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STORIA DELLA MUSICA, 1° MODULO

STORIA DELLA MUSICA OCCIDENTALE


I COMPOSITORI FIAMMINGHI
10.1 STORIA DI UN PROCESSO DALLA VARIETÁ ALL’UNITÁ
14esimo secolo → diviso in due zone: - francia con la musica dell’ars nova che tentava di crearsi leggi
formali indipendenti dalla parola
- italia in cui il rapporto tra poesia e musica era molto vincolante
soprattutto in madrigali e ballate
Fine 300 inizio 400 queste tendenze iniziano ad assimilarsi anche grazie all’avvento dei compositori che
iniziano ad essere veri e propri professionisti e a spostarsi tra le varie corti europee rendendo quindi
inevitabile la fusione dei singoli stili in uno di carattere internazionale.
Nasce quindi la cosiddetta ars subtilior, stile che coniugava elementi italiani e francesi, i cui maggiori
esponenti furono: Filippotto da Caserta → - corte papale di avignone - corte aragonese di napoli - corte
di milano. Egli compose principalmente ballades francesi, così come gli altri esponenti dell’ars subtilior.
Si ha una francesizzazione della polifonia italiana (lunghe catene di sincopi, ritmi sovrapposti, frequenti
cambi di metro, metri diversi usati contemporaneamente da + voci).
Nel 400 le corti più ricche e potenti si iniziano a contendere principalmente musicisti delle Fiandre.

la zona comprende gli attuali stati del Belgio, Olanda, Lussemburgo e parte del territorio francese. La
ricchezza che si stava accumulando nella regione permise la costruzione di cattedrali e di istituire in
esse le cappelle di cantori professionisti.
La cappella musicale → la musica era di stato (esaltazione del sovrano e della corte). Per questo in tutte
le corti esisteva la cappella, istituzione obbligatoria. Qui si riunivano i cantanti → la funzione di questi era
quella di rappresentare il Principe infatti più una corte era fornita di tanti e importanti musici più la corte
stessa diventava importante.

I fiamminghi possono essere divisi in 6 diverse generazioni. Partono dalla prima metà del 400 con
Guillaume Dufay, il quale visse per lungo tempo in Italia. Seconda generazione = seconda metà 400,
terza generazione = cavallo tra 400 e 500. La quarta generazione = prima metà 500 sarà determinante
per lo sviluppo della musica cinquecentesca italiana. Quinta generazione = seconda metà 500. Si
chiudono con la sesta il cui maggiore esponente fu Jan Sweelinck, compositore di musica per tastiera.
I compositori fiamminghi a lui precedenti si dedicano quasi esclusivamente alla musica vocale →
soprattutto musica sacra.

➮ il mottetto → il genere si stava evolvendo. Questo era nato nel 200 come composizione liturgica e
nel periodo dell’ars nova era divenuto un passatempo per l’élite musicale, arrivando a essere
principalmente politico. Nel 15esimo secolo si ha quindi la trasformazione che destina il mottetto a
cerimonie pubbliche e civili. Scomparve quindi la politestualità e la lingua usata divenne il latino. Nel 500
tornò nell’ambito liturgico, da cui era nato. ↓
L’epoca fiamminga è caratterizzata dalla tensione verso la massima unitarietà.
Si hanno quindi solo voci umane che cantavano tutte lo stesso testo con un ritmo uniforme. Questo porta
alla necessità di produrre una varietà a partire però da un elemento unico. Si formano allora gli artifici
contrappuntistici: una frase musicale, pur rimanendo la stessa, poteva essere scritta partendo dall’ultima
nota e andando verso la prima, oppure si potevano disporre a specchio gli intervalli ecc. L’apice
dell’imitazione era però costituito dai canoni enigmatici: il compositore scriveva solo una voce abbinando
un indovinello per suggerire la modalità di esecuzione delle altre voci. Oppure veniva cantata la stessa
melodia con due mensure diverse, in modo che le voci, partite insieme, andassero ritmicamente
sfasando pur eseguendo le stesse note (canone mensurale).

1
➮ LA POLIFONIA FIAMMINGA → polifonia è il termine che viene utilizzato per indicare la
sovrapposizione di più voci/melodie.
Esistono diversi generi musicali: - musica vocale : 1. polifonia sacra (messa,mottetto)
2. polifonia profana (chanson, frottola)
la musica vocale era stata concepita per la voce umana, che veniva
considerato come il più alto strumento perché creato da Dio stesso.
- contrappunto : nota contro nota. Qui si facevano intersecare più
voci, ed era la principale tecnica di composizione polifonica.

NUPER ROSARUM FLORES (ecco i fiori delle rose) è un mottetto a 4 voci composto il 25
marzo 1436 da Guillaume Dufay, per essere cantato durante la cerimonia per la consacrazione della
Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. Eseguito alla presenza del Papa.
Le parole chiave sono Grandis Templum (per la chiesa di santa maria del fiore) e Eugenius (nome del
papa) in cui le voci convergono. Il cantus firmus utilizzato nel mottetto, Terribilis est locus iste, cantato
dai due Tenor a distanza di una quinta l'uno dall'altro,traduzione è "Questo luogo incute rispetto", è il
testo dell'introito che si esegue nel rito di dedicazione di una chiesa.
Inizia quindi a scomparire il CANTUS FIRMUS → deriva dal repertorio dei canti gregoriani. Il
compositore non parte da capo a creare una melodia bensì si ispira ad una già esistente. Nella polimia
indica solitamente la voce del tenor che canta per tutta la composizione il cantus firmus. Scompare
perché questo doppio regime che si instaura tra fra il tenor e le altre voci contrastava il desiderio di unità.

MESSA → è un vero e proprio genere polifonico e le musiche si dividono in due:


- ordinarium (x messe normali)
- proprium (x messe particolari)
Può essere a 4 o 5 voci: - superius, altus, tenor, bassius.

➮ Josquin de Prez → fa parte della terza generazione di compositori franchi-fiamminghi (1455-1521) e


viene spesso definito come il michelangelo della musica. Arriva in italia nel 1484 (corte degli Sforza,
Roma cappella papale, Ferrara) continua poi la sua carriera a Notre-Dame. Viene reclutato per 200
ducati (nu bott). Dedica una messa a Ercole duca di Ferrara in cui possiamo sentire il cantus firmus che
è derivato dal nome di Ercole. (si sente sia nel tenor che nel superior).

FROTTOLA → veniva spesso accompagnato da uno strumento e non è più in latino ma in italiano. Il
periodo di massimo splendore di questo genere fu tra il 1470 e il 1520. Le principali corti di diffusione
erano quelle di Mantova, Ferrara, Urbino e Milano. Nella frottola spesso i versi si riprendono in quella
che viene, per l’appunto, chiamata ripresa.
- voci con lo stesso ritmo = omoritmetiche → omoritmia = voci che si muovono contemporaneamente.
es. EL GRILLO È UN BUON CANTORE testo ironico di De Prez, pare che in questo voglia prendere in
giro un suo collega che si vantava dei suoi vocalizzi.

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COMMITTENZA E MERCATO MUSICALE
Fin dall’epoca classico-romana la musica era commissionata da un committente. Nel periodo
umanistico-rinascimentale le esigenze della committenza cambiarono. Ad esempio la produzione di
grandi composizioni polifoniche sacre era generata dal mecenatismo istituzionale.
COS’È IL MECENATISMO? → Spesso si creavano dei rapporti tra musicista e principe che si
mostravano grazie alle dediche. Il legame tra questi due consisteva nel prestare servizi in cambio di
protezione per il musicista e la sua famiglia.
Questo era definito come mecenatismo.
↙ ↘
Istituzionale: Umanistico:
celebra l’autorità, la dignità e intrattenimento del principe
la legittimità del sovrano e il stesso e dei membri della
suo potere sua famiglia.
MUSICA DI STATO \ SACRA

Del mecenatismo di tipo umanistico poche tracce sono giunte fino a noi, essendo legato alla tradizione
orale. Al contrario della polifonia siamo ben informati a causa del ruolo quasi ufficiale che ricopriva il
quale stimolava la compilazione di numerosi manoscritti.
All’inizio del 16esimo secolo si ebbe un mutamento nel mercato musicale grazie alla stampa. Vennero
messi in circolazione volumi musicali a un costo molto ridotto, permettendo alla musica scritta di
diffondersi maggiormente. Questo avvenne soprattutto a Venezia con il madrigale, che si inserì anche
nella borghesia.
Elemento fondamentale di questo secolo sono gli scambi culturali → umanesimo italiano diffuso nei
circoli letterari francesi, polifonia franco-fiamminga nelle corti e nelle cappelle italiane e importante fu
anche la diffusione della CHANSON PARIGINA.

Sviluppato nella corte dei Valois ma probabilmente su influssi fiorentini, ridiscese in Italia dove si diffuse.
A questa si deve la nascita di prime vere forme strumentali autonome e del madrigale.

11.1 STORIA DEL DOPPIO VOLTO DEL MECENATISMO


Come abbiamo accennato prima il rapporto tra committente e musicista poteva essere paragonato ad un
rapporto di padrone-servo in cui il mecenate offriva protezione in cambio di sottomissione e servizi. Il
musicista non era nient'altro che un dipendente di corte. La musica nella corte infatti rappresentava
quasi uno status symbol, ovvero più grande la cappella di corte era (in numeri di musicisti che ci
lavoravano), più complesse le musiche che eseguivano erano più al mondo veniva proclamata la
ricchezza e potenza del mecenate.
↳ la committenza di musiche di questo tipo era definita mecenatismo istituzionale → ne erano
incaricate diverse cariche professionali: - trombettieri: segnali sonori che regolavano la vita delle corti e
delle città.
- cappella alta: gruppo di strumenti a fiato di alta sonorità,
impiegati in cerimonie, balli, feste all’aperto
- cantori della cappella di corte: celebrazioni liturgiche giornaliere.

La loro posizione sociale era tra le più elevate, in quanto erano uomini di Chiesa e di cultura
(consiglieri, amministratori, diplomatici).

➮ Nell’epoca umanistica si ha uno sviluppo del mecenatismo umanistico. Grazie all’opera la


politica di Aristotele, tradotta in francese in quegli anni, si giunse alla conclusione che la musica doveva
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essere parte integrante dell’educazione dei giovani nobili. Si hanno quindi numerosi trattati che
stimolano l’apprendimento della musica da parte del ceto aristocratico. Il più importante fu sicuramente il
LIBRO DEL CORTEGIANO di Baldassarre Castiglione → insegnamento musicale fondamentale per
formare il perfetto uomo di corte.
La differenza tra le due si vede all'inizio del 500 nelle corti di Mantova e Ferrara con le dame Isabella
d’Este e Lucrezia Borgia. Le due avevano un’accesa rivalità e avanzarono richieste perché venisse
aumentato l’appannaggio che gli veniva concesso. Alle dame però competevano solo gli strumentisti da
camera, del repertorio “umanistico”, invece i rispettivi consorti disponevano di musicisti anche del
repertorio istituzionale. Si aveva quindi una separazione assoluta tra la sfera musicale istituzionale che
era di pertinenza dei governanti e quella umanistica a cui avevano accesso anche le consorti.

In questo periodo accanto alla polifonia fiamminga si sviluppa il canto a voce sola accompagnata da
strumenti. Questa era prediletta dai letterati umanisti in quanto esaltava maggiormente il valore della
parola poetica. La pratica di cantare poesie viene fatta risalire a Petrarca ed era prediletta nelle corti
italiane. Di questo mondo musicale non abbiamo molte fonti a causa della produzione orale.

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LA CHANSON PARIGINA TRA FRANCIA E ITALIA
12.1 DALLA CHANSON PARIGINA ALLA “CANZONE DA SONAR” VENEZIANA
1501 → pubblicazione del primo volume di musiche a stampa. “Harmonice Musices Odhecaton”

Ottaviano Petrucci 1466-1539 nasce a Fossombrone nelle Marche ma fa un salto di qualità quando va a
Venezia, dove trova l'opportunità di stampare. Nel 1501 uscì la sua prima pubblicazione Harmonice
Musices Odhecaton, un libro di 96 chanson, che è il più antico esempio di musica polifonica stampata.
Contiene soprattutto chanson a 3 o 4 voci.
Egli usava un sistema a caratteri mobili: pezzettini di piombo sagomati con i quali veniva effettuata una
triplice impressione, stampando prima i righi musicali poi le note, infine il testo, i titoli i numeri di pag ecc.
Questa tecnica permetteva di riutilizzare gli stessi caratteri per comporre nuove pagine.
Una nuova tecnica venne creata da Andrea Antico, stampatore romano: incidere a mano la pagina
musicale completa su una tavoletta di legno. Questo lasciava maggiore fantasia all’incisore ma per un
minimo errore si era costretti a ricominciare da capo.
Esistono due tipi di libri. - LIBRO CORALE: su due fogli venivano affiancate tutte le voci
- LIBRO PARTE: ogni parte ha il suo libricino
Grazie alla stampa musicale ha nascita anche il mercato musicale.
In ogni caso la stampa ebbe una rapida diffusione e leggere musica divenne possibilità anche per uno
stato sociale più ampio. Questo causò anche una diminuzione della musica orale.
Diventa a questo punto importante la figura di Pierre Attaignant il quale pubblicò numerosi libri
contenenti un nuovo genere musicale → la CHANSON PARIGINA

Questa era più semplice di quella fiamminga ed era più legata al ritmo verbale del testo stesso: le voci
procedevano con un andamento omoritmico, tutte insieme con lo stesso ritmo, in uno stile
tendenzialmente sillabico; la fine delle frasi del testo era sottolineata da una pausa. Il ritmo iniziale
dattilico proviene dalla declamazione del tipo di poesie usato in questo repertorio.
- Clément Janequin → uno dei più importanti autori di chansons, ne sviluppò una particolare: la chanson
descrittiva. Le voci erano generalmente 4 o 5 e descrivevano scene concrete per esempio di battaglia
grazie a onomatopee sia musicali che testuali. Questo rendeva la chanson divertente da cantare,
causando un aumento di conoscenza del genere in tutta Europa.

➮ Nel corso del 400 si assiste anche ad un’evoluzione della musica strumentale. Il concetto
“dalla varietà all’unità” ha un’influenza anche sugli organici strumentali. Vennero quindi costruite intere
famiglie strumentali: ogni strumento veniva realizzato in varie taglie in modo da avere uno strumento
soprano, un contralto, tenore e basso. La presenza di diverse “voci” nelle famiglie strumentali permise in
alcuni casi di sostituire voci umane con gruppi di strumenti. La diffusione della musica strumentale alle
classi alte
portò alla creazione di composizioni didattiche e di trattati che insegnavano come suonare → in questo
modo la tecnica dello strumento divenne di dominio pubblico.
In Italia si moltiplicavano le edizioni di chansons francesi arrangiate in forma esclusivamente strumentale.
Spesso l’organico non veniva specificato, permettendo libertà agli esecutori, sia perché le musiche erano
fruite in contesti disparati sia come manovra editoriale (x vendere di +).
Risale sempre a quel periodo un trattato fondamentale, chiamato Syntagma Musicum.

Il Syntagma musicum, pubblicato in tre volumi fra il 1614 e il 1619, è una delle fonti principali per lo studio delle
prassi esecutive nella musica del primo barocco. Il primo tomo, sottotitolato Musica artis analecta, venne pubblicato
a Wittenberg nel 1614 o nel 1615. Tratta della musica sacra, iniziando dagli ebrei, dai greci e dai romani, e

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continuando con la musica cristiana. Studia anche la storia della musica profana, con una relazione fra la musica e
l'etica, le scienze naturali, la poesia e il dramma.
Il secondo tomo, sottotitolato De organographia, venne pubblicato a Wolfenbüttel nel 1619. Si tratta di una
nomenclatura completa di tutti gli strumenti musicali, antichi e moderni, con numerose illustrazioni e una
descrizione molto particolareggiata dell'organo a canne. Il terzo tomo, sottotitolato Termini musici, venne anch'esso
pubblicato a Wolfenbüttel nel 1619. Quest'ultimo libro tratta della musica vocale, con un elenco quasi completo di
tutti i nomi di canzoni italiane, francesi, inglesi e tedesche all'epoca. Presenti numerose annotazioni sui diversi ritmi
e stili. Descrive le forme della musica vocale proprie del rinascimento e del primo barocco, cominciando dai
madrigali italiani. È anche un trattato sulla semiografia musicale, il solfeggio e il ritmo. L'opera si conclude con un
dizionario dei termini musicali italiani, seguito da una serie di articoli riguardanti il basso continuo e la formazione
musicale dei cori.

L’ultima trasformazione della chanson vede luce sempre nella seconda metà del 500 e consiste nella
creazione di canzoni indipendenti dai modelli francesi. La prima, vera, forma di musica strumentale
autonoma → la canzone da sonar. In questa abbiamo tre elementi che la collegano ancora alla
chanson: la forma generale (struttura che alternava binario o ternario), il succedersi di zone omoritmiche
e zone imitative e l’onnipresente ritmo iniziale dattilico.
Tratto caratteristico era la contrapposizione di strumenti in due gruppi detti cori. Questo avveniva a volte
anche nelle chansons parigine (voci divise in coppie: due facevano una frase, le altre due replicavano)
ma nella canzone da sonar divenne un principio costruttivo. Questo era lo stile policorale il quale trovò il
massimo sviluppo nella basilica di San Marco a Venezia: i cantori erano quasi sempre affiancati da
esecutori di strumenti come organi e strumenti a fiato. Queste formazioni erano spesso suddivise in due
o più cori posizionati in vari punti della basilica.

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GIOVANNI PIERLUIGI DA PALESTRINA
13.1 STORIA DI LUTERANI E CATTOLICI
31 ottobre 1517 → Lutero affisse le 95 tesi dottrinali, data importante anche per la storia della musica
↳ per lutero la partecipazione attiva dei fedeli deve avvenire attraverso il canto. Egli stimolò quindi la
produzione di canti orecchiabili e semplici che potessero essere cantati da tutto il popolo. Questi canti in
tedesco vennero spesso armonizzati a quattro voci, originando un genere: corale protestante. La
differenza tra la chiesa tedesca e quella nei paesi latini nella partecipazione dei fedeli, che nei paesi
latini avveniva in modo passivo, era tale da creare una spaccatura con il mondo cattolico anche per
quanto riguardava la concezione sociale della musica. Nei paesi luterani i professionisti erano affiancati
da molti dilettanti.
La chiesa cattolica cercò di rimediare: CONCILIO DI TRENTO (1545-1563). Commissione di cardinali
che operò per determinare l’applicazione delle deliberazioni conciliari per la musica. 3 direzioni:
- emendazione del canto gregoriano (apportare a un testo le correzioni per rendere la lezione più
accettabile e più vicina all’originale) cercando di riportarlo alla purezza originale.
- abolizione di ogni elemento profano nella liturgia (musiche dichiaratamente profane e cantus firmus non
ricavato dal gregoriano).
- comprensione delle parole, gli intrecci polifonici semplificati. Scrivere polifonia rispettando la
comprensibilità del testo divenne uno dei modi per realizzare una messa, oltre allo stile tradizionale.

➮ roma e le sue cappelle musicali → a roma il potere era esercitato direttamente dall’autorità
ecclesiastica (monarchia elettiva). Due conseguenze: - ogni manifestazione pubblica doveva avere
caratteristiche sacre e non profane
- ogni cardinale della curia poteva aspirare ad
essere erede al trono
Si ebbe quindi un moltiplicarsi di piccole corti cardinalizie e di cappelle musicali. Le principali cappelle
nella seconda metà del 400 a Roma sono: la Cappella Sistina, la Cappella Giulia, la Cappella della
basilica di San Giovanni in Laterano e la Cappella Liberiana della basilica di Santa Maria Maggiore.
Gli ultimi due erano deputati a eseguire la musica liturgica nelle relative basiliche. Invece la cappella
Giulia era la capp. ufficiale di San Pietro e aveva dei cantori in pianta stabile. Diversa ancora era la
Sistina che non era legata a nessuna basilica, era la cappella personale del pontefice. I suoi cantori
provenivano da tutta Europa. Non impiegava alcuno strumento di accompagnamento e non aveva
nemmeno pueri cantores (cori di voci bianche che tradizionalmente accompagnano con il canto la liturgia
nella Chiesa cattolica) : per eseguire le parti del soprano usavano solo adulti evirati (castrati).

➮ Giovanni Pierluigi da Palestrina fece parte di tutte e quattro le cappelle romane. Nel 1544 venne
assunto dalla cattedrale di Palestrina come maestro di cappella. Nel 1551 fu nominato maestro della
cappella Giulia e nel 1554 pubblicò il suo primo libro di messe, dedicate a Giulio III. Il consolidarsi della
sua fama lo portò ad essere contattato sia dalla corte di Vienna che dal duca Guglielmo Gonzaga di
Mantova. Egli continuò fino alla sua morte a cercare una posizione economica che lo soddisfacesse.
Gli sono attribuite 104 messe, 375 mottetti, altre 300 composizioni sacre e un centinaio di madrigali profani.
Proseguì il concetto di “dalla varietà all’unità” anche dal punto di vista del trattamento delle dissonanze,
ogni comparsa di un urto dissonante doveva essere preparata da una consonanza e poi subito risolta in
un’altra consonanza altrettanto appagante. Questo stile divenne lo stile ecclesiastico per eccellenza.

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IL MADRIGALE DEL CINQUECENTO
14.1 STORIA DI UN NUOVO RAPPORTO PAROLA-MUSICA
Fino al 15esimo secolo la musica era indifferente al significato della singola parola, con i compositori
fiamminghi inizia l’idea che l’evento sonoro potesse riportare il contenuto delle parole: immagini motorie
o atmosfere espressive. Intorno agli anni 20-30 del 500 grazie a Pietro Bembo queste esigenze hanno
uno slancio: egli introdusse un nuovo criterio di intendere la poesia. Egli sostenne che in poesia la
sonorità e il ritmo delle parole hanno una diretta ripercussione sul significato: una parola non può venire
scambiata con un suo sinonimo poiché questo altererebbe il suono e quindi un cambiamento nel senso
della frase. Questo portò il poeta a servirsi delle parole in libertà senza schemi e regole troppo rigide. A
questo punto quindi il legame con la musica non poteva più incanalarsi in forme fisse come la frottola
perché il nuovo tipo di poesia doveva avere una musica senza schemi ripetitivi. Divenne quindi più
adatta un’intonazione polifonica interamente vocale. Questa forma musicale era il MADRIGALE.
Anche se senza nome questa esisteva già, infatti a Firenze intorno al 1520 si stava già sperimentando
una nuova forma musicale, soprattutto ad opera di Philippe Verdelot → egli mise in musica alcuni testi
per esempio di Machiavelli e di Strozzi, prob su commissione dei poeti stessi. Il suo stile sembrava una
chanson francese molto semplice: tutte le parti del madrigale erano eseguite da voci umane, alternando
sezioni in contrappunto non troppo elaborato, ma aderente all’esatta declamazione del testo, con sezioni
omoritmiche. Si notava un’assoluta omogeneità e parificazione tra le voci. Questo tipo di composizione si
estese anche a Roma a causa di due papi medicei: Leone X e Clemente VII.
1527 → Sacco di Roma: diversi intellettuali si trasferirono a Venezia, città importante per la musica e
ricca anche grazie all’editoria.
↳ 1539: pubblicazione di 4 libri di madrigali di Jacques Arcadelt.
Approdato a Venezia il madrigale subisce una grande mutazione, si ha infatti un’infusione di contrappunto
fiammingo. Seguendo queste tendenze il madrigale venne definito con il termine cromatico (nel Primo
libro de madrigali cromatici di Rore). I madrigali erano cromatici perché usavano le crome (note di valore
molto veloce) ma presto il termine cromatico indicò un nuovo stile armonico che usava note alterate e
brusche modulazioni che cromatizzavano o colorivano il percorso armonico.
Il cromatismo armonico fu presente sempre più in madrigali e mottetti. Il primo era diventato l’equivalente
profano del secondo.
Maggiori autori: italiani:
- orlando di lasso - giovanni pierluigi da palestrina - carlo gesualdo
- philippe de monte - luzzasco luzzaschi - claudio monteverdi
- giaches de wert - luca marenzio

Il madrigale era l’equivalente sonoro dell’utopica corte di Baldassarre Castiglione grazie all'unione molto
stretta tra musica e testo. Il madrigale era cantato per il piacere stesso di chi lo eseguiva e ne poteva
apprezzare le eleganze. Era quindi coltivato da circoli di persone, anche di estrazione non nobile, che si
chiamano accademie. Questo tipo di uso colto e raffinato influenzò anche il rapporto parola-musica.
la musica riproduceva il senso motorio delle parole: con termini come “ascendere” si ​
innalzava verso l’acuto, o con “discendere” “profondità” “inferi” sprofondava verso il
grave. Se il testo diceva “solo” o “unico” una sola voce cantava ecc
Questi artifici di pittura sonora vennero detti madrigalismi, questo portò anche ad un cambio nella scelta
poetica: si preferivano autori + moderni come Tasso, Guarini e Giovan Battista Marino. Essi infatti
componevano testi più brevi e serrati, + adatti al madrigale.
In alcuni si avvertì l’influsso della canzone villanesca alla napoletana, che portò alla nascita dei madrigali
dialogici o drammatici, ovvero una serie di madrigali in stile molto semplice e di contenuto spesso
scherzoso.

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APPROFONDIMENTO: 14.2 I TÓPOI POETICO-MUSICALI NEL MADRIGALE TRA 500 E 600: “Itene, o
miei sospiri” DI GESUALDO DA VENOSA
Il rapporto parola-musica subisce un rafforzamento nel 500. Nel madrigale infatti l’attenzione si
concentra sul senso del testo. Questo rafforzamento può essere anche definito quasi come un rapporto
di simbiosi, dato dal voler trovare un punto di intersezione tra le capacità espressive della poesia e
quelle della musica. Visto che i testi consistevano in una serie di parole e concetti codificati e particolari,
che rimandano a tematiche della poetica rinascimentale, il letterato usava questo stesso lessico nei suoi
componimenti.

- ITENE, O I MIEI SOSPIRI


Anche il madrigale seguiva comunque delle figurazioni standardizzate. Per esempio nel madrigale
“Itene, o i miei sospiri ” possiamo
osservare che ogni verso del testo
contiene un’immagine poetica diversa che
viene intonata con un episodio musicale
differente dall’altro → questi sono intonati
in omoritmici e imitativi. I due tipi diversi di
condotta polifonica sono alternati per
separare ogni verso da quelli seguenti, in
modo da creare quattro segmenti lunghi
composti da una coppia di versi
↳ La frammentazione delle immagini
poetico-musicali non impedisce una gestione della forma del
madrigale.
Realizzazione sonora di queste immagini: primo verso → interruzione della parola sospiri.
secondo verso → a precipitate si ha una ripida successione di
salti melodici discendenti; volo espresso con delle rapide
volute melismatiche (caricare su una sola sillaba testuale un
gruppo di note ad altezze diverse) dirette verso l’acuto.
Nel madrigale l’imitazione contrappuntistica può essere meno rigorosa che nel mottetto o nella messa,
infatti qui le entrate delle parti vocali si limitano a riprodurre un “gesto” sonoro che è riconoscibile anche
nonostante non conservi tutti i dettagli melodici e ritmici della prima enunciazione.

- L’USO DEL CROMATISMO: POTENZIALITÁ ESPRESSIVE E PRESUPPOSTI TEORICI


Nell’ultima stagione del madrigale iniziano a sorgere problemi dati dalle innovazioni linguistiche e dalle
nuove esigenze espressive.
Metà 500: Nicola Vicentino tenta di ripristinare l’uso degli antichi generi della musica greca → il diatonico
(alterazioni virtualmente assenti) il cromatico (le parti si muovono frequentemente per semitono) e quello
enarmonico (presenti intervalli più piccoli del semitono, i quarti di tono). Secondo la sua teoria esiste la
possibilità di creare una composizione eseguibile da tutti e tre i generi. Si vede nel suo madrigale Dolce
mio ben. Qui l’uso del cromatismo è come un’aggiunta espressiva ad uno scheletro diatonico che rimane
invariato.

9
MUSICHE “ALTROVE”: TEATRO RECITATO, FESTE,
BANCHETTI
15.1 STORIA DI ENTREMETZ E INTERMEDI
Ci siamo concentrati fino ad ora sulle musiche da camera ma ne esistono durante il Rinascimento anche
tante altre. Per esempio le musiche per banchetti: entremetz che erano composizioni scelte tra i generi
di musica profana anche in versioni esclusivamente strumentali.
Esistevano poi le celebrazioni ufficiali delle autorità politiche in cui i mottetti in latino erano affiancati da
madrigali in italiano.
A Ferrara la musica iniziò ad apparire anche nel teatro recitato. Le corti iniziarono quindi a produrre
commedie e azioni mitologiche ispirate ai modelli latini nelle quali la musica aveva duplice funzione:
- funzione realistica → se un personaggio era rappresentato nell’atto di cantare o suonare questo
doveva farlo per davvero
- intermedi → composizioni elaborate eseguite tra un atto e l’altro. Il pubblico presenziava agli spettacoli
senza interruzioni, era quindi necessario che la recita fosse interrotta da qualcosa interessante ma
diverso. Gli intervalli vennero riempiti da musiche e danze. Gli intermedi potevano essere apparenti, i
musicisti erano visibili, o non apparenti, la scena rimaneva vuota e la musica proveniva da luoghi celati
alla vista. 4 intermedi tra 5 atti, un prologo, e un inserto musicale alla fine (gli ultimi due non sempre).
Gli intermedi avevano però diverse funzioni: erano un negativo della commedia a cui venivano associati:
la parola passava in secondo piano; avevano anche la funzione di compressione artificiale del tempo:
le trame narrative delle commedie occupavano al massimo l'arco di una giornata e gli intermedi
assicuravano il collegamento tra i salti temporali tra un atto e l’altro.
Venne in seguito la necessità di creare un legame tra commedia e intermedi, questi si sottomisero quindi
a una trama che unificasse l’intero contenuto. Si giunse quindi ad un momento in cui venivano meglio
apprezzati gli intermedi della commedia stessa → si arriva così alla nascita dell’OPERA.

MUSICA PER MUOVERE GLI AFFETTI


Un solco profondo separa l’epoca rinascimentale da quella barocca. Nel 500 si viveva ancora con l’idea
utopica del perfetto cortegiano, che doveva avere anche una competenza artistica e letteraria. Questo
produceva una coltivazione della musica in prima persona e i madrigali con la loro polifonia erano la
realizzazione perfetta di questo ideale.
Nel 600 invece il potere si trasformava in regimi assoluti, perdendo la concezione “borghese” e portando
di conseguenza un cambiamento anche nella musica. Innanzitutto l'aristocratico smise di fare musica in
prima persona, facendo uso solo di musicisti salariati. Conseguentemente (causa o effetto?) anche la
musica avverte nuove esigenze, prima fra tutte un nuovo tipo di tessuto musicale: la monodia con
basso continuo. Questa era infatti più adatta della polifonia per esprimere il contenuto emozionale del
testo poetico. La musica voleva infatti porsi al servizio della parola. L’effetto della musica monodica
veniva potenziato dal nuovo stile concertante (unione elementi eterogenei, come voci e strumenti
diversi). Il terzo punto che porta a un cambiamento è la tendenza alla rappresentatività in musica,
spettatori di vicende teatrali rappresentate in musica. Si deve anche alla nascita del pubblico. (prima la
musica aveva quasi sempre scopi funzionali). → unico momente: le musiche da camera, ma spesso gli
spettatori diventavano loro stessi i musicisti e viceversa. Nel Seicento questa intercambiabilità di ruoli
scomparve: da una parte, gli esecutori assunsero una dimensione professionale, dall'altra, la maggior
parte del pubblico depose ogni competenza musicale.

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QUAL’ERA ALLORA IL FINE DELLA MUSICA MONODICA? muovere gli affetti degli ascoltatori,
ovvero uno stato d’animo tanto positivo quanto negativo. I musicisti possedevano allora un potere
enorme: se nella corte occupavano un rango infimo, durante l’esecuzione musicale divenivano padroni
degli animi del pubblico e potevano modularli a loro piacimento.

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TEORICI, UMANISTI E COMPOSITORI VERSO LA
MONODIA
16.1 STORIA DI QUATTRO TEORICI E DUE “CAMERATE”
Durante il Quattrocento e il Cinquecento a lato delle composizioni dei fiamminghi e dei madrigali si
svolgeva la musica monodica che abbiamo definito umanistica. Nelle principali corti italiane, infatti, i
letterati umanisti cantavano o facevano cantare le loro poesie su semplici moduli musicali, in cui un
unico cantante era generalmente accompagnato da un liuto o da una viola da gamba. In tali esecuzioni
era il testo poetico ad esser posto in primo piano, e la musica si limitava a servirlo con uno stile di canto
molto simile alla recitazione stessa.
Così anche la riflessione teorica iniziò ad accorgersi della predilezione per la monodia: Heinricus
Glareanus, teorico musicale e musicista, nel 1547 nel suo trattato Dodecachordon, sostenne che era più
appropriato considerare veri musicisti coloro che elaboravano melodie monodiche piuttosto che i
compositori polifonici, che usavano un cantus firmus preesistente.
1555, Nicola Vicentino : L'antica musica ridotta alla moderna pratica dove si iniziò a discutere anche in
campo musicale il tema dell’imitazione dall’antica Grecia → Benché all'epoca si ritenesse che i greci si
fossero serviti esclusivamente di musica monodica, Vicentino tuttavia non volle rinunciare alla polifonia.
Propose quindi una semplificazione: si dovevano usare al massimo 4 voci seguendo precisamente la
pronuncia e l'accentuazione delle parole. Egli tentò di reintrodurre tutti e tre i generi musicali greci.

Nella seconda metà del 500 vediamo il mondo nuovamente diviso da un’aspra polemica: contrapposti
Gioseffo Zarlino e un suo allievo, Vincenzo Galilei. Nasce quindi nuovamente uno schieramento tra
progressisti (Galilei) e conservatori (Zarlino). Ci si rende però conto che non ha nelle arti molto senso di
parlare di progresso, quando i progressisti esaltavano un’epoca passata, ovvero l'antica Grecia.
Zarlino, enunciò invece nel suo trattato Le istitutioni harmoniche (1558) che ogni epoca fa un passo
avanti rispetto alle precedenti: un progresso, tuttavia, puramente tecnico. Egli stesso ammette che
probabilmente i testi e la monodia greca toccassero di più gli affetti, però questo avveniva grazie ai testi
elaborati, quindi lo stesso risultato sarebbe stato ottenuto anche dalla polifonia moderna, se i testi
fossero stati di alto valore.
Al contrario Vincenzo Galilei, nel suo Dialogo della musica antica et moderna (1581), presenta una
contrapposizione nettissima: da una parte poneva il medioevo, epoca di barbarie, che aveva sviluppato
la polifonia; dall'altra l'antica Grecia, modello di ogni civiltà, perfettamente espressa dalla sua musica
monodica. Egli crede che i vantaggi della monodia siano molteplici: questa è una forma espressiva più
naturale, lascia comprendere a pieno le parole, stimola un ascolto di tipo emotivo e non una percezione
intellettualistica. Quindi la monodia perfetta era quella che più si avvicinava a una declamazione
naturale, era quindi necessario rinunciare ai madrigalismi, alle ripetizioni di parole solo per scopi musicali
e anche ai ritmi della danza.
LA CAMERATA DEI BARDI → Le opinioni di Galilei erano largamente condivise dal gruppo di giovani
intellettuali che egli frequentava, i quali si riunivano a Firenze in casa del conte Giovanni de' Bardi. Essi
costituivano un gruppo definito come camerata, attiva dal 1534 al 1612, che discuteva di poesia,
astrologia, scienze, sport e musica. Tra i suoi partecipanti ricordiamo: Giulio Caccini, Pietro Strozzi,
Ottavio Rinuccini, Giovanni Battista Strozzi e Giovanni Battista Guarini. Il conte Bardi stimolò le ricerche
di Galilei e lo incoraggiò a realizzare in pratica le sue teorie = la produzione più importante che scaturi
da questo fermento culturale consistette negli intermedi fiorentini del 1589 per le nozze di Ferdinando
de' Medici e Cristina di Lorena.
LA CAMERATA DEI CORSI → L’eredità di queste discussioni venne raccolta e continuata da un’altra
camerata che si riuniva nel palazzo di Jacopo Corsi. La camerata di Corsi si avviò subito alla
realizzazione di eventi musicali concreti, basati sulle conclusioni che le ricerche in casa Bardi ritenevano
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di aver raggiunto: nell'antica Grecia le tragedie fossero interamente cantate e per ottenere lo stesso
risultato si dovesse coniare un tipo di emissione vocale come via di mezzo tra canto e recitazione, che
venne perciò detto 'recitar cantando'. Il canto doveva rispecchiare le inflessioni della recitazione e
anche il ritmo doveva simulare quello di una declamazione naturale.
Venne così creata quella che forse fù la prima opera in musica: la DAFNE pastorale drammatica su testo
di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Peri e di Jacopo Corsi stesso, composta nell'inverno 1594-95 e
rappresentata pubblicamente per la prima volta nel palazzo Corsi durante il carnevale 1598. La musica è
però andata perduta.
In occasione del matrimonio di Maria de' Medici con il re di Francia Enrico IV, fu invece rappresentata a
Firenze - il 6 ottobre 1600 - quella che oggi si considera la prima, vera opera in musica, perché è la più
antica composizione di tale genere che ci sia rimasta EURIDICE di Jacopo Peri (e Giulio
Caccini) su testo di Ottavio Rinuccini.

APPROFONDIMENTO 16.2: I PRIMORDI DELL’OPERA IN MUSICA: LE DUE “Euridice” DI JACOPO


PERI E GIULIO CACCINI
L’Euridice sotto il segno della discordia:
Tutt’ora è difficile decretare “l’inventore” dell’opera in musica. Come abbiamo detto possiamo fare risalire
la nascita al matrimonio tra Maria de Medici ed Enrico IV, con l’Euridice. Il testo era stato musicato per la
maggior parte da Jacopo Peri. Giulio Caccini aveva composto la musica per le parti dei suoi allievi, ma,
probabilmente ingelosito dal successo che stava ricevendo Peri, dopo poche settimane dal matrimonio si
affrettò a comporre e dare alla stampa la sua versione musicale dello stesso testo. Nella prefazione
Caccini si vanta di essere il primo a «dare alla stampa simile sorte di canti» composti in «stile
rappresentativo». A causa di questa si andò consolidando in seguito il merito a egli e alla camerata de’
Bardi. La risposta di Peri non tarda ad arrivare, sul frontespizio delle sue Musiche… sopra l’Euridice
viene posta in bella vista i nomi della dedicatoria di Maria e dell’autore del testo Ottavio Rinuccini. Inoltre
Peri afferma chiaramente di aver già usato questa maniera di cantare «in altra guisa» ovvero la Dafne.
Per questo la dichiarazione di paternità è molto complicata. In funzione di comprendere meglio è
necessario distinguere tra la nascita del nuovo stile monodico e la nascita del canto adatto alla scena.
Possiamo quindi prob dare il merito a Peri.

Il “recitar cantando” nell’Euridice di Peri:


In questa versione la vicenda si articola in 5 episodi: Ad un prologo seguono i festeggiamenti per le
nozze di Euridice che fa il suo ingresso in scena (I). Dopo l'ingresso dello sposo, Orfeo, è annunciata da
Dafne la morte di Euridice, morsa da un aspide. Segue un lamento (II). Alcuni testimoni descrivono i
lamenti di Orfeo. Arcetro, amico degli sposi, riferisce che la dea Venere ha consolato Orfeo
suggerendogli di scendere nell'Ade per tentare di strappare Euridice alla morte; il coro ringrazia per
l'aiuto concesso a Orfeo (II). Un cambiamento di scena trasferisce l'azione negli inferi, dove il
protagonista persuade Plutone a lasciar andare Euridice; gli spiriti infernali in coro celebrano il coraggio
umano (IV). Tornata la scena all'aria aperta, un messaggero annuncia il ritorno di Orfeo ed Euridice. Un
canto gioioso di Orfeo, danze e cori chiudono l'opera (V).
Per i due autori l'obiettivo è quello di riprodurre in musica le inflessioni della lingua parlata. Questo viene
quindi chiamato RECITAR CANTANDO, qui i dialoghi e i monologhi sono composti con versi liberi.

(GUARDARE PAG 29 X SPARTITI E PARTICOLARITÁ)

Il “cantar cantando” nell’Euridice di Peri:


Talvolta, tuttavia, Rinuccini ha interrotto la lunga successione di versi sciolti ossia, ripetiamo, settenari ed
endecasillabi liberamente alternati e rimati, o non rimati affatto). Si parla quindi di versi misurati,
successione di versi in cui lo schema accentuativo è stabilito e di ripete. Nell' Euridice vediamo alcuni
versi musicati in questo modo per fare in modo che si distinguessero dal recitar cantando e apparissero
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musicalmente autonome. Qui è la musica a prendere il sopravvento sulla parola e a imporsi come
mezzo espressivo. Esempio di questo sono i cori che chiudono tutti gli episodi.
Di sezioni siffatte, allorché fanno parte di un lavoro teatrale, si parla per l'appunto come di pezzi chiusi,
aventi una forma musicale più definita. La presenza nel corso dell'opera dei pezzi chiusi parrebbe
contraddire l'intento realistico di «imitar col canto chi parla», tuttavia non è così: Tirsi e Orfeo, infatti,
nella finzione scenica sono colti non nell'atto di parlare, ma di cantare; dunque non 'recitar cantando', ma
CANTAR CANTANDO.

Il cantar recitando nell’Euridice di Caccini:


È possibile notare una differenza di stile tra Caccini e Peri. in quest’ultimo possiamo notare una mobilità
maggiore mentre nel primo vediamo un ambito melodico + ristretto. Soprattutto nel coro conclusivo del
primo episodio (affidato alla seconda ninfa del coro) mostra in Caccini un’abbondanza nell’uso della
coloratura, segno che lo contraddistingue. È possibile quindi individuare in Caccini quello che viene
definito come CANTAR RECITANDO, dove non c’è una forma strofica, ricorda un madrigale, e più che
una recitazione che tende al canto sembra di vedere un cantante che si finge personaggio.

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MONTEVERDI E LA “SECONDA PRATTICA”
17.1 STORIA DELLO SVILUPPO DEL MADRIGALE CON CLAUDIO MONTEVERDI
Il passaggio tra 500 e 600 rappresenta una svolta decisiva, anche sulla musica. Il mondo barocco infatti
influì sia sulle modalità di produzione, sia sulle scelte stilistiche e sul substrato armonico. Questo portò
sia alla nascita di nuovi stili musicali sia al ripensamento di quelli vecchi.
Il madrigale dovette abbandonare la polifonia per accogliere la monodia con basso continuo e lo stile
concertante, questo per ottenere il fine della musica in quell’epoca: muovere gli affetti degli ascoltatori.
CLAUDIO MONTEVERDI → a 15 anni pubblicò il primo volume a stampa delle sue composizioni
seguito poi nel 1583 un libro di Madrigali spirituali a quattro voci. Nel 1587 vennero stampati a Venezia i
suoi Madrigali a cinque voci [...] Libro primo.
Tra il 1590 e il 1591, quasi contemporaneamente all'uscita del Secondo libro de madrigali (1590),
Monteverdi fu assunto come violista alla corte di Mantova, il cui maestro di cappella era Giaches de
Wert. Il duca Vincenzo I Gonzaga, a cui Monteverdi dedicò il Terzo libro de madrigali (1592), apprezzò il
suo talento, nominandolo maestro della piccola cappella formata da Monteverdi stesso e altri tre cantori.
Nel 1601 viene assunto alla corte di Mantova come maestro di cappella.
Alcuni suoi madrigali come Quarto e Quinto libro de madrigali a cinque voci suscitarono la reazione di un
teorico musicale bolognese, il canonico Giovanni Maria Artusi.
1600 Artusi pubblicò un libro dal titolo eloquente: L'Artusi, overo Delle imperfettioni della moderna
musica. In esso, evitando di fare il nome del suo avversario, criticava aspramente alcuni madrigali di
Monteverdi ascoltati a Ferrara, condannandone la spregiudicatezza nell'uso delle dissonanze e nella
condotta delle parti. Monteverdi non rispose subito: attese la pubblicazione del suo Quinto libro de
madrigali (1605) per annunciare nell’appendice la pubblicazione di un suo trattato sull'argomento:
Seconda pratica, overo Perfettione della moderna musica. Ma questo trattato non giunse mai ad una
stesura definitiva. Possiamo però avere un'idea abbastanza chiara delle sue idee sia dalla prefazione,
sia dalla Dichiarazione annessa agli Scherzi musicali a tre voci che Monteverdi pubblicò nel 1607,
apparsa però sotto la firma di suo fratello Giulio Cesare Monteverdi.
In questa dichiarazione spiegava come sbagliasse Artusi a considerare i madrigali solo sotto il punto di
vista musicale, non considerando che era proprio il testo a determinarne la struttura musicale e le
deviazioni dalle regole. Secondo Monteverdi si potevano allora individuare una prima prattica e una
seconda prattica. Nella prima era la musica la “signora” dell’orazione, mentre nella seconda la musica
diventa “serva” dell’orazione. Questo per muovere gli affetti dell’ascoltatore. Monteverdi non ebbe allora
prolemi nel modulare il testo secondo i suoi scopi, come si vede nel madrigale Ahi, com’a un vago sol
cortese giro, del quinto libro in cui il verso conclusivo viene inserito più volte nel testo per avere una
struttura a rondò. La forza organizzatrice del madrigale monteverdiano è sempre più dettata dalle
strutture musicali piuttosto che da quelle poetiche, proprio per muovere gli affetti suggeriti dal testo nella
maniera migliore.
1607 → rappresentazione Orfeo
1608 → l’Arianna prima tragedia per musica.
1610 → pubblicazione contenente due composizioni sacre che possono essere considerate come
monumenti alla prima prattica: Missa In illo tempore, e alla seconda prattica: Vespro della Beata Vergine.
Alla morte del duca Vincenzo il suo successore lo licenziò, così nel 1613 viene assunto come maestro di
cappella in San Marco a Venezia. Proprio qui la sua produzione madrigalistica subì un’evoluzione: già
nel 5 libro aveva affiancato alle voci umane un basso continuo strumentale, ma a partire dal 7 libro
(1619) applicò sempre al madrigale tanto la monodia con un basso continuo quanto l’inserimento di altre
parti strumentali autonome.
1638 → viene pubblicato l’ottavo libro di madrigali, intitolato : Madrigali guerrieri et amorosi con alcuni
opuscoli in genere rappresentativo, che saranno per brevi episodii frà i canti senza gesto.

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Alcune composizioni presentavano un’esecuzione rappresentativa, anche se rimanevano nell’ambito
delle musiche da camera. La più celebre è il Combattimento di Tancredi e Clorinda, testo tratto dalla
Gerusalemme liberata di Tasso. Esso prevede la presenza di tre cantanti che si avvicendano sempre in
stile monodico (un cantante esegue la parte del Testo, ovvero del narratore; gli altri due rappresentano i
personaggi di Tancredi e di Clorinda), quattro viole da braccio (soprano, contralto, tenore e basso: quasi
un quartetto d'archi moderno), più un clavicembalo e un contrabbasso da gamba che eseguono il basso
continuo.
Egli aveva capito che fino ad allora la musica era riuscita a esprimere compiutamente solo due affetti: la
temperanza e l’umiltà o supplicazione. Egli non riusciva a trovare uno stile che realizzasse il terzo
importante sentimento dell’animo: la passione bellica dell’ira. Realizzò quindi uno stile concitato: una
stessa nota ribattuta velocemente per molte volte consecutive, abbinata a parole che esprimevano ira e
sdegno, avrebbe generato uno stato d'animo di 'concitazione', di agitazione guerresca.

APPROFONDIMENTO: 17.2 IL TEATRO MUSICALE A MANTOVA: L'Orfeo DI


STRIGGIO/MONTEVERDI
Su testo di Alessandro Striggio jr. venne rappresentato per la prima volta nell’ultimo sabato di carnevale
del 1607 nel palazzo ducale di Mantova, per un pubblico ristretto e colto. Per l’occasione fu pubblicato
un libretto, in modo che tutti gli spettatori potessero leggere durante la rappresentazione.
I 5 episodi in cui è scandita l’Euridice diventano ATTI e alla conclusione di ciascuno rimane un coro. Ci
sono delle differenze con il testo di Rinuccini: il viaggio nell’oltretomba del protagonista occupa due atti
non più uno, e qui Striggio segue la versione classica del mito, per cui al termine Orfeo perde per
sempre l'amata.
La partitura ha un finale diverso dal libretto: in quest'ultimo, Orfeo, abbandonatosi a invettive misogine,
viene messo in fuga dalle Baccanti che si lanciano poi in una danza orgiastica.
L’opera, a causa del suo grande successo, ebbe una replica il 1° marzo davanti a un pubblico più vasto.

Funzionalità drammaturgica nell'Orfeo fra tradizione e innovazione


Il libretto dell’orfeo è pieno di riferimenti colti. Non mancano le allusioni alle glorie letterarie del passato e
del presente: Guarini, Tasso, Dante. Poi, pur trattandosi di una favola pastorale, troviamo rinvii alla
classicità e alla regolarità teatrale. Un'aura di classica compostezza è conferita allo spettacolo pure da
alcune simmetrie riscontrabili nella struttura complessiva: i tre atti centrali, nei quali si concentra
l'azione, sembrano ruotare attorno all'aria «Possente spirto» posta al centro del terzo atto. Una
simmetria ancor più stringente è quella che pone al centro del I atto il madrigale monodico «Rosa del
ciel». Attorno si dispongono, in un ordine che si ripete specularmente prima e dopo, recitativi, cori,
balletti e ritornelli strumentali. Questa simmetria ha una precisa funzione drammaturgica, la staticità che
suggerisce è l’espressione dello stato di grazia in cui si trovano gli sposi.
I cambi di scena sono accompagnati da intermezzi musicali. Questi non interrompono la continuità
drammaturgica, ma la favoriscono, condividendo il clima dell’atto seguente.
Nell'Orfeo troviamo un’importanza del colore sonoro, in quanto la partitura è la prima a richiedere
esplicitamente a quali strumenti affidare le diverse parti.

“Possente spirto" e la doppia funzione della partitura


La partitura dell’Orfeo si propone come traccia per esecuzioni future. Si ha infatti un ambivalenza della
partitura che può forse spiegare anche la duplice versione della melodia “Possente spirito” nel III atto.
Per questi versi il compositore ha scritto due parti di canto, indicando egli stesso che il solista ne deve
intonare una sola, a scelta. La seconda è una ornamentazione della prima: Monteverdi ha usato la
melodia sillabica a valori lunghi come scheletro, elaborandola con melismi e fioriture (ossia
realizzandone una 'diminuzione'), ma mantenendone riconoscibile la fisionomia.

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Il testo è costituito da sei terzine di endecasillabi in terza rima più un verso finale, salvo la quinta, tutte le
terzine sono intonate sullo stesso basso armonico e hanno lo stesso profilo melodico. Quindi possiamo
dire che “Possente spirito” sia in forma strofica. Ciascuna delle prime quattro strofe è seguita da un
breve intermezzo strumentale: tali intermezzi condividono il medesimo basso, ma hanno materiali
melodici sempre diversi e sono affidati a strumenti sempre nuovi.
Tutta l'aria è preceduta e seguita da una sinfonia il cui organico strumentale non è indicato.

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L’OPERA ITALIANA DEL SEICENTO

18.1 STORIA DELL’OPERA, DELLA CORTE E DELL’IMPRESA


A Firenze il primo tentativo di allestire uno spettacolo interamente cantato era andato a pari passo con la
sperimentazione del recitar cantando e con l’esigenza di creare eventi fastosi e irripetibili per occasioni
solenni. I primi esemplari d’opera non erano quindi differenti nella loro destinazione dagli intermedi aulici.
In queste i principi non esitavano a disperdere le loro risorse economiche in queste rappresentazioni
perché lo sfoggio di queste aumentava il loro prestigio agli occhi delle corti, amiche e rivali.
La città che promosse assiduamente l'opera fu Roma.
La produzione operistica romana assunse una connotazione particolare, legata alla facciata cattolica
della città: a fianco delle trame tratte dalla mitologia classica, abbondavano gli intrecci desunti dalle vite
dei santi, o da cui si potesse trarre in qualche modo una conclusione edificante.
1631 → rappresentato il Sant’Alessio di Stefano Landi. Questa fu una delle prime opere in cui si metteva
in scena la vita di un uomo concreto, con i suoi problemi e i suoi drammi interiori. Si inaugurò così il
filone agiografico dell'opera romana, che produsse numerosi altri spettacoli imperniati sulle vite dei santi.
Con la seconda rappresentazione dell’opera, nell’anno seguente, venne inaugurata la stagione delle
opere barberiniane (famiglia Barberini), la cui produzione fu molto imponente.
In quest'opera viene inserito un elemento nuovo: l’elemento comico. Dei personaggi si poteva ridere, e
questo divenne poi un elemento comune nelle opere romane. Tanto che con Rospigliosi si giunse perfino
alla compilazione di vere e proprie 'comedie musicali'.
La morte di papa Urbano VIlI nel 1644 e l'avvento al potere della rivale famiglia Pamphilj, con l'elezione
del papa Innocenzo X, segnarono il declino delle attività operistiche barberiniane, e l’asse portante della
vita operistica si sposta a Venezia, dove subisce una profonda trasformazione.
1637 → un gruppo di musicisti affitta un teatro veneziano, il teatro San Cassiano, e vi rappresentano
l’opera Andromeda recuperando le spese dell’allestimento con la vendita dei biglietti. L’opera diventa
così un'impresa commerciale a fini di lucro. Rimane comunque un’attività aristocratica a causa del
prezzo elevato dei biglietti. Questa viene definita come OPERA IMPRESARIALE.

Nasce quindi la figura dell’impresario. Generalmente si trattava o di un aristocratico o di qualcuno che
svolgeva contemporaneamente una professione stabile. Egli doveva affittare un teatro, retribuire il
compositore dell’opera, i cantanti, i componenti dell’orchestra, lo scenografo, il copista, il personale
tecnico, oltre alle spese di falegname, stoffe, illuminazione ecc.
Il librettista non veniva pagato, in quanto era spesso di condizione nobile o comunque elevata,
generalmente si sobbarcava lui stesso tutti i relativi costi di stampa, poiché gli spettava l'intero incasso
della vendita al pubblico dei libretti stessi.
Fonte di guadagno per l’impresario era dunque la vendita dei biglietti: chiunque volesse accedere allo
spettacolo era tenuto ad acquistarne uno; se poi, stando in platea, voleva assistervi seduto, doveva
affittare una sedia o il posto su una panca; se infine voleva poter leggere comodamente il libretto (per
quanto l'illuminazione della sala non venisse spenta durante la rappresentazione), aveva in teatro la
possibilità di comprare le candele necessarie.
Arrivò l’uso di affittare preventivamente per l’intera stagione teatrale i palchetti alle famiglie
aristocratiche.
Si costruirono così nuovi teatri dotati di vari "ordini' di palchi uno sopra l'altro, che vennero
detti per antonomasia teatri all'italiana e costituirono la forma architettonica classica del teatro d'opera.
L'opera era però uno spettacolo necessariamente costosissimo, mentre biglietti e affitti dei palchi
bastavano raramente a pareggiare il bilancio; fin dal Seicento, allora, gli ampi spazi costituiti dai ridotti
dei teatri vennero sovente adibiti al gioco d'azzardo, i cui proventi permettevano all'impresario di
continuare la sua gestione.
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Anche all'argomento dei libretti fu impresso un cambiamento. Agli inizi (fine anni '30 - inizio anni '40),
anche a Venezia si predilessero i temi mitologici, come nelle prime opere di corte, a fianco di questo
genere di argomenti si sviluppò un filone assai più tipico della produzione veneziana: poiché la
repubblica lagunare si considerava erede delle grandi tradizioni romane abbondarono gli intrecci desunti
dall' Eneide o, comunque, dalla storia antica. Ma nel 1645 l'isola di Candia (Creta), possedimento
veneziano, fu attaccata dall'esercito turco: fu l'inizio di una lunga, spossante guerra contro l'impero
ottomano, che, a causa anche della lega tra l’impero, la polonia, venezia e roma, contribuì ad accelerare
la diffusione dell’opera in questi territori. Anche gli argomenti dei libretti subirono l'influenza della
congiuntura bellica: nella scelta delle trame, infatti, i librettisti non erano del tutto liberi. Nell'epoca
barocca essi si ritrovavano, anche inconsciamente, a rispecchiare le ideologie delle classi dominanti, e
dagli anni '50 in poi prevalsero le trame 'eroiche' e 'imperiali, i cui protagonisti erano i grandi condottieri
dell'antichità.

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GIROLAMO FRESCOBALDI
19.1 STORIA DI UNA “SECONDA PRATTICA” NELLA MUSICA STRUMENTALE
Agli inizi del seicento, grazie a Girolamo Frescobaldi la musica strumentale passò da orale a scritta. Egli
fu il primo compositore di grande fama legato quasi esclusivamente alla musica strumentale.
1608 → organista della cappella Giulia in San Pietro, impiego che mantenne fino alla morte.
La prima apparizione di due musiche a stampa consistette però in un libro di madrigali polifonici,
stampato nel 1608, anno in cui rientrò in Italia dalle Fiandre.
1615 → altro volume: Toccate e partite d'intavolatura di cimbalo [...] Libro primo. In questo volume sono
presenti delle novità, che il compositore esprime nell’avvertimento “ai lettori”: I progetto di Frescobaldi
consisteva nel ricreare con uno strumento a tastiera quei molteplici «affetti cantabili» che i «madrigali
moderni» producevano con anta efficacia e varietà; in altre parole, si trattava di introdurre la
rivoluzione monteverdiana della seconda prattica all'interno della musica strumentale. Volle allora
donare una nuova direzione ai generi che si avvicinavano allo stile vocale monodico, per esempio
toccate e partite che permettevano di realizzare uno stile “parlante” libero, mutevole sotto il punto di vista
armonico, ritmico e metrico. Sia le toccate che le partite discendevano direttamente dall'antica prassi
della musica improvvisata. Per improvvisazione non si intende però via libera per l’interprete o
compositore, egli si basava di un canovaccio tradizionale che gli permetteva di seguire un saldo impianto
formale. Per esempio la toccata era sviluppata come libero sviluppo in sezioni contrastanti della recita
dei salmi gregoriana. Questa aveva funzione di cantus firmus della composizione strumentale. Nelle
toccate a stampa di Frescobaldi è poco percepibile la presenza di un'intonazione salmodica sotterranea,
anche se evidente è la struttura in segmenti contrastanti.
L’importanza maggiore di Frescobaldi consiste nell’aver conferito la dignità di opus di altissimo livello
artistico ai generi musicali idiomatici per mezzo del loro apparentemento con il nuovo stile monodico
vocale. Li ha resi quindi capaci di muovere gli affetti degli ascoltatori.
1626 → pubblicazione di un volume che incorporava i Ricercati et canzoni franzese e Il primo libro di
capricci. (questo era senza dedica, quindi l’editore sopportava inerentemente le spese di stampa quindi
contava sui vasti ricavati dalle vendite).

APPROFONDIMENTO 19.2 “PRIMA” E “SECONDA PRATTICA” NELLA PRODUZIONE


TASTIERISTICA DI FRESCOBALDI: LE Cento partite sopra passacagli, LA TOCCATA X DEL PRIMO
LIBRO E UN Kyrie DAI Fiori musicali
Dall’improvvisazione su moduli standard alle Cento partite
La produzione di Frescobaldi per strumenti a tastiera si distribuisce su tre versanti: quello
contrappuntistico, toccatistico e quello basato su bassi ostinati o su forme di danza. Le differenze di
questi tre riguardano sia l’uso di tecniche compositive diverse sia i margini di intervento concessi
all’esecutore che vanno diminuendo se si passa dalle danze o dalle variazioni su basso ostinato ai
generi polifonici più rigorosi. Il principio formale era semplice: un modulo di poche misure, costituito
solitamente da una linea di basso associata a una traccia melodica, veniva ripetuto diverse volte per
fungere da canovaccio. Queste erano infatti dette variazioni su basso ostinato. Solitamente per i bassi
ostinati erano usati moduli tradizionali o popolari. Le variazioni erano usate nelle musiche strumentali
destinate al semplice ascolto, in cui ciascuna variazione era spesso detta 'parte', mentre l'intera
composizione prendeva il nome di partita.

Prendevano il nome del modulo usato per il basso ostinato (es. partite sulla Romanesca, sulla Follia)

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Con la crescita di fama della musica strumentale si ha anche la parziale cristallizzazione sulla pagina
scritta delle formule usate durante l’improvvisazione. Gli esempi + celebri sono alcune composizioni di
Frescobaldi: - 1615 → Toccate e partite d'intavolatura di cimbalo [..] libro primo. Comprende oltre a 12
toccate 8 Partite sopra Rugiero, 12 sopra la Romanesca e 6 sopra la Monicha. In
queste variazioni inizia ad affiorare una particolarità nell’uso della tecnica
variativa: la trasformazione di queste “collane” di partite da struttura additiva
(semplice inanellamento di una variazione all'altra) a cumulativa (ciascuna
comparsa del tema è funzionale a un progetto architettonico di più ampio
respiro). Questa concezione si concretizza con le Cento partite sopra passacagli.
- 1637 → pubblicazione del primo libro di Toccate integrato da altre 26 pagine, questa ↩
composizone ne faceva parte. Le Cento partite sono il frutto dei rimaneggiamenti
operati su queste due serie di partite preesistenti. Qui le serie di variazioni sul
basso discendente di quarta si alternano a variazioni composte su un
basso diverso.
Struttura delle Cento partite: ↲
Lunga serie di variazioni interrotta da alcune corone o brevi cadenze che ne determinano le articolazioni
principali. Si vede quindi una macrostruttura in cui due lunghe serie di passacagli, in metro mutevole e
centro tonale costante (sezioni B e D), ne incorniciano una tonalmente più instabile in cui i passacagli si
alternano alla ciaccona (sezione C). Tutto questo è introdotto da una lunga sezione in cui i passacagli
vengono ripetuti (sezione A). La sezione B è divisa dalla A mediante 10 misure di Corrente, zona
tonalmente più instabile di quelle limitrofe. Le sezioni B e C si chiudono anticipando ciascuna il centro
tonale di quella successiva. Uguale la sezione D che lascia aperta la composizione ad altre possibilità di
prosecuzione.

“Affetti cantabili e diversità di passi”: la toccata X dal I libro


La toccata → il nome allude al gesto di toccare la tastiera dello strumento, rinvia quindi alle pratiche
improvvisative. Sia il primo che il secondo libro di toccate sono stati pubblicati in intavolatura, che
permette di sottolineare anche dal punto di vista tipografico il tipo di scrittura idiomatica che distingue
questo genere da quelli in cui lo stile contrappuntistico è più severo e vocale.
Sotto la denominazione di toccata sono raccolte anche composizioni molto diversificate: si trova un
gruppo di toccate espressamente organistiche, tra le rimanenti sette, destinate al cembalo, se ne trovano
alcune in stile libero e altre dette “di durezze e legature”, un tipo di composizione basato su un uso
particolare delle dissonanze. Alla base di tutte resta comunque lo schema caratteristico delle toccate:
brevi successioni accordali cadenzanti inframmezzate da passi, da episodi di fisionomia e densità
variabile, composti da frammenti scalari, imitazioni, trilli ecc. Una forma che si può definire a pannelli,
composita, a causa delle necessità pratiche dell’ufficio religioso: un organista doveva poter interrompere
in qualunque momento l'esecuzione.
Nelle prime due edizioni delle Toccate e partite (...) libro primo troviamo alcuni dei documenti più lucidi e
preziosi sulla prassi esecutiva del tempo, negli avvertimenti al lettore. Il riferimento agli affetti per
esempio in cui lo stile florido allude a quello in voga nella musica vocale contemporanea per voce e
continuo, stile che Monteverdi aveva consacrato come strumento per l'espressione degli affetti.
L'apporto capitale dell'opera frescobaldiana sta proprio nell'aver contribuito in maniera decisiva a
cristallizzare sulla pagina scritta le formule usate nelle improvvisazioni. In tal modo l'ornamentazione
diveniva il motivo di interesse primario della composizione, rispetto al canovaccio già noto.

Retaggi della “prima prattica” nei Fiori musicali


L’ultima delle raccolte complete pubblicate durante la vita di Frescobaldi fu quella dei Fiori musicali di
diverse composizioni (1635) → compendio di tutti i generi di musica tastieristica che aveva coltivato
lungo l'intera vita: toccata, canzone, capriccio, ricercare e versetti per organo.
I Fiori contengono musiche organistiche destinate all'uso liturgico distribuite in tre messe: della
domenica, degli apostoli e della Madonna.
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Nei Fiori sono inclusi anche pezzi la cui collocazione corrisponde a quella di alcuni canti del Proprium,
che vengono però sostituiti da musiche strumentali. Dei canti dell’ordinarium include anche il solo
Kyrie/Christe: queste parti organistiche erano destinate ad essere alternate al canto della monodia
liturgica relativa. Nelle sezioni Kyrie/Christe di ciascuna delle tre messe l'autore utilizza le melodie
gregoriane relative o come cantus firmus a valori lunghi, oppure come fonte del materiale tematico
imitativo.
Possiamo quindi vedere come la perizia compositiva frescobaldiana sugli strumenti da tasto si
esplicasse anche tramite il più tradizionale virtuosismo contrappuntistico: le due 'pratiche'
sopravvivevano fianco a fianco.

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ORATORIO E ORATORIA
20.1 STORIA DI VARI MODI DI ORARE IN MUSICA
A Roma agli inizi del 600 nasce un nuovo genere musicale: l’oratorio. Da tempo la Chiesa era diventata
una potenza politica e economica di primo ordine, nonostante questo l’opera riformatrice di Lutero
costrinse la Chiesa a prendere atto della necessità di un mutamento. Per questo alcuni privati cittadini
tentarono di dare il proprio contributo per l'applicazione del messaggio evangelico in modo più profondo
e coerente, istituendo nuovi ordini religiosi o riformando quelli già esistenti.
A roma operò un sacerdote, Filippo Neri, che fece uso della musica per il suo apostolato. Egli si rese
conto che era necessario un riavvicinamento delle persone alla pratica religiosa. Allora verso il 1550
iniziò ad incontrarsi regolarmente con un piccolo gruppo di laici per pregare e discutere di problemi
spirituali. Il numero di partecipanti man mano aumentò. Inizialmente si riunivano in una soffitta sopra la
chiesa di S.Girolamo della Carità; in seguito in un locale detto Oratorio della Pietà. Nel 1575 una vecchia
chiesa venne abbattuta per costruire quella che viene detta: Chiesa Nuova. Nel 1640 accanto a questa
venne inaugurato un edificio che fu detto “oratorio”.
Negli oratori la musica ebbe un posto in primo piano, infatti tra le preghiere i partecipanti eseguivano tutti
insieme numerosi canti religiosi. Nella seconda metà del Cinquecento furono stampati ben nove libri di
laudi composte appositamente per l'oratorio di Filippo Neri. Queste avevano uno stile simile alle forme
profane “leggere” del 500, come la villanella: forma strofica e un andamento omoritmico, con prevalenza
della voce superiore.
Con il passare degli anni il contesto sociale dell’oratorio cambia: se inizialmente erano riunioni informali
in cui ogni partecipante era coinvolto direttamente piano piano prendono il sopravvento i vescovi,
cardinali e aristocratici. Anche la produzione musicale dovette quindi cercare nuove strade: inizialmente
gli oratori si accostarono al madrigale. Si assiste però ancora ad una svolta: riaffiora prepotentemente
l'elemento dialogico, annunciando la nuova esigenza barocca di assistere a scene drammatiche ben
determinate, tratte dalla storia sacra o puramente allegoriche.
Intorno agli anni 30-40 del 600 si ha una nuova congiunzione delle quattro caratteristiche principali
dell’epoca barocca: monodia con basso continuo, stile concertante, tendenza alla rappresentatività e
volontà di muovere gli affetti creano il genere che verrà poi detto oratorio.
Si eseguirono quindi composizioni che possono essere definite come opere in miniatura, scritte in versi
poetici ma senza scenografie, costumi o movimenti scenici. Erano di argomenti sacri e impiegavano:
cantanti solisti, un piccolo coro e alcuni strumenti, solitamente due violini e basso continuo o solo il
basso continuo. Uno dei solisti veniva detto Poeta e svolgeva la parte di narratore, mentre gli altri
cantanti impersonavano uno dei protagonisti della vicenda.
La prassi cinquecentesca di circondare di musica il sermone condusse a due maniere di gestire l'oratorio
musicale: si poteva eseguire un oratorio lungo (della durata di circa un'ora), diviso in due parti intercalate
dalla predica; oppure se ne potevano realizzare due più brevi, di circa mezz'ora l'uno. In quest'ultimo
caso, il primo oratorio narrava in genere una storia tratta dall'Antico Testamento, mentre il secondo,
eseguito dopo il sermone, si rifaceva ad un brano del Nuovo Testamento.
GIACOMO CARISSIMI (1605-1647): uno dei maggiori compositori della prima fase dell’oratorio. Ricoprì
per quasi tutta la vita la carica di insegnante di musica presso il collegio germanico di Roma e di maestro
di cappella in S.Apollinare, chiesa annessa al collegio.
I suoi oratori erano destinati ad essere eseguiti in varie circostanze: non solo presso gli oratori (nel
senso di 'edifici) dei Padri filippini, ma anche per le funzioni del Collegio Germanico stesso o per alcuni
palazzi nobiliari e cardinalizi. Egli produsse tantissimi oratori in latino. Questi sono simili a quelli in
volgare però sono più rari quelli divisi in due parti. Altre differenze con l’oratorio in volgare consistono nel
fatto che il testo è in prosa e non in poesia e che la figura del narratore si alterna tra i solisti e il coro,
inoltre spesso l'accompagnamento musicale era riservato solo al basso continuo. La grande distinzione

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tra oratorio in latino e oratorio in volgare rimane sociologica: destinato ad un'élite e circoscritto ai venerdì
di quaresima il primo, aperto a tutti ed eseguito in qualsiasi periodo dell'anno il secondo.

I LUOGHI DELLA MUSICA BAROCCA: con il 600 si assiste ad una pluralità di stili paralleli,
questo perché lo scarto stilistico richiesto dalle diverse situazioni divenne consapevole e codificato nei
tratti teorici. Questo può essere collegato a due fattori: il primo è l’avvento della seconda prattica. Infatti
per la prima volta un nuovo linguaggio stilistico non riuscì a soppiantare il precedente, infatti la prima
prattica non era stata eliminata, ma sopravviveva come stile adatto alla musica sacra. Il secondo fattore
è di ordine letterario. Fin dal medioevo la produzione degli scrittori e dei poeti si era andata dividendo in
generi ben definiti, soprattutto dal 1536 in poi, anno in cui fu pubblicato il testo originale della Poetica di
Aristotele. Da questo i letterati del Rinascimento trassero nuovi spunti per compiere un’opera di
codificazione e classificazione dei generi letterari. Si iniziò però a parlare di teoria dei generi musicali
solo nel 600 inoltrato. Però il concetto di genere musicale costituiva più una categoria funzionale che
una estetica: i generi musicali erano infatti determinati soprattutto dalla specifica funzione sociale che
erano chiamati a svolgere, la quale dettava le caratteristiche stilistiche a cui essi dovevano sottostare.
Tutto questo portò i teorici musicali seicenteschi a una riflessione sugli stili musicali appropriati alle varie
circostanze: si creò una distinzione tra uno stile di chiesa, uno da camera e uno teatrale. Questa
tripartizione stilistica veniva sovrapposta anche alla bipartizione tecnica di prima o seconda prattica.

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LA CANTATA DA CAMERA
21.1 STORIA DI UN NUOVO GENERE MUSICALE PER PALAZZI ARISTOCRATICI
Il declino nella produzione dei madrigali avviene con lentezza, fino al 1620. La crisi economica che c’è in
europa in coincidenza con la guerra dei 30 anni aveva condotto al fallimento buona parte dell’editoria
italiana, grazie al quale il madrigale aveva raggiunto la sua diffusione. Questo portò a chiudere le porte
al mondo cortese e aprirle all’assolutismo barocco.
Il genere di musica vocale che soppiantò il madrigale fu la CANTATA. La prima pubblicazione a stampa
in cui compare questo nuovo termine consiste nelle Cantade et arie di Alessandro Grandi
(1575/80-1630), pubblicate prima dell'anno 1620. Le tre composizioni della raccolta definite 'cantate si
distinguono dalle altre dello stesso volume per il maggior grado di libertà formale che è loro riservato.
Nelle arie, infatti, la stessa musica viene riproposta quasi senza cambiamenti per tutte le strofe del testo;
nelle cantate, al contrario, è solo il basso ad essere ripetuto identico, mentre la melodia è variata ad ogni
strofa. Questo tipo di cantata viene definita modernamente cantata su basso strofico.
Al tempo però il termine cantata non aveva un significato univoco bensì definiva un tipo di composizione
diverso dal madrigale e più ambizioso di una aria strofica. In ogni caso, la cantata era eseguita da un
solo cantate accompagnato dal basso continuo; talvolta erano previsti anche altri strumenti, che
consistevano quasi sempre in due violini. Il testo poetico riguardava argomenti amorosi, numerosi però
erano anche le cantate sacre, sia in italiano che in latino. Nella seconda metà del secolo il testo assunse
sempre più la forma di monologo cantato da un personaggio: contenuto teatrale. Però in mancanza di
un'azione scenica era necessario fare sempre più affidamento sulle abilità dei cantanti. Troviamo
dunque riunite nella cantata le principali caratteristiche che si possono rintracciare in tutta la musica
barocca: stile monodico con basso continuo, stile concertante , tendenza alla rappresentatività e la
volontà di muovere gli affetti.
La maggior parte dei volumi contenenti cantate provengono da Roma, proprio per la mancanza di una
corte laica che producesse musica profana. Tuttavia nella città c’erano numerose e potenti famiglie
aristocratiche che lottavano per primeggiare nella vita economica e politica. Queste famiglie dovevano
utilizzare l’attività musicale come elemento per affermare il proprio rango, quindi tutti mantenevano nel
loro palazzo un piccolo gruppo di musicisti. La concorrenza fra tutte queste piccole corti rese dunque la
Roma del Seicento un terreno estremamente fertile non solo per la musica in generale, ma anche per la
sperimentazione o l'accoglienza di tipologie musicali sempre nuove: la cantata, l’opera, l’oratorio, la
sonata, il concerto grosso ecc.
Tra questi il genere più richiesto era la cantata. Motivi → questa richiede un minuscolo organico =
piccola spesa; lo stile raffinato rispondeva pienamente alle nuove esigenze dell’epoca; i testi erano
spesso scritti dai mecenati stessi o dai letterati che facevano parte delle corti rendendoli più gradevoli
per il pubblico. Nei primi decenni del 700 però il teatro d’opera si andò sempre più affermando, così i
patrizi romani smisero di assumere musicisti stabili nelle proprie case, tendendo a uscire per andare a
teatro. Le cantate e i duetti da camera si trasformarono allora in oggetti da collezionismo. Status symbol
dell'aristocrazia non era più far realizzare eventi musicali concreti dai propri salariati, ma presenziare alle
stagioni operistiche ed esibire nella propria biblioteca manoscritti musicali alla moda. Unico spazio
disponibile per le cantate rimase quello celebrativo: pezzi d’occasione in occasioni pubbliche e solenni.

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LA SONATA BAROCCA
22.1 STORIA DI NUOVE SOLUZIONI PER LA MUSICA STRUMENTALE D’ASSIEME
Tra fine 500 e inizio 600 iniziò ad apparire su alcuni frontespizi di musiche per gruppi strumentali il
termine sonata. I termini canzone da sonar e sonata potevano essere abbastanza confusi l’uno con
l’altro, e anche il loro contenuto musicale era abbastanza simile: anche la sonata adotta talvolta una
forma in più sezioni metricamente contrastanti e non esita a servirsi del ritmo dallico della canzone.
Tuttavia negli anni 1600-1630 un fattore sociologico creò una divisione tra le due: più del 90% dei
compositori di sonate erano organisti mentre gli autori di sonate erano professionisti di altri strumenti
(violinisti). La differenza tra i due: essendo l'organo uno strumento essenzialmente polifonico, l'organista
riceveva una completa educazione alla teoria musicale e al contrappunto rigoroso: egli doveva essere
capace di scrivere o di improvvisare con scioltezza composizioni polifoniche su cantus firmus o in stile di
mottetto, da eseguire all'organo per le necessità liturgiche della chiesa di cui era al servizio. Invece i
violinisti erano meno interessati alla teoria della composizione e alla polifonia: la loro finalità principale
era realizzare esecuzioni concrete che mettessero in luce le potenzialità del loro strumento. Quindi la
sonata, libera da qualsiasi rapporto con le voci umane o con un testo, accolse in pieno le nuove
esigenze individualistiche del 600.
Il numero di esecutori della sonata, dai primi decenni del 600 si fece più ristretto. Il tipo più comune
divenne infatti la sonata a tre: due strumenti monodici e il basso continuo. Il numero di esecutori poteva
comunque essere variabile, infatti il basso continuo poteva essere eseguito da un solo strumentista o da
molti. Un altro tipo frequente era la sonata a due, detta anche sonata solistica: lo strumento è uno
solo, sostenuto dal basso continuo, per cui la scrittura è su due pentagrammi.

- ARCANGELO CORELLI è un punto di riferimento sia per la sonata che per il concerto grosso. Nato a
Fusignano intorno ai 20 anni si trasferisce a Roma. Divenne presto uno dei violinisti più famosi della città
fu al servizio dei tre maggiori mecenati della Roma seicentesca: la regina Cristina di Svezia e i cardinali
Benedetto Pamphilj e Pietro Ottoboni.
Il passaggio tra il 1689 e il 1690 venne segnato da un cambiamento nel mecenatismo romano.
L’elezione del nuovo pontefice, Alessandro VIII Ottoboni, causò l’improvvisa ascesa al potere del
pronipote Pietro Ottoboni. Egli attirò nella sua orbita i maggiori musicisti presenti a Roma, tra cui Corelli.
Il musicista in parallelo al servizio per le casate aristocratiche svolgeva anche “libera professione” presso
altre chiese di Roma e un teatro. Nonostante la sua grande e lunga attività egli pubblicò un numero
ristretto di composizioni: due serie di dodici sonate a tre da chiesa (op. I, 1683 e op. III, 1689),
due serie di dodici sonate a tre da camera (op. II, 1685 e op. IV, 1694), una raccolta di dodici sonate a
due per violino e basso continuo, delle quali sei da chiesa e sei da camera (op. V, 1700) e, postuma, una
silloge di dodici concerti grossi, anch'essi suddivisi in otto concerti da chiesa e quattro concerti da
camera (op. VI, 1714; sul concerto grosso v. par. 25.1).

La forza trainante della produzione corelliana fu una delle cause per cui a inizio 700 la predilezione dei
contemporanei si spostò dalla sonata a tre a quella a due. Questa divenne il trampolino di lancio per
alcuni dei maggiori compositori della seconda metà del 600 e della prima metà del 700: Vivaldi,
Geminiani, Veracini, Tartini e Locatelli.
La differenziazione tra sonata a due o tre non era l’unica nel genere: si dividevano anche in sonate da
chiesa o da camera:
- la sonata da chiesa → la modernità del linguaggio strumentale era contaminato dagli
influssi contrappuntistici che provenivano dalla prima prattica e che generavano interi
movimenti in carattere fugato. Dal punto di vista formale si formò in una struttura divisa in
quattro movimenti tutti nella stessa tonalità i cui andamenti erano: lento-veloce-lento-veloce
Sicuramente il prestigio di Corelli influì sulla codificazione delle sonate da chiesa ma anche
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un altro fattore contribuì: il musicologo Stephen Bonta nel 1969 formulò un’ipotesi basata
su prove più indiziarie che su testimonianze dirette. In quelle chiese o monasteri che non
potevano permettersi di mantenere un coro polifonico stabile, le sonate da chiesa
sarebbero state impiegate in sostituzione di alcune parti del Proprium della messa mentre il
celebrante recitava a bassa voce il testo liturgico relativo. Inoltre si può ipotizzare che
l’abitudine di suonare a tre durante la liturgia non sia sorta improvvisamente con la sonata
da chiesa. Anche prima del fiorire di questo genere musicale nulla vietava che due violinisti
eseguissero le due parti superiori di una composizione polifonica per organo, lasciando a
quest’ultimo la realizzazione delle voci più gravi. Sulla base di questo si potrebbe
ricollegare la sonata di chiesa con la comune prassi dei musicisti dell’epoca.
- la sonata da camera → destinata agli intrattenimenti musicali nei palazzi aristocratici.
Questa aveva “preso spunto” dalla musica per danza.

Su quest'ultima nonostante non si abbiano molte fonti scritte si può vedere che
una delle costanti nella pratica del ballo di società fu l’accoppiamento di una
danza lenta con una successiva danza veloce. Da qui nacque la consuetudine
seicentesca di riunire le musiche per danza in quelle che vennero definite suites,
successioni di danza alternativamente lente e veloci o viceversa, unificate
dall’uso della stessa tonalità. Nell’età barocca i compositori di musica alta
iniziarono a inserire nelle loro composizioni strumentali musiche per danza,
questo perché i ballerini della danza di società occupavano uno dei più alti gradi
della gerarchia sociale.
La successione dei movimenti della sonata da camera non assunse una struttura fissa.

La diversa destinazione dei due tipi di sonata a tre influiva anche sull’organico con cui veniva realizzato il
basso continuo. I frontespizi delle sonate a tre di Corelli suggeriscono una strumentazione inaspettata.
Le sue sonate da chiesa op. I e op. III sono per «Due Violini, e Violone, o Arciliuto, col Basso per
l'Organo»: oltre all'organo, dunque, per realizzare il basso continuo possono essere impiegati
indifferentemente uno strumento monodico come il violone o un altro strumento polifonico come
l'arciliuto. Il confine tra stile da chiesa e da camera non era però invalicabile: più ci si avvicina all’anno
1700 più i due tipi si andarono sovrapponendo.

APPROFONDIMENTO 22.2 LA SONATA DA CHIESA NELL’ETÁ BAROCCA E L’AFFERMAZIONE DEL


SISTEMA TONALE: La sonata op.III n.2 di Arcangelo Corelli
Nelle sonate di Arcangelo Corelli si può considerare compiuta l’affermazione del nuovo linguaggio
musicale, quello tonale.

La sonata da Gabrieli a Corelli


Nei primi decenni del seicento si chiamavano “sonate” composizioni costituite da un unico movimento o
le composizioni spiccatamente idiomatiche, o serie di variazioni su un modulo melodico o armonico noto.
L’ascendente più diretto delle sonate a tre corelliane sono le sonate o canzoni multisezionali del primo
Seicento e di Giovanni Gabrieli.
↳ concepite come movimenti unici divisi in sezioni metricamente contrastanti, relativamente
brevi e numerose. A seguito delle creazioni corelliane il numero e la tipologia dei movimenti si
standardizzò. Una sonata da chiesa era composta da quattro movimenti tutti nella medesima tonalità.
La produzione corelliana segna un allontanamento dalla prassi tradizionale: si afferma la tendenza a
determinare una polarità melodia-basso: i due violini occupano tessiture medio-acute molto ravvicinate,
mentre il basso si mantiene distante in un registro più grave. Si ha quindi un vuoto sonoro nella regione
intermedia, destinato a essere colmato dagli accordi del continuo.
La sonata op. III n.2
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Successione di un Grave, un Allegro, un Adagio e un’altro Allegro conclusivo. Il grave è in metro 4/4.
L’assetto polifonico è esemplare dei movimenti iniziali delle sonate da chiesa corelliane, per il “basso
corrente”, per le parti superiori ravvicinate e per l’uso frequente di ritardi.
Il movimento seguente è anch’esso in 4/4 e rappresenta il centro della composizione.
Contrappuntisticamente è il più complesso, qui il retaggio della canzone polifonica è più presente. Il
basso è equiparato alle altre parti: tutte e tre le voci espongono il tema in imitazione sistematica, e la
seconda accenna un'entrata per moto contrario.

II rigore contrappuntistico non impedisce comunque alla scrittura di assumere un aspetto genericamente
strumentale, in particolare violinistico.
terzo movimento : movimenti lenti intermedi solitamente in modo ternario. È un duetto tra i due violini, un
dialogo sostenuto dal continuo che funziona da accompagnamento. Ha un carattere patetico che
determina la convergenza nell’Adagio di una serie di fattori stilistici. Innanzitutto la cantabilità nella
musica strumentale dell’epoca era connessa con l’evocazione degli "affettuosi" melismi usati dai cantanti
per arricchire le linee melodiche predisposte dai compositori.
L'ultimo movimento non reca che l'indicazione di andamento Allegro, ma vi è ben riconoscibile una
trascinante giga in 6/8: un movimento di danza, dunque, in una sonata da chiesa. È questo un sentore
della tendenza sempre più marcata a confondere i due generi: la giga è infatti la danza che più spesso
conclude le sonate da camera.
I 4 incipit hanno una matrice melodica comune.

Due stilemi musicali barocchi: Fortspinnung e progressione


Fortspinnung (sviluppo continuo) → i compositori di quest'epoca tendono a evitare i contrasti tematici
all'interno dei singoli movimenti, tessendo invece l'ordito sonoro con un'unica, breve cellula
melodico-ritmica. Questa viene variata rendendo omogenea la condotta complessiva con la sua
onnipresenza. Connesso all’uso del fortspinnung c’è la progressione: ripetizione di un breve modulo
melodico-armonico detto 'modello' che ricompare ogni volta su un grado della scala superiore o inferiore.

Dalla modalità alla tonalità


Alla nascita del sistema tonale vengono associate diverse innovazioni. Una di queste è una dilatazione
nella durata delle musiche strumentali.
(pag 183-185 leggere)
I tratti caratteristici delle scale tonali rispetto a quelle modali sono due:
1. Il numero dei modi nella tonalità è limitato a due: il maggiore e il minore
2. Qualsiasi nota può fungere da punto di partenza (tonica) quindi non esiste più la
corrispondenza univoca di un sistema intervallare e di abitudini melodiche con una finalis e
soltanto con quella.
Per identificare un ambito tonale occorre quindi specificare tanto quale nota costituisce la tonica, quanto
il modo della scala che parte da essa. Anche la tonalità era qualificata tanto da una scala quanto da una
serie di altre caratteristiche funzionali: tensione armonica → alla funzione attrattiva esercitata nelle
cadenze modali dall'accordo costruito sulla finalis corrisponde nella tonalità la forza centripeta esercitata
dall'accordo costruito sulla tonica. Rispetto al sistema modale l’attrazione che l’accordo esercita è
maggiore: costruisce un centro gravitazionale attorno a cui orbitano gli altri accordi della medesima
tonalità, tutti soggetti a 'risolvere' più o meno direttamente su di esso. gerarchia → ad alcuni accordi è
riconosciuta una funzione più rilevante: assieme all’accordo di tonica quelli costruiti sul V grado, detti di
dominante e di sottodominante sono considerati espressione di una tonalità in modo meno equivoco
degli altri e dunque la loro successione afferma una tonalità in modo indiscutibile. sintassi → nella
successione degli accordi si cristallizzano alcune formule cadenzali standard, le più caratteristiche delle
quali nel sistema tonale sono quelle che combinano gli accordi più rappresentativi di una tonalità.

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Dunque, la tensione armonica tonale si determina attraverso la successione tra gli accordi,
soprattutto di quelli gerarchicamente più rilevanti, disposti in sequenze sintatticamente
determinate.

Il sistema tonale e la gestione della forma


I singoli accordi appartenenti a una tonalità nel corso di una composizione possono assumere
momentaneamente la funzione di toniche transitorie, creandosi attorno a loro un piccolo circuito di
accordi subordinati e determinando così un temporaneo spostamento del centro tonale, quindi una
modulazione. Però, nonostante le tonalità momentaneamente raggiunte hanno come tonica un accordo
appartenente alla tonalità principale ci si allontana solo di poco dalla tonalità di partenza: tali tonalità si
dicono tonalità vicine a quella d'impianto e sono considerate legate da un rapporto armonico
privilegiato con quella. Un percorso armonico che si mantenga nell'ambito delle tonalità vicine non si
risolve in un indebolimento di quella principale, ma in un suo rafforzamento.

Dopo tutto questo non è scioccante che i compositori abbiano sviluppato la capacità di estendere le loro
creazioni molto più di quanto era possibile fare in precedenza.
Un'ultima annotazione riguarda la tonalità in cui è impiantato il terzo movimento della sonata, l'Adagio.
Come si è detto è in si min., tonalità la cui tonica corrisponde al sesto grado di quella di re magg.,
tonalità degli altri movimenti della sonata. Un rapporto come quello esistente tra queste due tonalità (re
magg. e si min.) è considerato particolarmente privilegiato, tanto che le due tonalità vengono dette
'relative".

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L’OPERA FRANCESE DEL SEICENTO
23.1 STORIA DI RITUALI ASTROLOGICI, DI BALLETTI, DI OPERE E DI UN VALLETTO DA CAMERA
DALL’AVVENIRE ASSAI PROMETTENTE
Nell’epoca barocca l’esercizio di potere avveniva in maniera più esplicita, coinvolgendo le arti in un ruolo
propagandistico: la musica era uno dei mezzi con cui l'autorità celebrava i fasti, muovendo a suo
piacimento gli affetti degli ascoltatori per persuaderli di essere sudditi del migliore dei regni possibili.
La nazione in cui questo avviene di più: FRANCIA.

Nella Francia del Cinquecento avevano trovato ampia eco quelle idee platoniche sul potere della musica
approdando in un circolo culturale esclusivo ed esoterico fiorito alla corte di Carlo IX intorno al 1570:
l'Académie de poésie et de musique. Il principale ispiratore di questa accademia fu Jean Antoine de
Baïf. La sua peculiarità, e degli uomini che collaboravano con lui, era l’importanza conferita al ritmo, egli
voleva ottenere una musica il cui ritmo ricalcasse alla perfezione quello poetico, traducendo le sillabe
lunghe e brevi della prosodia in corrispondenti valori lunghi o brevi delle note musicali. Però i francesi
non furono mai tentati di approdare sulla sponda della monodia: nella musique mesurée venne
mantenuta sempre una struttura a più voci, che venivano trattate omoritmicamente.
L’evento maggiore a cui prese parte Baif furono le nozze di Margherita di Lorena e del duca Joyeuse nel
1581. I banchetti, le parate, i tornei, gli spettacoli culminarono nel più celebre tra i ballets de cour: il
Balet comyque de la royne, rappresentato al palazzo del Petit Bourbon il 15 ottobre 1581. Questo
balletto era imperniato sulla liberazione di Ulisse dagli influssi malefici della maga Circe ad opera di
Giove, identificato con il re Enrico III, e della dea Minerva, che adombrava chiaramente la persona della
regina madre Caterina. L'ideazione era di Baltasar de Beaujoyeulx, violinista e coreografo italiano.
Negli anni '30 del Seicento, sotto il governo del cardinale Richelieu, i ballets de cour abbandonarono i
contenuti allegorici per celebrare esplicitamente le glorie e i successi militari della monarchia francese.

Valenza politica ebbe anche una delle più importanti inizia-rive musicali intraprese nei primi anni del
regno di Luigi XIV, sotto la reggenza di Anna d'Austria, dal cardinale italiano Giulio Mazarino. Mazarino
attirò a Parigi i migliori musicisti che avevano realizzato le opere barberiniane a Roma, questa
migrazione coincise con il periodo della morte di papa Urbani VIII. Mazarino fece allestire a corte alcune
opere italiane: 1645 la finta pazzia di Giulio Strozzi che non ottenne però successo. Uguale per le altre.
L'ostilità dello sceltissimo pubblico verso le iniziative mazariniane nasceva da una duplice causa: da una
parte, l'opera italiana era lontana dal gusto francese, dall'altra, il movimento di opposizione al cardinale
Mazarino cercava di ostacolare in qualunque modo ogni italianizzazione della vita di corte.
Nelle opere rappresentate successivamente furono quindi apportate delle modifiche per adattarle al
gusto francese, come nell’opera Xerse di Nicolò Minato su musiche di Francesco Cavalli (1660).
Nonostante questi sforzi, la Francia rimase l'unico paese europeo in cui l'opera italiana non riuscì ad
attecchire; si cercò quindi un tipo di spettacolo che rispecchiasse i gusti francesi. Colui che riuscì in
quest'intento fu tuttavia proprio un italiano, anche se naturalizzato francese: Jean Baptiste Lully. Egli fu
assunto a corte come valletto da camera, intanto però studiava musica. La sua influenza presso Luigi
XIV crebbe a tal punto da fargli raggiungere una posizione sociale mai più conseguita da alcun altro
musicista: nel 1653 fu nominato compositore della musica strumentale del re; nel 1661 divenne
sovrintendente della musica e compositore della musica da camera.
Egli intanto aveva composto le musiche per i più importanti ballets de cour. Lully impose ai suoi
strumentisti uno stile esecutivo assai diverso da quello italiano, questo pretendeva una maggiore fedeltà
al testo musicale.

Negli anni 60 del seicento inizia a collaborare con Molière alla creazione di comédies-ballets: la +
famosa Le bourgeois gentilhomme 1670. Nelle comédies-ballets la poesia, la musica e la danza erano
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giustapposte, e non ancora integrate in un'unica realtà; questo si realizzò pienamente nel 1673, con la
prima tragédie lyrique di Lully, Cadmus et Hermione. Queste erano tragedie in versi, il cui testo veniva
integralmente musicato in un'alternanza di récits e di airs oltre a interventi corali e strumentali. Dopo un
prologo seguivano 5 atti, ognuno era imperniato su un divertissement, un momento in cui l’azione si
arrestava, per dare luogo a un balletto elaborato, fine a se stesso.
La politica culturale del Re Sole, alla pari con quella amministrativa e religiosa, fu improntata ad una
decisa centralizzazione: il re concesse a Lully l'assoluto monopolio sugli spettacoli operistici.

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L’EUROPA TRA SEI E SETTECENTO
24.1 STORIA DEGLI STILI ITALIANO E FRANCESE ALLA CONQUISTA DELL’EUROPA
Le caratteristiche stilistiche della musica italiana, la creazione dell'opera in musica e i meccanismi
impresariali del teatro d'opera erano novità talmente dirompenti che tutti gli stati europei dovettero
confrontarvisi. Vienna, la capitale dell’impero asburgico, la accolse quasi interamente. Dopo la metà del
Seicento furono allestiti nella città austriaca spettacoli operistici in lingua italiana per festeggiare gli
avvenimenti più importanti, in modo più sfarzoso che nella penisola, grazie alla disponibilità economica
maggiore. L'opera italiana nel mondo germanico rientrava ancora nel campo del mecenatismo
istituzionale, e non era diventata un'attività a fini di lucro.
La città di Amburgo fu però un’eccezione: dal 1678 si dotò di un teatro "all'italiana" in cui l'accesso era
consentito a chiunque pagasse un biglietto. Potrebbe essere creato un paragone tra la città e Venezia
ma in verità sono presenti diverse differenze: prima tra tutte qui l’opera veniva cantata in tedesco e non
in italiano. Però poco prima della metà del Settecento l'opera in tedesco scomparve dappertutto, travolta
dal dilagare irrefrenabile dell'opera italiana. Solo sporadici tentativi di creare spettacoli teatrali in lingua
tedesca avevano preceduto quelli del teatro di Amburgo. Per esempio la Dafne di Martin Opitz con
musiche di Heinrich Schütz, rappresentata nel 1627. Il libretto di quest'opera non è altro che la
traduzione tedesca della Dafne di Rinuccini.

- Heinrich Schütz 1585-1672 → trascorse tutta la vita a Dresda ma i due viaggi che compì in Italia
costituirono delle esperienze fondamentali. Primo intorno agli anni 1609-1613, dove studiò con Giovanni
Gabrieli. Secondo tra il 1628 e il 1629 a Venezia. In questi anni il panorama musicale era cambiato
radicalmente, secondo Schütz in meglio. Imperava ormai la seconda prattica. Uno dei principi più
importanti assorbiti dal compositore tedesco fu la concezione della musica come arte di muovere gli
affetti. Le composizioni di Schütz, benché prevalentemente orientate sul repertorio sacro, si pongono
allora come sintesi della seconda pratica italiana con la tradizione musicale luterana.

Diverso fu il percorso dell’inghilterra: Il tardo Cinquecento inglese aveva assistito ad una vivace stagione
madrigalistica affiancata da una ricca produzione strumentale dedicata ad uno strumento tipico
dell'Inghilterra rinascimentale: il virginale, un clavicembalo dalle dimensioni assai ridotte. Influenze dell'
air de cour francese possono essere rintracciate negli ayres di John Dowland (1563-1626). Composizioni
generalmente strofiche, scritte per più voci e liuto in una presentazione, detta libro da tavolo', che
permette a tutti gli esecutori di cantare radunati intorno allo stesso volume poggiato sul tavolo.
Alcuni tentativi di introdurre l’opra italiana il pubblico inglese lo accettò solo agli inizi del 700. Infatti tutte
le opere teatrali di colui che è forse il maggior compositore inglese seicentesco, Henry Purcell (1659-
1695), devono essere definite semi-opere. Consistono in inserti musicali, destinati al balletto, che
farciscono alcuni drammi recitati. es. The Fairy Queen 1692. In questi spettacoli la musica apriva la
rappresentazione e occupava gli spazi tra un atto e l’altro, oppure veniva introdotta come musica di
scena nei momenti in cui l’azione la richiedeva.
A questo va aggiunto un’altro elemento, che deriva direttamente dal MASQUE: sofisticati e sontuosissimi
balletti di corte corredati di musica vocale e strumentale, nei quali gli stessi aristocratici spettatori erano
ad un tempo destinatari e protagonisti dell'evento coreutico.
Solo una delle composizioni teatrali di Purcell può rientrare nella tipologia dell'opera vera e propria: il
Dido and Aeneas (1689) è uno spettacolo interamente musicato, sebbene sia di proporzioni ridotte. Nelle
sue musiche operistiche Purcell sviluppa l’uso del basso ostinato, usato per esaltare l’imprevedibile
libertà della linea melodica soprastante gli consente di coprire tutto l’arco espressivo degli affetti
barocchi. L'unico tipo di repertorio in cui Purcell si serve raramente del basso ostinato è quello religioso.
La musica dei suoi anthems segue con flessibilità la declamazione espressiva del testo che, essendo in
prosa e non in poesia, rifugge da ogni schematica divisione in forme chiuse.
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La Spagna rimase praticamente impermeabile alla diffusione dell’opera in musica. Il mondo spagnolo
respinse l'idea di uno spettacolo teatrale interamente cantato. Fiorirono soltanto le zarzuelas, drammi
recitati di argomento mitologico con inserti musicali.

Negli ultimi anni del 600 in tutta Europa si iniziano a diffondere in tutta europa le composizioni di Corelli,
e diversi artisti lo emulano. Anche in Francia lo stile italiano ebbe successo, così tanto che un
compositore francese dovette escogitare uno stratagemma per scrivere sonate a tre in stile italiano, per
evitare accuse di tradimento. Egli finse che un suo cugino, il quale era realmente al servizio del re di Sardegna, gli
avesse inviato una sonata di un nuovo compositore italiano, il cui nome altro non era se non un'abile permutazione delle lettere
che formano il nome di Couperin stesso. Poiché il suo pubblico era avido delle novità musicali della penisola, Couperin ottenne
un lusinghiero successo, e con il suo nome italianizzato produsse altre sonate di questo genere.

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IL CONCERTO BAROCCO
25.1 STORIA DEL CONCERTO, DA GROSSO A SOLISTICO
Il concerto grosso a Roma dominò, a fianco della sonata, la produzione strumentale tra 600 e 700.
Intorno al 1670, sia gli oratori in volgare sia quelli in latino andarono servendosi di un organico
strumentale più ampio. Per esempio le partiture di Alessandro Stradella ci mostrano come egli divide i
suoi musicisti in due gruppi, denominati “concertino” e “concerto grosso”. Gli strumenti del concertino
sono quelli della sonata a tre, due violini e basso continuo; il concerto grosso, invece, ha una struttura a
quattro parti, che venivano eseguite da violino, viola contralto, viola tenore e basso continuo. La
differenza tra i due gruppi è, chiaramente, di natura compositiva. Inoltre il concertino è polarizzato tra
l'acuto, costituito dai due violini, e il grave rappresentato dal basso continuo; il concerto grosso segue la
tradizionale struttura soprano-contralto-tenore-basso di ascendenza cinquecentesca. Oltre a ciò le
singole parti del ripieno potevano essere eseguite da più di un esecutore ciascuna, il concerto grosso
diventa quindi “grosso” anche di numeri. Stradella si serviva di questa suddivisione dell'organico
strumentale per le diverse esigenze dell'accompagnamento, impiegando il concertino nelle arie dei solisti
e riservando il concerto grosso (unitamente al concertino) per i pezzi d'assieme e la sinfonia introduttiva.
Se il cantante solista era il basso, i due violini erano liberi di sfoggiare il loro virtuosismo, lanciandosi in
brillanti figurazioni di coloratura: si creò così la caratteristica del concertino, erano un gruppo di veri soliti,
contrapposti al resto della massa orchestrale.
Corelli venne a conoscenza di questa prassi e se ne appropriò, realizzandola nella musica strumentale.
Egli produsse alcune composizioni dal titolo di Concerti grossi, che erano basate sull’alternanza tra “soli”
e “tutti”. Corelli mutò l'organico del ripieno: non più violino, due viole e basso continuo, ma due violini,
viola e basso continuo, rendendo più moderna e simile all'organico della sonata a tre anche la
compagine più numerosa.
L'appropriazione del concerto da parte degli autori veneziani, soprattutto Antonio Vivaldi, porterà molte
novità rispetto all’impianto corelliano: numero dei movimenti ridotto a 3: Allegro-Adagio-Allegro. Ai singoli
movimenti la “forma-ritornello” dove la sezione introduttiva del “tutti” torna in varie tonalità, raggiunte
attraverso sezioni modulanti affidate ai “soli”. L’ultima innovazione è l’accentuazione del concertino.
Prese piede così l'abitudine di scrivere concerti in cui la parte solistica desse modo all'esecutore di
dimostrare tutto il proprio virtuosismo.

- ANTONIO VIVALDI → 1678-1741. La sua produzione di concerti è quantitativamente notevolissima: ne


scrisse circa 500, dei quali più di 230 per violino, una quarantina per fagotto e poi, in ordine decrescente
di frequenza, per violoncello, oboe, flauto traverso, viola d'amore , flauto dritto e mandolino, tutti
accompagnati da archi e basso continuo.
Ricoprì fino al 1703 il ruolo di maestro di violino presso il Pio Ospedale della Pietà di Venezia, in seguito
sempre dallo stesso istituto gli furono affidate le mansioni di maestro di viola all’inglese e di maestro de’
concerti.
- Gli ospedali veneziani → nel 700 venivano definiti così gli istituti che raccoglievano bambini orfani,
abbandonati o provenienti da famiglie disagiate, fornendo loro un'educazione e un mestiere. Qui
l’istruzione musicale svolgeva un ruolo in primo piano.

Buona parte della produzione strumentale di Vivaldi fu composta in vista delle esibizioni di questi
ospedali. In questo primo periodo compaiono le sue prime pubblicazioni a stampa: sonate a due, sonate
a tre e i concerti dell'op. III, detta L'estro armonico, e dell'op. IV, detta La stravaganza. Egli affiancò
all'insegnamento presso l’Ospedale l’attività musicale relativa al teatro d’opera. Nel 1713 fu
rappresentata a Vicenza la sua prima opera, Ottone in villa; l'anno successivo egli riuscì a far allestire
una sua opera a Venezia, presso il teatro S. Angelo (Orlando finto pazzo). Compose quasi un centinaio
di opere e si impegnò anche come impresario teatrale.
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Intorno al 1720 lasciò provvisoriamente l’incarico presso l’Ospedale trasferendosi a Mantova come
“maestro di cappella e di camera”. Dopo un paio di anni la sua fama raggiunse una dimensione
internazionale, infatti gli anni tra il 1725-1735 sono caratterizzati da viaggi in tutta l’Europa e aumentano
le sue composizioni a stampa. Nonostante ciò, gli ultimi anni della vita di Vivaldi lo videro quasi ai
margini della vita musicale dell'epoca e in condizioni economiche precarie e morì a Vienna nel 1741.

APPROFONDIMENTO 25.2 FORMA-RITORNELLO E DESCRITTIVISMO NEL CONCERTO


SOLISTICO: LA Primavera DI VIVALDI
Il descrittivismo in Italia
In italia l'atteggiamento dei ceti intellettuali risentì non poco della divaricazione tra cultura artistico
letteraria e pratica musicale che è una peculiarità della penisola. L'Arcadia, l'accademia letteraria
rapidamente diramatasi dopo il 1690 che propugnava il recupero del classicismo antibarocco ignorò
quasi del tutto la musica, che era considerata dagli arcadi come ornamento, utile per intrattenere o
solennizzare una cerimonia. D'altro canto i compositori solo occasionalmente si confrontarono con la
poetica dei letterati. Del resto, le loro composizioni strumentali, sonate e concerti, rappresentavano la
prova tangibile dell'ormai raggiunta autosufficienza espressiva del linguaggio musicale. La presenza di
riferimenti extramusicali generici è nei cataloghi dei compositori italiani dell'epoca più rara che in quelli
francesi o tedeschi.

Le quattro stagioni
Vivaldi si accostò alla musica descrittiva tra il primo e secondo decennio del 700. In quel periodo si stava
diffondendo in italia la moda della musica descrittiva. Inoltre questi sono gli anni in cui il compositore
lascia Venezia per Mantova, doveva quindi sembrargli utile rendere 'appetibili' i concerti dal punto di
vista commerciale, sia in quanto destinati alla stampa sia in quanto prodotti da offrire a clienti e
committenti. L'aggiunta di un titolo rappresentava un semplice metodo per connotare una composizione
strumentale.
All'epoca il soggetto delle Stagioni non rappresentava una novità per la musica colta europea, e prima di
essere pubblicate le musiche probabilmente sono circolate tramite dei manoscritti, infatti secondo le
parole della dedica il conte conosceva già «le quattro stagioni», i concerti che aprono la raccolta.
Le Stagioni sono concerti per violino solista, orchestra d'archi (violini l e II + viola) e continuo. L'autografo
vivaldiano di queste composizioni è perduto, ma esistono manoscritti d'epoca dove, nella parte del
violino solista, sono riportate alcune lettere; queste stabiliscono una corrispondenza tra i diversi
segmenti di ciascun concerto e i versi di quattro sonetti di autore ignoto. I riferimenti al testo dei sonetti
sono distribuiti fra i tre movimenti del concerto in modo che ciascun movimento risulta come
l'illustrazione di una porzione della lirica.

La forma-ritornello nell'Allegro della Primavera


Già dalla distribuzione dei versi tra i movimenti si rileva che l'uso del programma costituito dai sonetti
nella Primavera non contraddice la forma base del concerto solistico quale si era ormai standardizzata in
ambiente veneziano. Anzi, ne mette a frutto la caratteristica alternanza tra andamenti contrastanti
(Allegro - Largo - Allegro) per esprimere la successione tra situazioni diverse. Anche al loro interno i
singoli movimenti conciliano l’intento descrittivo con l’adozione di schemi formali codificati. La struttura
dell'Allegro iniziale richiama la forma-ritornello tipica del concerto settecentesco.
La forma-ritornello prevede l'alternanza tra ritornelli eseguiti dal ripieno (indicati con T) ed episodi in cui
prevale il solista, o i solisti, se l'organico ne prevede più d'uno (S). In tali episodi l'orchestra svolge
funzioni di accompagnamento. I ritornelli sono per sé tonalmente stabili ed impostati ciascuno in una
tonalità diversa, vicina a quella d'impianto; gli episodi sono modulanti, essendo affidata ad essi la
funzione di collegare tali tonalità. Il primo ritornello è composto da elementi tematici diversi che vengono
riproposti di solito parzialmente in quelli seguenti e integralmente nell'ultimo.

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Solitamente il termine “tutti” si considera sinonimo di “ritornello”. In realtà le denominazioni di
'ritornello' ed 'episodio' fanno riferimento al contenuto tematico della musica, quelle di 'tutti' e
'solo' alla compagine che la esegue. Nella Primavera le tredici misure del primo 'tutti' sono
costituite da una duplice esposizione degli elementi a e b ma anche il 'tutti' seguente contiene
elementi tematici nuovi (c, d, e), di modo che non è agevole definire le dimensioni del primo
ritornello. Rispetto allo schema standard, poi, al termine del movimento manca anche una
ripresa integrale del primo ritornello nella tonalità d'impianto. Vivaldi adotta nella Primavera una
soluzione, la ripresa abbreviata, diventerà abituale dalla seconda metà del secolo.
Sia che il sonetto fosse stato composto prima o dopo la musica, risulta che in corrispondenza delle
immagini poetiche più dinamiche (lo scorrere dei ruscelli, lampi e tuoni) l'interesse musicale viene
incrementato. Ciò è ottenuto durante il 'tutti' tramite il rapido avvicendarsi di elementi tematici differenti, e
durante il 'solo' attraverso frequenti modulazioni che isolano questo solo rispetto al resto del concerto.
La breve modulazione a si magg. introdotta nel 'tutti' rappresenta una deroga al principio che vorrebbe i
ritornelli impostati in un'unica tonalità; tale deroga può essere messa in relazione con l'intenzione
descrittiva sottesa alla musica. Del resto la rappresentazione del temporale provoca uno stacco nella
musica anche dal punto di vista dei valori ritmici usati. La rappresentazione delle altre immagini ha
suggerito al compositore l'uso di mezzi musicali del tutto differenti, appartenenti spesso al vocabolario
delle convenzioni bucolico-pastorali. Gli elementi tematici a e b del ritornello sono saldamente incardinati
sulla triade di tonica; l'elegante incedere ritmico del primo ben si associa all'idea del festante arrivo della
bella stagione («Giunt'è la Primavera»), mentre le figurazioni sincopate del secondo richiamano da
vicino il ritmo cosiddetto 'alla zoppa' o 'lombardo'.
Il “solo” inserito tra i primi due tutti è strumentato per tre violinisti solisti senza altro appoggio né
dall'orchestra né dal continuo → il significato descrittivo: l'intrecciarsi dei cinguettii di tre uccelli.
Gli elementi tematici c e d richiamano la sezione C della fronte: il mormorio di «fonti» e «zeffiretti» è reso
attraverso successioni di valori uniformi, prima semicrome, poi minime, melodie strettamente per grado
congiunto che violini I e Il eseguono esattamente in parallelo a distanza di terza gli uni dagli altri.

Il Largo e la Danza pastorale


Ne è un ulteriore esempio proprio il Largo e pianissimo in do diesis min. che segue all'Allegro della
Primavera ed è associato alla sezione F del sonetto. Vi sono costantemente sovrapposti tre elementi
ritmico-melodici differenti, ciascuno relativo a un particolare del paesaggio specificato da una didascalia
apposita. Ai violini I e Il ricompaiono proprio le successioni di terze e l'oscillazione tra note contigue
come raffigurazione del «mormorio di fronde e piante», punteggiate dall'essenziale ostinato ritmico della
viola.
Lo spazio a disposizione è più limitato rispetto ai movimenti esterni del concerto. Ciò ha consigliato al
compositore di sovrapporre le immagini presenti nel sonetto anziché metterle in successione come
nell'Allegro iniziale. Viene meno il senso narrativo dell'insieme e ne risulta un'atmosfera interlocutoria, di
tregua: i suoni della natura vagano liberamente come sospesi a mezz'aria, privati anche dell'appoggio
assicurato dal basso continuo, che in questo movimento è assente. Alla staticità del quadro si adatta
bene anche la forma del Largo, che è bipartita: la prima parte modula alla tonalità della dominante (sol
diesis min.), la seconda ritorna alla tonica servendosi di un materiale tematico in gran parte analogo a
quello della prima, o da esso derivato.
Il basso continuo ricompare nell'Allegro finale per rivestire assieme alla viola un preciso ruolo descrittivo.
Il terzo movimento è in forma ritornello come il primo. L'elemento che attira l'attenzione all'ascolto è
l'inserzione di nuovi elementi tematici nei due ritornelli centrali. Viene così introdotto nella composizione
un rilevante fattore di varietà, che Vivaldi bilancia stabilendo alcune relazioni motiviche tra gli elementi
tematici: ad esempio, l'elemento a' risulta dalla trasposizione in modo minore variata di a, e l'elemento h
è costituito dell’aggravamento di e che assicura all'insieme la necessaria coesione formale.

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BACH E HÄNDEL
Dopo l’epoca barocca si ha il fiorire dello stile galante, poi un vario trascolorare nell'epoca detta
preclassica, per assestarsi sul Classicismo viennese e con esso varcare il confine tra Sette e
Ottocento; ripartendo infine nell'Ottocento con il Romanticismo

26.1 STORIA DI UN COMPOSITORE “SEDENTARIO” E DI UN COMPOSITORE “VIAGGIATORE”


I due compositori celano una profonda affinità caratteriale ed artistica: entrambi rivelano la capacità di
fiutare quanto di nuovo ci fosse nell'atmosfera musicale dell'epoca, assorbendolo e integrandolo con il
profondo substrato della tradizione tedesca all'interno del proprio processo creativo.

- JOHANN SEBASTIAN BACH → nacque nel 1685 ad Eisenach da una famiglia di musicisti. Uno dei
suoi primi maestri fu il fratello maggiore Johann Christoph che costituì il tramite tra Bach e la tradizione
organistica tedesca. Compiuti i 15 anni Bach probabilmente ha seguito i suoi antenati in una
sistemazione di provincia, ma grazie a un suo maestro al liceo ottenne la possibilità di studiare per un
periodo a Lüneburg. Lasciata la città fino al 1708 ricopre vari incarichi e approda infine a Weimar dove
viene assunto come musicista di camera e organista di corte. Parallelamente alla composizione delle
numerose cantate che gli venivano richieste, Bach ebbe modo di entrare a contatto diretto con la musica
italiana, dalla quale fu attratto, soprattutto dalle innovazioni di Vivaldi e le trasfuse nelle sue produzione
fondendole con il solido tessuto contrappuntistico ricevuto dalla sua educazione tedesca.
1718 approda alla corte di Köthen dove ricopre il ruolo di Kapellmeister. In questo periodo tralasciò la
musica sacra per dedicarsi soprattutto ad altri due filoni musicali: quello puramente strumentale e quello
della musica didattica. Vennero così alla luce le sue maggiori composizioni strumentali: queste, per
esempio i Six concerts avec plusieurs instruments, sfruttano la tipologia vivaldiana di concerto,
trascendendo però in scelte formali affidate ad organici di volta in volta diversi. Al contrario, le Quattro
Ouvertures per orchestra si riallacciano allo stile francese, essendo vere e proprie suites di danze. Le tre
Sonate e le tre Partite per violino solo possono essere collegate invece alla distinzione corelliana tra
sonata da chiesa (le Sonate) e da camera (le Partite). Un discorso a parte meritano le sue composizioni
per strumento a tastiera, e tra queste il primo volume del Wohltemperierte Clavier, 1722. Costituito da
una serie di 24 preludi di varie tipologie, ciascuno seguito dalla sua propria fuga, che si susseguono
impiantati sulle 24 diverse tonalità. Si tratta, in pratica, della dimostrazione di come uno strumento ben
temperato possa affrontare qualsiasi tonalità.
Nel 1723, ultima svolta professionale, fu assunto a Lipsia come Kantor della chiesa di San Tommaso e
della scuola annessa. Egli doveva curare l’educazione degli allievi e occuparsi del corredo sonoro della
liturgia. Bach cessò quasi del tutto di comporre musica sacra intorno al 1729, limitandosi per lo più, dopo
tale anno, a riadattare per le esigenze liturgiche musiche già composte in precedenza.
A 45 anni avendo accumulato uno stock di musiche sacre sufficiente a vivere di rendita per i suoi compiti
di Kantor si dedica totalmente al versante laico. Nel 1747 egli fu ammesso tra i membri della Società
delle scienze musicali per cui scrive delle opere la cui complessità contrappuntistica innalza la materia
sonora carica di un pathos al rango di una vera “scienza musicale”. I contemporanei non compresero la
portata delle riflessioni bachiane, e lo vedevano solo come un compositore volto al passato.

- GEORG FRIEDRICH HÄNDEL → Händel nacque nel 1685 ad Halle, in Sassonia. Benché il padre
volesse destinarlo agli studi di giurisprudenza ben presto Georg Friedrich si avviò a regolari studi
musicali sotto la guida di Friedrich Wilhelm Zachow. Nel 1703 si trasferì ad Amburgo nord, lavorando
nell'orchestra del teatro dell'opera inizialmente come violinista di ripieno, in seguito come cembalista e
“direttore delle esecuzioni”. ad Amburgo Handel compose una passione in tedesco (la Passione
secondo Giovanni) e, soprattutto, riuscì a far rappresentare la sua prima opera, Almira (1705).

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Nel 1706 Handel partì per l'Italia, probabilmente alla ricerca delle fonti della musica moderna,
soggiornando inizialmente a Firenze (dove fu rappresentata nel 1707 la sua prima opera in italiano,
Rodrigo) e poi a Roma, Napoli, Venezia e di nuovo a Roma. qui nel 1709 fu rappresentata la sua opera
Agrippina. Egli trascorse la maggior parte del suo soggiorno a Roma, di conseguenza si cimentò
prevalentemente sui generi più richiesti nella città papale; la cantata da camera e l’oratorio. Della sua
produzione strumentale di questo periodo non è rimasto nulla ma nelle composizioni successive è
possibile individuare l'influsso della sonata italiana a due e a tre.
Nel 1710 ripartì dall’Italia, dirigendosi ad Hannover presso la cui corte accettò il posto di maestro di
cappella ma presto si trasferì definitivamente in Inghilterra.

cercò di imporre se stesso e l'opera italiana nella vita musicale londinese. Iniziò con il Rinaldo (1711)
presso il Queen's Theatre a Haymarket; l'opera fu un successo sensazionale e segnò per il compositore
un folgorante inizio di carriera a Londra. Parallelamente cercò di introdursi a corte: inizialmente ricevette
commissioni per composizioni celebrative, in seguito divenne maestro delle principesse reali. Nel 1723,
poi, fu nominato 'compositore di musica per la Cappella reale di Sua Maestà e nel 1726 divenne
cittadino britannico. Intanto, nell'inverno 1718-19 fu nominato direttore musicale della Royal Academy of
Music: un'accademia formata dai nobili più in vista, sotto il patrocinio del re, il cui scopo era l'allestimento
di opere italiane al teatro di Haymarket. Qui fece rappresentare alcune sue opere, per esempio Ottone e
Giulio Cesare. Ma alla fine del 1720 gli azionisti dell'accademia decisero di affiancargli un altro
compositore, l'italiano Giovanni Bononcini. La rivalità tra i due fu molto accesa.
l'iniziativa della Royal Academy fallì, perché l'opera italiana non riuscì ad essere accettata in Inghilterra:
la lingua dei libretti era totalmente incomprensibile: i personaggi stessi erano estranei alla storia e alla
cultura inglese: la presenza dei castrati era considerata fastidiosa e immorale; l'italianità stessa
dell'opera, poi, era vista quasi come un sinonimo di cattolicesimo, e non poteva non suscitare successo
tra gli anglicani. Handel non si perse però d’animo: tornò in Italia per scritturare i migliori cantanti e
ricominciò con nuove stagioni operistiche al King's Theatre: sue opere di questo periodo furono, tra le
altre, Poro (1731), Ezio (1732), Orlando (1733). Ma fu un altro tipo di repertorio che gli consentì di
imporsi come il maggior compositore inglese vivente: l’oratorio → qui confluiscono tutte le esperienze da
lui assimilate, non solo l'oratorio romano ma anche lo stile vocale dell’opera italiana, la solennità festosa
dell’anthem inglese, a coesione formale e la presenza del coro della tragédie lyrique francese e la
tradizione contrappundidtica tedesca.
Nonostante questo però fu lo Judas Maccabeus (1746) a rovesciare decisamente le sorti in favore di
Handel. E questo tanto per le sue implicazioni politiche quanto per il nuovo sistema economico adottato
dall'impresario Händel. Egli si basò sulla vendita diretta dei biglietti, non più abbonamenti. Così, dal 1747
l'esecuzione di oratori handeliani divenne un'abitudine regolare di ogni quaresima, offrendo ai londinesi
sia oratori nuovi sia repliche di vecchi oratori.

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IL CONTRIBUTO ITALIANO ALLA STORIA DEL PENSIERO
TRA 600 E 700: ARCANGELO CORELLI, LA SONATA E IL
CONCERTO

LA CREAZIONE DI UN MODELLO
Arcangelo Corelli è stato il violinista e compositore più influente della musica strumentale d’assieme tra
Sei e Settecento. Egli fu uno dei pochi compositori a legare la sua fama solo attorno alla musica
strumentale. È importante analizzare gli aspetti che tengono conto dell’ambiente culturale in cui questo
stile maturò, quello romano: ruolo fondamentale lo gioca lo stesso compositore che lavorò per tutta la
vita alla creazione di un'immagine di sé svincolata dalla semplice professione di virtuoso di violino e
aderente, invece, a quella di compositore e intellettuale. Nonostante la fama straordinaria Corelli ha
lasciato solamente sei raccolte. Questa produzione è il risultato di un’attenta selezione di opere.
Il compositore si impegnò per tutta la vita nella costruzione di un immagine di sé come persona
eccellente, la sua fama doveva essere riconosciuta anche socialmente. Questo si poteva raggiungere
grazie a una pluralità di mezzi: la passione per il collezionismo artistico. Egli investì buona parte dei
propri guadagni nell’allestimento di una quadreria facendo della passione per l'arte un segno eloquente
di distinzione culturale e sociale. Ottoboni ebbe un grande contributo nella fama di Corelli: sponsorizzò la
sua ammissione all'Accademia d'Arcadia nel 1706 e, nel caso dell'op. 6, intervenne nella scelta del
dedicatario della raccolta favorendo, la diffusione delle musiche corelliane in una delle più importanti
corti europee. Egli volle inoltre lasciare ai posteri un’immagine di perfezione stilistica, estetica e umana,
segno di questo il fatto che nel suo testamento delle opere in modo che potessero essere ristampate e si
continuassero a eseguire.
Sul piano più compositivo, l'opus corelliano può essere considerato come il punto di arrivo del lungo
percorso che la musica polistrumentale d'assieme aveva intrapreso nell'ultimo scorcio del
Cinquecento e che giunge a compimento nel secolo successivo. Il Seicento deve considerarsi come un
secolo di profondi cambiamenti nell'ambito della musica strumentale: si consolidano forme svincolate dal
modello vocale e si sedimentano linguaggi, soluzioni compositive e prassi esecutive che contribuiranno
in maniera decisiva alla definitiva affermazione dei due generi cardine della sonata e del concerto.
Corelli va anche considerato come il maggiore artefice dell’affermarsi di una nuova concezione estetica
del brano strumentale.

UNA NUOVA SINTASSI: “AFFETTO” E “SECONDA PRATTICA” NELLA MUSICA STRUMENTALE


SEICENTESCA
Affetto è sicuramente la parola chiave della musica strumentale seicentesca. La parola compare per la
prima volta nel 1618 nel titolo di una silloge esclusivamente strumentale: la raccolta di esordio di Biagio
Marini: “Affetti musicali”. L’espressione allude a un’intenzione estetica che è quella di mettere insieme
l'universo delle passioni umane e l'ambito della prassi esecutiva, di sottolineare la capacità della musica,
attraverso l'uso di dissonanze, cromatismi, ritardi, passaggi virtuosistici, di incidere sull'espressione degli
affetti, di simularli e intensificarli. Il brano musicale riesce comunque a commuovere, sedurre e stupire
l’ascoltatore. Ruolo decisivo lo hanno le nuove concezioni estetiche in campo vocale, per esempio la
nascita della monodia e la seconda prattica, grazie alle quali anche il brano strumentale inizia ad avere
proprie strategie compositive.
Aspetto rilevante dello stile moderno è quello che riguarda la funzione del solista: assume ruolo di primo
piano. Questo porta a favorire un focus tra parti acute e basso continuo e a prediligere un organico
formato da due o tre strumenti e basso continuo. Il violino diventa lo strumento d’elezione della musica
d’assieme. Mutamento ha anche la struttura formale: sezioni diminuiscono e sono organizzate sia sul
piano agogico (lento-veloce) sia sul piano metrico (tempi binari e ternari).

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LA FORMAZIONE BOLOGNESE:
Corelli nacque a Fusignano il 17 febbraio 1653. Approda poi a Bologna dove intraprende lo studio del
violino con Giovanni Benvenuti e Leonardo Brugnoli e nel 1670, fu ammesso all’Accademia filarmonica.
Portò a compimento una maturazione a livello compositivo con il trasferimento da Bologna a Roma.

NELLA CITTÁ PAPALE: “LA PRATTICA DE’ PIÙ VALOROSI PROFESSORI MUSICI DI ROMA”
Il peculiare sistema di patronage che caratterizza la città, quindi non accentrato intorno a un’unica corte,
ma disseminato in numerosi corti satelliti, ha inciso sui sistemi di produzione e fruizione delle musiche.
La prima testimonianza di Corelli a Roma risale al 1675. Fondamentali furono sia gli studi di
contrappunto che svolse sotto l'egida di Matteo Simonelli, sia la possibilità di eseguire musiche accanto
ad alcuni dei più autorevoli compositori romani, soprattutto il liutista e compositore Lelio Colista. Egli
rappresenta un modello verso cui guardare.
Corelli tra il 1679 e il 1680 divenne 'musico da camera' presso la corte di Cristina di Svezia alla quale
dedicò la sua prima raccolta: le Sonate a tre, doi violini e violone o arciliuto, col basso per l'organo
pubblicate nel 1681. La silloge raccoglie dodici sonate a tre.
Nelle sonate dell’op 1 Corelli riuscì a riformulare con un linguaggio inedito le innovazioni stilistiche che la
musica strumentale d’assieme aveva conosciuto fino a quel momento. Già dal 1684 Corelli entra in
contatto con il cardinale Benedetto Pamphili a cui dedica le Sonate da camera a tre op.2 (1685). Al 1689
risale la pubblicazione delle Sonate a tre, op. 3, dedicate a Francesco II di Modena.
L'ascesa al soglio pontificio di Alessandro VIII Ottoboni aprì al compositore nuove possibilità. Già nel
1690 Corelli entrò a servizio del cardinal nipote Pietro Ottoboni, che si circondò dei migliori artisti e
musicisti. Il compositore lavoro presso di lui fino alla morte.
1694 → diede alla stampa la sua ultima raccolta di sonate a tre, l’op. 4, 1700 pubblica la op.5 le sonate a
violino e violone o cimbalo. Corelli morì l’8 gennaio 1713, nel testamento la parte + imp è l’op. 6 i
Concerti Grossi, pubblicati nel 1714.

LA SONATA A TRE: DA CHIESA A CAMERA


A metà seicento la sonata a tre per due violini e basso continuo divenne il principale genere di musica
strumentale d’assieme. Prima di Corelli non godeva della stessa visibilità e importanza che nelle altre
città. Egli invece a essa dedicò le quattro raccolte: l’op 1 è di fatto la prima raccolta dedicata al genere
pubblicata a Roma.
Dal punto di vista stilistico conferisce alla sonata i tratti di equilibrio, eleganza, simmetria e chiarezza che
la contraddistinguono. Un elemento importante riguarda la differenza tra la sonata da chiesa e la sonata
da camera. Le due hanno diversa strumentazione: le sonate da chiesa prevedono nel basso continuo la
presenza dell’organo, mentre quelle da camera il cembalo. Altra differenza fondamentale è sul piano
stilistico: la sonata di chiesa ha uno stile severo che fa leva in particolare sulla scrittura contrappuntistica.
Invece la sonata da camera è costituita da una successione di movimenti basati su ritmi di danza che le
conferiscono un carattere più sobrio, adatto all’intrattenimento privato o di corte.
Nella sonata da chiesa sul piano formale il numero di movimenti viene ridotto a 4; si dispongono
secondo una sequenza lento-veloce: esordio con un movimento lento, segue un movimento veloce in
tempo binario, poi di nuovo un movimento in tempo lento la cui gravità si stempera nel movimento
conclusivo in tempo veloce.
A caratterizzare le sonate da camera si ha invece dei movimenti basati su ritmi di danza. Queste danze
vengono rielaborate secondo criteri diversi, ora sottoponendole a un trattamento fugato o
contrappuntistico, ora rivisitandole attraverso un gioco di omoritmie e imitazioni. A ciò contribuiscono la
scrittura violinistica e, soprattutto, il gioco di intrecci tra i due violini attraverso il quale Corelli, nella
sonate sia da camera sia da chiesa, 'inganna' l'orecchio dell'ascoltatore, facendogliela percepire come
un'unica linea melodica.

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La Ciaccona è la composizione che conclude l’op. 2 → sonata costruita interamente su una sequenza di
basso che viene ripetuta identica nel corso di tutta la composizione. Quello che muta sono le linee
melodiche dei violini, cui sono affidate variazioni attraverso una varietà di composizioni.

LA SCUOLA DEL VIOLINO: LE SONATE OP.5


Le dodici Sonate a violino e violone o cimbalo op.5 sono sonate a due, prevedono quindi una scrittura
per violino e basso continuo in cui quest’ultimo interagisce con lo strumento solista sul piano melodico
tematico e contrappuntistico.
Il distacco dalla tradizione sia romana sia bolognese è evidente: le sonate op.5 sono meno impegnative
sul piano tecnico. Questo favorisce un nuovo stile in cui le due parti si compenetrano grazie alla
centralità dell'elaborazione contrappuntistica.
L’op. 5 è composta da sei sonate in stile da chiesa e sei in stile da camera ed è suggellata da un brano
particolare in conclusione dell’opera → Follia, una sonata costruita su un basso di danza di origine
portoghese, strutturata in ventitré variazioni che abbagliano l’ascoltatore grazie alla forma ipnotica che
deriva dalla continua metamorfosi del tema.
L'op. 5 si impose infatti per tutto il Settecento sia come modello compositivo che didattico.

CORELLI “REGOLATORE” D’ORCHESTRE: LA PRASSI ORCHESTRALE ROMANA


A Roma Corelli poté conoscere e sperimentare le pratiche orchestrali. La prassi di eseguire lavori
orchestrali dividendo l’organico in due parti era già in uso ma al compositore si deve il merito di aver
contribuito a forgiare, diffondere e perfezionare la prassi orchestrale romana. Infatti egli organizzava,
assemblava e dirigeva o meglio regolava organici strumentali assai numerosi per alcune delle più
fastose celebrazioni musicali della città che avvenivano nei salotti privati di ambasciatori e cardinali, nelle
chiese, nei giardini e nelle grandi piazze. occasioni. Dalla fine del 1680 e fino almeno al 1710 quasi tutte
le esecuzioni musicali che a Roma prevedevano l'impiego di grandi organici erano dirette da lui. Tra i
musicisti delle orchestre da lui dirette figuravano non solo strumentisti ad arco, ma anche suonatori di
trombe e strumenti a fiato, egli infatti fu il primo che introdusse un grande numero e varietà di strumenti.

“UNA PIÙ SQUISITA ARMONIA INSTROMENTALE” ASCESA E DECLINO DEL CONCERTO GROSSO
Concerto → alla parola la mentalità seicentesca attribuiva diversi significati: la fusione, l’armonia o, al
contrario, il contrasti di elementi disparati che concorrono insieme a dare forma a un evento sonoro che
si costruisce all’orecchio di chi ascolta come un percorso “affettivo” continuamente variato e
sorprendente. Gli elementi su cui si fonda l’estetica del concerto trovano perfetta realizzazione nei
Concerti grossi op.6 di Corelli. Caratterizzati dalla suddivisione dell’organico in due gruppi: concertino
formato da due violini e un violoncello e concerto grosso formato dall’intera orchestra.
L’op 6 è stata pubblicata postuma nel 1714 e rappresenta il risultato stilisticamente + alto di questa
prassi strumentale. Raccoglie dodici concerti divisi in: i primi otto in stile da chiesa, i quattro rimanenti in
stile da camera. ↓
Tra quelli da chiesa il + importante è sicuramente il n.8 caratterizzato da una Pastorale.
Tutti i concerti sono scritti per sette parti: due violini e violoncello a formare, come già precisato, il con-
certino; due violini, viola e basso a formare il concerto grosso. Gli strumenti del concertino sono
considerati strutturali, mentre quelli del concerto grosso sono opzionali (il numero può aumentare).
La raccolta nel complesso è strutturata secondo un principio di varietà, riscontrabile a diversi livelli:
nell’architettura formale complessiva (il numero dei movimenti oscilla tra 4 e 10), nel modo in cui le
caratteristiche dello stile da chiesa e dello stile da camera si fondono, nelle diverse combinazioni
strumentali e nella diversa articolazione dei due gruppi che va a esaltare a volte il contrasto tra
concertino e concerto grosso, altre volte l’impiego di tutta la massa sonora.

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L’op. 6 si segna come summa di tutta l’esperienza concertistica di Corelli e segna anche la fine del
genere concertistico romano, infatti intorno agli anni 10 del 700 erano altri i modelli a cui si guardava, per
esempio quello vivaldiano.

DOPO CORELLI
Ripercorrere le tappe della musica dopo Corelli significa innanzitutto capire l’impatto che il compositore
ha avuto sul 700 in Italia e all’estero. Le sue musiche, in particolare l’op.5, dopo la sua morte divennero
in tutta Europa l’exemplum ad usum imitationis. Molti quelli che lo omaggiavano con le proprie opere.
Musica di Corelli in Inghilterra → qui divenne l’emblema dello stile strumentale italiano, aumentato dai
molti violinisti italiani che trovarono in terra inglese terreno fertile per la propria affermazione.
L'influenza più significativa fu certamente quella sul genere della sonata per violino, destinato a imporsi
nella prima metà del Settecento su quello della sonata a tre. Proprio dalle sonate dell'op. 5 di Corelli,
infatti, prenderanno le mosse compositori come i già citati Tartini, Veracini e Pietro Antonio Locatelli che
contribuirono in maniera determinante all'affermazione del genere consolidando al tempo stesso il ruolo
della scuola violinistica italiana in tutta Europa.

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MUSICHE NELLA STORIA. DALL’ETÀ DI DANTE ALLA
GRANDE GUERRA
MUSICA E CORTI ITALIANE NELLA PRIMA ETÁ
MODERNA
La corte fu un sistema di potere e di governo caratterizzato da forme, riti e comportamenti intesi come
manifestazione visibile dello Stato, della struttura gerarchica e del suo apparato.
Le arti possono essere studiate in relazione agli impieghi e alle funzioni da esse svolte presso la società
di corte.
La musica nelle corti italiane fra 400 e 500 è un costante complemento dell’etichetta, dei costumi e della
cultura, variando, nel tempo, il ruolo istituzionale ad essa attribuito dalla società.
La musica costituisce qui un elemento insostituibile.

MUSICA COME INTRATTENIMENTO E SVAGO


La corte che include in sé la musica fornisce un’immagine di concreta valenza politica: immagine di
benessere e prosperità. Per questo diversi documenti testimoniano la presenza musicale a corte. Anche
nella letteratura la musica viene usata come cornice di conviti e come sfondo di novelle, specchio di
costumi e modello per la società. Intrattenere un banchetto con la musica era segno di potere e pratica
di cortesia.
Rappresentazioni anche visive: le Nozze di Cana di Paolo Veronese raffigurante l’episodio
trasponendolo in una villa veneta e in primo piano sono presenti alcuni musicisti che allietano il
banchetto.

I PROFESSIONISTI DELLA MUSICA


I compositori più prestigiosi provenivano dal Nord Europa, infatti nel 400 si ebbe in Italia la discesa di
numerosi musicisti fiamminghi, francesi, olandesi e tedeschi: il signore li ricompensa sia con beni
materiali che con rendite stabili derivate da benefici ecclesiastici e intenstandogli proprietà immobiliari o
terriere.
Ad essi era affidato il compito di comporre brani celebrativi per esaltare l’immagine del signore, prassi
che durerà fino all’età barocca diventando una delle froma più tipiche di uso politico della musica ed è
una prassi che segna l’emancipazione della musica da impieghi ludici a raffigurazione della corte stessa.
Numerosi brani del genere:
- Vasilisssa ergo gaude
- Ecclesiae militantis
- C’est bien raison
- Nuper rosarum flores
Tutti di Guillame Dufay ⤴
- O Virgo, miserere mei Johannes Tinctoris
- Bella gerit masaque colit Johannes Tinctoris
- La Missa “Hercules dux Ferrariae” Josquin des Prez

Vengono poi composti numerosi brani celebranti elezioni dei pontefici (Salve regis mater, Gaude felix
Florentia) o brani per eventi politici come il mottetto Jubilate deo omnis terra di Cristòbal Morale per la
pace di Nizza o il madrigale Saggio, Santo, Pastor che al gregge pio di Giovanni Pierluigi da Palestrina
per papa Pio V, in onore della vittoria di Lepanto.

I brani encomiastici si rapportano al destinatario secondo sottili collegamenti fra testo e musica o fra
testo e committente. Nel caso del mottetto Bella gerit musasque colit, di Johannes Tinctoris. Questo è
conosciuto tramite la sua riproduzione su una delle tarsie lignee dello studiolo di Federico di Montefeltro
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nel palazzo ducale di Urbino. Una serie di simbolismi musicali e citazioni tematiche da altri brani ne fa un
condensato di immagini e segni usati per illustrare le glorie militari e i meriti mecenateschi del duca
d’Urbino. Il suo nome è scandito dalle quattro voci simultaneamente al centro del brano e acquista rilievo
rispetto alla mobilità ritmica e all’intrico polifonico delle sezioni vicine.
Invece la messa di Josquin de Prez, Hercules dux Ferrariae, è un omaggio al duca di Ferrara Ercole I
d’Este e un’esaltazione del suo rango attraverso un’opera d’arte di complessa fattura.
Il titolo della composizione segnala una tecnica compositiva particolare: “Hercules dux Ferrariae” è la
frase da cui ricava le note del cantus firmus della messa secondo il procedimento del soggetto cavato
dalle vocali: le sillabe della frase vengono tradotte in suoni per assonanza fonetica con i nomi delle note
musicali e dette note rendono indissolubile e univoca l’identificazione fra dedicatario e opera musicale.

CAPPELLE MUSICALI DI STATO: NAPOLI, FERRARA, MILANO


I principi si impegnano a istituire le cappelle musicali, organismi collettivi e ufficiali deputati a porre il
professionismo musicale al servizio dell’immagine, del ruolo politico e diplomatico del signore. Questo è
il tipo di presenza della musica nelle corti italiane maggiore nella prima età moderna, una presenza forse
anche istituzionale e protocollare, un dovere indipendentemente dal personale coinvolgimento del
signore sul piano del gusto o della competenza. Questo fenomeno recente per l’Italia era in altri paesi
già in voga da circa un secolo. Per esempio alla corte reale di Francia, a quella papale di Avignone o a
quella ducale di Borgogna.
Cappellani e chierici seguivano il loro signore nelle sue missioni diplomatiche a scopo di rappresentanza
ed erano insostituibile complemento del suo seguito e della ritualità delle sue manifestazioni: simbolo del
ruolo e del prestigio del sovrano per investitura divina. Questo generava competizione perché il prestigio
della corte si commisurava anche sull’entità e sulla qualità della sua cappella musicale.
L'istituzione di cappelle musicali nell'Italia del Quattrocento vede in prima fila e in costante competizione
gli Este a Ferrara, gli aragonesi a Napoli, gli Sforza a Milano, corti legate da una fitta rete di relazioni sia
politiche, sia dinastiche. Leonello d'Este si dota di un gruppo di cantori a corredo della propria privata
cappella religiosa già prima del 1444; nel 1445 la cappella estense conta nove cantori e si parla di essa
come di una cappella riccamente dotata more regio con probabile riferimento alla cappella musicale
aragonese. Quest'ultima, contava quindici fra cappellani e cantori nel 1444 che divenivano ventidue nel
1455. A Ferrara il successore di Leonello, Borso, determina una mutazione del gusto favorendo gli
strumentisti piuttosto che i cantori; fra di essi vi è il liutista Pietrobono dal Chitarrino, forse il musicista più
ammirato, esaltato e conteso del medio Quattrocento.
Pietrobono a Ferrara capeggia una cappella di una quindicina di strumentisti e impartisce lezioni a un
giovane liutista, Stefano, affidatogli dal duca di Milano Francesco Sforza.
Il 1471 è anche l'anno in cui Ercole d'Este e Galeazzo Maria Sforza danno vita alle proprie cappelle
istituzionaIi, dotandole fin dall'inizio di numeroso personale e di ricco sostegno finanziario: a Ferrara
sono attivi due cori di quattordici elementi ciascuno, a milano i due cori sono rispettivamente di venti e
tredici elementi, il più piccolo funzionano da “cappella da camera”.

Le corti italiane si impegnarono per costituire delle cappelle musicali di rango poiché, come abbiamo già
detto, esse rappresentavano una manifestazione del potere e del prestigio del signore.
I repertori erano spesso connessi con la persona del sovrano, inoltre diversi musicisti composero per i
loro signori messe sui temi della celebre chanson L’homme armé che simboleggiava via musica il ruolo
nel contempo militare e religioso del sovrano rinascimentale.

Queste cappelle, i loro membri e il loro repertorio hanno dunque un dichiarato assetto istituzionale:
seguono il signore nei suoi spostamenti, solennizzano la liturgia quotidiana, decorano il protocollo di
eventi diplomatici, politici o dinastici, costituiscono un insostituibile complemento dell'apparato della corte
e dello Stato. Meno frequente l'impiego di queste cappelle per il privato diletto del signore; meno

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frequente perché meno connaturato alla cultura di una società che attribuiva alla musica un ruolo e un
valore soprattutto in qualità di ornamento delle proprie manifestazioni pubbliche e istituzionali.

COMMITTENZA “UMANISTICA”: URBINO, MANTOVA, ANCORA FERRARA


Federico di Montefeltro venne fatto duca di Urbino nel 1474. Egli praticava la musica e diede avvio a una
serie di iniziative iconografiche nel proprio palazzo, fra cui la realizzazione di un’allegoria musicale, parte
di un ciclo pittorico oggi perduto; tappa di un percorso che culmina nell’identificazione di Federico col
perfetto musico.

Negli ambienti urbinati, sotto il figlio di Federico, Guidubaldo, Baldassar Castiglione concepisce e stende
Il cortegiano (pubblicato nel 1528), modello di etichetta, di comportamento e di ideali sociali e culturali
per tutto il tardo Rinascimento italiano ed europeo; con riferimento alla corte e ai cortigiani da lui
frequentati, Castiglione delinea e definisce la figura del gentiluomo manierato ed elegante, colto, abile
danzatore e provetto cantore/strumentista.
Ispiratrice e poi lettrice del Cortegiano fu Isabella d'Este (1474-1539), la signora che forse in modo più
emblematico incarnò gli ideali del Castiglione in materia di cortigiania e di presenza della musica nella
formazione delle élites della prima età moderna. Proveniva da Ferrara (era sorella di Alfonso I d'Este) e,
divenuta moglie di Francesco Gonzaga, trapiantò a Mantova le prestigiose tradizioni musicali della corte
d'origine. Isabella si circondò di musicisti di valore e ne indirizzò il lavoro secondo i propri gusti; fu
pioniera nella rinascita della polifonia italiana. Il suo circolo musicale, la sua cappella, non aveva più
funzioni di Stato o di rappresentanza, era una cappella "umanistica" nel senso che rifletteva e realizzava
Ie predilezioni culturali, gli studi e le competenze del committente. Non che a questo tipo di cappella
fossero estranei impieghi di "governo", ma si realizzavano in modo differente dal passato: la cappella, le
sue esibizioni per ospiti illustri, il suo repertorio costituivano l'emblema del rango del committente e
contribuivano a delinearne la pubblica immagine.
Questo comportò che la musica divenisse una prerogativa del signore e del cortigiano del Cinquecento.

La stampa di libri di musica consentiva di esplicitare il ruolo che il committente aveva nella società in cui
viveva ed era un campo di competizione ed emulazione fra signori e semplici gentiluomini. Per esempio i
papi Paolo III nel 1544 e Giulio III nel 1554 ebbero dedicati preziosi libri in folio di messe polifoniche.

MUSICA PER TUTTI: L’EDITORIA MUSICALE


La rivoluzione culturale, sociale e commerciale indotta dall'invenzione della stampa coinvolse anche la
musica e il suo mondo. Il libro di musica ebbe infatti il suo florido mercato, determinò la capillare
diffusione delle pratiche musicali e contribuì all’affermazione di specifici repertori. La storia della stampa
musicale ha inizio nel isoi, quando Ottaviano Petrucci da Fossombrone mise a punto nella sua bottega di
stampatore sita a Venezia uno specifico sistema di stampa per la musica e produsse lo Harmonice
musices odhecaton A, il primo libro di musica stampata, contenente composizioni profane su testi
francesi e latini dei più affermati polifonisti del momento: Josquin Des Prez, Heinrich Isaac, Jacob
Obrecht, Johannes Ockeghem e altri. Petrucci applicò un processo di stampa multipla che prevedeva
l'impressione a orchio sul medesimo foglio, ma in tre fasi successive, del rigo musicale, delle note sul
rigo e del testo sotto le note.

Le stampe petrucciane presentano la medesima organizzazione dello specchio di stampa e a una prima
occhiata l'accuratezza grafica del mano-scritto è perfettamente emulata dalla stampa senza che la
complessità del processo e la tecnologia ancora rudimentale siano tradite da palesi imperfezioni.

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La maggiore economicità della stampa indusse Petrucci e altri ad abbandonare, attorno agli anni Venti,
questo tipo di presentazione del resto musicale sostituendolo con la stampa di "libri-parte", fascicoli
individuali per ciascuna delle parti musicali coinvolte nella composizione polifonica. Ulteriore progresso
fu l’impiego di caratteri mobili in piombo che consente la stampa in un’unica impressione di musica e
testo. Alla qualità indiscutibilmente inferiore sul piano estetico, rispetto al manoscritto e alle prime
stampe, faceva riscontro una maggiore rapidità di realizzazione del manufatto con conseguente ulteriore
abbattimento dei costi di produzione e di smercio.

IL MADRIGALE NELL’ETÀ DEL PETRARCHISMO


Principalmente esistono tre grandi filoni della musica del Cinquecento:
- La polifonia vocale sacra
- La polifonia vocale profana
- La musica strumentale
La polifonia vocale sacra (messe, mottetti, inni) era destinata alle istituzioni ecclesiastiche che si
dotavano di cappelle di cantori e necessitavano di apposito repertorio per le celebrazioni liturgiche; la
polifonia vocale profana (madrigali, canzonette, villanelle) era soprattutto richiesta dalle élites nobiliari,
aristocratiche e cortigiane e, con l'avanzare del secolo, da sempre più ampi strati di popolazione colta e
alfabetizzata per i propri intrattenimenti privati; la musica strumentale (liutistica e tastieristica) era rivolta
al dilettante desideroso di emulare i virtuosi del settore. La polifonia profana rappresenta la porzione più
cospicua del mercato editoriale; ne è l'emblema il madrigale, composizione prevalentemente a
quattro-sei voci (canto, alto, tenore e basso con eventuali raddoppi) su testo profano in lingua italiana
(testi di Petrarca, Sannazzaro, Bembo, Ariosto, Tasso, Guarini, Marino e tanti altri, soprattutto anonimi).

Si può e si deve parlare di "origini letterarie" del madrigale musicale, dal momento che esso nasce
dall'impulso a intonare testi in volgare illustre della tradizione italiana antica o dei suoi recenti imitatori
con tecnica polifonica dotta, analoga a quella con cui i "fiamminghi" musicavano testi sacri, encomiastici
o politici in latino. Si usa indicare come data di nascita del madrigale il 1530, anno di stampa del primo
libro di musica che esibisca sul frontespizio il termine madrigale a indicare la specificità del contenuto:
Madrigali de diversi musici. Libro primo del la serena, Valerio Dorico, Roma 1530. A questa data il
petrarchismo si è già radicato nella cultura letteraria e nelle abitudini sociali italiane e la musica entra
ufficialmente a farne parte.

Il classicismo cinquecentesco indica Petrarca a modello, e imitarlo, riprodurlo, svilupparlo significa


acquisire un'identità artistica, padroneggiare una tradizione illustre nonché partecipare a un rito di
aggregazione culturale e sociale. Musicare Petrarca o versi di poeti petrarchisti è un aspetto in più di
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questo processo di omologazione e un'ulteriore possibilità di manipolazione e metabolizzazione di quel
modello linguistico e grammaticale.

La composizione madrigale non è destinata ad esecutori professionisti che cantano per un consesso di
ascoltatori passivi, ma è pensata per il cosmo «ei cortigiani-musici delineato da Castiglione o per colti e
socialmente assortiti membri di un'accademia, persone che i madrigali se li cantano da sé, a tavolino,
ciascuno col proprio "libro-parte" in mano, entrando da attori nel processo di petrarchistica variazione e
riscrittura via musica del testo intonato.
Il madrigale ha conosciuto sviluppi in ambito stilistico ed estetico e ampliamenti consistenti dell'ambito
geografico di produzione e consumo. Attorno al 1930 esso è monopolizzato da musicisti di origine
francese o fiamminghi. Sono autori che a fine secolo Claudio Monteverdi individuerà come esponenti di
una fase stilisticamente iniziale e primitiva - da lui detta "prima prattica" - caratterizzata da un rapporto
più formale che sostanziale fra testo poetico e musica, quest'ultima intesa come veste sonora
ornamentale piuttosto che interpretazione della poesia. Ad essi seguono generazioni di autori sempre
più attenti a utilizzare le risorse della composizione polifonica per reinterpretare e petrarchisticamente
variare il senso della lirica intonata; capofila - e da Monteverdi indicato come inventore di questa
"seconda prattica" - fu Cipriano De Rore.

Il pieno sviluppo sperimentale ed estetico del madrigale si ha a partire dagli anni Ottanta con musici
come Giaches de Wert e Claudio Monteverdi.

ESEMPI DI MARIGALI
Alcuni esempi di madrigali che seguono il filo rosso del topos della morte.

1. Jacob Arcadelt, Il bianco e dolce cigno a quattro voci, dal Primo libro di madrigali a quattro voci,
Gardano, Venezia 1539.

Arcadelt è uno dei numerosi musicisti di oltremontana che fecero fortuna in Italia. Il bianco e dolce cigno
è anche uno dei brani che nel Cinquecento conobbero vasto successo e ampia circolazione. Il testo si
deve al letterato e religioso Giovanni Guidiccioni:

Il bianco e dolce cigno cantando more, ed io


piangendo giung' al fin del viver mio.
Stran' e diversa sorte, ch'ei more sconsolato
ed io moro beato.
Morte che nel morire m'empie di gioia tutto e di desire;
se nel morir altro dolor non sento,
di mille morti il di sarei contento.

È un madrigale libero. Il testo espone il tema erotico della morte per amore - morte usata come metafora
per il raggiungimento dell’orgasmo - confrontando i diversi destini del cigno e dell'uomo, l'uno morente
sconsolato (è morte vera, la sua) ma can-tando, l'altro invece piangente (di gioia o piacere) e beato. La
metafora
"morte = apice del piacere sessuale" è svelata nel terzetto finale dove tal "morte" suscita piuttosto
desiderio di reiterate repliche.
Il musicista dell'età di Arcadelt affronta il testo poetico con l'intento di rivestirlo di un elegante abito di
note senza intenti di marcatura psicologica o di soggettiva rilettura interpretativa; si tratta di uno stile
polifonico che mira ad esiti di dolcezza sonora e piacevolezza melodica impreziositi dalla raffinatezza
degli intrecci contrappuntistici.

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Il musicista di "prima pratica" esercita la propria libertà inventiva nella scelta dei soggetti, nella strategia
della dispositio di timbri e agogiche, nella sottolineatura di singoli elementi del discorso poetico.
Il musicista ha la possibilità di riformulare la sequenza dei versi per assoggettarla a una fraseologia tutta
musicale che può modificare o enfatizzare il senso originario della lirica. Nel caso del Bianco e dolce
cigno, Arcadelt riformula il terzetto iniziale segmentandolo, tramite cesure cadenzali e differenti assetti
timbrici: tre versi sono ridotti a due, il secondo ripetuto:

Il bianco e dolce cigno cantando more,


ed io piangendo giung' al fin del viver mio,
ed io piangendo giung' al fin del viver mio.

Il primo è intonato a tre voci acute, il secondo è arricchito dall’aggiunta del basso e della ripetizione.
Il musicista crea un percorso sonoro fatto di sequenze accordali assecondanti il disegno melodico della
parte acuta, che mira a rilevare musicalmente le parole «cigno», «more» e «piangendo». «Cigno»
giunge al culmine di una breve salita per intervallo melodico di terza cui segue ulteriore ascesa di quarta
per cadenzare su «more»; «piangendo» viene sottolineato dall'inatteso, commovente collegamento fra
due accordi spazialmente vicini ma armonicamente distanti. Ulteriore distinzione avviene nel prosieguo
dell'intonazione laddove lo «sconsolato» del cigno riceve una musicazione scarna e statica mentre la
beatitudine dell'uomo si anima di un più disarticolato assetto delle quattro voci e di un lungo, canoro
melisma su «beato». Infine le «mille morti» inducono Arcadelt a rendere la numerosità con ricca
disarticolazione della compagine polifonica e molteplici interazioni del v. 10 e in particolare del suo primo
emistichio.
La strategica disposizione di risorse ed effetti musicali sul testo fanno sì che la musica si impadronisca
dei versi e ne proponga una soggettiva lettura sonora che funziona come una petrarchistica ripetizione
variata.

2. Cipriano De Rore, Ancor che col partire a quattro voci dal Primo libro di madrigali a quattro voci di
Perissone Cambio con alcuni di Cipriano Rore, Gardano, Venezia 1547.

Fiammingo anch’egli, Rore fu in Italia dal 1533. Fu musico presso la corte di Ercole II d'Este a Ferrara
dal 1547 al I549. Dal 1560 alla morte servì i Farnese, duchi di Parma. Fu il più apprezzato madrigalista
della sua generazione, da Claudio Monteverdi indicato come l'inventore della "seconda pratica", cioè di
un'invenzione musicale capace non più solo di ornare il testo poetico, bensì di rimarcarne le molteplici
implicazioni espressive, emotive e descrittive.
Ancor che col partire venne per la prima volta pubblicato a completamento di un volume madrigalistico di
un altro autore, Perissone Cambio; successivamente il brano conobbe infinite ristampe, trascrizioni,
imitazioni, parodie e versioni strumentali. Il testo è attribuito al nobile napoletano Alfonso d’Avalos:

Ancor che col partire io mi senta morire,


partir vorrei ogn'or, ogni momento
tant'è 'l piacer ch'io sento de la vita ch'acquisto nel ritorno.
E così mille e mille volt'il giorno partir da voi vorrei,
canto son dolci gli ritorni miei.

Qui la venatura erotica è molto più sfumata, il testo gioca sul fittizio contrasto fra il dolore della partenza
e il piacere del ritorno e dunque su una dimensione più platonica dell'incontro amoroso. L'assenza di
espliciti riferimenti erotici o di acute screziature emotive induce Rore a rilevare musicalmente la
coincidenza fra piacere e dolore, fra partenza e ritorno, mediante un impianto compositivo basato sul
riuso strategico di medesimi soggetti (i "temi" musicali) e a relegare i contrasti all'ambito timbrico. Per i
primi quattro versi Rore fa duettare voci acute e voci gravi, separate dall'intonazione sfalsata dei versi a

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simboleggiare lontananza (partenza) fra amante e amata, che musicalmente si risolve nel piacere
sonoro delle quattro voci riunite nel «ritorno» del v. 5.
Somiglianza nel disegno melodico si riscontra anche fra i soggetti del
v. 2 («morire», batt. 4-6) e del v. s («vita», batt. 14-16) ma soprattutto, dopo l'ineludibile proliferazione di
note e imitazioni per «mille e mille volte», nuova identità tematica viene proposta per il desiderio di
partire (v. 7, batt. 22-23, canto) e la dolcezza del ritorno (v. 8, batt. 25-27, alto, canto, basso con lieve
modifica ritmica), mentre la ripresa al tenore del soggetto dell'incipit, con lieve mutazione ritmica, per
«tanto son dolci» (batt. 26) ribadisce l'univocità del tema poetico (identità emotiva fra partenza e ritorno).
La poesia qui è padrona della musica che non si sviluppa come una neutra veste sonora ma interpreta il
testo in modo originale, ne coglie il senso poetico e ne fornisce un coerente rispecchiamento musicale.

3. Adrian Willaert, Amor, fortuna e la mia mente schiva a quattro voci, da Musica nova, Gardano,
Venezia 1559.

La Musica Nova è una fra le più prestigiose pubblicazioni musicali del Cinquecento. Il madrigale a
quattro voci qui esaminato intona il sonetto RVF CXXV di Petrarca.

Amor, Fortuna, e la mia mente schiva


di quel che vede, e nel passato volta
m'affliggon sì, ch'io porto alcuna volta
invidia a quei che son su l'altra riva.

Amor mi strugge '1 cor; Fortuna il priva


d'ogni conforto; onde la mente stolta
s'adira e piange: e così in pena molta
sempre conven che combattendo viva.

Né spero i dolci di tornino in dietro,


ma pur di male in peggio quel ch'avanza;
e di mio corso ho già passato '1 mezzo.
Lasso!, non di diamante, ma d'un vetro
veggio di man cadermi ogni speranza,
e tutt'i i miei pensier romper nel mezzo.

Il madrigale è in due parti, la prima comprende la fronte del sonetto (le prime due quartine), la seconda
la sirma (le restanti due terzine). Questa divisione comporta in molti casi uno svolgersi del discorso
musicale nella prima parte dall'ambito modale/tonale di partenza verso ciò che modernamente
definiremmo l'ambito della Dominante e un percorso inverso nella seconda parte. La cesura fra prima e
seconda parte è rimarcata da un gesto cadenzale forte e dall'impiego nella stampa originale della doppia
stanghetta di battuta a separare due distinte sezioni del medesimo madrigale; in più la stampa reca di
norma nel testo le indicazioni «Prima parte» e «Seconda parte».
Il sonetto appartiene alle rime invita di Laura, quindi la prima parte del Canzoniere. Nonostante questo
anche qui i temi sono l’amore e il dolore (per un'assenza o per una morte, qui reale e non metaforica).
L'intonazione di Willaert è sintetica. Alla malinconia del testo, alla nobiltà dei concetti e delle parole, alla
sodezza e austerità della forma sonetto, Willaert corrisponde con una tessitura sonora di grande sobrietà
ed eleganza, dotta e ricercata negli intrecci polifonici ma non priva di risvolti canori. Singole parole o
situazioni sono trascurate in favore di un progetto compositivo coeso, uniforme, marmoreo, colto e “alto”,
analogo all’ethos e allo stile del testo poetico intonato.
Si ha qui da un lato un esempio quintessenziale della "prima prattica", dall'altro Willaert esibisce una
raffinata forma di petrarchismo musicale, laddove il "suono", il "numero" e la "variazione" del testo
poetico sono emulati nella strategica disposizione del materiale sonoro, delle linee, intrecci, soggetti e

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incontri verticali e in essi trovano un proprio rispecchiamento musicale. Alla classicità del sonetto e del
suo autore corrisponde la classicità stilistica e autoriale dell' intonazione di Willaert.

4. Cipriano De Rore, Mia benigna fortuna e 'l viver lieto a quattro voci, dal Secondo libro de
madrigali a quattro voci, Gardano, Venezia 1557.

Qui di Petrarca viene scelta una sestina (RVF CCCXXXII), composizione in più stanze di soli
endecasillabi con rime obbligate. Rore sceglie le prime due stanze e ne fa un madrigale in due parti.

Mia benigna fortuna e 'l viver lieto,


i chiari giorni et le tranquille notti
e i soavi sospiri e '1 dolce stile
che solea resonare in versi e 'n rime,
volti subitamente in doglia e 'n pianto,
odiar vita mi fanno, et bramar morte.

Crudel, acerba, inexorabil Morte,


cagion mi dài di mai non esser lieto,
ma di menar tutta mia vita in pianto,
e i giorni oscuri et le dogliose notti.
I mei gravi sospir' non vanno in rime,
e'l mio duro martir vince ogni stile.

L’intonazione di Rore è altamente espressiva e in sintonia con la gravità e la crudezza emotiva del tema
trattato. Questa sestina fra le rime in morte di Laura e l'amarezza e il dolore lancinante dell'autore
emergono chiaramente dal dettato del testo con la brusca virata dal rimpianto del passato verso l'odio
del presente (v. 6: «odiar vita mi fanno») che apre all'invettiva contro la morte della seconda stanza.
Al musicista interessa soprattutto la densità emotiva della seconda stanza; i primi cinque versi della
prima sono intonati senza ripetizioni, con soggetti diversi per ciascuna delle immagini proposte, per
arrivare al v. 6 dove l'improvviso sgorgare dell'odio è reso con l'altrettanto improvviso balzare delle voci
verso l'acuto con intervalli ampi (sesta maggiore il basso e il tenore, ottava l'alto) e soprattutto con la
naturalizzazione del Si e del Mi (batt. 30, 3s e 36; cfr. FIG. 12) che spinge il discorso verso inattese
regioni armoniche, stridenti con l'atmosfera bemollizzata fin lì protratta.
La seconda stanza è ricca di ripetizioni versali e di sottolineature espressive del testo. Dunque la
gravitas petrarchesca non è qui solo spunto per una corrispondente gravitas dello stile musicale come in
Willaert ma sollecita in Rore una marcatura espressiva del testo di formidabile intensità, tramite soluzioni
musicali (melodiche, timbriche, intervallari, armoniche) in grado di potenziare con vibrante voce canora
le parole, immagini ed emozioni del testo petrarchesco.

5. Luca Marenzio, Tirsi morir volea a cinque voci, da Di Luca Marenzio Il primo libro de madrigali a
cinque voci, Gardano, Venezia 1580.

Commissionati soprattutto testi recenti o nuovi, come Tasso, Guarini, Marino, Rinuccini, Chiabrera.
Autore del testo è Giovan Battista Guarini poeta di corte a Ferrara presso Alfonso il d'Este.
Il testo del Tirsi è una madrigalessa (un lungo madrigale polimetro), quasi sperimentale saggio
anticipatore del Pastor fido, e vede coinvolti nell'incontro amoroso un pastore, Tirsi, e la sua ninfa.
L’esplicitazione della narrazione sta qui nella richiesta, rivolta in discorso diretto dalla ninfa al proprio
amante, di «non morire» prima che anch'ella abbia raggiunto l'acme del piacere sessuale:

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Tirsi morir volea
gl'occhi mirando di colei ch'adora
ond'ella, che di lui non men ardea,
gli disse: «Ohimé, ben mio,
de non morir ancora,
che teco bramo di morir anch'io».
Frenò Tirsi il desio
ch'avea di pur sua vita allor finire
E sentia morte e non potea morire;
e mentre fisso il guardo pur tenea
ne' begli occhi divini
e nettare amoroso indi bevea,
la bella ninfa sua, che già vicini
sentia i messi d'Amore,
disse con occhi languidi e tremanti,
«Mori ben mio, ch'io moro»;
le rispose il pastore,
«Ed io mia vita moro».
Così moriro i fortunati amanti
di morte sì soave e sì gradita
che per anco morir tornaro in vita.

Marenzio spezza il resto in tre tronconi dando già con questo una propria lettura "drammatica"
dell'incontro fra Tirsi e la ninfa. La prima parte (vv. 1-6) introduce il desiderio di Tirsi cui segue la richiesta
della ninfa; la seconda (vv. 7-18) descrive lo struggimento del pastore nel frenare le proprie impellenze e
il liberatorio e simultaneo giungere dei due amanti all'apice del piacere; la terza (vv. 19-21) commenta il
caso dei «fortunati amanti» e della loro fittizia "morte". La divisione in tre parti conferisce all'amplesso
una durata e un realismo temporale che il testo verbale da solo non è in grado di esprimere.
La musica, poi, è tutto un gioco di languori canori (le lunghe note dell'incipit), di mezze frasi sospirate
(polifonia ridotta a due-tre sole voci), di contrasti timbrici fra registri gravi e acuti e di improvvisi
abbandoni lirici.
Non meno realistici, nella seconda parte, sono il faticoso trattenersi di Tirsi reso dalla prevalente
accordalità declamatoria della polifonia (la musica si trattiene dal cantare e dall'espandersi in imitazioni
fugate) e la descrizione dell'orgasmo raggiunto, con quelle linee discendenti («Et io mi vita moro») che
spudoratamente simulano l'acme e il successivo placarsi della tensione.
La terza parte commenta l'incontro amoroso in uno stile madrigalisti-camente più florido e
convenzionale: i versi esprimono il desiderio di ricominciare o di voler provare e riprovare dolore e morte
per il piacere vivificante che questo comporta.

8. Jacques de Wert, Giunto a la tomba a cinque voci, da Di Giaches de Wert Il settimo libro de
madrigali a cinque voci, Gardano, Venezia 1581.

Jacques (Giaches) de Wert (1535-1596), originario delle Fiandre, fu in Italia fin da giovanissimo e dal
1s6s fu al servizio dei Gonzaga di Mantova.
Tasso, assieme a Guarini, è il poeta che domina la scena letteraria degli ultimi decenni del Cinquecento
e alla cui produzione largamente attinsero i musicisti coevi e Wert fu tra i più assidui intonatori del Tasso
epico.
Giunto a la tomba del Settimo libro è un'anticipazione di queste insistite scelte tassesche di Wert e
presenta alcune fra le sue cifre stilistiche più tipiche.

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Giunto a la tomba, ove al suo spirto vivo
dolorosa prigion il Ciel prescrisse,
di color, di calor, di moto privo,
già freddo marmo al marmo il volto affisse.
Al fin, sgorgando un lagrimoso rivo,
in un languido: «oimè!» proruppe, e disse:
«O sasso amato tanto, amaro tanto,
che dentr'hai le mie fiamme e fuori il pianto,
non di morte sei tu, ma di vivaci
ceneri albergo, ove è nascosto Amore;
sento dal freddo tuo l'usate faci,
men dolci si, ma non men calde al core.
Deh! prendi i miei sospiri, e questi baci
prendi, ch'io bagno di doglioso umore;
e dalli tu, poi ch'io non posso,
almeno a l'amate reliquie c'hai nel seno».

Le due ottave narrano la visita fatta da Tancredi alla tomba di (lorinda, da lui stesso uccisa in
combattimento, ignaro che sotto le spoglie del suo fiero avversario si celasse la donna da lui tanto
amata: celebre episodio narrato da Tasso nelle ottave 52-68 del medesimo canto XII. Le due ottave
forniscono a Wert materia per due distinti e consecutivi madrigali (prima e seconda parte). Lo stile
musicale adottato dal compositore è prevalentemente declamatorio e accordale: le voci intonano il testo
in omofonica simultaneità, con radi sfasamenti dell'assetto verticale. Così il musicista interpreta il resto
conferendo ai versi e alle parole un'appropriata intensità timbrica e fonica, traducendo la declamazione
parlata in una più espressiva declamazione musicale.
Ha inizio il passaggio dalla pratica musicale diretta all'ascolto passivo dell'esecuzione professionale,
passaggio di epocale rilevanza nella concezione stessa della musica e dei suoi impieghi presso le élites
della prima età moderna.

7. Claudio Monteverdi, Si ch'io vorrei morire a cinque voci, da Il Quarto Libro de Madrigali a cinque
voci di Claudio Monteverde, Amadino, Venezia 1603.

Claudio Monteverdi (1567-1643) rappresenta l'apice artistico della cultura madrigalistica della prima età
moderna e nel contempo l'autore nella cui opera meglio si compendia il passaggio dall'età della polifonia
a quella della monodia accompagnata dal basso continuo. In qualità di madrigalista fu attivo alla corte
dei Gonzaga dal 1590 al 1612, producendo qui i suoi libri di madrigali dal secondo al quinto e parte del
materiale poi confluito nel sesto.
Si ch'io vorrei morire è un ottimo esempio dell'avanzatissimo stile cui Monteverdi portò il madrigale
polifonico, fortemente influenzato dal virtuosismo esecutivo dei professionisti votati all'esibizione
individualistica e magistralmente libero nella gestione della compagine polivoca e nel trattamento del
testo, costantemente teso a rendere con mezzi musicali gli «affetti» sottesi al componimento poetico.
Il testo si deve a Maurizio Moro. L’erotismo ha qui una fisicità palpabile grazie a inequivoche scelte
lessicali (bacio, bocca, lingua, umore, seno...); vagamente metaforico resta il «morire» che di tutta quella
fisicità rappresenta l'acme agognato.

Sí ch'io vorrei morire


ora che bacio, Amore,
la bella bocca del mio amato core.
Ahi, cara e dolce lingua,
datemi tant'umore,
che di dolcezz' in questo sen m'estingua!
Ahi, vita mia, a questo bianco seno,
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deh, stringetemi fin ch'io venga meno!
Ahi bocca, ahi baci, ahi lingua, torn'a dire:
«Sí ch'io vorrei morire».

La musica è un fuoco d'artificio di invenzioni timbriche, ritmiche e di assetto polivoco entro un percorso
caratterizzato da un continuo sali-scendi delle voci dai registri acuti ai gravi e viceversa.
L'inseguirsi delle voci su «Ahi, cara e dolce lingua», grado dopo grado su per l'intervallo di una nona
minore (da La² a Sibз) laddove «Ahi» è sempre in pungente dissonanza di seconda con la voce
precedente, è una sfida al tradizionale processo della composizione contrappuntistica e pare piuttosto
mimare il gioco erotico dell'amante che sollecita l'amata a infliggergli pungenti quanto desiderate
sofferenze.
Il massimo di audacia e libertà nella resa del testo e nel trattamento della compagine polifonica è
raggiunto da Monteverdi con la terza ripetizione del v. 8 affidata nuovamente agli allacciamenti delle due
voci acute sotto le quali egli pone il basso che, con progressione melodica discendente per salti di
quarta, anticipa il testo del v. 9 determinando una stringente associazione fra il « venir meno» e la fisicità
corporea che lo causa.
Nuova enfatica risalita di tutte le voci sul v. 9 porta alla ripetizione esatta dell'incipit del madrigale che
conferisce al brano un senso di compiutezza, ma anche di ciclica circolarità, inedito per il genere. È
evidente che la polifonia stia qui toccando i limiti estremi delle proprie potenzialità strutturali ed
espressive e che l'individualismo dello stile monodico ne affetti già in più parti l'assetto e gli esiti.

8. Carlo Gesualdo, Moro, lasso, al mio duolo a cinque voci, in [Carlo Gesualdo], Madrigali a cinque
voci. Libro sesto, Carlino, Gesualdo 1611.

Carlo Gesualdo (1566-1613) fu un nobile dilettante di musica. La qualità della musica di Gesualdo deriva
innanzitutto da una pratica e uno studio a lungo esercitati in compagnia di musici professionisti (Scipione
Stella, Pomponio Nenna, Luzzasco Luzzaschi), poi dalla possibilità, concessa al nobile di alto rango, di
sfidare regole e convenzioni seguendo il proprio gusto e la propria sensibilità a dispetto dei censori, quali
ad esempio l'Artusi che attaccò Monteverdi, tacitati dall'inattaccabile sua condizione principesca. La
musica di Gesualdo appare pertanto sperimentale e audace soprattutto nell'ambito della ricerca
armonica e rappresenta in un certo senso una naturalizzazione estrema, sia pur di grande suggestione,
della polifonia vocale cinquecentesca. Moro, lasso, al mio duolo, rappresenta bene le particolarità
stilistiche del principe di Venosa. Il testo, di anonimo, è un brevissimo madrigale libero (cinque soli versi)
sul consueto tema dell'amore che può dar sia vita, sia morte.

Moro, lasso, al mio duolo,


E chi mi può dar vita,
Ahi, che m'ancide e non vuol darmi aita!
O dolorosa sorte,
Chi dar vita mi può, ahi, mi dà morte!

La brevità favorisce l'espansione dell'invenzione musicale in termini di ricchezza armonica, ricerca


timbrica, varietà e molteplicità delle disposizioni vocali, riformulazione dell'assetto sintattico del testo. Il
brano di Gesualdo inizia con quattro cupi accordi gravi per «Moro, lasso»; accordi non qualsiasi (Do#
maggiore-La minore-Si maggiore-Sol maggiore), chiaramente studiati su una tastiera e non pensati per
delle voci. Si prosegue con dissonanze non preparate (il Do che confligge col Re su «mio duol») di non
comune asprezza (nella ripetizione dell'incipit la dissonanza è di seconda minore, Fa#-Sol). La vita,
contrapposta alla morte, comporta un contrasto timbrico e agogico che, in Gesualdo, risulta
particolarmente radicalizzato: dai registri gravi agli acuti con l'entrata del Canto, dagli accordi in note
lunghe (semibrevi) alle volatine di semicrome.

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Dalla vivacità del v.2 il brano precipita nuovamente nel dolore lancinante con l'improvviso, solistico Mib
su «Ahi» cui segue nuova audace sequenza accordale (Mi minore-Do maggiore-La maggiore-Do#
maggiore).
Il brano prosegue offrendo una ripetizione in parte intensificata di quanto fin qui proposto per i vv.1-3: la
«dolorosa sorte» del v. 4 è occasione per nuovi cimenti con armonie sorprendenti e dissonanti mentre
sintetica e sbrigativa appare la conclusione del brano.

MUSICA, SPETTACOLO ED EVENTI DINASTICI: GLI INTERMEDI FIORENTINI, IL


COMBATTIMENTO DI TANCREDI E CLORINDA

A partire dal 1475 spettacoli con inserti musicali furono spesso usati per solennizzare eventi di rilevante
significato dinastico. Si parla degli intermedi, essi non erano per forza musicali però essi erano i più
usati e diffusi.
A primeggiare nella produzione di tali forme spettacolari fu la corte ducale dei Medici di Firenze.
A partire dal 1539 essa ospitò frequentemente questo tipo di spettacoli il cui pregio mirava a
simboleggiare il prestigio di una casa solo recentemente assurta a rango signorile e dalle origini non
cavalleresche bensì mercantili.
Nel 1539 si celebrarono le nozze fra Cosimo I de’ Medici ed Eleonora di Toledo in cui si ebbero
spettacoli teatrali con fastosi intermedi allegorici e celebrativi; degli eventi si pubblicarono ampie
descrizioni ma, soprattutto, si vollero pubblicare le musiche composte per l'occasione (Musiche fatte
nelle nozze..., Gardano, Venezia 1539): era la prima volta che musiche per questo genere di spettacoli
venivano date alle stampe integralmente.

La musica degli intermedi rientra nell’ambito della produzione madrigalistica. Il prezzo più
impressionante fu il madrigale O fortunato giorno, parole di Ottavio Rinuccini e musica di Cristofano
Malvezzi: brano per trenta voci raddoppiate divise in sette cori e accompagnato da un assieme
strumentale costituito da due cornetti, quattro tromboni, un violino, quattro viole, una «lira arciviolata»,
quattro liuti, cetra, salterio c mandola.
Accanto a questo sfoggio di polifonia vocale e strumentale gli intermedi fiorentini proposero brani di
diversa natura stilistica, miranti all'esibizione del singolo cantante e anticipatori di soluzioni compositive
che di lì a poco si concretizzeranno nell'opera; ad esempio il madrigale d'apertura del primo intermedio,
Dalle più alte sfere, parole di Giovanni de' Bardi e musica di Antonio Archilei, venne cantato dalla
celebre soprano Vittoria Archilei. Dunque polifonia e monodia sono ormai due facce della stessa
medaglia e ciascuna con le prerogative stilistiche e performative che le sono proprie contribuisce alla
meraviglia e alla seduzione dello spettacolo cortese all'apice
delle sue sfarzose ambizioni.

La mescolanza di stili e le distinte potenzialità della composizione polifonica e della monodia furono
sperimentate da Claudio Monteverdi che, dopo un ventennio dedicato alla composizione madrigalistica
tradizionale sperimentò l’opera e «altri generi di canti» o «opuscoli in genere rappresentativo», non più
precisamente definibili. Fra questi ultimi un posto particolare occupa il Combattimento di Tancredi e
Clorinda, brano emblematico di quella formidabile e conclusiva silloge che furono Madrigali guerrieri, et
amorosi. Libro ottavo (Venezia 1638), nella quale Monteverdi esplora, sul piano retorico, espressivo e
stilistico-musicale, la contrapposizione ma anche il rispecchiamento di amore e guerra, associando i
«canti d'Amor» ai «canti di Marte», verificando come «guerra è lo stato» di chi s'agita per pene d'amore
e Cupido è il «nemico insidioso» o il «tenero arciero», i cui strali non sono meno letali di quelli di Marte.
L’episodio è tratto dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, in cui si fronteggiano due campioni dei
contrapposti eserciti cristiano e musulmano, Tancredi e Clorinda, l'uno innamorato dell'altra ma incapace
di ravvisarla in abiti solda-teschi; lo scontro vede soccombere Clorinda ma Tancredi, riconosciutala una

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volta toltole l'elmo, non è meno sconfitto e disperato nel prender coscienza di aver ucciso la donna
amata.
Il Combattimento appare ancora oggi come un lavoro sperimentale e affascinante, dall'incerta
appartenenza di genere, dall'indubbia efficacia drammatica ed espressiva e dalla sagace autonomia
autoriale con cui Monteverdi predispose il testo da intonarsi. Egli, infatti, attinse sì a Torquato Tasso, ma
effettuò una studiata selezione delle ottave nelle quali è narrato lo scontro fra Clorinda e Tancredi,
collazionando due distinte versioni del poema tassesco, l'editio princeps del 1581 e la profonda revisione
d'autore pubblicata nel 1593 col diverso titolo Gerusalemme conquistata. Il lavoro di selezione e di
interpolazione fra le due versioni mirò ad allestirne una intermedia, più efficace e diretta nel fornire al
musicista materia verbale per esplicitare «le due passioni contrarie da mettere in canto, guerra cioè,
preghiera e morte».

Un esempio illustrerà la sagacia della collazione e della riscrittura → Poco dopo l'inizio del
combattimento, Tasso pone un'ottava di notevole intensità espressiva nella quale riflette sul paradossale
scontrarsi dei formidabili guerrieri nel buio della notte e all'insaputa di tutti: «Notte, che nel profondo,
oscuro seno / chiudesti, e nell'oblio, fatto sì grande». È l’unico passaggio per il quale Monteverdi
concede all'esecutore di abbandonarsi alla seduzione canora di abbellimenti improvvisati.
Il testo che Monteverdi mette in musica:

Notte, che nel profondo oscuro seno


chiudesti e nell'oblio fatto sì grande,
degno d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian sì memorande
piacciati ch'indi il tragga en bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama lor, e tra lor gloria
splenda dal fosco tuo l'alta memoria.

La sequenza dei versi è quella offerta dalla Conquistata ma i vv 3-4 sono nella versione della Liberata.

Il Combattimento richiede la partecipazione di un soprano, due tenori e quattro strumenti ad arco. Agli
esecutori impersonanti Clorinda e Tan-credi è richiesta principalmente una rappresentazione mimica di
ciò che il narratore espone con occasionali interventi di canto nei momenti in cui il testo propone il
discorso diretto; al narratore è imposta una pronunzia chiara, ritmicamente precisa e uno stile
trascolorante dal recitativo sillabico alla pienezza lirica e alla imitazione fonico-ritmica del combattimento
mediante semicrome sgranate sulla stessa nota a enunciare concitatamente il testo.
Agli strumenti è affidato il compito di descrivere musicalmente eventi e situazioni con interventi di
valenza soprattutto ritmica e timbrica, fino ad esiti di tipo rumoristico quali lo sperimentale e innovativo
impiego del pizzicato a descrivere il trascendere del combattimento a brutale corpo a corpo. La
scansione del testo e del ritmo in semicrome è un esempio dello «stile concitato» realizzato da
Monteverdi; altrove esso si manifesta, negli strumenti, con rapide scale ascendenti e discendenti, con
ritmi puntati, con squilli di fremente concitazione bellica.
La commossa invocazione di perdono e il battesimo di Clorinda sono sostenute dagli archi a cui è
richiesta una lunga «arcata sola», morbido suono tenuto caratterizzante il languore del momento. Ancor
più intensamente lirica è la conclusione in cui Monteverdi, dà teatralmente voce e suono alle ultime
parole di Clorinda («S'apre il ciel: io vado in pace») che Tasso aveva solo immaginato dicesse («dir
parea»).

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MUSICA E SOCIETÁ. DAL 1640 AL 1830
BACH E IL MONDO TEDESCO
Discendente da una famiglia che da almeno tre generazioni si dedicava in modo professionale alla
musica - Joanne Sebastian nacque nel 1685 ad Eisenach.
Ad Eisenach le principali istituzioni musicali erano la Cappella di Corte, gli Stadpfeifer e la Georgskirche
(chiesa di san giorgio) con la relativa scuola Latina che forniva voci bianche al coro.
La sua educazione avverrà innanzitutto in famiglia e poi alla scuola tedesca e a quella latina di
Eisenach.
Inizia col padre, la sua formazione musicale - Violino
Bach era poi dedicato anche alle tastiere: praticando l'organo e venendo in diretto contatto con i grandi
complessi strumenti di cui erano dotate le chiese.

Nel 1703 entrerà al servizio di Johann Ernst III di Sachsen Weimar. Restò poco a Weimar, poiché
nominato organista nella Chiesa nuova, nella vicina Arnstadt. I suoi compiti erano:
- Introdurre e concludere il servizio liturgico.
- Anticipare, con preludi e accompagnare gli inni intonati dai fedeli.
- Collaborare col coro nelle sezioni Polifoniche più elaborate.
- Eseguire qualche brano durante la comunione
Il periodo trascorso ad Arnstadt (1703 - 07) segna l'inizio della produzione organistica di Bach. I rettori
della Chiesa gli rimproveravano però l'eccessiva elaborazione dei suoi preludi ai corali, questo spinse
Bach a cercare altrove una posizione più soddisfacente - si trasferirà a Muhlhausen (1707 - 1708).
Il suo incarico la sarà ancora quello di organista, ma comprendeva la responsabilità dei musicisti
municipali e delle loro esibizioni, così come dei complessi musicali - Coro e gruppo strumentale della
Scuola Latina cittadina.

1708 - Cantata per l'insediamento annuale del Consiglio cittadino.


La composizione Dio è mio sovrano fece un'impressione quanto mai favorevole, procurando a Bach una
grande rinomanza.
A questo periodo risale il matrimonio con Maria Barbara Bach- 1707 la sua lontana cugina.
Da questo matrimonio avranno 7 figli, Tra loro, i più importanti Wilhelm Friedmann (1710) e Carl
Philip Emanuel (1714).
Nel 1708 tornerà a Weimar al servizio del duca Wilhelm Ernst - per lui sarà organista di Corte e
musicista di Camera. La sua Cappella musicale era formata da una dozzina di elementi. All'occorrenza
integrata da ausiliari.
Gli anni di Weimar (1708 - 17) videro Bach proseguire la produzione per organo avviata nei servizi
precedenti.
La si può ripartire in:
1. Elaborazioni pensate come Preludi agli inni corali. O composizioni che richiamavano
melodie già conosciute, le inserivano in strutture più ampie (Fantasie, partite, sonate a tre
voci).
2. Brani di libera invenzione - Non collegati a nessun materiale preesistente.

In questo periodo Bach progettava una raccolta di corali dalla dimensione contenute. - Creerà il piccolo
libro d'organo, progetto che però non sarà completo.
Un differente trattamento avrà Gloria in Excelsis Deo.
Bach, in Kantionalsaz, pone la melodia alla voce superiore, armonizzandolo con soluzioni peregrine e
intercalando passaggi somiglianti a pseudo improvvisazioni che ne segnalano le articolazioni.
Altrove ne colse lo spunto per una fughetta a tre voci o ancora incorporò a intermittenza i suoi membri
melodici entro il moto perpetuo di un bicinium fugato.

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I generi di totale invenzione abbinano estesi preamboli (preludi toccate, fantasie), condotti senza
strategie che l'ascoltatore possa prevedere e architetture fondate sul rigoroso contrappunto imitativo
(fughe).
- Esempio: La toccata BWV 564 che si apre con cadenze alle tastiere e dopo alla pedaliera per
imboccare la strada di una sorta di "allegro di concerto".
Il preludio BWV 541. Esordisce stabilendo la tonalità di impianto - sol maggiore. Con arpeggi spezzati
che creano un moto perpetuo di figurazioni quasi violinistiche. Il raffigurare di passi arpeggiati più brevi.
Segnala la virata e approdo a livello della dominante - re maggiore.

A Weimar è molto probabile che Bach abbia svolto mansioni di cembalista da Camera.- risalgono a
quest'epoca, trascrizione alla tastiera di concerti italiani - Le cosiddette suites inglesi.

1713- 14 Bach si presenta a Liebfrauenkirche (Santa Maria) per concorrere al posto di organista. Lo
ottenne, ma restò a Weimar perché gli vennero proposte condizioni di lavoro più favorevoli:
- Aumento di stipendio
- L’incarico di maestro dei concerti (Conzermaiser)
Ora Bach doveva dirigere da primo violino l'orchestra Ducale e una volta al mese produrre i brani vocali-
strumentali (mottetti e cantate) - Erano la musica principale del servizio liturgico, eseguiti dopo la lettura
del Vangelo, a mo di sua artistica parafrasi. Spesso mottetti e cantate, venivano introdotti da un preludio
all'organo nella medesima tonalità, per facilitare l'accordatura degli strumenti.
A partire dal 1717, Bach fu un compositore a tutto campo.

Le cantate turche erano riflessioni, parafrasi di temi biblici riformulati nel gusto moderno e resi più
“affettuosi” per avvicinarsi allo spirito, devozione mistico del pubblico.
Nei cicli pubblicati dal 1711 al 1714 vennero inseriti anche testi biblici e kirchenlieder incrociando gusto
italiano e tradizione evangelica.

La fama di Bach è attestata anche dai suoi impegni professionali al di fuori di Weimar. Le scarse
prospettive lavorative in quella città indussero Bach a trasferirsi a Cothen presso il principe Leopold di
Anhalt-Cothen.
Il principe si era dotato di recente di una Cappella musicale però essendo egli calvinista, il complesso
era poco impegnato in un ambito sacro.
In questi anni Bach (1717- 1722) fu quindi indotto a privilegiare la produzione strumentale profana,
specie per tastiera ed orchestra. Per orchestra creò i cosiddetti brandeburghesi- concerti a più strumenti.
Essi non costituiscono una collana di composizioni omogenee. Gli organici mutano da un concerto
all'altro e assai vario, risulta allo spettro strutturale e stilistico, nemmeno il numero di movimenti è
uniforme. Così facendo viene prodotta un'architettura di gusto misto Italo- francese. Un ibrido tra
concerto e suit.
Le soluzioni compositive scandiscono la raccolta in due terne parallele:
- il concerto ripieno con strumenti obbligati (Assoli concertati. N. 1 e 4)
- il concerto grosso (n.tt e 5)
- il concerto polifonico (n. 3 e 6)

Allegro I del n. 1 Agisce il modello vivaldiano del ritornello- cornice d'esordio.


Allegro Il Emerge il violino piccolo - Delineando il profilo di un concerto solistico.

Non sono identici neppure i concertini dei concerti grossi N.2 e 5. Né per dimensioni (3 e 4 voci), né per
organici.

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In quest'ultimo colpisce la scrittura per esteso della mano destra del clavicembalo- il primo caso di
emancipazione solistica di una tastiera in un contesto orchestrale, che fino ad allora era stato votato a
mozione di fondamento.
Quel gusto francese ritmicamente frizzante che costituiva il polo della musica europea dell'epoca, si
dispiega anche in pezzi più raccolti, come le Sei Suites Sans prelude per clavicembalo e nelle 6 Suites
per violoncello solo.
Si può notare la singolarità dello strumento, il violoncello, all'epoca considerato solo melodico,
scarsamente polifonico, specializzato nel basso continuo - La sua valorizzazione avviene all'interno dei
generi italiani della Sonata e del concerto.
Egualmente va ricordata la produzione francese tardo seicentesca per la viola da gamba.

Bach riesce a creare ambienti armonici sfruttando i diversi registri, corde doppie e gli arpeggi. Qualcosa
di simile lo fa in 6 Solo per violino senza basso.
Bach nella sua raccolta alterna sonate (da chiesa) e partite (da camera).

Nelle sonate: effetto di polifonia ottenuto grazie all'utilizzo di note doppie e alla creazione di diversi livelli
di registro all'interno della tessitura dello strumento.

Fece parte della piccola corte del principe Leopold di Anhalt- Cothen dal 1718 al 1722.
172O - muore sua moglie
Alcuni mesi dopo fece un'audizione per il posto di organista alla chiesa di San Giacomo (Jakobskirche).
Non riuscì ad allontanarsi da Cothen.

1721 sposò una cantante, gli darà 12 figli. In questi anni avrà interessi didattici, creerà per il figlio delle
raccolte di musica di tastiera.
Nel 1722 conclude una serie di 24 composizioni, chiamate Das wohltemperierte.
Per analoghi scopi scrive anche:
- Aufrichtige Anleitung - per tastiera
- 15 invenzioni a due voci - 1523
- 15 sinfonie: 1523
Considerati come brani per esercitarsi.

1722 - Bach presenta la sua candidatura per il ruolo di cantor a Lipsia. L'audizione si tenne con
successo ed il principe gli permise il congedo (nonostante ciò, Bach svolgerà sporadici servizi alla sua
corte fino al 1729).

Bach riceveva il titolo di cantor et director musices: maestro di musica alla Thomasschule e responsabile
musicale delle 2 maggiori chiese cittadine in cui prestava servizio il coro degli allievi della scuola. Lipsia
aveva un’intensa vita musicale, aveva attivi ben due collegi musicali: uno legato alla pratica amatoriale,
l’altro a quella professionale. A Lipsia, dove rimase fino alla morte, insegnava canto agli allievi delle
classi superiori. Gli allievi della Thomasschule formavano infatti quattro cori, due dei quali venivano
impiegati nelle chiese più importanti. Bach svolgeva anche la mansione di cantor e provvedeva alle
liturgie necessarie.
In questi anni ebbe molteplici occasioni di prestazioni libero-professionali: ebbe rapporti con associazioni
e piccole imprese, lezioni private, affitto e vendita di strumenti, commerci di musica e di libri.

Bach dovette iniziare una rinnovata produzione per organo, in qualche caso rimise mano ai suoi brani
degli anni precedenti e provvide a fornire nuovi generi liberi - Preludi o fantasie con fughe, sonate.
Stessa cosa fece per le elaborazioni di kirchenlieder.
Nacquero una serie di corali, introdotti da un preludio in mi bemolle maggiore e concluso da una fuga
nella medesima tonalità - come quelli raggruppati nella parte III della Clavier-Ubung.
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L'impegno maggiore fu quello nella fornitura di cantate per le domeniche e le festività - nel corso
dell'anno si raggiungeva la sessantina di appuntamenti. La prima annata consta di due cantate per ogni
festa. Da eseguirsi dopo il Vangelo e alla comunione - fu un lavoro enorme per Bach, che si ritrovò a
ricorrere ai lavori degli anni precedenti riadattandoli. Gli elementi fissi sono il grande coro di apertura su
di un passo biblico e un corale di chiusura. Al centro, 4 o 5 numeri: Recitativi e arie, ma anche duetti o
ariosi o eccezionalmente corali.
Con la seconda annata Bach avviò un progetto ambizioso e unitario di cantate che avrebbero avuto i
corali tradizionali come struttura portante.
I numeri intermedi si avvalsero di parafrasi delle strofe centrali dell'inno. I versi venivano rimodellati per
permettere la recitazione arie duetti di invenzione - Per questo impegno letterario e teologico Bach
dovette avvalersi di un poeta in loco.

Nell'anno liturgico spiccava la Settimana Santa e dal punto di vista musicale essa aveva un culmine
nella lettura musicale della passione (Racconto evangelico di patimenti e morte di Cristo). Veniva
eseguita dopo il mattutino o ai vespri del Venerdì Santo. Nel 1717 per la prima volta venne presentato un
più moderno oratorio sul soggetto della passione. Su questo modello Bach scrisse le passioni negli anni
successivi - Solo due ci sono giunte, cioè quelle sui Vangeli di Giovanni e di Matteo.

Il Vangelo di Matteo è il più complesso, a cominciare dall'organico impiegato: Coro e orchestra figurano
sdoppiati il che richiede potenziamenti e duplicazioni.
Bach utilizza i due organici separatamente oppure insieme per complessi dialoghi.
Per la parte letteraria provvide Cristian Friedrichs Henrici detto Picander il quale aveva già collaborato
con Bach per i testi di alcune cantate.
Nella costruzione del testo letterario si alternano impostazione narrativa con interventi in discorso diretto
e riflessioni esterne della vicenda - generalmente affidate ai fedeli (corali) o a voci individuali (recitativi o
arie).
Il punto di vista cambia in continuazione:
- Racconti
- Discorso in prima persona
- meditazione
Cambia persino la prospettiva temporale:
- Rievocazione storica dei fatti
- Attualità spirituale dei fatti
- Eternità della prospettiva teologica

I passi evangelici possono essere intonati in recitativo, semplice polifonia e corali o eccezionalmente in
recitativo accompagnato.
La composizione prende avvio esortando a contemplare l'agnello (Cristo) che rimanda a una pagina
visionaria dell'Apocalisse di San Giovanni. Sulle fitte stratificazioni vocali- strumentali, irrompe la luce
melodica del corale, a ricordare come la vittima sia anche il redentore.
Complesse anche le architetture della pagina che chiude la parte 1, fu un corale figurato e polifonizzato,
inserito in un tessuto di voci e strumenti.
Tra due contrafforti si svolge la Parte I che ripercorre l'ultima cena e la cattura di Cristo, mentre la Parte
Il rievoca il processo, la crocifissione e la sepoltura. L'apice è raggiunto nel recitativo, accompagnato con
armonie in costante evoluzione e tensioni melodiche incessanti. I conflitti interni non si placano neppure
nella battuta conclusiva, in cui la tonica in La bemolle maggiore approda il solo Basso Continuo.
Voce e strumenti insistono sull'armonia dominante. Il congedo è un compianto corale sulla tomba di
Cristo.

1729 - Bach ottiene il titolo kapellmeister del Duca Cristian di Sachsen-Weibenfels.


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Bach eseguirà proprie composizioni per tastiera - come quelle eseguite nelle parti I, Il e IV dell'esercizio
per tastiera scritto precedentemente da lui.
Contribuì a quei programmi con musiche orchestrali: Suites per orchestra e concerti - Protagonisti da
uno a quattro, clavicembali.
Bach riscritte per tastiera suoi precedenti concerti, esplorando le potenzialità del clavicembalo.
1736 - la situazione alla Thomasschule inizia a peggiorare a causa degli scontri col nuovo rettore. Nel
frattempo Bach aveva ottenuto la possibilità di utilizzare il titolo di compositore della Cappella di Corte di
Augusto, terzo elettore di Sassonia e reti Bologna - Protezione che lo metteva al riparo dalle beghe
amministrative lipsiensi.

Dal 1739-40 in poi sono anni in cui si impegna nel suo interesse pratico e speculativo per il
contrappunto. Produce una nuova esplorazione alla tastiera dello spazio sonoro: creazione di una nuova
serie di 24 coppie di preludi e fughe - ripercorrevano il medesimo schema generale con proprie
caratteristiche e lievi variazioni.
Fughe a 3 o 4 voci.
Spettro ritmico complesso e variegato:
- N. 11. Si pone un andamento quasi da giga, modulare e uniforme.
- N. 10 Nuance dalle frequenti ondulazioni metriche.
- N. 6 e la 18 presentano delle fughe cromatiche
- N. 3, 7 e 9 presentano evocazioni antiquarie
- N. 22 e 18. Strutture dal respiro ampio in cui a un certo punto entra in gioco un secondo
soggetto.
Il processo di dilatazione tocca anche preludi.
Parecchi molto estesi quando non apparentemente ripartiti e con ciascuna sezione ritornello data o
perfino scanditi in preludio e fughetta.

Variazioni Goldberg - 1741.


Ciclo per tastiera.
Un’aria viene sottoposta a un processo di 30 variazioni che ne mantengono tonalità e dimensioni, via via
riplasmando ota nei ritmi e nella condotta melodica ed elaborandola contrappunti staticamente. L'aria
viene trattata in canoni a tre voci. Progressivamente all'unisono alla nona, fino a un Quodlibet, In cui due
motivetti popolari vengono intrecciati al basso dell'aria combinando dottrina e musica leggera.
La composizione si congeda riponendo l'aria originale nella sua integrità.

Bach fece dei viaggi a Berlino nel 1741 e nel 1747. Quest'ultimo, fruttuò un traguardo compositivo. Egli
mise per iscritto le sue invenzioni berlinesi, così facendo nacque il Musikalisches Opfer (Omaggio
musicale), in cui compaiono due fughe a 3 e 6 voci - Ricercar. (Regis lussu Cantio Et Reliquia Canonica
Arte Resoluta - Composizione fatta per ordine, Regio ed altre cose derivate con la tecnica dal canone).
Accanto a loro una Sonata a 3 in 4 movimenti - per violino, flauto e basso continuo.
9 canoni di vario tipo e una fuga a tre per flauto/ violino e cembalo.

1747- nello stesso anno un ex allievo di Bach a Lipsia lo volle nella società per corrispondenza delle
scienze musicali da lui fondata nel 1738: un modo per radunare virtualmente un'eletta schiera di
musicisti teorici e pratici, ma tutti i consolidi interessi filosofici e matematici. Il compito di ciascuno di loro
era spedire comunicazione scientifiche, per Bach furono rimpiazzate a composizione di alto impegno
intellettuale.
1748-49 dotò di un credo, il kyre e gloria scritti nel 1733, su cui innestò un suo sanctus e benedictus e
un agnus dei.
Venne così a formare la Missa in Si minore. Complessa architettura polifonica negli stili, moderno, antico
e misto, fondata sulla scrittura corale, sulla tecnica della fuga.
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Impresa speculativa fu il Die kunst der Fuge.
Un vero e proprio trattato, pratico e sistematico di contrappunto fugato.

Già nel 1749 Bach era malato con problemi di vista. Una volta ripresosi, si sottopose a due operazioni
agli occhi che lo lasciarono cieco nel 1750. A luglio fu colpito da un ictus. La sua malattia gli impedì di
portare alla fine i suoi ultimi progetti. Quando si trattò di dare alle stampe l'ultimo progetto di suo Padre,
Carlo e Philipp e Manuel Bach, penso di suggellarlo col corale a quattro, su cui suo padre aveva lavorato
fino all'ultimo, dettando ciò che non poteva più scrivere di suo pugno. Mentre la voce superiore esegue
intermittenza, i membri del corale, le tre voci sottostanti intrecciano contrappunti per motto, retto e
contrario.

La morte sopravvenne a fine luglio 1750.

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