chiesa del monastero l’inizio di una
nuova, importantissima, fase di perfezionamento,
andando a connotare con ricchi apparati scultorei
anche gli spazi interni (come gran parte delle cappelle, degli altari di testa del transetto e del presbiterio),8)
oltre alla monumentale facciata che aveva convogliato
gli sforzi della committenza per tutto il XV e il XVI
secolo.9) Significativo appare infatti l’impiego non
solo del marmoraro ramponiese, ma anche, e in contemporanea, di Daniele Crespi, astro della pittura
lombarda che aveva da poco perfezionato la grande
decorazione della Certosa di Milano a Garegnano,10)
dove aveva affiancato il suo pennello ad alcune delle
migliori opere di Simone Peterzano. Le opere pavesi,
grandiose e di altissimo impegno, furono in buona
sostanza il testamento artistico del Crespi, che morirà
senza portare a compimento l’intera impresa decorativa che i monaci gli avevano sapientemente affidato,
sotto il priorato di Agostino Garzoni (1621–1633), per
altro anche in apparente opposizione con una regia
culturalmente eminente come quella dell’economo
Matteo Valerio, destinato anch’egli a ricoprire il ruolo
di priore negli anni successivi.11) Dobbiamo pertanto
65
Ministero della Cultura
LAURA GIGLI
BARTOLOMEO LUPARDI SI RACCONTA NEL PROGRAMMA ARCHITETTONICO
E DECORATIVO DEL PROSPETTO DELLA SUA CASA
La stesura di questo testo è stata resa possibile dall’intervento di recupero, conpletato nell’autunno
2015, del prospetto della casa detta “dei giureconsulti” su via di Parione, oggi via del Governo Vecchio n.
104 (fig. 1).1) Per suo tramite un uomo si racconta: è
Bartolomeo Lupardi (Roma, 1630–1706), figlio di un
rigattiere, che una volta giunto a Roma ha scelto di
impiantare a piazza Navona la sua attività di editore e
tipografo, lasciandosi guidare dallo spirito e dai valori
del luogo dove si è radicata l’arte della stampa, il più
idoneo per trarne la forza necessaria a garantire il
successo della sua attività, e poi ne ha suggellato i
valori qualitativi rendendoli visibili tramite il programma manifestato nella facciata della sua casa,
attraverso il quale ha imposto una significativa innovazione alle modalità rappresentative del proprio status. Per fare questo si è basato su una invenzione pensata non tanto per sé, ritenendosi forse persino
appagato dalla fortuna economica raggiunta, quanto
per la sua discendenza, messa in grado di porsi in
rapporto dialettico con il piu elevato sistema sociale
del tempo, grazie all’ideazione di una mitografia del
tutto nuova. Tale mitografia, costruita e incardinata
nella scienza giuridica a dimostrazione dei massimi
traguardi perseguiti e raggiunti nell’ambito della
disciplina dal figlio Andrea, testimonia il raggiungimento di un obiettivo culturale reso possibile dagli
studi che gli hanno permesso di sovvertire, innovandolo, il destino della nascita, altrimenti già segnato.
LE
VICENDE DEL FABBRICATO
Conosciuta nella letteratura guidistica come “casa
dei medaglioni” per l’inconsueta presenza in facciata
di 19 ovali in stucco romano a cornice di altrettanti
marmi con l’effige di insigni giuristi, identificati grazie alla lettura ravvicinata del nome abbreviato sulla
pietra, la facciata si presenta come un singolare insieme di motivi figurativi che la rendono oggi un unicum
nel panorama dell’edilizia minore romana sullo scorcio del XVII secolo.
Prima di descrivere questo singolare prospetto
attraverso il quale Bartolomeo Lupardi, famoso editore, oltre che stampatore e imprenditore, si è rappresentato agli occhi dei contemporanei su una delle più
importanti strade della città, ripercorriamo brevemente le vicende dell’edificio che accorpa due distinte
unità immobiliari, graficizzate in un disegno anteriore
al 1685 conservato nell’Archivio Storico del Vicariato
1
– ANTONIO TEMPESTA: PIANTA DI ROMA
DETTAGLIO DEL RIONE PARIONE (1693)
La freccia indica l’edificio in via di Parione che sarà trasformato
da Bartolomeo Lupardi nella propria abitazione.
(da A.P. FRUTAZ, Le piante di Roma, 3 voll., Roma 1962, III
pianta CLX,9, tav. 373)
di Roma (fig. 2): la prima, che individuiamo con la lettera A (civico 104, poi accorpata in parte all’edificio
contiguo C, odierno civico 101), costituita dal piano
terreno e tre sovrastanti con due finestre rettangolari
ciascuno e paramento murario in intonaco simulante
bugnato liscio al secondo e terzo piano; l’edificio limitrofo B (la seconda unità), di proprietà degli Uditori
di Rota, composto da piano terreno e due superiori
con una coppia di finestre rettangolari al primo e due
ad arco al secondo e paramento murario a intonaco
liscio; e la casa C sopra ricordata, di proprietà di Ponzio Ceva contigua alla A, con portale bugnato, lo
stemma di Pio IV Medici fra le finestre del primo
piano e paramento a bugnato agli ultimi due come in
quella adiacente. Gli immobili A e B saranno riuniti
dal Lupardi in un solo fabbricato a partire dal 1692,
con l’esclusione del piano terreno e del primo nell’unità A (figg. 2–3).2)
Ponzio Ceva (1536–1618), originario di Nizza e
appartenente a una famiglia ivi ricordata fin dal 1444,
si era stabilito a Roma nell’ultimo quarto del Cinquecento ove ricoprì l’incarico di notaio della Camera
Apostolica. Il giurista (battezzato col nome del santo
93
Ministero della Cultura
23) Bartolomeo Lupardi era proprietario a Roma di 4
case, di una bottega con stanza e cantina, una vigna fuori
Porta del Popolo, una pezza di canneto alla valle dell’Inferno e metà di un podere nel territorio di Viterbo; NOYA,
Palazzetto Lupardi ..., cit. in nota 2, p. 264.
24) Ibidem, p. 267.
25) Oltre Francesco, Bartolomeo Lupardi ebbe altri tre
maschi (Andrea, Leopardo, Giuseppe) e due femmine
(Angela Caterina, Olimpia).
26) Il dipinto è ancora parzialmente visibile in una foto
pubblicata da P. PORTOGHESI, Roma barocca, 1968 Roma,
ed. consultata 1992, fig. 28. Nella stessa immagine, la finestra sottostante, alla gesuita, è divisa in due dalla traversa e
le ante degli sportelli sono aperte in modo diverso; nella
parte superiore l’anta di destra è aperta e sulla barra c’è il
pennuto; le ante di sotto sono pure aperte verso l’interno e
a sinistra si intravede una figura femminile e, forse, un’altra
a destra.
27) Il 14 agosto 1698 il notaio Domenico Orsini concesse
licenza per «far quattro ringhierette di ferro alli parapetti
delle finestre» con l’assistenza di Giovanni Battista Zanoli,
architetto dei Maestri delle Strade. Si vedano: GORI, Progetto di restauro...., cit. in nota 2, p. 17, nota 13; NOYA, Palazzetto Lupardi ..., cit. in nota 2, pp. 265–266.
28) Cfr. supra nota 12.
29) Il restauro della facciata del Palazzo Gambirasi, progettato dall’arch. Alessandro Mascherucci, è stato condotto
dall’arch. Sara Mascherucci.
30) Le glosse sono brevi annotazioni inserite tra una riga
e l’altra del testo.
31) Il diritto canonico, altro pilastro del diritto comune,
per definizione “l’altro diritto” (utrumque ius) venne assemblato in gran parte tra il XII e il XIII secolo.
32) A. ANSALDI, Decisiones Sacrae Rotae Romanae coram r.
p. d. Ansaldo de Ansaldis […] rursùs in lucem editae, à veteribus mendis expurgatæ, auctae numero earumdem decisionum,
nouisque additionibus eiusdem auctoris, demum locupletiori
indice refertae ab Andrea Lupardo […], Roma, Camera Apostolica, 1711; IDEM, Decisiones Sacrae Rotae Romanae coram
bo. me. R.P.D Ansaldo De Ansaldis cum Annotationibus, et
Additionibus ad singulas Decisiones partim ab ipspmet R.P.D.
Ansaldo, et partim ab Andrea Lupardo J.C. eius primo Studiorum Adiutore, nunc vero in Romana Curia Advocato. Centuria, seu Tomus Secundus, Roma H. Mainardi, 1736.
33) L’elenco dei libri della biblioteca di Andrea Lupardi è
riportato nell’inventario redatto dopo la sua morte il 6 febbraio 1739, periziato dal libraio Francesco Amidei e acquistato, nell’aprile dello stesso anno, da Giovanni Lorenzo
Barbiellini; Roma, Archivio di Stato, Ufficio 30, Notai Capitolini, vol. 472, c. 490.
34) Per lo studio della parte interna della casa si veda
NOYA, Palazzetto Lupardi..., cit. in nota 2, pp. 265–273.
Disegni di rilievo di questi ambienti, datati al settembre
1988, sono contenuti nella relazione tecnica del progetto di
restauro citato alla nota 1.
35) NOYA, Palazzetto Lupardi ... cit. in nota 2, pp. 267,
271, nota 19.
GABRIELLA MARCHETTI
NOTE A MARGINE SUI LAVORI DI RESTAURO DELLA CASA DI BARTOLOMEO LUPARDI
La storia della casa dei Giureconsulti, ripercorsa mediante
la lettura delle fonti iconografiche, iconologiche e documentarie, si confronta con l’attualità del progetto che, saggiandone lo stato materiale, si traduce nell’esperienza operativa
del cantiere di restauro.
Dopo aver sottolineato gli aspetti rilevanti degli elementi
decorativi e la complessità della composizione d’insieme
attraverso la lettura del programma del committente, in
questo contributo, partendo dalla cronaca degli atti amministrativi, vengono, invece, evidenziate e selezionate alcune
operazioni significative eseguite nel restauro dell’edificio,
basate sullo studio e il confronto di forma, materia e tecnica
esecutiva in uso nei cantieri edilizi romani tra la seconda
metà del XVII e il XVIII secolo.
L’edificio, di proprietà del Demanio comunale di Roma,
ha subito un processo di dismissione delle destinazioni d’uso
esistenti, che ha determinato il progressivo svuotamento dei
locali al suo interno; questo fenomeno e l’assenza di opere
manutentive negli ultimi trenta anni hanno accelerato l’avanzamento del degrado del fabbricato, fino a comprometterne la stabilità, diventata particolarmente critica per le
coperture e i prospetti. L’Amministrazione comunale ha ten-
tato un’operazione di recupero complessiva alla fine degli
anni Novanta con l’elaborazione di un progetto di restauro
redatto dai competenti uffici tecnici che, tuttavia, non ha
avuto alcun seguito stante l’indisponibilità delle necessarie
risorse economiche.
Nel contempo, l’avvenuto frazionamento di una parte
dell’immobile, con la vendita a privati di alcune porzioni
comprendenti il piano attico e i locali del sottotetto, ha reso
impellente la necessità di effettuare la messa in sicurezza
dell’edificio, che era stato già transennato con l’installazione di opere provvisionali a salvaguardia della pubblica incolumità.
Gli interventi sono iniziati sulla base di un primo progetto
limitato al restauro delle coperture e del cornicione summitale del prospetto che si affaccia sulla pubblica via; nel frattempo, gli stessi proprietari hanno avviato, nel 2010, un progetto di restauro complessivo, conclusosi nel 2015, dopo
articolate procedure autorizzative congiunte tra l’Amministrazione comunale e la competente Soprintendenza territoriale; i lavori sono poi terminati nel 2016.
Le modalità d’intervento per il restauro conservativo della
facciata si sono svolte secondo una metodologia consolidata
113
Ministero della Cultura
TUTELA E VALORIZZAZIONE
ANDREA G. DE MARCHI
MOBILI ROMANI PSEUDO NORDICI CON MARMI ARCHEOLOGICI E PITTURE.
TRACCE PER FRANCESCO ALLEGRINI E DACA POELEN
Questo caso di studio offre un largo ventaglio di
spunti, per coinvolgimento di tecniche, epoche e culture. Rappresenta molto bene l’incomparabile stratificazione di Roma, mostrandola da un punto di vista
meno frequentato. Gli oggetti in esame riflettono la
densità complessiva di un luogo in cui sono confluiti
individui e caratteri di paesi diversi, la cui interazione
ha prodotto un insieme senza pari per varietà di linguaggi e di materiali. Permette l’approfondimento su
un tipo di mobilia trascurato perfino dalla letteratura
specializzata.
Due grandi cassettoni con ribaltina appartengono
alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini (figg. 1–7), dove non sono mai stati esposti né
studiati con attenzione, malgrado fossero destinati al
“pubblico godimento”, dettato di legge tanto edificante quanto poco rispettato. La struttura degli esemplari
si connota per i toni scuri e le rigorose forme rettilinee,
che suggeriscono una severità d’intonazione quasi protestante. A un primo sguardo presentano molti riferi-
1
–
menti all’Europa centro–settentrionale, fra la Germania e i Paesi Bassi. E difatti furono acquistati nel 1960
dallo Stato italiano come manufatti olandesi del XVII
secolo, secondo una scelta poco spiegabile, venendo
poi catalogati in quella veste nei registri del museo e
nelle schede della locale soprintendenza.1) A quello
smilzo corredo critico si sono aggiunti il parere di
qualche importante commerciante romano e di un
amministratore di altri pezzi qui discussi come affini.
Alcuni fra costoro hanno sospettato che si trattasse di
falsificazioni in stile tardo rinascimentale, svolte fra
Otto e Novecento. L’unica voce centrata risulta quella
di Daniela Di Castro che, sebbene in modo approssimativo, ha azzeccato la collocazione storica e geografica dei pezzi.2)
I nostri esemplari si qualificano come testi genuini,
antichi e realizzati in Italia. Per chiarire come stiano
davvero le cose si deve partire, anche in questo caso,
da un’analisi autoptica condotta su forme e materiali.
È anzitutto il corpo delle opere a illustrarne la natura,
ROMA, GALLERIA NAZIONALE D’ARTE ANTICA DI PALAZZO BARBERINI
–
DACA POELEN: COPPIA DI CASSETTONI
(foto dell’Autore)
119
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FABIOLA JATTA
LA CROMIA RITROVATA NEL COMPLESSO MONUMENTALE ROMANO
DI SAN MICHELE A RIPA GRANDE
Nato da un’idea “illuminata” del papa Benedetto
Odescalchi,1) poi ripresa da Innocenzo XII Pignatelli
nel 1693, l’Istituto Apostolico del San Michele venne
edificato con l’intento di offrire ai poveri e vagabondi,
oltre a un tetto, un avviamento professionale che permettesse loro di reinserirsi nella società.2) Nei trentacinque anni successivi al primo corpo di fabbrica
detto “Odescalchi”, l’edificio crebbe fino a raggiungere i due terzi dell’attuale estensione, ma il progetto
architettonico venne più volte interrotto e poi ripreso,
tanto che il complesso monumentale si concluse soltanto 150 anni dopo la posa della sua prima pietra.3)
Il primo progetto, relativo alla fabbrica Odescalchi,
venne eseguito negli anni 1686–1670 sotto i pontificati di Innocenzo XI e Innocenzo XII, su disegno di
Carlo Fontana e Mattia de Rossi, e corrisponde all’attuale corpo centrale del Conservatorio dei Ragazzi,
con le due ali a un piano che lo chiudevano a ferro di
cavallo. Fontana proseguì i lavori ampliando la costruzione anche sotto i tre pontefici successivi; con Clemente XI realizzò il Carcere Correzionale Maschile,
terminandolo nel 1704, edificò la Caserma dei Doganieri (1706–1709), costruì il Conservatorio dei Vecchi
(1708–1713), progettò e realizzò la chiesa della
Madonna del Buon Viaggio (1710–1714) e, infine,
affiancato da Nicola Michetti e Filippo De Romanis,
diede inizio alla costruzione della Chiesa Grande
(1710–1715) con pianta a croce greca dedicata alla
Trasfigurazione e collocata nel nucleo centrale del
Cortile dei Vecchi.
A loro volta, gli architetti Michetti e De Romanis
realizzarono il Conservatorio delle Vecchie (1714–
1717), progettarono il Conservatorio delle Zitelle
(1719–1729) — portato poi a termine nel 1790 dall’architetto Niccolò Forti — e diedero uniformità al
lungo prospetto sul Lungotevere Ripa sotto la direzione di Ferdinando Fuga. Nel 1734, Clemente XII Corsini commissionò a quest’ultimo il Carcere Femminile
sul lato della piazza di Porta Portese.
Il lungo cantiere della fabbrica del San Michele terminò solo nel 1839 per mano dell’architetto Luigi
Poletti; questi completò i lavori della Chiesa Grande
1 – VINCENZO FEOLI DA FRANCESCO PANNINI: PROSPETTO DELLA GRAN FABBRICA DELL’OSPIZIO APOSTOLICO
DI S. MICHELE IN ROMA ERETTA DALLA S.M. DI PP. INNOCENZO XII IN ASILO ED EDUCAZIONE DE’ PUTTI ORFANI
INCISIONE (1796)
(da https://www.thorvaldsensmuseum.dk/samlingerne/vaerk/E520)
127
Ministero della Cultura
ACQUISIZIONI
FRANCESCA ROMANA GAJA
UNA NOTA PER JAN MIEL IN PALAZZO REALE A TORINO
Le acquisizioni d’arte del Ministero — sempre difficili da ricondurre a una precisa e meditata pianificazione per l’endemica scarsità dei fondi e l’imprevedibilità delle occasioni in cui le opere divengono
disponibili — consentono tuttavia, di tanto in tanto,
degli incrementi al patrimonio nazionale particolarmente coerenti e significativi.
È questo il caso di una sovrapporta raffigurante Ales-
sandro Magno che consulta un astrologo prima di imbarcarsi (fig. 1), recentemente acquisita per le collezioni
dei Musei Reali di Torino, di cui pare opportuno dar
conto in queste pagine. Proveniente in origine proprio
da Palazzo Reale e ricondotto a Jan Miel, il dipinto
era stato sottoposto a dichiarazione d’interesse storico
1
–
TORINO, MUSEI REALI
–
artistico nel 2008.1) Il suo acquisto in via di prelazione, nell’estate del 2018, quando stava riemergendo in
un circuito antiquariale, ci offre ora un tassello rilevante per la conoscenza della maturità del pittore.2)
Fiammingo di nascita, ma romano d’adozione, Miel
giunse a Torino nel 1658 dall’Urbe dopo una lunga
carriera che lo aveva visto destreggiarsi tra la prolifica
produzione di bambocciate — genere al quale si era
accostato tramite l’olandese Pieter van Laer, diventando nel corso degli anni Quaranta uno dei maggiori
riferimenti — e la pittura di storia, messa a punto nel
solco di Andrea Sacchi, ma rielaborata secondo una
molteplicità di riferimenti non sempre d’immediata
identificazione. Ad attirarlo nella capitale sabauda fu
JAN MIEL: ALESSANDRO MAGNO CONSULTA UN ASTROLOGO PRIMA DI IMBARCARSI
(foto Benappi Fine Art, Torino)
139
Ministero della Cultura
LA MEMORIA ISTITUZIONALE
FRANCO BOGGERO – CHIARA MASI
NINO LAMBOGLIA E LA SALVAGUARDIA DEL PATRIMONIO ARTISTICO
DEL PONENTE LIGURE NEGLI ANNI DEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE
Nel luglio 1939 il Ministro della Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, dispone i primi “esercizi d’evacuazione” in previsione di un probabile conflitto e del
necessario ricovero delle opere mobili del patrimonio
artistico italiano (cfr. Appendice, Doc. 1).1) Le disposizioni vere e proprie con le quali si ordina di «provvedere senza indugio al completamento della organizzazione della protezione antiaerea» sono invece
impartite il mese seguente, con una nuova circolare
(Doc. 2), e non si tratta più di un mero «esperimento
di evacuazione».
A partire da quello stesso momento, e fino al 1949,
l’incarico di Soprintendente alle Gallerie della Liguria
sarà ricoperto dallo storico dell’arte goriziano Antonio Morassi,2) già reggente a Milano, che dal suo arrivo a Genova è subito tenuto a organizzare, nel giro di
pochi mesi, luoghi e spazi di deposito.
Le prime località individuate sono Struppa e Fontanegli, in val Bisagno, nell’immediato entroterra cittadino; ma presto si penserà di destinare alla medesima
funzione l’Abbazia di Tiglieto (a ponente di Genova,
nell’alta valle dell’Orba), per via della sua posizione
più defilata. Nel giugno del 1940, all’indomani della
dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, si lavora già alle “confezioni di salvataggio”:
nello spirito delle circolari emanate dal ministro Bottai, lo stesso Morassi e Orlando Grosso, Direttore
dell’Ufficio Belle Arti del Comune di Genova, si fanno
ritrarre da un fotografo mentre presiedono alle prime
operazioni di imballaggio (fig. 1).
Contemporaneamente si opera nella zona di confine con la Francia, provvedendo, in particolare, allo
smontaggio del monumentale Polittico di San Michele
di Giovanni Canavesio (1500) conservato nella parrocchiale di Pigna, in val Nervia, nell’Imperiese.
Un’operazione, questa, nella quale risulta già impegnato, su incarico del Soprintendente, l’archeologo
ventottenne Nino Lamboglia (fig. 2), fondatore (nel
1932) della Società Storico–Archeologica Ingauna e
Intemelia, il futuro Istituto Internazionale di Studi
Liguri. In quei giorni, è ancora Lamboglia ad occuparsi della rimozione del rosone vetrato della parrocchiale e del faticoso trasferimento di alcune prime
importanti opere del Ponente ligure nell’Abbazia di
Tiglieto (fig. 3), individuata come ulteriore, affidabile
sede di ricovero.
Nonostante sia subentrato nel frattempo il primo
armistizio con la Francia (24 giugno 1940), il polittico,
ormai smontato, viene ugualmente ritirato nel mese
di novembre, per essere successivamente restaurato
nel museo genovese di Palazzo Bianco da Pompeo
Rubinacci (fig. 4). Sarà riportato a Pigna nel 1942 e
rimontato sul muro absidale della parrocchiale, ma
ciò avverrà nella più completa indifferenza degli abitanti. In una lettera del 18 giugno dello stesso anno
Morassi descrive a Lamboglia (che per inciso, proprio
in quell’anno fondava l’Istituto Internazionale di
Studi Liguri) la «potente arrabbiatura» ricavata in tale
circostanza: evitando, d’ora in avanti, di seguire in
prima persona una pratica tanto irritante.3)
I “capolavori del Ponente”, a partire dai polittici di
Ludovico Brea e da quello di Giovanni Canavesio
1 – GENOVA, PALAZZO BIANCO
ANTONIO MORASSI (SULLA SINISTRA) E ORLANDO GROSSO
DIRIGONO LE OPERAZIONI DI SALVATAGGIO DELLE OPERE
(foto di Erminio Cresta, 1940)
145
Ministero della Cultura
APPENDICE DOCUMENTARIA
Doc. 1
Genova, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio
per la città metropolitana di Genova e la provincia di La
Spezia, Archivio, Sezione ex Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Liguria, faldone
“Eventi bellici” (V.GE.25.137) (d’ora in avanti SABAP–
MET–GE, Archivio, “Eventi Bellici”), cart. n.n.
14
–
Lettera Circolare n. 144 (copia) del Ministero della Educazione Nazionale, Direzione Generale Antichità e Belle Arti,
scritta a macchina su carta bianca non intestata
Indirizzata «A tutti i Soprintendenti»
Datata Roma, 26 luglio 1939 XVII, Div. III, Prot. 2250,
Posiz. 3, Aff. Gen.
«Oggetto: Protezione antiaerea – Patrimonio artistico removibile.
PIGNA (IMPERIA), PARROCCHIALE DI SAN MICHELE
–
GIOVANNI CANAVESIO: POLITTICO (1500)
(foto Studio Fratelli Manzini, 1945 circa)
153
Ministero della Cultura
LIBRI
STEFANIA PAFUMI, Disiecta membra. Frammenti di sta-
tuaria bronzea di età romana del Museo Civico di
Catania, Roma 2020, L’Erma di Bretschneider
(Bibliotheca Archaeologica, 64), 238 pp., ill. a colori.
In un noto passo della sua Lettera sulle scoperte di
Ercolano al Sig. Conte Enrico di Brühl (1762) Winckelmann descrive scandalizzato la visione di un cumulo
di frammenti di bronzo, resti di una quadriga rinvenuta negli scavi del Teatro, abbandonati nel cortile
del Palazzo Reale di Napoli in attesa di essere fusi o
utilizzati per ricomporre qualche statua lacunosa.
La lettera, destinata a essere letta in tutta Europa,
suscitò l’offesa reazione dell’ambiente archeologico
napoletano e qualche tentativo di giustificazione; ma in
effetti sappiamo che parte di quei frammenti venne fusa
per realizzare due grandi rilievi con ritratti dei sovrani,1)
oltre alla statua della Madonna, ai candelabri e altri
arredi della cappella nel Palazzo Reale di Portici (realizzati intorno al 1753–1756),2) parte ancora — i frammenti dei quattro cavalli — confluì nel 1756 in un singolo,
sintetico cavallo, il noto “cavallo Mazzocchi” che, a
lungo esposto nel museo, fu in seguito confinato nei
depositi. Nel progetto di allestimento dell’ala ovest del
Museo Nazionale, attualmente in via di realizzazione,
tornerà di nuovo alla luce, come esempio di una pratica
di scavo e di restauro ormai consegnata alla storia.
I frammenti visti da Winckelmann, provenienti per
lo più dagli scavi eseguiti tra il 1738 e il 1748, e altri
che a essi si vennero via via aggiungendo, subirono
diversi spostamenti tra Portici e Napoli, prima di trovare definitiva collocazione nei depositi del Museo,
ma non si evitò che molti di essi, nonostante i rigidi
controlli esercitati dai funzionari borbonici sui rinvenimenti vesuviani, prendessero altre strade.
Testimonianza eloquente di questa dispersione è il
gruppo di 14 frammenti bronzei, solo in parte già
sommariamente noti, che Stefania Pafumi presenta in
questo volume, ricostruendo un importante episodio
della storia del collezionismo di antichità nella Catania della prima metà del Settecento: un tema quest’ul-
timo al quale l’Autrice ha dedicato un ventennio di
ricerche, che le permettono di ridare senso e valore a
un complesso di materiali finora negletti. Il volume,
aperto da una presentazione di Andrew Wallace–
Hadrill, rientra in un più ampio progetto dell’Istituto
di Studi sul Mediterraneo di Napoli (ISMed–CNR),
cui Stefania Pafumi afferisce.
Nell’attuale Museo Civico “Castello Ursino” si conservano due nuclei di frammenti di sculture in bronzo
di grande formato, provenienti da due diverse vicende: una serie appartenente al Museo dei monaci
Benedettini del monastero di San Niccolò l’Arena,
all’epoca ben noto e tappa obbligata per i visitatori
del centro etneo, acquisito ai beni demaniali nel 1866
dopo la soppressione dell’ordine religioso; l’altra
invece entrata nelle collezioni civiche nel 1936, insieme a tutti i materiali della collezione dei principi di
Biscari, la grande raccolta formatasi anche questa
nella prima metà del secolo, e già situata nel palazzo
Paternò di Castello alla Marina (un rapido riesame
delle vicende delle due collezioni alle pp. 18–36).
Una serie di esili tracce, individuate nell’archivio
del museo, ha permesso all’Autrice di rintracciare l’origine di alcuni frammenti dei due diversi nuclei e di
impostare una indagine complessiva e sistematica dell’intero complesso: due cartellini con l’indicazione di
provenienza «Ercolano verso l’anno 1746» su una coppia di frammenti della collezione dei Benedettini (nn.
2 e 4: figg. 1–2); una registrazione di un verbale di
consegna del 1868: «Porto d’Anzio» per uno splendido frammento di panneggio ageminato (n. 7: fig. 3)
sono i punti di partenza da cui l’Autrice muove per
ricostruire il contesto di provenienza dell’intero complesso di bronzi e le vicende che possono aver portato
al loro arrivo nelle due contigue raccolte siciliane. Ma
va subito detto che sono state le indagini diagnostiche
condotte sul materiale con tecniche non invasive a
fornire determinanti elementi di conferma alle ricerche storiche e archivistiche: i dati emersi dalle analisi,
condotte nei laboratori collegati con il Centro CNR
(esposti da L. Pappalardo e F.P. Romano: pp. 211–
236), permettono innanzi tutto di situare preliminarmente tutto il complesso in un orizzonte romano, e in
secondo luogo di stabilire, sulla base di analogie di
CATANIA, MUSEO CIVICO “CASTELLO
URSINO”, GIÀ NEL MUSEO DEI BENEDETTINI PRESSO IL MONASTERO DI SAN
NICCOLÒ L’ARENA:
1
–
2
– BRACCIO
PIEDE CON CALCEUS E RESTO DEL
LEMBO INFERIORE DELLA TOGA
DI FANCIULLO, FORSE
RESTO DI UN LYCHNOPHOROS
USATO COME ARREDO
Entrambi i frammenti furono rinvenuti in un’area di edifici pubblici
a Ercolano intorno al 1746.
(foto di Giovanni Fragalà e Danilo
P. Pavone)
165
Ministero della Cultura
MARIA LAGOGIANNI–GEORGAKARAKOS, EMANUELE PAPI,
HADRIANUS – ΑΔΡΙΑΝΟΣ. Ο Αδριανός, η Αθήνα
και τα Γυμνάσια – Adriano, Atene e i Ginnasi –
Hadrian, Athens and the Gymnasia, catalogo della
mostra (Atene, Museo Archeologico Nazionale, 28
novembre 2017 – 31 dicembre 2018, prorogata fino
al 31 dicembre 2020), Atene 2018, 280 pp. con ill. e
tavv. a colori.
In occasione dello scadere dei 1900 anni dall’inizio
del principato dell’imperatore romano Adriano (117
d.C.) il Museo Archeologico Nazionale di Atene, in
collaborazione con la Scuola Archeologica Italiana di
Atene, ha realizzato una importante mostra, tenutasi
nella stessa capitale greca dal 28 novembre 2017 al 31
dicembre 2020, dal titolo: Adriano e Atene. Dialogo con
un mondo ideale.
Ricordare Adriano nel nostro tempo, negli intenti
dei promotori dell’iniziativa, ha significato riconoscergli il merito di aver favorito l’integrazione della cultura greca nella tradizione romana, contribuendo così
alla formazione di un comune sentire che deve essere
considerato fondamentale per la nostra cultura occidentale. E, a testimonianza di questa significativa
mostra, resta uno splendido volume edito in tre lingue (greco, italiano ed inglese) dallo stesso Museo
Nazionale ateniese con l’apporto della nostra Ambasciata di Atene, curato da Maria Lagogianni–Georgakarakos e da Emanuele Papi, composta da 29 contributi di autori greci ed italiani, oltre a quelli forniti
da loro stessi.
Dei numerosi interessanti saggi che illustrano le
cinque sezioni della mostra si accenna in questa parte
solo a quelli attinenti all’architettura e alla città, escludendo quelli sui temi storici, artistici ed epigrafici che
rappresentano un’ampia parte del volume e saranno
trattati qui di seguito.
Dell’Atene riportata da Adriano a una nuova fioritura, in contrasto con l’immagine di degrado e decadenza offerta da altre regioni della Grecia, resta la
preziosa testimonianza del periegeta Pausania, che a
metà del II secolo ne descrisse sinteticamente le
opere più significative sia antiche che moderne.1) Fa
seguito a questo studio un saggio che illustra per
linee generali le nostre conoscenze attuali sulle architetture adrianee,2) mostrandone la posizione topografica, le piante e analizzando brevemente tre edifici
proposti come esemplari (la cosiddetta Biblioteca, il
tempio di Zeus Olimpio e l’Arco trionfale dedicato
all’imperatore). Sono poi indicate su una carta geografica3) le città fondate o rifondate da Adriano, che
furono 68, di cui due soltanto in Italia e le altre nelle
province, con un addensarsi nelle attuali Tunisia e
Turchia asiatica. Segue il saggio sull’arte adrianea e
Atene,4) dove viene ricordata la teoria di Jocelyn
Toynbee che, nel 1934, sosteneva come l’arte dell’impero romano, quindi anche quella di età adrianea,
dovessero ritenersi una fase dell’arte greca e non un
revival o una nuova corrente di gusto.5) Una teoria
all’epoca evidentemente condivisa, se anche Bernard
168
Berenson scriveva qualche anno più tardi che «l’arte
della tarda antichità, cioè del periodo del dominio
romano, era così ellenistica come se Roma non fosse
mai esistita»:6) affermazioni, queste, in quegli anni già
largamente superate dagli studi di Alois Riegl, più
tardi approfonditi da Sergio Bettini e da Bruno
Zevi.7) E, in ogni caso, oggi non ci sono dubbi nel
definire l’arte del tempo di Adriano come una convinta ripresa della cultura figurativa dell’età classica
ed ellenistica.8)
Esempi di tale neoclassicismo sono offerti dalla
decorazione architettonica9) e così, ad esempio, nei
capitelli corinzi di questo periodo sono stati osservati
precisi riferimenti ai capitelli ellenistici dell’Olympieion, il grande tempio la cui costruzione rimase
interrotta durante il regno di Antioco IV (175–164
a.C.) e fu conclusa intorno al 131–132 per volontà di
Adriano. Ma tanto nella decorazione che più in generale nell’architettura si osserva, sul finire del principato adrianeo, l’introduzione di nuovi modelli e una
tendenza all’eclettismo riscontrabile nell’introduzione
e nella rielaborazione di elementi classici ed ellenistici
sia romani che ateniesi. Un eclettismo del resto rilevabile anche nelle tecniche costruttive dove, accanto a
strutture tradizionali greche in pietra e marmo, si
osserva un largo uso del laterizio.10)
Tra gli edifici di età adrianea ad Atene, oltre al
tempio di Zeus, sono da segnalare soprattutto: la
Basilica, riconosciuta nei resti di una fabbrica a pianta rettangolare con un colonnato interno, situata nell’angolo nord–orientale dell’Agorà;11) la cosiddetta
Biblioteca,12) interpretata anche come foro, archivio
catastale, ginnasio, o infine come sede del Panhellenion, un recinto sacro destinato al culto dell’imperatore di cui non è nota l’ubicazione; il grande edificio
rinvenuto nella via del quartiere della Plaka intitolata ad Adriano,13) nei pressi dell’Agorà romana, di cui
sono state proposte diverse possibili interpretazioni,
la più suggestiva e probabile delle quali è, a parere
di chi scrive, quella di riconoscervi il Pantheon, un
grande tempio menzionato da Pausania; l’Arco,14)
terminato forse in occasione della visita dell’imperatore per l’inaugurazione dell’Olympieion, e posto
non già a segnare il limite tra la città greca e un’espansione di età adrianea come si credeva in passato,
ma più probabilmente ad esaltare un’area dove era
stato completato il grande tempio dedicato a Zeus e
dove si trovavano altre nuove costruzioni imperiali.
Di queste e di altre fabbriche, il catalogo presenta
rilievi e ricostruzioni grafiche. Una menzione merita
infine l’acquedotto del Licabetto, iniziato da Adriano
nel 125 e concluso dal successore Antonino Pio,
lungo circa 25 chilometri e realizzato con diverse
tecniche costruttive a causa delle differenze geologiche del suolo.15)
Completano il catalogo un saggio dedicato alla
tipologia dei ginnasi e a quelli ateniesi in particolare16) e una conclusione dedicata alla fortuna dell’architettura e dell’arte adrianea tra il XVII ed il XIX
secolo.17) Una fortuna, quella relativa agli studi sulle
Ministero della Cultura
architetture dell’età di Adriano ad Atene, che continua anche ai nostri giorni, come attestano la mostra
su Adriano e la Grecia allestita a Villa Adriana nel
2014, accompagnata da un volume di saggi;18) o il
recente libro Adriano. Roma e Atene di Andrea Carandini e dello stesso Emanuele Papi (Milano 2019); e
com’è dato riscontrare dalla bibliografia che — nelle
pagine che fanno seguito a un’ampia raccolta di
riproduzioni fotografiche delle opere soprattutto
scultoree del Museo Nazionale ateniese presentate
nella mostra — è posta con gli indici a chiudere il
ricco e denso catalogo di cui si è dato brevemente
conto.
ADRIANO GHISETTI GIAVARINA
Certamente la componente più macroscopica per
Adriano è l’architettura, e anche Atene non fa eccezione, ma in realtà l’azione del princeps è pervasiva a
tutti i livelli, e si riverbera su ogni manifestazione a
lui direttamente o indirettamente connessa. Nel
momento in cui, infatti, si legge il volume secondo la
prospettiva storico–artistica, emergono varie riflessioni, su cui è opportuno soffermarsi, pur non potendosi rendere conto nominativamente di tutti i lemmi (e
degli Autori) dell’ideale enciclopedia adrianea che
esso rappresenta.
Se il memorabile saggio della Toynbee ebbe il merito di focalizzare la natura dell’arte adrianea, interpretata secondo la visione degli anni Trenta del secolo
scorso,19) il riesame aggiornato della documentazione
offerta da vari saggi di HADRIANUS – ΑΔΡΙΑΝΟΣ
porta a riconoscere e confermare che l’arte adrianea
ad Atene è nota sinora prevalentemente dai ritratti,
dai rilievi, segnatamente quelli della “serie del Pireo”,
e dai sarcofagi, mentre della scultura a tutto tondo
sono conservate quasi esclusivamente testimonianze
epigrafiche e letterarie: come noto, Adriano era assai
amato nella città, con cui instaura un virtuoso rapporto di dediche e di celebrazioni, manifestate da statue e
da altari collocati nei principali luoghi della città20) e
dall’accostamento dell’immagine dell’imperatore a
quelle degli eroi eponimi.21)
Il panorama conoscitivo, che naturalmente può
essere modificato da scoperte in futuro, rende chiaro,
proprio attraverso i disiecta membra messi a disposizione dal volume, che l’interpretazione dell’arte adrianea si è sempre basata, almeno in relazione ad Atene,
su dati parziali. Di conseguenza, anche l’equazione,
che ha avuto molta fortuna in letteratura, tra arte
adrianea e classicismo o nuovo classicismo, va bilanciata con l’analisi della scultura adrianea fuori dalla
città di Atene, e dunque nell’Ellade, e più lontano,
dove comunque Adriano esercita direttamente il controllo, in Oriente, in Egitto, ma anche a Villa Adriana
a Tivoli, dove sono rappresentate tutte le voci e le
epoche, dallo stile severo all’ellenismo alle creazioni
di età romana.
Ad Atene effettivamente il magistero classicista è
imperante, anche se rivisto e attualizzato dal committente, ma un ruolo a parte riveste la ritrattistica, rappresentata nella pluralità dei tipi riconducibili all’immagine di Adriano;22) in particolare, in merito a
questa è da sottolineare la lettura proposta per la
barba,23) che correttamente concilia le due tendenze
interpretative, l’una che ravvisa in tale elemento un
indicatore filosofico greco, l’altra un simbolo di
romanità militare.
Accanto alle immagini imperiali (presunte le statue
loricate, acefale; incerto l’unico ritratto di Sabina) e a
quelle non numerose (almeno in città) di Antinoo, il
testo propone24) il corpus delle opere che non rientrano tecnicamente negli hadrianeia erga, ma riflettono
la temperie che da questi promana. Sono opere, queste, per le quali molteplici indizi convergono su uno
scenario certamente di II secolo, ma non sempre
adrianeo, che tuttavia si pongono nell’alone di
Adriano senza essere ascrivibili con certezza all’azione imperiale o che comunque fanno parte di essa
nella misura in cui ne colgono e riflettono intenti e
modalità.
In tale ottica vanno viste le sculture del teatro di
Dioniso, eterno banco di prova per una bibliografia
che ne ha attribuito o revocato in dubbio la pertinenza alla sfera adrianea; esse, correttamente, sono ascritte non alla committenza imperiale ma all’alone programmatico che ne propaga il messaggio.25) Allo
stesso ambiente produttivo appartengono forse anche
le statue cosiddette dei Giganti, ornamento dell’Odeion di Agrippa, delle quali lo status quaestionis26)
attesta le oscillazioni interpretative all’interno del
perimetro mitico delle origini di Atene, rispetto alle
quali Adriano sarebbe collocato come re legittimo.
La lezione adrianea si perpetua successivamente in
due simboli della cultura attraverso la poesia, quale è
incarnata dalle raffigurazioni dell’Iliade e dell’Odissea,27) databili probabilmente alla metà del II secolo
d.C. più che all’età adrianea: di esse conta più la carica simbolica rispetto alla collocazione antica sinora
ipotetica, la biblioteca di Pantainos, o meno probabilmente “l’arco della strada diretta all’Agorà Romana o
il basamento davanti alla Biblioteca” o, infine, un
non meglio identificato ginnasio di età tarda.
Il mondo dei ginnasi, dunque, permea l’intero
lavoro, dove è affrontato ampiamente,28) culminando
nella serie dei cosmeti dal supposto Diogeneion, icone
stesse dell’educazione e più latamente di un mondo
che ha fatto della cultura il proprio mezzo di autorappresentazione: secondo le parole della Vlachogianni,
è stato proprio l’atticismo linguistico (come dimenticare il pendant figurativo del classicismo?) a gettare i
presupposti di quello che sarebbe diventato lo Stato
bizantino.
In conclusione, il volume nasce come catalogo legato alla mostra, ma di fatto è una summa, improntata
alla corretta prudenza interpretativa che si chiede a
un manuale, condotta per schede e per ricostruzioni
grafiche e mappe efficaci anche sul piano didattico;
169
Ministero della Cultura
La chiesa ipogea di San Sepolcro, Umbilicus di Milano.
Storia e restauro, a cura di ANTONELLA RANALDI,
Cinisello Balsamo 2019, Silvana Editoriale, 264 pp.,
100 ill.
La chiesa di San Sepolcro, fondata nel 1030 sul
margine del Foro romano di Mediolanum, è ancora,
malgrado le radicali trasformazioni subite nel corso
dei secoli, un monumento significativo del romanico
lombardo, nonché un punto cruciale della riforma
cattolica sotto la direzione di Carlo e Federico Borromeo. Si compone oggi di una chiesa superiore e di
una inferiore, la prima interamente trasformata con
l’abolizione dei matronei e l’introduzione di alte
colonne di granito, la seconda lasciata intatta e rimasta a testimoniare, ancora in piena Controriforma, il
suo passato medievale.
La chiesa superiore, rifatta anche all’esterno —
con l’invenzione di Cesare Nava e Gaetano Moretti
della facciata in presunto stile romanico, 1894–1897,
e il rifacimento stilistico dei due campanili, 1903 —
è stata oggetto di un recente restauro, cui è seguita
una apposita pubblicazione.1) Questa costituisce un
corredo indispensabile al volume qui recensito, dedicato invece al restauro della chiesa inferiore (fig. 1)
condotto dalla Soprintendenza Archeologia, belle
arti e paesaggio per la città metropolitana di Milano,
tra aprile 2018 e maggio 2019, e diretto da Antonella Ranaldi.
La consultazione del primo volume si raccomanda
per due motivi: il primo è che, col restauro Barcilon,
sono apparse anche nella chiesa superiore tracce della
decorazione a stelle delle volte, in tutto simile a quella
messa ora in luce nella chiesa inferiore (fig. 2); il
secondo è che il volume sulla chiesa superiore riproduce la Charta iudicati, redatta a Milano il 6 dicembre
1030 dal fondatore della chiesa, Benedetto Rozo,
magister monetae della Zecca, un raro documento che
definisce gli aspetti progettuali della chiesa e détta,
per la sua gestione, istruzioni che avrebbero avuto
peso sino all’età borromaica.
La chiesa sorgeva su di una proprietà della famiglia
di Benedetto e comportò il prelievo, dal Foro, delle
grandi lastre di marmo di Verona che formano oggi il
pavimento di quella inferiore. Il Foro era stato scavato
nel XX secolo, prima da Ada Levi e in seguito da
Anna Ceresa Mori. Ne trattano nel libro Furio Sacchi,
Anna Maria Fedeli e Alberto Bacchetta. Evidentemente, nell’XI secolo, dopo le lastre pavimentali non c’era
più molto da prelevare, ma restava inalterata la centralità del sito rispetto alla città. Donde il termine
umbilicus adottato da San Carlo.
Il programma del fondatore era complesso e carico
di significati simbolici: «altitudo ecclesiae continet fidem
catholicam, latitudo caritatem, longitudo spem vitae
aeternae».2) Benedetto Rozo prevedeva di affidare la
sua fondazione a un monastero benedettino e a quattro canonici, istituendo sette cappelle (ecclesiae), le cui
dediche riassumevano la vita di Gesù — dall’Annuncio alla Resurrezione — mentre i due campanili rap-
presentavano i due testamenti. La chiesa sarebbe stata
dedicata alla Trinità. Tre tribune uguali le avrebbero
dato forma di croce e alluso alla Trinità.
Il complesso progetto icnografico di Benedetto
Rozo sarebbe stato determinante fino alla Controriforma nella gestione del santuario — non più
legato a un’abbazia, ma al centro di un sistema di
“luoghi pii” (sui quali scrive Marina Gazzini) — e
avrebbe suggerito a San Carlo l’idea di trasformazione della chiesa, arricchita di gruppi statuari, in
un vero e proprio “Sacro Monte” urbano (ne parla
Andrea Spiriti).
Il Compianto in terracotta di Agostino de Fondulis e
aiuti, qui e nell’altro volume studiato da Cristina
Quattrini, poté fornire il punto di partenza per immaginare un grande teatro di statue legato a un itinerario. Restaurato in passato, è ora collocato nella chiesa
superiore: ha così acquistato visibilità e appare associato ai gruppi narrativi della chiesa superiore, ma al
contempo si è interrotto il legame drammatico con
l’episodio emblematico della chiesa inferiore, l’edicola
del Santo Sepolcro, posta al centro del transetto e resa
misteriosa e inaccessibile, come luogo sacro, da una
griglia di ferro che tutta la circonda.
L’edicola, collocata alquanto più in basso del pavimento del transetto, custodisce una scultura del Trecento in forma di sarcofago, al cui interno è esposta la
sindone, glorificata dagli angeli, mentre sui fianchi
sono scolpiti i soldati addormentati, le pie donne e
l’incontro di Cristo con la Maddalena. Quando nel
1610 a questo nucleo narrativo fu aggiunta l’impressionante statua di terracotta, realisticamente dipinta,
che rappresenta San Carlo in preghiera, in ricordo di
una pratica ascetica di adorazione e preghiera del
santo in questo stesso luogo, il Santo Sepolcro di Milano divenne così memoria di San Carlo. Andrea Spiriti
e Marco Navoni trattano ampiamente della chiesa
inferiore dal Trecento al Seicento. In particolare,
Marco Navoni ricorda come San Carlo legasse la chiesa di San Sepolcro al culto del Santo Chiodo, conservato in Duomo.
Semibuia, la chiesa inferiore si presenta come una
basilica ipogea lunga m 30, larga m 12 (m 15 al transetto triconco), spartita in tre navatelle da ventisei
colonne. Paola Novara ne confronta i capitelli con
quelli di San Vincenzo in Prato, come già fece Wart
Arslan, ma distingue otto capitelli «più massicci»
degli altri dodici maggiormente raffinati, che erano
serviti da modello. Si dimostra così il carattere sperimentale della fondazione di Benedetto Rozo, in un
momento di transizione verso il capitello cubico che
troveremo poi nella sua forma definitiva in Sant’Abbondio a Como.
Gli otto capitelli massicci si trovano nello spazio tra
le due torri che già Leonardo, interessato alla complessità dell’edificio (ne tratta Antonella Ranaldi),
segnalava in una pianta da lui schizzata come un
ambito a sé, oggi riconosciuto in un vero Westwerk
(paragonabile alle soluzioni architettoniche della
Renania ottoniana), nel quale Luigi Carlo Schiavi
171
Ministero della Cultura
STEFANIA VENTRA, L’Accademia di San Luca nella Roma
del secondo Seicento. Artisti, opere, strategie culturali,
Firenze 2019, Leo S. Olschki Editore, 370 pp., 90
ill. b/n, 71 tavole a colori.
La bibliografia sull’Accademia di San Luca a
Roma conta molte voci, a cominciare dalle fonti storiche di Melchiorre Missirini (1823), al volume curato da Carlo Pietrangeli del 1974, sino ai saggi più
recenti (Goldstein 1978, Waźbiński 1988, Cipriani
2000, Salvagni 2012) dedicati ad alcuni dei molti
aspetti assunti da quell’istituzione nel panorama
artistico romano dalla fine del XVI secolo sino a
tutto l’Ottocento.1) In particolare, sembravano ormai
indagate a fondo — e totalmente risolte — le problematiche affrontate dall’Accademia dagli anni Sessanta del Seicento sino alla fine del secolo, quando
— secondo la lettura corrente — il binomio Bellori–
Maratti, il teorico e il pittore a lui profondamente
legato, aveva instaurato un regime di assoluta supremazia all’interno di quell’istituzione per la didattica
artistica con l’applicazione allo studio dal modello
attraverso il disegno e, non ultima, con l’impostazione dottrinale.
Invece, il volume di Stefania Ventra, dedicato
all’Accademia proprio nella congiuntura di quel
periodo, affronta con autonomia di giudizio rara in
una giovane studiosa — e propone in modo assai
convincente — una diversa visione di questo sfaccettato momento: se la presenza di Giovan Pietro Bellori
fu costante in Accademia, dal celebre discorso sull’Idea, pronunciato nel 1664 e pubblicato poi nel 1672
come introduzione alle Vite de’ pittori, sino al 1677, il
ruolo svolto da Carlo Maratti in seno a quell’istituzione va invece notevolmente ridimensionato. Come
emerge infatti dai documenti, già letti e commentati
da Angela Cipriani nel 20152) ma riproposti dalla
Ventra in una lettura complessiva, egli ebbe il riconoscimento ufficiale di primo pittore di Roma solo nel
1699: da quella data proclamato Principe in perpetuo
per acclamazione, seguito dall’ulteriore nomina a
Cavaliere di Cristo voluta da Clemente XI Albani, suo
grande protettore, conferitagli in Campidoglio nel
1704, atto che ne segnò la solenne celebrazione in
vita.
L’intelligente riesame dei documenti dell’Archivio
di San Luca, molti dei quali peraltro già noti, ha permesso alla Ventra di ricostruire il variegato mondo di
artisti gravitanti intorno all’istituzione. Di molti, oggi
dimenticati, l’autrice ridisegna il percorso — Domenico Rainaldi, Matteo Piccioni, Sillano Sillani e vari altri
— e sottolinea l’autonomia di ciascuno, ridimensionando l’influsso esercitato in quel contesto dal sopracitato binomio Bellori–Maratti, troppe volte riproposto dagli studiosi acriticamente e senza ulteriori
verifiche.
In questa acuta analisi del periodo e dell’operato di
Maratti in particolare, Stefania Ventra confuta — e
speriamo risolva per sempre — l’antinomia di Maratti–pittore classicista del Seicento. Infatti questo ecletti-
174
co artista seppe fondere nella sua lunga e fortunatissima carriera le diverse istanze dell’arte del suo tempo,
sia quelle classiche — partendo da Annibale Carracci
e dalla sua scuola, Domenichino in particolare, non
trascurando neppure Guido Reni — e prendendo
spunti anche da Lanfranco, che gli trasmise l’insegnamento di Correggio, e da Sacchi, suo maestro e a sua
volta allievo di Albani. Ma egli non dimenticò di guardare Pietro da Cortona e in generale la pittura barocca, del cui insegnamento fece tesoro.
È quanto rivelano alcune pale quale la celebre
Presentazione di San Carlo Borromeo a Cristo nella
chiesa dei Santi Carlo e Ambrogio a Roma, dipinta
negli anni 1685–1686, che si stenta a credere contemporanea della neo–raffaellesca pala dell’ Immacolata in Santa Maria del Popolo (1682–1684 circa).
Prendendo costantemente a esempio il suo celebre
conterraneo Raffaello, e non solo sul fronte pittorico ma nello stile di vita per il modo di organizzare
la bottega, di utilizzare l’incisione di traduzione e in
molti altri aspetti, Maratti costituì nella creazione
del proprio linguaggio pittorico la più felice espressione della “scuola romana” del secondo Seicento,
come è stata definita da Silvia Ginzburg. 3) Diffondendo tale linguaggio in tutta Europa, egli ebbe il
merito di anticipare con grande intelligenza, attraverso l’Arcadia, tematiche e atmosfere proprie del
gusto rococò che trionfarono nel secolo successivo
in Francia e altrove. Se il significato del temine
“eclettismo” non avesse assunto un valore riduttivo
nella recente critica d’arte, credo che sia quello più
idoneo a definire questa poliedrica figura di artista,
osannato da Bellori, legato al milieu culturale francese di stampo classicista, ma nello stesso tempo
richiesto da Pietro da Cortona, che lo aveva chiamato a decorare la Galleria di Alessandro VII al Quirinale, apprezzato da Bernini (ricordiamo il commento dello scultore «Così si dipinge» pronunciato di
fronte alla pala della Chiesa Nuova), protetto e
richiesto da otto pontefici e corteggiato da regnanti
e “milordi” durante tutta la vita. Dall’analisi della
Ventra emerge un’immagine di Maratti assai più
sfaccettata, quale peraltro l’aveva già delineata Stella Rudolph nei suoi frequenti affondi sull’artista 4) —
preludio alla monografia mai scritta — che se fu
protagonista assoluto dell’arte a Roma dopo la
morte di Cortona (1668) e Bernini (1680), in Accademia di San Luca non ebbe invece sempre un ruolo
dominante. L’autrice ridimensiona la totale dipendenza del pittore da Bellori e la loro egemonia
all’interno dell’istituzione accademica, che si concretizzò solo nel 1666, pilotando dall’esterno il
fedele amico Domenico Guidi in occasione della
sponsorizzazione della Francia con l’elezione a Principe di Charles Le Brun, in absentia, rappresentato
in loco da Charles Errard. Maratti fu infatti artista di
maggior autonomia rispetto alla stretta dimensione
classicista creatagli dal biografo, aperto a sollecitazioni dell’arte contemporanea — a cominciare da
Lanfranco sino a Cortona e Bernini — come già
Ministero della Cultura
Wart Arslan e lo studio dell’arte tra metodo e ricerca, Atti
del Convegno “Temperare sempre il giudizio con
doverosa cautela” (Università di Pavia, 4–5 giugno
2018), a cura di MONICA VISIOLI, Milano 2019, Officina Libraria, 287 pp.
Wart Arslan (1899–1968) fu il primo professore
ordinario di Storia dell’arte dell’Università di Pavia
(1942–1968). Prima era stato soprintendente in Basilicata, ispettore e direttore dei musei di Bologna e
Bolzano, professore all’Università di Cagliari. Nella
prima parte della sua vita professionale e accademica,
iniziata dalla laurea a Padova con Giuseppe Fiocco, fu
soprattutto uno specialista di arte veneta, cosa che
veramente non risulta — se non per qualche punto —
dal volume qui recensito. Le notizie vanno riportate
per l’inevitabile calata in ombra del personaggio, le
cui azioni non sono più alla luce dei nostri giorni.
Una sola rievocazione precedente della sua attività
era stata la giornata di studi tenuta presso il Collegio
Armeno di Venezia, il 23 marzo 1983, con pubblicazione degli atti, a Venezia, nel 1985.1) Gli interventi
erano di colleghi universitari, da Adriano Alpago
Novello a Eugenio Battisti, e di allievi già affermati
nella carriera accademica come Angiola Maria Romanini, Rossana Bossaglia, Chiara Perina. Riguardavano
più nuovi studi sull’indirizzo di Arslan che rievocazioni del maestro. La scuola di Arslan si è affermata in
Italia soprattutto attraverso gli allievi medievalisti,
come Peroni, la Romanini, Cadei.
Il volume attuale, dopo l’introduzione di Monica
Visioli, comprende gli interventi di Andrea Leonardi
su Arslan soprintendente in Basilicata, di Giovanna
Perini su Arslan a Bologna, di Antonella Gioli sulla
sua direzione del Museo di Bolzano, di Paolo Campiglio sui rapporti dello studioso con Ferruccio Ferrazzi,
di Giuliana Ericani per la monografia sui Bassano. Per
l’architettura medievale scrivono Paola Greppi e Luigi
Carlo Schiavi sull’argomento di San Simpliciano, Alessandro Pitta sui cantieri ambrosiani, Anna Segagni
Malacart — già presente nell’occasione del 1983 —
sulla prima architettura romanica milanese, Francesco
Repishti su Arslan e l’architettura del Rinascimento,
Giampaolo Angelini sulla presenza di Arslan nella
Storia di Milano della Fondazione Treccani. Alessandra Casati scrive delle polemiche attribuzionistiche
degli anni Cinquanta in cui Arslan fu coinvolto; Monica Visioli sul dibattito nel restauro del Cenacolo Vinciano. Per altri specifici campi di ricerca scrivono
Francesco Frangi, sul Seicento lombardo, Valerio Terraroli sul Barocchetto lombardo, Luisa Giordano circa
le ricerche di Arslan sugli artisti provenienti dai laghi
lombardi.
Tutti questi autori hanno scritto benissimo ed esaustivamente dei loro argomenti, che sono in genere la
continuazione di quelli indicati da Arslan, per cui non
resterebbe che rimandare ai loro testi e chiudere qui
la recensione. Ma se quel che c’è va bene, qualcosa si
può dire ancora per quello che manca; alcuni aspetti
poi degli interessi di Arslan, direttamente o indiretta-
mente, circa l’arte veneta, emergono inevitabilmente
negli interventi citati.
L’attività di Arslan in Basilicata si concentra sugli
esiti più felici e importanti della scoperta e valorizzazione delle opere venete, specialmente del Quattrocento e del Rinascimento. L’intervento di Giuliana
Ericani ricostruisce con precisione i momenti delle
due monografie sui Bassano, del 1931 e del 1960,
individuandoli come il passaggio critico dalla storia di
un personaggio dell’arte tutto sommato considerato
ancora minore a quella di una figura maggiore, pari
alle più importanti della storia e della tradizione
veneta. Dimostrando come, nel processo critico, la
ricostruzione biografica e cronologica di Arslan sia
stata la base ovvia di tutti gli studi successivi, che si
sono maggiormente soffermati sugli aspetti analitici e
attributivi.
Ugualmente importante — e però insufficiente e
fallimentare nelle conseguenze — è stato l’intervento
dello studioso su El Greco giovane, sulle cui polemiche, e relativi strascichi, Alessandra Casati è stata
forse fin troppo reticente. A quel tema Arslan dedicò
il saggio che restò per lui più emblematico per psicologia e metodo, forse in ogni caso ancora il più famoso: Cronistoria del Greco “Madonnero”, pubblicato in
Commentari nel 1964,2) che va ricordato ancora per la
sua estrema e disperata attualità. Il saggio iniziava
facendo propria una citazione di Wethey:
« ... lo diciamo riferendoci in particolare a quel periodo italiano (più propriamente veneto) che è stato oggetto, forse, della
più generosa inflazione mai subita da un artista: “Il compianto Gerasmo Messinis di Venezia mi informò nel 1955 che egli
aveva acquistato centodiciannove dipinti del Greco giovane e
che tredici di essi erano firmati. In una sola collezione privata
veneziana vidi ventitré di queste tavole, e in una stanza di una
collezione privata milanese ne trovai altre venti, eterogenee
come stile e di qualità largamente disuguale, ma tutte proclamate come opere del Greco”».3)
Ora solo qualche anno fa, nel 2015, è stata allestita
alla Casa dei Carraresi di Treviso una mostra sul Greco
italiano, curata da Lionello Puppi,4) già elogiato allora
per la sua prudenza da Arslan nel saggio del 1964, che
riproponeva, se non aggravandola, esattamente, di
fatto, seppur in termini diversi, la situazione denunciata da Arslan cinquant’anni prima. Secondo alcuni
pareri orali, e la sola recensione dello specialista spagnolo Fernando Marias,5) la mostra di Treviso era da
rigettare in blocco, perché le opere erano per molti
aspetti dubbie, o di altri autori, o del periodo spagnolo
dell’artista. Il saggio di Arslan è assai importante
anche perché l’autore viene allo scoperto in una presa
di posizione etica, che dovette costargli l’isolamento
nel tempo — nel mondo dell’antiquariato ma anche in
quello dell’accademia — come non è mai più accaduto, purtroppo, nella storia italiana.
Il “Barocchetto” lombardo, evocato da Terraroli,
ma già prima, nella giornata del 1983, dalla sua maestra Bossaglia, fa ricordare invece l’azione dimenticata
di Arslan verso la cultura mantovana, attraverso la sua
tenace allieva Chiara Perina, che lo chiamò a due pre-
179
Ministero della Cultura
9) E. ARSLAN, Catalogo delle cose d’arte e di antichità d’Italia, XII, Vicenza, I: Le chiese, Roma 1956.
10) Ibidem, p. VII. Sull’argomento delle chiese vicentine,
nell’occasione del 1983, aveva scritto anche Franco Barbieri.
Il risultato più emblematico della ricerca di Arslan sul periodo resta alla fine l’opuscolo Il concetto di “luminismo” e la
pittura veneta barocca, edito a Milano nel 1946, che contiene, alla nota 59, di pagina 46, le poche ma significative
righe dedicate alla pittura veronese: «Dei pittori barocchi
veronesi varrebbe la pena di occuparsi, artisti come il Brentana, lo scioltissimo “Maestro di Breonio”, Odoardo Perini,
Paolo Panelli, Francesco Lorenzi, Giandomenico e Giambettino Cignaroli, Saverio dalla Rosa, Agostino Ugolini, ancora
poco conosciuti o sconosciuti del tutto, meritano di essere
studiati e rivalutati».
Rodolfo Pallucchini: storie, archivi, prospettive critiche,
Atti del Seminario di Studi “Sugli archivi degli storici dell’arte. Questioni di metodo, esperienze a
confronto” (Udine, 23 ottobre 2018) e del Convegno di Studi “Rodolfo Pallucchini (1908–1989)”
(Udine, 12–13 marzo 2019), a cura di CLAUDIO
LORENZINI, Udine 2019, Forum Editrice Universitaria Udinese, 462 pp.
Quella recente di Udine, promossa dall’università
cittadina in due momenti (un seminario di studi del
23 ottobre 2018 e un convegno del 12–13 marzo
2019, di cui qui si raccolgono insieme gli atti, curati
da Claudio Lorenzini) non è la prima occasione d’interesse dedicata alla figura di Rodolfo Pallucchini,
morto nel 1989, come ricorda anche Donata Levi.
Una prima, il 10 novembre 1999, era stata organizzata all’università veneziana di Ca’ Foscari da Giuseppe
Maria Pilo, che curò anche la pubblicazione degli atti
su un quaderno di Arte/Documento nel 2001, sotto il
titolo Una vita per l’arte veneta. Allora parteciparono
docenti e personaggi di spicco della cultura, più o
meno coetanei del nostro, come Branca, Sciolla, Safarik, Puppi, Corboz, Zampetti, nonché alcune allieve
portate alla cattedra, come Francesca d’Arcais, Stefania Mason, Paola Rossi, tutte persone che dovevano
aver conosciuto molto da vicino il professore e potevano esser fonti molto attendibili della sua storia. Sul
volume che pubblica gli atti vi è pure una tabula gratulatoria di quattro colonne fittissime.1) Già le copertine dei volumi esprimono la diversità degli intenti e
degli argomenti trattati: un vitalistico ballo di donne
nude, le Tre Grazie di Padovanino, l’artista più erotico
della pittura veneta, con dominante rossa, smarginato
a tutto campo, sulla copertina del 2001; una piccola
foto in bianconero e una mezza fascetta marron sulla
copertina del 2019. Pilo dedicava ancora a Pallucchini
ben tre numeri consecutivi della rivista da lui diretta,
Arte /Documento 13, 14, 15, dal 1999 al 2001. Con
tutte queste iniziative Pilo ha certamente voluto esprimere in quel momento la sua sincera ammirazione e
stima nei confronti di Pallucchini e anche, in qualche
182
modo, il desiderio, altrettanto sincero, di riproporsi
come erede ideale della sua figura.
Nel 2008 si tenne un convegno su Pallucchini alla
Fondazione Cini (3–4 novembre), Rodolfo Pallucchini e
le arti del Novecento, dedicato esclusivamente al Novecento (con foto grande in copertina: Pallucchini con
Chagall). Gli atti furono pubblicati nel 2011 nel fascicolo 35 di Saggi e memorie di storia dell’arte, quando
era ancora direttore della Fondazione uno degli allievi
di Pallucchini, Giuseppe Pavanello, che gli successe,
anche se non immediatamente, pure in quel ruolo.2)
Al confronto non può non sorprendere il silenzio
dell’università di Padova, dove Pallucchini insegnò
per oltre vent’anni, come professore ordinario, dal
1956 al 1979, e dove pure furono stanziati fondi per
studi in suo onore, senza alcun esito, subito dopo la
sua morte, riconfermati poi per molti anni. L’eccezione è stata Giuliana Tomasella che, in altre sedi, è stata
colei che ha riscoperto e riproposto, continuando la
Dal Canton, Pallucchini nei rapporti col contemporaneo.3) L’attenzione alla figura dello studioso, fondamentale e ineludibile nel Novecento, è passata dunque prima a Venezia e quindi a Udine, allontanandosi
sempre più dalla sede operativa originaria e più centrale di Padova.
Il convegno di Udine è naturalmente motivato dalla
biblioteca e dalla parte archivistica del fondo Pallucchini conservate all’università e dalla relativa catalogazione, completata in questi anni. La biblioteca fu
acquisita nel 1989, mentre l’archivio personale fu
donato alla fine del 2001.
Seguendo la successione degli interventi, nel testo
degli atti, Donata Levi, responsabile del progetto di
catalogazione, tratta della struttura e dell’articolazione del fondo e delle relazioni con quelli degli altri studiosi. Ma fa emergere subito il problema delle fotografie, il cui lascito andò invece alla Fototeca della
Fondazione Giorgio Cini. Da qui anche il problema
ulteriore delle postille di Pallucchini, legate alle fotografie, che sono spesso comprensibili solo con l’ausilio
di entrambi i fondi.
Giuliana Tomasella scrive invece del carteggio
Fiocco–Pallucchini. Il rapporto professore–allievo,
che diventa col tempo quello di padre–figlio nell’affettuosa espansività di Fiocco, è certamente quello
centrale e più rivelatorio della nostra storia, non solo
in quanto tale — che non è poco — ma anche in
quanto le due figure, nell’interesse reciproco, si rivelano assolutamente complementari e col tempo Pallucchini, da rispettoso allievo, passa al ruolo di
badante dell’esuberante e incontinente maestro. È
forse questo l’intervento che apre più spiragli psicologici nell’umanità, ben armata e difesa, di entrambi i
personaggi e anche quello di più gradevole lettura da
parte del lettore non specialista.
Marsel Grosso parla del rapporto Coletti–Pallucchini;
Laura Iamurri della corrispondenza tra Pallucchini e
Lionello Venturi; Claudio Gamba di quella con Giulio
Carlo Argan; Emanuele Pellegrini del carteggio Pallucchini–Ragghianti. Patrizia Cappellini scrive sulla colla-
Ministero della Cultura
1) Con sorpresa ho trovato anche il mio nome, che non
ricordo mi fosse stato allora richiesto, ma lo spiego con la
nota generosa esuberanza di Pilo. Forse anche altri nomi in
quell’elenco, di grecisti, di romanisti, di glottologi, hanno
avuto lo stesso trattamento.
2) Rodolfo Pallucchini e le arti del Novecento, Atti del
convegno di studi (Venezia, Fondazione Giorgio Cini, 3–4
novembre 2008), in Saggi e memorie di storia dell’arte, 35,
2011. Importanti sono stati in tal senso anche i due interventi di Giuseppina Dal Canton, del 1999 e del 2008,
rispettivamente pubblicati in: Fra attiva partecipazione al
«rinnovamento della cultura artistica italiana» e «collaudo
della propria sensibilità». Pallucchini e l’arte contemporanea, in Una vita per l’arte veneta, Atti della giornata di stu-
dio in onore e ricordo di Rodolfo Pallucchini (Venezia, Università di Ca’ Foscari, 10 novembre 1999), a cura di G.M.
PILO, Monfalcone–Gorizia 2001, pp. 119–129; e Gli scritti
di Rodolfo Pallucchini sull’arte contemporanea, in Rodolfo
Pallucchini e le arti ..., cit. in questa nota, pp. 185–192.
3) Ha fatto seguito Rodolfo Pallucchini. Scritti sull’arte
contemporanea, a cura di G. TOMASELLA, Venezia 2011.
4) Fa eccezione, per la sua parte, negli scritti del 2001,
l’intervento di S. MASON, La pittura veneziana ‘fra le due
pesti’, in Una vita per l’arte veneta, cit. in nota 2, pp. 67–73.
5) Ibidem, p. 69.
Patrimonio e città storiche come poli di integrazione sociale e culturale, sostenibilità e tecnologie innovative //
Historic Cities and Heritage as the Hubs of Social and
Cultural Integration, Sustainability and Innovative
Technologies, a cura di ROSA ANNA GENOVESE, Napoli
2018, Giannini Editore, 485 pp., ill. b/n e a colori.
Il volume1) è stato concepito da Rosa Anna Genovese, attiva presso l’Università degli Studi di Napoli
Federico II, per dare conto degli esiti di due congressi, da lei promossi, che si sono tenuti nel 2017 e nel
2018 (con il Patrocinio del Dipartimento di Architettura, della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio, del Centro Interdipartimentale
di Ricerca in Urbanistica Alberto Calza Bini della
medesima Università e del Comitato Italiano ICOMOS), dedicati rispettivamente alle strategie di conservazione integrata e ai temi delle città storiche, sotto
il profilo dell’integrazione sociale, della sostenibilità e
delle tecniche innovative.2) Esso si colloca in una
sequenza di pubblicazioni, sempre curate da R.A.
Genovese, volte a favorire un’autentica cooperazione
scientifica fra specialisti operanti in ambiti diversi ma
tutti potenzialmente convergenti sui problemi del
patrimonio culturale: Archeologia Città Paesaggio,
Napoli 2007; Il cantiere della conoscenza. Metodologie e
strumenti per la conservazione ed il restauro, Napoli
2008; Dalla conoscenza al progetto. Metodologie e strumenti per la conservazione ed il restauro, Napoli 2011;
Conoscere, Conservare, Valorizzare, Napoli 2013; Patri-
monio culturale: tecniche innovative per il progetto di
conservazione, Napoli 2016.3)
Dalla lettura si trae la convinzione che il volume
abbia centrato, nella sua triplice ripartizione (sinteticamente: Strategie di conservazione integrata, emergen-
za e prevenzione; Patrimonio e città storiche come poli
d’integrazione sociale, sostenibilità e innovazione; Esperienze internazionali a confronto e tecniche per la conservazione ed il restauro), il cuore del problema conservativo oggi che non è, contrariamente al pensiero di
alcuni autori, quello di sviluppare una “nuova teoria”
o una sedicente “teoria contemporanea” del restauro,
come se quanto si è concettualmente elaborato e poi
sperimentato fino a oggi sia da considerare “superato”, non si sa bene da quali mirabolanti progressi teoretici e metodologici, ma quello d’un ripensamento o,
meglio, allargamento di prospettiva in crescente evidenza dagli inizi del nuovo millennio.
Allargamento che, sulla scia della lezione di Roberto
Di Stefano, già presidente del Comitato Internazionale
ICOMOS, il quale, come scrive R.A. Genovese, sottolineava il legame fra “conoscenza” e “progetto”, oggi è
declinato convintamente in termini di cooperazione
scientifica fra vari specialismi anche curando, come
sostiene Francesco Forte, la formazione di nuovi profili
professionali. Quindi di una, finalmente, decisa attenzione a una “cultura della prevenzione”, di cui sono
rammentate le «basi etiche»; al doveroso spazio da
riservarsi alla conoscenza profonda dell’oggetto storico, anche tramite le tecniche d’indagine più innovative
ma senza mai trascurare, come raccomanda Jukka
Jokilehto, l’importanza della frequentazione diretta e
personale del manufatto; poi alla valutazione del
rischio e della vulnerabilità; infine ai temi della sostenibilità, intesa nel suo senso più ampio, sociale oltre
che materiale. A questo proposito si vedano i contributi, pur diversi, di Diane Archibald e Pasquale De Toro.
Su tali argomenti è richiamata l’esigenza di uno specifico “patto di cittadinanza”, di una partecipazione
«dal basso» capace di generare «energia sociale», come
scrivono Maria Cerreta e Gaia Daldanise; sono questi i
punti su cui si sta esercitando da qualche tempo, a
nostro avviso, la ricerca davvero più innovativa.
Sulla medesima linea si collocano, per esempio, le
riflessioni di Luigi Fusco Girard sulla necessità di spostare l’attenzione dai manufatti alla «vita», quindi
verso un concetto di «conservazione attiva», vale a
dire capacità di «gestione del cambiamento», in primo
luogo del paesaggio, inteso, riprendendo vecchie ma
sempre attuali riflessioni filosofiche (si pensi ai contributi in materia di Rosario Assunto), come “memoria
incorporata di una comunità”. Ed ecco che riemerge il
substrato sociale e di più diretta assunzione di responsabilità che attraversa gran parte del volume. Da qui,
considerato il paesaggio non più come bel “volto della
Nazione” ma, in maniera oggi giustamente segnata da
molteplici timori, come testimonianza dello “stato di
salute di un territorio o di una città”, il richiamo, nel
ragionamento di Fusco Girard, alle positive potenzialità dell’«economia circolare», quella che l’Autore riconosce nell’antica organizzazione urbana e sociale, in
pieno equilibrio con la natura, dei Sassi di Matera.
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Abstracts
GIULIA ROCCO
Fragments of a bas–relief from Spoleto’s Roman theatre.
A possible reconstruction and interpretation.
Some fragments of a marble bas–relief came to light during the excavation of Spoleto’s Roman theatre
during the 1950s. They formed part of the scaenae frons. An analysis of the subject matter and iconography
has suggested some possible interpretations for the scenes, ranging from mythological representations to gods
and goddesses. The reliefs date to the second quarter of the second century CE, showing that the theatre was
renovated between the end of Hadrian’s reign and the beginning of Antoninus Pius’. The original structure
was built during the last decades of the first century BCE.
GIOVANNI BORACCESI
Fifteenth and sixteenth century processional crosses in the diocese of Tricarico
The article focuses on the fifteenth and sixteenth century processional crosses in some of the churches of the
diocese of Tricarico, in Basilicata. The protagonists of this cultural phenomenon were bishops, lay and regular ecclesiasts, non clerical guilds, as well as everyday church goers and members of the Kingdom of Two
Sicilies’ wealthy landowning families.
The group of crosses includes excellent examples of Late Gothic and Renaissance work, some, until now,
unpublished. They reveal an unexpected dynamism present in this part of Lucania, adding another piece to
the puzzle of the heritage left by the goldsmiths of this southern region, as well as the artists themselves, both
home grown and from other parts.
GIACOMO MONTANARI
Tomaso Orsolino between Pavia and Certosa (1628–1635):
a more accurate chronology and new clues as to the role of Ercole Ferrata
Though he worked in Genova, Tomaso Orsolino was born in Ramponio in the Val d’Intelvi. From 1628
onwards he worked on some of the most important sculptural projects of early seventeenth century Lombardy.
This paper hopes to sort out the order in which the sculptor produced his works for the Certosa of Pavia. It
looks in greater detail into the numerous works that the artist produced for the important monastery. The
focus is on the period between 1628, when we know for sure that he arrived in Lombardy, and the middle
of the 1630s. The close ties to the greats of Lombardy painting are the underlying thread in the stylistic evolution that was without a doubt one of the main players of the later fashion, a “sniff ” of the new Baroque
language in Lombardy. This is in spite of the critical misfortunes it has witnessed even up to recent times. In
such a prolific workshop, it’s no surprise that Ercole Ferrata’s deft chisel was to emerge. This paper hopes to
reveal some of those first traces of his independent work, prior to his move to Naples.
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LAURA GIGLI
Bartolomeo Lupardi bares his soul in the architectural and decorative facade of his home
The facade of 104 Via di Parione (today’s Via del Governo Vecchio) speaks of a man of humble origins,
Bartolomeo Lupardi, who went on to become a successful publisher and printer. He was capable of innovating the spirit of his times, against which he pitted himself, unwilling to remain a bystander in a world whose
script was being dictated by the powers that be, curtailing any desire for individual freedoms. This was a
man who had chosen to anchor his activity in the hostile world rooted in the art of publishing. This was the
right place to guarantee success in his life mission. An expression of this success was the construction of his
house. After the restoration of its facade in 2015 his choice of flaunting his achievement can once again be
admired. It’s the manifestation of a man who had changed the way in which social standing could be represented. This was a specific cultural innovation not so much for himself, considering the fact that for him his
accrued economic fortune was enough satisfaction in itself, but more for his descendents. He managed to
give them the opportunity to stand on level ground with the dominant social structures, thanks to his invention, from scratch, of a new mythography, hinged on legal science. Evidence of this can be seen in the enormous cultural objectives followed and reached in the field by his son Andrea, recognising his studies as a
means of emancipation, overturning what could have been his destiny at birth.
ANDREA G. DE MARCHI
Painted pseudo North European Roman furniture using recycled Ancient Roman marble.
Traces of Francesco Allegrini and Daca Poelen
The paper establishes the true cultural identity of a pair of dressers in the Galleria Nazionale di Arte
Antica in Palazzo Barberini. When they were bought in 1962 it was thought they were Dutch, and later
considered a forgery. In actual fact they were manufactured in Rome. The craftsman, as yet, remains anonymous, but was probably from the Netherlands. Other pieces of furniture, made by the same hand, have been
identified and are analysed here. They date to around 1640. A previously unknown international milestone
in seventeenth century Roman furniture production has been revealed, in which Ancient Roman marble is
reused.
FABIOLA JATTA
The refound colour scheme of the monumental complex of San Michele in Rome
The paper reports on the results of the restoration of the decoration of a small inner cloister in the monumental complex of San Michele in Rome, unveiling another aspect of the building’s long history. The complex took
one and a half centuries to finish, its first stone being laid in 1686, during the reign of Pope Innocent XI. It
wasn’t until 1839 that Luigi Poletti finally finished the job. Poletti also renovated the cloister in question,
which has recently been restored. The works uncovered important information as to the original colour scheme.
The colour of the panels of what was known as the “Odescalchi lodge” were previously “a shade of the air”.
This was a light grey colouring obtained by adding a dash of Vine Black pigment to the slaked lime. The paper
provides confirmation that the long facade giving on to the River Tiber was painted light grey up until the end
of the 1700s. This can be seen in illustrative plates, oil paintings, wall and tempera paintings and printed
watercolours. The pale coloured complex is seen as it was up until the end of the 1700s, not in the red brick
hue that we’ve been accustomed to from the eighteenth century up to the present day.
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Ministero della Cultura
FRANCESCA ROMANA GAJA
Notes about Jan Miel’s work in Turin’s Palazzo Reale
Italy’s cultural ministry recently acquired an overdoor by Jan Miel. It depicts Alexander the Great consulting an astrologist before embarking. The painting was originally housed in Turin’s Palazzo Reale. Jan
Miel was named as court painter by Duke Charles Emmanuel II, from 1658 to his death in 1664. The
acquisition provides a chance to take a brief look at what he produced for the palace in Turin, and to add
something new to the catalogue of paintings commissioned by the House of Savoy. Miel took part in the renovation of the state rooms of the piano nobile of the Royal Palace, fitting in with the complex celebratory
iconography drawn up by Father Emanuele Tesauro. Tesauro also oversaw the Flemish artist’s illustrations
for the volume Regno d’Italia sotto i barbari (Turin 1664), for which Miel produced two frontispieces and
forty three royal portraits.
FRANCO BOGGERO – CHIARA MASI
Nino Lamboglia and the preservation of the artistic heritage of the West Ligurian Riviera
during the Second World War
In 1940 Italy declared war on France and Great Britain. Immediately afterwards the state body in charge
of Liguria’s art galleries put in motion a “rescue operation” for the region’s artistic heritage. The project had
started the previous year, initially focusing on the paintings and sculptures found in the regional capital.
The extreme logistical difficulties encountered along the Ligurian Riviera of Ponente led the Superintendent, Antonio Morassi, to entrust a young archaeologist from Imperia, Nino Lamboglia, with the task of
dismantling and making safe some of the precious monumental heritage present in Pigna, a town in the Val
Nervia, near the French border.
Lamboglia’s efficiency on this and other occasions meant that he was able to set up a sort of detached ministerial office within the Istituto di Studi Liguri, that he himself had established in 1937. It survived the
dramatic evolution of the worldwide conflict right up to its end, going on to be a precious and atypical part
of the evolution of historical and archaeological studies of the area between the Rivers Arno and Ebro.
In early 1945, before the end of the war, Lamboglia scripted a detailed account of all that he had managed to achieve. The situation around Imperia had been one of extreme emergency. All his notes, previously
unpublished, can be found in the Appendix. They are accompanied by photographic evidence of the rescue
operation from the Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio della Liguria’s photo library
archives. In this way the writers hope to piece together the key events in a particular moment, as dramatic
as it was intriguing.
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REDAZIONE
Via di
San Michele 22
00153 Roma
BOLLETTINO D’ARTE
fondato nel 1907
Complesso Monumentale
del San Michele
a Ripa Grande
Serie VII – Fascicoli degli anni 2009-2019
Volumi Speciali
già pubblicati
in preparazione
PALAZZI DEL CINQUECENTO
A ROMA
VINCENZO PACETTI, ROMA, L’EUROPA
ALL’EPOCA DEL GRAND TOUR
a cura di
C. CONFORTI e G. SAPORI
a cura di
A. CIPRIANI, G. FUSCONI, C. GASPARRI,
M.G. PICOZZI, L. PIRZIO BIROLI STEFANELLI
OSTIA. ARCHITETTURA E CITTÀ
IN CENTO ANNI DI STORIA
a cura di
M. ANTONUCCI, L. CRETI, F. DI MARCO
Un fascicolo: €40,00 per i privati
€60,00 per le istituzioni
Per gli abbonamenti rivolgersi a «L'Erma» di Bretschneider, Via Marianna Dionigi, 57 - 00193 ROMA
SERIE VII
I fascicoli 1–10 sono stati stampati dalla Casa Editrice Leo S. Olschki, Viuzzo del Pozzetto, 8 – 50126 Firenze.
I fascicoli 11–19/20 sono stati stampati dalla Casa Editrice De Luca Editori d’Arte s.r.l., Via di Novella, 22 – 00199 Roma.
Dal fascicolo 21 (gennaio-marzo 2014), la stampa e la distribuzione della Rivista è affidata alla Casa Editrice «L'Erma» di Bretschneider.
ISSN 0394-4573 - Rivista trimestrale a carattere scientifico
Esemplare non cedibile
Registrazione Tribunale di Roma
n. 439/84 del 12 dicembre 1984
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Finito di stampare nel mese di novembre 2020
da «L’ERMA» di BRETSCHNEIDER ,
tipografia CSC Grafica s.r.l. via A. Meucci, 28
00012 - Guidonia - Roma