Differenza, conflitto costituente
Federica Giardini
Tornando a considerare i “conflitti di genere”, in questo primo decennio del XXI secolo, i primi pensieri non sono dei migliori. A cominciare dall’apparente desuetudine del tema che – se non si partecipa alle direttive del politically correct europeo e anglosassone delle pari opportunità – sembra derubricare le questioni riguardanti le donne a un passato che, per quanto recente, è trascorso. Il passato degli anni Settanta, delle lotte femministe sull’aborto, sul divorzio e ancora prima sulla violenza sessuale.
In effetti le donne delle ultime generazioni tendono a non percepirsi come vittime o escluse, in un rapporto con i loro coetanei all’insegna dell’inferiorità o dello svantaggio. D’altra parte, però, siamo in un paese in cui la cronaca ci restituisce alcune figure canoniche: la moglie paziente allo stremo, la fidanzata battuta a morte, le figlie violentate, la madre infanticida, a cui si aggiunge quella, più patinata, della cortigiana in tono minore che, in cambio delle proprie grazie, non esercita influenza sulle decisioni di stato, ma chiede il proprio beneficio angustamente individuale. Non sembrano intaccare questo immaginario le donne che si trovano in posizione diversa, presidenti di parti sociali, che siano gli industriali o il sindacato, segretarie di stato o cancelliere, generalmente perché, talora con il concorso delle singole, sono recepite tacitamente come donne d’eccezione e dunque non rappresentative del loro genere: non è a partire da loro che la percezione e l’immaginario si struttura. Allargando lo sguardo oltre i confini, sembrerebbe che le lotte definibili come femministe siano in corso unicamente in paesi non occidentali – sulla segregazione, sulla partecipazione al voto o sul diritto all’istruzione.
La situazione attuale ci consegnerebbe dunque un contemporaneo in cui il conflitto per parte di donne appartiene al passato e che, se si ripresenta, lo fa in termini pre- o protofemministi, in una sorta di enigmatica regressione dello stato dei rapporti tra donne e uomini.
La prima mossa per fare il punto sul “conflitto di genere” è scombinare gli elementi di questo immaginario in cui siamo immerse e immersi. A cominciare dalla posta in gioco del conflitto. Spesso quel che passa – se passa – della memoria del femminismo è l’idea dell’emancipazione: la questione sarebbe consistita nell’uscita da uno stato di minorità, di cittadinanza incompiuta, nella rivendicazione di un’uguaglianza rispetto allo statuto politico, sociale, di cui godevano gli uomini. Emancipazione per l’uguaglianza con gli uomini. Ammettiamo per un momento che la posta in gioco sia questa, ebbene non è corretto relegare questo conflitto al solo Novecento. A guardare le ricerche prodotte negli ultimi trent’anni emergono fatti e materiali che fanno di questo conflitto un conflitto ricorsivo. Possiamo andare indietro fino al Settecento, con Olympe de Gouges che, poco dopo la Rivoluzione francese, scrive la Dichiarazione dei diritti e dei doveri della donne e della cittadina
O. De Gouges, Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1793), tr. it. di A. Lo Monaco, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2007., iniziativa che non viene apprezzata dai compagni rivoluzionari, che la ghigliottinano, premurandosi di tagliarle anche la lingua; passando per l’Ottocento con le vere e proprie rivolte suffragiste
A. Rossi Doria (a cura di), La libertà delle donne, Rosenberg&Sellier, Torino 1990; cfr. anche A. S. Byatt, Il libro dei bambini (2009), tr. it. di A. Nadotti, F. Galuzzi, Einaudi, Torino 2010, pp. 626-644., per arrivare alla prima metà del Novecento, dunque prima del momento storico che generalmente si designa come “femminista”, con l’opera miliare di Simone de Beauvoir, Il secondo sesso
S. de Beauvoir, Il secondo sesso (1949), tr. it. di R. Cantini, M. Andreose, Il Saggiatore, Milano 2008. . Queste incursioni storiche ci riserverebbero anche delle sorprese: da Poullain de la Barre a Condorcet a John Stuart Mill, che si pronunciano a favore dell’inclusione politica delle donne, fino a un inconsueto Platone che, nel concepire la città ideale, dedica tutto il quinto libro di La repubblica alla partecipazione paritaria di donne e uomini alla vita della polis.
Il caso di Platone è particolarmente significativo per comprendere l’aspetto ricorsivo delle lotte per l’emancipazione delle donne: non possiamo pensarle come un processo graduale e lineare che troverebbe culmine e risoluzione nel secondo Novecento occidentale. Culmine a cui guardare, poi, come punto d’arrivo anche per altre culture e società, che alla storia occidentale non appartengono. Non è l’emancipazione che ci permette di cogliere il tratto specifico del femminismo degli anni Settanta: una strana rivoluzione, a cavallo tra discontinuità e ricorso radicale.
La differenza italiana
E’ da qui che voglio ricombinare gli elementi di un’analisi del contemporaneo e dei conflitti che lo attraversano, di più, lo costituiscono. Il femminismo come discontinuità, che rende ragione anche del suo ricorrere, negli anni Settanta, si dà sotto il titolo di differenza – e non di uguaglianza, tra donne e uomini. Una strana rivoluzione che, in Italia, ha potuto essere definita “l’unica rivoluzione seria”
M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi, Torino 1998, p. 41. o indicata come ciò che ha connotato la “differenza italiana” nel Novecento, attraverso l’opera di Gramsci, Tronti e Muraro
A. Negri, La differenza italiana, Nottetempo, Roma 2005..
Due le autrici che possono dare le coordinate di questo taglio, Carla Lonzi e Luisa Muraro, per le quali la posta in gioco del conflitto muta drasticamente, a partire da una netta distinzione tra la disuguaglianza tra donne e uomini come problema economico, sociale e giuridico e la differenza tra donne e uomini, che è insieme radice del conflitto e risorsa costituente. L’oppressione, cioè, rimanda non solo a una parte dell’organizzazione sociale ma alle coordinate di un’intera civiltà, quella che è stata definita “patriarcale”
C. Pateman, Il contratto sessuale (1988), tr. it. di C. Biasini, Editori Riuniti, Roma 1997, pp. 51 ss.. Sessualità, riproduzione, divisione dei compiti, non solo lavorativi ma anche culturali, sono plessi posizionali che collocano una donna, non tanto e non solo in posizione subalterna, ma soprattutto in una posizione derivata e funzionale ai bisogni della parte dominante dell’umanità, gli uomini. Nel conflitto per sovvertire queste coordinate non c’è, inoltre, sapere che possa essere alleato: né la lotta servo-padrone – che Lonzi definisce un “regolamento di conti tra collettivi di uomini”
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti (1971), et. al., Milano 2010, p. 16., che non è sufficientemente radicale per porre le condizioni per una liberazione delle donne; né la psicoanalisi, che replica l’impianto che definisce la sessualità femminile per derivazione da quella maschile – la clitoride come pene atrofizzato, l’orgasmo non vaginale come forma regressivo-infantile
C. Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, in Ead., Sputiamo su Hegel e altri scritti, cit., pp. 61-113. ; né i sistemi di pensiero, al punto che l’invito è a “sputare su Hegel”
C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, cit.. La posizione di una donna in questi saperi è sempre liminare: mai pienamente titolata alla partecipazione piena e legittima, eppure già implicata nella funzione di anello di congiunzione tra natura e cultura, caos psicotico e coscienza e, dunque, prepolitico e politico, come negli esempi maggiori di Aristotele e Hobbes.
In altri termini, che convocano l’ordine sociale e l’ordine delle rappresentazioni e dei saperi che ne derivano e lo legittimano – ovvero quel che il poststrutturalismo ha definito “ordine del simbolico”
J. Lacan, Scritti (1966), tr. it. di G. B. Contri, Einaudi, Torino 2002; Michel Foucault, L’ordine del discorso (1971), tr. it. di A. Fontana et alii, Einaudi, Torino 2004. - la vita di una donna può disporsi e rappresentarsi lungo piste discorsive che implicano una gamma di posizioni sempre derivate: madre, sorella, sposa, musa, custode delle soglie tra umano e non umano, tra disordine e ordine nell’organizzazione della convivenza, tra famiglia e cittadinanza. Per una donna avere un posto non soggiace tanto a un interdetto, appartiene già a un calcolo su posizioni predisposte, a prescindere dalla sua presa di parola.
La discontinuità con questo ordine – il termine “patriarcato” indica una costante transepocale, può designare l’ordine concepito da Aristotele come da Hobbes – non parte dunque da acquisizioni teoriche, si sostanzia nella pratica per eccellenza della “separazione”: negli anni Settanta le donne compiono un esodo, si sottraggono alle coordinate sociali e culturali che ne determinano la posizione sociale e psichica, per ripartire da una tabula rasa
C. Lonzi, Primati dell’intuizione nella tabula rasa della cultura, in Maria Grazia Chinese et aliae, È già politica, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1977, pp. 65-66. e per riscoprire – a partire dalle relazioni tra loro – bisogni, relazioni, desideri, parole appropriate e nuovi ordini discorsivi, che stabiliscano altre misure per la convivenza. Il conflitto, non per l’uguaglianza entro un quadro già costituito, ma per la differenza e i nuovi inizi che può produrre, significa dunque passare dal paradigma dell’oppressione al paradigma dell’espressione.
Un passaggio che, determinato com’è da una dislocazione reale, consistente di decisioni sulle proprie vite, apre a prese di posizione sulle questioni politiche allora in gioco. Dalla campagna per la legge sull’aborto, che non si configura come un diritto individuale e di proprietà sul proprio corpo, bensì come epitome di una posizione subalterna alla sessualità patriarcale, che porta a coincidenza piacere sessuale e riproduzione, così che l’istanza non è tanto quella di avere diritto a porre rimedio a questa coincidenza, bensì si riformula in una domanda che interroga quella stessa coincidenza: “per il piacere di chi sono rimasta incinta?”
Rivolta femminile, Sessualità femminile e aborto, in C. Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, cit., p. 55.. Analogamente, il divorzio è epitome di una regolamentazione delle relazioni basata sulla divisione sessuata del lavoro produttivo e riproduttivo e sul regime di proprietà e di eventuale negoziazione contrattuale della stessa tra due individui, che si presumono su un piede di parità nel gioco di contrattazione.
La differenza agisce dunque come un taglio e una sottrazione che al tempo stesso apre uno spazio di esplorazione, di espressione – in questo il suo tratto costituente – che, in modo del tutto attagliato alle analisi del contemporaneo, tiene da conto gli strati di organizzazione sociale tanto quanto di quella psichica. Già nel 1971 Lonzi e Rivolta femminile hanno di mira gli effetti disciplinanti che i saperi egemonici esercitano sulla rappresentazione di sé da parte di una donna: se nel 1972 Deleuze e Guattari scrivono l’Anti-Edipo, critica di un dispositivo che accompagna l’assoggettamento alle promesse della collocazione simbolica e sociale, il lavoro delle autrici della differenza scopre, nello spazio liberato dalla legge e norma del Nome del Padre, i primi elementi di un percorso di individuazione e identificazione al di là della norma del confronto eterossessuale
L. Irigaray, Questo sesso che non è un sesso (1977), tr. it. di L. Muraro, Feltrinelli, Milano 1977-1990; L. Muraro, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma 1991.:
Proviamo a pensare a una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalla donna: essa si manifesterà come sviluppo di una sessualità non specificatamente procreativa, ma polimorfa (…) (con ogni prevedibile e imprevedibile fluttuazione nell’assetto eterosessuale dell’umanità)
Rivolta femminile, Sessualità femminile e aborto, cit., p. 59, mio il corsivo..
Il tempo della differenza
Questi antecedenti costituiscono una linea genealogica del conflitto sessuato che ha precise articolazioni.
Non riguarda solo una parte dell’organizzazione sociale, ma il suo ordine per intero, quelle strutture cioè che si dispiegano in compiti, diritti, doveri, rappresentazioni, dispositivi di identificazione psichica. Ne segue che parlare in termini di differenza non significa porre una “questione femminile”, bensì allargare il campo di analisi all’attribuzione di posizioni, sul piano epistemologico, sociale, politico. Non questione di aggiornamento delle tecniche della rappresentanza nelle istituzioni politiche – diritto di voto, quote nell’attribuzione di incarichi, etc. -, bensì questione ontologica che mette al lavoro la dimensione materiale dei soggetti implicati, dalle condizioni di vita alle politiche dei corpi e della sessualità, al confine tra ciò che di volta in volta si pone come umano e come non umano. Non evento, infine, storicamente periodizzabile, bensì costante che opera di epoca in epoca e di cui tuttavia si possono tracciare le poste in gioco solo storicizzando le forme di tale conflitto.
La temporalità entro cui può essere pensabile il lavoro della differenza è una temporalità non lineare progressiva, bensì ricorsiva, tratto caratterizzante che permette di cogliere la compresenza di strati temporali diversi. La differenza sessuata fonda la costituzione dell’ambito politico e insieme lo eccede, è costante transtorica di cui nulla si può dire se non attraverso le sue vicende storiche: è “l’interpretante di un’epoca e del suo trascendimento”
L. Muraro, Commento a La passione secondo G.H., “DWF”, 5, 1987, p. 73.. E’ storica dunque ma rimanda costantemente all’umanità: “non passa fra due entità rappresentabili come tali, ma marca di sé l’essere umano senza farne due esseri”
L. Muraro, Identità umana e differenza sessuale, in Diotima, Oltre l’uguaglianza, Liguori, Napoli 1995, p. 114., è lo spazio di manovra, di negoziazione, in cui l’umanità necessariamente e costantemente si ricrea.
Quanto ai tempi interni al presente, da una parte troviamo la temporalità istantanea o reattiva della comunicazione: abbiamo tutte negli occhi e nelle orecchie gli infiniti titoli, le notizie-bomba sugli stupri – ad alcune delle quali, con un impianto mitopoietico, è stato imputato l’esito delle elezioni – il cruento rosario quotidiano di violenze sessuali in famiglia e le correlate discussioni se la violenza sulle donne sia in aumento o sia solo più “pubblica”. In prima istanza ci troveremmo di fronte a un ritorno dell’arcaico nelle relazioni tra uomini e donne, oppure, al contrario, beneficeremmo di un radicamento dello scandalo della violenza sul corpo delle donne, oramai senso comune anche tra chi lavora nei media. In realtà si tratta di un tempo reattivo, che ha per caratteristica principale il cortocircuito: tempo che non si nutre del passato, ma dell’arcaico, e insieme tempo istantaneo determinato dalle urgenze della politica istituzionale, a cominciare dall’”emergenza sicurezza”, dall’eccezione che legittima interventi illiberali
T. Pitch, Che genere di sicurezza, Franco Angeli, Milano 2001; Ead., La società della prevenzione, Carocci, Roma 2008.. Dall’altra la temporalità delle popolazioni, dei flussi di cui rende conto la demografia. In un’epoca in cui i confini geografici sono più che mai confini politici - porosi o impermeabili a seconda delle esigenze e dell’ordine di ragioni con cui ciascuna “comunità” si rappresenta e amministra – i movimenti di popolazione, interni come il tasso di crescita demografica, esterni come i flussi migratori, introducono la lunga durata nel nostro presente. Politiche della famiglia, di alfabetizzazione, aumento o diminuzione di nascite e di risorse, configurano lo stato delle relazioni tra i sessi, sul crinale della riproduzione che è già politica
B. Ehrenreich, A.R. Hochschild, Donne globali (2003), tr. it. di V. Bellazzi, A. Bellomi, Feltrinelli, Milano 2004; E. Balibar, Noi cittadini d’Europa? (2001), tr. it. A. Simone, B. Foglio, Manifestolibri, Roma 2001; E. Rigo, Europa di confine, Meltemi, Roma 2007; Y. Courbage, E. Todd, L' incontro delle civiltà (2008), tr. it. di R. Ciccarelli, Tropea, Milano 2009..
Ma è anche la temporalità che caratterizza i soggetti non previsti dalle filosofie della storia progressive, che così irrompono con una memoria e un tempo propri, rintracciando altri conflitti, altri precedenti, in quello spazio che la storia ufficiale consegna come una mera assenza. Nel pensiero marxista erano i contadini, che non potevano essere rientrare nella dialettica storica tra classi, il proletariato e la borghesia, o ancora, in epoca postcoloniale, lo sono gli abitanti dell’India che scartano le periodizzazioni dei conflitti propri alla storia moderna occidentale, soggetti contemporanei eppure non visibili sulla scena della storia monumentale
D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2001-2007), tr. it. di M. Bortolini, Meltemi, Roma 2004..
Ovvero, della stasis.
Il conflitto della differenza sessuata sarebbe dunque caratterizzato da una doppia temporalità, quella ciclica, ricorsiva e quella dell’evento, dell’irruzione. Un’ambivalenza che contraddistingue quel conflitto immanente, non del tutto politico, eppure su cui il politico si fonda, che prende il nome di stasis.
Il termine stasis è un Gegensinn, esprime in sé significati opposti: il caos, il disordine, la lacerazione della vita associata e il porre, il fissare, prendere posizione. Il punto dirimente è che indica un conflitto liminare per essenza, sulla soglia del naturale e dell’umano, dell’umano e del politico. Uno statuto che lo accomuna alla differenza sessuale che mostra nella propria etimologia un taglio, una divisione e separazione originaria – il seco alla radice del sesso
L. Brisson, Neutrum utrumque. La biséxualité dans l’Antiquité greco-romaine, in J. Libis (sous la direction de), L’Androgyne, Albin Michel, Paris 1986, pp. 31-61. .
Nella versione che ne dà Nicole Loraux
N. Loraux, La città divisa (1997), tr. it. di S. Marchesoni, Neri Pozza, Padova 2009; F. Giardini, Le parole del Contr’uno. Nicole Loraux, in Laura Sanò (a cura di), Il destino di Prometeo, Il Poligrafo, Padova 2009, pp. 207-225., la stasis offre le risorse per leggere il lavoro della differenza, nel e oltre il politico, come il lavoro del conflitto, un conflitto permanente e soprattutto costituente, al di qua delle partizioni istituite. Da una parte l’irruzione, che “sospende il tempo politico”
N. Loraux, La tragédie d’Athènes, Seuil, Paris 2005, p. 126., dall’altra un campo di esercizio che non è riducibile al tempo positivo del divenire della politica e delle sue forme. E’ nel momento dell’esercizio e del contraccolpo della violenza, che il tempo storico si interrompe, perde la fisionomia della congiuntura e si apre a una temporalità che implica la presa in conto dei bordi, delle pieghe del politico che va facendosi positivo.
La polis, forma di relazione tra uomini che cominciano a pensarsi secondo un intero organizzato, politico per l’appunto, richiede di pensarsi secondo unità: per i Greci vocazione della politica è in effetti pensare e attivare un ordine. Questa operazione presuppone un’inversione: anziché pensare l’unità come esito provvisorio di un processo, di dinamiche, conflitti e assestamenti nel gioco delle relazioni, l’unità è posta come dato positivo di partenza. E’ l’uno del demos, del popolo, unità fittizia che è in debito per la propria costituzione, di una serie di operazioni di inclusione/esclusione: barbari, schiavi, donne
J. Rancière, Il disaccordo (1995), tr. it. di B. Magni, Meltemi, Roma 2007. . Il prezzo da pagare per questo debito contratto tacitamente è un lavoro di costante copertura e rimozione del conflitto, un’attività di resistenza che impedisca l’irruzione di elementi perturbanti nel massimamente familiare, compito precipuamente esercitato da istituzioni, leggi e discipline. La stasis non è interna al politico, agisce sui suoi bordi, insiste infatti sul piano della sua costituzione: non la guerra civile, non la dinamica amico-nemico, già codificabile anche quando interna ai confini dell’appartenenza a una nazione
C. Schmitt, Teoria del partigiano (1962), tr. it. di A. De Martinis, Adelphi, Milano 2005. , bensì elemento costituente del politico perché immanente all’umano, istanza di espropriazione dell’umano stesso
N. Loraux, La città divisa, cit..
Così rimosso in nome di una fantasia di fondazione, il conflitto diventa minaccia di lacerazione, si potenzia e dilaga come forza di distruzione dell’umano stesso, perché coglie il politico là dove si ritaglia e si staglia contro la dimensione umana e naturale: la stasis non è “guerra”, bensì affezione naturale e corporea, “flagello”, “malattia”
Ivi, pp. 123-124.. Il conflitto portato dalla differenza assume dunque un tratto che possiamo ridefinire come biopolitico. Se i racconti cosmogonici delle diverse tradizioni – racconti di passaggio, del passaggio stesso, di un percorso di generazione – riescono a rendere conto di questa natura liminare e conflittuale della tensione originaria
Ibidem., il politico costituito procede attraverso un lavoro costantemente rinnovato di copertura della lacerazione, che si stabilizza come relazione unaria e di proprietà che distribuisce le posizioni secondo la misura della gerarchia, della subalternità, dell’affrontamento tra parti poste, fissate, già costituite. A questa necessità fantasmatica Loraux imputa “l’incapacità costitutiva del politico di capire la violenza”
N. Loraux, La tragédie d’Athènes, cit., p. 51. e dunque di riuscire ad affrontarla solo alla stregua di un’irruzione.
L’inversione della rimozione prende la figura di un aneddoto su Eraclito: interrogato dai concittadini sulla concordia in città, anziché parlare, agita e beve il kikeon, composto di farina e acqua che, solo se agitate, si mescolano. Solo assumendo la divisione, la partizione come dimensione prima, è possibile produrre dell’uno, contingente, parziale. La salvezza della città implica il movimento di ciò che è separato, la concordia non ha nulla di statico.
Al presente
Assumere la differenza sessuale secondo la figura della stasis implica dunque che la comunanza, il comune, è della natura della condivisione: ambito solo performativo, mai dotato della consistenza di una qualche sostanza primaria, che si dispiega – agitando il kikeon – nella negoziazione di confini, partizioni, scambi, dinamiche di identificazione. Analogamente, la differenza sessuale, che pure conosce momenti di fissazione identitaria – gli uomini, le donne – agisce come un operatore, un intervallo mobile che si ricolloca di epoca in epoca, di conflitto in conflitto
F. Giardini, Relazioni, Luca Sossella, Roma 2004.. Quali i nodi conflittuali al presente, che rivelano l’operare della differenza?
Si può cominciare dall’ambito tradizionalmente deputato alle donne, la famiglia, ma stavolta l’uso della differenza permette di portare lontano l’analisi. Nella compresenza dei diversi strati temporali del conflitto portato dai movimenti della differenza, nella smobilitazione della famiglia e delle sue funzioni - si è visto come le società nordoccidentali abbiano conosciuto negli anni Settanta un esodo femminile dalle posizioni e dai compiti a loro assegnati – emergono alcuni nodi critici.
A cominciare dal crollo delle dinamiche di identificazione psichica, che ripartivano le relazioni tra generazioni secondo il triangolo edipico madre-figlio-padre: se la psicoanalisi aveva anticipato il declino dell’”imago” paterna - Lacan già nel 1956 manifestava una certa preoccupazione: “i giornali ci dicono ogni giorno che la partenogenesi è avviata, e che presto le donne genereranno figlie senza l’aiuto di nessuno (…) Tra due o tre generazioni, probabilmente non ci capiremo più niente, una gatta non ritroverà i propri piccoli”
J. Lacan, Les psychoses. Le Seminaire. Livre III, Seuil, Paris 1958, pp. 359-360. - oggi si chiede cosa resta della funzione di guida e trasmissione che al padre era attribuita
M. Recalcati, Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano 2011..
Su un altro piano, la richiesta di un riconoscimento finora riservato alla famiglia – “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (Costituzione Italiana, art. 29) – da parte di soggetti che non rispondono e non si relazionano secondo la norma edipica eterosessuale, interroga radicalmente i confini della cittadinanza, fin nei suoi fondamenti, che dovrebbero esercitarsi “senza distinzioni di sesso” (art. 3). Tuttavia il pensiero queer o trans non implica solo una richiesta di riconoscimento in termini di diritti individuali
J. Butler, La disfatta del genere (2004), tr. it. di P. Maffezzoli, Meltemi, Roma 2006; P. Marcasciano, Elementi di critica trans, Manifestolibri, Roma 2010.: considerato nell’orizzonte del conflitto secondo la differenza sessuata, mette in questione le forme e i principi fondamentali della convivenza. Il tempo della reazione a questa smobilitazione delle posizioni consolidate permette poi di cogliere i contrattacchi, nell’immaginario e nei provvedimenti giuridici e amministrativi, che mirano a ristabilire partizioni, confini di inclusione/esclusione
A. Simone, Corpi del reato, Mimesis, Milano 2011..
Il crollo del complesso posizionale che va sotto il titolo di famiglia riconfigura infatti i termini del conflitto a partire dal fondamento della cittadinanza stessa, il lavoro. L’articolo 1 della Costituzione italiana individua come soggetto di cittadinanza il lavoratore – è noto il dibattito tra i padri costituenti sul riferimento al “lavoro”
L. Canfora, Democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004., - ma solo attraverso l’evento del femminismo emerge un nodo conflittuale, del tutto attuale nella sua portata, eppure anche ricorsivo
C. Pateman, Il contratto sessuale, cit.; C. Pateman, T. Brennan, Mere Auxiliaries to the Commonwealth, in N. J. Hirschmann (ed.) Feminist Interpretations of John Locke, Pennsylvania University Press 2007; A. Del Re, Produzione/riproduzione, in Ead. (a cura di), Lessico marxiano, Manifestolibri, Roma 2008, pp. 137-153.. La figura del lavoratore/cittadino di diritto istituisce infatti un’antichissima ripartizione tra lavoro produttivo e attività riproduttive – non riconosciute come lavoro vero e proprio – ovvero, nei termini di oggi, lavoro di cura. L’esodo delle donne dai compiti a loro attribuiti non produce dunque soltanto un ingresso nel mercato del lavoro, con le relative acquisizioni in termini di indipendenza economica e relative acquisizioni di diritti, ma smobilita il terreno stesso dello stato di diritto, dei criteri secondo cui li riconosce e li attribuisce, nonché delle forme del lavoro stesso. “Femminilizzazione del lavoro”, che si caratterizza per la fusione tra tempo di vita e tempo di lavoro, per la messa a profitto di quelle competenze relazionali, affettive e linguistiche, un tempo relegate nel domestico
C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, Ombre Corte, Verona 2010. . Ma anche crisi del circuito reddito-previdenza-assistenza che, attraverso le riforme del sistema pensionistico secondo la ricetta unilaterale del Fondo Monetario Internazionale, mostra quanto l’equilibro del sistema statuale della redistribuzione della ricchezza, e quello che fonda la stessa idea di Welfare state e degli obblighi che, contratti con i propri cittadini, lo legittimano, fossero debitori della divisione sessuata dei compiti
C. Saraceno, Mutamenti sociali e politiche della famiglia in Italia, Il Mulino, Bologna 2003; Ead. (ed.), Families, Ageing and Social Policy: Intergenerational Solidarity in European Welfare States, Elgar, Glos (U.K.) 2008. .
La portata del conflitto operato dalla differenza sessuata segna anche il tempo lungo sia dei flussi delle popolazioni sia del piano più propriamente antropologico.
Da una parte, in effetti, la dislocazione della coppia attività riproduttive/lavoro produttivo interessa la riorganizzazione delle relazioni sociali là dove nuovi soggetti vengono deputati alle attività riproduttive. A riprova che il “lavoro di cura” non è una variabile che può essere inclusa senza resti sul mercato del lavoro oppure essere derubricata come una permanenza di forme sociali arcaiche – che tornano a relegare le donne nella sfera domestica e lasciano agli uomini le attività pubbliche – troviamo gli immigrati, perlopiù donne, che si trovano di nuovo in una posizione liminare rispetto al mercato, alla cittadinanza e ai diritti che la dovrebbero sostanziare
S. Benhabib, I diritti degli altri (2004), tr. it di S. De Petris, Raffaello Cortina, Milano, 2006..
D’altra parte, questo ambito, svuotato dall’esodo femminile degli anni Settanta, ha creato un vuoto regolativo – non di legge – rispetto agli aspetti della vita umana che nel domestico si svolgevano. Il termine “bioetica” ci consegna infatti i termini di un conflitto paradossale: l’etica dovrebbe riguardare una sfera correlata eppure diversa dalla politica, sfera delle regole di comportamento e non materia di legge, di cui è emblema Antigone
F. Giardini, In vece di Antigone. Famiglia e crisi del patriarcato nel femminismo della differenza sessuale, “Parolechiave”, 39, 2008, pp. 115-128. . Dovrebbe essere il luogo abitato dai corpi non ancora e non più cittadini, dei momenti iniziali e finali della vita, ai cui confini la politica si arresta. Ebbene, nel momento in cui quel luogo non produce le proprie regole attraverso le attività femminili della cura, così come contemplate dal passato recente, ecco che diventa spazio in cui legge, tecnica, ma anche religione, sconfinano alla ricerca di nuove misure regolative – dalle leggi sulle nuove tecnologie riproduttive e sui modi leciti di terminare la vita ai dibattiti sulla vita stessa, materia di scienza o regno delle leggi divine
C. Botti, F. Rufo, Bioetica: discipline a confronto, Ediesse, Roma 2002; V. Franco, Bioetica e procreazione assistita, Donzelli, Roma 2005; E. Lecaldano, Un’etica senza Dio, Laterza, Roma-Bari 2006..
La differenza sessuata, conflitto che non trova i propri limiti nel politico positivo - “il contenuto più adeguato all’universale”
L. Irigaray, L’universale come mediazione, in Ead., Sessi e genealogie (1986), tr. it. di L. Muraro, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007, pp. 145-171., perché insiste sull’umano – si attesta infine su un piano che eccede i confini della nazione e delle appartenenze culturali, ci offre infatti gli strumenti per leggere le retoriche che accompagnano questa epoca di globalizzazione, di “esportazione della democrazia”, in nome della liberazione delle donne o dell’affermazione dei diritti umani per soggetti che umani non sono ancora
S. Žižek, Diritti umani per Odradek (2005), tr. it. di M. Agostini, Nottetempo, Roma 2006.. La differenza sessuata resiste alla ripartizione noi-loro, come già constatava, a rovescio, Simone de Beauvoir:
le donne non sono una minoranza, come i negri d’America e gli ebrei; ci sono tante donne quanti uomini sulla terra (…) le donne non hanno un passato, una storia, una religione, non hanno come i proletari una solidarietà di lavoro e interessi
S. de Beauvoir, Il secondo sesso, cit., pp. 23-24..
Ruotando la constatazione, la mancanza di positività storica, politica, culturale, rende la differenza, portata dalle donne e dalla rete di relazioni in cui si trovano implicate, un conflitto che ha una potenzialità costante di smobilitare confini e partizioni che si fissano, di ambito in ambito, in un’epoca in cui si assiste alla sua “proliferazione reificata”
R. Braidotti, Madri mostri e macchine, Manifestolibri, Roma 2005, p. 26; cfr. anche Ead., Trasposizioni (2006), tr. it. a cura di A. Crispino, Luca Sossella, Roma 2008..