contributi e proposte
Collana di letteratura italiana
fondata da Mario Pozzi
diretta da Enrico Mattioda
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Comitato scientifico
benedict buono (Universidade de Santiago de Compostela)
Jean-Louis FourneL (Université de Paris 8)
roberto GaLbiati (Università di Torino)
pasquaLe sabbatino (Università di Napoli Federico II)
duccio tonGiorGi (Università di Genova)
sabine VerhuLst (Koninklijke Vlaamse Academie van België voor Wetenschappen en
Kunsten)
I volumi pubblicati nella Collana sono sottoposti a un processo di peer review che ne
attesta la validità scientifica.
Paola Cosentino
Sulla scena
Luoghi e generi teatrali fra ’500 e ’600
Edizioni dell’Orso
Alessandria
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Lingue e Letterature
Straniere e Culture Moderne dell’Università degli Studi di Torino.
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ISSN 1720-4992
ISBN 978-88-3613-327-7
A Canio, libraio
PREMESSA
Questa raccolta di saggi, nati in occasioni diverse e qui ripartiti in quattro
diverse sezioni, obbedisce a un intento preciso. Che è quello di ripercorrere le
mie indagini teatrali degli ultimi anni, arrivando a costruire un quadro assai
mosso e di lì a riconoscere somiglianze e differenze, fratture e continuità:
partendo da una serie di incursioni nel mondo della commedia fiorentina (e
romana) di primo Cinquecento sono infatti arrivata a sondare la produzione tragica di fine secolo, gli spettacoli seicenteschi in corte e in accademia,
infine il teatro barocco di Federico Della Valle. L’attraversamento di questi
ambiti, pur distanti fra loro, mi ha consentito non solo di valorizzare, attraverso una lettura attenta dei testi, il ruolo dei modelli antichi e moderni, ma
talvolta anche di mettere a confronto letteratura alta e letteratura bassa, generi
codificati e prodotti “popolari” meno conosciuti, e tuttavia assai diffusi sul
mercato cinque e seicentesco.
In esordio affronto un gigante, Machiavelli. E quindi rileggo il Discorso
o dialogo come utile abbrivio per mettere a confronto le teorie esposte nel
trattato sulla lingua e la pratica delle commedie. Naturalmente le posizioni
assunte all’interno dell’operetta linguistica – legate alla difesa del volgare
toscano, alla ripresa dei modelli comici antichi, alla definizione tradizionale
dei personaggi – non raggiungono l’oltranza scenica dei capolavori, Mandragola e Clizia, ove è invece agevole riconoscere il portato di una rivoluzione
maturata a partire dall’intreccio, capace, nel primo caso, di rappresentare una
vicenda dai tratti blasfemi, nel secondo, di mettere in scena una vera e propria autoparodia. Ma è vero che interrogarsi sulla funzione della commedia,
sulle difficoltà di impiegare una lingua dotata di realismo, sull’importanza
di ricorrere ai motti che possano indurre al riso è operazione necessaria, in
un contesto fiorentino dove la riflessione sul teatro va di pari passo con la
rilettura e il commento dei classici, greci e latini. A questo si aggiunga un
altro elemento: al principio del secolo, e non solo a Firenze, il rapporto fra
commedia, tragedia e storia della lingua è strettissimo. E nella prospettiva di
un rinnovamento sostanziale che coinvolge anche le trame: lo dimostra l’invenzione di un meccanismo teatrale perfetto, come è quello della commedia
di Callimaco e Lucrezia, fondata non solo su un linguaggio che si adatta ai
diversi personaggi (penso, ad esempio, alla caratterizzazione di Nicia), ma
anche sul fruttifero incontro fra tradizione latina e novella volgare. Incontro
dotato di uno straordinario potenziale comico, come aveva intuito Bernardo Dovizi da Bibbiena che, nella Calandra, aveva messo a frutto l’eredità
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del «moccicone» Plauto coniugandola con un gusto, tutto moderno, per la
beffa.
Proprio la commedia del cardinal Dovizi autorizza uno spostamento in
un’altra area assai promettente sul fronte spettacolare, quella della Roma dei
papi. Qui viene rappresentata la Calandra, dopo un interessante passaggio urbinate, che offre l’occasione di ricostruire l’origine del testo, voluto dal duca
Della Rovere per rafforzare l’alleanza politica con la città pontificia. Roma è
dunque il centro attivo di un classicismo anche volgare, sorto sotto l’egida di
Leone X, cui non a caso si rivolge il Trissino nella dedica della prima tragedia italiana del secolo, la Sofonisba. Sede dei più vari esperimenti spettacolari,
Roma è pure il luogo dove, non a caso, vengono stampate le sette commedie
volgari ad opera dell’editore Minizio Calvo: costui mette a punto un canone
comico che corrisponde alla realtà spettacolare dell’epoca, ove, accanto ai maggiori – Ariosto, Bibbiena, Machiavelli – fanno la loro comparsa autori minori,
destinati ad essere, di lì a poco, dimenticati. Ciononostante, l’essenziale collanina, fondata su testi redatti in prosa, sembra fare scuola, dal momento che
ben due stampatori, Girolamo Soncino prima (1526) e Niccolò Zoppino dopo
(1525-1531), si rifanno alla lezione del Calvo, ben comprendendo l’importanza
assunta dalla titolografia teatrale per l’espansione della tipografia. La fortuna
del genere commedia è determinata dal recupero dei modelli plautini e terenziani, spesso rivisitati attraverso l’impiego del Boccaccio più faceto: tuttavia, alla
novella volgare va affiancata un’altra tradizione narrativa, che è quella inaugurata dalle Metamorfosi di Apuleio, e più specificamente dal IX libro, legato al
tema dell’adulterio. Ne costituisce un esempio lampante il Formicone del Mantovano, il primo dei testi pubblicati dal Calvo, modellato sulla celebre novella
delle pianelle. Ma un’ulteriore traccia è rinvenibile in un’altra commedia che
ci fa tornare a Firenze: alludo alla Milesia di Donato Giannotti, già nel titolo
omaggio dichiarato alla tradizione della fabula che appunto milesia si chiama.
Dal romanzo latino di Apuleio ha origine un percorso comico che sembrerà
segnare le tappe della drammaturgia primo-rinascimentale, lambendo finanche
la Mandragola, opera in cui inganno, tradimento e corruzione appaiono perfettamente orchestrati insieme.
Alle intersezioni fra storia contemporanea e genere tragico è dedicata la
seconda sezione, che muove, in continuità con la precedente, dall’esperienza
degli Straccioni del Caro, commedia ispirata alla realtà di una Roma farnesiana che anima sì il fondale teatrale, ma che diventa altresì lo spunto per mettere
in scena figure davvero esistite. In maniera analoga, anche i lamenti redatti a
seguito della morte dei due amanti omicidi (Ippolita e Ludovico) e pubblicati
su fogli volanti pongono in relazione evento drammatico e rapida costruzione
popolare di un mito, così come la tragedia intitolata Il soldato (1550), esempio efficace di trasformazione letteraria di un terribile fatto di cronaca che,
avvenuto a Padova, aveva suscitato sgomento e partecipazione emotiva da
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parte dell’intera cittadinanza. Questo sarebbe avvenuto anche qualche anno
dopo, in occasione della presa di Cipro (1571) da parte dei turchi: di fronte
alla brutale e inaspettata esecuzione del governatore veneziano Marco Antonio Bragadin, colpevole solo di aver creduto alle garanzie offerte dai nemici,
la pubblica opinione veneziana aveva reagito con un moto di orrore. Quello
stesso che aveva guidato le prime cronache volgari dell’accaduto, a loro volta
seguite da una serie di tragedie, capaci di trasfigurare il terribile episodio
collocandolo in un lontano passato oppure di narrare, attraverso una struttura modellata sui classici, i momenti essenziali di una vera e propria passio,
considerata esempio perfetto di tragedia moderna da Tommaso Campanella.
Accanto alle vicende contemporanee emergono, sulla scena drammatica
di fine secolo, numerose figure di donna, così come era capitato fin dagli
esordi del genere: insieme a Merope, protagonista dell’omonima pièce del
Torelli che pure utilizza sempre il personaggio femminile quale depositario
privilegiato degli affetti e del lutto fanno la loro comparsa Adriana (protagonista dell’omonimo dramma del Groto), Alvida e Rosmonda (voci muliebri
dell’unica tragedia del Tasso, il Re Torrismondo), infine Gismonda (che dalla
novella di Boccaccio balza sulla scena tragica di fine secolo), tutte eroine
dolenti cui è demandato il compito di dare corpo alle ragioni del privato e
quindi di enfatizzare il pathos connaturato al genere. Ad esse vanno senz’altro affiancate le protagoniste del teatro dellavalliano, che, se da un lato ci riportano al confronto fra la parola in coturno e la storia contemporanea (penso
alla Reina di Scozia dedicata alla morte di Maria Stuarda), dall’altro offrono
un’interpretazione della storia biblica capace, attraverso il culto della Vergine
rilanciato dalla Riforma cattolica, di esaltare figure femminili forti e generose. Grazie al Della Valle, che sarà fatto oggetto di una specifica indagine
nell’ultima parte del volume, abbiamo superato le soglie del Seicento: il secolo barocco assiste alle metamorfosi della tragedia, la quale, pur rifacendosi alla tradizione classica, acquisisce nuovi elementi utili a una progressiva
trasformazione sotto l’egida del romanzo, della tragicommedia, dell’apporto
dei comici dell’arte. Più in generale, il teatro seicentesco si fa veicolo di
sperimentazione e di contaminazione fra i generi, determinando una realtà
spettacolare posta sotto l’insegna della commistione come della varietà.
Ancora al Seicento delle Accademie, luoghi di elaborazione, teorica e pratica, di esperimenti teatrali è dedicata la terza campata di questo lavoro. Con
una specifica attenzione rivolta a Firenze, ove i diversi sodalizi accademici
erano divenuti, spesso grazie alla protezione accordata loro dai Medici, spazi
di confronto, di promozione culturale, di celebrazione encomiastica. Alternativi alle rappresentazioni ufficiali patrocinate dalla corte, gli spettacoli di
alcune di queste congreghe seppero coinvolgere numerosi artisti, impegnati
quindi sul doppio fronte della messa in scena e della tela. Un altro ambito
è poi quello delle opere teatrali, ma anche letterarie, pittoriche e musicali,
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ispirate dalla granduchessa Maddalena d’Asburgo negli anni della sua reggenza: attorno alla nobildonna si muove un gruppo di intellettuali fra i quali
è agevole riconoscere non solo il librettista Andrea Salvadori, ma anche Iacopo Cicognini, autore di un testo sacro che si colloca a metà fra l’elogio
della martire (sotto il quale si cela l’encomio nei confronti della granduchessa
stessa) e la commedia, ad attestare, ancora una volta, la natura metamorfica
dei generi teatrali barocchi. Che infatti privilegiano forme ibride, in special
modo le tragicommedie, nella forma delle pastorali come delle marittime:
soprattutto queste ultime conoscono, grazie all’elemento spettacolare ad
esse connaturato, ovvero all’impiego, artificioso o naturale, dell’acqua, una
straordinaria fortuna. A partire dalla versione “bagnata” dell’Aminta tassiana
fino alle imitazioni pescatorie del Pastor fido, prodotte all’interno di alcune
Accademie italiane e spesso incentrate sulla fedeltà del personaggio femminile protagonista, talvolta pure abbigliato sotto mentite spoglie maschili. Viene
così indicato un cambiamento di gusto, che poggia sulla ricerca della variatio e, al contempo, insiste sulle coloriture patetiche della favola in direzione
melodrammatica. A questo va poi aggiunto un altro significativo elemento:
le marittime seicentesche, proprio in ragione della loro ambientazione per
l’appunto marina, non esitano a ricorrere a quei motivi romanzeschi utili a
movimentare il plot e a introdurre l’avventura, il pericolo, i repentini mutamenti di sorte.
Altre sono, invece, le coordinate culturali cui si rifà Federico Della Valle:
lo scrittore muove i suoi passi dalla corte di Torino per approdare alla Milano
spagnola all’inizio del Seicento, ove vedrà la luce tutta la sua opera in versi.
La sua vocazione teatrale si colloca su un piano affatto diverso rispetto alle
esperienze spettacolari fin qui prese in esame: con l’Adelonda di Frigia egli
sceglie la via della tragicommedia, ma ne fa un’antipastorale in cui l’eden
primigenio corrisponde a un mondo ferino ed irredimibile, poi recupera la
vicenda contemporanea di Maria Stuarda e ne ricava un vero e proprio martirologio, infine consacra a Giuditta ed Ester, straordinarie figure bibliche, due
veri e propri poemi tragici che tuttavia si rifanno anche agli espedienti più
raffinati della rappresentazione barocca. Ciononostante la sua voce rimane
isolata, probabilmente perché nulla concede l’autore alle sirene del romanzo:
la sua poetica appare fondata su una gravitas che resta la cifra essenziale del
suo teatro, volto soprattutto a scandagliare i rapporti fra terra e cielo, e quindi
a dire dei limiti insuperabili della condizione umana di fronte alla misteriosa
potenza di Dio.