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Riti musicali del cordoglio

Archivio Antropologico MediterrAneo anno XVII (2014), n. 16 (1) ISSN 2038-3215 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line anno XVII (2014), n. 16 (1) SemeStrale di Scienze Umane ISSN 2038-3215 Università degli Studi di Palermo Dipartimento ‘Culture e Società’ Sezione di Scienze umane, sociali e politiche Direttore responsabile GABRIELLA D’AGOSTINO Comitato di redazione SERGIO BONANZINGA, IGNAZIO E. BUTTITTA, GABRIELLA D’AGOSTINO, FERDINANDO FAVA, VINCENZO MATERA, MATTEO MESCHIARI Segreteria di redazione DANIELA BONANNO, ALESSANDRO MANCUSO, ROSARIO PERRICONE, DAVIDE PORPORATO (website) Impaginazione ALBERTO MUSCO Comitato scientifico MARLÈNE ALBERT-LLORCA Département de sociologie-ethnologie, Université de Toulouse 2-Le Mirail, France ANTONIO ARIÑO VILLARROYA Department of Sociology and Social Anthropology, University of Valencia, Spain ANTONINO BUTTITTA Università degli Studi di Palermo, Italy IAIN CHAMBERS Dipartimento di Studi Umani e Sociali, Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Italy ALBERTO M. CIRESE (†) Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Italy JEFFREY E. COLE Department of Anthropology, Connecticut College, USA JOÃO DE PINA-CABRAL Institute of Social Sciences, University of Lisbon, Portugal ALESSANDRO DURANTI UCLA, Los Angeles, USA KEVIN DWYER Columbia University, New York, USA DAVID D. GILMORE Department of Anthropology, Stony Brook University, NY, USA JOSÉ ANTONIO GONZÁLEZ ALCANTUD University of Granada, Spain ULF HANNERZ Department of Social Anthropology, Stockholm University, Sweden MOHAMED KERROU Département des Sciences Politiques, Université de Tunis El Manar, Tunisia MONDHER KILANI Laboratoire d’Anthropologie Culturelle et Sociale, Université de Lausanne, Suisse PETER LOIZOS London School of Economics & Political Science, UK ABDERRAHMANE MOUSSAOUI Université de Provence, IDEMEC-CNRS, France HASSAN RACHIK University of Hassan II, Casablanca, Morocco JANE SCHNEIDER Ph. D. Program in Anthropology, Graduate Center, City University of New York, USA PETER SCHNEIDER Department of Sociology and Anthropology, Fordham University, USA PAUL STOLLER West Chester University, USA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO Dipartimento ‘Culture e Società’ Sezione di Scienze umane, sociali e politiche Indice Ragionare 5 Alessandro Mancuso, L’animismo rivisitato e i dibattiti sulle ‘ontologie indigene’, 31 Ferdinando Fava, La scatola nera dello stigma Ricercare 45 Federica Tarabusi, Politiche dell’accoglienza, pratiche della differenza. Servizi e migrazioni sotto la lente delle politiche pubbliche 63 Concetta Russo, Curare l’identità. Psicoterapia e apprendimento in un Centro di Salute Mentale all’Havana 73 Fabrizio Cacciatore, Lo sviluppo dei movimenti per i diritti degli imazighen in Marocco e in Algeria 87 Piera Rossetto, Juifs de Libye: notes pour une «cartographie» des lieux migratoires Documentare 101 Sebastiano Mannia, “Allouì? Mezus mortu mortu!” Processi indentitari, retoriche del passato e mercato culturale in Sardegna 113 Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 157 Vincenzo Ciminello, Paesaggi sonori della penitenza in Sicilia 167 Leggere - Vedere - Ascoltare 179 Abstracts In copertina: Miramar (Mar del Plata) esempio di Urban knitting (© Ferdinando Fava) Riti musicali del cordoglio in Sicilia Nelle culture arcaiche e comunitarie la morte rappresenta un momento di crisi reintegrabile grazie a pratiche simboliche che, mentre segnalano la modificazione di status del defunto in entità benefica, ristabiliscono l’equilibrio del gruppo nei suoi rapporti con l’ambiente sia fisico sia esistenziale. Le espressioni sonore e gestuali del cordoglio si costituiscono ovunque e in ogni tempo come “tecniche” funzionali a garantire il successo di questa transizione, scandendone l’iter e marcandone i momenti fondamentali1. In Sicilia, come in molte altre aree di religione cattolica, il rapporto con i defunti si declina tra la persistenza di una ritualità arcaica (lamentazione tradizionale, pranzo funebre, pratiche divinatorie, usi e credenze collegate alla festa dei Morti ecc.) e l’osservanza delle norme fissate dalla Chiesa (dai suoni delle campane all’ampio repertorio di preghiere e canti per la commemorazione dei Defunti). Il sincretismo fra questi due livelli si può tuttora osservare nelle veglie funebri e nei funerali fittizi inscenati nella Settimana Santa, dove i fercoli del Cristo Morto sono di frequente trasportati con caratteristico movimento ondeggiante, ritmato dalle marce eseguite dai complessi bandistici, non diversamente da quanto talvolta ancora accade nei veri funerali ed evidente permanenza di una originaria ritualità coreutica. Anche il lamento funebre ha una sua riedizione nel contesto della Settimana Santa, attraverso l’ampio repertorio di canti sul tema della Passione di Cristo (spesso detti proprio “lamenti”), che gruppi di cantori eseguono nelle processioni e nei giri di questua già durante la Quaresima. Come ulteriore forma di espressività funebre collegata a una morte fittizia va infine considerata la pratica, tuttora osservabile, della lamentazione parodica eseguita in occasione del “rogo del Carnevale”, modellata secondo le inflessioni vocali e la gestualità tipica del pianto ritmico per i defunti. Il codice delle campane “a morto” Presso numerose comunità siciliane sono ancora salde le tradizioni connesse ai suoni delle campa- ne, nonostante il crescente diffondersi dei sistemi campanari automatizzati 2. I “sacri bronzi” vengono suonati – dai sacrestani, dagli stessi sacerdoti o da aiutanti occasionali (di solito ragazzi che abitano vicino alle chiese) – sia imprimendo l’oscillazione al vaso mediante un robusto canapo di lunghezza variabile applicato all’estremità di una sbarra in ferro che anima il violu (“cappello”, supporto in legno o in ghisa a cui sta appesa la campana) sia azionando direttamente, mediante una fune, il battaglio (bbattàgghiu) che percuote uno o entrambi i lati del vaso. Tra i numerosi messaggi che marcano il tempo della Chiesa e le cadenze significative della vita sociale, grande importanza rivestono quelli relativi alle celebrazioni funebri (dal viatico alla sepoltura), le cui strutture formali possono differenziarsi a seconda delle località e perfino da una chiesa all’altra in base al numero di campane disponibili (da un minimo di due a sei o più). Il suono riflette di norma l’articolazione delle gerarchie sociali. Il diverso connotarsi dei rapporti comunitari era infatti evidenziato da differenti “insegne sonore” che marcavano le opposizioni maschio/femmina, bambino/adulto, laico/ ecclesiastico, aristocratico/borghese/popolano. In molte località si usava già segnalare con le campane la somministrazione del “viatico”. A Salemi (TP), come potè rilevare Alberto Favara all’inizio del Novecento, il sacerdote incaricato di portare il viatico era scortato da un suonatore di tamburo, che eseguiva diversi ritmi per segnalare: a) il tragitto dalla chiesa alla casa del moribondo; b) l’arrivo alla casa; c) la benedizione nella casa; d) il ritorno alla chiesa; e) la benedizione in chiesa (cfr. Favara 1957/II: n. 1019, ES. MUS. 1; altri ritmi per accompagnare il viatico sono annotati ai nn. 954, 960, 973, 1005, 1008, 1020, 1085). A Isnello (PA), quando il sacerdote portava il viatico, il sacrestano della Chiesa Madre suonava prima una sequenza di colpi con la campana “della comunione” (râ comunioni) e poi due o tre tocchi della campana “di mezzogiorno” (i menziournu), a secondo che il moribondo fosse una donna oppure un uomo3. A Mussomeli (CL), quando il moribondo entrava nella fase critica veniva avvertito il sacrista della chiesa più vicina o, nel caso si trattasse di un confrate, il responsabile della confra- Documentare Sergio Bonanzinga ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) ternita d’appartenenza perché si suonasse a finitura, allo scopo di invitare i fedeli a recitare la preghiera degli agonizzanti (da qui il frequente uso di chiamare “agonia” lo scampanio che accompagnava il viatico). Contemporaneamente veniva portato in forma solenne il viatico al moribondo e il cammino del sacerdote era accompagnato da un costante scampanellio (spesso si formava un piccolo corteo estemporaneo composto da amici e parenti)4. La sequenza di rintocchi che segnala un decesso viene spesso impropriamente detta “agonia” (agunìa, ngunìa). Talvolta il segnale della morte si distingue da quello che annuncia la messa funebre e accompagna il funerale (martòriu). Ad Alcamo (TP) per le persone di rango si suonava il «campanone», per il popolo «due campane con due tocchi a campana» e per i sacerdoti «le campane a tre tocchi» (Papa 1958: 21). A Ciminna (PA) il “mortorio” per le monache e per i sacerdoti veniva indicato con il termine assèqui (esequie) e si distingueva nettamente da quello in uso per i laici consistente in «tre tocchi separati da intervalli uguali e divisi da un altro più lungo» (Graziano 1935: 27). Non meno significativa appare l’estensione temporale e l’intensità acustica dei mortori, che potevano essere suonati da una sola o da più chiese per segnalare la maggiore o minore agiatezza o prestigio del defunto5. Assai indicative a riguardo sono le consuetudini pel suono delle campane nelle esequie rilevate dal sacerdote Mario Ciaccio a Sciacca (TP) all’inizio del Novecento: Per il re, la regina e i loro figli si poteva suonare a distesa in qualunque ora, anche di notte, sia con la campana grande che con le altre, senza pagare cosa alcuna alla chiesa. Per tutti gli altri, pagando tarì due d’oro all’elemosiniere o tesoriere della chiesa, si poteva solamente suonare dalla diana sino all’Ave Maria, con questa distintiva: pei sacerdoti nove appelli con la campana grande e nove mote con tutte la altre; lo stesso pei militi, pei baroni, pei dottori di qualunque professione e pei giurisperiti e medici fisici non laureati, ma per le loro mogli 8, pei figli 7, per le figlie 6, pei nepoti 5, e per le nepoti 4; per gli altri nobili e pei feudatarî, che non avevano famiglie e case con gente e terre separate, cinque soli appelli con la campana grande, per le mogli 4, pei figli 3, e per le figlie e nepoti 2; pei borghesi onorati tre appelli con la sola campana grande; per gli artieri e i braccianti due soli appelli, interponendo la campana media. (ed. or. 1904; ried. 1988/I: 65-66)6 A Mussomeli la morte viene annunciata dalle campane a mmartòriu (a mortorio) della chiesa più vicina all’abitazione del defunto. Il segnale della Chiesa Madre consiste nell’alternanza fra due 114 elementari formule ritmiche eseguite “a tocchi” con tre campane (ES. MUS. 2). Successivamente anche le altre campane del paese, su richiesta della famiglia e dietro pagamento di un obolo, possono ripetere l’annuncio (in passato, se si trattava di un prete il suono era particolare e si effettuava contemporaneamente con le campane di tutte le chiese, mentre se moriva un bambino si suonava “a gloria”). Quando muore un confrate, il mortorio si esegue aggiungendo il rintocco della campana intitolata alla rispettiva confraternita (la “campana dei fratelli” alla Chiesa Madre). Se la morte avviene di notte, l’annuncio si rinvia sino all’alba, immediatamente dopo lo scampanio del “levato”. Il mortorio si ripete quando il feretro viene portato in chiesa, nelle fasi culminanti della messa funebre e all’uscita durante la fase iniziale del corteo7. Analogamente fondato su distinzioni sessuali, generazionali e sociali è il codice tuttora in parte vigente presso la Chiesa Madre di Antillo (ME). I diversi segnali sono realizzati alternando i rintocchi fra due campane (grande e piccola): UOMO, 9+2; DONNA, 7+2; BAMBINO, due serie di rintocchi rapidi della campana piccola e “gloria” (con entrambe le campane); BAMBINA, una serie di rintocchi rapidi della campana piccola e “gloria”; SACERDOTE, 33+2 (non più in uso). Altri suoni scandiscono invece i momenti che precedono e seguono la messa funebre. Come abbiamo ancora potuto rilevare in circostanze contestuali, un primo segnale avvisa che il sacerdote sta per recarsi presso l’abitazione del defunto: sequenza di rintocchi rapidi alternati tra le due campane + 14 tocchi di campana grande + 14 tocchi di campana piccola + un tocco di campana grande8. Un altro segnale (“appello”), eseguito con la sola campana grande, annuncia che sta iniziando il trasporto del feretro verso la chiesa. Quando il feretro si approssima al sagrato (“arrivo”), la sequenza sonora è così costituita: 3 tocchi di campana grande + 3 tocchi di campana piccola + 14 tocchi di campana grande + un tocco con entrambe le campane9. Dopo la messa i rintocchi alternati delle due campane accompagnano l’avvio del corteo funebre (“partenza”). A Calamònaci (AG) l’annuncio della morte (ngunìa) è dato dall’alternanza tra i rintocchi delle due campane della Chiesa Madre (grande/piccola) e si ripete identico per ogni defunto10. Il mortorio poteva ripetersi a intervalli variabili di tempo (settimana, mese e anno), con l’eventuale concorso di tutte le chiese del paese per commemorare un defunto benestante (cfr. Pitrè 1889/II: 226). In questo piccolo centro rurale dell’Agrigentino il mortorio commemorativo viene chiamato ricurrenza (ricorrenza) e il segnale è dato dall’alternanza fra tre tocchi di campana piccola e tre di campana grande, lungamente iterati secondo uno schema ritmico costante (ES. MUS. 3). A Sortino (SR) il tradizionale sistema delle segnalazioni funebri viene tuttora in parte attuato dal sacrestano della chiesa di Santa Sofia, dotata di tre campane: rranni (grande), pìcciula (piccola) e mminzana (media). Egli spiega che in passato l’annuncio di un decesso (agunìa) veniva dato di mattina – intorno alle 8:30 – dalle campane di tutte le chiese del paese, mentre oggi si suonano soltanto della parrocchia a cui appartiene il defunto. Le diverse fasi del trasporto del feretro erano poi scandite dall’appetru (‘appello’, vale a dire l’associo), che assumeva denominazioni diverse secondo la sua estensione temporale. L’associo “generale” segnalava esclusivamente l’arrivo del feretro in chiesa per la celebrazione dell’ufficio funebre; quello “doppio” accompagnava anche il percorso dalla chiesa fino ai margini del paese; l’associo “triplo” comprendeva pure il tragitto dalla casa del defunto alla chiesa, mentre quello “quadruplo” prolungava la durata dello scampanio fino all’arrivo del corteo funebre al cimitero. La maggiore o minore estensione dell’appetru rifletteva le diverse condizioni di censo dei defunti, presentando ovviamente costi differenziati. Attualmente si usa invece fare un semplice accumpagnamentu (accompagnamento), identico all’appetru sotto il profilo formale ma di durata molto più contenuta (le campane risuonano soltanto per un breve tratto dopo l’uscita dalla chiesa). Tuttora si usa inoltre diversificare lo scampanio per la morte dei sacerdoti (sempre detto agunìa) e dei bambini (llòria, ‘gloria’). L’agunìa ordinaria si apre con almeno dieci colpi di campana media, seguiti dal mortorio. Per “mortorio” si intende un modulo ritmico a tre campane, che viene utilizzato tanto nell’agunìa che nell’appetru (e quindi nell’accumpagnamentu). L’agunìa per i sacerdoti è più articolata nella parte iniziale, basata su nove sequenze di piccola-media-grande (un tocco ciascuna), per terminare con il mortorio usuale. La messa per la commemorazione di un defunto si annuncia la sera precedente: prima si suona l’Ave Maria e poi il mortorio. Va infine segnalata la tradizione della campana ô vènniri (campana del venerdì) per ricordare la morte di Cristo: si suonavano almeno dieci sequenze di due colpi di campana grande tutti i venerdì dell’anno – eccettuato il Venerdì Santo – alle 15:00 in punto11. A Isnello abbiamo potuto rilevare una forma analoga di commemorazione settimanale della morte di Cristo, localmente denominata i vintun’uri (le ventun’ore): anche qui era la campana grande a risuonare ogni venerdì alle 15:00 con dodici colpi “a mortorio” (a eccezione che nella Settimana Santa e nei quaranta giorni successivi al Natale e alla Pasqua)12. La consuetudine di suonare le campane a glòria per il decesso dei bambini di età inferiore ai sette anni è direttamente prescritta dalla liturgia, poiché questo evento prefigura l’assunzione in cielo di un’anima innocente. A questo riguardo Giuseppe Pitrè annota: «Nel Rituale romano, sotto il titolo De exequiis parvulorum prescrivesi che volendo sonar le campane alla morte loro debba farsi non già con suono lugubre, sed potius sono festivo. Il volgo chiama gloria questo suono, che in Palermo durò fino a’ tempi del Villabianca, cioè fino allo scorcio del secolo passato, in cui venne abolito, ma fuori Palermo, in molti comuni della Sicilia, è sempre in uso» (1889/II: 240). La pratica è oggi sempre meno diffusa, ma ne è ancora molto viva la memoria. A Sortino per la morte dei bambini ancora si esegue u llòria (il gloria): un modulo ritmico a tre campane ripetuto diverse volte, corrispondente all’allegru (allegro) suonato in occasione delle feste solenni ma di durata più breve13. A Calamònaci, quando moriva un bambino si suonava a glòria (la gloria) con una sola campana14, diversamente dall’omonimo scampanio impiegato nelle principali celebrazioni festive che tuttora si esegue con due campane in ritmo più vivace. Nella Chiesa Madre di Isnello il suono per la morte di un bambino era detto gluriuni (“glorione”) e consisteva in una serie di tocchi della campana più piccola (detta nzinga, ‘segnale’) seguiti dalle due campane più grandi (denominate i menziornu e rû santu, ‘di mezzogiorno’ e ‘del santo’) che scandivano la medesima figurazione ritmica (due colpi all’unisono della stessa durata ripetuti cinque volte) con andamento più o meno serrato15. A Petralia Sottana (PA) esisteva una ulteriore distinzione del suono a seconda che il bambino deceduto avesse o meno ricevuto il sacramento del battesimo. Per i bambini non battezzati l’annuncio era dato da due campane e veniva chiamato glòria nica (gloria piccola), mentre per quelli battezzati le campane utilizzate erano quattro e il segnale si chiamava glòria ranni (gloria grande)16. La glòria nica si basa su due moduli ritmici (ES. MUS. 4), che nel segnale di glòria ranni vengono ripresi, interpolandovi il suono di altre due campane, in sequenze di tre e nove rintocchi all’unisono. Il complesso di queste testimonianze pone in evidenza le molteplici funzioni svolte dal suono delle campane in occasione dei decessi: dall’annuncio della morte alla segnalazione di svariati dettagli che riguardano sia l’identità del defunto (sesso, posizione sociale, età) sia le varie fasi dell’iter rituale (dall’agonia alla sepoltura), per riproporsi ciclicamente in occasione delle cerimonie commemorative. Come ha giustamente osservato Jean-Claude Bouvier, il mortorio «è un linguaggio, un sistema di comunicazione, che richiede un’analisi semiologica. Come ogni linguaggio il mortorio è al contempo una langue, vale a dire un sistema di regole con valore di- 115 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) stintivo, dei “protocolli d’uso” – come dice Roland Barthes (1964) – ammessi da tutti i membri della comunità, e un discorso, ovvero un fascio di variazioni possibili intorno a quelle regole […]» (2003: 283). L’applicazione locale del codice funebre delle campane può infatti talvolta acquistare, come si è visto in questi esempi siciliani, una notevole autonomia rispetto alla funzione primaria di suono-segnale (con valore cognitivo e/o commemorativo)17, assumendo valore anche sul piano più propriamente espressivo, nell’ambito di specifiche competenze esecutive di tradizione orale, che in passato prevedevano tra l’altro anche l’impiego del tamburo. La pratica della lamentazione funebre Importanza centrale sul piano della formalizzazione e riplasmazione simbolica del dolore riveste la pratica della lamentazione funebre, che in Sicilia assume secondo i luoghi denominazioni diverse: nel Palermitano e nel Trapanese prevalgono i termini rrièpitu e arripitiatina (dal lat. reputare, ‘ripensare’, per estensione ‘rievocare’) e l’atto del lamentare è detto rripitiari o arripitiari; nell’Agrigentino insieme a rrièpitu troviamo strèpitu e stripitiari (strepito, strepitare); l’espressione chiantu (o ciantu) ri muortu (pianto di morto), e conseguentemente chiànciri (o ciànciri), è diffusa in un vasto territorio che va dall’area interna (Ennese e Nisseno) fino al Ragusano e al Siracusano; nel Messinese il termine dominante è trìulu (tribolo) e triulari è detta la pratica relativa; nel Catanese abbiamo rriòrditu (ricordo) e di conseguenza rriurdari; in luoghi diversi si trova talvolta lamentu (lamento), termine che viene tuttavia più comunemente riferito ai canti che accompagnano le processioni “funebri” della Settimana Santa (cfr. infra)18. I demologi siciliani di fine Ottocento attestano l’integrità e la vitalità della lamentazione funebre presso i ceti popolari dell’Isola, evidenziando anche la permanenza di quelle figure professionali, le cosiddette prefiche (rripitiatrici, cianciulini), le cui nenie a pagamento costituivano contrassegno di prestigio e di onore per il defunto (cfr. Salomone Marino 1886). Più usualmente erano soprattutto mogli, madri, sorelle, talvolta coadiuvate da amiche e vicine, a mettere in forma il dolore radicale della morte attraverso la melodia e il gesto. Valga a questo proposito ricordare quanto Salomone Marino rileva nel 1856 a Borgetto (PA), in occasione della morte di un mulattiere proveniente da Piana degli Albanesi (provincia di Palermo): Non appena egli ebbe mandato l’ultimo spiro (che fu dopo l’ave), ecco la sua moglie che, ba- 116 ciatolo in bocca, esce di casa, e ad una ad una fassi ad invitare le vicine, acciocché tutte l’aiutassero a piangere lo sposo. Nel frattanto, venuto il cataletto, ella stessa rivestì degli abiti nuovi il già ripulito cadavere; stese una candida coltre sul cataletto, e su questo ella prima si adagiò, e poi, levatasi, adattovvi convenevolmente il marito. Quindi, copertasi di lungo manto, disciolse le chiome, e in piedi dapprima e poi seduta presso alla bara, piegò il capo sull’esanime corpo e mise a gridare, a percuotersi, a strapparsi i capelli. Scorso alcun tempo di questo primo impeto, cominciò un pianto più misurato, più monotono, più umano, e diè il principio ad una cantilena lamentevole, interrotta ed accompagnata sovente da un ohimè desolatissimo. La nenia era in lingua siciliana; solo due o tre stanze ripetè la donna in greco-albanese, nelle quali (come poi ci fu dichiarato) diceva al morto che per parte sua salutasse il padre e gli altri congiunti del mondo di là; che facesse buon viaggio; che non dimenticasse di venire alcuna volta a visitare i suoi di qui, che così derelitti lasciava. Quel che ho ritenuto della cantilena siciliana sono i seguenti versi, che fedelmente trascrivo: Ahimè, comu sbalancau la me’ casa! Comu cadiu e nun surgi cchiù sta culonna! E ora, cu’ mi lu porta lu pani pu’? E ora, cu’ mi li simina li favi pu’? E ora, cu’ mi li ricogli li chierchi pu’? E ora, cu’ mi li pasci sti figlioli pu’? Ahimè! cu’ cci la porta la nova a la Chiana? Ahime! cu’ mi li avvisa li parenti? E cu’ ti chianci, maritu miu, pu’? E cu’ ti chianci e t’accumpagna pu’? E cu’ ti veni supra la fossa pu’? Ahimè! comu finisti, maritu miu! Ahimè! 19 E di questo passo la infelice continuò tutta la notte. Ad ogni verso, strappavasi una ciocca de’ capelli e deponevala sulle mani e sul petto del caro estinto; tantoché la mattina seguente fu vista con radi e corti peli al capo, quando, il dì innanzi, lunghe trecce l’adornavano. Alla fine di ogni verso ripeteva quasi sempre quel pu’, che, se non è abbreviato da puru (ancora), io non so cosa significhi (Salomone Marino 1886: 42-43) Da questa descrizione emerge chiaramente l’articolazione del lamento funebre, caratterizzato dall’alternanza tra fasi cadenzate e scariche parossistiche (cfr. De Martino 1954). A queste ultime ci si riferisce di norma in Sicilia con le espressioni ittari o isari vuci (lanciare o levare grida), evidenziando una consapevole distinzione fra i diversi momenti che strutturano la pratica del lamentare i defunti: quella ritmicamente modulata della rievocazione e quella smisurata ed esasperata del grido di dolore20. Salomone Marino illustra anche i gesti autolesionistici e il formulario tematico della lamentazione, con significativa evocazione della “continuità tra i due mondi”, ribadita attraverso lo scambio di saluti tra vivi e morti. Mancano invece riferimenti alla dimensione melodica della “cantilena”, di cui verranno in seguito annotati alcuni esempi da Corrado Ferrara (1907: 49-51) e da Alberto Favara (1957/II: 325-329). Pur nel variare delle storie personali e dei contesti, i nuclei tematici ed espressivi riscontrabili nella tradizione del lamento funebre euromediterraneo sono riconducibili a pochi tratti strutturali. Essi configurano il “viaggio” del morto verso una dimensione nella quale permangono abitudini ed esigenze non estranee alla sua personalità da vivo, e in cui ci si aggrega alla diversa ma non meno “reale” comunità dei defunti. Non sono frequenti i richiami a personaggi sacri (santi, Madonna, Cristo), mentre costante è la rievocazione delle virtù del morto, di episodi lieti o tristi della sua vita, delle circostanze del decesso, della desolazione materiale ed emotiva in cui lascia il coniuge e i figli. In nessun caso emerge la rassegnazione, nella prospettiva di una felicità ultraterrena, presupposta dall’ideologia cattolica. Altrettanto stabili risultano le modalità esteriori del lamento, fondato su una serie di stereotipie mimiche (oscillare il busto, agitare un fazzoletto, compiere gesti autolesionistici) e vocali (dall’intonazione melodica al grido), che rappresentano un modello convenzionale necessario a garantire quella «espressione obbligatoria dei sentimenti» la cui forte componente simbolica è stata acutamente posta in evidenza da Marcel Mauss: «[…] è più che un manifestare i propri sentimenti; è un manifestarli agli altri, perché si deve manifestarglieli. Li si manifesta a se stessi esprimendoli agli altri e per conto degli altri» (1975: 13). La vitalità di questa pratica appare oggi gravemente compromessa ma non del tutto soffocata. Alcune donne ancora lamentano in Sicilia: le anziane, nel riserbo della casa o nella solitudine del cimitero, per ricordare. Né è paradossale che si osservi ancora il lamento durante il corteo funebre (spesso effettuato accompagnando a piedi il feretro), sia pure in modalità più disgregate o contratte rispetto alle originarie, e confinate entro contesti sociali comunque emarginati. Vittima più di altre della repressione sia ecclesiastica che laica in nome di un decoro nella sofferenza che impone la misura o addirittura il rigore estremo del gesto e della voce, la pratica della lamentazione funebre si iscrive in una ideologia arcaica della morte per nulla cancellata da quella cristiano-cattolica 21. Le credenze e gli usi connessi ai defunti in Sicilia – ricorrenti a esempio nei comportamenti associati alla “festa dei Morti” (cfr. Buttitta A. 1962 e Petrarca 1990), nelle concezioni magiche legate alle “anime” (esseri, cfr. Guggino 1978, 1986, 1993, 2004) e in certe pratiche divinatorie (cfr. Giacobello 1995) – dimostrano d’altronde l’attualità di un contesto simbolico che ha lontane eppure vitali radici 22. Non stupisce allora quanto è possibile rilevare in molti centri siciliani in merito alla partecipazione dei complessi bandistici ai cortei funebri. I suonatori si limitano a sfilare in divisa reggendo gli strumenti sottobraccio, ma vengono retribuiti come per una normale prestazione (o addirittura meglio). Il silenzio è imposto dalla famiglia in lutto. È una scelta di comportamento in opposizione all’uso, comune a tutti gli ordini sociali, che prevedeva l’intervento di cantori e musici ai funerali (già osservato nel Settecento dal marchese di Villabianca23). La famiglia, quasi sempre di ceto medio-alto, nega in questo caso la funzione della musica: considera il silenzio più rispettoso. Ma ancora più irriguardosa sarebbe l’assenza della musica (cioè della banda), perché potrebbe denotare la scarsa prodigalità della famiglia verso il defunto. Questo “silenzio” dei bandisti si carica di senso proprio in quanto presuppone l’esistenza del “suono” nei riti funebri . Per confermare e rafforzare nuovi status socioculturali è dunque necessario continuare a parlare il linguaggio della tradizione, anche senza più attuarne globalmente le forme 24. In occasione di un corteo funebre documentato a Rosolini (SR), la voce della sorella del defunto si alterna e sovrappone al mesto battere del tamburo e alle marce funebri eseguite dal locale complesso bandistico25. Riportiamo un frammento della lamentazione (ciantu ri mortu) che si fonda su un modulo melodico discendente con estensione di terza minore (lab3-fa3), caratterizzato da cromatismi e microintervalli. L’iterazione modulata è interrotta da un improvviso scarto della voce, che si disarticola nel grido troncando la sillaba finale dell’angosciata invocazione rivolta al fratello (frà invece di frati): O fratuzzu miu Criscènziu! / O Criscènziu, me frati bbeddu miu! / O Criscènziu bbeddu miu, mè frati! / O nicu, nicu! O nicu, nicu! O frà! (O fratellino mio Crescenzio! / O Crescenzio, mio fratello bello mio! / O Crescenzio bello mio, mio fratello! / O piccolo, piccolo! / O fratello!) In forma più integra rispetto a quanto osservato nell’esempio precedente si presenta il chiantu (pianto) rilevato nel corso di un corteo funebre a Sommatino (CL)26. Il testo che segue sintetizza le fasi culminanti di una lunga lamentazione esegui- 117 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) ta dalla moglie del defunto (documentata per tutta la sua durata). Questa si basa su due moduli simili, caratterizzati da clausola sempre discendente e contenuti entro un’estensione di terza con escursioni cromatiche e microtonali: mi(b)3-do(#)3 / si(b)3-sol3. Al primo modulo, più a lungo iterato, corrisponde una vocalità misurata e sommessa. Il secondo modulo affiora nella fase della scarica parossistica, quando l’intensità emotiva della lamentatrice si riversa in una vocalità sforzata tendente al grido. L’esecuzione, colta nella sua piena efficacia funzionale, è caratterizzata da un andamento spezzato (“singhiozzante”) – reso graficamente attraverso brevi pause e altezze non precisamente intonate – che rende difficile la comprensione delle parole, a volte distorte o pronunciate parzialmente (in neretto sono indicate le parti tracritte e tra parentesi tonde sono state poste le sillabe elise, cfr. ES. MUS. 5): O ggiòia mi(a), maritu! / O ggiòia mi(a), (ma)ritu! / Ma comu mi lassasti sula sta vota, lu maritu! / Ggiòia mia, lu maritu! / Ggiòia mia lu maritu e vva vidi a to fìgliu,lu maritu! / Addivisci maritu e ttalìa to fìgliu, maritu! / A testa cci facìa diri ca iò a tto fìgliu un lu facìa zitu! / Addivisci e ttalìa to fìgliu, maritu! / Ggiòia mia! / Ggiòia mia! / Ggiòia mia! / Ggiòia mia! / Ggiòia mia, lu maritu! / Ggiòia mia, lu maritu! / Ggiòia mia, lu maritu! / Comu mi lassasti, lu maritu, ca nni vulìamu bbeni tutti rui, lu maritu! / Ggiòia, ggiòia u maritu! / Ahi svintura, lu maritu! / O ggiòia mi(a) maritu! / O ggiòia mi(a) maritu! / […] / Ggiòia mia, maritu! / Ah chi mmala futtuna chi appi u maritu! / Ah chi mmala futtuna chi appi u maritu! (O gioia mia, marito! / Come mi hai lasciato sola stavolta, o marito! / Rianimati, marito, e guarda tuo figlio, o marito! / Gioia mia il marito e vai a vedere tuo figlio, o marito! / La testa ti faceva dire che tuo figlio non si fidanzava! / […] Gioia mia! / Come mi hai lasciato, o marito, che ci volevamo bene noi due! / Ahi sventura, o marito! / Ah che mala sorte che ha avuto il marito!) Un frammento di chiantu eseguito da un’altra anziana donna di Sommatino – nel corso di un’intervista relativa al lavoro nelle miniere di zolfo27 – pone in evidenza stereotipie poetico-musicali analoghe a quelle riscontrate nell’esempio precedente. Qui però, probabilmente anche grazie alle circostanze non contestuali del rilevamento, emergono in modo molto più netto il frasario e il profilo melodico della lamentazione, con altezze ben distinte, distribuite entro un intervallo di quarta (do4-sol3), e l’invocazione che chiude ogni frase – maritu mia! – costantemente iterata su una formula discendente 118 contenuta entro una terza minore (sib-sol). Si osserva anche una notevole stabilità cronometrica delle frasi (durata prevalente intorno ai 7,5 secondi). Il momento performativo è inoltre integrato da significative testimonianze relative alle modalità di apprendimento e di svolgimento della lamentazione – corale nel corso della veglia funebre e individuale nelle occasioni commemorative (con riferimento a pratiche autolesionistiche) – e alla consuetudine di affidare al defunto messaggi destinati ad altri trapassati. Come osserva Alfonso Di Nola, in questo costume assai diffuso «emergono almeno due elementi: l’illusione di essere ancora legati, in forma sensibile e concreta, alla persona appena morta, e la continuità di una relazione con tutti gli altri morti, tramitata da quegli che è ormai prossimo a partire» (1995a: 249). Nel nostro caso si deve rilevare non solo il ricorso alla cantilena per formulare le richieste al defunto, ma anche la replica del figlio, il quale – col ripetere «E che faceva il corriere mio padre?» – suscita l’ilarità dei presenti innescando uno tra i più classici meccanismi esorcistici: il riso che scaccia la minaccia della morte (in neretto sono indicate le parti tracritte nell’ES. MUS. 6). Pena ranni lu maritu, maritu mia! / E ccomu fu sta cosa lu maritu, maritu mia! E ddunna ti vinni stu malannu maritu, maritu mia! / E ccom’ài’e ffari cu tutti sti papanciulieddi di figghi lu maritu, maritu mia! / E ccu l’av’a ccummittari tutti sti vucchi lu maritu, maritu mia! / Ggiòia mia lu maritu, maritu mia! / E ccomu t’ài’a scurdari lu maritu? Maritu mia! / Ca mi tinivatu la casa china maritu, maritu mia! / E ccom’ànn’a ffari tutti sti puddicini di figghi? Figghi mia! / Piddistivu lu patri, patruzzu mia! (Pena grande o marito, marito mio! / E com’è successa questa cosa o marito, marito mio! / E da dove ti è venuto questo malanno marito, marito mio! / E come devo fare con tutti questi figli piccoli o marito, marito mio! / E chi le deve sfamare tutte queste bocche o marito, marito mio! / Gioia mia o marito, marito mio? / O gioia mia o marito, marito mio! / E come posso dimenticare il marito? Marito mio! / Marito che tenevi la casa piena (di allegria), marito mio! / E come devono fare tutti questi pulcini di figli? Figli miei! / Avete perso il padre, papino mio!) Mentri ch’ érimu picciddi s’imparava a cchiànciri. E ppoi anche la pena viniva di lu cori. Viniva di lu cori di chianciri! Perché ristàvanu senza pani e senza nenti li cristiani! Si chianciva pi fforza! I era carusa, nni ìamu a ttravagghiari ed i iva chiancennu: «E ss’avissi a me pà! E ss’avìa a mme pà!» […] Si mittìa [u muortu] nmenzu a la casa. Tutti a priari ntornu e si lamentavanu tutti: cu diciva fratuzzu, cu diciva patruzzu, cu diciva maritu. Doppu si nni ìvanu ô campusantu e ssi ìvanu a ttirari i capiddi ddà ncapu a ddà tomba. M’arricurdu a me matri ienu, ca ddu ggiru unni ma mà s’annava a ttirari i capiddi ppi me pà un mi lu scordu. E ttalìu sempri ddà iò! Me patri era ddocu nterra e mme matri si minnicchiava ddocu, pi ddec’anni! Doppu dec’anni livavunu ddu muortu e nnun cci ìvanu cchiù. (Quando eravamo piccoli si imparava a piangere. Perché la pena veniva dal cuore. Il pianto sgorgava dal cuore! Perchè le persone restavano senza pane e senza niente! Si piangeva per forza! Io era bambina, ce ne andavamo a lavorare e io piangevo: «E se avessi mio padre! E se c’era mio padre!» […] Si metteva [il morto] in mezzo alla casa. Tutti intorno a pregare e si lamentavano: chi diceva fratellino, chi diceva papino, chi diceva marito. Dopo si recavano al camposanto e si andavano a strappare i capelli sopra quella tomba. Io ricordo mia madre, che quel posto dove si andava a strappare i capelli per mio padre non me lo scordo. E io guardo sempre là! Mio padre era sotterrato e mia madre andava lì a battersi, per dieci anni! Dopo dieci anni finiva il lutto e non ci andavano più.) Nna vota murieni unu dî Cavallotti. Allura trasiva una e cci faciva: «Cumpari Pippì, – si chiamava Pippì u muortu – m’ât’a ssalutari a cumpari Ddecu, maritu mia!» Trasiva n’atra: «Cumpari Pippì, m’ât’a ssalutari a ma maritu Caliddu, maritu mia!» E ssa ìvanu a ssittari. Trasiva n’atra: «Cumpari Pippì, m’ât’a ssalutari a me maritu Peppi, maritu mia!» Arrispunni un fìgghiu: «E cchi era curreri ma pà?! E cchi era curreri ma pà?! E cchi era curreri me pà?! E cchi era curreri ma pà?!» (Una volta morì uno dei Cavallotti. Allora entrava una (vedova) e gli diceva: «Compare Peppino, – il morto si chiamava Peppino – mi dovete salutare a compare Diego, marito mio!» Entrava un’altra: «Compare Peppino, mi dovete salutare a mio marito Calogero, marito mio!» Entrava un’altra: «Compare Peppino, mi dovete salutare a mio marito Peppe, marito mio!» Risponde un figlio: «E che faceva il corriere mio padre?!») I valori espressivi e i tratti tematici del pianto funebre emergono compiutamente in un esempio registrato, dietro nostra richiesta, grazie alla disponibilità di un’anziana donna di Calamònaci. Il lamento è stato documentato quasi casualmente, mentre stavamo conducendo – insieme a Fatima Giallombardo e a Rosario Perricone – un’indagine centrata sull’uccisione del maiale e sul tradiziona- le banchetto che ne sarebbe seguito. Alla richiesta di potere ascoltare come si piangevano i morti “all’antica”, la signora Giuseppina Inga (nonna di Rosario) rispose che avrebbe ripetuto il lamento (strèpitu) di una conoscente rimasta vedova durante l’ultima guerra, con una figlia nata da pochi mesi. Ci spostammo quindi, insieme al videoperatore che ci accompagnava e ad alcune parenti della signora, in un locale attiguo alla cucina (dove frattanto proseguivano i preparativi per il pranzo). Sebbene si trattasse di un dolore vissuto oltre quarant’anni prima e solo indirettamente, la rievocazione della luttuosa vicenda indusse profonda commozione tra le donne presenti, che hanno rivissuto con sofferta partecipazione l’esperienza di quell’orfana sfortunata – loro coetanea e intima amica – per tutta la durata della lamentazione (dieci minuti circa). Questa si è svolta in stretta osservanza delle consuete stereotipie mimiche e vocali. La signora Inga ha infatti ritmato il pianto oscillando il busto, sventolando un fazzoletto, percuotendosi le gambe con le palme e calpestando con forza il pavimento nei momenti più critici28. La melopea si fonda su uno schema che consiste in un attacco ascendente (in prevalenza su intervallo di terza) seguito da una formula discendente (variabile) e da una clausola su un grado fisso ribattuto (si2) – corrispondente alle esclamazioni lu maritu! e la mà! – raggiunto con un ampio salto discendente (che varia tra quinta e settima). Nelle fasi più acute del lamento si verifica il consueto sfogo vocale tendente al grido (in neretto sono indicate le parti tracritte nell’ES. MUS. 7)29. Neli, Neli, lu maritu! / Ca mancu ti vitti ca partisti pi surdatu pi la maliditta guerra, lu maritu! / Ti nni isti e mmancu ti vitti cchiuni, lu maritu! / Sbinturatamenti mi muristi, lu maritu! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Ca mi lassasti na fìglia di novi misi, lu maritu! / Ah comu cci’â ddari a mmanciari a tto fìglia, lu maritu! / Co nn’àiu nenti, lu maritu! / E a to fìglia non ci pozzu dari a mmanciari, lu maritu! / Ah com’è ch’ê ffari Neli, lu maritu! / A l’addeva chi l’avemu morticedda di fami, lu maritu! / Neli, Neli affàccia, lu maritu! / E bbidi ìu unni sugnu ittata, lu maritu! / E l’addeva chi un ci pozzu dari a mmanciari, lu maritu! / Oh chi sbintura chi appi, lu maritu! / Ca mancu canusci a to fìglia, lu maritu! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Ah com’è ch’ê ffari, lu maritu! / Ah comu sta sbintura appi, lu maritu! / Nca tutti s’arricamparu e tu nenti, lu maritu! / Neli, lu maritu! Neli, lu maritu! / Affàccia, Neli, affàccia, lu maritu! / Ca vidi a to fìglia senza patri, lu maritu! / Oh Neli! Oh Neli! / A com’è ch’ê ffari ìu senza di tia, lu maritu! / Ca iù unn’àiu e mmancu tegnu pi mmanciari ìu e mmancu pi to 119 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) fìglia, lu maritu! / Guerra disgraziata chi bbinni ca mi levà a ttia, lu maritu! / Neli, Neli affàccia! / Neli, Neli, Neli, bbeddu lu maritu! / Oh chi cosa èratu lu maritu pi mmia! / Ca èratu bbeddu veru, lu maritu! / E quantu mi vulìatu bbèniri, lu maritu! / E mmancu avisti la furtuna di vìdiri a to fìglia, lu maritu! / Bbedda Ninittedda, lu papà nni lu vidisti tu, lu papà! / Ca mancu avisti la furtuna di vìdiri a to patri, lu papà! / Oh chi sbintura chi appi sta fìglia! / Chi sbintura chi appi sta fìglia! / Oh Neli, Neli lu maritu! / Aunn’è chi ssi ghittatu, lu maritu! / Ca ti nni isti un vinisti cchiù, lu maritu! / Neli, lu maritu, Neli, lu maritu! / Ah com’è ch’ê ffari, lu maritu! / Ah com’è ch’ê ffari, lu maritu! / Oh Ninittedda, la mà! / Chi fusti sfurtunata Ninittedda, la mà! / Ca lu patruzzu nni lu canuscisti, la mà! / Neli, lu maritu, Neli, lu maritu! / Oh Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Ah com’è ch’ê ffari Neli, lu maritu! / Neli, Neli, lu maritu! / Neli, Neli, lu maritu! / Ca m’ammazzassi ìu, lu maritu! / Ah no di diri ca nun ti vitti cchiù comu ti nni isti surdatu, lu maritu! / Oh, lu maritu! / Ah com’è ch’ê ffari Neli, lu maritu! / Ah com’ê ffari Ninittedda, la mà! / Ristasti senza patruzzu, la mà! / Lu patruzzu un nni lu canuscisti, la mà! / Sbintura chi àppimu tu ed ìu, la mà! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Ah, mammuzza mea! / Ah, mammuzza mea! / Chi sbintura chi appi ìu, lu maritu! / Neli, Neli! / Ah com’è ch’ê ffari! / Dunn’ê pigliari! / Neli, Neli dùnami cunortu, Neli! / Com’iè ffari, Neli! / Com’iè ffari, Neli! / Com’è ch’ê ffari, Neli! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Oh, Neli, Neli! / Neli, Neli, Neli, lu maritu! / Ah chi sbintura chi àppimu, lu maritu! / Ca ti nni isti e nun ti vitti cchiù, lu maritu! / Guerra disgraziata, lu maritu! / Guerra tinta ca cci capitavu ìu, lu maritu! / Neli, lu maritu! / Neli, lu maritu, com’iè ffari! (Neli [dim. di Emanuele], Neli il marito! / Che neppure ti ho visto che sei partito soldato per la maledetta guerra! / Te ne sei andato e non ti ho più visto! / Sventuratamente sei morto! / Mi hai lasciato una figlia di nove mesi! / Come devo dare a mangiare a tua figlia! / Che non ho niente! / E a tua figlia non posso dare da mangiare! / Come devo fare! / La bambina l’abbiamo morta di fame! / E vedi dove sono buttata! / E alla bambina non posso dare da mangiare! / Che sventura che ho avuto! / Non hai neppure conosciuto tua figlia! / Quanta sventura ho avuto! / Tutti sono tornati e tu no! / Affacciati Neli! / Che vedi tua figlia senza padre! / Come devo fare io senza di te! / Che io non ho e non posso avere da mangiare per tua figlia! / Guerra disgraziata che è venuta e mi ha tolto te! / Neli, bello il marito! / Oh che cosa era il marito per me! / Che era proprio bello 120 il marito! / E quanto mi voleva bene! / Neppure hai avuto la fortuna di vedere tua figlia! / Bella Ninittedda [dim. di Antonina] il papà tu non lo hai visto! / Non hai avuto neppure la fortuna di vedere tuo padre! / Oh che sventura che ha avuto questa figlia! / Dov’è che sei finito! / Che te ne sei andato e non sei più tornato! / Ah come devo fare! / Come sei stata sfortunata Ninittedda che non hai conosciuto tuo padre! / Neli, il marito! / Che mi ammazzerei io! / Piuttosto di dire che non ti ho visto più da quando te ne sei andato soldato! / Ah come devo fare Ninittedda ! / Sei rimasta senza padre! / Il padre non lo hai conosciuto! / Sventura che abbiamo avuto tu ed io! / Ah mammina mia che sventura che ho avuto io! / Come devo fare! / A chi mi devo rivolgere! / Neli, dammi conforto! / Come devo fare! / Ah che sfortuna che abbiamo avuto! / Che te ne sei andato e non ti ho visto più! / Guerra brutta che ci sono capitata io!) Il modellarsi del pianto funebre secondo rigide stereotipie è stato spesso considerato una forma di “simulazione rituale”, anziché espressione di “autentico” dolore, specialmente in riferimento all’attività delle lamentatrici prezzolate. Nei casi che abbiamo avuto l’opportunità di osservare direttamente, la riproduzione decontestualizzata del lamento ha tuttavia sempre innescato condizioni di evidente sofferenza, dovute alla rievocazione di lutti realmente patiti. Non è stato quindi agevole affrontare con “professionale distacco” questi particolari momenti di ricerca, tuttavia confortati dal desiderio, comunque manifestato dai protagonisti (sempre donne anziane), di conservare e tramandare il modo “antico” di piangere i morti. Non vanno inoltre sottovalutate sincere dinamiche di commemorazione che possono imprevedibilmente determinarsi nel corso dei rilevamenti, come si è a esempio verificato in occasione dell’incontro con un gruppo di donne durante una indagine sulla musica popolare a Sortino. Dopo un primo giro di testimonianze relative a filastrocche, ninnananne e canti religiosi, in replica alla nostra richiesta di informazioni sul modo di lamentare i morti, due anziane donne (madre e figlia, rispettivamente di ottantanove e sessantotto anni) presero a piangere la scomparsa del marito-padre, avvenuta quasi dieci anni prima. Iniziò la moglie del defunto, per essere dopo circa un minuto imitata dalla figlia, in un toccante intreccio di voci inteso a esternare sentimenti cruciali della propria esistenza. Come lo strèpitu di Calamònaci, anche questo chiantu di Sortino sviluppa un accorato dialogo con il morto, al quale viene ripetutamente chiesto un ultimo incontro, un’ulteriore parola di conforto e di aiuto. Si tratta, com’è stato osservato, di una stra- tegia simbolica destinata a instaurare «un regime di comunicazione tra lo spazio dei vivi e quello dei morti, una condizione controllata di similarità che annulla provvisoriamente la separatezza» (Lombardi Satriani-Meligrana 1982: 37). In questa chiave si comprende la pressante richiesta al defunto di orientare il percorso dei congiunti in uno spazio liminare e rischioso qual è il cimitero, per potere infine realizzare quell’effimero contatto tanto disperatamente invocato. La richiesta di “indicare la via” denota nel contempo un più generico affidarsi al morto per la soluzione delle vicende terrene, ed è forse qui che più profondamente permane l’arcaico orizzonte cultuale degli antenati. Il senso di continuità fra il mondo dei vivi e il sotterraneo regno dei morti affiora inoltre nella richiesta di notizie al defunto sul suo “stato di salute”. È significativo però che il “benessere” del morto venga dalla lamentatrice (in questo caso la moglie) raccordato alle proprie preghiere serali di suffragio, introducendo un motivo di mediazione fra le concezioni tradizionali della morte e i modelli dettati dall’ideologia cristiano-cattolica. Gli stessi modelli ispirano d’altronde anche diversi tratti del pianto della figlia, che propone il parallelismo con la visita al Calvario della Madonna Addolorata, insistendo sul tema della “scalinata” da ascendere per ricongiungersi al defunto. La particolare incidenza di elementi sincretici può però qui essere dovuta alla circostanza commemorativa del pianto, che implica una comprensibile attenuazione delle modalità più esacerbate del lamento. Gli aspetti “tecnici” del chiantu sono posti in evidenza soprattutto dalla figlia nel ricordare il dispiacere della sorella minore, la quale, non essendo in grado di eseguire correttamente il lamento, rassicurava il defunto sul suo affetto scusandosi per non essere stata capace di piangerlo in modo adeguato. La melopea si fonda su uno schema ricorrente (incipit ascendente, insistenza sul quinto grado, clausola discendente, estensione di ottava), ma è interessante osservare le varianti introdotte dalla figlia che tende a un movimento melodico più “cantabile”. Stilisticamente caratterizzante si presenta la triade accordale discendente (re-si-sol) su cui vengono intonate le espressioni stereotipe ciatu meu (respiro mio) e amuri miu (amore mio), ripetute a chiusura di ogni porzione di testo30. Alcune frasi del lamento vengono pronunciate senza intonazione melodica (specialmente dalla madre) e del tutto assente è la fase “gridata” (in neretto sono indicate le parti tracritte nell’ES. MUS. 8): Moglie: Paulu di l’arma mia, ciatu miu! / E ccommu puti(s)ti fari a llassari a mmia? Paulu di l’arma mia, ciatu meu! / Paulu, Paulu, ri(c)i l’ùrtimi palori, quantu ti sentu, Paulu di l’arma mia, ciatu meu! E ddimmillu quali strata ài’ê ffari ppi circari a ttia, ciatu meu! / Ciatu di l’arma mia, ciatu meu! / E ccommu si pèrdunu li mariti bboni e ddi l’arma mia e ddi l’occhi mei, unni t’ài’ê ttruvari, ciatu meu? / Marìa, bbonu acchiui! – Figlia: Papà, dimmillu tu qual è la strata e qual è la via…– Moglie: Chista è a fìgghia ranni ca cianci! – Figlia: …ppi truari la porta mia, ciatu miu! Papà di l’arma mia,…– Moglie: Ssa cosa lèvila i ddocu! – Figlia: …a ciatu miu! / E ddimmillu tuni quale è la strata ppi ttruvari la via tòia, ciatu miu! – Moglie: Paulu, sèntila ta fìgghia e ccomu ti cianci e nun ti cianci nuddu, sulu la fìgghia ranni, ciatu miu, Paulu! Figlia: Papà di l’arma mia, amuri miu! / Papà, ti pari ca nun ti pensu?E ddimmillu tuni quali strata ài’â pigghiari ppi ttruvari a lu patri miu! / Papà e ddapi l’occhi l’ùrtima vota, quantu trovu la strata ppi ttruvari a lu patrittu miu, patri miu! / Papà, dimmillu tuni l’ùrtima vota ca ti vegnu a circari e ppi cuntintari a la mamma mia, amuri miu! / Bbasta mamà, ca l’ùrtima vota ecchianu tutti li scaluni e ppi ttruvari a lu patrittu miu e mi l’à ddittu ca è la strata di lu cimiteru, patri miu! – Moglie: Paulu, à ntis’a ta figghia ca t’à cianciutu? Picchì l’ùrtima vota nun ci voi dari aiutu, parrari? Quantu menu nni purtassi na bbella notizia, quantu stai bbeni tu! Dimmillu tu comu stai bbeni e bbeni di notti e ddirimillu! / Marìa santa, nun mi pozzu quitari! / Â sira ti ricu sempri u santu Rrusàriu, l’Avimarìa, u Patrinnostru e mm’addrummìsciu! / Commu rici tu! / A voi rari l’ùrtima palora o no? Parra a ta fìgghia! – Figlia: Papà, papà, dicci la strata e qual è la via! E ppi ttruari a lu patrittu miu, dimmillu tuni, papà, unni t’ài’â bbèniri a ccircari, u patri miu! / Papà, dillu l’ùrtima vota, ca trovu la via e ttrovu la strata ppi nzirtari la purtitta tòia, amuri miu! / Papà, cosa bbona, e nunn’u pozzu dimenticari a lu patrittu miu e ddimmillu tuni quali strata ài’ê pigghiari ppi truvari la via tòia, ca tutti li porti li stàiu abbussannu ie nun nni trovu una aperta, amuri miu! / Papà, e ddapi l’occhi l’ùrtima vota e ttalìa la figghitta toi ca è mmisa ntornu a ttia, patri miu! / Papà, e ddàpili l’occhi l’ùrtima vota, quantu pìgghiu la strata ppi ttruvari la strata unni si ttuni, c’ài ecchianatu l’ùrtimu scaluni, commu la bbedda Matri di Ddulurata, patri miu! / Ddapi l’occhi l’ùrtima vota, papà, e ddimmillu qual è la strata tòia e nnun trovu la via e nnun trovu la strata ppi truvari a lu patrittu miu, amuri miu! / Papà, m’ànna rittu ca la strata tòia è chidda di lu cimiteru, e ttutti li porti stàiu truvannu chiusi, e à bbussatu tutti i porti, patrittu miu, e nnessuna porta m’à ddaputu, amuri miu! / E mma soru ca mi riciva, mi riciva ma soru: «Papà, ma chi ti pari ca nun ti vògghiu bbeni, picchì ta fìgghia ti sta ciancennu? Ma iu lu sàcciu ca nun cci’â firu a cciànciri, patri miu, e ta fìgghia 121 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) a ranni è cchiù bbuluta bbeni! Ma nnun è bberu, picchì iu sugnu macari fìgghia, è sulu ca nun sàcciu ciànciri!» / E cciancìumu sulu iu e mma matri pi lu patrittu miu! (Moglie: Paolo dell’anima mia, respiro mio! / E come hai potuto fare a lasciarmi? Paolo dell’anima mia, respiro mio! / Paolo, Paolo, dici le ultime parole, quanto ti sento, Paolo dell’anima mia, respiro mio! / E dimmelo quale strada devo seguire per cercarti, respiro mio! / Respiro dell’anima mia, respiro mio! / E come si perdono i buoni mariti e dell’anima mia e degli occhi miei, dove ti devo trovare, respiro mio? / Maria, basta adesso! – Figlia: Papà, dimmelo tu qual è la strada e qual è la via… – Moglie: Questa è la figlia maggiore che piange! – Figlia: …per trovare la mia porta, respiro mio! / Papà dell’anima mia… – Moglie: Quella cosa toglila da lì! – Figlia: …respiro mio! / E dimmelo tu qual è la strada per trovare la tua via, respiro mio! – Moglie: Paolo, ascolta tua figlia come ti piange, che così non ti piange nessuno, solo la figlia maggiore, respiro mio! – Figlia: Papà dell’anima mia, amore mio! / Papà, ti pare che non ti penso? E dimmelo tu quale strada devo seguire per trovare il padre mio! / Papà, apri gli occhi per l’ultima volta, perché possa trovare la strada del mio papino, il padre mio! / Papà, dimmelo tu per l’ultima volta che vengo a cercarti e (fallo) per accontentare la mia mamma, amore mio! / Basta mamma, perché questa (è) l’ultima volta che salgo tutti gli scalini per trovare il mio papino, e me l’ha detto che è la strada del cimitero, padre mio! – Moglie: Paolo, hai ascoltato tua figlia che ti ha pianto? Perché (per) l’ultima volta non la vuoi aiutare, non le vuoi parlare? / Quanto meno ci potresti portare una bella notizia, (di) quanto tu stia bene! Dimmelo tu come stai bene e vieni di notte a dirmelo! / Maria santa, non mi posso quietare! / Alla sera recito sempre per te il santo Rosario, l’Ave Maria, il Padre Nostro e mi addormento! / Come dici tu! / La vuoi dire o no l’ultima parola? Parla a tua figlia! – Figlia: Papà, papà, indicaci la strada e qual è la via! / E per trovare al mio papino, dimmelo tu, papà, dove devo venirti a cercare, padre mio! / Papà, parla per l’ultima volta, così trovo la via e trovo la strada che conduce alla tua piccola porta, amore mio! / Papà, tutto bontà, non lo posso dimenticare al mio papino e dimmelo tu quale strada devo seguire per trovare la tua via, perché sto bussando a tutte le porte e non ne trovo una aperta, amore mio! / Papà, apri gli occhi (per) l’ultima volta e guarda tua figlia che sta vicino a te, padre mio! / Papà, apri gli occhi (per) l’ultima volta, affinché possa trovare la strada dove stai tu, perché ho salito l’ultimo scalino, come la Madonna Addolorata, 122 padre mio! / Apri gli occhi l’ultima volta, papà, e dimmelo tu qual è la tua strada per trovare la via, perché non trovo la strada per trovare il mio papino, amore mio! / Papà, mi hanno detto che la tua strada è quella del cimitero, ma tutte le porte le sto trovando chiuse, e ho bussato a tutte le porte, papino mio, ma nessuna porta mi è stata aperta, amore mio! / E mia sorella mi diceva, mi diceva mia sorella: «Papà, ma forse ti pare che non ti voglio bene, perchè (solo) tua figlia ti sta piangendo? Ma io lo so che non sono capace di piangere [nel senso di “lamentare” in forma cantata], padre mio, e (per questo) tua figlia maggiore è più amata! Ma non è vero, perché anch’io sono figlia, è soltanto che io non so piangere!» / Così piangevamo soltanto io e mia madre per il mio papino!) Novene e orazioni per la commemorazione dei defunti In Sicilia l’espressione poetico-musicale della devozione popolare era specialmente affidata a una classe professionale di cantori e suonatori detti orbi, poiché erano in prevalenza ciechi quanti intraprendevano questa particolare professione. La loro vicenda è ufficialmente documentata a partire dal 1661, anno in cui si riunirono a Palermo nella congregazione dell’Immacolata Concezione, sotto la protezione dei Gesuiti. Il complesso delle testimonianze relative all’attività degli orbi fra Settecento e Ottocento offre un quadro dettagliato sia del loro repertorio – costituito in prevalenza da canti sacri ma anche da storie, canzuni, canzonette e musiche da ballo – sia delle occasioni in cui essi si esibivano: celebrazioni a carattere religioso, ma anche feste nuziali e conviviali, serenate e spettacoli dell’opera dei pupi. L’organico degli orbi era essenzialmente formato dalla coppia: un suonatore di violino e uno di citarruni (bassetto a tre corde o violoncello adattato, nel Novecento progressivamente sostituito dalla chitarra)31. Questi musici ambulanti furono particolarmente attivi nella capillare diffusione di componimenti devozionali in siciliano di provenienza ecclesiastica (cfr. Guggino 1980, 1981, 1988 e Bonanzinga 2006). Gli autori che materialmente posero mano alla stesura dei testi furono sia dei laici appositamente assoldati dalla Chiesa, come Pietro Fullone (Palermo, XVII secolo) o Antonio La Fata (Catania, prima metà del XVIII secolo), sia dei sacerdoti, come Antonio Diliberto (Monreale, XVIII secolo) o Giovanni Carollo (Carini, seconda metà del XIX secolo). Quest’ultimo, che diresse a Palermo una “scuola per ciechi”, diede alle stampe diverse antologie di canti sacri specificamente destinati agli allievi propensi a intraprendere il mestiere di cantastorie, componendo tra l’altro una Nuvena pri la solenni commemorazioni di tutti li defunti (cfr. infra). La presenza degli orbi nei contesti celebrativi della morte è testimoniata dall’esecuzione dietro compenso dei rosari, delle novene e delle orazioni per commemorare i defunti. I rosari per i “morti” si eseguivano il lunedì e quelli per le “anime dei corpi decollati” il lunedì e il venerdì (cfr. alcuni testi in Vigo 1870-74: 533-534). La novena si svolgeva dal 25 ottobre all’1 novembre32 e in quei giorni si usava anche richiedere le orazioni commemorative33, che potevano però essere eseguite anche nel corso dell’anno ma solo di lunedì. Una puntuale testimonianza delle modalità che caratterizzavano la circolazione di questo repertorio a Palermo è fornita da Pitrè: Per le orazioni e diesille di un sol giorno si dà un grano (2 cent.), che verso sera si suole avvolgere in carta e lasciar cadere acceso da’ balconi. Per le novene si paga (questo è pagamento) dieci grani (21 cent.) alla fine del novenario, e il cantastorie si accaparra qualche giorno innanzi la novena quando i ciechi vanno gridando per le strade l’avvicinarsi di quella. Il giorno stesso della caparra il cieco suona e canta una specie di preludio della novena, e finito, segna con del carbone il muro della porta, quasi per non dimenticarsi la casa sulla quale ha acquistato un certo diritto di ricompensa. L’amore di queste malinconiche cantilene è tale in Sicilia che qualche donna, udite che le abbia in casa sua, passa in quella della vicina, e viceversa, per tornarle a udire (Pitrè 1870-71/I: 38). A Virgilio Saccà si deve invece una testimonianza che fa specifico riferimento alla novena dei Morti eseguita dagli orbi nella Messina di fine Ottocento: Un’altra caratteristica della commemorazione dei defunti sta nella novena. Di novene, in Sicilia, ce ne sono un’infinità, anzi, si può dire senza tema di errare che tutti i trecentosessantacinque giorni dell’anno siano una continua novena. Da quella caratteristica di Natale fatta con l’antichissima cornamusa, alle comunissime d’ogni giorno fatte con violini, chitarre, arpe ed “azzarino” (triangolo d’acciaio suonato con una verghetta di ferro) se ne hanno di tutti i generi, per tutti i gusti. Il suono è accompagnato dal canto il più delle volte; certe altre è musica sola […] I novenari sono, per la massima parte, ciechi; ma ve ne sono pure di giovani forti e robusti […] Il misticismo doveva necessariamente trovare la sua novena e l’ha trovata. Si è detto: giacché attorno ai tumuli disponiamo con tanto amore candele, lampade, fiori, nastri, tappeti, fotografie; giacché l’estetica funebre è completa, pensiamo alla morale: le messe pro de- functis non bastano, ci vuole qualche cosa di più popolare, di più democraticamente religioso: la novena. E la novena è diventata oramai patrimonio popolare; le donnicciuole la fanno cantare per le anime dei loro poveri morti e pagano la rendita annua di venticinque centesimi al novenaro! (Saccà 1894: 945). Attestazioni più recenti riguardo ai canti in onore dei defunti, tramandati in quaderni manoscritti dagli orbi di Palermo e di Messina, sono fornite da Nino La Camera (1961: 14-15) e da Elsa Guggino (1981: 50-53, 67; 1982: 50-53; 1988: 110-111, 116), che ha anche audioregistrato la novena eseguita dagli ultimi rappresentanti della tradizione palermitana: Rosario Salerno (zzù Rusulinu), Angelo Cangelosi e Giovanni Pennisi (1988: 167-171). Il testo rilevato nel 1970 secondo l’esecuzione di Salerno e Cangelosi34, con accompagnamento di chitarra e violino, corrisponde pressoché letteralmente a quello della Nuvena pubblicata ottant’anni prima da padre Carollo (1891: 111-120, riprodotta in Guggino 1988: 148-151). Il componimento originario è articolato in 27 ottave endecasillabe, da eseguirsi in gruppi di tre per ogni giornata del ciclo celebrativo. I due orbi palermitani suddividono invece il testo in quartine, cantate a voce alternata e inframmezzate da ritornello strumentale. Integrano inoltre nella “prima giornata” anche la strofa che apre il «secunnu jornu» della Nuvena di Carollo e concludono con una quartina assente nel componimento del sacerdote di Carini. Il contenuto insiste sulla necessità di riscattare con suffragi e penitenze le «anime sante dei poveri defunti», senza dimenticare che «siamo di passaggio in questo mondo» (documento sonoro edito in Garofalo-Guggino d.1987: A/6): Già sònanu a mmartòriu li campani, l’artari su ddi nìvuru vistuti, faciti rifriggeri, cristiani, a li parenti vostri sippilluti. Nna chiddi parti scuri e assai luntani, arsi di focu e ddi duluri acuti, nni dìcinu chiancennu a tutti quanti: «Smuvìtivi a pietà di st’armi santi!» Cci avemu ddà l’amici e lli parenti, patri, matri, spusa, soru e ffrati, scùttanu cu orribbili turmenti, la pena ca si ddiv’a lli piccati. Qual è ddu cori ngratu ca nun senti pietà di st’armi afflitti e ddisulati? Forsi un ghiornu nna du orrennu locu cci troviremu nna lu stissu focu! 123 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) Pinzannu, nta stu munnu di tristizza, ca tuttu è vvanitati e ttuttu passa, l’àrvuli c’ànnu persu la frischizza, lu ventu ca li fogghi nterra abbassa! Li iorna curti e l’arii annigghiatizzi e l’acidduzzi chi fannu la passa, nni dìcinu n-zilènziu chiaru e ttunnu ca semu passeggeri nta stu munnu! Prega ppi li defunti lu paganu, u Tuiccu, lu sciasmàticu, l’Ebbreu, u pòviru, lu riccu e llu suvranu, u ddottu, lu gnuranti e lu prebbeu. Pi li morti m-battagghia ammanu ammanu fici prigari a Ggiuda Maccabbreu, dunca chi ccosa bbona ê nostri cari ppi tutti li difunti di priari! Viditi ca è un cunsolu a ll’armi santi, cci appricamu tutti li ndurgenzi, rrèstunu obbligati tutti quanti a li vostri ddiuni e ppenitenzi! Fidili, cu llimòsini e pprieri, cu missi, cu ndurgenzi e ccu ddiuni, rifriscati l’armuzzi bbiniditti di li vostri parenti ddesolati e afflitti! (Già suonano a mortorio le campane, / gli altari sono parati a lutto, / date ristoro, o cristiani, / ai vostri parenti sepolti. // Da quelle parti oscure e assai lontane, / arse di fuoco e di acuti dolori, / dicono, piangendo, a tutti quanti: / «Muovetevi a pietà di queste anime sante!» // Abbiamo là gli amici e i parenti, / padre, madre, sposa, sorella e fratello, / che scontano con orribili tormenti / la pena che si deve per i peccati. // Qual è quel cuore ingrato che non prova / pietà per queste anime afflitte e desolate? / Forse un giorno in quell’orribile luogo / ci troveremo nello stesso fuoco. // Pensando, in questo mondo di tristezza, / che tutto è vanità e tutto passa, / gli alberi che hanno perso la freschezza, / il vento che ne trascina a terra le foglie! // I giorni brevi e i cieli nebbiosi / e gli uccelini che volano via, / ci dicono in silenzio, chiaro e tondo, / che siamo di passaggio in questo mondo! // Pregano per i defunti il pagano, / il Turco, lo scismatico, l’Ebreo, / il povero, il ricco ed il sovrano, / il dotto, l’ignorante ed il plebeo. // Per i morti via via in battaglia / fece pregare a Giuda Maccabeo, / quindi è cosa buona per i nosrti cari / di pregare per tutti i defunti! // Guardate che è di consolazione alle anime sante, / (se) gli tributiamo tutte le indulgenze, / restano 124 tutte quante debitrici / ai vostri digiuni e penitenze! // Fedeli, con elemosine e preghiere, / con messe, con indulgenze e con digiuni, / ristorate le animelle benedette / dei vostri parenti desolati e afflitti!) Lo stile musicale dell’esecuzione viene così illustrato da Girolamo Garofalo e Gaetano Pennino (in rapporto alla trascrizione edita in Guggino 1988: 190-193, qui riprodotta per gentile concessione come ES. MUS. 9)35: Un problema di trascrizione è incorso di frequente per gli stili vocali di zzù Rusulinu e Angelo. Essi sono collocabili in posizione intermedia fra gli estremi della recitazione e quelli della melodia vera e propria. Le difficoltà sono state risolte adottando per le voci, ove necessario, il segno di intonazione approssimativa. Anche sotto l’aspetto ritmico i percorsi melodici delle voci si snodano con estrema libertà, in contrasto con la scansione regolare e rigorosa dell’accompagnamento strumentale. Sebbene la notazione mensurale non riesca a dare pienamente conto della estrema complessità di tali fenomeni ritmici, nella trascrizione abbiamo tuttavia evidenziato la simultaneità fra le sillabe del canto e l’accompagnamento strumentale mediante l’uso di linee tratteggiate. […] La chitarra, sempre suonata con il plettro, non si limita a strappare accordi in stile battente, ma effettua senza cedimenti un sottile contrappunto di bassi, alternati ad accordi e bicordi, in modo da generare una “falsa polifonia”. Anche in fase di accompagnamento al canto il violino si affianca alla chitarra eseguendo bicordi o note singole. […] Nella Novena dei Defunti (1970) i due cantori si alternano ad ogni quartina del testo, cui corrisponde un periodo musicale asimmetrico di due frasi, la seconda delle quali è sempre contratta per il dimezzamento di una delle misure che la compongono. Il sostegno armonico è costituito da una successione che, se si eccettua il caso della cadenza che conclude il brano, si ripropone ogni volta inalterata. Di estremo interesse è l’accordo sul secondo grado abbassato che precede quello di dominante in ciascuna cadenza, così come rilevante è l’impiego del bicordo do-mi bemolle che, prodotto dal violino simultaneamente alla dominante di sol eseguita dalla chitarra, genera una sovrapposizione armonica prossima all’accordo di nona minore. La tradizione degli orbi nella città di Messina si è interrotta nei primi anni Sessanta. Sebbene non esistano rilevamenti sonori effettuati in quel periodo, è stato tuttavia possibile documentare buona parte del repertorio attraverso le esecuzioni di Feli- ce Pagano, figlio di mastru Vitu u sunaturi, uno fra gli ultimi cantastorie ciechi messinesi. Da ragazzo Felice accompagnava il padre e, pur non avendo in seguito mai realmente esercitato la professione di cantastorie, ha appreso numerosi canti che tuttora rammenta con precisione ed esegue accompagnandosi al violino. Tra questi anche la “Novena dei Morti” (Nuvena dî Motti, quattro strofe per ogni giornata) e le “orazioni” (raziuni) per la commemorazione di padre, madre e fratello36. Tutti i componimenti presentano identica struttura metrica (quartine di endecasillabi) e sono intonati sul medesimo modulo melodico. Questo è caratterizzato da andamento ritmico tendente al 6/8, con la voce che procede prevalentemente per gradi congiunti. La melodia è in tonalità di SOL min. e comprende quattro frasi corrispondenti alla quartina del testo poetico. Il violino esegue un preludio strumentale (in 2/4, ripetuto dopo ogni strofa) e per il resto si limita a raddoppiare la linea melodica del canto. La chitarra scandisce gli accordi (strappati o arpeggiati col plettro), con passaggi sui bassi in funzione ornamentale (ES. MUS. 10). Felice Pagano esegue inoltre la “Orazione del bambino morto” (Raziuni dû picciriddu mottu), che dalle altre si differenzia per melodia e metro37. In particolare, presenta un ritmo più vivace rispetto a quello impiegato dagli orbi messinesi per tutte le altre orazioni commemorative. Così come il testo poetico (in sestine di ottonari) si basa su un metro più spesso riscontrabile nelle arie e canzonette di tono allegro o amoroso. La forma poetico-musicale rispetta quindi la medesima prescrizione ecclesiale osservata per gli annunci delle campane, e difatti questa orazione veniva comunemente chiamata Glòria. La melodia, sempre in tonalità di SOL min., comprende tre frasi ognuna delle quali corrispondente a un distico poetico. Andamento vocale e parti strumentali sono analoghe a quelle già indicate, solo che qui il preludio viene eseguito in un tempo più rapido (ES. MUS. 11). Il contenuto dei testi rimanda a specifici modelli cristiano-cattolici, affatto distanti dagli stereotipi verbali riscontrabili a esempio nei lamenti funebri (cfr. supra). La riconfigurazione drammatica del lutto si fonda infatti sul paradigma / vita=dolore vs. morte=gioia eterna /, reso attraverso toccanti monologhi in cui si richiedono preci e buone azioni ai suffraganti al fine di attenuare le pene “transitorie” del purgatorio. Riportiamo per esemplificazione le strofe di due “giornate” (iurnati) della novena dei Morti (prima e nona) e le orazioni commemorative della madre e del bambino 38: Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia NUVENA DÎ MOTTI (PRIMA IURNATA) Fidili cristiani sentiriti chi ccosa voli diri puggatòriu, chi nta stu munnu campamu smarriti e non pensamu mai tantu mattòriu. Li peni nta ddi locu su squisiti, chi nforma e ddici lu Santu Scrittòriu. Vi vògghiu rraccuntari, sappiati, li peni e li tummenti in quantitati. L’ànimi su ddi focu ciccundati picchì l’etennu Ddiu l’ha cumannatu, a ddivina giustizia â ppagari, bbisogna in puggatòriu puggari. Pi pputiri dd’animuzzi arrifriscari cu llimosini e ddiuni, bbona ggenti, missi e ccumunioni vulinteri, nni lu renni Ddiu di l’alti sferi. (NONA IURNATA) Putènzia nfinita, Ddiu immurtali, chi tuttu sai, tu reggi e guverni, fa chi lu sènsiu miu nun pìgghia svali, chi lu me cori tuttu a ttia discenni. Sciogli, ti pregu, la me lingua frali, chi lu me cori tuttu a ttia discenni. Vi cantu dill’animi dulenti, chi stannu misi fra tanti turmenti. O viscuvadi, spiriti e ssanti, o cherubini, o dominazioni, tutti quanti prigamu a lu Missìa: «Lìbbira l’almi di la pena ria!» Puntìfici, prigamu a lu Missìa, chi tutti semu a lu celu ricoti. E ppi stu bbeni all’animi mannati, la pena in puggatòriu cci scansati! (Prima giornata: Fedeli cristiani ascolterete / che cosa vuole dire purgatorio, / che in questo mondo viviamo smarriti / e non immaginiamo mai tanto tormento. // Le pene in quel luogo sono raffinate, / come informa e dice la Sacra Scrittura. / Vi voglio raccontare, sappiate, / la quantità di pene e tormenti. // Le anime sono circondate dal fuoco / perché l’eterno Dio l’ha comandato, / la divina giustizia devono pagare, / bisogna espiare in purgatorio. // Per potere quelle anime ristorare / con elemosine e digiuni, buona gente, / messe e comunioni volentieri, / ci ripagherà Dio dalle alte sfere. – Nona giornata: Potenza infinita, Dio immortale, / che tutto sai, tu regni e governi, / 125 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) fa che il mio senno non sia sviato, / che il mio cuore appartenga tutto a te. // Sciogli, ti prego, la mia lingua infausta, / che il mio cuore appartenga tutto a te. / Vi canto delle anime dolenti, / che stanno costrette fra tanti tormenti. // O vescovi, spiriti e santi, / o cherubini, o dominazioni, / preghiamo tutti insieme il Messia: / «Libera le anime dalla pena ria!» // Pontefici, preghiamo il Messia, / che tutti siamo destinati ad andare in cielo. / E per queste buone preci offerte alle anime, / risparmiategli la pena del purgatorio!) RAZIUNI DÂ MATRI MOTTA Cuntimplati la pena, cristiani, dill’almi in Purgatoriu ddulenti. Quannu sona u mmattòriu a li campani vostra matri grida ggionnalmenti. Vostra matri e ppatri e li zziani li nonni, li niputi e li parenti, dici: «Fìgghia, tu non pensi a mmia, di mannari rifrigèriu a li me guai. Pi tuttu chiddu chi a la matri fai l’avrai ricumpinsatu da patti di Ddiu, chi nnovi misi nventri ti puttai ti bbinidicu cun affettu piu. Fìgghia, pi ttia a la sedda m’assittai ti parturìa cu dduluri riu. Bbiniditta la mammina chi cchiamaru e la cannila chi pi ttia ddumaru. E bbinidicu cun affettu caru a santa chiesa a cu t’hebbu accumpagnatu. Fìgghia, to matri ti bbenedici tantu, parrinu, cappillanu e ògghiu santu. Puru lu stentu e lu travàgghiu ntantu ti bbenedicu di quannu t’insignava, lu latti chi tti desi tuttu quantu ti bbinidicu i quannu ti nnacava. Ti bbinidicu li carizzi chi ttu avisti da patti di Ddiu, nostru Signuri. Fìgghia, a to matri nun ti la scuddari ma cci ha mannari bbeni e caritati». (Contemplate la pena, o cristiani, / delle anime dolenti del Purgatorio. / Quando le campane suonano a mortorio / vostra madre grida giornalmente. // Vostra madre e padre e gli zii / i nonni, i nipoti e i parenti, / dice: «Figlia, tu non pensi a me, / di mandare ristoro ai miei guai. // Per tutto quello che fai per tua madre / sarai da Dio ricompensata, / che nove mesi ti ho portata in ventre / ti benedico con affetto pio. // Figlia, per te mi 126 sono seduta sulla “sella” [predella da parto, detta anche sèggia o vancu, cfr. Pitrè 1889/II: 134] / ti ho partorito con grande dolore. / Benedetta la levatrice che chiamarono / e la candela che per te accesero. // E benedico con affetto caro / la santa chiesa a cui ti accompagnai. / Figlia, tua madre ti benedice tanto, / sacerdote, cappellano e olio santo. // Nonostante gli stenti e i travagli / benedico quando ti allevavo, / tutto il latte che ti ho dato / ti benedico da quando ti cullavo. // Benedico le carezze che hai avuto / da parte di Dio, nostro Signore. / Figlia, a tua madre non te la scordare / ma mandale ogni bene e carità».) RAZIUNI DÛ PICCIRIDDU MOTTU O fidili, ascuta e ssenti li paroli cunsacrati chi ddirannu ddi nnucenti i ll’animuzzi trapassati. Senti un’anima chi ddici a la sua matri nutrici. «Matri mia sugnu filici picchì Ddiu mmi criau e na gràzia mmi fici nta lu cielu mmi chiamau, pa non pàtiri tant’assai nta sta terra, peni e guai. Matri mia, tu nun sai chi vvò ddiri Puggatòriu, iò nu pocu cci passai nta ddu focu transitòriu e nni vitti nquantitati tanti animi abbannunati. Patri e matri, soru e frati ca Ggiuseppi sentiriti e ddi mia nun vi scurdati vògghiu bbeni mi faciti, chi m’aggiuva, ascuta e ssenti, cara matri obbidienti. Levirò di li tummenti quacchi anima abbannunata e la pottu etennamenti nta la glòria bbiata e mmi godu lu so visu comu Ddiu mi ll’ha prumisu. Ora sugnu in Paradisu cu lligrizzi triunfanti e mmi godu lu surrisu di li tri ddivini amanti, cu Ggesù, Ggiuseppi e Mmaria l’ànciuli e serafini in cumpagnìa». (O fedele, ascolta e senti / le parole consacrate / che diranno quelle innocenti / delle animucce trapassate. / Senti un’anima cosa dice / alla sua madre nutrice. // «Madre mia sono felice / perché Dio mi ha creato / e mi ha fatto una grazia / mi ha chiamato in cielo / per non patire troppo / le pene e i guai di questa terra. // Madre mia, tu non sai / che vuol dire Purgatorio, / io un poco ci sono stato / in quel fuoco temporaneo / e ne ho viste in quantità / tante anime abbandonate. // Padre e madre, sorelle e fratelli / che Giuseppe ascolterete [il nome è quello del suffragando] / e di me non vi scordate / voglio che facciate del bene, / che mi giova, ascolta e senti, / cara madre obbediente. // Leverò dai tormenti / qualche anima abbandonata / e la porto eternamente / nella gloria beata / e mi godo il suo viso / come Dio me l’ha promesso. // Ora sono in Paradiso / con gioie trionfanti / e mi godo il sorriso / dei tre divini amanti, / con Gesù, Giuseppe e Maria / e angeli e serafini in compagnia».) L’esecuzione di novene, rosari e preghiere destinate alla commemorazione dei defunti non era esclusivamente affidata a officianti specializzati come erano gli orbi. Un ampio repertorio poetico-musicale in siciliano, perlopiù diffuso attraverso stampe popolari, circolava anche tra i devoti (soprattutto donne), che ne facevano uso sia in chiesa nei riti paraliturgici sia nelle pratiche devozionali condotte tra le mura domestiche. Come forma esemplare di “novena per i Defunti” si può segnalare quella tuttora eseguita dalle donne di Sortino. Il rito si svolgeva abitualmente nella chiesa delle Anime Sante del Purgatorio ma, essendone in corso il restauro, viene da qualche anno ospitato nella chiesa di Santa Sofia. L’esecuzione della novena prevede la recitazione delle preghiere canoniche (in latino e in italiano) e del rosario. Le “decine” del rosario seguono il testo liturgico e vengono recitate in forma antifonale: Requiem aeternam dona eis Domine (proposta solista) / Et lux perpetua luceat eis (risposta corale). Alle “poste” i fedeli (tutte donne a eccezione del sacerdote e del sacrestano) intonano invece coralmente un canto in siciliano, articolato in dieci quartine di ottonari (due strofe per ogni posta). La melodia in tonalità di SOL min., di evidente derivazione chiesastica (ES. MUS. 12)39, si eseguiva in passato anche con accompagnamento di armonium (si ascolti la registrazione effettuata nel 1960 da Antonino Uccello)40. Il testo, non diversamente dai canti appartenenti al repertorio degli orbi, ruota intorno alla richiesta rivolta ad “amici e parenti” di pregare in suffragio delle povere anime condannate a patire i “tormenti del purgatorio”: Genti vui la cchiù ddivota, vui ca siti a Ddiu cchiù ccari, nun lassati cchiù ppinari Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia st’animuzzi in verità. Comu grìdunu sintiti, comu chiànciunu mischini, fannu ll’occhi e li lavini, ddumannannu carità. Nna stu locu e tanti guai, nna sti àspiri turmenti, nni stu focu accussì ardenti ca risìstiri un si cci pò. Comu fazzu, a ccui arricurru, grida ognun: «Ohimè infilici! Cchiù pir nui parenti e amici nun ci pènzunu, gnurnò!» «Caru amicu ti scurdasti anchi tu di li favuri, fammi sciri di st’arduri ca suffriri un pozzu cchiù. Chi si tratta sì un amicu? Si cci duna qualchi aiutu, lu dumanna stu tributu l’amicizia chi cci fu.» «Figghi amati, amati figghi, ca pir vui patemu tantu, vi scurdàstivu fratantu senza un minimu pirchì. Vui sta casa unni abbitati, tanta robba chi vvui aviti, iu la fici, e llu sapiti, e si tratta poi accussì?» Ma fratantu li parenti e lli figghi li cchiù amati, ittri sunnu li cchiù ingrati, nn’ittri c’è cchiù crudeltà. Se li figghi e lli parenti ca nun pènzunu pir nui, car’amici almenu vui, deh, muvìtivi a ppietà! (Voi gente più devota, / voi che siete più cari a Dio, / non lasciate più penare / queste animelle in verità. / Sentite come gridano, / come piangono poverine, / versano fiumi di lacrime, / domandando carità. // In questo luogo pieno di guai, / in questi aspri tormenti, / in questo fuoco così ardente / che resistere non si può. / Come faccio, a chi ricorro, / grida ognuno: «Ohimè infelice! / Più a noi parenti e amici / non pensano, signornò!» // «Caro amico ti sei scordato / anche tu dei miei favori, / fammi uscire da queste fiamme / che soffrir non posso più. / Che si tratta così un amico? / Gli si dà qualche aiuto, / lo richiede questo tributo / l’amicizia che ci fu.» // «Figli amati, amati figli, / che per voi abbiamo patito tanto, / vi siete frat127 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) tanto scordati / senza un minimo perché. / Questa casa dove voi abitate, / tante cose che possedete, / io l’ho fatta, e lo sapete, / e poi mi trattate così? // Ma frattanto i parenti / e i figli più amati, / loro sono i più ingrati, / fra loro c’è più crudeltà. / Se i figli e i parenti / non pensano per noi, / cari amici almeno voi, / deh, muovetevi a pietà!) La morte del Cristo Attraverso uno specifico repertorio di suoni e canti “funebri” si rievoca ogni anno la conclusione della vicenda terrena di Gesù Cristo, culminante nelle drammatizazzioni rituali del Venerdì Santo41. In diverse località il luttuoso evento si preannuncia già durante la Quaresima (specialmente nelle sere dei venerdì), attraverso funzioni paraliturgiche, pratiche penitenziali e questue itineranti. In passato erano anche gli orbi a celebrare la Settimana Santa, cantando le tradizionali novene presso le abitazioni dei devoti (cfr. supra)42. I canti della Passione – in prevalenza denominati lamienti o lamintanzi (lamenti o lamentazioni), ma anche ladati (laudi) e parti (intese come “parti” di un lungo canto narrativo) – sono invece ancora oggi eseguiti da gruppi maschili, perlopiù collegati a confraternite laicali, in forma sia monodica sia polivocale (secondo un tipico stile che innesta principi armonici tonali su melodie tendenzialmente modali). Le donne, a loro volta, eseguono rosari e canti quasi esclusivamente in stile monodico. Nei giorni del Triduo pasquale il clima di cordoglio è inoltre tuttora marcato dal suono di crepitacoli, tamburi e trombe. I crepitacoli (raganelle, tràccole, tabelle e crotali a tavolette), secondo la prescrizione liturgica, si usano in sostituzione di campane e campanelle per segnalare l’imminenza dei riti e scandirne lo svolgimento sia all’interno delle chiese sia durante le processioni. I grandi tamburi bipelli retti a bandoliera (tammurina) scandiscono il lento procedere dei cortei processionali, in alternanza con le marce funebri dei complessi bandistici e talvolte con strazianti squilli di tromba. La Passione di Cristo si articola, secondo la cronologia canonica, nelle seguenti fasi: ascesa al Calvario, crocifissione, deposizione, corteo funebre, sepoltura. Questa sequenza non viene però sempre rispettata nei riti popolari, come a esempio accade in Sicilia per i “sepolcri” (sepurcra, sabburca), che vengono allestiti nelle chiese il pomeriggio del Giovedì Santo. I “sepolcri”, tradizionalmente adornati con piatti di cereali e legumi fatti germogliare al buio (lavureddi), secondo la liturgia sono destinati alla solenne reposizione del Santissimo Sacramento. Essi assumono tuttavia nel sentire popolare una evidente connotazione di “veglia funebre”, anticipando di un giorno la commemorazione ufficiale. 128 In molte località la visita ai sepolcri, che si effettua tra la sera del Giovedì e le prime ore del Venerdì, è caratterizzata dall’esecuzione itinerante di richiami devozionali e di canti che narrano la Passione di Cristo. Questi ultimi sono in prevalenza costituiti da testi poetici in siciliano di origine ecclesiastica, il cui contenuto ruota intorno alle azioni della Madonna “Addolorata”: figura di madre esemplare che prima “cerca” e successivamente “piange” il Figlio morto. In molti centri permane la consuetudine di “chiamare” i fedeli a visitare i sepolcri, attraverso particolari formule alternate al suono di tamburi, crepitacoli o trombe. A San Filippo Superiore (frazione di Messina), un richiamo gridato da un gruppo di bambini – che percorrono rapidamente le vie della borgata – è ritmato dal suono delle tabelle: Annat’â chiesa cû Signuri è ssulu! (Andate in chiesa che il Signore è solo)43. Il modulo melodico si fonda su un unico suono rapidamente ribattuto (do3), con clausola discendente (do-la-sol) in coincidenza della parola conclusiva (ES. MUS. 13). A Ventimiglia (PA), i confrati dell’Addolorata si recano a visitare i “sepolcri” allestiti nelle diverse chiese del paese nelle prime ore del Venerdì (tra le 4:00 e le 7:30 circa). I confrati procedono in gruppo, sostando periodicamente per ripetere la chiamata, preannunciata da nove colpi di tamburo (suddivisi in serie da tre) seguiti da un lungo squillo di tromba. Un solista intona quindi l’appello: Fratelli di Maria Addulurata, / susìtivi câ tardu è! (Fratelli di Maria Addolorata, / alzatevi che è tardi!). Segue la risposta corale: Tardu è! (È tardi!). La chiamata si dispiega quasi interamente sul do, mantenuto come corda di recita, mentre la risposta si fonda su una terza minore discendente riempita (lab-sol-fa). Il tamburo segna la conclusione di ogni richiamo replicando la sequenza iniziale (ES. MUS. 14). Durante l’itinerario devozionale le famiglie di amici e parenti usano offrire cibo e bevande ai confrati44. La notte del Giovedì Santo a Mirto (centro dei Nebrodi in provincia di Messina), un gruppo di uomini – circa quindici tra giovani e anziani – intonano il canto della Passioni (Passione) all’interno delle due chiese maggiori. L’esecuzione si impernia intorno a due voci soliste che rispettivamente intonano il distico-base e la ripresa (forma ABB). Le due frasi presentano profilo ad arco nel primo membro e discendente in sede cadenzale, con A che chiude sulla dominante (si) e B sulla tonica (mi). Il ritmo è libero con melismi ricorrenti specialmente nel primo verso. Il coro interviene omoritmicamente nel secondo emistichio dei versi (alcune voci all’unisono col solista e altre un’ottava sotto che si muovono tra dominante e tonica), rafforzato da un’altra voce che in registro acuto esegue il passag- gio tonica-dominante-sensibile-tonica (ES. MUS. 15). Il testo poetico, articolato in venticinque distici di endecasillabi a rima baciata, consiste in una serie di commoventi dialoghi tra la Madonna, il Cristo morente e vari personaggi connessi alla Passione (i sacerdoti, i “mastri” che stanno preparando gli strumenti della crocifissione, l’apostolo Giovanni, ecc.). Riproduciamo la parte finale del canto, che contiene significativi riferimenti all’andamento delle lamentazioni funebri reali: dal sommesso “pianto” collettivo («chiamate Giovanni per aiutarmi a piangere mio figlio») all’espressione estrema del dolore («Maria lanciò un grido acutissimo»)45: «Chiamàtimi a Ggiuvanni (e) ca lu vògghiu, quantu m’aiuta a cchiànciri a me fìgghiu. Di niuru cci detti (e) lu cummògghiu, iddu persi lu patri e iò lu fìgghiu. Vàiu mi toccu nterra e toccu moddu, toccu lu duci sangu di me fìgghiu.» Maria ittau na vuci comu na schìgghia, quannu mortu si vist’a lu so fìgghiu. E sta Passioni è ditta a mmodu nostru, ddicemu nn’avimarè e un patrinnostru. («Chiamatemi Giovanni che lo voglio, / così mi aiuta a piangere mio figlio. // Gli ho dato il velo nero, [perché] lui ha perso il padre e io il figlio. // Vado a toccare terra e tocco bagnato, / tocco il dolce sangue di mio figlio.» // Maria lanciò un grido acutissimo, / quando vide suo figlio morto. // E questa Passione è detta a modo nostro, / diciamo un avemaria e un padrenostro.) A Misilmeri (PA), i confrati del SS. Sacramento si riuniscono davanti al portale della Chiesa Madre e allo scoccare della mezzanotte iniziano a cantare I parti rû Signuri (Le “parti” del Signore). Il testo, strutturato in distici di endecasillabi, viene intonato in forma monodica a voci alterne, con breve interludio di tabelle (tròcculi) tra le strofe. Dopo questa esecuzione iniziale, due o tre gruppi di devoti si incamminano per le vie del paese, seguendo itinerari diversi. Si canta per strada (in luoghi prestabiliti, davanti alle edicole e nei crocicchi) e nelle chiese dove sono allestiti i sepolcri, sempre iterando tra le strofe il suono delle tabelle, che accompagna anche tutti gli spostamenti dei gruppi. Il mesto appello di questi strumenti addirittura identifica l’intera azione rituale, significativamente detta truccùliata. Il suono delle “campane di legno” pervade difatti il quieto spazio notturno e la parte conclusiva del canto ne pone compiutamente in evidenza il valore simbolico, nel segno della partecipazione corale al dolore di Maria. La melodia bipartita si estende entro un intervallo di quarta, con insistenza sul secondo grado del modo (un tratto caratterizzante è dato dal costante innalzamento microtonale della finalis). L’andamento ritmico tende al 6/8, con alternanza tra scansione sillabica nel primo emistichio del verso e andamento melismatico nella parte conclusiva (ES. MUS. 16)46: È un vènniri er è ddi marzu, quannu murìu lu nostru Signuri. Er’è mmortu (e) a bbintun’ura pi saibbari a nnuatri piccatura. «Fìgghiu meu, unni tâ vvèniri a ttruvari?» «(e) A lu santu Carvàriu, matri mia!» «Sona la tròccula, affacciàtivi tutti, ca sta passannu lu me santu Fìgghiu!» […] È ddi lignu la campana, Ggesù Cristu a ttutti chiama. E nni chiama (e) ad’alta vuci, Gesu Cristu è mmortu n-cruci! (È un venerdì di marzo, / quando è morto nostro Signore. // Ed è morto a ventun’ore / per noialtri peccatori. // «Figlio mio, dove ti devo venire a trovare?» / «Al santo Calvario, madre mia!» // «Suona la troccola, affacciatevi tutti, / che sta passando il mio santo Figlio!» // È di legno la campana, / Gesù Cristo ci chiama tutti. // E ci chiama ad alta voce, / Gesù Cristo è morto in croce!) Come vera e propria epifania sonora del lamento di Maria viene di norma interpretato il lancinante suono delle trombe che caratterizza in molti centri le processioni del Venerdì Santo. Spesso alla tromba si associa il tamburo battuto “a morto”, e i lugubri segnali iniziano già a riecheggiare nella sera del Giovedì. A Pachino (SR), dal Giovedì al Venerdì Santo, due coppie di suonatori si alternano nell’eseguire con questi strumenti un richiamo, esplicitamente inteso a rappresentare il pianto della Madonna (ES. MUS. 17)47. In diversi altri centri questi suoni caratterizzano le processioni del Cristo Morto, inframmezzandosi ai canti polivocali e alle marce funebri bandistiche (a Mussomeli e a Montedoro, nel Nisseno, si conservano pratiche espressive tra le più notevoli). A Vìcari, il richiamo si esegue con voce, tamburo e tabella la notte del Venerdì Santo, dopo che si è conclusa la processione dell’Addolorata. Il breve testo invita i devoti all’adorazione del Cristo morto per riscattare i propri peccati: Veni, veni piccaturi / ca ti voli lu Signuri, / ca ti voli pirdunari! (Vieni, vieni peccatore / che ti vuole il Signore, / che ti vuole perdonare!). I tre versi sono scanditi su una formula melodica contenuta entro un intervallo di 129 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) terza minore. Il tamburo batte tre colpi dopo il primo verso, due dopo il secondo e uno in chiusura, mentre la tabella (tròccula) risuona tra un richiamo e l’altro (ES. MUS. 18)48. A Butera (CL), durante la processione del Venerdì Santo, il richiamo di tromba e tamburo funge da cornice a una pratica vocale affatto peculiare. Ogni strofa delle Parti – un poemetto di autore ignoto composto da cento ottave endecasillabe – viene infatti prima declamata con particolare intonazione da un solista e poi si canta in coro soltanto l’ultimo verso, secondo la seguente procedura: un solista (prima vuci) intona il primo emistichio, un altro solista (secunna vuci) intona il secondo emistichio con il rafforzamento del coro. All’andamento ritmicamente libero e melismatico delle due voci soliste fa riscontro il lineare intervento del coro che si limita a ribattere la tonica passando per la sensibile (ES. MUS. 19)49. Riportiamo la strofa che rievoca il momento della morte di Cristo, preannunciandone al contempo la Resurrezione50: Dulci Ggesù mi veni lu chiantu di fàrimi la cruci e la spartenza. Summu Ddiu d’amuri, amatu tantu, câ morsi supra la cruci, oh chi spaventu! Lu sabbattu Maria sparma lu mantu e dduna fini a lu so patimentu. Nni rallegramu cu lu so corpu santu, sia laratu lu santissimu Sacramentu! (Dolce Gesù mi sgorga il pianto / perché devo farmi la croce della separazione. / Sommo Dio d’amore, amato tanto, / che morì sopra la croce, oh che spavento! / Al sabato Maria toglie il manto [del lutto] e pone termine al suo patimento. / Ci rallegriamo insieme al suo corpo santo, / sia lodato il santissimo Sacramento!) I tamburi – con cordiera disattivata e talvolta coperti da un panno nero per conferire ulteriore gravità al suono – aprono inoltre le processioni in cui si rappresentano la Passione e Morte del Cristo. Le cadenze che scandiscono questi cortei si differenziano a seconda dei luoghi, come a esempio si osserva nei ritmi tuttora impiegati per il Venerdì Santo a Messina51, Misilmeri (PA)52 e Palermo53 (ESS. MUS. 20-22). Il cordoglio per la morte del Cristo è efficacemente rappresentato in un canto che si esegue alla mattina del Sabato Santo nel piccolo borgo rurale di Sant’Anna (fraz. di Caltabellotta, AG) durante una processione di sole donne, che trasportano una statuetta della Madonna Addolorata. Le fasi salienti della Passione vengono rievocate attraverso una suggestiva intersezione narrativa fra il punto di vi- 130 sta delle devote che si recano in visita al Calvario e le accorate parole di Maria ai piedi della croce: una solidarietà tra madri che ribadisce la straordinaria funzione catartica della vicenda del Dio fatto uomo. L’esecuzione della semplice melodia di derivazione chiesastica – tonalità di SOL min., andamento rigorosamente sillabico in ritmo di 6/8 (ES. MUS. 23) – è corale all’unisono. La commemorazione della Passione prosegue con il rosario, sempre eseguito processionalmente al riecheggiare delle tabelle (melodia in tonalità di SOL maggiore su ritmo tendente al 6/8)54: O santa cruci vi vegnu a vvidiri, tutta di sangu vi trov’allagata. Cu fu chidd’omu chi vinn’a mmuriri, fu Ggèsu Cristu c’appi la lanciata. Lu misir’a la cruci e Mmària vinni cu Mmarta, Maddalena e san Giuvanni. «Pìglia sta scala ed a mme fìgliu scinni, quantu ci passu sti so santi carni.» Ca li profeti lu ier’a scinniri, mrazza lu dèttir’a Mmaria l’addulurata. Cunsìdira Mmaria, pòvira donna, vidennu a lu so fìgli’a la cunnanna. Ca la cunnanna è grav’e a casa n’torna, fu cunnannatu di Pilatu ed Hanna. «Com’è c’unn’è l’ê cchianciri, amici mii, ca persi un fìgliu di trentatrì anni. Trentatrì anni chi fùstivu spersu, manc’avìstivu n’ura di cunortu. La santa morti la sapìavu certu quannu facìavu orazioni all’ortu. Ca l’àriu di nìvuru è ccupertu, ca li campani sunàvanu a mmortu. Ora c’aviti lu custatu apertu, ncrunateddu di spini e ncruci e mortu.» Sta razioni è dditta a nnomu vostru, ddicemu nn’Avemmaria ed un Patrinnostru. (O santa croce vi vengo a vedere, / tutta di sangue vi trovo allagata. // Chi fu quell’uomo che venne a morire, / fu Gesù Cristo che ricevette il colpo di lancia. // Lo misero in croce e Maria giunse / con Marta, Maddalena e san Giovanni. // «Prendi questa scala e porta giù mio figlio, / così compongo le sue sante carni.» // E i profeti lo andarono a prendere, / lo posero in braccia a Maria l’addolorata. // Pensate a Maria, povera donna, / che vede suo figlio condannato. // Che la condanna è grave e a casa non ritorna, / fu condannato da Pilato ed Hanna. // «Non so come devo piangerlo, amici miei, / che ho perso un figlio di trentatrè anni. // Trentatrè anni che foste allo sbando, / neppure avete avuto un’ora di conforto. // Della santa morte già sapevate di certo / quando recitavate l’orazione nell’orto. // Che il cielo di nero era coperto / e le campane suonavano a morto. // Ora che avete il costato aperto, / siete incoronato di spine e morto in croce.» // Questa orazione è detta in nome vostro, / diciamo un’Avemaria e un Padrenostro.) ROSARIO Poste Cu cchiovu puncenti, o miu bbon Signuri, la testa pirciasti cun tantu dulur. Nn’avu cchiù pena lu miu caru bbeni, non più addormentata l’amatu Ggesù. Decine E pi ddecimilia voti (e) lludamu la Passioni. Lludàmula a li tutt’ura la Passioni di lu Signuri. (Poste: Con chiodi pungenti, / o mio buon Signore, / la testa ti trapassarono / con grande dolore. // Non ha più pena / il mio caro bene, / non più addormentata / l’amato Gesù. – Decine: E per diecimila volte / lodiamo la Passione. / Lodiamo a tutte le ore / la Passione del Signore.) La connotazione funebre dei riti destinati a commemorare la Passione di Cristo è anche posta in evidenza dalle particolari modalità con cui vengono mossi i fercoli (vari, ‘bare’) nelle processioni che si svolgono, al suono delle marce funebri bandistiche55, in tutta la Sicilia. Questi procedono a ritmo cadenzato e ondulante, talvolta ulteriormente rallentato dall’alternanza di due passi avanti e uno indietro. Tra i moduli coreutici che rinviano alla dimensione del lutto, valga ricordare quelli osservabili a Trapani nella processione dei Misteri: venti gruppi statuari – sempre poggiati su fercoli – che rappresentano scene connesse alla Passione di Cristo. I Misteri appartengono per antica tradizione ai ceti (corporazioni di mestiere), che si tramandano il privilegio di trasportarli a spalla nell’interminabile rito processionale del Venerdì Santo (dalle 15:00 fino all’alba del Sabato). La celebrazione è permeata da un forte spirito competitivo che si esprime nella ricchezza degli addobbi, nel numero e nell’abbigliamento dei portatori (massari) e nella presenza di un complesso bandistico dietro ogni fercolo. Il senso della gara si riflette anche nell’eleganza con cui deve procedere il Mistero. L’andamento normale, detto annacata, si basa sul movimento ondulatorio impresso da tutti i portatori in perfetta coordinazione. L’annacata è percepita e descritta dai protagonisti come una vera e propria danza da eseguirsi al ritmo della marcia funebre. Questi andamenti lenti dei fercoli, ritmati da suoni lamentevoli e iterativi, sono però talvolta scardinati per drammatizzare l’incontro fra il Cristo Morto e l’Addolorata: un momento che riveste particolare pathos nell’ideologia popolare. In numerosi paesi – tra gli altri Campofelice di Roccella (PA), Butera, Riesi e Pietraperzia (CL), Bronte e Licodia Eubea (CT) – le processioni del Venerdì sono infatti caratterizzate da una improvvisa quanto inattesa accelerazione del rito, che lascia temporaneamente spazio ad arcaiche modalità di manifestazione del dolore, rapportabili alla fase parossistica della lamentazione funebre: una concitazione verbale e gestuale che si traduce nelle invocazioni indirizzate all’Addolorata e al Cristo Morto e nelle “corse” dei fercoli. La morte del Carnevale In Sicilia si presenta ancora vitale un tipo di cerimonia carnevalesca – in passato diffusa in tutta l’area europea – che prevede il compianto e la distruzione di un fantoccio consistente nella personificazione stessa del Carnevale (Nannu, Cannaluvari). Gli eccessi verbali, gestuali e alimentari che caratterizzano la messa in scena di questi “funerali fittizi” riconiugano con evidenza la dimensione orgiastica tipica delle feste d’inizio d’anno56. Per il contesto siciliano si può attestare la continuità della mascherata negli ultimi tre secoli: dalla segnalazione settecentesca del marchese di Villabianca (ed. mod. 1991: 129-131) alle ampie descrizioni contenute nella letteratura demologica (cfr. specialmente Guastella 1887: 146-147, Pitrè 1889/I: 96-101, Salomone Marino 1897: 216-218, Alesso 1917: 2223). Riportiamo per esemplificazione due passi tratti dai testi di Giuseppe Pitrè e di Michele Alesso: Il Nannu o Nannu di Carnalivari è la personificazione del Carnevale, la maschera principale, massima, l’oggetto di tutte le gioie, di tutti i dolori, de’ finti piagnistei, del pazzo furore di quanti sono spensierati e capi scarichi. Trovar la sua fede di battesimo è tanto difficile quanto trovar l’origine d’un uso obliterato; ma senza dubbio, trasformato e mistificato com’è, egli discende in linea retta da un personaggio mitico della remota antichità di Grecia e di Roma. La sua storia è lunga, ma la sua vita è così breve che si compie dalla Epifania all’ultimo giorno di Carnevale. Ordinariamente lo si immagina e rappresenta come un vecchio fantoccio di cenci, goffo ed allegro; vestito dal capo ai piedi con berretto, col- 131 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) lare e cravattone, soprabito, panciotto, brache, scarpe. Lo si adagia ad una seggiola con le mani in croce sul ventre, innanzi le case, ad un balcone, ad una finestra, appoggiato ad una ringhiera, affacciato ad una loggia; ovvero lo si mena attorno. Più comunemente è una maschera vivente, sur un carro, sur un asino, una scala, una sedia, va in giro accompagnato dal popolino che sbraita, urla, fischia prendendosi a gomitate. […] Per lui tutto un popolo è ammattito. Le nenie sopra riferite fan parte delle esequie che d’ordinario gli si anticipano; ma gli ultimi momenti, altro che nenie! Allora, come scriveva il Villabianca, «si suppone morto il Carnevale, e se ne conduce il cadavere […] menandolo alla Forca. Per tutte le strade e da per tutto si piange quindi il Carnevale e si grida Nannu Nannu!», ovvero Murìu me figghiu Carnalivari! (Catania) (Pitrè 1889/I: 96-98). Non era raro il caso di assistere ad una scena che andava per le bocche di tutti e che rappresentava la morti di Carnilivari o, altrimenti detta, di lu Nannu. Un finto vecchione, il Nannu, imbottito di stoppa e vestito goffamente, veniva adagiato sur un cataletto, portato a spalla da quattro persone in maschera (tunica bianca e mantelletta nera), mentre una doppia fila di giovani vestiti in maschera, avvolti in ampi e bianchi lenzuoli, seguivano il preteso feretro, tenendo in mano una torcia accesa e, a passi lenti e cadenzati, andavano per le vie della città [Caltanissetta], biascicando chi sa quali parole, incomprensibili. Il corteo, di tratto in tratto, per lo più si fermava nei crocicchi o nelle piazze. Tutti circondavano la bara e, incurvandosi sul deposto cataletto, piangevano, schiamazzavano, mandando acutissimi urli: Ah, Nannu, Nannu, pirchì mi lassasti? Comu âmu a fari senza di tì…a?! Oh, Nannu di lu me cò…ri! Quindi si fingeva di strapparsi i capelli di stoppa; quindi altri lamenti e altri gridi assordanti; si cantavano non sappiamo quante stramberie, finché il corteo riprendeva il cammino, mentre s’intonava una specie di miserere o di de profundis a due cori, che, a titolo di curiosità, riportiamo. Il primo coro, in tono lamentevole, cantava: Murìu lu Nannu, lu Nannu murìu, pri fin’a n’âtr’annu nun pipita cchiù! Lu Nannu murìu, lassau lu munnu, lu jocu e lu sbjiu nun turnanu cchiù. Murìu lu Nannu e batti lu toccu, 132 pri fin’a n’âtr’annu nun pipita cchiù.57 E il secondo coro, sulla stessa intonazione, ripeteva le ultime parole cadenzate di ogni verso (Alesso 1917: 22). Momento apicale di un pathos collettivo drammatizzato a forti tinte, cui la lettura del “testamento” forniva adeguato impulso, la fine di Carnevale, straziato dai suoi eccessi o dall’altrui violenza (bruciato, impiccato, smembrato), consentiva comunque la catarsi. Il testamento comportava difatti: a) la distribuzione simbolica delle parti del corpo come lascito; b) la pubblica ammissione delle trasgressioni (di ordine etico, morale ecc.) verificatesi entro la comunità lungo il corso dell’anno appena trascorso. Il fantoccio del Nannu (Nonno) acquista così valore di “capro espiatorio” esso deve essere ritualmente distrutto per liberarsi di ciò che è “vecchio”, “negativo”, del “tempo consumato” che deve così aprirsi al nuovo ciclo e garantire una rigenerazione nel segno del benessere e della prosperità. Per questo al testamento seguiva la messa a morte per rogo, come del resto ancora accade in diversi paesi (Cìnisi, Mezzojuso, Villafrati, Termini Imerese, Sciacca, Acireale) e in alcuni rioni popolari di Palermo come il Capo, il Borgo, la Zisa e Ballarò (cfr. I. E. Buttitta 1999: 50-55, Bonanzinga 2003: 82-87). Alla Zisa abbiamo documentato il rogo (abbruciatina) di due fantocci imbottiti di petardi (il Nannu e la Nanna), accompagnato dal clamore di bambini e adulti che assistono. Significativo all’interno della cerimonia il grido U cunsulatu, u cunsulatu!, il cui riferimento al cunsulu (pranzo funebre), tuttora offerto da amici e parenti alla famiglia in lutto in molti luoghi della Sicilia (cfr. nota 22), allude al festoso consumo di bevande, focacce e dolciumi che conclude la rappresentazione58. Esemplare persistenza fino a un recente passato del lamento in ambito urbano è un documento rilevato nel quartiere Tirone a Messina. La donna che lo esegue, tra le ultime rappresentanti di una tradizione ormai disgregatasi, ne cadenza il ritmo con la gestualità tipica del pianto funebre (trìulu o triuliata), sul quale d’altronde il lamento per Cannaluvari si modella sia nell’inserimento di esclamazioni gridate (Fìgghiu, fìgghiu!) sia nella ripresa di temi che rievocano la vita del “defunto”59. Originariamente il trìulu si usava accompagnare con il tamburello (tammureddu), sostituto parodico del tamburo a bandoliera normalmente impiegato nei cortei funebri60. La melodia, contenuta entro un intervallo di quinta, si articola in quattro frasi di andamento discendente. La voce procede per gradi congiunti in stile prevalentemente sillabico (ES. MUS. 24): Fìgghiu meu Cannaluvari la sosizza ti fici mali, tâ manciasti a ccaddozza a ccaddozza t’appuntau nte cannarozza. Fìgghiu! Cannaluvari supra a bbutti annau mi pìscia e pisciau a ttutti, cu nna fògghia di scalora si nn’annau senza parola. Fìgghiu! E chiamàtici a Franchina mi cci fa l’uttima pinnicillina. E chiamàtici a Suraci câ malatìa è llonga e nnon mi piaci. Fìgghiu, comi ti nni stai annannu! Cannaluvari supra u molu chi vinnìa i pumadoru, la bbilanza cciâ tinìa dda iarrusa di sò zzia. Fìgghiu Cannaluvari, comi ti nni stai annannu! Cannaluvari c’annasti e vvinisti iè di dda cosa chi nni facisti? Mugghieri mia nun ti pigghiari pena l’àiu sabbata nta la bbannunera. Cannaluvari murìu di notti lassau imbrogghi aret’i potti. Fìgghiu Cannaluvari, fìgghiu! (Figlio mio Carnevale / la salsiccia ti ha fatto male, / te la sei mangiata pezzo a pezzo / ti è rimasta sul gozzo. / Figlio! // Carnevale sulla botte / andò per pisciare e pisciò su tutti, / con una foglia di cicoria / se n’è andato senza parola. // E chiamategli Franchina / per fargli l’ultima penicillina. / E chiamategli Soraci / che la malattia è lunga e non mi piace. / Figlio, come te ne stai andando! // Carnevale sul molo / che vendeva pomodori, / la bilancia gliela reggeva / quella canaglia di sua zia. // Carnevale che sei andato e venuto / di quella cosa che ne hai fatto. / Moglie mia non ti prendere pena / l’ho conservata dentro i calzoni. // Carnevale è morto di notte / ha lasciato imbrogli dietro le porte. / Figlio Carnevale, figlio!) A Troina la lamentazione si collegava invece al tema del “testamento”. Il vecchio Cannaluvari non fa in tempo a ingozzarsi e lascia in eredità una tavola riccamente imbandita, auspice della futura abbondanza alimentare. La nenia (rrièpitu) si eseguiva nell’ultimo giorno di festa, attorno al fantoccio deposto per strada, sempre secondo modalità sonorogestuali intese a parodiare una lamentazione fune- bre. Riportiamo un testo raccolto da Pino Biondo dalla voce di uno fra gli ultimi testimoni delle antiche cerimonie carnevalesche del paese. Il modulo melodico presenta profilo discendente è contenuto entro una terza minore e rispecchia una stereotipia ampiamente riscontrabile nelle lamentazioni funebri reali (ES. MUS. 25)61: Eh fìgghiu miu, ggioia! E ccomu facimu senza di tia? E mmi lassasti a piciòcia nnô piattu, fìgghiu! I cadduna câ muddica macari, fìgghiu! Ie ddu bbieddu maiali c’ammazzasti mû lassasti, fìgghiu. Ddi cudduruna bbieddi mpiattati, fìgghiu! Oh fìgghiu! E ccom’ai’ê ffari senza di tia, fìgghiu! Oh fìgghiu! Ddi maccarruna, fìgghiu! Oh fìgghiu, fìgghiu! Ggioia mia Cannaluvari, tu eri u spassu dâ famìgghia! Oh ggioia! Oh! Cannaluvari fìgghiu, comu facimu senza di tia? Ah figghiu! Ddu bbeddu salami, fìgghiu! Dda pignuccata, fìgghiu! Ah fìgghiu miu, fìgghiu! La tàvula cunzata mi lassasti, fìgghiu! Comu èravu bbieddu, ggioia mia! Ah Cannaluvari miu! Ah Cannaluvari miu! (Eh figlio mio, gioia! / E come facciamo senza di te? / E mi hai lasciato la minestra nel piatto, figlio! / Pure i cardi con la mollica, figlio! / E il bel maiale che hai ammazzato me lo hai lasciato, figlio! / Quelle belle focacce nei piatti, figlio! / Oh figlio! / E come devo fare senza di te, figlio! / Oh figlio! / Quei maccheroni, figlio! / Oh figlio, figlio! / Gioia mia Carnevale, tu eri lo spasso della famiglia! / Oh gioia! Oh! / Figlio Carnevale, come facciamo senza di te! Ah figlio! / Quel bel salame, figlio! / Quella pignoccata, figlio! / Ah figlio mio, figlio! / Mi hai lasciato la tavola apparecchiata, figlio! / Com’eri bello, gioia mia! Ah Carnevale mio!) Il rovesciamento parodico delle cause del decesso (troppa salsiccia e troppo vino) ribalta tuttavia il senso del canto e suggerisce il valore rigenerante del riso e dell’eros in una festa che ancora oggi celebra, se non la rinascita della natura come era nei contesti agrari, almeno la gioia stessa di vivere. Il fatto di ricorrere ai tradizionali moduli espressivi del cordoglio è però una spia molto eloquente della arcaica ideologia sottesa alla pratica. Del vecchio Nannu ci si deve liberare, ma è meglio mediare l’i- 133 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) nevitabile trapasso con adeguati lamenti, anche se burleschi, così «Per un anno non parla più!», come recita la nenia che si intonava a Caltanissetta. È pertanto l’azione vivificatrice del riso a trasformare – come già rilevava Propp (1978: 189-190) – la morte in una rinascita: a garantire una sicura transizione dal vecchio al nuovo. ma Giallombardo. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 39. Rilevamento: Antillo (ME), 05/01/1993. Esecuzione: Sebastiano Mastroeni. Ricerca: S. Bonanzinga e Fatima Giallombardo. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 40. 9 Rilevamento: Calamònaci (AG), 28/03/1992. Esecuzione: Padre Mario Di Nolfo. Ricerca: S. Bonanzinga e Giovanni Moroni. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 38. 10 Note Sulle “celebrazioni della morte” nelle società tradizionali, si vedano tra gli altri: Van Gennep 1946 e 1981; De Martino 1975; Granet-Mauss 1975; Thomas 1976; Lombardi Satriani-Meligrana 1982; Huntington-Metcalf 1985; Hertz 1994; Buttitta 1995; Di Nola 1995a, 1995b. 1 Per alcune ricerche sui suoni delle campane relative all’area italiana, cfr. Comandini 1966, Nesti 1987, Biella 1989 e Stasi 1993; per la Sicilia si vedano: Pitrè 1882; Favara 1957/II: 581-582 (con trascrizioni musicali); Bonanzinga 1993b: 44-46, 80-81, 98-100. 2 Rilevamento: Isnello (PA), 12/04/1999. Esecuzione: Pietro Lanza e Sebastiano Mazzola. Ricerca: S. Bonanzinga e Vincenzo Ciminello. 3 Rilevamento: Mussomeli (CL), 30/03/1990. Testimonianza: Vincenzo Spina. Ricerca: S. Bonanzinga. 4 La distinzione secondo il sesso e l’età nell’annuncio pubblico del decesso mediante il suono delle campane viene a esempio illustrata da Van Gennep (1946/t. I: 691-696), che schematizza i diversi usi riscontrati in Francia, e più di recente da Jean-Claude Bouvier (2003), che concentra l’analisi sulle consuetudini adottate in Provenza. Per alcune considerazioni relative agli usi calabresi e sardi, assai prossimi a quelli rilevati in Sicilia, si vedano: Lombardi Satriani-Meligrana 1982: 24-25; Satta 1982: 285-287; Ricci 1996: 166-170. 5 In due note a pié di pagina Ciaccio specifica che: la diana – anche detta Pater Noster – consisteva in «alcuni tocchi di campana» suonati «al primo far del giorno»; l’Ave Maria si eseguiva «mezz’ora dopo il tramonto del sole»; l’appello «si suonava con tocchi separati» e la mota «con strascinio di tocchi». 6 Rilevamento: Mussomeli (CL), 30/03/1990. Esecuzione: Vincenzo Spina. Ricerca: S. Bonanzinga. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 41. 7 Rilevamento: Antillo (ME), 05/01/1993. Esecuzione: Padre Egidio Mastroeni. Ricerca: S. Bonanzinga e Fati8 134 Rilevamento: Sortino (SR), 02/09/2005. Esecuzione: Vincenzo Giampapa. Ricerca: S. Bonanzinga. Documenti sonori editi in Bonanzinga cd.2008: CDI/brani 38, 40, 42 e CDII/brano 1. 11 12 Cfr. nota 3. Cfr. nota 11. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.2008: CDI/brano 44. 13 Cfr. nota 10. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 48. 14 15 Cfr. nota 3. Rilevamento: Petralia Sottana (PA), 26/03/1995. Esecuzione: Giuseppe Macaluso. Ricerca: S. Bonanzinga e Rosario Perricone. Documenti sonori editi in Bonanzinga cd.1995: brani 46-47. 16 La nozione di suono-segnale è stata elaborata da Murray Schafer (1985: 22). Per un’applicazione al contesto tradizionale siciliano si veda Bonanzinga 1993b: 36-38, 79-110. 17 Tra gli studi sulla lamentazione funebre nel contesto euro-mediterraneo antico e moderno si vedano: Van Gennep 1946/t. I: 679-687; Toschi 1947 e 1952; Cirese 1951; Alexiou 1974; De Martino 1954 e 1975; Faranda 1992. Tra i contributi di interesse etnomusicologico si segnalano: De Martino 1975: 97-101 (analisi musicale di Diego Carpitella); Palombini 1989; Brailoiu 1993; Ricci 1996: 172-182. Per la Sicilia si vedano in particolare Bonanzinga 1995: 57-64 e Guggino 2004: 334-353. 18 Ahimè, com’è crollata la mia casa! / Com’è caduta e non s’alza più questa colonna! / E ora, chi me lo porta il pane? / E ora, chi me le semina le fave? / E ora, chi me li raccoglie i chierchi (varietà di legumi)? / E ora, chi li sfama questi figli? / Ahimè! chi gliela porta la notizia a Piana / Ahimè! chi li avvisa i parenti? / E chi ti piange, marito mio? / E chi ti piange e t’accompagna? / E chi viene sulla tomba? / Ahimè! come sei finito, marito mio! Ahimè! 19 Per ulteriori considerazioni riguardo ai diversi registri espressivi riscontrabili nelle lamentazioni funebri siciliane, cfr. Guggino 2004: 338-340. Si vedano inoltre i testi poetici di due lamenti funebri registrati da Antonino Uccello nel 1960 a Vizzini (CT) e a Canicattini Bagni (SR), trascritti e commentati da Gaetano Pennino (2004: 137140, 181-183, documenti sonori editi nei CD allegati al volume: I/29 e II/4). 20 Riguardo ai tentativi di normalizzazione del lamento funebre operati dalla Chiesa attraverso le prescrizioni sinodali, si vedano in particolare Cirese 1953 e CorrainZampini 1967. 21 Tra gli usi funebri in Sicilia ancora vitali, soprattutto nei centri minori, va ricordato almeno il pranzo (cùnsulu, cunsulatu) offerto alla famiglia in lutto da parenti o amici, secondo un codice cerimoniale che riafferma la profonda complementarietà esistente tra i fondamentali momenti delle nozze e della morte: «[…] la connessione è giustificata dai processi di congiunzione e di disgiunzione che inevitabilmente si accompagnano a questi passaggi obbligati della vita umana. […] Il banchetto matrimoniale e il consolo riflettono le dinamiche sociali sollecitate dalla formazione del nuovo nucleo familiare che afferma la vita e dall’evento doloroso che la nega, attraverso inversioni significative concernenti le tecniche di distribuzione e di consumo degli alimenti, oltre che la loro preparazione e qualità» (D’Onofrio 1992: 65). Per una più ampia analisi centrata sul valore simbolico degli alimenti nei contesti rituali siciliani si veda in particolare Giallombardo 2003a. 22 L’aristocratico palermitano menziona le sonorità “canoniche” dell’ufficio funebre, ricordando i “tocchi delle campane”, le “preci di misericordia” e le musiche bandistiche: «[…] anche ne’ nostri tempi bastantemente si osservò da’ Siciliani l’usanza di funerarsi i magnati, come i cittadini d’inferiore ordine, di processionare i cadaveri sino alla chiesa […] allora li monaci, frati, oltre alli sacerdoti parrocchiani, le confraternite e pie compagnie della città, ne formavano la condotta sotto i tocchi sempre delle campane a mortorio, alternandone con questi tocchi le preci di misericordia, implorate e cantate da bande e drappelli insieme di musici professori e strumentisti di fiato, procedenti immediati alla bara» (ed. mod. Villabianca 1989: 56). Rilevamento: Rosolini (SR), 24/03/1989. Esecuzione: Banda Comunale di Rosolini; voce femminile. Ricerca: Fabio Politi. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 42. Oltre che durante i funerali, i complessi bandistici eseguono l’intero repertorio delle marce funebri durante le processioni della Settimana Santa (cfr. infra). 25 Rilevamento: Sommatino (CL), 27/08/1988. Esecuzione: voce femminile. Ricerca: Antonella Corrado. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 43. 26 Rilevamento: Sommatino (CL), 10/01/2001. Esecuzione: Maria Selvaggio. Ricerca: Alberto Nicolino. Testimonianze parzialmente edite in Nicolino dvd.2006: sezione “Filmato” scena 4, sezione “Canti”, brano 10. Si ringrazia l’autore per avere reso disponibile la videoregistrazione originale. 27 Rilevamento: Calamònaci (AG), 16/12/1995. Esecuzione: Giuseppa Inga. Ricerca: S. Bonanzinga, Fatima Giallombardo e Rosario Perricone. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 42. Videoripresa conservata presso l’archivio del Folkstudio di Palermo. 28 Una trascrizione musicale di questa lamentazione funebre è stata eseguita dal musicista palermitano Giovanni Sollima (cfr. Guggino 2003: 342-343), che ha anche utilizzato il documento sonoro nell’ambito di una sua composizione intitolata I canti (ed. Sonzogno, Milano 1998, riprodotta in Guggino 2004: 386-389). Riguardo a questa singolare esperienza di rielaborazione di materiali musicali della tradizione orale siciliana si vedano le stimolanti osservazioni di Elsa Guggino (2004: 380-392). 29 23 Significativo riflesso di una ideologia arcaica della morte è l’impiego di espressioni quali fari na bbella festa (fare una bella festa) o chi bbella festa chi cci fìciru (che bella festa che gli hanno fatto) per riferirsi alla solennità con cui si è celebrato un rito funebre, che come le altre “feste” (matrimoni, battesimi, ecc.) deve essere adeguatamente immortalato con fotografie e filmati (cfr. Perricone 2000: 57). 24 Rilevamento: Sortino (SR), 25/11/2004. Esecuzione: Sofia Fontana (madre) e Pina Garofalo (figlia). Ricerca: S. Bonanzinga. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.2008: CDI/brano 43. 30 Riguardo all’attività degli orbi si vedano in particolare: Buttitta A. 1960; Guggino 1980, 1981, 1988; Bonanzinga 1993a, 1995. Documenti sonori sono contenuti in: Garofalo-Guggino d.1987; Lo Castro-Sarica cd.1993: brani 24-26; Bonanzinga cd.1995: brani 45, 49; Bonanzinga cd.1996b: brani 1, 2, 7, 9. 31 Va segnalato che per ‘novene’ (nnuveni, nnueni) si intendono sia le pratiche rituali consistenti in un ciclo di preghiere (recitate e cantate) svolte nei nove giorni antecedenti a una data ricorrenza festiva sia i lunghi canti devozionali suddivisi in parti o iurnati (giornate) da eseguirsi sempre nei nove giorni precedenti all’evento da celebrare. Si osserva quindi nel secondo caso una significativa coincidenza lessicale tra ‘occasione’ e ‘forma poetico-musicale’. 32 I testi delle orazioni – o diesille, sicilianizzazione di Dies irae, una delle “sequenze” della liturgia funebre – si 33 135 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) diversificavano a secondo dei destinatari. Più frequenti erano le diesille per figli, genitori e fratelli, ma non mancavano quelle dedicate a zii, nipoti, suoceri e cognati (cfr. Pitrè 1870-71/I: 37-38). Rilevamento: Palermo (rione Romagnolo), 24/10/1970. Ricerca: Elsa Guggino (Folkstudio di Palermo, bobina 83, brano 1). Documento sonoro edito in Garofalo-Guggino d.1987: brano A/6. 34 Si ringrazia Giuseppe Giordano per avere fornito la versione digitale della trascrizione musicale. 35 Rilevamento: Messina, 01/12/1991. Esecuzione: Felice Pagano (voce e violino); Domenico Santapaola (chitarra). Ricerca: S. Bonanzinga e Giuseppe Giacobello. Documenti sonori editi in Bonanzinga cd.1996b: brano 1 (prima giornata della “Novena dei Defunti”) e Bonanzinga cd.1995: brano 45 (“Orazione della madre morta”). 36 Cfr. nota 36. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1995: brano 49. 37 Quinta e sesta strofa di questa “orazione” sono variante di un testo riportato sia da Pitrè (1870-71: 63) sia da Vigo (1870-74: 401), che lo inserisce però tra le ninnananne di argomento religioso. 38 Rilevamento: Sortino (SR), 23/11/2000. Esecuzione: coro di voci miste. Ricerca: S. Bonanzinga. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.2008: CDI/brano 39. 39 Questo il commento di Gaetano Pennino, che ha di recente curato l’edizione discografica del documento sonoro: «La melodia, che presenta una forte stilizzazione di carattere struggente, sottolineata dall’ampiezza dei portamenti condotti dalle voci al registro acuto, anche nell’ambito di ampi spazi intervallari, si estende lungo tutto l’arco dell’andamento strofico, senza ripetizioni di microstrutture; il risultato espressivo è fortemente connotato da una impronta di carattere pietistico, quasi una contrizione arrendevole non priva di una retorica implorante ricorrente in molti componimenti di origine chiesastica» (2004: 152; CD allegato al volume I/36). 40 Tra le antologie discografiche specificamente dedicate alle tradizioni musicali della Settimana Santa in Sicilia, si segnalano: Guggino-Macchiarella d.1987; Macchiarella d.1989, cd.1996; Sarica d.1990; Garofalo-Guggino cd.1993; Fugazzotto-Sarica cd.1994; Biondo cd.2004. Si vedano inoltre: Bonanzinga cd.1996a, brani 13-19; Bonanzinga cd.1996b, brani 11-18; Acquaviva-Bonanzinga cd.2004, brani 26-29. Sui canti della Passione si vedano Macchiarella 1995a e Bonanzinga 2004. Per una più generale trattazione riguardo ai riti della Pasqua in Sicilia si vedano: Buttitta A. 1978, 1990; Giallombardo 1977, 1990, 2003a; Buttitta I. E. 1999, 2002. 41 136 A Palermo come a Messina gli orbi eseguivano la “novena dell’Addolorata” (nuvena d’Addulurata), tramandata sia nei libretti a stampa (cfr. a es. Carollo 1883) sia nei quaderni manoscritti custoditi dagli stessi suonatori (cfr. Guggino 1988: 36-37 e La Camera 1961: 8). Gli ultimi orbi palermitani eseguivano inoltre il Passio (Pàssiu), documentato già alla fine dell’Ottocento da Alberto Favara (1957/II: n. 681) e audioregistrato nel 1970 da Elsa Guggino (1988: 165-166; trascrizione musicale di Girolamo Garofalo e Gaetano Pennino in Guggino 1988: 183-189; documento sonoro riprodotto GarofaloGuggino d.1987: brano A/5). 42 Rilevamento: San Filippo Superiore (fraz. di Messina), 28/03/1991. Esecuzione: gruppo di bambini (voci e tabelle). Ricerca: S. Bonanzinga e Giuseppe Giacobello. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1996a: brano 13. 43 Rilevamento: Ventimiglia (PA), 02/04/1999. Esecuzione: confrati dell’Addolorata, detta anche Confraternita “dei Mastri” (voci, tromba e tamburo). Ricerca: Vincenzo Ciminello. 44 Rilevamento: Mirto (ME), 25/03/1999. Esecuzione: coro maschile (voci principali Vincenzo Lanuto, Salvatore Randazzo, Cirino Sapone). Ricerca: S. Bonanzinga. Una registrazione di questo canto venne realizzata nel 1954 da Alan Lomax e Diego Carpitella (cfr. CarpitellaLomax cd.2000: brano 27). 45 Rilevamento: Misilmeri (PA), 29/03/1997. Esecuzione: Giuseppe Saitta (voce) e confrati del SS. Sacramento (tabelle). Ricerca: S. Bonanzinga. 46 Rilevamento: Pachino (SR), 24/03/1989. Esecuzione: Giancarlo Cutrari (tamburo), Angelo Ricciarello (tromba). Ricerca: Claudia Giordano. 47 Rilevamento: Vìcari (PA), 14/04/1995. Esecuzione: Giorgio Peri (voce e tabella); Giuseppe Pecoraro (tamburo). Ricerca: S. Bonanzinga e Fatima Giallombardo. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1996b: brano 15. 48 I canti polivocali presentano una struttura ricorrente basata su principi armonici tonali derivati dal canto liturgico: un solista svolge la melodia e il coro realizza accordi diversamente costituiti in coincidenza delle cadenze intermedie e finali (cfr. Macchiarella 1995a, 1995b). La voce conduttrice, di solito caratterizzata da pregevoli melismi, ha anche il compito di enunciare il testo verbale. I diversi repertori locali comprendono un numero variabile di canti con testo in latino, siciliano e italiano. L’adozione di procedure musicali di ascendenza ecclesiastica e l’impiego di componimenti di frequente origine letteraria segnalano evidenti interferenze fra gli usi musicali di tradizione orale e i prodotti dell’alta cultura. 49 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia Rilevamento: Butera (CL), 21/04/2000. Esecuzione: Rocco Chiolo, Giuseppe Marsana, Rocco Sciascia, Gaetano Tinnirello (voci); Salvatore Cacioppo (tamburo), Fabio Guzzardella (tromba). Ricerca: S. Bonanzinga. 50 Rilevamento: Messina, 24/03/1989. Esecuzione: Angelo Ballarò e Giuseppe Ballarò (tamburi). Ricerca: S. Bonanzinga e Giuseppe Giacobello. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1996a: brano 15. 51 Rilevamento: Misilmeri (PA), 14/04/2006. Esecuzione: Vincenzo Lombardo e Vincenzo Saitta (tamburi). Ricerca: Giuseppe Giordano (cfr. Giordano 2006: 53-55). 52 Rilevamento: Palermo, 07/08/1991. Esecuzione: Maurizio Aucello e Onofrio Aucello (tamburi). Ricerca: S. Bonanzinga. 53 Rilevamento: Sant’Anna (fraz. di Caltabellotta, AG), 06/04/1996. Esecuzione: voci delle donne durante la processione. Ricerca: Giovanni Moroni e Rosario Perricone. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1996b: brano 16. 54 Documentazioni sonore di marce funebri eseguite durante le processioni della Settimana Santa si possono ascoltare in: Pennino-Politi d.1989: d.II/brano D; Garofalo-Guggino cd.1993: brano 8; Bonanzinga cd.2008: CDII/brano 4). 55 Riguardo alla diffusione dei funerali parodici in area euromediterranea si vedano tra gli altri: De Martino 1975: passim; Toschi 1976: 228-343; Propp 1978: 135190; Lombardi Satriani-Meligrana 1982: 44-50; Satta 1982: 117-125; Caro Barroja 1989: 101-138. Riguardo alla interpretazione delle cerimonie carnevalesche rilevabili in Sicilia si vedano in particolare Buttitta 2003 e Giallombardo 2003b. 56 È morto il Nannu, / il Nannu è morto, / fino al prossimo anno / non parla più! // Il Nannu è morto, / ha lasciato il mondo, / il gioco e il sollazzo / non tornano più. // È morto il Nannu / e batte il tocco [di campana], / fino al prossimo anno / non fiaterà più. 57 Rilevamento: Palermo (rione Zisa), 28/02/1995. Esecuzione: Francesco Argante (organizzatore della cerimonia). Ricerca: S. Bonanzinga e Fatima Giallombardo. Documento sonoro edito in Bonanzinga cd.1996a: brano 11. 58 Rilevamento: Messina (rione Paradiso), 03/09/2003. Testimonianza: Maria Costa. Ricerca: S. Bonanzinga. 60 Rilevamento: Troina, 1999. Esecuzione: Basilio Arona. Ricerca: Pino Biondo. Documento sonoro edito in Biondo cd.2002: brano 8. 61 137 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) Esempi musicali Le trascrizioni musicali inedite – eseguite da Santina Tomasello (ess. 4, 6; con la collaborazione di S. Bonanzinga ess. 2, 5, 7-9) e Alessandro Giordano (es. 1) – sono state effettuate ricorrendo alle normali risorse del pentagramma, opportunamente integrate dalla indicazione cronometrica della durata di ogni frase e dai seguenti segni diacritici: ↑ (più acuto della nota segnata); ↓ (più grave della nota segnata); → (più veloce del valore segnato); ← (più lento del valore segnato); , (presa di fiato); ¿ (nota a intonazione non ben determinata). La disposizione grafica di ogni trascrizione segue la struttura fraseologica. Ogni frase melodica corrisponde a un rigo di pentagramma: senza divisione in battute per andamenti ritmici liberi; utilizzando la mezza stanghetta per segnalare i ritmi tendenzialmente mantenuti e le barre di misura canoniche nei casi di ritmi rigidamente rispettati. Gli esempi 1-7 presentano struttura armonica tonale e pertanto le alterazioni sono indicate in chiave. Negli esempi 8 e 9 le alterazioni valgono per tutte le note della stessa altezza presenti nella frase. Per semplificare la lettura si è operata in due casi (ess. 6 e 9) la trasposizione in sol3 (l’indicazione dell’effettiva finalis precede la trascrizione). 1. Ritmi di tamburo per accompagnare la somministrazione del viatico Esecuzione: Francesco Maltese. Rilevamento: Salemi (TP), 1900 ca. Fonte: Favara 1957/II: 548-550. 138 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 139 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) 2. Ritmo delle campane per la commemorazione di un decesso Esecuzione: Vincenzo Spina. Rilevamento: Mussomeli (CL), 30/03/1990. Edizione: Bonanzinga cd.1995 (brano 41). 3. Ritmo delle campane per la commemorazione di un decesso Esecuzione: Mario Di Nolfo. Rilevamento: Calamònaci (AG), 28/03/1992. Edizione: Bonanzinga cd.1995 (brano 50). 4. Ritmo delle campane per annunciare il decesso di un bambino non battezzato Esecuzione: Giuseppe Macaluso. Rilevamento: Petralia Sottana (PA), 26/03/1995. Edizione: Bonanzinga cd.1995 (brano 46). 140 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 5. Lamentazione funebre Esecuzione: voce femminile. Rilevamento: Sommatino (CL), 27/08/1988. Edizione: Bonanzinga cd.1995 (brano 43). 6. Lamentazione funebre Esecuzione: Maria Selvaggio. Rilevamento: Sommatino (CL), 27/08/1988. Edizione: Nicolino dvd.2006 141 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) 7. Lamentazione funebre Esecuzione: Giuseppa Inga. Rilevamento: Calamònaci (AG), 16/12/1995. Edizione: Bonanzinga cd.1995 (brano 42). 8. Lamentazione funebre Esecuzione: Sofia Fontana e Pina Garofalo. Rilevamento: Sortino (SR), 27/11/2000. Edizione: Bonanzinga cd.2008 (disco I, brano 43). 142 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 9. Novena dei Defunti Esecuzione: Angelo Cangelosi (voce e chitarra), Rosario Salerno (voce e violino). Rilevamento: Palermo, 24/10/1970. Edizione: Garofalo-Guggino d.1987 (brano A/6). 143 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) 10. Orazione commemorativa della “madre morta” Esecuzione: Felice Pagano (voce e violino), Domenico Santapaola (chitarra). Rilevamento: Messina, 01/12/1991. Edizione: Bonanzinga cd.1996b (brano 45). 144 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 11. Orazione commemorativa del “bambino morto” Esecuzione: Felice Pagano (voce e violino), Domenico Santapaola (chitarra). Rilevamento: Messina, 01/12/1991. Edizione: Bonanzinga cd.1996b (brano 45). 12. Rosario per la commemorazione dei Defunti Esecuzione: coro di voci miste. Rilevamento: 23/11/2000. Edizione: Bonanzinga cd.2008 (disco I, brano 39). 145 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) 13. Richiamo dei bambini alla visita del “sepolcro” Esecuzione: gruppo di bambini (voci e tabelle). Rilevamento: San Filippo Superiore (fraz. di Messina), 28/03/1991. Edizione: Bonanzinga cd.1996a (brano 13). 14. Richiamo dei confrati durante il giro dei “sepolcri” Esecuzione: confrati dell’Addolorata (voci, tromba e tamburo). Rilevamento: Ventimiglia (PA), 02/04/1995. 146 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 15. Lamento per la morte del Cristo Esecuzione: coro maschile (voci principali Vincenzo Lanuto, Salvatore Randazzo, Cirino Sapone). Rilevamento: Mirto (ME), 25/03/1999. 16. Lamento per la morte del Cristo Esecuzione: Giuseppe Saitta e confrati del SS. Sacramento (voci e tabelle). Rilevamento: Misilmeri (PA), 29/03/1997. 147 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) 17. Richiamo itinerante nei giorni del triduo pasquale Esecuzione: Giancarlo Cutrari (tamburo), Angelo Ricciarello (tromba). Rilevamento: Pachino (SR), 24/03/1989. 18. Richiamo itinerante del Venerdì Santo Esecuzione: Giorgio Peri (voce e tabella); Giuseppe Pecoraro (tamburo). Rilevamento: Vìcari (PA), 14/04/1995. Edizione: Bonanzinga cd.1996b (brano 15). 19. Lamento per la morte del Cristo Esecuzione: Rocco Chiolo, Giuseppe Marsana, Rocco Sciascia, Gaetano Tinnirello (voci); Salvatore Cacioppo (tamburo), Fabio Guzzardella (tromba). Rilevamento: Butera (CL), 21/04/2000. 148 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 20. Ritmo dei tamburi per la processione del Venerdì Santo Esecuzione: Angelo Ballarò e Giuseppe Ballarò (tamburi). Rilevamento: Messina, 24/03/1989. Edizione: Bonanzinga cd.1996a (brano 15). 21. Ritmo dei tamburi per la processione del Venerdì Santo Esecuzione: Vincenzo Lombardo e Vincenzo Saitta (tamburi). Rilevamento: Misilmeri (PA), 14/04/2006. 149 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) 22. Ritmo dei tamburi per la processione del Venerdì Santo Esecuzione: Maurizio Aucello e Onofrio Aucello (tamburi). Rilevamento: Palermo, 07/08/1991. 23. Lamento per la morte del Cristo Esecuzione: voci di donne durante la processione. Rilevamento: Sant’Anna (fraz. di Caltabellotta, AG), 06/04/1996. Edizione: Bonanzinga cd.1996b (brano 16). 24. Lamento parodico per la morte del Carnevale Esecuzione: Domenica Saija (voce). Rilevamento: Messina, 09/02/1991. Edizione: Bonanzinga cd.1996a (brano 10). 150 Documentare Sergio Bonanzinga, Riti musicali del cordoglio in Sicilia 25. Lamento parodico per la morte del Carnevale Esecuzione: Basilio Arona (voce). Rilevamento: Troina, 1999. Edizione: Biondo cd.2002 (brano 8). 151 ARCHIVIO ANTROPOLOGICO MEDITERRANEO on line, anno XVII (2014), n. 16 (1) Riferimenti d. = edizione su disco in vinile cd. = edizione su disco compatto dvd. = edizione su disco video Acquaviva Rosario, Bonanzinga Sergio cd.2004 (a cura di), Musica e tradizione orale a Buscemi, con volume allegato, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione, Palermo. Alesso Michele 1917 Il Carnevale di Caltanissetta, Tip. Popolare, Acireale (Catania). Alexiou Margaret 1974 The ritual lament in Greek tradition, Cambridge University Press, London. Avolio Corrado 1875 Canti popolari di Noto. Studii e raccolta, Tip. Zammit, Noto; ried. con introduzione di A. Buttitta, Edizioni della Regione Siciliana, Palermo 1974. Barthes Roland 1964 Eléments de sémiologie, Seuil, Paris (trad. it. Elementi di Semiologia, Einaudi, Torino 1967). Biella Valter 1989 I suoni delle campane. 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