idee
Mauro Bonazzi
Eredità greche
Che si parli della Costituzione europea o della crisi economica, che ci
si interessi delle potenze mondiali emergenti o dei nuovi localismi – in
breve, quando ci occupiamo della nostra identità di italiani, europei,
occidentali – è immancabile trovare un riferimento alla comune eredità
greca. Almeno questo, è opinione condivisa, non solleva troppi problemi, mentre intorno tutto sembra cambiare (troppo) rapidamente. Ma
anche su questo piccolo punto le cose non sono così semplici. Certo,
si può parlare di «eredità greca»: ma cosa significa «greco»? Quando
si parla dell’eredità cristiana, o islamica o ebraica, il pensiero corre a
un testo sacro capace di fondare una fede comune. Nel mondo greco
manca qualcosa di analogo.
La Grecia che si studia a scuola, da Omero (VIII sec. a.C.) alla (presunta) chiusura della scuola filosofica di Atene per opera di Giustiano
(529 d.C.), copre un arco temporale di circa 1.300 anni. Ma si dimentica
troppo facilmente che per un altro millennio almeno la civiltà greca ha
continuato a fiorire in quell’infinita decadenza dell’impero bizantino,
fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453, quando numerosi dotti
sono approdati sulle coste italiane pieni di manoscritti greci, dando vita
al Rinascimento. E il riferimento all’impero bizantino, nient’altro che il
proseguimento dell’impero romano, serve a complicare ulteriormente
il problema, perché introduce un nuovo ospite, quel mondo latino che
spesso è visto in simbiosi con il mondo greco, e a volte no. Quando si
parla di eredità greca a che cosa si allude, allora?
Quello che i greci ci hanno trasmesso
Una tendenza ricorrente è quella dell’essenzialismo, in cui tutti questi
problemi – problemi che sono prima di tutto storici – in qualche modo
vengono spiegati a partire dall’adozione di una categoria «atemporale»,
quella di classicismo. Ma di nuovo in che cosa consiste questo classicismo, qual è l’essenza dell’eredità greca? E qual è il suo valore per noi?
La domanda è meno scontata di quanto appaia a prima vista.
Nell’opinione comune, però, l’impressione diffusa è che si tratti di doil Mulino 4/2014
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mande e precauzioni sostanzialmente superflue, interessanti magari
per discussioni erudite, ma poco utili per toccare il cuore del problema.
Perché è chiaro a tutti di che cosa si parla quando si parla dell’eredità
greca: quello che i greci ci hanno trasmesso, il filo rosso che ci ricollega a loro e che caratterizza propriamente la nostra civiltà, ciò che noi
siamo, è il logos, la ragione. Ecco in che cosa consiste, senza troppi
giri di parole, l’eredità greca, la cifra distintiva della civiltà occidentale.
Questa idea è così diffusa che non si sente quasi più l’esigenza di
discuterla – non si capisce perché si dovrebbe discuterla. Eppure, nel
nostro mondo contemporaneo, questa posizione, che la cifra dell’eredità greca consista nel razionalismo e che di eredità si possa parlare in
senso pieno perché questo, il razionalismo, è anche la cifra della civiltà
occidentale, è tutt’altro che banale, come si può facilmente verificare se
solo si pensa a come è stata sfruttata. Per farsene un’idea basta pensare
al problema dello scontro delle civiltà di cui tanto si è parlato negli
ultimi anni.
Accompagnata da veementi polemiche è stata, per esempio, la pubblicazione del libro di Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà1; e
ancora più violente sono state le polemiche che si sono scatenate, in
anni recenti, intorno al controverso Aristote au Mont-Saint-Michel2.
Considerare insieme due libri apparentemente così diversi – il primo
un verboso trattato di scienza politica, il secondo una ricerca storica
sulle traduzioni greco-latine in età medievale – può sembrare forzato.
Ma ciò che qui interessa non è entrare nel dettaglio delle tesi dei due
libri e delle polemiche che ne sono seguite. Quello che importa sottolineare in questa sede è ciò che i due libri danno per scontato: entrambi ruotano intorno alla convinzione che la cifra della civiltà grecocristiano-europea consista nel razionalismo. È questa l’eredità greca di
cui la tradizione cristiana seppe fare tesoro; ed è questa centralità della
ragione ciò che distingue la «civiltà» occidentale dal resto del mondo.
Il greco è il teorico, colui che si emancipa da credenze religiose e superstizioni, è il contemplativo che va al di là dei problemi meramente
pratici, e questa è la cifra della civiltà occidentale. Se si pensa che in
entrambi i casi la discussione mira anche a distinguere la civiltà greca,
cristiana e occidentale dal mondo islamico, è facile rendersi conto che
non si tratta di problemi teorici o astratti e ancora meno neutrali.
Razionalismo greco e civiltà occidentale
Il problema è stabilire che cosa sia questo «razionalismo» greco che costituirebbe la cifra della civiltà occidentale. L’idea di una «ragione» greca
non è una categoria eterna o astratta, ma ha un riferimento ben preciso: perché, se di logos si tratta, è chiaro che è della filosofia che siamo
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propriamente eredi. Si potrà discutere sull’attualità di Omero o Sofocle,
non già invece di quella di Platone e Aristotele: ecco individuate le
fonti autentiche da cui è fiorita la tradizione occidentale. Per capire che
cosa significa il razionalismo occidentale, basta dunque comprendere
il senso della filosofia di Platone e Aristotele.
Non è certo un compito semplice, ma almeno possiamo contare su
qualche valida guida: magari non Hungtington o Gouguenheim, che
non si preoccupano mai di chiarire che cosa intendono per razionalismo, ma altri sì, a partire da una figura tanto autorevole quanto può
essere papa Benedetto XVI, che ha fatto del confronto con la tradizione greca un momento centrale della sua riflessione teologica e culturale. Particolarmente significativo, in proposito, è il discorso tenuto a
Ratisbona il 12 settembre 20063: un discorso tristemente celebre per le
reazioni che aveva provocato nel mondo islamico (ancora una volta
il confronto con il mondo arabo!) a causa dell’infelice citazione di un
imperatore bizantino, e che invece avrebbe dovuto essere considerato
per altri motivi. Perché il problema, per dirlo con una battuta, non era
la sua presunta islamofobia, ma il suo filoellenismo.
L’obiettivo di quel discorso non era insomma biasimare la violenza
(tutta da dimostrare) degli arabi, ma celebrare la linea di continuità
tra mondo greco e civiltà cristiana. Su questo punto il discorso non
potrebbe essere più chiaro. La citazione del dotto imperatore bizantino
che tante polemiche ha suscitato è come un prologo che serve a escludere un’opzione per mostrare la necessità del suo opposto: non ci può
essere relazione tra Dio e la violenza, perché Dio è ragione. Ed ecco
che, uscite di scena le comparse (gli islamici che non hanno saputo
prestare la dovuta attenzione alla ragione…), fanno il loro ingresso i
due protagonisti. Il primo non ha quasi bisogno di essere menzionato:
si parla di ragione e questo ci rinvia evidentemente ai Greci. Quanto
al secondo, si tratta di verificarne il grado di aderenza al pensiero greco: «La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione
con la natura di Dio è soltanto un pensiero greco o vale sempre e
per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesta la profonda
concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in
Dio sul fondamento della Bibbia». Il secondo protagonista è dunque
il cristianesimo (il riferimento è ovviamente al Vangelo di Giovanni),
proprio perché più di ogni altro sistema di pensiero ha saputo fare
propria l’istanza razionale del pensiero ellenico sviluppando l’idea di
un «Dio veramente divino… che si è mostrato come logos e che come
logos ha agito e agisce». Le conseguenze, chiosa Ratzinger, non sono
certo di poco conto, non riguardano solo la storia delle religioni, ma
investono la «storia universale»: «questo incontro, al quale si aggiunge
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successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e
rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa».
Ora, questo testo mi sembra un documento di fondamentale importanza per comprendere più concretamente in che cosa consiste il «razionalismo» greco, nel senso che mostra in modo chiaro e consapevole
quello che Hungtinton e Gouguenheim danno per scontato. Quello
che conta non è banalmente il mondo greco nella sua interezza, ma
«ciò che è greco nel senso migliore» e questo è chiaramente la filosofia,
la filosofia di Platone e Aristotele: è una domanda di senso (a partire
dall’assunto che un senso ci deve essere nelle cose e nella realtà) che
culmina nell’indagine sulla causa prima. Ciò che l’eredità greca ci insegna è che il vero razionalismo non è lo scontro tra ragione e fede, è
al contrario l’unione di filosofia e teologia. Quello del logos è così un
discorso che conduce a Dio. Ed è questa comprensione che ci permette di capire ciò che noi realmente siamo, qualcosa di divino che va al
di là della mera materialità percepibile dai sensi: questa è l’eredità di
Platone e Aristotele.
Ancora una volta, quello che importa non è polemizzare o meno con
questa tesi, e sulla tesi complementare di come il cristianesimo completi e porti a perfezione le domande che i Greci avevano (o avrebbero)
lasciate inevase. Quello che importa in questa occasione è sottolineare
ciò che questo discorso ha in comune con le opinioni comuni sull’eredità greca. In questo senso il discorso di Ratisbona non dice niente
di nuovo, e sarebbe interessante confrontarlo con quanto della grecità
– cioè del platonismo – dicono ad esempio pensatori lontanissimi da
Joseph Ratzinger quali potrebbero essere Derrida, Deleuze e Foucault4:
cambiano i giudizi, non quello che s’intende per grecità. Questo è
quello che si pensa dell’eredità greca da secoli: l’eredità greca è Platone – e Aristotele, a condizione che si comprenda il senso recondito del
suo platonismo. Il discorso di Ratzinger del resto non fa che ripetere
in forma condensata i risultati raggiunti da uno degli studi più influenti
e giustamente famosi della grande Altertumswissenschaft tedesca di
inizio Novecento: l’Aristoteles di Werner Jaeger, un libro su cui resta
ancora molto da dire; celebre per l’ipotesi di un progressivo distacco di
Aristotele da Platone, a un livello più profondo esso mostra invece una
linea di continuità tra i due, nella misura in cui Aristotele, spostando il
piano della riflessione dall’ontologia alla teologia, avrebbe inverato il
senso ultimo della ricerca platonica, il suo «profondo nucleo di verità»5.
Come ha scritto giustamente Mario Vegetti6, l’Aristotele di Jaeger è un
Aristotele redento, vale a dire reinserito nell’alveo della tradizione che
da Platone conduce al Medioevo cristiano, che di questa percorso è
«conferma e compimento»7. Se si considera poi che sempre Jaeger ave704
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va riunito sotto l’egida dell’«umanesimo teocentrico» Platone, Aristotele,
Tommaso e Dante8, le somiglianze con il discorso del pontefice (che a
sua volta evidentemente si richiama alla tradizione scolastica) s’impongono da sole, senza con questo voler ricostruire influenze e linee di
dipendenza più o meno nascoste: si tratta solo di prendere atto della
diffusione di questo paradigma che fa culminare la tradizione greca
nella filosofia platonico-aristotelica e la filosofia platonico-aristotelica
nella teologia. Un’idea che Nietzsche aveva sarcasticamente riassunto
presentando il cristianesimo come un platonismo per il proletariato:
sarcasmo a parte, il giudizio di Joseph Ratzinger o quello di Werner
Jaeger non è molto diverso.
Il senso di un’alternativa
Il riferimento a Nietzsche ci aiuta a comprendere il problema storico dell’eredità greca: quanto è legittima questa costruzione? In questa
sede non è mia intenzione contestare il valore della tesi9, ma solo evidenziare un rischio: che questa idea passi come una verità atemporale.
Perché qui non ci sono verità atemporali ma un problema storico, che
si riassume nella seguente domanda: è legittima questa costruzione che
fa di Platone – di questo Platone – il culmine e la sintesi della civiltà
greca (o greco-romana)? Per essere tale, questa idea necessita di un
presupposto di una superiorità di Platone rispetto a tutti gli altri greci,
a partire dal primo e più famoso, l’Omero dell’Iliade e dell’Odissea. Se
è vero che Omero ecc. sono solo un primo (e fortemente incompleto)
passo, il discorso può avere un senso. Ma davvero è così? O non è forse
da prendere in considerazione la tesi di Nietzsche di una separazione
tra Omero e Platone?
Il problema non è di difendere la posizione di Nietzsche, quello che
lui presenterà come vera civiltà greca. Il problema è la legittimità della domanda. E la domanda mi sembra legittima: anzi mi sembra di
poter rispondere che non c’è un’evoluzione da Omero a Platone, ma
un’alternativa. Il problema allora è: se c’è, quale è questa alternativa?
A questo proposito qualche aiuto viene dal filosofo moderno che più
e meglio di altri si è interrogato sulla domanda di Nietzsche, Bernard
Williams. Mi riferisco in particolare a Vergogna e necessità, il risultato
di una serie di conferenze, le prestigiose Sather Lectures, tenute a Berkeley nel 1989, e a tanti altri interventi più specifici, ora raccolti nel
volume Il senso del passato10. Senza dubbio la posizione di Williams è
interessante e ci aiuta a capire il senso di questa alternativa, al di là della facile (e non sempre chiara) nozione di pessimismo: se la cifra del
platonismo consiste nella riduzione della molteplicità a un principio
unitario in grado di conferire ordine e senso, la tesi di fondo della tesi
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alternativa (che si ritrova in Omero, ma anche nei tragici, in Tucidide,
nei sofisti…) è la presa d’atto dell’assenza di senso, è la constatazione
che alla domanda di senso non c’è risposta, è l’accettazione della realtà
nella sua molteplicità e nel suo disordine, senza pretendere di individuare strutture di senso unitarie sottese, ma cercando di trovare un
modo per vivere in questo mondo11 (che è poi il progetto complessivo
di Williams: non dire veridicamente come stanno le cose, ma comprendere e dare senso – make sense – alle cose per come esse stanno
per noi)12. L’interesse della riflessione di Williams consiste nel fatto
che non pretende di farci tornare a vivere come Omero, ma nel fatto
che ci fa capire come affrontare questo problema. Più del pessimismo
si dovrebbe allora parlare di realismo – di un realismo possibile (che
evidentemente non nega il valore della ragione).
Ora, non è mia intenzione usare questa posizione per criticare l’altra,
osservando ad esempio che è questa visione quella forse più affine
al nostro modo di vedere le cose. In realtà, un’affermazione di questo tipo sarebbe potenzialmente scorretta, perché entrambe le «eredità»
sono vive e presenti nel nostro mondo (mica per tutti Dio è morto!).
Semplicemente, volevo mostrare una tensione storica che non manca
di una sua importanza al giorno d’oggi, quando il riferimento al mondo greco è fondamentale per definire la nostra identità rispetto ad altri
mondi. Perché un problema tipico della nuova identità europea è quello di un paradossale rinchiudersi in una visione troppo astrattamente
universalista che rischia di far perdere di vista la dimensione e i bisogni
concreti della vita degli uomini: è la tesi di un libro recentemente pubblicato dallo storico David Engels, Le déclin13. Ora, l’analisi di Engels è
sicuramente interessante ed è vero che costruire un’identità su valori
troppo universali rischia di essere contraddittorio. Ma questo non deve
neanche indurre a rinunciare a questi valori. La soluzione, una soluzione che potrebbe aiutare a meglio definire il problema dell’dentità
e della tradizione europea, sta più probabilmente nel mezzo, nella
capacità di integrare questi principi universali e astrattamente razionali
con una maggiore considerazione per i problemi concreti. In altre parole, la sfida sarebbe quella di non presupporre sempre il possesso di
principi assolutamente validi a partire da cui dedurre (o imporre) tutta
una serie di applicazioni pratiche, ma cercare di costruire soluzioni che
prendano in considerazione la molteplicità dei punti di vista. Ed è in
questo senso che anche l’altra Grecia, quella di Omero e dei sofisti, ha
qualcosa da dirci. Perché il problema non è soltanto chi siamo noi europei, noi occidentali, noi greci. Il problema è chi siamo noi uomini. E
le tensioni del mondo greco, anche se non offrono una risposta, o forse
proprio perché non offrono una risposta, aiutano a capire il problema.
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Eredità greche
S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, London, Simon & Schuster, 1996; trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 2000.
1
S. Gouguenheim, Aristote au Mont-Saint-Michel. Les racines grecques de l’Europe chrétienne, Paris,
Seuil, 2008; il libro è stato tradotto in italiano da Rizzoli nel 2009 con un titolo fuorviante, Aristotele
contro Averroè. Come cristianesimo e Islam salvarono il pensiero greco, il che spiega almeno in parte
perché, mentre in Francia infuriava la polemica, dalle nostre parti ben pochi se ne siano interessati.
Una discussione molto istruttiva sul libro di Gouguenheim si legge negli articoli raccolti in P. Büttgen,
A. De Libera, M. Rashed e I. Rosier-Catach (a cura di), Les Grecs, les Arabes et nous. Enquête sur l’islamophobie savante, Paris, Fayard, 2009.
2
3
Disponibile su www.vatican.va.
F. Wolff, Trios. Deleuze, Derrida, Foucault, historiens du platonisme, in B. Cassin (a cura di), Nos
Grecs et leurs modernes, Paris, Seuil, 1992, pp. 232-248.
4
W. Jaeger, Aristotele. Prime linee di una storia della sua evoluzione spirituale, trad. it. Firenze, La
Nuova Italia, 1947, p. 516.
5
6
M. Vegetti, L’Aristotele redento di W. Jaeger, «Il Pensiero» 17, 1972, pp. 9-50.
7
W. Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1961, pp. 2, 10-11.
W. Jaeger, Humanism and Theology, in Humanistische Reden und Vorträge, Berlin, de Gruyter, 1960,
pp. 300-334 (spec. 313-316).
8
Quello che si deve contestare con forza sono gli usi ideologici della tesi, come quelli di Gouguenheim: cfr. B. Dufal, Faire et defaire l’histoire des civilisations, in Les Grecs, les Arabes et nous, cit., p. 322.
9
10
B. Williams, Vergogna e necessità, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2007 (ed. or. Shame and Necessity,
Berkeley-Los Angeles-Oxford, University of California Press, 1993); Il senso del passato. Scritti di storia
della filosofia, Milano, Feltrinelli, 2009 (ed. or. The Sense of the Past. Essays in the History of Philosophy,
Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2006).
11
Si considerino ad esempio queste affermazioni, prese dal capitolo finale di Vergona e necessità:
«Platone, Aristotele, Kant e Hegel sono tutti dalla stessa parte, poiché credono tutti, in una maniera o
nell’altra, che l’universo o la storia o la struttura della ragione umana possa, quando compresa appropriatamente, fornire un modello che dà senso alla vita e alle aspirazioni umane. Sofocle e Tucidide,
al contrario, sono simili perché ci lasciano senza una tale convinzione. Ciascuno di loro rappresenta
esseri umani che hanno a che fare in maniera sensibile, folle, talvolta catastrofica, talvolta nobile, con
un mondo che è solo parzialmente intelligibile all’agente umano e non è in se stesso ben armonizzato
con le sue aspirazioni etiche» (p. 186); «Ci troviamo in una condizione etica che va la di là non solo
del cristianesimo, ma anche della sua eredità kantiana e hegeliana. […] Sappiamo che il mondo non
è stato fatto per noi, né noi per il mondo, che la nostra storia non ha uno scopo e che non c’è un
posto al di fuori del mondo o della storia dal quale potremmo rendere autentiche le nostre azioni. […]
Dal punto di vista etico oggi siamo, nella nostra situazione etica, più vicini agli uomini del passato di
quanto lo siano mai stati nel corso del tempo gli uomini occidentali. E in particolare, siamo come quei
greci che nel V secolo, e ancora prima, non erano stati influenzati da quei noti tentativi, fatti da Platone e Aristotele, di rendere le nostre relazioni etiche con il mondo pienamente intelligibili» (p. 188).
12
Cfr. S. Veca, L’idea di incompletezza, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 55.
D. Engels, Le déclin. La crise de l’union européenne et la chute de la république romaine. Analogies
historiques, Paris, Éditions du Tucan, 2013.
13
Mauro Bonazzi insegna Storia della filosofia antica all’Università di Milano. Tra le sue pubblicazioni,
per Carocci, I sofisti (2010); mentre per Einaudi ha curato il Menone di Platone (2010).
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