venerdì 11 aprile 2025

Baumgartner / Paul Auster

Baumgartner / Paul Auster; trad. di Cristiana Mennella. Torino: Einaudi, 2023.

Baumgartner è il primo romanzo di Paul Auster che leggo e l'occasione di farlo me la regala un'amica per il mio compleanno.

Un altro amico, appassionato di Auster, mi dice che a lui non è molto piaciuto ma che in fondo è un ottimo libro per conoscere lo scrittore americano perché in Baumgartner c'è proprio Auster che fa Auster. Io ovviamente non so bene cosa significhi ma mi immergo senza riserve nella lettura.

Posso dire che Baumgartner mi fa subito l'effetto di un libro della senilità, il che per me non è un difetto, visto che in questi ultimi anni sto riflettendo molto e per vari motivi sul non essere più giovani.

Il protagonista è un professore di una certa età che vive da solo dopo la morte della amatissima moglie Anna, una donna avventurosa e piena di vita che è stata travolta da un'onda alcuni anni prima.

A seguito di questo evento che ha tolto a Baumgartner per parecchio tempo la spinta vitale, il romanzo ci racconta da un lato l'elaborazione del lutto, dall'altro il suo ritorno alla vita e le riflessioni che l'accompagnano, anche attraverso lunghi flashback sul passato, stimolati - tra le altre cose - dalla lettura dei diari e degli scritti di Anna.

Quella di Baumgartner è una riflessione laica sull'esistenza, che non prevede seconde possibilità o vite future, ma che crede invece in una forma spirituale di connessione con chi si è amato e non c'è più attraverso il ricordo, che è l'unica cosa che tiene ancora in vita prima che anche la memoria di noi scompaia.

Baumgartner è stato definito un testamento spirituale dello scrittore (morto nel 2024), ma - come altri hanno fatto notare - nonostante la tristezza che inevitabilmente accompagna i pensieri della parte finale della vita, questo libro è anche pieno di una sottile ironia e di una forza vitale che conferisce senso all'esistenza per tutto il tempo che ci è dato di vivere.

La scrittura di Auster mi riporta inevitabilmente ad alcuni stilemi e forme tipiche del romanzo americano (a me ha fatto tornare alla mente alcune cose di Franzen), e questo stile narrativo non risuona perfettamente con il mio modo di sentire. Nel senso che, pur ritrovandomi in diversi passaggi ed essendone catturata, so già che il libro non si imprimerà - o almeno non consciamente - nella mia memoria emotiva e nel giro di poco tempo ne avrò un ricordo alquanto sfocato.

Voto: 3/5

mercoledì 9 aprile 2025

L’inferiorità mentale della donna / con Veronica Pivetti. Teatro Quirino, 8 marzo 2025

Quale spettacolo migliore da andare a vedere nella giornata internazionale della donna che L'inferiorità mentale della donna, portato in scena da Veronica Pivetti?

Lo spettacolo, per la regia di Gra & Mramor, è liberamente ispirato all'omonimo trattato di Paul Julius Moebius scritto nel 1900. A partire da questo testo Giovanna Gra propone un percorso attraverso il pensiero reazionario applicato al rapporto uomo/donna.

La narratrice e madrina di questo percorso è una Veronica Pivetti in versione steampunk primo novecentesca, affiancata da Anselmo Luisi, straordinaria spalla non solo sul piano musicale, ma anche su quello interpretativo.

L'analisi del testo di Moebius si alterna all'esecuzione, da parte della stessa Pivetti, di una serie di canzoni della scena internazionale e soprattutto italiana che hanno proprio la donna e il rapporto con l'uomo al centro del testo.

L'approccio è ironico: la narratrice, nell'aderire a questi testi, ne fa emergere la "naturale" assurdità per poi svelare e dichiarare la propria posizione nell'ultima parte dello spettacolo quando la Pivetti dismette gli abiti primo-novecenteschi.

Oltre al fatto che non ho trovato lo spettacolo né particolarmente originale né appassionante, mi sono chiesta per la sua intera durata a chi si rivolgesse, perché per chi queste cose le sa e già ne è convinto lo spettacolo non sposta una virgola, mentre temo che chi non la pensa così possa esserne solo indispettito.

In generale non amo molto queste scelte didascaliche che mi sembra servano solo a rassicurarci e a toglierci di dosso il peso della complessità e delle sfumature.

Del resto uno spettacolo simile si potrebbe scrivere anche per molte altre forme di razzismo, diverse da quello di genere; per fare qualche esempio i neri rispetto ai bianchi, ma anche altre categorie etniche, culturali, sociali o di altro tipo che nei secoli hanno subito varie forme di persecuzione e la cui inferiorità spesso la scienza ha contribuito ad accertare e dichiarare con metodi ovviamente discutibili.

Non voglio fare del facile benaltrismo, ma quello che voglio dire è che non sono sicura che questo tipo di cose aiutino la causa femminile e femminista, o almeno non sono sicura che spostino davvero qualcosa nell’opinione pubblica. O forse mi sbaglio, e alla fine tutto serve, non solo le vere guerre politiche sul fronte dei diritti.

Sta di fatto che a me lo spettacolo ha detto poco, e ne sono uscita alquanto delusa, sebbene devo dire che molte persone sedute intorno a me sembravano entusiaste (stessa situazione in cui mi sono trovata al termine della visione di C’è ancora domani).

Voto: 2,5/5

lunedì 7 aprile 2025

Mickey 17

Di Bong Joon-ho finora ho seguito soprattutto la produzione più strettamente coreana, da Mother a Memorie di un assassino fino all’acclamatissimo Parasite, che anche io ho amato molto.

Tramite questi film ho imparato a comprendere lo stile del regista sudcoreano e le sue peculiarità, e - nonostante alcuni aspetti che la distanza culturale mi rende non pienamente intellegibili - ho imparato ad apprezzarne poetica e narrazione.

Non ho visto invece Snowpiercer, film fantascientifico e post-apocalittico ispirato a un graphic novel francese, che, pur riprendendo alcuni elementi chiave della poetica di Bong Joon-ho, come ad esempio la lotta tra ricchi e poveri, era certamente molto più vicino a un immaginario e una narrazione occidentali, e prevalentemente occidentale era anche il cast.

Credo dunque che questo ultimo film, Mickey 17 (a sua volta una sceneggiatura non originale, tratta dal romanzo Mickey7 di Edward Ashton del 2022, e che - come mi fa notare mio nipote P. - ricorda molto il film del 2009 Moon con Sam Rockwell) si inserisca in una ideale linea di continuità proprio con quel film del 2013 (con cui condivide la produzione statunitense, che in questo caso sostituisce e non si affianca a quella sudcoreana).

Anche qui ci muoviamo nel territorio della fantascienza e in un ambito narrativo distopico.

Siamo in un futuro non proprio lontanissimo in cui la terra è diventata in parte invivibile e un ricchissimo politico che è rimasto escluso alle ultime elezioni, Kenneth Marshall (Mark Ruffalo), insieme alla moglie Ylfa (Toni Collette), guida una missione spaziale diretta verso un pianeta che vuole popolare di esseri umani.

Essendo debitore – insieme all’amico Timo - di un boss che gli ha giurato vendetta, Mickey Barnes (Robert Pattinson) si iscrive a questa missione come expendable (sacrificabile). In pratica, Mickey sarà utilizzato come cavia tutte le volte che ci sarà qualcosa da sperimentare di potenzialmente letale, e dopo la morte sarà ristampato da un’apposita macchina e nel suo cervello saranno riversato tutto il contenuto del Mickey morto.

Dall’inizio della missione Mickey è alla sua versione 17, ed è proprio lui che conosciamo all’inizio del film. È qui che, per una serie di coincidenze fortuite, il meccanismo si inceppa producendo una serie di conseguenze più o meno imprevedibili.

Personalmente, ho trovato compatta e di grande impatto la prima parte del film, quella che parte dal momento in cui Mickey 17 sta per morire e che racconta in un lungo flashback come si è arrivati fin lì.

Da questo momento in avanti, che poi è la parte centrale del film, ho avuto la sensazione che la narrazione si andasse sfilacciando e che il film procedesse per accumulazione, rischiando nel complesso di girare un po’ a vuoto.

Attenzione: Bong Joon-ho è un signor regista e questo è fuori discussione, però, man mano che si procede nella visione, l’oscillazione tra il puro divertissement (un film fantascientifico distopico senza particolari intenti) e il film impegnato politicamente e socialmente si fa sempre più incerta, e nel racconto si vanno accumulando elementi che spesso restano un po’ superficiali per risultare davvero incisivi.

Devo anche ammettere che il mix di generi che è tipico del registo sudcoreano – che nella stessa scena è in grado di virare dal drammatico al grottesco – in questo film risulta a mio avviso meno riuscito, o forse quello stile grottesco che in un film di impianto e ambientazione sudcoreana non appare stonato, ma perfettamente coerente con tutto il resto, una volta trasportato in un universo narrativo a noi più familiare facilmente si muta in ridicolo e perde parte della sua potenza emotiva.

Pattinson è bravo nel suo personaggio e nelle sue diverse varianti; Ruffalo e Collette mi pare che ormai ripropongano in film diversi lo stesso personaggio, risultando quindi meno incisivi col passare del tempo.

Detto ciò, il film risulta inquietante per quanto assomiglia alla realtà che stiamo vivendo e a quella che si prefigura nel nostro futuro. E nonostante il finale pieno di speranza, non si esce dal cinema a cuor leggero.

Voto: 3/5


mercoledì 2 aprile 2025

A real pain

L’opera seconda da regista di Jesse Eisenberg era stata presentata all’ultima festa del cinema di Roma, ma a suo tempo l’avevo persa. Nel frattempo non solo il film è arrivato in sala, ma Kieran Culkin ha vinto il premio Oscar come miglior attore non protagonista, quindi l’aspettativa verso il film è cresciuta ulteriormente.

A real pain (espressione che in inglese può avere un significato letterale, quello appunto di un dolore reale, ma può anche essere usata per fare riferimento a un rompiscatole) racconta di due cugini di origini ebraica, David (lo stesso Jesse Eisenberg) e Benji (Kieran Culkin), che, dopo la morte dell’amata nonna Dory, fanno insieme un viaggio in Polonia per andare in visita alla casa dove la donna è vissuta prima di emigrare in America per sfuggire alla persecuzione nazista. I due giovani, molti legati nell’infanzia pur essendo molto diversi, si sono un po’ persi di vista perché le loro vite hanno preso direzioni differenti. David è introverso, complessato e ossessivo, Benji è estroverso, empatico, diretto ed esuberante, ma anche decisamente rompiscatole. In Polonia i due condividono questo tour dell’Olocausto con altre persone che per qualche motivo sono particolarmente sensibili al tema o hanno vicende familiari che li collegano alla storia degli ebrei.

Il film di Eisenberg si sviluppa dunque su una doppia dimensione: quella personale che passa attraverso il rapporto tra David e Benji, e quella collettiva che mette loro, gli altri partecipanti al tour e noi spettatori di fronte non solo alla vicenda dell’Olocausto ma anche al modo in cui quella memoria viene gestita e vissuta oggi. In sostanza, Eisenberg si muove continuamente tra il piano del dolore collettivo e quella del dolore individuale, offrendo allo spettatore la libertà di coglierne i rimandi ma anche di leggerli secondo la propria sensibilità.

La maggior parte delle recensioni che ho letto mi sembra si concentrino sul contesto, ricordando che Eisenberg aveva già esplorato il rapporto con le sue origini ebraiche in uno spettacolo teatrale.

Certamente questa dimensione è importante, e non è un caso che tra i pochi momenti in cui la musica di Chopin - onnipresente in questo film - si ferma lasciando il posto al silenzio è durante la visita alle camere a gas, ai forni crematori e alle stanze con le migliaia di scarpe degli ebrei uccisi.

Però, per quanto mi riguarda – forse anche per effetto della sovraesposizione a questo tipo di narrazioni – l’aspetto che mi ha colpito di più e mi è entrato di più sottopelle è quello del rapporto tra i due protagonisti, e solo di riflesso quello con gli altri componenti del gruppo che partecipa al tour (che secondo me restano sullo sfondo).

Con un linguaggio e una cifra emotiva che oscillano tra scanzonato e leggero, ma anche sopra le righe, spiazzante, e infine in alcuni casi drammatico, Eisenberg ci racconta il rapporto tra un David che, pur essendo una persona ansiosa e con qualche difficoltà nel rapporto con gli altri, ha trovato un suo posto nel mondo (ha un lavoro, una moglie e un figlio che ama), e un Benji che, pur essendo naturalmente empatico, estroverso, capace di affascinare gli interlocutori, vive un tormento interiore, un senso di solitudine, di mancanza di affetto, di angoscia che lo hanno lasciato al palo.

Personalmente ho empatizzato moltissimo con David, in cui mi sono riconosciuta sia nel suo essere ansioso e nervoso sia nel suo essere razionale sia nel suo tentativo di essere assennato e rispettoso verso gli altri, e ho trovato abbastanza insopportabile Benji. A distanza di 24 ore dalla visione del film ho capito quanto questo rapporto abbia toccato alcune mie corde sensibili. Il rapporto e lo stato d’animo di David verso Benji mi ha ricordato il mio verso alcune persone a cui sono molto legata e a cui voglio bene, ma rispetto alle quali nel tempo ho avuto sentimenti e atteggiamenti contraddittori: io che vengo da un passato di persona fortemente introversa e socialmente inabile, ho sempre sentito – soprattutto durante l’adolescenza e la giovinezza - una specie di ammirazione e quasi di invidia, a volte di astio, nei confronti di persone in grado di trovarsi bene rapidamente e in qualunque compagnia, ammaliando gli interlocutori e facendosi accettare anche nei loro aspetti più insopportabili, mentre io per quanti sforzi facessi sembravo trasparente agli occhi degli altri. Ora che ho oltre 50 anni e mi guardo indietro, mi rendo conto di quanto sono stata fortunata a riuscire a fare i conti con la me stessa di allora e a costruirmi una vita professionale e affettiva che con tutti i suoi limiti mi corrisponde, mentre persone che mi sembravano molto meglio attrezzate di me si sono aggrovigliate nei loro buchi interiori e non si sono più liberate di tormenti e dolori apparentemente invisibili, ma assolutamente reali.

E così ho capito perché Benji mi suscitava una naturale repulsione, ma subito dopo ne ho anche sentito in profondità il dramma, racchiuso magnificamente nell’ultima scena del film.

Voto: 3,5/5


lunedì 31 marzo 2025

Le cinque rose di Jennifer / di Annibale Ruccello; regia di Geppy Gleijeses. Teatro India, 5 marzo 2025

A distanza di poco meno di due anni da quando avevo potuto vedere per la prima volta a teatro Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello, messo in scena al Teatro Vascello da Gabriele Russo e interpretato da Daniele Russo, ho la possibilità di assistere a una seconda messa in scena al Teatro India.

In questo caso la regia è di Geppy Gleijeses, che ne è anche interprete insieme al figlio Lorenzo Gleijeses che interpreta il ruolo minore ma cruciale della vicina di casa Anna.

In generale, pur nella fedeltà di entrambi gli spettacoli al potentissimo testo di Ruccello, mi sembra che la messa in scena di Gleijeses sia più tradizionale, sia sul piano della scenografia che su quello drammaturgico.

Se lo spettacolo di Russo giocava sullo sdoppiamento della protagonista con la figura “esplicita” in primo piano e quella fatta di pensieri consci e inconsci in secondo piano, e utilizzava anche la colonna sonora sia sul piano diegetico che extradiegetico, nello spettacolo di Gleijeses tutto è più lineare, ma non per questo meno efficace.

La Jennifer di Geppy Gleijeses viene in un certo senso normalizzata: una donna che cucina, si trucca, ascolta la radio, risponde al telefono e attende prima la telefonata e poi l’arrivo del suo uomo, Franco, e che oltre a questo presente ha anche un passato di matrimonio e figli da raccontare.

Dietro questa presunta normalità niente è però quello che sembra: Jennifer è un travestito e vive in un quartiere di Napoli abitato da travestiti, dove le linee telefoniche funzionano male e la radio continua a dare notizia di omicidi degli abitanti ad opera di un fantomatico serial killer; Franco è un uomo conosciuto una sera in discoteca, diversi mesi prima, che aveva detto che si sarebbe fatto risentire ma non ha mai chiamato; il passato raccontato da Jennifer evidentemente è un’invenzione e chissà da quale storia personale la protagonista arriva realmente.

Quella che comincia come una commedia leggera e grottesca, a tratti esilarante, si fa sempre più malinconica, dolente e infine tragica, man mano che la verità si rivela e la solitudine della protagonista esplode in direzioni inattese.

La Jennifer di Geppy Gleijeses è a sua volta estremamente naturalistica nel rappresentare una veracità da basso napoletano, ma risulta altrettanto efficace nella virata dolente e tragica, comunicando attraverso viso e corpo quel senso di frustrazione, sconfitta, assenza di prospettive che il suo personaggio – come molti altri personaggi di Ruccello – riassume in sé.

Il lungo applauso finale di un pubblico davvero numeroso conferma il successo di questa messa in scena nonché ancora una volta – se ce ne fosse stato bisogno – la grandezza intramontabile dei testi di Ruccello.

Ed è a lui “che ci guarda da lassù” che – a mio modo di vedere – Gleijeses rivolge lo sguardo e il gesto delle mani al termine dello spettacolo mentre si prende i meritati applausi, perché il teatro napoletano di oggi, che affonda le radici proprio in quegli anni, ha un grosso debito nei confronti di questo ragazzo dal grande talento, ma dal destino tragico come i suoi personaggi.

Voto: 3,5/5

venerdì 28 marzo 2025

Black dog

Siamo in Cina, a Chixia, una città alle estreme propaggini del deserto del Gobi. È il 2008. La Cina si prepara alla grande cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino, occasione per dimostrare la grandezza del dragone al mondo intero.

Lang Yonghui (Eddie Peng) sta tornando con un pulmino verso la sua città dopo aver trascorso diversi anni in prigione, accusato - come scopriremo dopo - dell'omicidio colposo del nipote del macellaio Hu. Prima di finire in prigione Lang era una celebrità come cantante e per le sue acrobazie con la moto, ma al suo rientro a Chixia tutto è cambiato.

Suo padre, che gestisce lo zoo della città dove ormai sono rimasti pochissimi animali, è un alcolista con grossi problemi di salute.

La città è in uno stato di semiabbandono ed è invasa da cani randagi, mentre vengono annunciati interventi del governo volti ad abbattere gli edifici vecchi per costruire quartieri più moderni e funzionali.

Perseguitato dal macellaio Hu che vuole vendicare il nipote, Lang accetta di far parte della squadra di accalappiacani al soldo di un boss locale, zio Yao. È così che incontra il cane nero a cui tutti danno la caccia e che si pensa sia rabbioso.

Lang e il cane diventano inseparabili, accomunati nel tentativo di sopravvivere a un mondo in rovina.

Il film di Guan Hu è un oggetto cinematografico difficile da classificare. Un po' film post-apocalittico, un po' western, un po' slapstick, un po' disneyano nel rapporto uomo-animale, un po' surreale e fiabesco.

La storia di Lang, un protagonista che sembra quasi muto viste le pochissime parole che pronuncia, e il suo rapporto con il cane sono quasi un pretesto - capace però di conferire densità emotiva - per raccontare una realtà lontana dai riflettori, un'area remota e marginale della Cina dove la ruralità e l'arretratezza sociale e culturale si mescolano con i segni di una urbanizzazione e industrializzazione forzata e dissonante, producendo un effetto straniante che il regista amplifica con le sue scelte, in termini di sguardo e narrazione.

In sottofondo costante il rapporto tra uomo e natura, che in un contesto estremo e remoto come questo appare sempre in equilibrio incerto, con una natura che è sempre pronta a riprendere il sopravvento e l'essere umano che cerca di sottometterla ai suoi obiettivi.

Black dog ha vinto il premio Un certain regard a Cannes, ed è certamente un film solo apparentemente semplice, ma che invece si presta a molteplici letture e interpretazioni, oltre a portarci con sé in un mondo per noi sconosciuto riuscendo in qualche modo ad avvicinarcelo emotivamente. Che è poi la forza del cinema.

Voto: 3,5/5


mercoledì 26 marzo 2025

Follemente

Non era nei miei programmi cinematografici ma chiamata a raccolta da I. decido di dedicare una domenica sera al film di Paolo Genovese, di cui avevo apprezzato a suo tempo Perfetti sconosciuti (diventato poi un successo mondiale) e non mi era dispiaciuto, pur con qualche riserva, The place.

Questa volta Genovese, autore del soggetto e coautore della sceneggiatura insieme a Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Paolo Costella e Flaminia Gressi, di ispira a Inside out, il cartone della Pixar, per raccontare quello che accade nella testa di un uomo e una donna, Piero (Edoardo Leo) e Lara (Pilar Fogliati), a un primo appuntamento.

A differenza che in Inside out, qui i soggetti che abitano le menti dei due protagonisti non sono le loro emozioni, ma le loro differenti personalità, quella romantica, quella razionale, quella folle, quella istintiva.

Le personalità di Piero sono incarnate da Maurizio Lastrico, Marco Giallini, Rocco Papaleo e Claudio Santamaria, quelle di Lara invece sono rappresentate da Vittoria Puccini, Claudia Pandolfi, Maria Chiara Giannetta e Emanuela Fanelli.

L’intero film ha un impianto fortemente teatrale (e non ho dubbi che diventerà anche uno spettacolo per il teatro, visto lo straordinario successo che il film sta avendo): tutto avviene nella casa di Lara, mentre le diverse personalità di ciascuno stanno gli uomini in una stanza e le donne in un’altra.

Il film ha una sceneggiatura brillante e credibile, oltre che godibile e a tratti decisamente divertente, ed è ben interpretato da tutti gli attori; il tema indagato è quello della relazione tra uomini e donne che da un lato ha dei tratti universali e perduranti, dall’altro fa i conti con i cambiamenti sociali e l’evoluzione del concetto di maschile e femminile, con tutto quello che comporta.

Per tutti questi motivi il pubblico, di qualunque età e di qualunque condizione sociale, non farà fatica a immedesimarsi e a riconoscere pensieri e situazioni con cui si è confrontato almeno una volta nella vita, direttamente o indirettamente.

Alcune trovate sono davvero riuscite ed esilaranti, come la rappresentazione dell’orgasmo di lei attraverso l’esecuzione da parte di tutte le personalità in coro, maschili e femminili, di Somebody to love dei Queen. Meno mi ha convinto il momento dell’incontro, verso la fine, tra tutte le personalità, quando invadono la casa di Lara e si confrontano direttamente e non attraverso i due protagonisti.

Nel complesso, un film piacevole per una serata di relax e senza troppi pensieri, una commedia italiana che sa mantenersi perfettamente in equilibrio tra leggerezza e intelligenza, ma certamente non un film che farà la storia del cinema italiano.

Voto: 3/5


lunedì 24 marzo 2025

Diciannove

Siamo nel 2015. Leonardo (Manfredi Marini) ha 19 anni e parte da Palermo per fare l'università a Londra dove vive già sua sorella. Il periodo londinese è però molto breve, perché Leonardo vuole studiare letteratura e non business, e dunque decide di trasferirsi all'università di Siena. Qui Leonardo trascorre questo anno non facile della sua vita, tra grandi passioni letterarie, grande isolamento sociale, e altrettanto grande confusione sessuale.

Il dialogo finale - alquanto surreale - con un conoscente in una grande casa torinese piena di arte contemporanea è il momento per mettere a fuoco il percorso fatto e guardare avanti con più fiducia.

Vedo questa opera prima di Giovanni Tortorici - per sua stessa ammissione un'opera autobiografica e del resto i conti tornano - in un cinema Troisi gremito di gente, in particolare giovani che hanno più o meno l'età del protagonista del film.

Al termine della proiezione, il regista, l'attore protagonista e il produttore Luca Guadagnino sono a disposizione del pubblico per un Q&A in cui emerge che questo racconto, molto personale e che non vuole in nessun modo essere generazionale, risuona invece con i sentimenti e le emozioni di molti che hanno quella età o che se la ricordano.

Più che generazionale in effetti il film di Tortorici rappresenta molto bene un'età della vita che per molti è un momento di transizione molto delicato, quello nel quale abbiamo la libertà di decidere finalmente in quale direzione andare ma ancora non abbiamo la maturità e la consapevolezza per farlo, condizionati dalla lunga fase della vita che ci ha visti dipendere completamente dai nostri genitori.

Nel modo di essere un po' estremo di Leonardo e in alcuni comportamenti propriamente suoi è difficile non riconoscere - fatte le dovute differenze - alcune modalità che sono appartenute anche a noi a quell'età. Forse non eravamo appassionati di letteratura trecentesca e collezionisti di libri, forse non ci ubriacavamo per non dover fare i conti con la nostra identità sessuale ecc. ecc., però probabilmente eravamo massimalisti, insicuri, scontenti e al contempo appassionati come lui.

E Manfredi Marini riesce benissimo a trasmetterci tutte queste sensazioni contraddittorie, rafforzate da uno stile cinematografico molto originale, che mescola al racconto elementi onirici e utilizza anche l'elemento disegnato e animato. Anche l'uso della cinepresa è molto ardito con punti di ripresa vari e inaspettati.

Un esordio che, pur mostrando qualche elemento di naiveté (che secondo me fa molto parte della personalità del regista a quanto si può intuire dall'intervista), risulta decisamente diverso dalla cifra stilistica di certi esordi cinematografici italiani e per questo colpisce.

Dopo questo primo lavoro di scavo interiore nel proprio sé del passato, attendiamo a questo punto Tortorici alla seconda prova cinematografica e personalmente sono molto curiosa di sapere della direzione che prenderà il suo cinema.

Voto: 3,5/5 (voto sulla fiducia futura!)