in Natura, cultura, libertà, a cura di F. Russo, Armando, Roma 2010
Umano e post-umano: la questione dell'identità
FRANCESCO VIOLA
1. Le concezioni attuali sui rapporti tra natura e cultura
Prima di affrontare il tema specifico dell'identità dell'essere umano,
è opportuno tracciare, anche se in modo sommario, il quadro generale
delle concezioni dominanti sui rapporti tra natura e cultura. Si potrebbe
anche utilmente istituire un confronto con quelle riguardanti i rapporti
tra corpo ed anima e si constaterebbe una somiglianza nella logica interna e negli sviluppi. Ma dobbiamo abbandonare questo programma
più ambizioso.
Se comprendiamo nella cultura anche la tecnologia, possiamo distinguere queste concezioni attuali in due grandi categorie: quella
dell'assoluta separazione tra natura e cultura e quella della loro assoluta
identificazione o indistinzione.
Le concezioni dell'assoluta separazione tra natura e cultura sono tipiche della bioetica e dell'etica della qualità della vita. Se si distingue in
modo netto tra vita biologica e vita biografica e si attribuisce a quest'ultima tutto il vero e proprio senso della vita umana, sicché una vita senza
qualità non è degna di essere vissuta, allora è chiaro che la dimensione
puramente biologica o naturale non ha più un ruolo identificativo, ma
è un supporto funzionale agli stati di coscienza. Si sviluppa così una
concezione della persona che si va progressivamente affrancando dalla
corporeità umana in quanto tale e persino dalla corporeità in generale. Il
supporto naturale verrebbe sostituito dal supporto tecnologico. Alcuni
chiamano questa concezione "personismo". Secondo questa linea di
* Università di Palermo.
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pensiero il post-umano è il superamento del supporto naturale della specie umana. La tecnica prende definitivamente congedo dalla natura. È
qui evidente che le teorie della separazione conducono inevitabilmente
all'eliminazione della rilevanza della natura, poiché l'individuo ha in
ogni caso bisogno di un centro unitario.
Unitarie per definizione sono, invece, le teorie dell' assoluta indistinzione tra natura e cultura. Ma l'indistinzione in realtà nasconde la
supremazia di uno dei poli sull'altro. Così, all'interno di queste concezioni, possiamo distinguere due orientamenti principali: il pan-tecnologismo e il pan-naturalismo.
Il primo prende le mosse da una concezione della natura in generale, e dell'essere umano in particolare, già pensata come un oggetto
tecnologico. Già Hobbes, ad esempio, non vedeva alcuna differenza
tra gli esseri viventi e gli automi, in cui era annullata la differenza aristotelica tra natura e artificio. Infatti, l'automa è un artificio che ha in
se stesso il principio del movimento. Cosa inaccettabile per Aristotele,
in quanto il movimento dell'automa è meccanico e non biologico. Ma
questa differenza è priva di senso per Hobbes. La stessa idea di "organismo" - come ha notato Heidegger - ha un carattere meccanico e
tecnico. Com'è noto, l'utopia moderna-secondo Spaemann - persegue
un programma strategico che si fonda sulla scienza e sulla tecnica, ha
per oggetto lo stesso essere umano e possiede finalità pratiche: fare uomini, progettare uomini, eliminare uomini. Ilfine ultimo è quello stesso
già indicato da Cartesio, cioè il "benessere dell'uomo". In questa luce
il post-umano è un mondo totalmente tecnologico, in cui viene da chiedersi come si possa assicurare il benessere di chi non c'è più. Ma questo
è il paradosso stesso delle etiche della qualità della vita.
Il pan-naturalismo, almeno apparentemente, persegue una direzione
del tutto opposta. La natura è concepita come un immenso e unitario
ecosistema, che ha nel suo complesso valore in sé e, quindi, deve essere
conservato nel suo difficile equilibrio. Gli individui, anche umani, sono
parti funzionali al tutto e, quindi, di per sé sono privi di valore. Tuttavia,
anche questa concezione è nella sostanza tecnologica, perché è tale il
concetto di ecosistema, ben diverso da quello cristiano di "creazione"
e da quello pagano di "universo degli esseri". Il post-umano, in questa
concezione, è contrassegnato dall'eliminazione dei gradi dell'essere,
perché nell'ecosistema non c'è gerarchia. Ma, se eliminiamo i gradi
dell'essere, neghiamo anche i gradi del bene. Non si tratta soltanto di
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cancellare l'antropocentrismo, ma anche l'antropomorfismo. Cosa possibile solo eliminando il modo di pensare degli uomini e, cioè, la stessa
specie umana. Resterebbe, però, l'interrogativo di come sia possibile
la stessa valutazione dell'ecosistema come un bene in sé quando sono
scomparsi i valutatori.
Ora cercheremo di focalizzare il nostro tema, che è quello dell'identità dell'essere umano e delle sue condizioni di intelligibilità e di esercizio.
2. L'identità dell'essere umano
Per gli esseri umani la questione dell'identità non è puramente biologica. Non si tratta solo di sapere a quale specie si appartiene e quali
sono le caratteristiche di questa, ma anche di sapere se i rapporti che
ogni essere umano ha con la propria specie siano simili a quelli che tutti
gli altri esseri viventi hanno con la loro specie. Appare evidente che le
persone umane si comportano rispetto alla specie a cui appartengono in
modo diverso dagli esemplari delle altre specie. Esse sono individui in
modo incomparabile e insostituibile. Quali sono, pertanto, i rapporti tra
l'identità umana e l'identità personale?
L'identità personale è un'espressione in un certo senso ridondante,
in quanto la persona per definizione ha un carattere identitario. Essere
una persona vuol dire avere un nome o - come dice Spaemann - essere
"qualcuno" 1 . Se si è una persona, si ha per ciò stesso un'identità. Se
si ha un'identità, per ciò stesso ci si distingue dagli altri o dalle altre
persone, perché identificare vuol dire distinguere e non già accomunare. L'identità umana è propria di tutti gli esseri umani, ma l'identità
personale - come notava già Riccardo di san Vittore - riguarda un solo
individuo. L'identità umana riguarda un gruppo di esseri, ma quella personale riguarda individui singolarmente considerati.
Il riconoscimento o l'attribuzione agli esseri umani del modo d'essere come persone, a differenza della stessa soggettività, mette in discussione il loro rapporto con la specie umana. In quanto appartenente
ad una specie ogni uomo è una istanziazione, più o meno riuscita, di un
modello biologico, ma in quanto persona non è un "caso di" una gene1
Cfr. R. SPAEMANN, Persone. Sulla differenza
trad. it. di L. Allodi, Laterza, Roma-Bari 2005.
tra "qualcosa" e "qualcuno",
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ralità, bensì l'esistere della generalità stessa tutta in un solo individuo.
Le persone a loro volta non costituiscono una specie naturale. Non v'è
la specie delle persone.
Allora noi ci chiediamo se non sia necessario riconoscere una sostanziale separazione fra la problematica dell'identità umana e quella dell'identità personale, riservando la prima all'ambito filogenetico
della specie e la seconda alla dimensione biografica e culturale o alla
considerazione sociale con cui gli esseri umani si rapportano tra loro.
V'è, però, un aspetto empirico che ostacola questa separazione: per il
riconoscimento e l'identificazione delle persone è necessaria la percezione esterna e, dunque, la corporeità.
Basti qui soltanto ricordare che la problematica giuridica dell'identità personale, sin dal tempo dell'habeas corpus, prende le mosse proprio
dalla difesa dell'integrità corporea intesa in sensofisico e psichico. Come
ha detto incisivamente Stefano Rodotà, «l'inviolabilità della dignità della persona si concretizza nell'inviolabilità del corpo» 2 . E per il corpo che
la persona è "umana". L'attenzione per i problemi della vita umana, per
la salute e la malattia, per il carattere anche materiale dei rapporti sociali,
per le fasi della vita, in generale per le condizioni materiali dell'esistenza
umana ci dicono che la persona non è un essere disincarnato e che anche
tutte le sue proprietà più elevate, quali la libertà e la responsabilità, sono
strettamente legate alla corporeità e, dunque, all'appartenenza ad una
determinata specie vivente. È per il corpo che la persona umana è vulnerabile. La corporeità appartiene al mistero della persona umana e rende
per essa non superabile il problema della natura umana.
Qui non intendo riprendere la solita questione se ogni essere umano
sia una persona, ma piuttosto al contrario chiedermi in che senso ogni
persona umana sia un essere umano, in che senso essere un umano,
e non già un non-umano o un post-umano, sia necessario per essere
considerati una persona umana. Ovviamente non si può escludere che
vi siano persone al di fuori degli esseri umani, persone post-umane,
che anche gli animali superiori possano essere considerati in qualche
senso persone e che tali possano essere ritenute anche le intelligenze
artificiali, ma in ogni caso non saranno "persone umane". Perché per
noi è importante e di grande valore non solo essere persone, ma esserlo
in modo "umano"?
2
p. 20.
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S.
RODOTÀ,
Dal soggetto alla persona, Editoriale Scientifica, Napoli
2007,
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3. Il potere delle biotecnologie
Questa domanda ha particolare senso nel momento in cui si prefigura la possibilità di andare oltre la specie umana e di potersi congedare
da essa. Come sappiamo, ci sono aspetti della vita umana che sono sicuramente limitanti e imperfetti, a parte naturalmente quello più fastidioso di tutti, cioè la morte. La vita umana è fragile come quella di tutti gli
altri esseri viventi, ma, a differenza degli altri esseri viventi, noi siamo
consapevoli di questa fragilità e abbiamo in parte la capacità di riparare
in qualche misura ad essa. E questa un'aspirazione molto risalente nella storia dell'umanità sin dall'epopea di Gilgamesch, un sogno antico
che s'è precisato nel modello utopico baconiano della Nuova Atlantide:
prolungare la vita, ritardare la vecchiaia; guarire le malattie considerate
incurabili; lenire il dolore; trasformare il temperamento, la statura, le
caratteristiche fisiche; metamorfosi di un corpo in un altro; fabbricare
nuove specie; creare nuovi alimenti. Le biotecnologie stanno progressivamente trasformando questo ancestrale desiderio in realtà e non sappiamo ancora fino a che punto. Ma in questo non fanno che proseguire
un progetto molto risalente: ogni tecnologia umana, e più in generale
ogni acquisizione culturale, è in un certo senso una biotecnologia.
Le biotecnologie, come tutte le tecniche, nascono al fine di un obiettivo migliorativo. Esse usano organismi per produrne nuovi o modificare quelli esistenti, per migliorare piante o animali, e per sviluppare
microorganismi per usi specifici3. Ma le biotecnologie che ricombinano il DNA permettono di spostare parti di informazioni genetiche da
una specie all'altra. Esse si riferiscono alla specie più che all'individuo,
all'identità collettiva piuttosto che a quella personale, cioè a quell'identità che non dipende dalla nostra scelta. Lo sviluppo delle biotecnologie
ormai non avviene soltanto all'interno di un paradigma stabile e uniforme qual è quello governato dal ristabilimento e dal miglioramento di
processi naturali preesistenti, cioè dell'ausilio tecnologico ai processi
vitali, ma si muove sempre più decisamente - cosa ben più importante - verso una loro completa sostituzione o, comunque, aspira a fare
a meno del presupposto naturale come già formato. Il passaggio dalla
biotecnologia alla biologia sintetica, supportata dalle nanotecnologie,
3
Per le definizioni ufficiali di biotecnologie, cfr. M. TALLACCHINI, F. TERRAGNI,
Le biotecnologie. Aspetti etici, sociali e ambientali, Bruno Mondadori, Milano
2004, p. 52.
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Francesco Viola
non si muove più entro l'ottica riparativa o sostitutiva, ma si dirige
speditamente verso una vera e propria creazione di nuovi apparati biologici. Ed allora noi ci chiediamo dove si trovi il confine dell'umano,
cioè fin dove possiamo dire di muoverci ancora all'interno della specie
umana per legittimi fini migliorativi e quando siamo decisamente usciti
da essa verso il transumano e oltre l'umano. Il concetto stesso di "miglioramento" è ambiguo. La specie umana è molto flessibile, ma fino a
che punto? Prolungare la vita umana fino a 300 anni, ammesso che sia
possibile, è ancora restare nell'ambito di ciò che è umano? Voglio dire
che ci sono miglioramenti che incidono sull'identità naturale.
Comunque sia, la questione etica che si pone è la seguente: dobbiamo
conservare e proteggere la natura umana nelle sue attuali condizioni d'esistenza, limitandoci a interventi riparativi? E perché mai dovremmo farlo?
La domanda ha un senso, perché sta di fatto che - secondo le previsioni di Giinther Anders - siamo divenuti capaci di generare prodotti della natura che fanno parte della natura e non della cultura 4 . Proseguendo
Eraclito, potremmo dire "la natura ama nascondersi... nella cultura". Gli
stessi rapporti tra naturale e artificiale diventano problematici. Sembra
che appartenga alla natura dell'uomo di vivere e svilupparsi non solo e
non tanto adattandosi alla natura, ma soprattutto adattando l'ambiente
ai propri bisogni, sicché si può dire che il vero e proprio "mondo naturale" dell'uomo non sia la natura incontaminata, ma la cultura, cioè il
mondo artificiale e tecnologico. Ma, nel momento in cui l'uomo modifica se stesso, tratta se stesso come ambiente da adattare a se stesso ed
allora l'identità umana diventa problematica, a meno che non s'individui qualcosa d'indisponibile nei confronti della manipolazione, qualcosa che permetta di mantenere la differenza fra ciò che è tecnicamente
prodotto e ciò che è naturalmente divenuto senza intervento umano.
L'indistinzione fra spontaneo e prodotto implicherebbe una mutazione
della modalità esistenziale in cui ciascuno si pone nei confronti di se
stesso e della propria identità 5 . Non sapremmo più cosa siamo, se un
essere naturale o un replicante, e conseguentemente neppure chi siamo.
Insomma, il pericolo è quello d'inglobare anche se stessi nel processo
di strumentalizzazione e di colonizzazione della natura.
4
G . ANDERS, L'uomo è antiquato. 2. Sulla distruzione della vita nell 'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 15.
5
Cfr. J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, trad. it. a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002, pp. 48-54.
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4. Salvaguardare l'umano?
Il problema cruciale non è quello del rapporto fra naturale e artificiale, ma quello della distinzione tra uomo e ambiente, tra uomo e
mondo dell'uomo. Se questa distinzione è impossibile, allora ne va
dell'identità umana. Non è un caso se il nodo centrale della problematica del post-umano ruoti non tanto sulla possibilità delle ibridazioni tra
le specie naturali, ma soprattutto intorno alla questione della confusione
tra uomo e ambiente dell'uomo 6 . Qui bioetica ed ecologia s'incontrano e si fondono. Il post-umano è tale non in quanto sostituzione della
specie umana con una più perfetta, ma in quanto un nuovo modo di
considerare l'umano, quello in cui la questione dell'identità non ha più
alcun senso. Il post-umano è senza volto, anche perché non siamo più
in grado di prevedere gli effetti del nostro fare e il nostro produrre è
senza telos1. Allora, ecco ritornare la domanda: dobbiamo custodire e
proteggere l'umano tradizionale? E perché mai?
Potremmo chiederci se anche la specie umana - come le altre specie animali e vegetali - non debba essere considerata come appartenente al "patrimonio dell'umanità" e ricevere, pertanto, o pretendere
di ricevere quella tutela ecologica che è riservata alla foca monaca del
Mediterraneo o alle balene dell'Atlantico o, più in generale, alle specie
a rischio di estinzione.
Un'umanità che diviene patrimonio di se stessa è qualcosa di paradossale, ma - come sappiamo - i paradossi sono spesso particolarmente illuminanti. Esiste un patrimonio dell'umanità a condizione che
l'umano resti fuori di esso, poiché il patrimonio è sempre di qualcuno
che è il soggetto dell'apprezzamento e della valorazione. Non ci sono
patrimoni senza titolari, senza custodi, senza amministratori. Per questo la Deep Ecology non ammette che vi sia un "patrimonio dell'umanità". Il concetto di eco-sistema non accetta l'idea di una esternalità
della specie umana e della distinzione fra l'uomo e il suo ambiente.
6
Cfr., in generale, R . MARCHESINI, Post-human. Verso nuovi modelli d'esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
7
Questa divaricazione sempre più ampia tra la facoltà di fare e di produrre e
quella d'immaginare gli effetti del proprio fare è il "dislivello prometeico" tipico
della tecnologia contemporanea. Cfr. E. PULCINI, Dall Tiomo faber ali "homo creator:
scenari del post-umano, in I. SANNA (a cura di), La sfida del post-umano. Verso
nuovi modelli di esistenza?, Studium, Roma 2005, pp. 15-18.
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Nell'egualitarismo delle specie c'è, tuttavia, una loro interconnessione
necessaria, sicché la fine di una di esse è una minaccia esiziale per tutto
il sistema ecologico. Ciò dovrebbe valere anche per la specie umana,
benché contraddittoriamente (ma comprensibilmente) alcuni ecologisti
siano disposti a trattarla con maggiore severità. In effetti la specie umana non è tanto disciplinata nel rispetto della democrazia ecologica ed è
il maggiore pericolo per la sua stabilità. E una specie che non accetta di
essere uguale alle altre ed ha i mezzi per far valere questa pretesa.
La questione della custodia dell'identità umana, a differenza di
quella degli altri esseri viventi, non è puramente biologica se è vero che
la cultura fa parte dell'essere umano. Proprio l'incompletezza biologica
dell'essere umano implica che l'aspetto culturale sia parte costitutiva
dell'identità umana. Come si sa, l'uomo è un animale culturale, appartiene alla natura umana la caratteristica di formulare giudizi di valore,
di partecipare ad orizzonti di valore che sono in qualche modo comuni
all'interno di specifici contesti culturali, di sentirsi obbligato a rispettare
i valori e a proporseli come fini dell'azione. Il perfezionismo biologico
tende ad affrancare dai condizionamenti della cultura e dall'incontrollabile varietà delle sue forme8.
In tutte le specie viventi ci sono legami tra gli individui che vi appartengono, ci sono rapporti genealogici che sono per essi costitutivi. Si
appartiene ad una specie per discendenza dai membri di quella specie.
Nella specie umana questo rapporto assume un significato particolare. Le
fondamentali funzioni vitali sono intrise di significati culturali. Il vedere
dell'uomo non è uguale al vedere dell'animale, l'ascolto dell'uno non è
l'udire dell'altro, il contatto dell'uno non è il tastare dell'altro 9 . L'animale
si ciba, mentre l'uomo pranza. L'animale perisce, l'uomo muore. Lo stesso può dirsi delle relazioni sessuali e della vita sociale. L'incompletezza
biologica dell'essere umano fa sì che l'indagine biologica non sia sufficiente per determinare l'identità umana e che l'uomo non sia completamente determinato nella sua condotta dalla sua natura biologica. Anche
l'identità di specie nel caso dell'uomo ha bisogno della cultura.
8
Per i difetti dell'essere umano a cui le biotecnologie si propongono di rimediaJ. BALLESTEROS, Biotecnologia, bioliticayposthumanismo, in J, BALLESTEROS,
E . FERNÀNDEZ (coord.), Biotecnogia y Posthumanismo, Aranzadi, Cizur Menor
2007, pp. 29-35.
9
M. HEIDEGGER, Concetti fondamentali della metafisica, trad. it. di P. Coriando,
Il Melangolo, Genova 1992, p. 260 e ss.
re cfr.
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Per questo la conoscenza del bene e del male è così importante per
la comprensione dello stesso dinamismo biologico dell'essere umano.
La morale fa parte integrante dell'arredo biologico di quest'essere, che
dirige la propria vita sulla base dell'apprensione e della scelta del bene.
Come il poter vedere serve all'animale a muoversi nel suo ambiente, a
trovare il cibo e ad evitare i pericoli, così il poter conoscere il bene e il
male serve all'uomo ad autodeterminare la propria identità, rispondendo in tal modo alle richieste specifiche che il principio di autoconservazione rivolge a quest'essere.
Ora io non ho alcuna competenza per stabilire quale relazione vi
sia tra i fattori strettamente biologici e quelli propriamente culturali.
Tuttavia mi pare evidente che i sostenitori del totale riduzionismo della
cultura ai processi biologici e neurologici dovrebbero, ben più degli
altri, difendere la tesi della protezione della specie umana così com'essa s'è spontaneamente formata e farsi guardinghi di fronte ad un uso
trasformativo delle biotecnologie, se ritengono che l'umanità sia un valore. Infatti, se viene meno l'umano, non potrà più esserci l'umanità.
Non dico che non ci sarebbe più cultura, ma certamente non più cultura
"umana" con tutto ciò che essa implica, compreso anche il nostro modo
di concepire la scienza e il carattere multiforme del bene.
Secondo Aristotele alcuni valori umani fondamentali hanno senso solo in contesti in cui sono presenti il rischio e i limiti esistenziali.
Nozioni quali il vantaggio o lo svantaggio, il giusto e l'ingiusto, il bene
e il male sono propri di esseri fragili, bisognosi gli uni degli altri, provvisti di risorse scarse, limitati nella conoscenza e nella forza di volontà,
ma anche capaci di associarsi e di intessere un discorso comune. Egli
non vedeva altre possibilità se non quella delle bestie, da una parte, e
degli dei dall'altra. Le prime sono incapaci del discorso comune e i
secondi sono privi di bisogni e autosufficienti. Eppure essi invidiano gli
amori passionali e le rischiose aspirazioni dei mortali. Ma l'autosufficienza mette al riparo dal rischio di aver a che fare con gli altri e rende
insignificanti i beni relazionali quali l'amicizia e la vita politica 10 .
Oggi tra le bestie e gli dei greci non v'è più soltanto la specie umana,
ma un'ampia gamma di possibilità. Da una parte, gli animali nonumani
superiori sono più vicini agli esseri umani di quanto non si pensasse in
10
Su questo tema si sofferma M . NUSSBAUM, Lafragilità del bene. Fortuna
ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, trad. it. di M. Scattala, Il Mulino,
Bologna 1996, p. 616 e ss.
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passato e, dall'altra, le intelligenze artificiali sembrano orientarsi verso
l'impassibilità e l'auto-sufficienza proprie degli dei greci. E come gli
dei greci sono invidiose della fragilità umana e cercano di riprodurla in
sé, com'è palese in lo Robot di Asimov.
La tecnica è nata dall'esigenza di salvare la vita umana, ma, se affidassimo solo ad essa tutte le nostre speranze di salvezza, dovremmo sacrificare una caratteristica essenziale dell'identità umana così com'essa
di fatto si presenta, cioè il pluralismo delle forme del bene umano. Esso
sfugge al calcolo tecnologico e alla precisione dei giudizi scientifici.
Né questo sacrificio sarebbe compensato dalla moltiplicazione artificiale delle forme della vita. Intendere l'etica come una tecnica sarebbe
elaborare un progetto di salvezza per esseri umani considerati diversamente da ciò che sono, cioè attratti da una pluralità di beni. Per questo
Aristotele, in polemica con Platone, separò l'etica dalla techne, accettando che la vita umana, proprio nella sua realizzazione più piena, restasse esposta alla vulnerabilità della fortuna 11 . E in questo non possiamo non dargli ancora una volta ragione. La ricerca del miglioramento
della specie umana non dovrebbe indurci a pagare un prezzo molto alto,
cioè la rinuncia alla nostra umanità. Se vogliamo salvare le vite umane
in quanto umane, abbiamo bisogno sia della tecnica sia dell'etica nella
loro distinzione e cooperazione.
Tutto ciò mostra l'impossibilità di separare nettamente cosa siamo,
cioè l'identità umana, da chi siamo, cioè l'identità personale. Le biografìe, le scelte personali e i piani di vita sono legati e condizionati
dall'equipaggiamento genetico, pur non essendo determinati da esso.
Poiché la manipolazione dei geni ha imprevedibili effetti sull'etica,
dobbiamo far sì che anche l'etica, cioè la possibilità di praticare il mestiere di uomo, sia tenuta in conto nel trattamento dei geni della specie
umana. Per salvare la persona umana bisogna salvare la vita umana
e viceversa, tant'è che le aspirazioni attuali tese al superamento del
concetto "antiquato" di persona si accompagnano necessariamente e significativamente all'indistinzione fra le forme della vita a vantaggio di
una vitalità senza volto 12 .
11
CFR. F. VIOLA, Dalla natura ai diritti. I luoghi dell'etica contemporanea,
Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 99-114.
12
Per una critica recente a quest'orientamento di pensiero rinvio a P.
BARCELLONA, T. GARUFI, Il furto dell'anima. La narrazione post-urnana, Dedalo,
Bari 2008.
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