Entia Successiva
Achille C. Varzi
Department of Philosophy, Columbia University, New York
(Pubblicato in Rivista di estetica 22:1 (2003), 139–158)
1. Introduzione
Oggi il tavolo della cucina è sporco. Ieri il tavolo era pulito. Come è possibile,
se stiamo parlando del medesimo oggetto? Come può uno stesso oggetto godere
di proprietà diverse, addirittura incompatibili, come essere pulito ed essere
sporco?
Evidentemente, la risposta intuitiva è che qualcosa è cambiato. Il tavolo che
è sporco è numericamente lo stesso oggetto del tavolo che era pulito, ma qualitativamente è diverso. La sua identità si è conservata, ma le sue qualità sono cambiate. Questa risposta è intuitiva in quanto corrisponde alla concezione del senso
comune, secondo la quale gli oggetti materiali—e anche gli organismi viventi, come gli alberi o le persone—possono acquistare nuove proprietà e perderne di
vecchie senza con ciò cessare di essere quello che sono. Purtroppo, sappiamo
anche che questa concezione si scontra con difficoltà concettuali molto serie,
sulle quali i filosofi hanno dibattuto sin dai tempi di Eraclito. Tanto per cominciare, non è chiaro in che misura la distinzione tra identità numerica e identità
qualitativa costituisca una spiegazione del fenomeno in esame, piuttosto che una
semplice ridescrizione del problema. In secondo luogo, supponendo che una
spiegazione più profonda debba in qualche modo passare attraverso una relativizzazione temporale delle proprietà (il tavolo è-pulito-ieri e è-sporco-oggi), resta da chiarire i meccanismi metafisici sottostanti tale relativizzazione. E questo
si rivela un problema almeno tanto spinoso quanto quello di partenza. In terzo
luogo, anche assumendo risolte queste complicazioni, non è detto che ne derivi
una soluzione di altri problemi che sembrano affliggere la concezione intuitiva
degli oggetti materiali. Ne cito alcuni:
1. Supponiamo che durante la notte una particella di legno si stacchi dal tavolo. Chiamiamo ‘Alfa’ il tavolo che si trovava in cucina ieri, ‘Beta’ la parte
propria di Alfa che comprende ogni sua parte ad eccezione della particella che in
seguito si è staccata, e ‘Gamma’ il tavolo che si trova in cucina oggi. Evidente1
mente vorremmo poter dire che Alfa e Gamma sono numericamente identici, a
dispetto della piccola variazione qualitativa (e precisamente: mereologica) occorsa durante la notte. Proprio questa è l’intuizione di cui vogliamo render conto: un
tavolo può tranquillamente perdere una piccola particella, proprio come può
sporcarsi, senza con ciò cessare di essere quello che è. Si tratta in fondo di variazioni insignificanti. Tuttavia vorremmo poter dire che anche Beta è identico a
Gamma, poiché sono costituiti esattamente dalla medesima quantità di legno,
hanno esattamente la stessa forma, e così via. (È del resto ragionevole supporre
che la persistenza di un oggetto—in questo caso Beta—non dipenda affatto da
ciò che accade a un altro oggetto con cui il primo non ha alcuna parte in comune—in questo caso la particella staccatasi durante la notte.) Queste due intuizioni, però, sono contraddittorie, poiché implicano che anche Alfa e Beta siano numericamente identici, mentre è chiaro che non lo sono: Beta è una parte propria
di Alfa, occupa una regione di spazio leggermente più piccola, ha un peso leggermente inferiore, e così via. Quindi, se vogliamo insistere sull’identità numerica
tra Alfa e Gamma, dobbiamo rinunciare all’identità numerica tra Beta e Gamma.
E questo contraddice un’altra intuizione che sembra far parte della comune concezione degli oggetti materiali: l’intuizione per cui due oggetti materiali distinti
non possono occupare la medesima regione di spazio nello stesso momento. (In
questo momento in cucina c’è un solo oggetto, non due.).1
2. Supponiamo che il processo continui: man mano che passano le ore, le
particelle di cui è costituito il tavolo si staccano e il tavolo perde gradualmente
forma, sino a scomparire del tutto. Detta diversamente, abbiamo una sequenza di
oggetti x1, ..., xn, ciascuno dei quali è ottenuto da Alfa rimuovendo una dopo
l’altra le particelle di legno che lo costituiscono (l’elemento iniziale della sequenza, x1, coincide con Alfa stesso, mentre l’elemento terminale, xn, coincide con
l’ultima particella, chiamiamola Delta). Evidentemente, se vogliamo insistere
sull’identità numerica tra x1 e x2, vorremmo poter dire che anche x2 e x3 sono numericamente identici, e anche x3 e x4, e così via fino a xn. In fondo, se una particella non fa differenza all’inizio del processo, non farà differenza nemmeno durante le fasi successive. Ma poiché l’identità è una relazione transitiva, questo ci
costringe a dire che x1 è numericamente identico a xn, ovvero che Alfa e Delta sono la stessa cosa. E questo è assurdo. 2
1
Il caso illustrato è una variazione del problema discusso in Wiggins (1968), peraltro già
noto agli stoici (vedi Sedley 1982 e Sorabji 1988, §1.6).
2
Il caso illustrato è una variazione del cosiddetto paradosso del mucchio (vedi Sainsbury e
Williamson 1997 per una rassegna), il cui imbarazzo ontologico è stato enfatizzato soprattutto in
una serie di articoli di Unger (1979a, 1979b, 1979c).
2
3. Supponiamo che il processo prosegua diversamente. Man mano che le
particelle si staccano da Alfa, le sostituiamo con delle nuove particelle (del tutto
simili alle originali). Dopo n sostituzioni, ci ritroviamo con un tavolo, Epsilon,
del tutto simile ad Alfa ad eccezione della sua costituzione materiale, che è interamente cambiata. Detta diversamente, in questo caso abbiamo una sequenza di
oggetti y1, ..., yn, dove y1 = Alfa e yn = Epsilon, ciascuno dei quali è ottenuto da
Alfa sostituendo n–1 particelle originali con delle nuove particelle in maniera da
conservare la struttura iniziale. Anche in questo caso, se vogliamo insistere
sull’identità numerica tra y1 e y2, vorremmo poter dire che anche y2 e y3 sono numericamente identici, e anche y3 e y4, e così via. In fondo si tratta di variazioni
insignificanti. Quindi, poiché l’identità è una relazione transitiva, diremo che y1 è
numericamente identico a yn, ovvero che Alfa e Epsilon sono lo stesso tavolo.
Fin qui tutto bene. A questo punto però supponiamo di ricomporre tutte le particelle che poco per volta si sono staccate, e supponiamo di farlo in modo da rispettare esattamente la struttura originale: otterremo così un tavolo, Zeta, in tutto e per tutto simile ad Alfa. Anzi, in un certo senso Zeta è più simile ad Alfa di
quanto non lo sia Epsilon: è infatti perfettamente indiscernibile da Alfa, non solo
nella forma ma anche nella costituzione materiale. Siccome però Epsilon e Zeta
sono diversi, ci troviamo dinnanzi a un dilemma: rinunciare all’intuizione iniziale,
secondo cui la variazione qualitativa non interferisce con l’identità numerica, ovvero rinunciare all’intuizione per cui l’indiscernibilità è sufficiente per l’identità
numerica. E anche questa intuizione sembra far parte della comune concezione
degli oggetti materiali.3
Si potrebbe continuare, ma questi esempi dovrebbero essere sufficienti a
mostrare in che misura la concezione del senso comune da cui siamo partiti—secondo la quale gli oggetti ordinari possono mutare senza con ciò cessare di essere
quello che sono—si scontri con problemi concettuali molto profondi. Non è detto che si tratti di problemi insormontabili, e la tradizione filosofica occidentale ha
dedicato ampie risorse alla ricerca di una loro soluzione. Ciononostante, questo
stato di cose ha indotto un numero crescente di filosofi a concludere che la concezione in questione è semplicemente incoerente, e che per evitare difficoltà come quelle che abbiamo appena passato in rassegna è necessario abbandonare il
senso comune e rivedere in maniera sistematica le nostre intuizioni in merito alla
natura degli oggetti materiali e alle loro condizioni di persistenza nel tempo. Soprattutto negli ultimi anni, questa linea di condotta ha portato alla formulazione
3
Il caso illustrato è una variazione del vecchio problema della nave di Teseo, di cui si ha
già una buona formulazione nelle Vite Parallele di Plutarco (“Teseo”, 23.1). La complicazione
derivante dalla ricomposizione delle parti originali è però dovuta a Hobbes (De corpore, xi.7).
3
di diverse teorie intorno alle quali si è sviluppato un dibattito filosofico molto
intenso, ed è a questo dibattito che qui intendo fare riferimento.4
2. Oltre il senso comune
Tra le teorie principali, quella che forse sta riscuotendo maggior successo è una
teoria che almeno in parte si ispira all’immagine del mondo restituitaci dalle
scienze fisiche, immagine con la quale il senso comune deve comunque fare i conti. Secondo questa teoria—che affonda le radici in autori come Whitehead, Russell e Quine, ma che ha trovato piena espressione soprattutto a opera di filosofi
come David Lewis, Mark Heller e Ted Sider5—l’errore di partenza consiste nel
considerare la persistenza temporale come una sorta di inerzia esistenziale, identificando le condizioni di persistenza di un oggetto con le condizioni nelle quali
esso continua ad esistere (e ad essere quello che è). Più precisamente, l’errore sta
nel concepire gli oggetti come entità tridimensionali che si estendono nello spazio
ma permangono nel tempo. Per contro, la teoria in questione riflette una concezione quadridimensionalista stando alla quale la persistenza degli oggetti non è
altro che la loro estensione nel tempo: essi persistono in quanto si protraggono
nel tempo, e possono quindi cambiare nel corso del tempo nello stesso senso in
cui possono cambiare lungo una qualsiasi direzione spaziale. Diciamo di un medesimo tavolo che è sporco a destra ma non a sinistra in quanto c’è una parte
spaziale del tavolo (quella di destra) che è sporca e un’altra parte che non lo è;
analogamente diremo del tavolo in cucina che è sporco oggi ma non ieri in quanto
c’è una «parte temporale» del tavolo (quella odierna) che è sporca e un’altra parte che non lo è. Fine del discorso. Non serve appellarsi a una misteriosa relativizzazione temporale delle proprietà; basta tener conto della struttura temporale
degli oggetti.
Naturalmente occorre un certo sforzo di immaginazione per riuscire a concettualizzare un tavolo come un oggetto esteso anche nel tempo6, ma come dicevo si tratta di uno sforzo che trova sostegno nell’immagine scientifica del mondo.
In particolare, l’idea che gli oggetti siano entità a quattro dimensioni trova un certo supporto nel linguaggio della teoria speciale della relatività, dove relazioni
temporali come «prima di adesso» non presentano in linea di principio caratte-
4
Per una introduzione alle posizioni principali rimando al capitolo 5 di Varzi (2001a).
Vedi ad es., nell’ordine, Whitehead (1929), Russell (1927), Quine (1960), Lewis (1986),
Heller (1990), e Sider (2001).
6
Non manca chi ha definito l’ipotesi quadridimensionalista un «pantano metafisico» (Hacker 1982, p. 4) o addirittura una «metafisica folle» (Thomson, 1983, p. 210).
5
4
ristiche diverse da relazioni spaziali come «a destra di qui», e dove la nozione
stessa di «simultaneità» perde di significato.7 (Se la simultaneità delle parti spaziali è relativa, non ha senso dire di un oggetto che è interamente presente in ogni
momento in cui esiste, come vuole la teoria tridimensionalista.) Indipendentemente da queste considerazioni, ciò che fa della teoria quadridimensionalista una
seria alternativa alla concezione tridimensionalista propria del senso comune è il
fatto che essa consente di risolvere in maniera semplice e sistematica i problemi
concettuali che affliggono quest’ultima. Con riferimento alle difficoltà menzionate nella sezione precedente, per esempio, il quadridimensionalista avrà gioco facile a fornire una soluzione. Dinnanzi al rompicapo numero 1, si tratta semplicemente di identificare Alfa con la parte del tavolo corrispondente alla giornata di
ieri, Gamma con la parte del tavolo corrispondente alla giornata di oggi, e Beta
con quella parte del tavolo che ieri era propriamente inclusa in Alfa e oggi coincide con Gamma: nel momento in cui la particella di legno si stacca dal tavolo, Beta
si trova a occupare esattamente la regione di spazio occupata dal tavolo intero,
mentre prima ne occupava soltanto una parte propria. Dal punto di vista quadridimensionalista questa analisi non presenta alcun problema e non comporta moltiplicazioni ontologiche di sorta, non più di quanto ve ne siano nel dire che a partire da un certo punto (nei pressi di Vigevano) la parte lombarda del Ticino viene
a coincidere con il fiume nella sua interezza. Quanto al rompicapo numero 2, la
soluzione della teoria quadridimensionale è puramente semantica. Il processo
consistente nella perdita graduale di particelle da parte del tavolo Alfa ci consente di individuare molti oggetti quadridimensionali che potrebbero a buon diritto
reclamare il titolo di referente ufficiale del termine ‘Alfa’ (una per ogni modo di
selezionare un istante che corrisponda alla «fine» di Alfa) e quale di questi oggetti sia effettivamente il referente del nostro termine è semplicemente indeterminato: le nostre pratiche linguistiche non sono raffinate al punto tale da risolvere la
questione. In altre parole, la prospettiva quadridimensionalista consente di trattare il problema in maniera del tutto analoga a quei casi in cui sono i confini spaziali ad essere imprecisi: ci sono molteplici regioni di terreno che potrebbero a
buon diritto reclamare il titolo di referente ufficiale di un nome come ‘Cervino’,
ciascuna delimitata da confini ben determinati, ma la semantica di questo nome
non è precisa al punto tale da selezionare un candidato al di sopra di tutti.8 Infine, anche la diagnosi del rompicapo numero 3 si basa su una sua ricostruzione in
chiave eminentemente semantica. Una volta che si accetti la concezione quadri7
Sui legami tra quadridimensionalismo e teoria della relatività rimando a Balashov
(1999, 2000) e al testo ormai classico di Smart (1972).
8
Su questo punto rimando a Varzi (2001b).
5
dimensionalista, non ha senso chiedersi quale tra i due tavoli finali, Epsilon e Zeta, sia da identificarsi col tavolo iniziale, Alfa. Se intendiamo parlare delle parti
terminali di due oggetti, allora è chiaro che entrambi vanno distinte dal tavolo di
partenza, comunque lo si voglia concepire. Se invece intendiamo parlare dei due
oggetti nella loro interezza quadridimensionale—due oggetti che alla fine del processo sono a forma di tavolo ma che hanno parti temporali molto diverse—allora
il problema diventa: a quale di questi due oggetti ci riferiamo quando parliamo del
tavolo iniziale? Presumibilmente le nostre pratiche linguistiche tendono a favorire
Epsilon, cioè quello le cui parti temporali intermedie sono legate fra loro da un
robusto nesso di continuità e similarità, e che condividono l’importante proprietà
di essere tutte a forma di tavolo (le parti temporali di Zeta, il tavolo ottenuto ricomponendo le particelle che si staccano da Alfa, non godono di questa proprietà
se non verso la fine del processo). Tuttavia questa preferenza non avrebbe mordente metafisico: entrambi gli oggetti farebbero parte del mondo, entrambi avrebbero una propria forma e una propria identità, e l’unica differenza risiederebbe
nella nostra propensione a selezionare il primo quale oggetto di riferimento
quando parliamo del tavolo iniziale. In effetti è abbastanza comune tra i quadridimensionalisti non porre alcuna restrizione sul novero degli oggetti ammissibili:
in linea di principio ogni regione dello spazio-tempo —«per quanto sconnessa e
irregolare», precisava Quine9—può corrispondere a qualcosa, sebbene alcune entità siano più omogenee di altre e per questa ragione occupino una posizione di
maggior rilievo nella nostra vita quotidiana e nel nostro sistema linguistico. Per
un quadridimensionalista le differenze ci sono ma sono, appunto, di ordine cognitivo o di natura semantica, non metafisica.
Non intendo qui addentrarmi ulteriormente nei dettagli della concezione
quadridimensionalista.10 Si tratta evidentemente di una teoria molto potente che
tuttavia ripropone senza mezzi termini una difficile questione di ordine metodologico: fino a che punto i rompicapi di cui si occupa la metafisica degli oggetti
materiali sono in realtà problemi attinenti esclusivamente alla sfera semantica (o
cognitiva in senso lato)? C’è ancora spazio per disquisizioni genuinamente metafisiche o si tratta semplicemente di fare chiarezza sul nostro apparato linguisticoconcettuale, sul nesso semantico che unisce queste parole ad alcune di quelle entità? E questa è, appunto, una questione complessa che in questa sede vorrei lasciare sullo sfondo.11 Piuttosto, vorrei qui concentrarmi su due altre teorie che in
9
Quine (1960), p. 212 tr. it
Per un approfondimento rinvio ai testi di Sider (1997, 2001) e Hawley (2001). Alcune
complicazioni tecniche sono discusse in Van Inwagen (1990b) e Varzi (2003b).
11
Alcuni aspetti della questione sono esaminati in Casati (2003).
10
6
anni recenti hanno guadagnato una posizione di rilievo nel dibattito sulla natura
degli oggetti materiali e che si presentano come delle varianti delle due teorie che
abbiamo visto sinora.
La prima è una parziale rivendicazione dell’idea di fondo su cui si regge la
concezione del senso comune, ovvero l’idea per cui gli oggetti sono entità tridimensionali che permangono nel tempo. Secondo questa teoria—la cui formulazione più articolata si deve a Roderick Chisholm, ma che affonda le sue radici negli scritti sull’identità personale di filosofi come Butler e Hume12—gli oggetti
materiali di cui è costituito il mondo sono effettivamente entità di questo tipo.
Tuttavia la teoria nega che gli oggetti ai quali facciamo riferimento nel nostro quotidiano commercio col mondo, come il tavolo da cucina dei nostri esempi, siano
oggetti materiali veri e propri. Secondo la teoria in questione—che da questo
punto di vista si avvicina all’immagine scientifica del mondo—quando parliamo
di un tavolo stiamo semplicemente parlando di particelle disposte-a-forma-ditavolo. In secondo luogo, quando instauriamo un legame di identità diacronica tra
ciò chiamiamo ‘questo tavolo’ in due circostanze diverse dobbiamo distinguere
tra una nozione «stretta e filosofica» di identità e una nozione «ampia e popolare».13 Nel primo senso l’asserzione di identità è probabilmente falsa, poiché è
probabile che ci si stia riferendo a due diversi agglomerati di particelle (qualche
particella si è staccata; qualche altra si è aggregata). Nel secondo senso
l’asserzione di identità può essere vera (ammesso che sussistano i requisiti legami di continuità e omogeneità cui abbiamo già accennato con riferimento alla teoria quadridimensionalista), ma non si tratterebbe di identità in senso proprio in
quanto le entità di cui si sta parlando non sono entità reali. Si tratterebbe piuttosto di costruzioni fittizie costituite da «sequenze» di entità reali: sequenze di particelle disposte-a-forma-di-tavolo che in momenti successivi fanno
le veci di ciò che, nelle due circostanze, chiamiamo ‘questo tavolo’; entia successiva la cui omogeneità interna attrae la nostra attenzione al punto da indurci a
identificarne i membri attribuendo loro un’identità individuale quando in realtà
abbiamo a che fare con entità diverse, un po’ come diversi sono a ben vedere i
gruppi di persone che costituiscono una squadra di calcio in momenti successivi
della sua storia (senza che ciò ci induca a cambiare continuamente il nome della
squadra) o gli agglomerati di puntini illuminati che sullo schermo cinematografico
12
Vedi Chisholm, (1976). Di Butler vedi la dissertazione incluse ne L’analogia della religione e di Hume il capitolo i.iv.6 del Trattato. In certa misura, l’idea si ritrova già negli scritti di autori come Malebranche (specialmente il Trattato) o i grammatici di Port-Royal (Logique,
2-xii).
13
Chisholm, (1969).
7
corrispondono all’immagine di un cavallo in corsa (senza che ciò ci impedisca di
parlarne come di una stessa immagine che si sposta). Naturalmente si potrebbero
distinguere tra forme moderate e forme estreme di questo punto di vista, a seconda che si voglia applicare lo statuto di entia successiva soltanto a oggetti come i tavoli e le squadre di calcio (degli artefatti) o anche ad altri oggetti più «naturali», animali e persone incluse.14 Potremmo inoltre distinguere forme più o meno
radicali a seconda che si voglia riconoscere diritto di cittadinanza ontologica soltanto alle particelle—o a qualunque cosa svolga funzioni analoghe—oppure anche ai loro aggregati mereologici: non gli aggregati diacronici corrispondenti agli
entia successiva bensì gli aggregati sincronici di cui le particelle sono parti spaziali, indipendentemente dalla loro configurazione geometrica (oggi disposte-aforma-di-tavolo, domani sparse dappertutto).15 Ma queste opzioni non intaccano l’idea di fondo: per un filosofo di tale orientamento gli entia successiva sono
entità fittizie che non fanno parte dell’arredo del mondo che ci circonda, anche se
spesso è proprio ad esse che intendiamo riferirci col pensiero o con le parole.
La seconda teoria può essere vista come una variante della teoria degli entia
successiva.16 A differenza della versione che abbiamo appena delineato, tuttavia,
questa variante nega completamente che vi siano entità che persistono nel tempo.
Tutti gli oggetti ai quali è lecito riconoscere dignità ontologica—incluse le entità
primarie che secondo la prima versione vanno a formare gli entia successiva del
senso comune—sono entità puramente momentanee: esistono per un istante e
poi scompaiono per sempre. E quando parliamo di entità persistenti nel tempo
parliamo sempre di entità fittizie che propriamente non fanno parte dell’arredo
del mondo: vere e proprie «processioni» di entità istantanee che si susseguono
una dopo l’altra. In altre parole, mentre la teoria chisholmiana degli entia successiva costituisce una sorta di compromesso tra l’intuizione fondamentale secondo
cui ciò che esiste persiste e la constatazione filosofica secondo cui non tutto ciò
di cui parliamo esiste in senso stretto, questa variante della teoria sacrifica interamente l’intuizione a favore di una metafisica radicalmente revisionista. Mentre
nella prima teoria il tavolo che si trova in cucina è una sequenza di aggregati di
particelle diverse che in momenti diversi della propria esistenza si dispongono-aforma-di-tavolo (e che in altri momenti possono disporsi-a-forma-di-sedia o
semplicemente disperdersi nell’ambiente: inutile sperare di ricostruirne la biogra-
14
Chisholm optava per la posizione moderata.
Chisholm optava per la seconda posizione ma vi sono autori più recenti, come Van Inwagen (1990a) e Merricks (2001), che preferiscono la prima opzione fatto salvo per quegli aggregati che costituiscono «entità viventi».
16
La teoria è discussa ampiamente in Sider (1996, 2000).
15
8
fia), nella seconda teoria il tavolo è una sequenza costituita da aggregati di particelle che sono diverse in quanto si susseguono nel tempo, e che per il breve istante in cui fanno capolino nel mondo si dispongono-a-forma-di-tavolo.
Entrambe le teorie implementano quindi una concezione per così dire «sequenzialista» degli oggetti del senso comune, ed è facile intuire che in entrambi i
casi i rompicapi filosofici di cui abbiamo parlato in apertura non sono che la manifestazione di quell’inevitabile tensione che viene a crearsi quando inavvertitamente mescoliamo l’immagine «stretta e filosofica» del mondo con l’immagine
«ampia e popolare» alla quale facciamo riferimento nelle nostre pratiche quotidiane. Si tratta, tuttavia, di due implementazioni significativamente diverse
dell’idea sequenzialista. Ed è proprio questa diversità che vorrei cercare di approfondire nel prosieguo.
3. Il sequenzialismo tridimensionale
Intendo sostenere che la seconda variante della concezione sequenzialista, per
quanto radicalmente revisionista (o forse proprio in quanto radicalmente revisionista), costituisce un’alternativa migliore alla concezione degli oggetti materiali
propria del senso comune rispetto alla prima variante. I motivi sono sostanzialmente due. Da un lato, quest’ultima (d’ora innanzi: la teoria 1) consente soltanto
una soluzione parziale dei problemi che affliggono il senso comune. In particolare, i problemi di fondo associati alla possibilità che un oggetto cambi le sue proprietà nel corso del tempo restano irrisolti laddove all’oggetto in questione venga
riconosciuto lo statuto privilegiato di entità primaria. Dall’altro, la variante per
cui le entità primarie sono entità momentanee (d’ora innanzi: la teoria 2) si espone a una serie di facili obiezioni legate all’intuizione per cui qualcosa deve persistere nel tempo. Ma questa intuizione è, appunto, un residuo della concezione
propria del senso comune da cui la teoria 2 prende le distanze, e venendo meno
l’intuizione cercherò di mostrare che anche le obiezioni perdono di mordente.
Cominciando dal primo punto, vediamo innanzitutto in che senso la teoria
1 consente almeno una soluzione parziale dei problemi da cui siamo partiti. Per
quanto riguarda il rompicapo numero 1, la teoria ci dice chiaramente dove si nasconde il sofisma. Abbiamo designato con ‘Alfa’ il tavolo che si trovava in cucina
ieri e con ‘Gamma’ il tavolo che si trova in cucina oggi. Se con ciò intendiamo
riferirci al tavolo inteso come ens successivum, allora possiamo tranquillamente
identificare Alfa con Gamma (ancorché nel senso ampio e popolare) e distinguere
Gamma da Beta (ovvero da quell’aggregato di particelle che ieri costituiva il tavolo parzialmente e oggi lo costituisce interamente) senza che ciò implichi una
vera e propria moltiplicazione ontologica. Analogamente, non vi è nulla di assur9
do nella situazione descritta nel rompicapo numero 2: se Alfa è un ens successivum, la difficoltà in cui ci imbattiamo quando si tratta di bloccare l’inferenza che
ci porta a concludere che Alfa è identico a Delta (l’ultima particella rimasta) concerne esclusivamente l’apparato concettuale che entra in gioco nella «costruzione» di Alfa. I concetti di cui ci serviamo comunemente soffrono di una indeterminatezza di fondo, e questa indeterminatezza si manifesta nel caso specifico nella
vaghezza del concetto ‘particelle disposte-a-forma-di-tavolo’. Proprio come nella
teoria quadridimensionalista, il problema si sposta cioè dal piano ontologico a un
piano puramente semantico, o cognitivo in senso lato. Idem per il rompicapo numero 3: inteso come ens successivum, è plausibile supporre che il tavolo Alfa vada identificato col tavolo Epsilon, ovvero con l’ens successivum che al termine
del processo risulta costituito interamente da nuove particelle di legno. (Questo è
plausibile soprattutto nell’ipotesi in cui durante il processo si sia continuato a
usare ‘Alfa’ per riferirsi alle particelle disposte-a-forma-di-tavolo che si trovavano in cucina.) Il tavolo Zeta entra in scena molto più tardi, ed è un nuovo ens
successivum che risulta composto da quelle stesse particelle che costituivano
Alfa all’inizio del processo. Una strana coincidenza, ma nulla di cui preoccuparsi
sul piano metafisico.
Nella misura in cui i rompicapo in questione sorgono soltanto a fronte della
variabilità mereologica degli entia successiva, la teoria 1 ha dunque buon gioco. Ci
si allontana dal senso comune ma si guadagna in trasparenza metafisica. Il motivo
per cui ho parlato di soluzione «parziale» è che purtroppo i dilemmi che affliggono la concezione del senso comune non sono interamente riducibili a questioni
di variabilità mereologica. Il problema di fondo è la metafisica del cambiamento, e
sebbene le entità primarie della teoria 1 siano mereologicamente immutabili, esse
possono comunque mutare sotto altri aspetti. Per esempio, possono cambiare di
posizione, formare configurazioni di diversa forma, invecchiare, cessare di esistere. Il problema di partenza quindi rimane: come può uno stesso oggetto—o uno
stesso agglomerato di oggetti—godere di proprietà diverse in momenti diversi? E
poiché la risposta deve in qualche modo passare attraverso una relativizzazione
temporale delle proprietà, possiamo anche riformulare il problema in questi termini: che cosa significa asserire che un oggetto x gode di una certa proprietà P in
un certo momento, t1, ma non in un altro momento, t2? Come abbiamo visto, per
un quadridimensionalista la risposta è banale: se gli oggetti sono estesi nel tempo,
un’asserzione della forma ‘x è P a t’ può essere equiparata all’asserzione ‘La tparte di x è P’, e quest’ultima asserzione non presenta problemi di sorta: al variare di t varia il referente del termine ‘la t-parte di x’, e referenti diversi possono
benissimo avere proprietà diverse. Ma la teoria 1 non è quadridimensionalista.
Per la teoria 1, le entità primarie sono propriamente tridimensionali e non ha sen10
so parlare delle loro parti temporali. Quindi bisogna trovare un modo per spiegare le condizioni di verità di un enunciato della forma ‘x è P a t’ senza trasferire la
qualifica temporale ‘a t’ dal predicato al soggetto.
In linea di principio, esistono quattro spiegazioni possibili.17 Si può interpretare ‘P’ come un predicato relazionale che lega l’oggetto x al tempo t, oppure
si può pensare che ‘a t’ agisca da modificatore avverbiale sull’intera proposizione
‘x è P’, sul predicato ‘P’, o sulla copula ‘è’.18 Nessuna di queste opzioni, tuttavia, risulta convincente.
Stando alla prima opzione, quello che sintatticamente si presenta come un
predicato unario ‘è P a t’ è da intendersi come il risultato della composizione di
un predicato binario con il suo secondo argomento, un po’ come il predicato ‘è
amico di Mario’ deriva del predicato binario ‘è amico di’ specificando opportunamente il secondo argomento. Poiché tuttavia la relativizzazione temporale si
applica ad ogni enunciato in cui si predica una certa proprietà di un certo individuo, questo significa che in generale la forma logica di un enunciato soggettopredicato risulterebbe secondaria rispetto a quella dell’enunciato relazionale corrispondente. Sul piano ontologico questo significa negare che esistano proprietà
intrinseche, ovvero proprietà che caratterizzano un oggetto indipendentemente
dalle sue relazioni con altre entità, ancorché entità sui generis come gli istanti e i
periodi di tempo. E questa è un’ipotesi così radicale da risultare «incredibile»19
alla maggior parte dei filosofi. (La storia della filosofia è costellata di tentativi
volti a ridurre la categoria ontologica delle relazioni a quella delle proprietà, ma
nessuno ha mai preso sul serio l’ipotesi riduzionista inversa.)
La seconda opzione è evidentemente immune da questa critica. Ma è altresì
evidente che la sua portata esplicativa è estremamente limitata: una volta analizzato l’operatore ‘a t’ come un connettivo proposizionale siamo liberi di studiarne
la logica corrispondente (come del resto avviene nelle comuni logiche temporali),
ma non abbiamo ancora fornito una teoria metafisica delle condizioni di verità
corrispondenti all’operatore in questione. Detta diversamente, l’opzione in questione ci dice che un enunciato della forma ‘x è P a t’ è vero se e solo se l’enunciato ‘x è P’ è vero a t. Ma a questo punto abbiamo semplicemente spostato il
problema dal linguaggio oggetto al metalinguaggio: resta comunque da spiegare
che cosa significhi asserire che un determinato enunciato è vero in un certo istan-
17
La tassonomia che segue è esaminata in maggior dettaglio in Varzi (2003a). Per un’analisi leggermente diversa (in cui il numero di opzioni aumenta) rimando a Bottani (2003).
18
A titolo esemplificativo, la prima opzione è difesa da Mellor (1981), la seconda da Forbes (1987), la terza da Johnston (1987), e la quarta da Merricks (1994).
19
Così si esprime Lewis (1986), p. 204.
11
te o durante un certo periodo di tempo t, e questo è semplicemente un modo diverso per riproporre il problema di partenza.
La terza opzione—secondo cui la connotazione temporale di un predicato
della forma ‘P a t’ è dovuta all’azione del modificatore avverbiale ‘a t’ sul predicato ‘P’—è sicuramente più interessante, anche perché può in prima istanza appellarsi all’ampia gamma di teorie che si preoccupano di fornire una spiegazione
sistematica degli avverbi predicativi. (Si pensi alle teorie che spiegano la semantica di tali avverbi rinviando a un’opportuna quantificazione su un dominio di azioni o stati individuali.20) A un esame più approfondito, tuttavia, il richiamo a
tali teorie risulta illegittimo. La spiegazione che esse forniscono procede da
un’analisi degli avverbi intesi come espressioni che modificano il significato dei
predicati a cui si applicano, aggiungendo informazioni che non sono contenute
nel predicato. Se diciamo che ‘Mario è seduto in maniera scomposta’ diciamo
qualcosa di più di quanto è contenuto nell’asserzione semplice ‘Mario è seduto’
Ma la questione centrale su cui stiamo cercando di fare chiarezza è l’analisi semantica di enunciati atomici la cui forma elementare e irriducibile include la relativizzazione temporale del predicato. Non possiamo quindi spiegare le condizioni di verità di ‘x è P a t’ nei termini di ‘x è P’, altrimenti ci ritroveremmo con problema di partenza: qual è il valore di verità dell’enunciato ‘x è P’ (dove la copula
è ora da intendersi in maniera atemporale), visto che x può godere della proprietà
P in un certo istante o periodo di tempo ma non in un altro? Salvo ricadere nella
strategia metalinguistica corrispondente alla seconda opzione, e ritenuta inadeguata, la variante avverbialista non sembra quindi fornire alcuna via d’uscita al
problema di fondo.
Arriviamo così alla quarta opzione, secondo cui la qualifica ‘a t’ agisce direttamente sulla copula ‘è’, ovvero sul nesso di esemplificazione che lega un oggetto alle sue proprietà. Questa è senz’altro l’opzione migliore, in quanto agisce
al giusto livello di spiegazione metafisica. Ma anche in questo caso ci troviamo
dinnanzi a una complicazione molto seria. Come ha osservato David Lewis, un
conto è possedere una certa proprietà, altro conto intrattenere con quella proprietà una relazione che ne vincola il possesso a un istante o periodo di tempo
ben determinato. «Se tra voi e le vostre proprietà si intromette una relazione,
vuol dire che siete stati alienati dalle vostre proprietà».21 Si potrebbe protestare
che anche la semplice copula—quella che esprime il possesso senza mediazione
alcuna—è per sua natura relazionale, e che quindi l’obiezione si spingerebbe
troppo in là. Le cose però non stanno così. Il legame sussistente fra un oggetto e
20
21
Vedi i testi classici di Davidson (1967) e Parsons (1987–88).
Vedi Lewis (2002). La citazione si trova a p. 5.
12
le sue proprietà non può essere una vera e propria relazione, altrimenti si cadrebbe nel regresso illustrato dalla celebre argomentazione di Bradley. Se ‘x è P’
fosse un enunciato relazionale della forma ‘x esemplifica la proprietà P’, allora
esso sarebbe vero se e solo se x e la proprietà P stessero fra loro nella relazione
espressa dal verbo ‘esemplifica’, ovvero se e solo se esemplificassero la relazione
di esemplificazione. Più precisamente, per evitare di incorrere in circoli viziosi,
dovremmo distinguere tra una relazione di esemplificazione di primo livello, sussistente tra x e la proprietà P, e una relazione di esemplificazione di secondo livello, sussistente tra x, la proprietà P, e la relazione di esemplificazione di primo
livello. Questo però significa che quando asseriamo ‘x è P’ staremmo in effetti
asserendo un enunciato relazionale della forma ‘x e la proprietà P esemplificano2
la relazione di esemplificazione1’. E siccome questo è a sua volta un enunciato
relazionale, per spiegarne le condizioni di verità ci troveremmo costretti a introdurre una nuova relazione di esemplificazione, di livello ancora superiore: la nostra asserzione diventerebbe ‘x, la proprietà P, e la relazione di esemplificazione1
esemplificano3 la relazione di esemplificazione2’. E a questo punto è evidente che
avremmo dato il via a un regresso infinito. È proprio per evitare questo regresso
che il legame sussistente fra un oggetto e le sue proprietà non può essere concepito alla stregua di una vera e propria relazione.22 Come esattamente debba essere concepito è uno dei problemi fondamentali della metafisica. Ma quale che sia
la risposta, è certo che la semplice copula—quella che esprime il possesso di una
proprietà da parte di un oggetto—non è relazionale. E questo è sufficiente a bloccare l’analogia con cui si voleva ribattere all’osservazione di Lewis. Un conto è
possedere una certa proprietà, altro conto intrattenere con quella proprietà una
relazione che ne vincola il possesso a un tempo ben determinato.
La conclusione è che nessuna delle quattro opzioni disponibili nell’ambito
della teoria 1 consente di fornire una spiegazione chiara e fondata delle condizioni
di verità di un enunciato della forma ‘x è P a t’. E questo significa che al di là della
soluzione dei rompicapo legati alla variabilità mereologica degli entia successiva,
per la teoria 1 i problemi di fondo associati alla possibilità che un’entità primaria
cambi le sue proprietà nel corso del tempo restano irrisolti. Naturalmente esiste
ancora una via d’uscita: si potrebbe rivedere l’ipotesi di fondo su cui si regge la
teoria, ovvero l’ipotesi per cui le entità primarie sono entità tridimensionali che
persistono nel tempo in quanto continuano ad esistere. Nulla vieta di considerare
queste entità in chiave quadridimensionalista,23 nel qual caso il problema del
22
Strawson (1959) parla esplicitamente di un «legame non-relazionale» (p. 137 tr. it.). Per
un quadro generale del problema rimando al cap. 6 di Varzi (2001a).
23
Per un’articolazione di quest’ipotesi vedi Hudson (2001).
13
cambiamento si risolverebbe esattamente come nella teoria quadridimensionalista:
un enunciato della forma ‘x è P a t’ è vero se e solo se la t-parte di x è P. Il guaio è
che così facendo la teoria 1 cesserebbe di essere quello che voleva essere, ovvero
un compromesso tra l’intuizione tridimensionalista di fondo e i suoi limiti
nell’ambito degli oggetti di senso comune. Se le entità primarie fossero quadridimensionali, non si capisce per quale motivo occorrerebbe ancora distinguere tra
entità primarie e entità fittizie: tutto potrebbe essere rivisto in chiave quadridimensionalista pura e semplice, identificando gli entia successiva con gli aggregati
mereologici trans-temporali delle entità che di volta in volta li costituiscono.
4. Il sequenzialismo radicale
Con ciò possiamo passare alla teoria 2. Per ripetere, secondo questa teoria non
esistono entità di cui si possa propriamente dire che persistono (interamente o
parzialmente) nel tempo: tutti gli oggetti ai quali è lecito conferire dignità ontologica esistono solo per un istante. E quando parliamo di entità persistenti nel
tempo parliamo sempre in senso «ampio e popolare»: parliamo di entia successiva che propriamente non fanno parte dell’arredo del mondo. La teoria 2 non è
quindi tridimensionalista, se non nel senso banale in cui ogni entità istantanea ha
al massimo tre dimensioni; ma non è neanche quadridimensionalista in quanto
nega esplicitamente che un oggetto possa avere parti temporalmente estese. (Naturalmente nulla vieta di costruire degli oggetti estesi a partire dagli oggetti istantanei fondamentali: gli entia successiva della teoria 2 potrebbero essere trattati
alla stregua di veri e propri aggregati quadridimensionali composti da parti istantanee che si susseguono nel tempo, un po’ come gli oggetti istantanei possono a
loro volta essere trattati alla stregua di individui tridimensionali composti da parti puntiformi che si affiancano nello spazio. Ma questo non basta a fare della teoria 2 una variante del quadridimensionalismo. La teoria 2 è propriamente riduzionista, in quanto le proprietà di un eventuale aggregato quadridimensionale dipenderebbero comunque, in ultima analisi, dalle proprietà delle particelle istantanee
che lo compongono. Per contro, il quadridimensionalismo è a questo riguardo del
tutto neutrale: non vi è alcuna necessità di conferire supremazia ontologica alle
parti piuttosto che agli interi e, in effetti, non vi è alcuna necessità di postulare
l’esistenza di parti istantanee; l’universo quadridimensionalista potrebbe consistere di atomless gunk, tanto nel tempo come nello spazio.)
Ora, è abbastanza evidente che questa teoria consente una soluzione dei tre
rompicapo iniziali del tutto analoga alla soluzione offerta dalla teoria 1, per cui
non è il caso di ripetere i dettagli. Piuttosto, è importante sottolineare come la
teoria 2 consenta anche una soluzione immediata—forse dovremmo dire una dis14
soluzione—del problema di fondo che la teoria 1 lascia irrisolto: il problema del
cambiamento. A tal fine, è utile precisare che la semantica associata alla teoria 2 è
affine alla semantica che la teoria 1 attribuisce al linguaggio «ampio e popolare»
con cui parliamo degli entia successiva del senso comune. Nella teoria 1, quando
utilizziamo un termine come ‘il tavolo in cucina’ facciamo riferimento, in momenti diversi, ad aggregati diversi di particelle disposte-a-forma-di-tavolo. Possiamo anche sostituire il nostro termine con un nome proprio, come ‘Billy’, per
riferirci a questi diversi aggregati di particelle. Strettamente parlando, un nome
del genere non si comporterebbe come un designatore rigido (mentre un vero nome proprio dovrebbe comportarsi in questo modo: dovrebbe sempre designare lo
stesso individuo24). Ma questo è semplicemente una conseguenza del fatto che
non stiamo effettivamente parlando di un individuo vero e proprio ma, appunto,
di un ens successivum. Poiché le alterazioni sono graduali, continuiamo a usare lo
stesso nome e a trattare cose diverse come se fossero una cosa sola perché il linguaggio, come diceva Reid, «non può permettersi un nome diverso per ogni stato
diverso».25 Ebbene, in maniera analoga, secondo la teoria 2 le descrizioni e i nomi
di cui ci serviamo comunemente non si comportano come dei designatori rigidi,
né potrebbe essere diversamente: poiché le entità a cui ci riferiamo non persistono nel tempo, non avrebbe senso richiedere che un nome designi sempre la stessa
entità. Piuttosto, una volta introdotto un termine T per designare una certa entità, continuiamo ad usare T come se stessimo sempre parlando della stessa entità.
In realtà ci riferiamo a quelle che, per servirci di una terminologia entrata nell’uso
corrente, potremmo chiamare le controparti temporali dell’entità inizialmente
battezzata con T—quelle controparti la cui sequenza costituisce l’ens successivum in questione. Continuiamo ad usare T come se stessimo parlando di uno
stesso oggetto proprio in quanto stiamo parlando di quelle entità che il tridimensionalista identifica con gli stati successivi di uno stesso individuo e il quadridimensionalista con le sue parti temporali. La situazione è analoga a quanto avviene quando ci imbarchiamo in speculazioni modali, laddove la concezione tradizionale—secondo cui uno stesso oggetto può esistere in mondi diversi, o addirittura estendersi attraverso mondi diversi 26—venga abbandonata in favore della
cosiddetta «teoria delle controparti».27 In questi casi si continua a parlare di un
individuo come se esistesse in vari mondi, ma a rigor di termini si parla di indivi-
24
Su questa importante tesi rimando al testo classico di Kripke (1972).
T. Reid, Saggi, III.iii.ii.
26
La prima variante è quella comune e trova espressione nelle semantiche à la Kripke
(1963); per la seconda variante rimando a Varzi (2001c).
27
Lewis (1968).
25
15
dui diversi residenti in mondi diversi e legati fra loro da un corrispondente nesso
di similarità intramondana. Diciamo ‘Mario è biondo ma potrebbe essere bruno’
intendendo ‘Mario è biondo, ma c’è un mondo possibile in cui la controparte di
Mario è bruna’; analogamente, secondo la teoria 2 diciamo ‘Billy è sporco ma era
pulito’ intendendo ‘Billy è sporco, ma c’è un istante passato in cui la controparte di Billy è pulito’.28 In breve, gli entia successiva della teoria 2 sono l’analogo
temporale di quelli che, nella teoria modale delle controparti, potremmo chiamare
entia transmundana: sequenze di individui legati dalla relazione di controparte.
Chiarito questo, è facile intuire quale possa essere la soluzione offerta dalla
teoria 2 al problema del cambiamento, ovvero come la teoria spieghi le condizioni
di verità di un’asserzione della forma ‘x è P a t’. Non si tratta di scegliere tra i
quattro schemi considerati con riferimento alla teoria 1. Piuttosto, data una relazione di controparte temporale, R, che associa a ogni individuo x le sue controparti temporali—una t-controparte per ogni istante di tempo t durante il quale,
intuitivamente, esiste l’ens successivum che continuiamo a chiamare ‘x’—la teoria 2 interpreterà ‘x è P a t’ come ‘La t-controparte di x è P’. (Si suppone naturalmente che se x esiste a t allora x coincide con la propria t-controparte.) Poiché
si esclude che uno stesso individuo possa esistere per più di un istante, al variare
di t il termine in posizione di soggetto designerà individui diversi. L’enunciato
potrà quindi avere valori di verità diversi a seconda di come va il mondo senza
che ciò dia luogo ad alcuna contraddizione. E ciò è sufficiente a dissolvere il problema di partenza. (Di nuovo, si potrebbe osservare che la soluzione non si discosta molto da quella offerta dalla teoria quadridimensionalista. Ma la differenza
tra t-parti e t-controparti è assoluta: le prime rimandano a un intero esteso nel
tempo, x, a cui sono legate dalla relazione di appartenenza mereologica; le seconde rimandano a un individuo istantaneo, x, a cui sono legate dalla relazione R.)
A questo punto abbiamo dunque una teoria che, distanziandosi piuttosto
radicalmente dalle intuizioni del senso comune, consente almeno in prima battuta
di fornire una risposta agli spinosi problemi concettuali in cui incorrono quelle
intuizioni. Resta da vedere quale siano i costi della teoria in questione, e se il gioco valga davvero la candela (per così dire). Ora, credo che i costi principali della
teoria siano abbastanza ovvi. Innanzitutto, l’idea stessa su cui la teoria si regge—l’idea per cui la persistenza nel tempo è un’illusione cognitiva—sembra im-
28
Questo vale nell’ipotesi che il nome ‘Billy’ venga introdotto adesso per la prima volta.
Se fosse stato introdotto ieri, intenderemmo ‘Billy era sporco, ma la sua controparte attuale è
pulita’. Si noti anche che parlare della controparte di un individuo in un certo mondo o istante
di tempo comporta una semplificazione: in generale si può supporre che la relazione di controparte non sia transitiva. Su ciò vedi ancora Lewis (1986).
16
plicare che l’universo intero, e con esso tutti i suoi abitanti, siano il risultato di
una incessante quanto misterioso processo di creazione ex nihilo. Man mano che
passa il tempo, ciò che era cessa di essere e qualcosa di nuovo prende il suo posto. (Questo aspetto della teoria appare particolarmente sconcertante nella misura in cui la nozione di ens successivum non si applica soltanto ad artefatti come i
tavoli, le squadre di calcio, o i personaggi cinematografici ma a tutte le entità, inclusi noi stessi. Dopo tutto, a noi sembra di avere tutte le ragioni per considerarci degli individui perfettamente in grado di persistere nel tempo, non ultimo ragioni legate alla nostra esperienza diretta di un’unità della coscienza.) In secondo
luogo, occorre rendere conto dell’assoluta centralità dalla relazione di controparte
dalla quale la teoria 2 fa discendere le condizioni di verità degli enunciati del linguaggio ordinario e, quindi, la soluzione al problema del cambiamento. Che genere
di relazione è R? Quali proprietà la caratterizzano? E soprattutto, quali motivi
abbiamo per accettare una spiegazione in termini di controparti? Secondo alcuni filosofi la teoria delle controparti è già inaccettabile in ambito modale, quindi si
potrebbe obiettare che una teoria che vi faccia appello per risolvere questioni
di ordine filosofico è sulla strada sbagliata. In terzo luogo, il riduzionismo ontologico della teoria in esame è talmente radicale da mettere in discussione molte
nostre intuizioni anche in ambito linguistico ed epistemologico. E si potrebbe
ritenere che i costi di questo revisionismo a tutto campo siano semplicemente
eccessivi.
Credo che queste tre obiezioni meritino la massima attenzione. Come ho
già anticipato, tuttavia, ritengo anche che a un attento esame la teoria 2 disponga
di tutte le risorse necessarie per fornire delle risposte soddisfacenti, e che il
prezzo che essa ci chiede di pagare sia meno elevato di quanto non possa inizialmente apparire. Vediamo dunque di affrontare le tre obiezioni con un certo
dettaglio.29
5. Creazione ex nihilo?
Per quanto concerne la prima obiezione—secondo la quale la teoria 2 ci costringerebbe ad accettare l’idea di un mondo che deriva da una incessante e misterioso
processo di creazione ex nihilo—è bene sottolineare che l’apparente stravaganza
metafisica di questa idea riflette in prima istanza il pregiudizio tridimensionale
che caratterizza la metafisica intuitiva del senso comune. Se insistiamo nel concettualizzare il mondo in termini di entità che continuano ad esistere, è ovvio che
29
Le due sezioni seguenti riprendono (e in parte traducono) argomenti presentati nel paragrafo 5 di Varzi (2003c).
17
gli entia successiva postulati della teoria sequenzialista ci appariranno avvolti da
una nube di mistero. Ma mettiamo per un attimo da parte questo pregiudizio.
Non vi è qualcosa di egualmente misterioso nell’inerzia esistenziale postulata
dalla teoria tridimensionale, secondo la quale gli oggetti continuano ad esistere?
Per quale motivo le cose che ci circondano non smettono improvvisamente di esistere? E come spieghiamo il fatto che a un certo punto essi cominciano ad esistere? Il mistero metafisico di un mondo che non è sempre popolato dalle stesse
identiche cose è motivo di stupore per la teoria sequenzialista quanto per la teoria tridimensionalista. Naturalmente, gli esponenti di quest’ultima si affrettano a
svelare il mistero appellandosi a una qualche spiegazione di tipo causale: ogniqualvolta un oggetto comincia ad esistere, o cessa di esistere, è per effetto
dell’impulso causale infertogli da un altro oggetto. Ma se una spiegazione di questo tipo è accettabile, allora vi si può ricorrere anche a sostegno delle teoria sequenzialista.30 Non vi è nulla nella teoria che ci costringa a pensare che un oggetto istantaneo debba essere completamente isolato dai suoi dirimpettai temporali,
dalle controparti che lo precedono e lo seguono nella processione temporale. Un
oggetto può cominciare ad esistere in virtù del potere causale dei suoi predecessori, e può essere causalmente responsabile della nascita dei suoi discendenti. E
questo «potere causale» potrebbe benissimo spiegarsi in termini di causalità immanente: ogni oggetto istantaneo potrebbe includere fra le proprietà che lo caratterizzano la disposizione a creare il proprio successore, proprio come ogni «continuante» tridimensionale sembra includere fra le proprietà che lo caratterizzano
la propensione a sopravvivere.
Né si deve pensare che l’appello a una spiegazione di tipo causale sia un
requisito necessario della teoria in esame. Ne parlo solo per evidenziare la legittimità di questo tu quoque argomentativo in risposta a quella che sembra essere la
spiegazione più accreditata in ambito tridimensionalista.31 Personalmente ritengo
che l’idea di un’emergenza ex nihilo non sia di per sé stravagante, e che per renderne conto non occorra appellarsi a un vero e proprio nesso causale tra le controparti che convergono in un ens successivum. Che la storia del nostro mondo
sia semplicemente una processione di oggetti privi di durata che nascono e
muoiono in continuazione potrebbe benissimo essere un «fatto bruto», proprio
come potrebbe esserlo il fatto che anche gli oggetti della teoria tridimensionalista
a volte nascono e muoiono, o il fatto che essi si estendono nello spazio. In effetti, una volta accantonati i pregiudizi tridimensionalisti del senso comune, non vi è
30
Vedi ad esempio Heller (1990), §2.13, e Hawley (2001), §3.5. L’idea che in questo contesto la nozione di causalità sia da intendersi in senso immanente è ripresa da Williams (2002).
31
Su questo punto rimando a Sider (2001), p. 217.
18
forse qualcosa di misterioso anche nella processione di parti spaziali in cui ci imbattiamo quando ci muoviamo nello spazio?
Con tutto ciò, nel caso delle persone e degli altri organismi «viventi» il quadro si presenta naturalmente più complesso. Ma l’enorme letteratura filosofica
dedicata al tema dell’identità personale dimostra che anche il quadro che emerge
dalla tradizionale concezione tridimensionalista è tutt’altro che semplice. È vero
che il sequenzialismo radicale si trova in imbarazzo dinnanzi al fenomeno dell’unità della coscienza, come del resto già Kant osservava nella sua critica alle
speculazioni di Hume e Reid.32 Tuttavia anche in questo caso l’imbarazzo è tale
nella misura in cui si suppone di avere a che fare con entità istantanee completamente indipendenti le une dalle altre, il che esula dai postulati della teoria. Se, per
esempio, la successione temporale di queste entità si spiega in termini di disposizioni causali, allora l’esperienza di un’unità della coscienza potrebbe spiegarsi
in termini di proprietà disposizionali sui generis: proprietà caratteristiche proprio di quelle entità che si meritano l’attributo di ‘persona’. Invero, da questo
punto di vista il teorico sequenzialista potrebbe sostenere che le comuni teorie
dell’identità personale (in chiave tridimensionale come quadridimensionale) procedono nella direzione errata. È in quanto le diverse fasi di una persona sono
quello che sono che il loro succedersi nel tempo dà luogo all’unità della coscienza, non viceversa. Anche ponendoci in una prospettiva radicalmente deflazionista, conferendo uno statuto del tutto convenzionale alla relazione di controparte
che si instaura tra i vari componenti di un ens successivum, non vi è nulla di inconsistente nell’idea per cui alcuni entia successiva sono più unitari e strettamente connessi di altri. Non vi è alcun legame tra ciò che io sono in questo istante e ciò che il tavolo era qualche istante fa. Ma vi sono dei legami molto significativi (di continuità spazio-temporale e somiglianza qualitativa) tra ciò che io sono
in quest’istante e le controparti che mi hanno preceduto. E potrebbe benissimo
essere un fatto contingente che proprio tali legami siano responsabili dei miei attuali stati psicologici, ivi inclusa l’esperienza di un’unità della mia coscienza.
Si potrebbe protestare che una spiegazione del genere non rende giustizia a
un altro importante fenomeno, ovvero il fatto che tipicamente gli organismi viventi godono di proprietà che non possono, per loro stessa natura, caratterizzare
entità prive di durata. Come può un’entità istantanea pensare, intrattenere credenze, formarsi delle opinioni, e così via? Come può svolgere delle attività? Proprietà del genere—si potrebbe osservare—richiedono tempo e non possono pertanto essere soddisfatte da entità prive di durata.33 Anche questa obiezione, tut32
33
Il riferimento è ai paralogismi della prima Critica.
Per un’obiezione in questo spirito vedi ad es. Brink (1997).
19
tavia, riflette un fraintendimento della teoria sequenzialista. Abbiamo visto che la
teoria non assume un’ontologia di entità istantanee completamente isolate dalle
loro controparti temporali, quindi si potrebbe replicare che le «fasi» di una persona possono soddisfare le proprietà in questione in virtù del fatto che esse possiedono le giuste proprietà intrinseche e intrattengono le giuste relazioni con il
loro ambiente e con le altre fasi della medesima persona. (Alternativamente, se
consideriamo la possibilità di identificare gli entia successiva della teoria con dei
veri e propri aggregati quadridimensionali, si potrebbe replicare che sono queste
entità temporalmente estese a soddisfare le proprietà in questione, ancorché subordinatamente alle proprietà intrinseche e relazionali di cui godono le fasi istantanee che le compongono.) L’obiezione sarebbe grave nell’ipotesi che le proprietà in questione fossero esse stesse proprietà intrinseche, ma quest’ipotesi è ancora una volta indice di un pregiudizio tridimensionalista. Come ha osservato Katherine Hawley, non vi è nulla di inconsistente nell’idea per cui la mia fase attuale abbia certe attitudini e provi certe emozioni anche per il fatto di essere opportunamente connessa ad altre fasi temporali, proprio come non vi è niente di
strano nell’idea per cui il pezzo di legno che poggia sul pavimento della cucina ha
la proprietà di essere una gamba di tavolo anche per il fatto di essere opportunamente connesso ad altri pezzi di legno.34
6. Chi ha paura delle controparti?
Tanto basti per la prima riserva nei confronti del sequenzialismo radicale: i misteri della creazione ex nihilo. Per quanto riguarda la seconda riserva—il ruolo
cruciale svolto dalla relazione di controparte—è evidente che molto dipende da
come ci poniamo nei confronti della teoria delle controparti in generale. Se abbiamo già dei motivi per ritenere che la teoria sia inaccettabile, allora troveremo
inaccettabile anche il sequenzialismo.35 Come recita l’adagio, il modus ponens di
un filosofo può trasformarsi in un modus tollens per un altro filosofo. Ma quali
motivi possiamo avere per ritenere inaccettabile la teoria delle controparti?
Nella letteratura dedicata all’argomento, la riserva principale fa leva su certe
conseguenze controintuitive che la teoria sembra implicare in relazione ai controfattuali in prima persona. Parafrasando la formulazione fornita da Saul Kripke
con riferimento alla versione modale della teoria, Al Gore può pensare che—se
non avesse trascurato di fare certe cose—avrebbe vinto le elezioni presidenziali,
ma sicuramente questa è una speculazione che riguarda Gore stesso, non una
34
35
Hawley (2001), p. 65
Questa è, ad esempio, la posizione di Van Inwagen (1990b), §III.
20
delle sue controparti. A Gore non potrebbe importarne di meno se un’altra persona, in un altro mondo, è riuscito a battere il candidato repubblicano, indipendentemente da quanto quella persona gli assomigli.36 È difficile negare la forza di
questa obiezione. Ed è difficile, per tornare al caso temporale, negare la forza
dell’analoga obiezione formulata da John Perry: quando riflettiamo sugli eventi
passati e futuri della nostra vita non stiamo semplicemente pensando a ciò che
accade alle nostre controparti.37 Il punto è se queste obiezioni risultino giustificate sulla base di quanto afferma la teoria delle controparti. E su questo si può
discutere. Nella versione modale originale, la teoria dice che è in virtù di ciò che
accade alle controparti di Gore che Gore può legittimamente intrattenere certi
pensieri controfattuali in merito alla sua persona. Questo significa che nelle speculazioni di Gore su una sua possibile vittoria alle elezioni entra in scena qualcun
altro. Ma non significa che Gore esce completamente di scena. Come ha precisato David Lewis, grazie alle sue controparti vittoriose Gore entra in possesso
della proprietà modale necessaria a render vera l’asserzione de re secondo cui
lui—Gore—avrebbe potuto vincere.38 A meno che l’obiezione sia semplicemente
che nessuno oltre a Gore ha il diritto di svolgere un ruolo in questo tipo di speculazioni, l’obiezione è quindi fuori bersaglio. La teoria modale delle controparti
non comporta l’eliminazione delle proprietà modali de re; semplicemente fornisce un’analisi di queste proprietà in termini di controparti. E se le cose stanno
così nel caso modale, allora una precisazione perfettamente parallela consente di
ribattere anche all’obiezione nella sua versione temporale.
Che cosa c’è allora che non va con la teoria delle controparti? Penso che
abbia ragione Ted Sider quando dice che quello che non va, paradossalmente, è
l’estrema flessibilità che la teoria consente.39 Si può mettere quello che si vuole
nella relazione di controparte. La si può colmare di causalità immanente e attribuirle un ruolo metafisico di primo piano, o la si può relegare al livello cognitivo
e sbarazzarsi dei problemi filosofici che affliggono l’identità personale come di
problemi che competono esclusivamente al nostro modo di rappresentarci il
mondo. Alcuni possono ritenere che questa flessibilità sia una caratteristica negativa in quanto «rende tutto troppo facile». A me sembra invece che questa sia
una caratteristica più che positiva. Il modus tollens di un filosofo può diventare il
modus ponens di un altro, per così dire, specialmente se le teorie alternative soffrono a loro volta di problemi seri. Soprattutto con riferimento alla questione
36
Vedi Kripke (1972), p. 45.
Vedi Perry (1972), p. 480.
38
Lewis (1986), p. 196.
39
Sider (2001), pp. 206–207.
37
21
della persistenza temporale, mi pare anzi che la flessibilità della relazione di controparte corrisponda molto da vicino al tipo di difficoltà che i filosofi al pari delle
persone comuni si trovano ad affrontare. Ci ritroviamo spesso a domandarci se
certe cose possano sopravvivere a certi cambiamenti, e spesso non sappiamo
trovare una risposta chiara e convincente: la teoria delle controparti ci dice che se
succede questo è perché il nostro modo di concepire le cose in questione non riposa su una chiara caratterizzazione della relazione di controparte temporale a
cui facciamo implicitamente riferimento. A me questo sembra del tutto plausibile. Perlomeno, mi sembra molto più plausibile di quelle teorie che fanno invece
appello a una misteriosa discriminazione tra proprietà contingenti e proprietà essenziali, da cui tipicamente dipendono le soluzioni che cercano di salvare la concezione degli oggetti propria del senso comune.
7. Un onesto revisionismo
Veniamo così alla terza e ultima riserva citata sopra, dovuta all’eccessivo revisionismo linguistico ed epistemologico a cui ci costringe la visione sequenzialista del
mondo. A questo riguardo, la cosa giusta da dire mi sembra semplicemente questa: ogni teoria metafisica che si rispetti comporta una buona dose di revisionismo. Sicuramente non possiamo sperare di capire com’è fatto il mondo semplicemente esaminando le nostre intuizioni di senso comune, e tanto meno le cose
che siamo abituati a dire. Questo è ovvio quando si tratta di questioni ontologiche in senso stretto—cioè quando si tratta di determinare che cosa esiste—come
abbiamo imparato dalle vecchie controversie sul re di Francia e sul quadrato rotondo. Ma credo che lo stesso discorso valga quando passiamo a questioni metafisiche in senso lato.
Una facile obiezione che si potrebbe sollevare nei confronti della teoria sequenzialista è che essa sembra attribuire alle entità istantanee una priorità analitica rispetto alle entità persistenti del senso comune, quando in realtà è evidente
che nessuno è in grado di individuare le prime se non a partire dalle seconde. (La
metafisica descrittiva di Strawson ha insistito molto su considerazioni di questo
tipo.40) Ma che cosa ne segue? Quando si tratta di stabilire che cosa esiste e come è fatto, le nostre capacità in materia di individuazione hanno poco da dirci.
Molti di noi hanno scarsi problemi quando si tratta di individuare una persona
mentre sono totalmente incapaci di individuare le particelle subatomiche, ma
questo non ci autorizza a dire che le particelle subatomiche non esistono. Analo-
40
Vedi specialmente il primo capitolo di Strawson (1959).
22
gamente, è facile obiettare che linguaggio di cui ci serviamo quotidianamente per
parlare del mondo deve avere priorità analitica sul complicato linguaggio a cui la
teoria sequenzialista ci costringe. Ma questa non è una buona ragione per ritenere
che il mondo non consista delle entità istantanee postulate dalla teoria. Le scienze fisiche ci dicono che i tavoli e le persone sono in ultima analisi costituiti da
particelle subatomiche, ma nessuno si sogna di dover tradurre tutto quello che
diciamo sui tavoli e le persone in termini di particelle subatomiche. Purché sia
chiaro quali sono i costituenti del mondo che rendono vere le nostre asserzioni,
possiamo continuare a parlare come vogliamo. E questo perché il tipo di revisionismo reso necessario dai ritrovati delle scienze fisiche non ha alcuna pretesa ermeneutica: è revisionismo bell’e buono, quel genere di revisionismo onestamente
«rivoluzionario» con cui dobbiamo fare i conti ogni volta che cerchiamo di fare
chiarezza sulla realtà che ci circonda.41 Ci è voluto un po’ perché io accettassi il
fatto che i cartoni animati non sono altro che sequenze di disegni, proprio come
ci è voluto del tempo prima che io accettassi il fatto che il mio corpo è uno sciame di molecole. Mi ci è voluto del tempo prima di accettare il fatto che l’«onda»
che ogni tanto si vede allo stadio—quell’«onda» che tutti noi riusciamo a seguire
con lo sguardo e di cui possiamo parlare con la stessa facilità con cui guardiamo i
personaggi di un cartone animato e ne parliamo con le persone che ci stanno vicino—non è altro che una sequenza di persone che a turno si alzano e si abbassano. Può darsi che ci voglia del tempo per accettare l’idea che tutto consista in
ultima analisi di entità istantanee che si succedono nel tempo. Ma questo sarebbe
un pessimo motivo per concludere che le cose stanno diversamente.
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Per una formulazione più articolata di questo punto di vista rimando Varzi (2002).
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