soggetti rivelati
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la questione maschile
archetipi, transizioni, metamorfosi
a cura di Saveria Chemotti
ILPOLIGRAFO
soggetti rivelati
ritratti, storie, scritture di donne
collana di studi coordinata da Saveria Chemotti
59
la questione maschile
archetipi, transizioni, metamorfosi
a cura di
Saveria Chemotti
ILPOLIGRAFO
Atti del Convegno
“La questione maschile.
Archetipi, transizioni, metamorfosi”
Padova, 24-27 marzo 2015
Il volume viene realizzato con un contributo
dell’Università degli Studi di Padova
nell’ambito delle iniziative promosse
dal Forum d’Ateneo per le politiche e gli studi di genere
Copyright © novembre
Il Poligrafo casa editrice srl
Padova
piazza Eremitani - via Cassan,
tel. - fax
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ISBN ----
INDICE
Introduzione
Le attività del Forum d’Ateneo
per le politiche e gli studi di genere
Saveria Chemotti
Isole nella corrente. Parole, strumenti, prospettive
per esprimere e rappresentare l’esperienza maschile
Stefano Ciccone
Equivoci, mutanti, ermafroditi:
la questione maschile al tramonto del moderno
Roberto Deidier
L’indicibile maschilità.
Comportamento bisessuale e identità virile
Giuseppe Burgio
Navigando a vista sul disfacimento del concetto di genere
e sugli orientamenti sessuali
Nicla Vassallo
Il maschile e il velo della dea.
In margine a Novalis
Davide Susanetti
La decostruzione di un genere?
Il pater familias nella storia della res publica romana
Francesca Cenerini
Il mannaro: una categoria antropologica
declinata solo al maschile
Sonia Maura Barillari
Cesare Lombroso e il criminale nato:
la scienza medica al servizio dell’ordine sociale
Ida Li Vigni
«...e il babbo è un osso duro».
La considerazione della figura paterna
nella letteratura per l’infanzia
Donatella Lombello
Pinoccchio: burattino, somarello e bambino...
Rappresentazioni dell’identità di genere
Paolo Aldo Rossi
Forme etiche del virile:
il volto dell’altro secondo Emmanuel Lévinas
Bruna Giacomini
«Chi sono io tu non saprai»:
sul mito di Don Giovanni
Umberto Curi
Il divenire molteplice della differenza
Andrea Nicolini
Dio Padre e la mascolinità di Cristo.
Una lettura teologica “maschileplurale”
Benedetta Selene Zorzi
Dai pepla al western all’italiana.
La figura maschile nel cinema popolare degli anni Cinquanta
Giorgio Tinazzi
Convergenze di genere nel mercato del lavoro?
Uomini in professioni “femminili”
Sabrina Perra, Elisabetta Ruspini
El nemigo común es el machismo:
disfare/rifare il genere con l’antisessismo maschile in Spagna
e il caso di Ahige
Krizia Nardini
Il discorso della violenza maschile:
dall’emergenza mediatica alla riflessione degli uomini autori
Cristina Oddone
Modelli maschili nel secondo Ottocento:
il caso della Scuola normale maschile provinciale
di Bologna (-)
Loredana Magazzeni
La mascolinità nell’epoca vittoriana:
il caso di John Addington Symonds
Michele Tondi
Agostino, Damìn, Emanuele: una controstoria corporale
Emanuele Zinato
La mascolinità armata
Carlo Donà
Il maschio selvatico. L’archetipo, il mondo selvatico
e l’ambiente del dono
Claudio Risé
Il “corpo poetico” dell’artista nei Wilhelm Meisters Lehrjahre:
tra Amleto, Edipo e Perceval
Massimo Stella
La costruzione di una possibilità: disertare il patriarcato
Lorenzo Gasparrini
Baritoni egemoni e tenori soccombenti.
L’opera lirica o il trionfo del patriarca
Annamaria Cecconi
Ripensare il maschile a partire dalle fonti della Cina classica:
il “farsi femmina” del Laozi
e il “paradigma materno” del Mengzi
Amina Crisma
La caduta di un mito e la sua metamorfosi
Raffaella Failla
Il maschile: una prospettiva generazionale
Emanuele Caon
Tango. Generazioni
Marzia Banci
Fuori cliché: passaggi di genere tra identificazione e scelta.
Spunti sul film Les garçons et Guillaume, à table!
di Guillame Gallienne (Francia, )
Giulia Zoppi
Modelli di genere e identità virtuali: performance maschili
nelle communities del sesso a pagamento
Giorgia Serughetti
Una prospettiva generazionale
Lara Marrama
Note sugli autori
LA QUESTIONE MASCHILE
ARCHETIPI, TRANSIZIONI, METAMORFOSI
IL DIVENIRE MOLTEPLICE DELLA DIFFERENZA
Andrea Nicolini
Tradurre l’umano significa
portare l’essere umano agli incroci
HOMI BHABHA
«Sedurre significa incarnare, agli occhi dell’altro, la sua attesa, e questo, nella seduzione intenzionale, implica fatalmente un
travestimento». Lo sa bene Don Giovanni, il re dei seduttori, l’uomo cui nessuna donna sa resistere. «Quello che ha sempre colpito la
fantasia non è [infatti] soltanto il numero delle conquiste, ma l’intimo
convincimento che tutte le donne, all’occasione, gli cedano». Secondo Pontiggia il motivo di tanto fascino consisterebbe nella capacità
camaleontica del seduttore di farsi altro da sé divenendo l’oggetto del
desiderio dell’altro. Don Giovanni conosce infatti la natura polimorfa
del desiderio e sa mutare per coglierlo: egli ha compreso che il fascino
è un gioco di specchi e ombre per cui è sempre una maschera quella
che usiamo per sedurre ed è sempre una maschera che ci seduce.
G. PONTIGGIA, Il giardino delle Esperidi, Milano, Adelphi, , p. .
«Madamina, il catalogo è questo / delle belle che amò il padron mio, / un catalogo egli è che ho fatt’io, / osservate, leggete con me. / In Italia seicento e quaranta, / in
Lamagna duecento e trent’una, / cento in Francia, in Turchia novant’una, / ma in Ispagna
son già mille e tre», G. DA PONTE, W.A. MOZART, Don Giovanni, scena I, atto IV.
«V’han fra queste contadine, /cameriere e cittadine, / v’han contesse, baronesse, /
marchesane, principesse, / e v’han donne d’ogni grado, / d’ogni forma, d’ogni età. / Nella
bionda egli ha l’usanza / di lodar la gentilezza, / nella bruna la costanza, / nella bianca la
dolcezza. / Vuol d’inverno la grassotta, / vuol d’estate la magrotta; / è la grande maestosa, /
la picina è ognor vezzosa [...] / Delle vecchie fa conquista, / per piacer di porle in lista; /
ma passion predominante / è la giovan principiante. / Non si picca se sia ricca, / se sia
brutta, se sia bella: / purché porti la gonnella, / voi sapete quel che fa», ibid.
PONTIGGIA, Il giardino delle Esperidi, cit., p. .
ANDREA NICOLINI
La maschera del seduttore non è però semplicemente un orpello,
un abito che egli può mettere e dismettere a piacimento, ma un travestimento che Don Giovanni paga a caro prezzo. Solo una
spersonalizzazione totale può spiegare, di questa attrazione, sia l’universalità sia
la reciprocità. Tale travestimento infatti non consiste nell’aggiungere, quanto
nel levare: nel togliere quegli elementi psicologici di disturbo che normalmente si frappongono tra la disponibilità dell’istinto e il suo soddisfacimento.
Don Giovanni può così manifestarsi come desiderio intensificato, concentrato,
esclusivo, che, evitando gli abituali errori di un rapporto, non può alla fine
che comunicarsi al proprio oggetto.
A uno sguardo attento il fascino di Don Giovanni rivela dunque
un aspetto tetro e svilente che fa della ricerca continua del desiderio
la morte del desiderio stesso. La maschera che egli indossa per sedurre
ha infatti un potere corrosivo: a contatto col corpo ne brucia la pelle
e, procedendo fino allo strato più profondo, ne divora la carne fino a
ridurlo a uno scheletro. Il corpo blasonato di Don Giovanni appare
dunque come una carcassa vuota e porosa che assorbe e riflette un
desiderio che appartiene sempre a qualcun altro e di cui Don Giovanni
non è che un’occasione, un attimo, un evento fuggevole. Se dunque
l’arte di Don Giovanni consiste proprio nel suo poter essere ogni
cosa, nella sua capacità di ridursi a spazio vuoto, a buco, recipiente e
ricettacolo pronto per essere riempito da ogni simbolo erotico, ecco
che allora quello stesso corpo rivela tutta la sua inconsistenza, il suo
poter essere abitato solo il tempo di un errore. In questo movimento
di autospoliazione diviene allora chiaro come la figura mercenaria di
Don Giovanni sia fondamentalmente una figura dell’errare, e che fa
di questo errare tra i corpi e nei corpi un gioco perverso di coazione
a ripetere un tentativo di conquista che fa di ogni successo nient’altro
che una progressiva rinuncia al proprio desiderio.
Cosa succederebbe però se un bel giorno Don Giovanni decidesse
di farla finita? Se una sera tornando a casa decidesse di cavare la maschera, di deporre armi e trucchi e smettesse di essere un travestito?
Non ne resterebbe forse che un uomo? Ma è davvero un uomo ciò
che resta quando questi depone la maschera, non è la maschilità
Ibid.
IL DIVENIRE MOLTEPLICE DELLA DIFFERENZA
stessa un’altra maschera? E allora che cos’è un uomo? Un’entità
biologica, una verità culturale? Entrambe le cose insieme? O è forse
semplicemente l’universale neutro col quale il pensiero occidentale
ha poderosamente distrutto le differenze?
Ripercorrere queste domande a ritroso significa innanzitutto assumere una postura politica nei confronti della tradizione, assumere cioè
su di sé l’onere e l’onore della differenza. Com’è noto tale differenza
è stata rivendicata per la prima volta dal femminismo degli anni Settanta e dai movimenti gay o, per essere più precisi, «[dal]le lesbiche,
[dal]le checche effeminate e [dal]le travestite – le uniche [cioè] che
avevano bisogno di una rivoluzione per sopravvivere». Movimenti
politici quindi, ma prima ancora esseri umani che, lungi dall’essere
interessati alla mascolinità, ne avvertivano tutta l’oppressione sentendo quindi piuttosto il bisogno di disfarsene. Il fine era chiaro,
lottare contro tutto ciò che questa “mascolinità” rappresentava col
fine di creare nuovi spazi di espressione e quindi di riconoscimento
sociale. Un fine politico dunque, nato da un’esigenza esistenziale di
emancipazione rispetto a una tradizione maschilista e fallocentrica
che, imponendo una ferrea linea di demarcazione tra normale e anormale, tra normale e perverso, tra normale e mostruoso, li aveva posti
ai limiti dell’umano.
In questa lotta che vide una moltitudine eterogena di forme di vita
impegnarsi contro il proprio misconoscimento, la propria discriminazione e la propria patologizzazione, accadde ciò che generalmente
avviene quando si è in guerra: si ipostatizzò il nemico facendone una
sommaria panacea. Il canone occidentale e la sua tradizione vennero
ridotti a un monolite eterofallocentrico senza specificità e profondità,
a un ammasso di macerie che, crollando sull’uomo, lo intrappolarono
in una sorta di millenaria indifferenza. Era dunque arrivato il momento della differenza, una differenza tutta “al femminile” che non
prevedeva la possibilità di essere maschi in modo differente, e che
B. PRECIADO, Terrore anale, p. . Il testo di Beatriz Preciado compare per la prima
volta come prefazione all’edizione spagnola de Il desiderio omosessuale di Guy Hocquenghem,
rieditato in Spagna nel presso Melusiana col titolo Terror anal. Questa e le citazioni
a seguire sono tratte dall’unica traduzione italiana disponibile, peraltro reperibile online al
sito http://femminismo-a-sud.noblogs.org/files///TERRORE-ANALE-totale.pdf.
ANDREA NICOLINI
soprattutto, e in modo più grave e complicato, non prevedeva nemmeno la possibilità di essere differenti all’interno della differenza stessa.
Era iniziato un periodo molto complesso sia sul piano etico che sul
piano teoretico. Non sarebbe bastato ipostatizzare il nemico, bisognava trovare anche il modo di affermare se stessi, e per farlo occorreva
prima di tutto esistere politicamente.
Oltre che esistenziale, il problema era quindi chiaramente anche
politico e consisteva nella necessità di fare unità nella differenza, nel
rendere le differenze un po’ meno differenti tra loro in modo da creare
un fronte comune di resistenza e lotta. Con l’irrigidimento delle
frange più moderate del movimento rivoluzionario, che cercavano
il consenso per affermarsi politicamente, avvennero le prime discriminazioni di stampo identitario. Com’è noto, il partito comunista
escluse categoricamente la possibilità di avere qualcosa da spartire
col movimento omosessuale, mentre un femminismo con mire egemoniche, sostanzialmente
bianco eterosessuale e liberale (attraverso figure come Antoniette Fouque o Gisèle Halimi) si concentrò sulla lotta per i diritti riproduttivi della donna (aborto,
contraccettivi), escludendo dal discorso femminista dominante le lesbiche, i
travestiti, le lavoratrici sessuali e le donne migranti. [...] Le lesbiche vennero
così accantonate nella costruzione di un femminismo egemonico, i froci e le
travestite esclusi a loro volta da pratiche e discorsi di estrema sinistra che considerano l’“omosessualità” e le “droghe” sintomi di decadenza borghese.
Il processo che lentamente avrebbe condotto a una profonda
riflessione teoretica sulla questione delle differenze interne alla differenza stessa era ancora tutto da fare. Il pensiero della differenza
doveva ancora attraversare il proprio spettro identitario prima di
comprendere che la questione non era tanto la differenza sessuale,
Si ricorderà come il ottobre la federazione di Pordenone del Pci avesse
espulso Pier Paolo Pasolini con un provvedimento improvviso.
«M. Jupien, membre du Comité central [del partito comunista], déclare en mai
: “il ne faut pas confondre la drogue, la perversion sexuelle, ou le vol avec des actions
révolutionnaires”. Et il affirme dans un interview recueillie par Le Nouvel Observateur :
“La couverture de l’homosexualité ou de la drogue n’a jamais rien eu à voir avec le mouvement ouvrier [...] il n’y a d’ordre vrai que dans et par la démocratie”», G. HOCQUENGHEM,
Le désir homosexuel, Paris, Fayard, , p. .
PRECIADO, Terrore anale, cit., p. .
IL DIVENIRE MOLTEPLICE DELLA DIFFERENZA
ma la differenza in quanto tale. Erano però gli anni Settanta ed erano
anni di lotta, e quello che aveva acceso gli animi di tante persone trascinandole in strada, non era certo una fondata riflessione teoretica,
quanto piuttosto un’esigenza esistenziale che consisteva nella necessità
non più trascurabile di essere visibili, di avere agibilità politica e di
divenire soggetti di diritto.
Così, mossi dall’amore per la propria libertà, si cercò di affermare
la propria differenza, ma nel farlo si dovette cedere a strutture parziali,
reificate e reificanti che, sebbene fossero indispensabili sotto il profilo
politico, dicevano ben poco del soggetto che volevano rappresentare.
Per assurgere a questo livello di riconoscimento sociale, una moltitudine eterogenea di desideri e speranze, un flusso magmatico di
contraddizioni e paure e una crescente consapevolezza emancipatoria
dovevano in qualche modo convivere prima all’interno di una singola
persona e poi in un gruppo compatto di individui in grado poi, solo a
partire da quel momento, di rivendicare la propria differenza. Individui
tra i più disparati si trovarono così nella condizione di dover aderire
a un’identità stabile con la quale poter poi lottare assieme in quanto
soggetti politici. Solo a partire da questa presunta “identità” sarebbe
stato infatti possibile essere visti e accettati come soggetti politici in
grado di emanciparsi e reclamare diritti. L’affermazione della differenza stava dunque passando attraverso la surrettizia eliminazione di
quelle differenze che ne formavano da una parte l’essenza profonda,
dall’altra la più intima ricchezza.
Nel dichiararsi omosessuale un gruppo eterogeneo di persone
non stava infatti elaborando una qualche verità sul proprio desiderio, ma stava rielaborando assiologicamente una finzione storica che
condannandolo, perseguitandolo e medicalizzandolo, aveva costruito
tale gruppo. Riaffermando politicamente questa identità più o meno
fittizia, essi volevano creare quello spazio di autonomia politica che
potesse rappresentarli e quindi farli esistere socialmente al di là della
condanna, della persecuzione e della medicalizzazione iscritti nella
stessa identità omosessuale. Come scrive Preciado infatti
l’affermazione “sono omosessuale” non è un enunciato sovrano, bensì una citazione decontestualizzata dell’offesa. La parola “omosessuale”, lungi dall’avere
un valore ontologico, opera come un boomerang politico. L’enunciato “sono
omosessuale” non contiene alcuna verità sull’identità di chi parla, ma dice:
ANDREA NICOLINI
il soggetto che finora era stato costruito come abietto [...] eccede l’offesa, non
si lascia rinchiudere dalla violenza dei termini che lo costituiscono e parla,
creando un nuovo contesto di enunciazione e aprendo la possibilità a forme
future di legittimazione.
Nella lotta di emancipazione che passava dunque attraverso
l’assunzione di un’identità omosessuale non si affermava con questa
anche una verità sul proprio desiderio, ma al contrario ci si uniformava al taglio del tutto arbitrario che il politico stava praticando sul
fluire polimorfo di esistenze che non potevano in alcun modo essere
sussunte da quell’identità.
Il gioco delle maschere, che velano e disvelano i fugaci incontri
tra desideri e identità, fu dunque rallentato dal bisogno di certe esistenze concrete di essere viste, riconosciute e accettate come soggetti
politici. In questo necessario movimento politico si è dovuto fare
di desiderio e identità due oggetti stabili per poi farli combaciare.
La masquerade, cioè il movimento che ne svela la fuggevolezza e che fa
della seduzione il mezzo per comprendere le pieghe che compongono
lo scheletro nelle nostre passioni, è rimasta nella lotta politica forse
la cosa più evidente e tuttavia più nascosta. Se infatti da una parte
vi è stata l’esigenza di affermare se stessi per vivere pienamente il
proprio desiderio, dall’altra non si è fatto che perpetrare meccanismi
di dominazione che prendevano proprio la forma di un desiderio
definito. In altri termini, il desiderio, che come una scintilla aveva acceso la voglia di lottare per rivendicare la propria differenza, diventava
una trappola in grado di trincerarli all’interno di identità ereditate
dalla società che li aveva condannati, perseguitati, esclusi, e contro
la quale essi stavano lottando. Come scrive Mieli negli Elementi di
critica omosessuale:
la dura persecuzione dell’omosessualità ha indotto noi gay a vincolarci strettamente alla nostra identità di omosessuali: per difenderci, per affermarci,
dovevamo anzitutto saper esistere, saper essere omosessuali. Per questo il
movimento gay ha sempre particolarmente enfatizzato la tematica dell’identità
omosessuale. Nostro primo compito è stato quello di imparare a riconoscerci,
scoprirci e amarci per quello che siamo, di estirpare il senso di colpa che ci
avevano inculcato con la forza, per poterci porre in modo cosciente di fronte
Ivi, p. .
IL DIVENIRE MOLTEPLICE DELLA DIFFERENZA
alla vita, alla società, al mondo: ma una volta conseguita questa identità e vissuta
a fondo, è tempo di liberare le tendenze recondite del desiderio.
Era dunque necessario attendere che le contraddizioni interne
al movimento del pensiero della differenza esplodessero dando vita
a un’autoriflessione profonda. Bisognava infatti che il pensiero della
differenza attraversasse il proprio negativo reificato in quello spettro
identitario che la rivoluzione esigeva per creare uno spazio politico
in grado di garantire al pensiero di dischiudere la bellezza di una
differenza che, in quanto tale, non poteva, e non può, essere afferrata e ricondotta a identità. Bisognava in sostanza che, attraverso una
lotta lunga ed estenuante, si aprissero quegli spazi politici e sociali di
riflessione profonda che avrebbero in seguito portato alla nascita della
Queer Theory. Se infatti la Queer Theory poté nascere come contraccolpo teoretico alla contraddizione identitaria che il pensiero della
differenza covava in se stessa, era perché si erano aperti quegli spazi
politici identitari a partire dai quali era stata possibile una riflessione
della differenza su se stessa, era perché il movimento politico che
caratterizzò la rivoluzione sessuale degli anni Settanta aveva creato
una dimensione identitaria a partire dalla quale era possibile criticare
quella stessa identità. Bisognava, per dirlo con le parole di Nietzsche
passare attraverso «quella cecità e ingiustizia propria dell’anima di
chi agisce» poiché solo
colui che agisce [...] è sempre senza coscienza, così anche è senza scienza e,
dimenticando la maggior parte delle cose per farne una sola, è ingiusto verso
ciò che è dietro di lui, e conosce solo un diritto, il diritto di ciò che deve ora
divenire. [...] Chiunque agisca ama [infatti] la propria azione infinitamente
più che essa non meriti di essere amata: e le azioni migliori vengono compiute
in una tale esaltazione d’amore, che in ogni caso non possono non essere
immeritevoli di questo amore, quand’anche il loro valore sia per un verso
incalcolabilmente grande.
M. MIELI, Elementi di critica omosessuale, a cura di G. Rossi Barilli, P. Mieli,
Milano, Fetrinelli, , p. .
F. NIETZSCHE, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Milano, Adelphi, ,
p. .
Ivi, p. , corsivo mio.
ANDREA NICOLINI
In questo movimento storico, sebbene si sia dunque cercato di
codificare il desiderio per meglio comprenderlo e rivendicarlo attraverso un’identità, qualcosa come un anfratto di estraneità si sottraeva alla scena politica e insisteva nella sua differenza mettendo a repentaglio qualunque modello di identità codificata. Fu proprio a
partire da questa consapevolezza che pensatori straordinariamente
inattuali come Mario Mieli, Guy Hocquenghem e Monique Wittig
anticiparono gran parte delle riflessioni future che avrebbero caratterizzato la Queer Theory. Essi teorizzarono infatti a partire dalla propria
condizione, consapevoli però dello scarto che sempre riecheggia tra
questa stessa condizione, la sue identità e i suoi desideri. Le désir
homosexuel, così come Gli elementi di critica omosessuale e Le corps
lesbien s’inscrivono infatti sul crinale di un’aporia tra ciò che in certi
momenti si deve ottenere a costo di perdersi e la perdita che questo
stesso ottenere concede alle nostre illusioni; e cioè tra l’esigenza di
auto-affermazione come identità politiche, la necessità di rimuovere
quelle stesse identità in quanto inesistenti, e la seduzione che quelle
identità suscitano in un corpo che si ribella al proprio desiderio.
Se dunque è di omosessualità e lesbismo che si parla, non è solo per rivendicarne l’identità ma anche per mostrarne tutta l’inconsistenza.
«Noi rivendichiamo la nostra “femminilità”, la stessa che le donne rigettano, e
nello stesso tempo dichiariamo che questi ruoli non hanno alcun senso», Dov’è finito il
mio cromosomo?, in FHAR, Rapporto contro la normalità, Rimini, Guaraldi, , p. .
Il FHAR era il Front Homosexuel d’action révolutionnaire, nato «dalle ceneri omofobe e
lesbofobe del Maggio ’ e del movimento femminista. Aveva come obbiettivo rendere
visibile la dissidenza sessuale in seno all’estrema sinistra, ma anche politicizzare la sessualità
distanziandosi dal movimento Arcadie che faceva dell’omosessualità maschile una tendenza
naturale (spesso privata, segreta e vergognosa) di fronte alla quale il soggetto omosessuale
non ha opzioni, chiede solo di essere rispettato socialmente», PRECIADO, Terrore anale,
cit., p. .
«Desiderare il maschio etero soprattutto o esclusivamente significa sostenere chi
ci opprime e contribuire alla sua cristallizzazione in quei caratteri reazionari e sessualmente
eccitanti che storicamente lo contraddistinguono. [...] La contraddizione sta proprio nel
fatto che non si può negare tassativamente e al tempo stesso continuare a desiderarlo.
Né si può abolire volontaristicamente questa attrazione sessuale: così facendo, rischieremmo di soffocare noi stessi e il nostro immaginario, perché questo maschio è dentro di noi,
dal momento che lo desideriamo sessualmente. Non possiamo ucciderlo perché sennò
uccideremmo noi stessi», MIELI, Elementi di critica omosessuale, cit., p. .
IL DIVENIRE MOLTEPLICE DELLA DIFFERENZA
Come scrive Hocquenghem: «à la fois l’homosexualité n’existe
pas et elle existe : c’est son mode même d’existence qui remet en
question la certitude de l’existence». Il desiderio omosessuale (così
come il corpo lesbico) si pone quasi per negarsi divenendo dunque
una metodologia di decostruzione attraverso cui un’identità, rivelando
l’inconsistenza di se stessa, intacca per contraccolpo quelle strutture
che l’hanno prodotta come margine e negativo di se stesse. Attraverso
questo procedimento si scopre infatti che
il n’y a pas de subdivision du désir entre homosexualité et hétérosexualité.
Il n’y a pas plus au sens propre de désir homosexuel que de désir hétérosexuel. Le désir émerge sous une forme multiple, dont les composantes ne
sont séparables qu’a posteriori, en fonction des manipulations que nous lui
faisons subir. Tout comme le désir hétérosexuel, le désir homosexuel est un
découpage arbitraire dans un flux ininterrompu et polyvoque.
Il desiderio omosessuale, così come quello eterosessuale, non è
infatti altro che una finzione culturale e quindi politica, un taglio arbitrario imposto al flusso indeterminato che rappresenta la specificità
erotica di ogni singolo essere vivente. Attraverso questa critica
ci si approssima ad identificare per la prima volta il curioso statuto metafisico
delle entità biopolitiche: l’omosessualità e l’eterosessualità (come la razza o
la purezza di sangue) non sono né vere né false, occupano lo spazio delle
macchine sociali, sono costruzioni storiche, finzioni somatiche, invenzioni
politiche che prendono la forma di corpi, la consistenza della vita.
Come aveva spiegato Deleuze, la differenza fondamentale tra
omosessualità ed eterosessualità non consiste tanto in un differente
orientamento sessuale, ma nel fatto che gli omosessuali
attraverso la loro omosessualità, hanno saputo mettere in questione il problema stesso della differenza tra i sessi. E tramite questa rimessa in questione,
diventare capaci, in quanto marginali, di porre, di incaricarsi del problema
del desiderio sessuale nel suo insieme.
HOCQUENGHEM, Le désir homosexuel, cit., p. .
Ivi, p. .
PRECIADO, Terrore anale, cit., p. .
G. DELEUZE, Psicanalisi e politica, Milano, Feltrinelli, , p. .
ANDREA NICOLINI
L’eccezionalità dell’omosessualità non consiste infatti in un differente orientamento sessuale rispetto all’eterosessualità, ma nel superamento stesso dell’orientamento sessuale, nell’apertura cioè alla
differenza in quanto tale. L’omosessualità rielaborata in questi termini
si mostra infatti come «la pente vers la trans-sexualité par la disparition
des objets et des sujets, le glissement vers la découvert qu’en sexe,
tout communique». Affermare l’omosessualità diviene dunque non
soltanto una rivendicazione politico-identitaria ma anche un metodo
schizoanalitico a partire dal quale è possibile divenire molteplici,
scoprendo quindi che gli esseri umani sono «eterosessuali statisticamente e moralmente, ma omosessuali personalmente, senza saperlo o
sapendolo, e infine transessuati elementarmente, molecolarmente»,
e che per questo motivo il binarismo tra uomo e donna, gay ed etero,
attivo e passivo non ha alcun senso.
Attraverso queste elaborazioni teoretiche che oggi prendono
il nome di Queer Theory emerge dunque chiaramente come ci sia
sempre una sorta di differenza esistenziale che si sottrae alle categorie del politico e che purtuttavia nella sua insistenza spinge gli
esseri umani ad affacciarsi sulla scena politica per reclamare qualcosa che non può che mentire a ogni reificazione; e allora termini
come “desiderio omosessuale” e “corpo lesbico” non possono che
funzionare come elementi di una critica che ne rivela da una parte la
funzionalità politica e dall’altra l’inesistenza reale. A contatto con la
vita vera delle persone questi non possono che dissolversi, lasciando
emergere come in realtà non fossero che variabili metasintattiche,
occasioni, menzogne, maschere. Essere omosessuali significa allora
giocare con quelle stesse maschere identitarie frutto di increspature
che raccolgono sedimentazioni storiche, per divenire molteplici, per
HOCQUENGHEM, Le désir homosexuel, cit., p. .
Cfr. G. DELEUZE, F. GUATTARI, L’anti-Edipo, Capitalismo e schizofrenia, Torino,
Einaudi, ,
Ivi, p. .
Interessante notare come recenti studi dimostrino le intuizioni di Deleuze e
Guattari: «Risultati di test scientifici rivelano che, a livello cerebrale, il sesso è un continuum, che va da attributi “maschili” a caratteristiche molto “femminili”. Su questa base
si dovrebbe dire che il sesso cerebrale è analogico (continuo), non binario (o/o) maschile
o femminile», M. ROTHBLATT, L’Apartheid del sesso, Milano, Il Saggiatore, , p. .
IL DIVENIRE MOLTEPLICE DELLA DIFFERENZA
dischiudere al proprio corpo una polivocità di dimensioni erotiche
intersessuali, pansessuali e transessuali. Significa in definitiva fare
dei margini concavi coi quali siamo stati imprigionati all’interno di
identità fisse, il convesso di un’esperienza enorme, nuova e schizofrenica e purtuttavia unica.
Ma come vivere, al di là di una rivendicazione identitaria, la propria specificità erotica facendone un mezzo per affermare un’universalità anti-identitaria e ciononostante situata nell’esperienza concreta
della carne che la suscita?
Come si passa in effetti dalla riappropriazione di un’esperienza (“solo gli
omosessuali hanno il diritto di parlare degli omosessuali”) all’orizzonte di
una pretesa più vasta: quella di una gaia scienza, di una scienza gay, forte del
gaio sapere nietzschiano e, attraverso di esso, di un’universalità critica della
vita gay? Perché, per via di risonanza nietzscheana, è proprio di questo che si
tratta: la vita che diventa scienza di se stessa, contro i saperi dominanti.
«L’omosessualità contiene, talora nasconde un mistero. Dire che questo mistero
è l’uomo-donna, purtroppo non basta né a descriverlo né a comprenderlo. Il nostro profondo è, per quel che ne sappiamo e per quel che ne intuiamo, ben più che bi-sessuale.
E il mondo-della-vita è il tonal e il nagual: al di là della totalità, vi è tutto il resto [...]
Forse l’omosessualità è davvero la chiave della transessualità», MIELI, Elementi di critica
omosessuale, cit., p. .
«So che tendo a generalizzare una mia esperienza che, in seguito a varie peripezie,
mi portò in cliniche per “malattie mentali” due anni fa. Certo, generalizzare è sbagliato:
eppure io sento di aver vissuto situazioni la cui verità, pur nel particolare, reca in sé qualcosa
di universale. E quanto so, ormai, esorbita da ciò che viene “normalmente” considerato
esperibile e generalizzabile. Il grave problema, per me, è stato sostenere, a posteriori,
la realtà di quanto avevo vissuto, da tutti (o quasi) confutata, come fosse frutto di vane
allucinazioni, mentre – in effetti – ogni avvenimento mi si era presentato pienamente
evidente, a volte limpido e sempre, comunque, irresistibile. Se la vita nella “società dello
spettacolo” è una messinscena, ebbene allora io mi ero rifiutato di recitare; avevo così
scoperto le risorse straordinarie dell’esistenza, la ricchezza di cui questa assurda costrizione sociale ci impedisce di godere naturalmente. Oggi, purtroppo, sono dovuto tornare
in parte alla recita, a quell’ipocrisia “normale” che permette di circolare “liberamente”:
se questo libro [Gli elementi di critica omosessuale] val poco, ciò dipende in primo luogo
da quella falsità che, se riprodotta per necessità nella vita quotidiana, difficilmente può
essere evitata scrivendo. Comunque, come dice un amico, l’importante è andare avanti e
non tirare avanti: nel mio caso, si tratta di procedere coerentemente con la “follia”, con
quanto, una volta svelato, non si dimentica e impone di vivere per il meglio», ivi, p. .
C. REBANT, Un clamore sospeso tra la vita e la morte, in appendice a MIELI, Elementi
di critica omosessuale, cit., p. .
ANDREA NICOLINI
Nessuna risposta sinora ha fatto più che limare i contorni di questa stessa domanda che da sempre ossessiona la filosofia; e così noi,
come altri, restiamo prigionieri dello scarto che separa l’identità dalla
differenza, consci come Don Giovanni di non poter far granché senza
quelle maschere che ci permettono di oscillare incessantemente tra
l’una e l’altra seguendo così il flusso della vita; ma se «in questo oscillare tra conquista e rinuncia di sé, tra metamorfosi e privazione [...],
Don Giovanni è diventato la maschera del mondo moderno» non
è tanto perché, come dice Pontiggia, «la maschera sia la sua essenza
segreta», ma perché noi con lui apparteniamo a questa messa in
scena che è la nostra esistenza, un’esistenza che in quanto tale, reclama incessantemente insieme alla fuggevolezza dell’esistere anche la
pesantezza del morire.
Resta dunque l’aporia e se la prospettiva queer sembra divenuta essenziale a una
teoria generale della sessualità è proprio perché essa cerca di dar voce a questo presupposto
non esplicitato che soggiace alla lotta per la differenza.
PONTIGGIA, Il giardino delle Esperidi, cit., p. .
Ibid.