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Stefano Gasparri
Il popolo-esercito degli arimanni.
Gli studi longobardi di Giovanni Tabacco
[A stampa in Giovanni Tabacco e l’esegesi del passato, Torino, Accademia delle Scienze di Torino, 2006
(Quaderni dell’Accademia delle Scienze di Torino, 14), pp. 21-36 © dell’autore e dell’editore – Distribuito in
formato digitale da “Reti medievali”].
Il popolo-esercito degli arimanni.
Gli studi longobardi di Giovanni Tabacco
STEFANO GASPARRI
I Longobardi non hanno mai rappresentato uno dei nuclei principali della riflessione storiografica di Giovanni Tabacco. È una constatazione in un
certo qual modo sorprendente, se si pensa ai tanti studiosi che, come chi
scrive, lo hanno sempre considerato un punto di riferimento anche in questo
settore particolare della ricerca; ma è una constatazione a cui si può facilmente arrivare semplicemente scorrendo la ricca bibliografia di Tabacco, al
cui interno i lavori espressamente dedicati al tema longobardo sono davvero
pochi1. È vero, ed è banale dirlo, che l’influenza di uno studioso non si misura sulla base del numero di pagine scritte su un determinato argomento; tuttavia l’osservazione ha un suo peso, anche perché ci aiuta a mettere in luce
un fatto importante, ossia che Tabacco in realtà giunge ad occuparsi dell’età
longobarda partendo da un’ottica che non è quella degli studi longobardi in
senso stretto. Quest’ottica, che per lui in riferimento a quei secoli rimarrà
sempre fondamentale, è un’ottica franca, ed in particolare carolingia. Forse,
anziché parlare di Tabacco e i Longobardi, sarebbe stato più opportuno parlare dei Carolingi, della loro grande sintesi militare-ecclesiastica che ha rappresentato, essa sì, uno dei punti focali dell'interesse di questo studioso, e ai
margini della quale si collocava precisamente, per Tabacco, il problema longobardo. Tuttavia il ruolo da lui giocato nell'evoluzione di quest’ultimo problema non è per nulla marginale, come vedremo.
1
I titoli sono: Dai possessori dell’età carolingia agli esercitali dell’età longobarda, in «Studi Medievali», s. III, 10/1 (1969), pp. 221-268; La connessione fra potere e possesso nel regno franco e nel regno
longobardo, in I problemi dell’Occidente nel secolo VIII, XX Settimana di studio del CISAM, Spoleto,
1973, pp. 133-168; L’inserimento dei Longobardi nel quadro delle dominazioni germaniche
dell’Occidente, in Atti del VI Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Spoleto, 1980, pp.
225-246; Milano in età longobarda, in Atti del X Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo,
Spoleto, 1986, pp. 19-43; Manzoni e la questione longobarda, in Manzoni e l’idea di letteratura, Torino,
1985, pp. 47-57; L’avvento dei Carolingi nel regno dei Longobardi, in Langobardia, a cura di S.
GASPARRI e P. CAMMAROSANO, Udine, 1990, pp. 375-403 (ristampato in Il regno dei Longobardi in
Italia. Archeologia, società, istituzioni, a cura di S. GASPARRI, Spoleto, 2004, pp. 443-479).
22
STEFANO GASPARRI
Non è affatto un caso dunque che il primo lavoro nel quale Tabacco si è
occupato del regno longobardo sia il famosissimo I liberi del re nell’Italia
carolingia e postcarolingia, pubblicato a Spoleto nel 1966, un libro che rimane a mio avviso il suo contributo principale agli studi longobardi: ed è un
libro invece dedicato espressamente al periodo successivo al 7742. In esso
veniva smontata la teoria delle arimannie, formulata per la prima volta in
modo compiuto circa ottant’anni fa da Fedor Schneider, sulla scia di Pier
Silverio Leicht e di Aldo Checchini. Questa teoria postulava l’esistenza di
particolari insediamenti militari, le arimannie, che sarebbero state colonie di
guerrieri longobardi collocati dai re su terra fiscale, in zone situate non solo
ai confini ma anche dentro il regno, in tutte le aree provviste di valore strategico, con fini di presidio e difesa. Era però una teoria priva di un reale fondamento documentario e basata esclusivamente su una cattiva interpretazione delle fonti, fonti inoltre che sono tutte posteriori, anche di parecchio, al
774. Arimanni ed arimannie non ci illuminano in nulla, concludeva Tabacco
nel suo libro, sulle strategie militari dei sovrani barbarici: gli arimanni erano
semplicemente una classe sociale di guerrieri di origine longobardocarolingia, anticamente legata al potere pubblico, e le arimannie rappresentavano il ricordo lontano delle terre da loro possedute.
In questo modo Tabacco chiariva sì alcuni nodi importanti della storia
sociale ed istituzionale del regno italico nei secoli IX e X, concernenti in
particolare la sorte dei liberi possessori, ma al tempo stesso gettava anche le
basi per un’interpretazione radicalmente nuova della fase longobarda di quel
regno. Infatti la teoria arimannica, che pretendeva di ricostruire la strategia
militare dei re longobardi utilizzando soprattutto un metodo, la ricerca toponomastica, nel quale si era in particolare impegnato Gian Piero Bognetti3,
costituiva forse la prova principale dell’esistenza di un insediamento longobardo radicalmente distinto da quello romano, in campagna come in città. Un
insediamento che avrebbe avuto un rigido carattere militare e che sarebbe
stato per di più contraddistinto da un altro elemento di separazione,
l’arianesimo, giacché abbonderebbero nei luoghi segnati dai toponimi fatidici anche le dedicazioni di chiese indicate come ‘antiariane’, che sarebbero
2
I primi sei capitoli del libro erano già apparsi sulla rivista «Studi Medievali», s. III, 5 (1964), pp. 1-65 e
6 (1965), pp. 1-70.
3
Bognetti, al pari dei suoi numerosi epigoni, aveva applicato questo metodo - l’uso ‘diretto’ dei toponimi
come fonte - anche ad altri termini di origine longobarda, fra i quali qui per brevità ricorderò solo fara e
sala. Per rendersene conto basta scorrere le pagine della raccolta di scritti di G. P. BOGNETTI, L’età longobarda, I-IV, Milano, 1966-67. Un perfetto esempio di imitazione dei metodi ‘toponomastici’ di Bognetti è fornito da G. FASOLI, Tracce di insediamenti longobardi nella zona pedemontana tra il Piave e
l’Astico e nella pianura tra Vicenza, Treviso e Padova, in Atti del I Congresso internazionale di studi
longobardi, Spoleto, 1952, pp. 303-315. Si veda poi anche il libro di Cavanna citato più avanti alla nota 8.
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
23
cioè il risultato di tarde esaugurazioni ad opera del clero cattolico4. Così in
un paese come l’Italia, attraversato nella sua dorsale dalle montagne e inciso
da numerosi fiumi, oltreché percorso da grandi strade romane, dove i confini
fra terre longobarde e bizantine correvano in un’infinità di luoghi e dove
quindi i toponimi arimannici si trovavano frequentemente in luoghi classificabili con facilità come militarmente importanti, si legittimava l’idea del regno longobardo come un regime militare d’occupazione, con innumerevoli
arimannie, fare e sale che convergevano su città, strade, passi montani, fiumi; un regime che appariva di conseguenza fondato su un’evidente separazione fra Longobardi e Romani.
Demolire la teoria arimannica significava dunque implicitamente distruggere le basi della visione allora largamente dominante del periodo longobardo, quella fondata soprattutto sugli studi di Gian Piero Bognetti. Ma
Tabacco nel libro del 1966 non si addentrò in un’analisi dell’età longobarda,
si limitò per il momento a pochi accenni. Più di questi, in realtà, è importante
l’opera di revisione della storiografia di Bognetti, da lui allora iniziata nel
capitolo intitolato appunto “Gli arimanni di Gian Piero Bognetti”5, un’opera
questa che proseguirà poi negli anni successivi. Prima di passare a questo
aspetto, però, si deve esaminare quello che va considerato l’autentico completamento de I liberi del re, l’articolo del 1969 intitolato Dai possessori
dell’età carolingia agli esercitali dell’età longobarda, un titolo che già da
solo conferma quanto si diceva all’inizio a proposito del metodo regressivo
adottato da Tabacco rispetto agli studi longobardi6. Apparentemente nato
come polemica risposta alla lezione sugli ordinamenti militari dei Longobardi tenuta da Ottorino Bertolini a Spoleto due anni prima, nella quale si era
messa in dubbio, in relazione proprio ai secoli longobardi, la soluzione data
ne I liberi del re al problema arimannico7, l’articolo – che è fondamentale
per comprendere il pensiero di Tabacco sull’età longobarda – in realtà aveva
un’altra motivazione profonda, che si può cogliere leggendo quanto lo stesso
Tabacco aveva scritto nella recensione ad un libro di Adriano Cavanna8. Lì
egli aveva criticato duramente l’autore per le sue posizioni troppo tradizionaliste, tese a legare ancora meccanicamente arimannie e stanziamenti di guerrieri longobardi caratterizzati da un legame particolare con il re. Dopo aver
4
Esemplare di questo modo di procedere è G. P. BOGNETTI, I loca sanctorum e la storia della Chiesa nel
regno longobardo, in Id., L’età longobarda cit., III, pp. 305-345.
5
G. TABACCO, I liberi cit., pp. 13-36.
6
Citato sopra, alla nota 1.
7
O. BERTOLINI, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, in Ordinamenti militari
in Occidente nell’alto Medioevo, XV Settimana di Studio del CISAM, Spoleto, 1968, I, pp. 429-580; la
famosa discussione fra lo stesso Bertolini e Tabacco non ebbe luogo quell’anno (nella discussione di
quella lezione, ibid., pp. 609-629, Bertolini si confrontò soprattutto con Carlo Guido Mor), ma al termine
della lezione spoletina dello stesso Tabacco del 1972 (cfr. sotto, nota 33).
8
A. CAVANNA, Fara, sala e arimannia nella storia di un vico longobardo, Milano, 1967.
24
STEFANO GASPARRI
premesso che egli non aveva mai messo in dubbio il fatto che la massima
parte della classe dei possessori di età carolingia fosse da intendersi – «con
tutte le eccezioni possibili» – di origine longobarda, Tabacco citava un passaggio de I liberi del re dove aveva sostenuto «“la connessione, non la coincidenza”, fra l’antico carattere etnico dell’exercitus e la successiva tradizione
arimannica», una connessione che «rimane in Langobardia indubitabile»,
così come indubitabile era il legame fra la classe carolingia degli arimanni e
l’ultima età longobarda; ricordava poi che aveva, allora, «espressamente rinunziato a trattare […] il problema etnico»; e sottolineava infine che non si
poteva ‘saltare’ l’età carolingia, collegando direttamente l’età comunale o
precomunale a quella longobarda sulla base di tarde testimonianze del nome
arimannico, anche se all’opposto era «ben naturale che, ovunque rimanga
testimonianza di antichi Longobardi, si possano ivi trovare con frequenza
notevole testimonianze anche di arimanni»9.
Con queste parole, Tabacco si ricollegava direttamente alle ultime righe
de I liberi del re. Lì egli aveva volontariamente rinunciato a trattare quello
che definiva un «imponente problema etnico», legato appunto al rapporto fra
tradizione arimannica e distinzione etnica in senso longobardo10. Questo
problema lo affronta invece nell’articolo del 1969, e dopo quanto abbiamo
detto le sue conclusioni non appaiono sorprendenti: la portata innovatrice
della sua revisione della teoria arimannica non produce gli effetti che in teoria ci si sarebbe potuti attendere perché è precisamente la “questione etnica”,
eterna croce della storiografia italiana, che lo frena in modo decisivo11.
È indispensabile a questo punto addentrarsi in un esame piuttosto minuzioso dei vari passaggi del pensiero di Tabacco, in quanto è l’unico modo
per cogliere lo svolgimento complesso dei suoi ragionamenti. Egli interroga
questa volta le fonti longobarde, alla ricerca delle origini della classe sociale
degli arimanni; si rivolge alle fonti normative (la Notitia de actoribus regis e
le leggi dell’VIII secolo), a Paolo Diacono e, in modo limitato, alla documentazione d’archivio, per ricavare conforto alla sua tesi secondo la quale
non esistevano all’interno del popolo longobardo gruppi di guerrieri contraddistinti da fedeltà particolari e da un servizio militare permanente. «Il
ceto dei possessori, la gens Langobardorum e la fedeltà degli arimanni»,
scrive, «convergono, nel pensiero del re», che è Liutprando, «come tre aspetti diversi di una stessa realtà»; ma non vi è affatto identità assoluta fra questi
9
La recensione è apparsa in «Studi Medievali», s. III, 8 (1967), pp. 922-931; le citazioni (non presenti in
quest’ordine) sono riferite a p. 924.
10
G. TABACCO, I liberi cit., pp. 211-213: la rinuncia si giustificava perché la questione etnica esulava dallo
scopo del libro, che era quello di studiare «una classe sociale definita dal vincolo del regno» (p. 212).
11
Qui sono costretto a citare un mio lavoro: S. GASPARRI, I Germani immaginari e la realtà del regno.
Cinquant’anni di studi sui Longobardi, in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento, Atti del XVI
Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, I, Spoleto, 2003, pp. 3-28.
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
25
tre concetti, anche i Romani, dice Tabacco, potevano essere proprietari fondiari, né il solo fatto di essere di stirpe longobarda implicava un giuramento
al re, esso probabilmente era dovuto dal guerriero al momento della prima
prestazione di servizio armato; e precisa: «l’exercitus costituiva simultaneamente la massima parte del popolo longobardo e della classe dei possessori»,
ma non coincideva esattamente con essi. Tuttavia, «ciò che dell’esercito non
fosse etnicamente longobardo, costituiva certo in esso qualcosa di marginale,
di acquisito, di più o meno assimilato ai Longobardi», come marginali erano
i Longobardi che non erano guerrieri e i guerrieri che non fossero possessori.
«Intima connessione, anche se non puntuale coincidenza dunque, di tradizione etnica, di apparato militare, di costruzione politica». Debolezza e forza di
una dominazione che era pur sempre la dominazione di un popolo, ed ecco
quindi che «la legislazione ebbe lo scopo primario di garantire la pace fra i
Longobardi come popolo armato e dominatore»12.
Impostata così la questione, tutte le altre fonti che Tabacco esamina gli
sembrano confermare la sua teoria. Centrale è l’analisi del Breve de inquisitione del notaio Gunteram, che nel 715 interrogò testi senesi ed aretini allo
scopo di dirimere una spinosa questione di confine fra le diocesi di Arezzo e
Siena. Ne risulterebbe confermata la larga prevalenza dei Longobardi fra gli
exercitales, mentre fra i testi detti liberi homines, da intendersi come possessori, ben maggiore sarebbe la presenza dei Romani, circa la metà; al contrario, ma a conferma di quello che Tabacco sostiene relativamente alla ‘longobardicità’ degli esercitali, se consideriamo tutte le carte longobarde dell’VIII
secolo ne risulterebbe che solo circa un terzo degli esercitali sarebbero classificabili come Romani. Dal canto loro, i Longobardi identificati come non
esercitali sarebbero stati quelli troppo poveri per armarsi, ovvero qualche
anziano che aveva perso la sua antica qualifica di membro dell’esercito regio, o ancora persone con minorazioni fisiche. Ma come può affermare questo Tabacco? Sulla base dell’onomastica, «un elemento infido», ammette, al
quale tuttavia non si sente di rinunciare13.
Nella parte finale dell’articolo, dopo un esame raffinato degli usi notarili
che gli permette di affermare che la stragrande maggioranza degli esercitali
erano anche viri devoti, ossia avrebbero prestato un giuramento al re in quanto guerrieri dell’esercito pubblico14, Tabacco viene alla polemica con Bertolini e ribadisce la coincidenza dei concetti di arimanno ed esercitale, «l’uno e
12
G. TABACCO, Dai possessori dell’età carolingia cit., citazioni alle pp. 224 e 227.
Ibid., pp. 228-234, cit. a p. 230. Recentemente, sulla questione della possibile funzione guerriera di
persone con minorazioni fisiche, ha espresso un parere diverso, sulla base di dati archeologici ed in riferimento ad un caso concreto, L. PEIRANO BARICCO, Presenze longobarde. Collegno nell’alto medioevo,
Torino, 2004, p. 37; ma cfr. la recensione di A. A. SETTIA, Una «fara» in Collegno, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino» 103 (2005), pp. 274-276.
14
G. TABACCO, Dai possessori dell’età carolingia cit., pp. 234-246.
13
26
STEFANO GASPARRI
l’altro esprimenti la realtà di una tradizione militare e politica longobarda,
incorporata in un popolo etnicamente ormai – nell’VIII secolo – non interamente omogeneo, ma ben distinto dalla restante popolazione come classe
politico sociale egemonica, stretta formalmente intorno all’apparato del regno e quasi in esso confusa»: è forse la migliore definizione del concetto di
‘popolo-esercito’ riferito ai Longobardi15. «Gli enti», dice molto giustamente
Tabacco, «non vanno moltiplicati senza necessità», dunque niente fantasiose
duplicazioni di gruppi di guerrieri, arimanni ed esercitali sono la stessa cosa16. L’identità di arimanni ed esercitali è provata in modo chiaro dal giudicato dei vescovi toscani e dal precetto di Liutprando che cercarono di chiudere, sempre nel 715, la contesa istruita dal breve di Gunteram: in questi due
documenti i testi interrogati in precedenza da Gunteram, esercitali e uomini
liberi, sono ricordati tutti insieme, sbrigativamente, come ‘arimanni’, e il
motivo è che, scrive Tabacco, «il termine di arimanno era il più adatto a
comprendere il complesso dei testi laici», in quanto era applicabile alla maggior parte di essi, agli esercitali in quanto tali, a una parte dei liberi homines
perché Longobardi, solo eccezionalmente non entrati nell’esercito o uscitine
per vecchiaia. Però, poche righe prima, lo stesso Tabacco aveva sottolineato
che arimanno era un termine «troppo ricco di risonanze longobarde» perché
non oscillasse fra l’idea del guerriero dell’esercito pubblico e la nozione di
longobardo17; dunque, nonostante la grande raffinatezza dell’analisi, e la logica in sé stringente anche di quest’ultima valutazione, non si sfugge
all’impressione che alla fine Tabacco sia giunto a conclusioni in parte contraddittorie, a indicare cioè come arimanni un gruppo in cui larga – per quanto egli non lo sottolinei più – era, secondo la sua stessa analisi, la presenza
dei Romani: ovvero con un termine longobardo che avrebbe invece conservato, per sua stessa ammissione, forti sfumature etniche. Seguendo con coerenza questa strada, nelle ultime righe dell’articolo Tabacco riprende il discorso relativo a «l’imponente problema etnico», difficile da risolvere, eppure riguardo al quale emergerebbe ormai un’indicazione chiarissima: gli arimanni carolingi e postcarolingi discendono in gran parte dagli arimanni di
Liutprando e dunque dai Longobardi; e a questo punto si può addirittura recuperare – come era già in parte emerso nella recensione a Cavanna – la
stessa indagine toponomastica, alla ricerca degli insediamenti longobardi
sulla base delle tracce del nome arimannico, e sia pure con tutte le cautele
già ricordate18.
15
Ibid., p. 246.
Ibid., p. 260. La confutazione delle tesi di Bertolini occupa tutta la quarta parte dell’articolo, pp. 246259, per continuare anche nella parte conclusiva.
17
Ibid., pp. 258-259.
18
Ibid., pp. 267-268.
16
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
27
Conclusioni forse un po’ deludenti, se lette oggi, alla distanza di più di
trent’anni. Ma conclusioni quasi inevitabili per l’epoca in cui furono scritte.
Se Tabacco si fosse liberato di quello che definisce «l’imponente problema
etnico», il suo articolo ne avrebbe tratto grande giovamento; in esso, infatti,
le tracce degli sviluppi futuri della ricerca ci sono tutte. Non a caso, sempre
nelle conclusioni, gli sfugge un «ufficialmente» riferito al ceto degli arimanni al tempo di Liutprando: «una classe di possessori che ufficialmente coincideva col popolo militarmente dominatore». È uno spunto importante, una
prima consapevolezza della retorica del linguaggio politico e del suo distacco dalla realtà sociale in senso stretto, come è proprio di ogni discorso ideologico.
Per lo sviluppo ulteriore del pensiero del Tabacco langobardista era necessaria una chiara presa di distanza da Bognetti. Essa trova un’espressione
forte nell’articolo del 1970, Espedienti politici e persuasioni religiose nel
medioevo di Gian Piero Bognetti19. Anche qui però bisogna fare attenzione,
perché in realtà nelle conclusioni Tabacco recupera molto di quanto smonta
nel corso del suo ragionamento. Egli boccia la teoria bognettiana relativa alle
origini missionarie della consacrazione romana del vescovo di Pavia, confutando puntualmente la sua lettura delle fonti, e soprattutto mette in luce
l’approccio fondamentalmente etico, emozionale, di Bognetti alla ricerca:
come quando ne sottolinea il «patriottismo longobardo», che rimane però
profondamente estraneo alle credenze ancestrali dei barbari, al «cieco tradizionalismo» dei Longobardi, o quando ricorda il disgusto di Bognetti verso la
corte di Bisanzio, il rifiuto insomma da parte sua di quanto avvertiva come «torbido» alle due estremità «dell’arco di culture convergente allora sull’Italia».
Tabacco tuttavia sostiene il carattere innovatore del lavoro di Bognetti, apprezza la sua riscoperta della centralità della storia ecclesiastica nei lontani
secoli altomedievali, riscoperta di cui riconosce il valore scientifico nonostante la tremenda carenza di fonti di età longobarda e «nonostante che uno
stupefacente pullulare di ipotesi», da parte di Bognetti, «a volte trasformi la
sua esposizione in un racconto improbabile»: ipotesi nate quasi sempre dalla
spinta a ricercare «in una volontà consapevole», «in singoli atti di volontà
politica», la radice di grandi fatti o mutamenti. Insomma, Tabacco vede con
chiarezza i pericoli di una storiografia che non si disciplina dentro
«un’esplorazione prudente», che subisce troppo il fascino del racconto e la
forza della fantasia (e qui viene bene il richiamo al famoso paragone di Bognetti fra Teodolinda e Maria Teresa)20. Del Bognetti, Tabacco mette pure in
luce il continuo mutamento di posizioni, l’impulso a cambiare le sue ricostruzioni per far quadrare tutto perfettamente (già gli arimanni ne erano stati
19
20
In «Rivista di Storia della Chiesa in Italia» 24/1 (1970), pp. 504-523.
Ibid., pp. 508-509, 512, 513.
28
STEFANO GASPARRI
una prova eloquente), ma lo fa bonariamente e ricorrendo anche a testimonianze di rapporti personali con lui21. Il gusto delle ricostruzioni minuziose
di grandi quadri storici, nonostante le ampie libertà del Bognetti rispetto al
punto di partenza rappresentato dalle fonti, gli paiono «la prima radice della
autentica sua grandezza di ricercatore». Così, pur bocciando anche l’idea di
un «piano generale missionario» preparato da Roma, Tabacco riconosce la
validità dell’individuazione, da parte dello storico milanese, del gruppo pavese di chierici di origine orientale impegnato, d’accordo con il re, a conciliare gli scismatici e a potenziare le chiese cattoliche. È cauto, invece, sulla
questione delle dedicazioni esaugurali delle chiese, così come sui «programmi politici» dei re longobardi basati sulla diffusione di precisi culti di
santi, visto che le dedicazioni non sempre sono facilmente databili; e se non
esclude del tutto la possibilità di usarle, lo ritiene tuttavia «un giuoco pericoloso», almeno finché non sia stato fatto un esame sistematico della diffusione regionale dei diversi culti22.
In sostanza, sotto la volontà bognettiana di ricostruire complicati e consapevoli disegni politici o politico-religiosi, sotto il suo gusto architettonico,
Tabacco scopre la fecondità di singole, concrete intuizioni. Con ciò finisce
per salvare, però, più di quello che ha ripetutamente messo in dubbio sulla
base di un confronto serrato con le fonti. Certo, i metodi usati da Bognetti
esigono grande cautela, scrive, e i risultati correzioni profonde, ma i punti
fondamentali da lui utilizzati «nella grande crisi della gens Langobardorum», crisi dovuta alla conversione, rimangono saldi. Risultati ottenuti coniugando le fonti tradizionali, ossia i testi giuridici, narrativi, documentari,
con quella che Tabacco chiama un po’ sbrigativamente «erudizione antiquaria»: folklore, linguistica, epigrafi, dedicazioni, toponomastica, dati archeologici23. Ed è forse proprio qui la chiave del suo rapporto con Bognetti: troppo grande è la distanza che Tabacco mantiene con queste ultime fonti, persino, o forse soprattutto, con le fonti archeologiche, ovvero proprio quelle fonti sulle quali (o sulla mancanza delle quali) Bognetti costruisce tante delle
sue ipotesi24.
E inoltre: perché Tabacco parla di «grande crisi della stirpe longobarda»? Perché la conversione al cattolicesimo dovrebbe aver significato crisi?
Tutto deriva dall’idea, cara a Bognetti, della persistente importanza dell’eresia
21
Come quando racconta (Ibid., p. 514, in nota) di un biglietto passatogli a Spoleto da Bognetti, in cui
questi ammetteva la sua disponibilità a cambiare opinione. Ben più pregnante era stato il suo giudizio su
«gli arimanni di Gian Piero Bognetti», in I liberi del re cit., pp. 13-36.
22
Ibid., pp. 521-523.
23
Ibid., p. 523. È vero che sotto quell’etichetta probabilmente era compresa da Tabacco anche la tradizione erudita vera e propria, essa tuttavia per lui andava sempre insieme alle altre discipline citate, di cui
diventava in qualche modo strumento (p. es. a p. 521 egli parla, a proposito del metodo di Bognetti, di
sfruttamento di «informazioni note soltanto attraverso la tradizione erudita e le indagini archeologiche»).
24
Per quest’ultimo aspetto devo di nuovo rimandare al mio lavoro citato alla nota 11.
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
29
ariana come elemento di distinzione fra Longobardi e Romani – idea non
più, oggi, seriamente sostenibile25 – e sul conseguente travaglio di una sofferta ‘acculturazione’ longobarda all’antica civilitas, che avrebbe prodotto
una nuova simbiosi fra «le forme autoritarie dell’ordinamento ecclesiastico»
ed il ceto sociale dominante nelle terre longobarde, «una disadorna aristocrazia di guerrieri», ossia fra alto clero e nobiltà longobarda26. Così si esprime
Tabacco nella sua sintesi all’interno della Storia d’Italia Einaudi, dove è ben
centrale il nodo profondo che sottostà alla crisi: come aveva scritto pochissimo tempo prima in un intervento sulla Toscana meridionale altomedievale,
era il «processo attraverso cui questo ceto di armati e di possessori si va trasformando, dall’VIII secolo in poi, da una gens, prima etnicamente e poi territorialmente caratterizzata come popolo in armi, in una pluralità di gruppi
più o meno eminenti – rispetto alla massa di servi e massari – nelle singole
situazioni locali, con progressivo disfacimento dell’exercitus come contesto
unitario». E aveva aggiunto che solo tramite l’analisi di quel processo si poteva superare la «monotonia» di un’evoluzione uguale dappertutto,
nell’Europa occidentale di quei secoli, quella di un’aristocrazia promossa dal
potere regio che si insedia nel territorio e realizza un’osmosi con le istituzioni ecclesiastiche27.
Pur con qualche ambiguità, pare di capire che per Tabacco questa fosse
una particolarità della storia italiana, e appunto su di essa egli insiste nella
sua sintesi einaudiana del 1974. Lì il processo, confuso e violento, di scioglimento delle fare longobarde sul territorio è raccontato in maniera estesa, e
così pure il processo di appropriazione della terra da parte loro. Tabacco era
un convinto sostenitore del fatto che l’invasione longobarda avesse rappresentato una vera e propria frattura nell’evoluzione del nostro paese, tanto che
la definì, sempre nella sintesi del 1974, «la rottura longobarda nella storia
d’Italia», vedendo in essa l’effettiva transizione italiana fra antichità e medioevo, a causa prima di tutto della fine storica del ceto senatorio, l’antica
classe dirigente capace di padroneggiare i sofisticati meccanismi di governo
e di inquadramento sociale propri dello stato tardoromano; tale fine fu accompagnata inoltre da uno sconvolgimento di tutte le condizioni del possesso fondiario e dalla scomparsa di quasi tutto il ceto dei possessori romani,
25
Sul cristianesimo dei Longobardi si vedano, in ordine cronologico: S. C. FANNING, Lombard Arianism
Reconsidered, in «Speculum» 56 (1981), pp. 241-258; S. GASPARRI, Roma e i Longobardi, in Roma
nell’alto medioevo, XLVIII Settimana di studio del CISAM, Spoleto, 2001, I, pp. 219-247; W. POHL,
Deliberate Ambiguity: Lombards and Christianity, in Christianizing Peoples and Convertings Individuals, ed. by G. ARMSTRONG - I. N. WOOD, Turnhout, 2000, pp. 47-58.
26
G. TABACCO, Egemonie sociali e strutture del potere nel medioevo italiano, in Storia d’Italia, Einaudi,
II/1, Torino, 1974, pp. 64-72, cit. a p. 65 (il saggio, con il medesimo titolo, fu ristampato come volume
autonomo nel 1979).
27
G. TABACCO, Arezzo, Siena, Chiusi nell’alto medioevo, in Atti del V Congresso internazionale di studi
sull’alto medioevo, Spoleto, 1973, pp. 168-169.
30
STEFANO GASPARRI
ridotto a puro elemento residuale. «Non vi è dubbio», scrive Tabacco, «che
la massima parte dei proprietari fondiari, dai tempi di Liutprando alla fine
del regno, era di Longobardi», e precisa: «di uomini liberi che nei rapporti di
diritto privato vivevano secondo la tradizione giuridica longobarda», il che
però, secondo lui, vuol dire in sostanza la stessa cosa perché non vi sarebbe
«indizio di un’imponente assimilazione giuridica e militare di una libera popolazione romana da parte dei Longobardi»28.
Tabacco interpreta tutto il processo di assestamento del regno secondo i
parametri etnici e sociali elaborati nell’articolo del 1969; e ad esempio viene
fatto di chiedersi quanto abbia negativamente pesato l’interpretazione, rivelatasi poi errata, del documento pistoiese nel quale si sarebbero identificati –
ma è solo il frutto di una cattiva lettura del copista – Romani e massari,
quando egli scrive che i Longobardi ridussero i Romani ai margini del potere
sociale, identificandoli con i coltivatori dipendenti29. Talvolta Tabacco si
discosta dalle fonti, operazione per lui inusuale, come quando descrive il
passaggio alla proprietà individuale da parte dei Longobardi, sottolineando
un processo del quale il meno che si possa dire è che non ve ne sono tracce
chiare. Ecco quindi che le silvae arimannorum diventano i residui delle vecchie proprietà indivise delle fare longobarde, anche se poi subito dopo aggiunge che è possibile che tali spazi incolti non risalgano al primo periodo,
bensì ad assegnazioni anche molto posteriori fatte da re e duchi a gruppi di
guerrieri30.
Sempre in una chiave di storia territoriale, infine, nel suo saggio dedicato alla Tuscia Tabacco, a proposito dell’intimo coinvolgimento della popolazione senese e aretina nella vita delle sue chiese, risultante dai famosi documenti toscani rammentati più sopra, sottolinea lo stretto rapporto che con
queste chiese ebbero gli esercitali longobardi, che avrebbero costituito un
vero e proprio gruppo emergente all’interno delle varie comunità locali; egli
continua a chiamarli Longobardi in un senso pressoché totalmente etnico,
sulla base delle sue conclusioni precedenti, non rilevando la totale assenza di
distinzioni etniche nelle sue fonti e, all’opposto, la presentazione di populi
cementati dal patriottismo territoriale e religioso. «Questa sorta di patriottismo senese in piena età longobarda costituisce un problema non marginale
nella storia delle trasformazioni sociali avvenute allora in Toscana», scrive: è
28
G. TABACCO, Egemonie sociali cit., pp. 61-62. Il titolo "La rottura longobarda nella storia d’Italia" è
quello dell’intero capitolo II del saggio (pp. 39-72).
29
A. GHIGNOLI, Da massarii a Romani: note e congetture su un famoso documento longobardo (CDL, nr.
206: 767 aprile 9, Pistoia), in «Archivio storico italiano» 578 (1998), pp. 621-636.
30
G. TABACCO, Egemonie sociali cit., pp. 62-63.
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
31
vero, ma rappresenta anche un’opportunità di leggere finalmente la società
longobarda dell’VIII secolo senza occhiali etnici31.
È un’opportunità che però per il momento non viene colta. Per Tabacco
era sempre il popolo dei Longobardi, in quanto «felicissimo esercito», a detenere il potere politico, anche se negli ultimi anni della loro dominazione si
era per più versi ricostituito in Italia un apparato sociale analogo a quello
dell’ultima età imperiale e teodericiana: la dominazione di una classe sociale
basata sulla terra, dotata di una sua solidarietà di fondo e profondamente
compenetrata con l’ordinamento pubblico e con quello ecclesiastico. Ma era
una vasta classe aristocratica diversa da quella antica perché era emersa da
un popolo armato di cui comunque ancora faceva parte, in costante raccordo
con schiere più umili di arimanni-possessori ai quali la univa la comune tradizione militare longobarda32. Si vede bene la fecondità di queste posizioni
di Tabacco, purché si prendano gli accenni alla tradizione e si facciano invece cadere quelli alle distinzioni etniche. In questo modo la storia longobarda
(ossia italiana) sarebbe più comparabile a quella degli altri paesi, in particolare a quella del grande regno franco. Invece, ancora nella sua lezione spoletina del 1972, dedicata alla connessione fra potere e possesso nel regno franco e nel regno longobardo nel secolo VIII, Tabacco aveva esplicitamente
affermato che «nel regno longobardo è accertabile attraverso legislazione e
carte private l’approssimativa coincidenza del popolo militarmente dominatore col ceto dei possessori», circostanza che al contrario non sarebbe stata
riscontrabile nel «mondo dominato dai Franchi […] troppo vasto, vario e
complesso […] perché il problema possa trovare una risposta uniforme per
tutte le regioni incorporate in quel regno»: con ciò però si riproponeva ancora una volta l’irriducibile alterità italiana33.
Tabacco era forse ancora troppo legato all’idea, di tradizione ottocentesca, dell’esistenza di una ‘Latinità’ e di un ‘Germanesimo’ ben definiti, che
potessero dapprima confrontarsi e poi fondersi in una nuova sintesi, la sintesi
31
G. TABACCO, Arezzo, Siena, Chiusi cit., pp. 164-165.
G. TABACCO, Egemonie sociali cit., p. 70.
33
G. TABACCO, La connessione fra potere e possesso cit., p. 165. Nella lunga discussione che seguì la
lezione, nella quale Tabacco si confrontò vivacemente con Bertolini (come detto sopra, alla nota 7, ancora
sul problema degli arimanni), egli affermò a chiare lettere che l’esercito «è il popolo di tradizione longobarda. Il regno longobardo non poteva rinunciare a quest’idea che era la ragione stessa di esistenza di quel
regno. Tutti coloro che erano incorporati nell’exercitus, con ciò stesso entravano nella classe egemonica
in cui consisteva di fatto il mondo dei Longobardi. C’è un allargamento, ma quest’allargamento non è dal
punto di vista etnico una trasformazione rivoluzionaria: la base non è più etnica ma i possessori erano in
massima parte longobardi»; e ancora, a proposito dei mercanti che dal capitolo 3 delle leggi di Astolfo
risultano essere incorporati nell’esercito, Tabacco dice che «con ciò stesso non sono sentiti come romani», ma anzi «rientravano sotto l’etichetta di “longobardi”. Non che ciascun mercante diventi di legge
longobarda ma è marginale il fatto che vi siano nell’exercitus elementi che non professano la legge longobarda» (Ibid., pp. 212-214). Tra etnia, legge, tradizione, Tabacco appare dunque avviluppato in una
trama concettuale dalla quale non riesce completamente ad uscire.
32
32
STEFANO GASPARRI
latino-germanica del medioevo europeo; e da questa convinzione ricavava
forse la sua stessa persistente fiducia nella chiarezza delle distinzioni etniche34. Tuttavia, progressivamente Tabacco si emancipò almeno in parte da
queste posizioni. Nel suo intervento al Congresso di Milano del 1978, ad
esempio, parlando degli studi sulla più antica storia delle stirpi germaniche,
egli condannò senza mezzi termini la «concezione statica della loro natura»
– in base alla quale le migrazioni erano viste come un semplice spostamento
fisico di masse alla ricerca di spazio vitale –, dando il merito alla ricerca archeologica più recente di aver proposto un’immagine nuova dell’antico
mondo germanico: le migrazioni più che come movimento di popoli gli apparivano interessanti come nascita di nuovi raggruppamenti etnici e per le
trasformazioni profonde subite dalle varie gentes35. «Sotto la persistenza di
un nome […] si celò spesso, piuttosto che il permanere di una stirpe, il processo di una sua formazione: una Stammesbildung», scriveva Tabacco, citando Reinhard Wenskus e il suo fondamentale libro del 1961; «il rigore delle riflessioni storico-archeologiche esige ormai di attenuare la solidità un
tempo attribuita alle compagini etniche», aggiungeva con tono ultimativo36.
Ma allora, viene da chiedersi, perché mai la Stammesbildung, l’etnogenesi, si
sarebbe dovuta fermare – o avrebbe dovuto rallentare fin quasi a fermarsi –
dopo il 568/69? Il punto è che Tabacco sembra tenersi molto lontano da certi
processi, che egli vede ormai chiaramente, ma che ritiene fondamentalmente
estranei alla sua ricerca: della stessa estraneità che c’è fra la preistoria e la
storia.
Gli ultimi due importanti interventi di Tabacco sull’età longobarda si
collocano a qualche distanza fra di loro e rappresentano – soprattutto il secondo – una fase di svolta, sia pure non esplicitamente dichiarata, nella sua
interpretazione di quel periodo. La prima occasione fu quella del convegno
su “Milano prima del Mille”, del 1983, dove, certo, Tabacco ripropone alcune posizioni tradizionali, come ad esempio l’idea che il gran numero di professioni di legge longobarda nel Milanese possa essere fatto risalire – in modo diretto – all’intensità dell’originario stanziamento barbarico in quel medesimo territorio. E ugualmente ammette ancora una volta l’uso della toponomastica per la ricostruzione dell’insediamento longobardo nel Milanese,
procedendo sulla scorta di studi oggi non più accettabili, nei loro presupposti
come nelle loro conclusioni; è peraltro significativo il fatto che Tabacco non
34
Tabacco era ben cosciente dell’importanza del tema, al quale aveva dedicato espressamente due saggi:
La città italiana fra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, in Italia e Germania: Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il medioevo, Annali dell’Istituto storico italo-germanico
in Trento, Contributi, 1, Bologna 1988, pp. 23-42, e Latinità und Germanesimo in mediävistik Tradition
Italiens, Tübingen 1989, pp. 108-140 (ristampato in «Rivista storica italiana» 102 (1990), pp. 691-716.
35
TABACCO, L’inserimento dei Longobardi cit., pp. 226-227
36
Ibid., pp. 227 e 233; cfr. R. WENSKUS, Stammesbildung und Verfassung. Das Werden der frühmittelalterlichen Gentes, Köln-Graz 1961.
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
33
approfondisca questi argomenti, che erano più lontani senza dubbio dai suoi
interessi ma che evidentemente, e forse soprattutto, egli avvertiva fondati su basi
molto scivolose37. La forte sottolineatura della radice etnica longobarda della
classe dei possessori rimane, ed anche l’idea dell’importanza del lavoro missionario, antiariano ed anticapitolino, che attraversò i primi centotrent’anni circa
della storia longobarda, idea questa di derivazione bognettiana anche se Tabacco la depura dei piani e delle centralizzazioni di Roma. Ma nuova è la sottolineatura della «persuasione di essere Longobardi» presente in gran parte del
ceto dei possessori fino alla prima età comunale: le ascendenze etniche, pur
riaffermate, si vanno facendo progressivamente più opache e trascolorano
pian piano nella tradizione. Inoltre, nel ritmo milanese del 739 i Longobardi
risultano pienamente incorporati nella tradizione cittadina, scrive Tabacco,
come conseguenza del raggiunto inquadramento religioso in senso cattolico,
una tradizione alla quale essi conferiscono un nuovo significato militare. In
tal modo è la forza del clero, dei monaci, dell’episcopato, la loro capacità di
imporre tramite l’inquadramento cattolico un’acculturazione piena dei Longobardi all’antica civilitas, che balza in primo piano: «quell’inquadramento
ecclesiastico» – scrive – «che implicava programmaticamente il raccordo fra
etnie, ceti e potere politico, secondo un modello tardo-antico, adattato alla
presenza germanica»; e conclude: siamo «in un quadro dunque profondamente condizionato da un passato di civiltà, ma venato di nuove vocazioni
guerriere»38.
Nel suo ultimo lavoro sui Longobardi, quello apparso su «Langobardia»
del 1990, Tabacco esamina le complicazioni sopravvenute in questo quadro
italico in conseguenza della conquista franca, avviando nello stesso tempo
un impegnativo confronto fra i due regni, il longobardo e quello franco dominato dai Carolingi. Motore fondamentale della trasformazione gli appare
ancora una volta la forza dell’ordinamento ecclesiastico, nel cui intimo connubio con la dominazione franca egli trova la radice prima della diversità dei
due regni ed uno dei fondamenti della superiorità del regno più settentrionale. Quest’ultimo era inoltre costruito da sempre, si può dire, su una tradizione imperiale di dominio, all’interno della Gallia, su diversi populi; si trattava
in realtà di entità regionali, sottolinea Tabacco, pure se la loro denominazione si richiamava ancora alle etnie: Franchi, Burgundi, Romani (ossia Aquitani). Al contrario, nell’Italia longobarda «vi è ufficialmente un solo popolo
di liberi, unificato nel nome arimannico», qualunque sia la legge, longobarda
37
G. TABACCO, Milano in età longobarda cit., p. 19 (dove si dice anche che, se pure la prevalenza delle
professioni di legge longobarda in età precomunale possa essere fatta risalire anche ad «una graduale
assimilazione giuridica» della popolazione romana, tuttavia tale circostanza non si sarebbe mai verificata
senza «una massiccia immissione di Longobardi in quel ceto dei possessori» testimoniato dalle carte
d’archivio) e pp. 40-41.
38
Ibid., pp. 20, 34-38, 43.
34
STEFANO GASPARRI
o romana, e qualunque sia la collocazione regionale. Questo popolo è formato da «Longobardi o longobardizzati», verso di esso il re usa un linguaggio
«di una semplicità e di una cordialità rare», molto più diretto di quello del
suo omologo franco: siamo «nell’orizzonte di una generale solidarietà fra i
liberi di tradizione ufficialmente longobarda» – ecco un avverbio che ritorna
– pure se questi liberi sono profondamente mescolati da elementi latini39.
Sono lì le tradizioni germaniche della monarchia longobarda, nel richiamo
alla tradizione arimannica degli esercitali, «nella connessa coscienza o memoria – memoria nel caso dei Longobardi e pseudomemoria nel caso dei
Romani entrati nell’esercito e nella tradizione giuridica dei Longobardi – di
un presente o di un passato di popolo dominatore, libero per eccellenza in
quanto atto alle armi».
Sono tutti accenni ad una considerazione diversa della questione etnica,
che portano dritti all’affermazione secondo la quale fin dall’età longobarda
erano in corso i processi di «trasformazione degli arimanni da popolo armato
e dominatore in una classe sociale plurietnica». Non che Tabacco neghi le
sue posizioni precedenti, molto caratterizzate dalle distinzioni etniche, ma gli
accenti sono ora profondamente diversi e puntano piuttosto verso il completamento del processo di fusione, le cui tappe cronologiche Tabacco non sottolinea, sfuma, ma che verosimilmente devono essere già antiche agli inizi
della dominazione carolingia: quando i capitolari franchi si propongono come prosecuzione esplicita della legislazione longobarda, facendo appello,
scrive, ad una «persistente coscienza longobarda», di cui però non sono più
definibili i confini: infatti «una distinzione etnico-giuridica all’interno della
popolazione del regno […] non è possibile, per la profonda osmosi avvenuta
fra Longobardi e Latini nel ceto dei possessori». È un’affermazione chiarissima40.
Accanto all’evoluzione del ceto dei possessori, di cui si accenna anche il
declino nella piena e tarda età carolingia secondo le linee già a suo tempo
proposte ne I liberi del re, l’altro grande tema del saggio del 1990 è rappresentato dallo studio di come l’ordinamento ecclesiastico del regno longobardo e, accanto ad esso, la società nel suo complesso accolgano le profonde
novità introdotte dall’importazione in Italia della simbiosi franca fra istituzioni religiose e potenza politica. Ed è interessante che, nel sottolineare i
modi peculiari con i quali l’episcopato della penisola recepì le novità, Tabacco parli di vitalità delle tradizioni «italico-longobarde», un altro modo
per sottolineare la raggiunta sintesi del mondo italiano precedente alla conquista franca. Alla base della diversità, ossia della maggiore estraneità delle
39
G. TABACCO, L’avvento dei Carolingi cit., pp. 446-448; sulla posizione differente dell’ordinamento
ecclesiastico nei due regni, pp. 448-452 (le citazioni sono riferite sempre all’edizione del 2004).
40
Ibid., pp. 466, 472, 474.
GLI STUDI LONGOBARDI DI GIOVANNI TABACCO
35
chiese e dei monasteri italico-longobardi rispetto allo sviluppo dell’aristocrazia
e del potere pubblico, a paragone dell’evoluzione franca, Tabacco richiama
«la violenza della prima invasione e la lunga persistenza di una tradizione
acattolica»: affermazione che, come accade talvolta in Tabacco, rappresenta
un omaggio alla precedente tradizione di studi, un’affermazione la cui scarsa
fecondità è però dimostrata dal fatto che è da lui immediatamente abbandonata. Ben più importante appare invece la sottolineatura del fatto che la mancanza di un «connubio intimo […] fra la protezione esercitata sulle chiese
dal regno e lo sfruttamento politico-militare del loro patrimonio […] realizzato nelle forme solenni di una sorta di clientela ufficiale comune», abbia
impedito al mondo italico – meno ricco di grandi proprietà fondiarie dei propri vicini di Oltralpe – lo sviluppo di clientele politico-militari paragonabili a
quelle vassallatiche, strumento principe della potenza franca. Nella visione
conclusiva di Tabacco, la formazione di quella che egli chiama «l’Italia dei
Longobardi e dei Franchi» è il prodotto del confluire della tradizione italicolongobarda, rappresentata soprattutto dalla tradizione dei liberi homines,
Longobardi, arimanni, modesti proprietari di terre, e delle loro chiese, nel
complesso ordinamento franco di natura imperiale, una dominazione ecclesiastica che era coniugata con la potenza politica e la forza militare41.
Nell’evoluzione del suo pensiero, Tabacco – ben diverso, in questo, da
Bognetti42 – si è sempre caratterizzato per l’estrema coerenza, proponendo
ricostruzioni che inglobavano progressivamente i risultati delle sue analisi
precedenti, in un modo reso evidente, in molti passaggi, dall’uso rigido di
termini ed espressioni precise, che rinviavano immediatamente il lettore consapevole ai suoi lavori fondamentali in materia, I liberi del re e Dai possessori dell’età carolingia agli esercitali dell’età longobarda. Tuttavia, nonostante questa sua apparente rigidezza, alla fine del suo percorso Tabacco ha
silenziosamente abbandonato la chiave interpretativa etnica, che gli si è rivelata via via sempre più inutile finendo ai margini delle sue spiegazioni. Ma
ciò è avvenuto senza fare i conti fino in fondo, esplicitamente, con i vecchi
schemi storiografici, di cui egli si è di fatto in gran parte liberato semplicemente spostando la sua attenzione sulla tarda età longobarda, là dove lo
spingeva anche il suo interesse prevalente verso il mondo franco: quella tarda età che invece era ai margini della storiografia tradizionale, Bognetti
compreso, che investigava quasi esclusivamente i primi tempi longobardi, al
massimo il secolo VII, fin dove cioè si poteva trovare traccia di Romani più
o meno inventati da contrapporre ai Longobardi.
41
Ibid., pp. 450-451, 461 (tradizioni italico-longobarde), 479.
Direi anche consapevolmente diverso: si veda ad esempio, a corollario di quanto già scritto sopra, quanto afferma lo stesso Tabacco, nel corso della citata discussione con Bertolini, a proposito del «pericoloso
gioco di ipotesi che egli [Bognetti] si è permesso» (TABACCO, La connessione fra potere e possesso cit.,
discussione, pp. 216-217).
42
36
STEFANO GASPARRI
Per porre seriamente in discussione non solo le esuberanze di Bognetti,
ma anche tutta l’impostazione storiografica prevalente nella prima metà del
secolo XX, e in molti casi anche oltre, Tabacco avrebbe dovuto manifestare
un interesse, che non era il suo, verso classi di fonti che egli non a caso poco
usa. Il riferimento non è solo alla già accennata estraneità sostanziale verso
le fonti da lui definite “antiquarie”, fra le quali spicca l’archeologia, il cui
contributo al rinnovamento degli studi altomedievali è, almeno oggi, a tutti
noto; ma anche allo scarsissimo uso che egli fa della documentazione
d’archivio. Non tragga infatti in inganno il suo articolo del 1969, lì le carte
sono utilizzate solo per verificare formulari ed usi notarili, nient’altro, non
sono mai considerate per quello che ci possono dire della società italicolongobarda. L’attenzione primaria di Tabacco è infatti soprattutto per la storia del potere politico ed ecclesiastico, del loro rapporto con le élites e dei
loro schemi di inquadramento della società, più che per il concreto funzionamento di quella medesima società. Di qui il suo forte interesse per le fonti
normative, leggi, capitolari, concili, che egli maneggia con un’ineguagliabile
capacità di analisi. Ne scaturisce una visione forse un po’ astratta, ma al
tempo stesso fortemente compatta e unitaria. E sta proprio qui l’importanza
degli studi longobardi di Tabacco: nella ricostruzione di un mondo longobardo privo di arimannie e polarizzato intorno ad un potere regio che usa un
linguaggio ideologicamente costruito, in rapporto ad un ormai immaginario
popolo dominatore trasformatosi, nel secolo VIII, in una classe sociale di
possessori. Depurati dei resti dell’ottica deformante delle distinzioni etniche,
tali studi rappresentano ancora oggi uno dei punti di partenza più fecondi per
gli sviluppi ulteriori della ricerca sull’età longobarda.