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DANTE E PISA : INFERNO PURGATORIO PARADISO (24 agosto 2021)

2021, draft

Emperor Henry VII of Luxembourg died on 24 August 1313 in Buonconvento and two years later, probably on 24 August 1315, he was buried in the splendid monument by Tino di Camaino, erected in the apse of Pisa Cathedral, immediately below Christ Pantocrator in the great mosaic. Many scholars, from the nineteenth century to the present day, believe that Dante came to Pisa with the emperor and then participated in this ceremony. On this 24th of August 2021, and also in memory of Marco Santagata, who with me and other friends took part in 2013 in the recognition of the emperor's remains, I publish, with a few changes and in a provisional draft, the official speech I gave on 6 August 2021, the feast of San Sisto, in the church of the same name in Pisa. L’imperatore Enrico VII di Lussemburgo muore il 24 agosto 1313 a Buonconvento e due anni dopo, probabilmente il 24 agosto 1315, viene tumulato nello splendido monumento di Tino di Camaino, eretto nell’abside del Duomo di Pisa, immediatamente al di sotto del Cristo Pantocratore nel grande mosaico. Molti studiosi, dall'Ottocento a oggi, pensano che Dante fosse giunto in Pisa con l'imperatore e avesse poi partecipato a questa cerimonia. In questo 24 agosto del 2021, e anche in ricordo di Marco Santagata, che con me e con altri amici e amiche partecipò nel 2013 alla ricognizione delle spoglie dell’imperatore, pubblico, con qualche modifica e in redazione provvisoria, il discorso ufficiale da me tenuto il 6 agosto 2021, festa di San Sisto, nell’omonima chiesa di Pisa.

1 Fabrizio Franceschini Professore ordinario di Storia della Lingua italiana dell’Università di Pisa Vice Presidente della Società Storica Pisana Dante e Pisa: Inferno, Purgatorio, Paradiso* 1. Nell’opinione oggi più comune, a Pisa e altrove, il rapporto tra Dante e Pisa sembra giocarsi soprattutto o esclusivamente nella prima cantica. Per averne una conferma basti guardare al mondo del vernacolo pisano. A partire da Renato Fucini e dai suoi epigoni ottocenteschi, come Beppe Dell’Angiolo, attraverso tutto il Novecento e sino al nostro secolo, quasi tutti gli autori vernacolari hanno considerato un tema d’obbligo, al pari del Giòo der Ponte o della Luminara di San Ranieri, quello del Conte Ugolino e dell’invettiva dantesca contro Pisa, attribuendo ovviamente a Dante epiteti non simpatici1. Si intende che sono battute, ma alcune di esse, rimbalzando da un vernacolista all’altro, si trovano anche in composizioni che trattano in vernacolo la storia di Pisa2 e mostrano come, negli ambienti più interessati alle tradizioni cittadine, il rapporto tra Pisa e Dante sia visto in modo riduttivo e spesso stereotipo3. Certo l’episodio del Conte Ugolino è tra quelli più universalmente famosi del poema dantesco e l’invettiva dantesca contro Pisa, ispirata a modelli biblici (l’episodio di Sodoma e Gomorra) e classici (Metamorfosi di Ovidio, Tebaide di Stazio e probabilmente Tieste di Seneca), acquista una potenza e una violenza non eguagliate dalle tante altre invettive contro città toscane e italiane presenti nell’opera dantesca. Eppure nello stesso canto XXXIII dell’Inferno troviamo aspetti non adeguatamente considerati ma di interesse per la cultura pisana. Cominciamo da un’analisi linguistica. Ugolino solleva la bocca…dal fiero pasto dopo che Dante, alla fine del canto XXXII, gli ha chiesto le ragioni per cui infierisce bestialmente sul cranio del dannato sottostante. Dall’accenno di Dante al mondo suso (Inf. XXXII 138) il conte comprende trattarsi di un vivente destinato a tornare sulla terra; l’identità del parlante e le ragioni del suo privilegio gli restano ignote (Io non so chi tu sè, né per che modo / venuto sè qua giù), però dalla sua parlata ne riconosce l’appartenenza fiorentina: ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo (Inf. XXXIII 10-12). Già il fiorentino Farinata degli Uberti aveva riconosciuto nel pellegrino ultraterreno un suo concittadino, attraverso una formula (la tua loquela ti fa manifesto, Inf. X 25) che Il testo riproduce, con qualche modifica e in redazione provvisoria, il discorso ufficiale tenuto il 6 agosto 2021, festa di San Sisto, nell’omonima chiesa di Pisa. 1 Per un recente florilegio in merito vedi Pisa e Dante in conflitto continuo, in «Er Tramme» XXXVII 1, 2021, p. 3. 2 Vedi R. POGGIANTI, Storia di Pisa (spiegata ar Popolo), Edizioni Offset Grafica, Pisa 1998, p. 83; A BIANCHINI, Le gròrie di Pisa repubbrïana. Cinque secoli di storia in vernacolo pisano, Bandecchi e Vivaldi, Pontedera 2000, p. 47. 3 Stigmatizza questo atteggiamento, su un piano più generale, M. TAMPONI, Nino Visconti di Gallura, Il dantesco Giudice Nin gentil tra Pisa e Sardegna. guelfi e ghibellini, faide cittadine e lotte isolane, Viella, Roma 2010, p. 255. * 2 anche più scopertamente ripete l’episodio di Pietro, riconosciuto in Gerusalemme come seguace di Cristo dalla sua parlata galilea (loquela tua manifestum te facit, Matteo 26 73). Se dunque Dante parla fiorentino, Ugolino parla pisano, o almeno rivela chiari segni di pisanità. Raccontando il sogno della caccia infernale contro lui coi figli e nipoti in veste di lupo e lupicini, il Conte indica i Monti pisani con la perifrasi al monte per che i Pisan veder Lucca non ponno (Inf. XXXIII 30). Qui, come a Inf. XXI 11 dove si parla dei legni lor (dei Veneziani) non sani / che navicar non ponno, i manoscritti trecenteschi oscillano tra ponno (più diffuso) e puonno, comunque forme non fiorentine ma tipiche degli antichi volgari di Pisa e di Lucca, e quindi appropriate tanto nel discorso di Ugolino quanto in apertura del canto XXI, incentrato sui barattieri lucchesi e con forti riferimenti a Lucca (vv. 48-49: Qui non ha loco il Santo Volto! / Qui si nota altrimenti che nel Serchio!). A conferma della pisanità della forma cito solo, tra i testi che abbracciano l’arco della vita di Dante, il Trattato di pace fra i pisani e l’emiro di Tunisi del 1264 con puonno e puono, il Breve di Villa di Chiesa del 1327 (o forse prima), con ponno, puonno, puono, e le Vite dei Santi Padri di Domenico Cavalca (1330 ca.), pure con ponno puonno, puon(o)4. Pisana è la forma e pisano è il modulo morfologico della III plurale formata sulla III singolare più (n)no, esibito anche dai perfetti terminonno, apparinno, dienno, fenno variamente presenti nella Commedia e del cui statuto di pisanismo Dante era ben consapevole. Infatti in De vulgari eloquentia I XIII 2, egli, come esempio linguistico pisano, propone «bene andonno li fanti de Fiorensa per Pisa», con questo tipo di terza plurale e la presenza di esse per zeta, che distingueva il pisano e il lucchese dagli altri volgari toscani. Ma accanto al suddetto tratto pisano, di tutta evidenza, ce n’è un altro più nascosto e quasi paradossale. Per i moderni lettori del poema dantesco è normale o scontato che Dante parli della Capraia e la Gorgona in quanto isole, nella terribile maledizione scagliata contro Pisa. Tuttavia i più antichi manoscritti fiorentini della Commedia non presentano mai la forma Capraia. Il perduto codice del 1330-31 noto a Luca Martini e quello vergato nel 1337 da Francesco di ser Nardo da Barberino, oggi Trivulziano 1080, hanno Cravara, come poi molti altri (ove anche Cravrara), in accordo con codici come quello steso nel 1336 a Genova e oggi a Piacenza (Bibl. Passerini Landi 190) o quello datato 1354 e di colorito linguistico ligure oggi a Madrid (Biblioteca Nacional, 10186). Altri codici fiorentini trecenteschi, accordandosi anche in questo caso con codici settentionali quali il Riccardiano 1005, col commento del bolognese Lana, o il padano Egerton 943 della British Library, hanno Cavrara, e alcuni di tali codici recano commenti come i seguenti: • 4 Ottimo commetatore fiorentino (ca. 1334): «Cavrara et la Gorgona…: Caprara et Gorgona sono due grandissime montagne»; Cfr. F. FRANCESCHINI, «Capraia» pisanismo dantesco: geografia, storia e paesaggio linguistico in Inf. XXXIII 1-90, in «Studi Danteschi», 83, 2018, pp. 117-148, a pp. 122-123, e vedi ivi, pp. 119-121, per la forma donno. 3 • • Andrea Lancia, notaio e autorevole esponente del dantismo fiorentino (1341-43): «l’autore […] invoca due montagne, Cavrara e Gorgona, che non sono lungi dalla foce dove Arno mette in mare»; «Amico dell’Ottimo», appartenente allo stesso ambiente di questo anonimo commentatore e di Andrea Lancia: «la Cavrara e la Gorgona sono due promontorii in mare et dice movansi […] et pongasi in su la foce d’Arno»5. Certo il bolognese Iacomo della Lana, il cui commento risalente al 1324-28 circolava anche in Toscana e in veste toscanizzata, scrive che «la Cavrara e la Gorgona […] sono doe ysolette poco fora dell’istaria [della costa] de Pixa»6, ma invece per Graziolo Bambaglioli, cancelliere del Comune di Bologna e autore del più antico commento datato all’Inferno (1324), «sunt duo maxima bracchia maris posita in mari, distantes a Portu Pisarum versus Sardineam»7, ove ‘braccia di mare’ sembra alludere alle acque dei canali di Corsica e di Piombino che, scontrandosi con quelle dell’Arno, sarebbero cresciute sino a formare una muraglia liquida8. Si potrebbe pensare che queste siano particolarità o stranezze di interesse solo erudito ma la realtà è diversa e significativa. Importanti intellettuali, notai, alti funzionari dei Comuni di Bologna e di Firenze, contemporanei di Dante e copisti o commentatori del suo poema ignorano che Capraia e Gorgona sono isole e comunque usano qui non la forma Capraia, assolutamente normale in tutti i testi fiorentini e toscani per indicare il borgo lungo l’Arno di fronte a Montelupo, ma quelle non toscane Cravara, Cavrara, Caprara. Invece l’attesa forma toscana Capraia, presente nel Trattato di pace fra i pisani e l’emiro di Tunisi in volgare pisano (1264), è normale nei codici legati a Pisa, da quello oggi a Chantilly col testo dell’Inferno e il relativo commento di Guido del 1335-1340 («muovasi la Capraia et la Gorgona[…]: iste sunt duo insule propinquiores litoribus Pisanorum»)9, al ms. steso a Pisa in Carraia San Gilio, ossia Corso Italia, da un giovane lucchese nel 1347 (Hamilton 203, Staatsbibliothek zu Berlin P. K,), sino al testo usato e glossato a fine Trecento dal Buti che, 5 Cfr., rispettivamente, L’Ottimo commento della Divina Commedia. Testo inedito d’un contemporaneo di Dante, a cura di A. Torri, Capurro, Pisa 1827-1829, I, p. 566 (che normalizza tacitamente in «Muovasi la Capraia ec. Capraia e Gorgona») e ora Ottimo Commento alla «Commedia», a cura di G.B. Boccardo, M. Corrado, V. Celotto, Salerno Editrice, Roma 2018, I, p. 677; Andrea Lancia, Chiose alla «Commedia», a cura di L. Azzetta, ivi, 2012, I, p. 474; Amico dell’Ottimo, Chiose sopra la «Commedia», a cura di C. Perna, ivi, 2018, p. 267. Ancora un fiorentino di fine XIV-in. XV secolo spiega «muovinsi quelli due monti che appaiono innanzi a foce d’Arno […], ciò è il poggio della Capraia et della Gorgona»: Commento alla Divina Commedia d’Anonimo Fiorentino, a cura di P. Fanfani, Romagnoli, Bologna 18661874, I, p. 693. 6 Cfr. IACOMO DELLA LANA, Commento alla «Commedia», a cura di M. Volpi con la collaborazione di A. Terzi, Salerno Editrice, Roma 2009, I, p. 898 (e vedi a p. 899 una delle versioni toscane, che fraintende istaria dell’originale, scrivendo «sono due isolette poco fuori della scaria di Pisa»). (I)staria, usato dal Lana anche a Inf. XXVI 103 («cercò da Tripulli de Barbaria e tutta la scaria infino a Setta», ivi p. 747), è «voce d’origine bizantina e diffusa soprattutto in area veneta» (M. Volpi, «Per manifestare polida parladura». La lingua del commento lanèo alla «Commedia» nel ms. RiccardianoBraidense, Salerno Editrice, Roma 2010, p. 121. 7 GRAZIOLO BAMBAGLIOLI, Commento all’Inferno di Dante, a cura di L.C. Rossi, Scuola Normale Superiore, Pisa 1998, pp. 210-211. 8 FRANCESCHINI, «Capraia» pisanismo dantesco, cit., p. 138 n. 81. 9 GUIDO DA PISA, Expositiones et glose. Declaratio super «Comediam» Dantis, a cura di M. Rinaldi, Salerno Editrice, Roma 2011, I, p. 954. 4 secondo i codici pisani stesi lui vivente e forse sotto il suo controllo, mostra «muovasi la Capraia et la Gorgona», con la spiegazione «la Capraia et la Gorgona: queste sono due isulecte poste in mare inanti a Pisa»10. Ai codici pisani se ne aggiungono, con la forma Capraia, pochi altri e in particolare l’Urbinate lat. 366 della Biblioteca Vaticana, settentrionale ma conservativo del dettato dantesco, e su questa base i moderni editori stampano Capraia contro tutta la tradizione fiorentina antica. Ma se i copisti e i commentatori fiorentini del tempo di Dante (o di poco dopo) usano le forme di tipo ligure o emiliano Cravara, Cavrara, Caprara e ignorano che Capraia e Gorgona sono isole, considerandole montagne o promontori, da dove Dante trae le sue informazioni sulle isole prospicienti la costa pisana e sulla loro esatta denominazione? La spiegazione più economica di questa paradossale situazione ci porta a un preciso scenario storico e geografico. Dopo la vittoria di Campaldino, ottenuta l’11 giugno 1289 sui ghibellini dall’esercito fiorentino e guelfo in cui militava anche Dante, nell’agosto dello stesso anno, come scrive il Villani, i Lucchesi con la forza de’ fiorentini feciono oste sopra la città di Pisa11. Del poderoso esercito facevano parte l’esule pisano Nino Visconti, in posizione preminente, e lo stesso Dante che ce ne assicura coi versi così vid’io già temer li fanti / ch’uscivan patteggiati di Caprona, / veggendo sé tra nemici cotanti (Inf. XXI 94-96). Il sistema di fortezze dei Monti pisani passato sotto il controllo della lega guelfa, come dettagliatamente indicano fonti fiorentine12, comprendeva anche la Verruca e se Dante, fosse salito sin lassù avrebbe potuto vedere, come mostrano le vedute di fine Sette-inizi Ottocento e l’osservazione a occhio nudo in giornate opportune, da un lato una lillipuziana Pisa disposta nel piano e dall’altro, grandeggianti all’orizzonte, la Gorgona e la Capraia13, così ovviamente denominata da Nino e dagli «sciti di Pisa» che con lui «combattenno la torre di Caprona»14. Così il ms. Laurenziano Conventi Soppressi 204 c. 89 (anteriore all’ottobre 1392), quello della Biblioteca Nazionale di Napoli XIII C. 1, c. 84r, di colorito compattamente pisano e latore dell’ultima versione butiana, e quello di colorito pisanolucchese oggi Banco Rari 39 della Biblioteca Nazionale di Firenze (con isule nel commento); invece l’edizione a stampa del Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Comedia di Dante Allighieri, a cura di C. Giannini, Nistri, Pisa 1858-1862, I, pp. 823 e 834, ha Cavrara, essendo basata per la prima cantica su un codice fiorentinizzato. 11 Cfr. GIOVANNI VILLANI, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Fondazione Pietro Bembo / Guanda, Milano-Parma 1990, I, p. 612. 12 Vedi la Consulta fiorentina del 19 marzo 1290, con specificazione degli effettivi a difesa delle diverse istallazioni: «Giudice di Gallura […] dimandava gl’infrascritti fanti per guardia dell’infrascritte castella e fortezze che egli teneva: per il Castello maggiore di Calci fanti 10, per la torre di S. Michele a Castello [di Verruca] 6, per il castello o rocca della Verruca 11, per la rocca di Caprona 11 […], che per il Comune di Firenze gli furno concessi, se così pareva all’altre città della Lega, che ancor loro dovevano concorrere alla spesa»: cfr. Le consulte della Repubblica fiorentina dall’anno MCCLXXX al MCCXCVIII, a cura di A. Gherardi, Sansoni, Firenze 1896-1898, II, p. 673 (e vedi I, p. 381). 13 Cfr. A. BASSERMANN, Dantes Spuren in Italien. Wanderungen und Untersuchungen, Oldenburg, München 1898, p. 50 ss.; trad. it. Orme di Dante in Italia, Zanichelli, Bologna 1902, pp. 119-20. 14 Cfr. la descrizione della presa guelfa di Caprona nella cronaca del ms. British Library, Additional 10027, edita come Fragmenta Historiae Pisanae Pisana dialecto conscripta ab anno MCXCI usque ad MCCCXXXVII auctore anonymo, in L.A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, XXIV, Milano 1738, coll. 643-73, a col. 657. 10 5 Non c’è prova, né indizio, né ragione che in questi anni Dante abbia varcato le porte di Pisa, e infatti egli ne ignora gli spazi urbani ci mostra solo il chiuso della torre. Dopo la cattura di Ugolino e la fase in cui lo stesso arcivescovo Ruggeri o suoi fiduciari detengono le massime cariche pisane, di fronte al rischio di una conquista fiorentina viene chiamato il conte Guido da Montefeltro, allora confinato ad Asti che, violando tale vincolo, giunge a Pisa nel marzo 1289 e assume le cariche di «potestas et capitaneus populi et guerre pisani Comunis»15. Come Ugolino e Ruggeri, anche quest’altro capo di Pisa si trova nell’Inferno dantesco, tra i consiglieri di frode poiché le sue «opere […] / non furon leonine, ma di volpe» (Inf. XXVII 74-75); questa stessa immagine è applicata da Dante ai pisani, «le volpi sì piene di froda, / che non temono ingegno che le occùpi» (Purg. XIV 5354). Ma i Pisani rovesciavano questa satira negativa, come scrive un’antica cronaca secondo cui quando il ditto conte Guido usciva fuore di Pisa con la gente, suonandoli inanzi una cienamella, li Fiorentini fuggìano e dicieano: «ecco la volpe». Elli li havea sì spauriti ch’ellino fécieno volentieri pace colli Pisani16. Certo, i ripetuti attacchi portati da Fiorentini, Lucchesi e Genovesi dal 1289 in poi non furono senza conseguenze poiché, come dice la stessa cronaca, furono «perdute tutte le castella […] salvvo che Vicopisano e Morrona»17, ma Pisa restò sostanzialmente indenne e anzi il conte Guido, quando la lega guelfa si ritirava, passava al contrattacco e recuperava le varie parti del contado, sino a che la lega guelfa, rinunciando al progetto di conquistare Pisa, pose fine alla guerra con la pace di Fucecchio del 1293 (che prevedeva tra l’altro l’allontanamento del Montefeltro)18. Ma se Dante non entrò in Pisa, entrò in quella parte del mondo pisano pure nominata nel suo poema, appunto Caprona e il monte / per che i Pisan veder Lucca non ponno, e vi entrò non solo coi fanti de Fiorensa, come dice alla pisana nel De vulgari eloquentia, ma col giudice Nino Visconti e gli «sciti da Pisa», con cui Dante condivideva la militanza e da cui prende con ogni probabilità una parola come Capraia. 2. Ma qui dall’Inferno si passa al Purgatorio. Il nome di Pisa risuona esplicitamente due volte nel poema di Dante: in Ahi Pisa, vituperio de le genti, come tutti sanno, ma anche in Purgatorio VI 17Cfr. M.L. CECCARELLI LEMUT, I Montefeltro e il Comune di Pisa tra XIII e XIV secolo, in «Lo stato e ’l valore». I Montefeltro e i Della Rovere: assensi e conflitti nell'Italia tra ’400 e’600, Atti del Convegno di Studio (Gubbio, 14-17 dicembre 2000), a cura di P. Castelli - S. Geruzzi, Pacini, Pisa 2005, pp. 5-19. 16 Cfr. Cronica di Pisa, in L.A. MURATORI, Rerum Italicarum Scriptores, XV, Milano 1729, coll. 973-1088, alla col. 981, e ora Cronica di Pisa. Dal ms. Roncioni 338 dell’Archivio di Stato di Pisa, a cura di C. Iannella, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 2005, p. 46 (che cito con ritocchi grafici). 17 Ibidem; analogamente il Commento di Francesco da Buti, cit., I, p. 554 («non rimase a’ Pisani se non Vico, Peccioli e Morrona») mentre lo Pseudo-Marangone, ossia Lorenzo Tajoli, parla non di Morrona ma di Motrone, rimasta a Pisa con Vico e Piombino (Croniche della città di Pisa dall’anno della sua edificazione al MCCCCVI del dottore Bernardo Marangone Pisano, a cura di G.M. Tartini, in Rerum Italicarum Scriptores […] ex Florentinarum bibliothecarum codicibus, I, Florentiae 1748, coll. 311-842, a col. 568). Resta ferma la notizia dell’indomita resistenza di Vicopisano. 18 Nino Visconti, che non riuscì a prendere Pisa, non poté neppure rientrarvi dopo questa pace. Egli ebbe comunque un ruolo importante affinché l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini fosse messo sotto processo, presso la corte papale, per il suo ruolo nella vicenda ugoliniana (cfr. R. PIATTOLI, voce Ubaldini, Ruggieri della Pila, in Enciclopedia Dantesca, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1970-1988, ora anche in linea; TAMPONI, Nino Visconti di Gallura, cit., pp. 346-352). 15 6 18, ove si ricorda quel da Pisa, / che fé parer lo buon Marzucco forte. Non so quante o quanti Pisani siano familiari con questi versi; certo, nelle composizioni vernacolari da cui siamo partiti hanno poco o punto spazio. Si dirà che sono due versi scarsi, ma sui quattro versi di poco precedenti dedicati da Dante alla Pia, che Siena […] fé e disfece la Maremma (Purg. V 133-136), molto si è detto e scritto, a Siena e non solo. Ora queste due figure, lo buon Marzucco e quel da Pisa che lo fé parer […] forte sono importanti nella vicenda che portò alla tragedia della Torre della Fame. Dopo la sconfitta della Meloria e la formazione nel settembre 1284 della lega anti-pisana tra Genova, Firenze e Lucca, il 18 ottobre Ugolino della Gherardesca è nominato Podestà di Pisa e nel febbraio del 1285 riceve le cariche di Podestà e Capitano del Popolo per 10 anni «come fusse quasi signore», secondo le parole di un’antica cronaca19. A questo punto Ugolino cede Ripafratta e Viareggio ai lucchesi e altre castella saranno cedute ai Fiorentini. Ma, a prescindere da quante e quali siano state tali castella, quali sono le forme e gli attori istituzionali di queste cessioni? Non da qualche cronaca, ma da un documento ufficiale sappiamo che il 3 dicembre 1285 lo buon Marzucco di cui stiamo parlando, cioè il giurisperito pisano Marzucco Scornigiani, parente di Giovanni Visconti padre di Nino, noto dalla Toscana alla Sardegna a Genova sino a Venezia 20 e celebrato dal poeta Guittone d’Arezzo21 – su procura del potestà di Pisa Ugolino coi figli Guelfo, Lotto e Gaddo, del Comune di Pisa in quanto tale e di Ugolini dicti Nini Vicecomitis, Judicis Gallurensis appena entrato nella maggiore età – dà e concede «fortilitiam et castrum de Ponte Here», potentemente fortificato pochi anni prima, alla Parte Guelfa di Firenze (Part[i] Guelforum de Florentia)22. Questo atto, in cui Ugolino e Nino compaiono insieme, prelude in qualche modo alla diarchia che si stabilirà tra il nonno Ugolino e il nipote per parte di madre Nino, che assurge insieme col conte al rango di «potestas et capitaneus, rector et administrator et gubernator» di Pisa, secondo il Breve pisani communis promulgato nel 128723 sotto la responsabilità di quei due magni baroni certo e regi quasi24, come li Archivio di Stato di Lucca, ms. 54 (d’ora in poi Cronaca L 54), edita per la parte finale da P. SILVA, Questioni e ricerche di cronistica pisana, in «Archivio Muratoriano», II, 13, 1913, pp. 42-53, a p. 45; per tutta la vicenda vedi M.L. CECCARELLI LEMUT, Della Gherardesca, Ugolino, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 37, Roma 1989, pp. 41-46, ora anche in linea. 20 Cfr. F.P. LUISO, Per un’allusione della «Divina Commedia», in «Bullettino della Società Dantesca Italiana», XIV, 1907, pp. 44-78; R. DAVIDSOHN, Un’altra notizia su Marzucco Scornigiani, ivi, XX, 1913, pp. 60-61 (con ulteriori rinvii); S. PETRUCCI, Re in Sardegna, a Pisa cittadini. Ricerche sui «domini Sardinee» pisani, Cappelli, Bologna 1988, pp. 8789; TAMPONI, Nino Visconti di Gallura, cit., p. 210 e passim. 21 Cfr. GUITTONE D’AREZZO, Lettere, a c. di C. Margueron, Commissione per i testi di lingua, Bologna 1990, pp. 199-203 e 298-304, con ID., Recherches sur Guittone d’Arezzo. Sa vie, son époque, sa culture, Paris 1966, pp. 228-230; F. FRANCESCHINI, Dante, Arno, Pisa (i salvati e i sommersi), in Vallis Arni# Arno Valley: la Toscana dal fiume al mare tra eredità storica e prospettive future, a cura di M.L. Ceccarelli Lemut, F. Franceschini, G. Garzella, O. Vaccari, Pacini, Pisa 2019, p. 353. 22 Così un atto del 29 ottobre 1287, che ne riprende uno del 27 ottobre 1285 e i successivi, in U. DORINI, Il tradimento del Conte Ugolino alla luce di un documento inedito, in «Studi Dantaltreschi», XII, 1927, pp. 31-64, alle pp. 33-34 e 61-64. 23 Cfr. I brevi del Comune e del popolo di Pisa dell’anno 1287, a cura di A. Ghignoli, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1998. 24 Con regi quasi si allude al loro rango di domini o in volgare donni nei regni di Gallura (Nino) e di Cagliari (Nino e Ugolino, pro quota). 19 7 chiama Guittone d’Arezzo in una grande canzone a loro rivolta25. Quella diarchia però ebbe breve durata, e uno dei principali fatti che scatenò la lotta tra viscontei e ugoliniani fu proprio l’uccisione, nel dicembre 1287, di Gano figlio di Marzucco Scornigiani, appunto quel da Pisa che compare tra i penitenti uccisi all’improvviso di morte violenta; lo dicono, concordemente, Tolomeo da Lucca, il commentatore dantesco Guido da Pisa e un’importante cronaca pisana, che ora cito: Brigata, figliuolo ch’era del conte Guelfo [figlio di Ugolino], con suoi compagni ucciseno messere Gano Scornigiano, ch’era da la parte di Iudicie e dei Visconti di Lungarno, quando tornava a casa, [sicché] Iudici di Gallura e i Visconti si levonno a romore contra lo conte Ugolino26. Secondo certi commentatori di Dante, compreso suo figlio Pietro, il padre della vittima Marzucco fece fronte da uomo forte all’evento, cercando di mitigarne le conseguenze con parole di pace27, ma la guerra fratricida, una delle ragioni per cui Pisa appare una novella Tebe, divampò in città e nel contado, culminando nel giugno 1288 con la congiura tra Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri contro Nino, costretto a fuggire a Calci il 30 giugno, e con la connessa congiura tra Ruggeri e Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi contro Ugolino, arrestato coi figli e nipoti il successivo primo luglio 1288; dunque, come scrive in consonanza con Dante il Villani, «fu il traditore [Ugolino] dal traditore [Ruggeri] tradito»28. Qual’è, infatti, la colpa di tradimento che Dante attribuisce a Ugolino? Certo questi aveva voce di aver tradito te [Pisa] delle castella o, come dice il Villani, cit., si fece «intendere al popolo ch’egli aveva tradito Pisa e rendute le loro castella a’ Fiorentini e a’ Lucchesi». Come però indicano le cronache e confermano molti studi, l’azione di Ugolino aveva lo scopo di separare, con la cessione delle castella e altre iniziative, i Fiorentini e i Lucchesi dai Genovesi, mettendo in salvo Pisa dal rischio di conquista, e in tal senso fu anche efficace. Lo conferma lo stesso Villani lamentando che, in occasione del poderoso attacco genovese e lucchese del 1285, «se i Fiorentini avessono attenuta la ’mpromessa» di unirvi anche le loro forze, «la città di Pisa sarebbe stata presa e disfatta», il che però non accadde perché Firenze non solo non intervenne ma indusse i Senesi a inviare «i loro cavalieri alla guardia de’ Guelfi di Pisa», scommettendo sulla prospettiva di una Pisa guelfeggiante e amica di Firenze piuttosto che su quella di una Pisa controllata da Genova29. In tale ottica dunque il tradimento di Ugolino non risulterebbe tanto contro Pisa quanto contro i «Guelfi di 25 Cfr. G. CONTINI, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, 1960, I, pp. 235-240, con FRANCESCHINI, Dante, Arno, Pisa (i salvati e i sommersi), cit., p. 354. Come mostrano M. RONZANI, Una nuova datazione per gli Statuti di Ugolino e Nino «podestà, capitani e rettori del Comune di Pisa», in «Bollettino Storico Pisano», LX, 1991, pp. 267-282, a p. 272-274, e quindi TAMPONI, Nino Visconti di Gallura, cit., p. 261, l’ascesa di Nino a compotestas (e quindi anche la canzone di Guittone) si colloca tra la primavera e l’estate del 1287. 26 Fragmenta Historiae Pisanae, cit., col. 650. Per le altre fonti vedi FRANCESCHINI, «Capraia» pisanismo dantesco, cit., p. 131 e note. 27 Cfr. PETRI ALLEGHERII Super Dantis ipsius genitoris «Comoediam» commentarium, a cura di V. Nannucci, Piatti, Firenze 1845, p. 318, e analogamente, tra gli altri, il Buti, ms. XIII C 1 di Napoli, cc.105rb-105va; Commento di Francesco da Buti, cit., II, p. 125. 28 Cfr. VILLANI, Nuova Cronica, cit., I, p. 589. 29 Cfr. ivi, I, p. 561, con cui convergono, sul lato pisano, particolarmente la Cronaca L 54, cit., p. 45, ma anche i Fragmenta Historiae Pisanae, cit., col. 649. 8 Pisa», ossia Visconti, Da Capraia, Scornigiani ecc., contro cui Ugolino si sarebbe poi duramente contrapposto. Ma torniamo al canto VI del Purgatorio. Dopo aver incontrato quel da Pisa, Dante e Virgilio trovano Sordello da Goito e, di fronte al fraterno abbraccio tra due poeti mantovani, quello classico e quello medievale, Dante prorompe nella famosa esclamazione Ahi serva Italia, di dolore ostello, / […] / non donna di province, ma bordello! (Purg. VI 76-78), che ripete modelli biblici e latini, ma riflette anche i versi con cui Guittone esortava Ugolino e Nino Visconti a risollevare Pisa la sorbella, la ‘bellissima’ città, che da migliore / donna de la provincia ormai era quasi adoventata ancella30. Dante scende quindi con Sordello e Virgilio nella valle dei principi e incontra, primo tra le grandi ombre, proprio Nino Visconti, da lui subito riconosciuto: ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei: giudice Nin gentil, quanto mi piacque quand’io ti vidi non esser tra ’ rei! Nullo bel salutar tra noi si tacque; poi dimandò: «Quant’è che tu venisti a piè del monte per le lontane acque?» (Pg. VIII 52-57). I due, precisamente o sostanzialmente coetanei (cominciano a comparire in atti del 1283-1285)31, non risparmiano nullo bel salutar, all’insegna dell’amicizia e della cortesia. Per Nino è un grande piacere che Dante abbia potuto raggiungere il monte del Purgatorio varcando «lo mare Oceano» (così pensa, credendo che «Dante fusse morto» e, come le altre anime dei penitenti, fosse stato portato dall’«angiulo […] al Purgatorio in su la nave»)32. Anche per il poeta fiorentino è un grande piacere, ma per nulla scontato, vedere che il Giudice di Gallura non è tra’ rei. Nino Visconti abbandona Pisa a fine giugno 1288 e si fortifica a Calci, trovandosi insieme con Dante a Caprona se non già a Campaldino (1289). Nel 1291 diviene capo della Taglia guelfa di Toscana, devasta il contado di Pisa e cerca più volte di conquistare la città33, sicché avrebbe potuto finire nell’Antenora tra i traditori della patria. Lo sottolineano antichi commenti come il cosiddetto Falso Boccaccio («dice Dante che gli piacque assai ch’egli il trovò in questo luogho e none in inferno. ove fa che truovi il conte 30 Cfr. CONTINI, Poeti del Duecento, cit., p. 238 e note. Nino è menzionato come ancora sotto tutela nel 1283-1284, mentre nel 1285 compare come maggiorenne accanto a Ugolino e al Comune nella cessione del castello di Pontedera (vedi sopra) e figura, ancora accanto a Ugolino e ai Da Capraia, in atti fiorentini del 14 maggio 1285 (Le consulte della Repubblica fiorentina, cit., II, p. 456). Il primo atto in cui compare Dante è del 1283-1284 (Codice Diplomatico Dantesco, a cura di T. De Robertis, G. Milani, L. Regnicoli, S. Zamponi, Salerno Editrice, Roma 2016, pp. 96-97). 32 Cfr. Commento di Francesco da Buti, cit., II, pp. 479, e analogamente altri commenti antichi e moderni. 33 Vedi per queste vicende belliche e personali TAMPONI, Nino Visconti di Gallura, cit., pp. 323-338. 31 9 Ugholino»)34 e l’Ottimo Commento fiorentino: «però ch’elli […] fece molte cose contra il Comune di Pisa, dice l’autore ch’elli temea, che esso non fosse tra’ dannati»35. Pisa è la città dei sommersi. Come la punizione di Sodoma e Gomorra ne coivolge universos habitatores (Genesi XVIII 16-XIX 30), così Arno, bloccato alla foce dalla Capraia e la Gorgona, dovrà annegare in Pisa ogne persona, e come il rex Sodomorum e quello Gomorrhae precipitano nei pozzi infernali (Genesi XIV 10), così i signori di Pisa Ugolino, Ruggeri e Guido da Montefeltro appartengono alla prima canzon ch’è d’i sommersi (Inf. XX 3). Ma, al modo della pagina biblica («Lot liberatur ab exitio Sodomae») o della favola ovidiana di Filemone e Baucide, ci sono anche dei salvati e tra questi Gano Scornigiani e Nino Visconti36. Come ha scritto Petrocchi, quest’ultimo è uno dei «personaggi più rilevanti della […] vita intellettuale giovanile» di Dante37, che durante la guerra guelfa il poeta continua a incontrare a Firenze e di cui condivide visione e giudizi38. Dopo la morte del giudice di Gallura – che, escluso da Pisa, aveva disposto la conservazione del proprio cuore a Lucca, dall’altra parte del monte / per che i Pisan veder Lucca non ponno 39– gli incontri del poeta con la figlia di Nino Giovanna e col fratello di Gano Scornigiani Parente, alla corte di Treviso, terranno vive quelle memorie40, mentre gli interessi di Nino per la letteratura in lingua d’oc e di sì e i suoi rapporti con Guittone, condivisi pure da Marzucco Scornigiani, lo abilitano a intrattenersi con Sordello, Virgilio e Dante in quella specie di bella scola nell’Antipurgatorio41, ove egli purga le sue colpe attendendo di raggiugere il Paradiso. 3. Menzioni di Pisa nella terza cantica non ve ne sono e questa è sorte comune a tutte le altre città toscane42, con l’eccezione di Firenze che Dante vi nomina più volte, ma non certo per tesserne le lodi; per bocca del suo antenato Cacciaguida, Firenze e i Fiorentini del tempo di Dante sono fatti segno di parole durissime e lo stesso poeta, mentre proclama la sua opera il poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, denuncia la crudeltà dei Fiorentini, i lupi che li danno guerra (Par. XXV 1-6). Forse per ovviare alla mancanza di figure legate a Pisa nel Paradiso dantesco Francesco da Buti, grammatico, commentatore ma anche cancelliere e autorevole esponente del Comune di Pisa, non 34 Cfr. Chiose sopra Dante. Testo inedito ecc. [a cura di G. J. W. Vernon], Piatti, Firenze 1846, p. 322. Cfr. Ottimo Commento alla «Commedia», cit., II, p. 851. 36 FRANCESCHINI, Dante, Arno, Pisa (i salvati e i sommersi), cit., p. 355. 37 Cfr. G. PETROCCHI, Vita di Dante, Laterza, Roma-Bari 1993³, p. 17 38 Secondo DORINI, Il tradimento del Conte Ugolino alla luce di un documento inedito, cit., p. 59 n. 1, «nelle cose di Pisa e dei Pisani, siano questi Ugolino, la moglie [Beatrice d’Este] e la figlia [Giovanna] del Visconti, Marzucco, Michel Zanche e fra Gomìta, Dante si mette sempre dalla parte di Nino; diremmo […] non vede che per gli occhi di Nino gentile». 39 Per il sepolcro lucchese del cuore di Nino cfr. TAMPONI, Nino Visconti di Gallura, cit., pp. 413-427. 40 Cfr. U. CARPI, La nobiltà di Dante, Polistampa, Firenze 2004, I, pp. 373-375, con ID., L’«Inferno» dei guelfi e i principi del «Purgatorio», Franco Angeli, Milano 2013, p. 225 e n. 14. 41 Cfr. N. TONELLI, Purgatorio VIII 46-139: l’incontro con Nino Visconti e Corrado Malaspina, in «Tenzone», 5, 2002, pp. 263-281, 42 Luni è ricordata in Par. XVI 73, ma come città scomparsa. 35 10 solo identifica, come altri esegeti dell’epoca, la Matelda custode del Paradiso terrestre (Purg. XXVIII-XXXIII, passim) con la «contessa Matelda [che] per l’anima de[lla] contessa Beatrice sua madre, donò a la chiesa di S. Piero da Roma le terre del patrimonio suo, et a la Chiesa maggiore di Pisa diede ricca dote»43 ma – contestando che la donna amata da Dante fin dalla «pueritia» sia stata una fanciulla fiorentina («crederebbe forsi altri che Beatrice fusse stata una donna di carne e d’ossa, come sono le altre, ma non è così») – identifica, con forzatura tanto evidente quanto consapevole, la Beatrice dantesca con la Beatrice marchesa di Toscana sepolta presso il Duomo di Pisa, nello splendido sarcofago con le storie di Fedra, che certo «era stata nel 1100, sicché mai non la vidde», ma se ne innamorò solo «udendo le virtù di siffatta donna»44. Comunque, se vogliamo trattare del rapporto tra Pisa e il Paradiso di Dante, è di Enrico VII che dobbiamo parlare. Quando apprende che Enrico di Lussemburgo, designato dai grandi elettori tedeschi Rex Romanorum, ha davvero intenzione di scendere in Italia per ricevere a Roma la corona imperiale, Dante concepisce, secondo l’ipotesi sviluppata da Marco Santagata, l’idea di un trattato politico, la Monarchia, nel cui quadro storico, giuridico e teologico «collocare e giustificare, alla luce di inoppugnabili ragioni di verità, sia le azioni di Enrico sia le sue personali»; la sede e la strumentazione più idonee per la preparazione e la stesura dell’opera possono essere appunto offerte dalla corte itinerante dell’imperatore, provvista sia dei testi legislativi e diplomatici della cancelleria imperiale sia dei documenti papali e conciliari45. Come sappiamo da Francesco Petrarca, nell’inverno del 13111312 Dante è a Genova, ove Enrico era arrivato nell’ottobre e da dove sarebbe ripartito per raggiungere per mare, via Portovenere, Porto Pisano46, entrando poi in Pisa il 6 marzo 1312. Dante avrebbe seguito in questo viaggio la corte imperiale, come già supposto da studiosi dell’Ottocento47, e a Pisa avrebbe steso la Monarchia, in rapporto all’incoronazione romana di Enrico (29 giugno 1312). Francesco da Buti, commentando i versi di Dante relativi all’alto Arrigo, da un lato sostiene (come già Benvenuto da Imola) che Dante «lo cognobbe et fu al tempo suo et vidde le sue virtù», dall’altro sottolinea che quegli, «se fusse vissuto, arebbe domato la superbia de’ Firentini et arebbe rimesso l’autore in Firense et ritornato lui et li altri esciti in casa loro»48. Invece l’imperatore, partito Cfr. l’ed. Giannini del Commento di Francesco da Buti, cit., II (qui basata su un codice in pisano), p. 674 e passim. Ivi, pp. 740 e 646-647, da vedere con F. FRANCESCHINI, Beatrice e Matilde di Canossa tra il sarcofago di Fedra e il Purgatorio dantesco: su una «bizzarra» interpretazione di Francesco da Buti, in «Rivista di Studi Danteschi», IV 1, 2004, pp. 205-216. 45 Cfr. M. SANTAGATA, Enrico VII, Dante e Pisa, in Enrico VII, Dante e Pisa, a cura dello stesso e di G. Petralia. Longo, Ravenna 2016, pp. 37-42, a pp. 39-40. 46 Come mostra un’immagine dello spelendido codice allestito dal fratello di Enrico Baldovino (Bilderchronik Balduin von Luxemburgs. Koblenz, Landeshauptarchiv, ms. Best 1 C 1, ora in Il viaggio di Enrico VII in Italia, a cura di M. TostiCroce, Edimond, Città di Castello 1993). 47 Cfr. G. SFORZA, Dante e i pisani; studi storici, Valenti, Pisa 1873, cap. I. 48 Glossa a Par. XXX, Ms. XIII C. 1 di Napoli, c. 304va, e vedi Commento di Francesco da Buti, cit., III, p. 802. Cfr. già BENEVENUTI DE RAMBALDIS DE IMOLA Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, Barbèra, Firenze 1887, V, pp. 463-464, ove al rapporto tra Dante ed Enrico è collegata la stesura della Monarchia: «autor tantopere deplorat indignam mortem Henrici, et commendat eius altam virtutem, quia ipsum cognovit in vita et familiariter coluit, 43 44 11 da Pisa verso il sud per una decisiva spedizione contro gli Angioini, muore il 24 agosto 1313 a Buonconvento, in circostanze tragiche che indussero molti a pensare a un avvelenamento (tuttavia non comprovato neppure da recenti e accurate indagini). Superato il susseguente sbandamento, nel settembre Pisa conferisce i poteri di podestà, capitano di guerra e capitano del popolo a Uguccione della Faggiola, che nel giugno 1314 conquista Lucca e il 29 agosto dell’anno successivo, proprio per la festa di San Giovanni decollato patrono dei Fiorentini, infligge loro una durissima sconfitta a Montecatini. Nel quadro dell’ipotesi delineata da Santagata, Dante sarebbe rimasto sotto la protezione di Uguccione e l’avrebbe infine seguito a Verona quando quegli, nell’aprile del 1316, fu costretto ad abbandonare Pisa e a rifugiarsi presso Cangrande Della Scala, del cui esercito il Faggiolano divenne comandante. Certo questa ricostruzione non è suffragata da documenti relativi a Dante, che per il periodo in questione mancano, e certi studiosi pensano piuttosto a un precoce trasferimento del sommo poeta a Verona49. L’ipotesi di un lungo soggiorno di Dante a Pisa è comunque ritenuta di una «certa plausibilità» nel fortunato volume dedicato a Dante da Alessandro Barbero: Per quanto odiosi gli fossero i Pisani quando scriveva il canto del conte Ugolino, […] la loro città era, dopo tutto, il luogo più sicuro possibile per un nemico capitale del regime fiorentino. Qui dunque, nella grande città ancora capace di fare concorrenza a Firenze, racchiusa nel quadrilatero quasi perfetto delle sue mura, tagliata dall’Arno fitto di impianti portuali […], piena di cantieri fra cui il palazzo nuovo del Comune e quelli che i più ricchi mercanti si stavano facendo costruire sul Lungarno, Dante potrebbe essere rimasto per qualche anno, forse completando la stesura della Monarchia50. Ma entriamo ora nel Paradiso e quasi nel sommo di esso, quando Beatrice mostra a Dante l’alta città celeste e i beati che vi sono assisi, rimanendovi solo pochi posti liberi, e aggiunge E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni, per la corona che già v’è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni51 quia per eum speravit reduci in patriam. Quod conatur persuadere sibi in aliquibus epistolis suis, sed multo fortius in quodam suo libello quem intitulavit Monarchiam, qui liber fuit quasi occultus usque ad tempus Bavari». 49 Tale ipotesi – ritenuta «eccellente» da PETROCCHI, Vita di Dante, cit., p. 154, ripresa più cautamente da E. MALATO, Dante, Salerno Editrice, Roma 1999, pp. 62-63, ma efficacemente messa in discussione da G. INDIZIO, Le tappe venete dell’esilio di Dante, in «Miscellanea Marciana», 19, 2004, pp. 35-64 – è stata rilanciata da P. PELLEGRINI, di cui vedi a es. Dante: biografia, ideologia e politica editoriale (1965-2015), in «Quando soffia Borea». Dante e la Scandinavia nel 750esimo anniversario della nascita del poeta (1265-2015), a cura di E. Garavelli, Publications Romanes de l’Université de Helsinki, Helsinki 2016, pp. 9-54. La credibilità della “pistola fumante” che attesterebbe una precoce presenza di Dante a Verona – presentata da Pellegrini in varie sedi e in particolare in ID., La quattordicesima epistola di Dante Alighieri. Primi appunti per una attribuzione, in «StEFI. Studi di erudizione e di filologia italiana», 7, 2018, pp. 5-20 – è contraddetta da A. CASADEI, Una nuova epistola di Dante? Alcuni dubbi preliminari, in ID., Dante. Altri accertamenti e punti critici, Franco Angeli, Milano 2019, pp. 278-286, e da M. TAVONI, L’Epistola a Cangrande al vaglio della Computational Authorship Verification: risultati preliminari (con una postilla sulla cosiddetta «XIV epistola di Dante Alighieri»), in Nuove inchieste sull’Epistola a Cangrande. Atti della giornata di studi, Pisa 18 dicembre 2018, a cura di A. Casadei, Pisa University Press, Pisa 2020, pp. 153-192, alle pp. 183-187. 50 Cfr. A. BARBERO, Dante, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 248-249, con rinvii a G. GARZELLA, Pisa imperiale: chiese, piazze, palazzi nell’itinerario di Enrico VII, in Enrico VII, Dante e Pisa, cit., pp. 301-314, a pp. 301-302; M.L. CECCARELLI LEMUT, Ghibellini e guelfi bianchi alla corte pisana dell’imperatore, ivi, pp. 93-109, a pp. 98-99 51 Cioè che tu, Dante, muoia e ti unisca ai beati nel convivio paradisiaco (cfr. Apocalisse, XIX 9: «Beati qui ad coenam nuptiarum Agni vocati sunt»). 12 sederà l’alma, che fia giù agosta de l’alto Arrigo, ch’a drizzar l’Italia, verrà in prima ch’ella sia disposta (Par. XXX 133-138). Secondo il Buti, questa potente immagine non solo fa assurgere a eterna gloria Enrico, ma ne suggella, dall’alto dei cieli, la vicenda terrena, «a ddimostrare ch’elli non fu pur Re de’ Romani ma coronato con tucte le corone vero imperadore»52, al contrario di quanto sosteneva la propaganda fiorentina e angioina definendolo, sprezzantemente, solo rex Alamanie53. Eppure, aggiunge Dante, la cieca cupidigia che v’ammalia simili fatti v’ha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia (Par. XXX 139-141) ossia, come commenta il Buti, i fanciulli ruinosi [‘bizzosi, capricciosi’], quando la balia s’acosta per dare la puppula, la cacciano via spingendola co la mano, e così fate voi Italiani, che avete li signori che vi dirisin et mantengninvi in libertà, et voi li cacciate via et rifiutate, sì come fu rifiutato lo dicto imperadore et morto [‘ucciso’, per avvelenamento]54. A spingere a tale attegiamento vi erano, con Firenze e gli Angiò, il clero e i vassalli ribelli, contro cui Enrico VII emise il 23 febbraio 1313, da Monte Imperiale (Poggibonsi), una sentenza che così argomenta55. La giustizia divina, nel cui nome secondo il libro biblico dei Proverbi regnano i re, ha stabilito il primato dell’Impero sugli altri poteri o regnorum solia della terra («regnorum solia erexit in populis et diversorum principum potestates, inter que Romanum imperium […] obtinere voluit principatum»); secondo Cristo stesso si deve dare a Cesare quel che è di Cesare e l’apostolo Paolo, nella Lettera ai Romani (13, 1-2), dice che ognuno deve sottoporsi a un’autorità superiore e chi vi resiste va contro i comandamenti di Dio: «iubente apostolo […] qui[cun]que potestati resistit, dispositioni divine contraire videtur». È letteralmente quanto, in base allo stesso passo di Paolo, aveva scritto Dante a Enrico nell’epistola del 17 aprile 1311, denunciando l’immonda e delirante città di Firenze che «vere, Dei ordinationi resistit» in quanto, per idolatrica venerazione della propria volontà, contrastava in ogni modo Enrico e offriva a un re non suo (Roberto d’Angiò) diritti non suoi, in quanto 52 Ms. XIII C. 1 di Napoli, c. 304v: cfr. Commento di Francesco da Buti, cit., III, p. 892. A es. le magistrature di Firenze, il 27 febbraio 1312, esortano gli ufficiali del contado a raccogliere forze e finanziamenti «ut regi Alamanie resistatur», mentre poco dopo la di lui morte, scrivendo ai colleghi lucchesi (27 agosto 1313), esultano poiché è scomparso «tirannus ille sevissimus Henricus […] quem […] gibellini [...] nostri perfidi inimici Regem Romanorum et Imperatorem Alamanie appellabant» (regesto e riproduzione dei documenti originali in Il viaggio di Enrico VII in Italia, cit., pp. 266-267, 306-307; corsivi miei). 54 Ms. XIII C. 1 di Napoli, c. 304v: cfr. Commento di Francesco da Buti, cit., III, p. 892. 55 Sententia contra clerum et vassallos, in MGH, Legum IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, IV/2, ed. J. Schwalm, Impensis Bibliopolii Hahniani, Hannoverae et Lipsiae 1909-1911, n. 915 pp. 930-933, su cui vedi F, FRANCESCHINI, L’«alto Arrigo» e l’«alto Henrico nella tradizione del poema e negli antichi commenti, in Enrico VII, Dante e Pisa, cit., pp. 261-288, a pp. 284-285. 53 13 dovuti per giusta obbedienza all’imperatore56. Ed è quanto dice anche un’epigrafe metrica stesa a Pisa poco dopo la morte dell’imperatore: † LUCEMBURGENSIS FUIT HIC COMES INCLITUS ENSIS EXEMPLUM SERIES NOBILITAS SPETIES SEPTIM(us) HENRICUS VIRTUS ET TRACTUS APRICUS57 REX REGUMQ(ue) SOLII GRATIA DIVI POLI 58. Questi fu conte di Lussemburgo, gloriosa spada, di esempio per stirpe, nobiltà, bellezza, Enrico settimo, valoroso e aperto di atteggiamento, Re dei re e di ogni altro soglio, per grazia del divino Cielo. Questa epigrafe si legge nel cartiglio retto da uno degli angeli che per secoli sono stati sulle cuspidi della facciata anteriore del Duomo, ai lati della statua della Madonna (ove oggi si trovano delle copie), ma che in origine facevano parte del monumento funebre di Enrico VII, con i cui elementi sono stati oggi riuniti nel recente riassetto del Museo dell’Opera. Il monumento fu scolpito dal senese Tino di Camaino entro il 26 luglio 1315 e inaugurato probabilmente il 24 agosto di quell’anno con la tumulazione dell’imperatore59, nel secondo anniversario della sua morte e durante la campagna culminata, il 29, nella battaglia data vittoriosamente a Montecatini, nel nome di Enrico e con l’apporto 56 DANTE ALIGHIERI, Epistole, a cura di C. Villa, VII, Sanctissimo, gloriosissimo atque felicissimo triumphatori et domino singulari domino Henrico divina providentia Romanorum Regi et semper Augusto, devotissimi sui Dantes Alagherii Florentinus et exul immeritus ac universaliter omnes Tusci qui pacem desiderant, terre osculum ante pedes, in ID., Opere, ed. diretta da M. Santagata, II, Mondadori, Milano 2014, pp. 1464-1473, a p. 1472. 57 Questi tre versi corrispondono alla descrizione delle virtù che, secondo le Gesta Baldewini (cioè di Baldovino di Lussemburgo, fratello di Enrico e arcivescovo di Treviri), avevano reso Enrico il più degno della corona imperiale agli occhi dei grandi elettori: «Fuit autem miles imperterritus, in armis strenuus […] / Virtutum […] adornatus […] specie […] et pulchritudine […] / Omnibusque se […] socialem et tractabilem praebebat» (Gesta Trevirorum integra, lectionis varietate et animadversionibus illustrata […], ed. J.H. Wyttenbach, M.F.J. Müller, II, Typographiae Blattavianae, Augustae Trevirorum 1838. pp. 203-204, con miei tagli, spostamenti e suddivisione in versicoli). Come si vede, socialem et tractabilem è reso con tractus apricus (cfr. anche CH. DU CANGE ET AL., Glossarium mediae et infimae latinitatis, éd. augm., L. Favre, Niort 1883-1887, t. 1, col. 335b, in linea in http://ducange.enc.sorbonne.fr/, s.v. apricus, col senso di ‘delectabilis’). 58 Per precedenti letture, vedi R.P. NOVELLO, schede 236-237 in Il Duomo di Pisa, a cura di A. Peroni, Panini, Modena 1995, pp. 214, 361; O. BANTI, Monumenta epigraphica pisana saecul[o] XV antiquiora, Pacini, Pisa 2000, pp. 95, 182; A.R. CALDERONI MASETTI, Per il monumento funebre di Arrigo VII nel Duomo di Pisa, in Le vie del Medioevo, Atti del convegno internazionale di studi (Parma 28 settembre-1 ottobre 1998), a cura di A.C. Quintavalle, Electa, Milano 2000, pp. 374-387, poi in EAD., Arti in dialogo. Studi e ricerche sul Duomo di Pisa, Panini, Modena 2014, pp. 143-155, a p. 150; FRANCESCHINI, L’«alto Arrigo» e l’«alto Henrico, cit., pp. 283-287. Un nuovo esame dell’iscrizione, dopo il recente restauro dell’angelo porta-cartiglio (Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, num. d’inventario 769202_a), mi toglie ogni dubbio sulle letture SOLII (che intendo come genitivo singolare, per ragioni metriche, invece del plur. soliorum: cfr. il citato regnorum solia) e POLI: come si indica nell’articolo succitato, polus per ‘cielo’ ha molti riscontri medievali, in particolare nella formula ius poli ‘diritto divino’ di testi giuridico-filosofici. Prescindo qui dai restanti quattro versi sul cartiglio dell’altro angelo, num. inv. 769202_b, per cui rinvio a MASETTI, Arti in dialogo, cit. 59 Cfr. P. BACCI, Monumenti danteschi. Lo scultore Tino di Camaino e la tomba dell’«alto Arrigo» per il Duomo di Pisa, in «Rassegna d’Arte antica e moderna», VIII, 1921, pp. 73-84, a p. 78; vedi anche C. IANNELLA, Cultura di popolo. L’iconografia politica a Pisa nel XIV secolo, ETS, Pisa 2018, p. 120. La documentazione relativa ai pagamenti per la tomba, sino all’ampia nota finale del 26 luglio 1315, si legge in S. MASIGNANI, Tino di Camaino e Lupo di Francesco: precisazioni sulla tomba dell’imperatore Arrigo VII, in «Prospettiva», 87/88, 1997, pp. 112-119, alle pp. 116-118; vedi qui i riferimenti bibliografici relativi all’attribuzione e collocazione del complesso statuario con l’imperatore in trono e i consiglieri, che certi studiosi hanno distinto da quelle del sarcofago (con cui in ogni caso i due angeli porta-cartiglio erano uniti). 14 dei suoi cavalieri tedeschi60. Il corpo dell’imperatore «fu posto nel duomo di Pisa, dalla chappella maggiore, la u è una cascia suso alto, treunfalmente», come si legge in Ranieri Sardo 61 ossia, come analogamente scrive il Buti, «fu sepulto nella capella magiore, a grande onore de lo Duomo di Pisa, dirieto all’altare maggiore, in uno bellissimo sepulcro alto suso posto nel muro, come anco appare»62. Il sarcofago dell’imperatore – con i due angeli e l’epigrafe che lo proclama Rex regumque solii, conformemente ai documenti di Enrico e alla dottrina della Monarchia – veniva così proiettato in alto, immediatamente al di sotto del Cristo Pantocràtore del grande mosaico, che nelle parole dell’Apocalisse, 19 16, «habet in vestimento et in femore suo scriptum Rex regum et Dominus dominantium». La città di Pisa guidata da Uguccione della Faggiola, e in presenza di Dante stesso secondo l’ipotesi sostenuta cent’anni fa anche da Pèleo Bacci63, anticipava così quel gran seggio, con dispostavi la corona imperiale, che il poeta costruirà per Enrico in Paradiso. Secondo fonti dell’epoca, Uguccione «arringò i suoi uomini collegando la campagna attuale alla difesa della causa ghibellina promossa da Enrico VII e prima di lui da Manfredi di Sicilia e Corradino di Svevia» (CH. E. MEEK, voce Della Faggiuola, Uguccione, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., 36, 1988, ora anche in linea). Anche il Buti, commentando Inf. XXVIII 17-18, scrive che «quando li Pisani sconfisseno ad Monte Catino la parte guelfa di Toscana et la possansa di Pullia, [ … ] fue comune dicto nel campo Arricordevi di Corradino» (mss. Laur. Conventi Soppressi 204, c. 76rb, e XIII C. 1 di Napoli, c. 70ra; cfr. Commento di Francesco da Buti, cit., I, p. 717). 61 Cfr. Cronaca di Pisa di Ranieri Sardo, a cura di O. Banti, Istituto Italiano per il Medio Evo, Roma 1963, p. 57. 62 Glossa a Par. XVII 82, ms. XIII C. 1 di Napoli, c. 265r: cfr. Commento di Francesco da Buti, cit., III, p. 504. 63 BACCI, Monumenti danteschi, cit., p. 84. In occasione del centenario dantesco del 1921, alla presenza del Re d’Italia Vittorio Emanuele III, il sarcofago dell’imperatore, che tra il 1493 e il 1494 era stato rimosso da dietro l’altare maggiore della Cattedrale e che, dopo vari spostamenti, era stato collocato nel Camposanto monumentale, venne ricollocato in Duomo, sulla parete sinistra del transetto destro ove oggi si trova (vedi anche G. TRENTA, La tomba di Arrigo VII Imperatore (monumento del camposanto di Pisa), con documenti inediti, Spoerri, Pisa 1893; NOVELLO, schede 19291942, in Il Duomo di Pisa, cit., pp. 628-630); nell’occasione fu condotta una ricognizione dell’interno del sarcofago e dei resti mortali di Enrico VII, come già fatto nel 1727 e nel 1828. Una nuova apertura del sarcofago e una nuova e attenta ricognizione sono state effettuate nell’ottobre 2013, a settecento anni dalla morte dell’imperatore, con successiva risistemazione delle ossa: cfr. F. MALLEGNI, A proposito dei resti mortali dell’imperatore Enrico VII: analisi biologiche e memorie storiche, in Enrico VII, Dante e Pisa, cit., pp. 429-440. Le insegne del potere hanno invece trovato una nuova e degna collocazione nel Museo dell’Opera del Duomo, come illustrato nella conferenza di Marco Collareta e Moira Brunori «L’alto Arrigo». Il corredo funebre dell’imperatore Enrico VII (vedi https://www.opapisa.it/eventi/28-gen-2021webinar-lalto-arrigo-il-corredo-funebre-dellimperatore-enrico-vii/). 60