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Giuseppe Colizzi è stato un personaggio decisivo per le sorti dell'Università degli Studi di Perugia nella prima metà del secolo XIX. Era un barnabita di origine romana, scienziato (chimico per la precisione), giurista, docente appassionato e ottimo amministratore. Quest'uomo dedicò gran parte della propria vita alla cura dello Studio perugino, soprattutto durante il periodo napoleonico (1809-1814), quando ne fu nominato Ispettore e, con grande tenacia ed abilità, riuscì a ottenere lo stabile di Monte Morcino, appartenente ai monaci olivetani prima della soppressione, che è tutt'oggi la sede del Rettorato dell'Università. In aggiunta fu lui a proporre e far accettare una riorganizzazione degli studi, che si mantenne praticamente integra fino alla riforma di Leone XII del 1824. È importante iniziare, ai fini della comprensione dell'ambiente e del movimento culturale in cui il Colizzi si trovò ad operare per gran parte della sua vita, con un piccolo excursus sulla storia dell'Ateneo, soffermandosi soprattutto sugli eventi legati al biennio della Repubblica Romana (1798-1799).
Bologna, BUP, 2015
Intrecci virtuosi. Letterati, artisti e accademie tra Cinque e Seicento, a cura di C. Chiummo, A. Geremicca e P. Tosini, De Luca: Roma, 2017
Giornale Critico della Filosofia Italiana , 2023
The inquiry adds a new element to the knowledge of Gramsci as a student of the University of Turin and traces in Magnaghi's Geography lectures held in the a.y. 1911-1912 the hitherto unknown origin of a judgment of columnist Gramsci on the method of natural sciences. The second part of the contribution follows the evolution of this judgment on science in the Prison Notebooks through the application of the new diachronic method inaugurated by the work of the National Edition of the Writings of Antonio Gramsci. =-=-=-=-= L’indagine aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza del Gramsci studente all’Università di Torino e rintraccia nelle lezioni di Geografia di Magnaghi tenute nell’a.a. 1911-1912 l’origine, fino ad ora ignota, di un giudizio del Gramsci articolista sul metodo delle scienze naturali. Nella seconda parte del contributo viene seguita l’evoluzione di questo giudizio sulla scienza nei Quaderni del carcere applicando il nuovo metodo diacronico inaugurato dai lavori dell’Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci.
Il Direttore ricorda che la convenzione stipulata tra il nostro dipartimento e il comune dell'Aquila a settembre 2016, prevede all'art. 4 la possibilità di conferire borse di studio post laurea esenti.
Storicamente, 2023
Cosimo De Giorgi. Un cantiere per la memoria, 2018
There are several studies on the contribution that Cosimo De Giorgi made to many disciplines such as Meteorology, Seismology, Archeology and Medicine. However, little is known about his school and university background, thanks to which he became a nationally renowned scientist. The purpose of this research is to investigate, through published and unpublished documents, De Giorgi as a student and how he was influenced by his experience in Lecce first and then in Pisa and Florence.
Firenze, Polistampa, 2013 (Biblioteca della «Miscellanea Storica della Valdelsa», 25)
2013 COMITATO SCIENTIFICO MARIO ASCHERI DUCCIO BALESTRACCI MARIO CACIAGLI PAOLO CAMMAROSANO FRANCO CARDINI GIOVANNI CHERUBINI GIOVANNI CIPRIANI ZEFFIRO CIUFFOLETTI ITALO MORETTI STEFANO MOSCADELLI PAOLO NARDI CARLO PAZZAGLI GIULIANO PINTO MAURO RONZANI FRANCESCO SALVESTRINI SIMONETTA SOLDANI © 2013 SOCIETÀ STORICA DELLA VALDELSA Via Tilli, 41 -50051 Castelfiorentino -Tel. 0571 686400 info@storicavaldelsa.itwww.storicavaldelsa.it © 2013 EDIZIONI POLISTAMPA Via Livorno, 8/32 -50142 Firenze Tel. 055 737871 (15 linee) info@polistampa.com -www.leonardolibri.com www.polistampa.com
Foro italiano, 2022
nota redazionale a Cass. 7 ottobre 2021, n. 27227, con la quale è stata ribadita la validità delle opzioni parasociali di put&call a prezzo predefinito
2012
Parallelo tra l'evoluzione dello Studio e la formazione dell'archivio.
Non è stato facile ricostruire la vita di Giuseppe Colizzi prima del suo arrivo nella città di Perugia. Per qualche notizia biografica possiamo ricorrere all'elogio funebre stilato e poi pronunciato al funerale dal prof. Nazareno Calderini 12 e a due brevi biografie ottocentesche 13 . La ricerca nell'Archivio di Stato di Perugia del suo testamento, ricordato in molti documenti come traccia capace di indicare un percorso di vita e soprattutto un percorso intellettuale utile a capire il personaggio in tutte le sue sfaccettature, non ha dato risultati 14 . Per questo motivo i dati disponibili inizialmente per poter ricostruire la vita di Colizzi prima della sua venuta a Perugia non solo erano pochi, ma per la maggior parte anche poco affidabili. Grazie al prezioso aiuto di padre Giuseppe Cagni, studioso barnabita autore di molti lavori, tra cui uno sui Barnabiti a Perugia, nonché curatore dell'archivio storico del suo Ordine in Roma, è stato possibile reperire alcuni documenti molto importanti ai fini della ricerca, in quanto testimoniano soprattutto gli spostamenti e gli insegnamenti che il Colizzi ha tenuto in varie città d'Italia. Altra acquisizione importante sono state le opere scritte in età giovanile, rintracciate sempre a Roma, nella biblioteca del Centro Studi Storici dei Barnabiti. Giuseppe Colizzi nacque a Roma il 22 novembre 1763. Dei genitori si hanno poche notizie certe. Suo padre, che si chiamava Bernardino, probabilmente era di estrazione borghese, e la sua fortuna era stata quella di aver sposato una esponente della famiglia Santini, proprietaria di una famosa casa di importazioni d'olio. Si Secondo lo storico, Vincenzo Colizzi non diede alcun apporto politico alla Repubblica, perché non era nella sua indole, ma cercò di essere utile nel campo tecnico, a lui più consono. Comunque fu protagonista di due fatti abbastanza importanti durante il biennio repubblicano. Il primo riguarda la fondazione il 28 maggio 1798 della "Società di Agricoltura, Commercio ed Arti", di cui non solo scrisse le regole, ma fu anche nominato Segretario perpetuo 16 ; il secondo riguarda l'incarico di Amministratore generale delle sussistenze (ottenuto il 30 aprile 1799 grazie anche ai suoi legami con il famoso banchiere Torlonia), il cui compito era quello di occuparsi degli approvvigionamenti di Roma e delle truppe francesi nel territorio repubblicano, impiego che tenne fino al maggio del 1799. Subito dopo la caduta della Repubblica, Vincenzo Colizzi non fu perseguito dal governo pontificio, anzi a causa di una crisi economica molto grave fu impiegato in posti di rilievo. Infatti, nel 1801 fu incaricato come prima cosa di rivedere i saggi delle monete romane e di salvare la fabbrica di salnitro situata a Roma. Il lavoro più importante lo ricevette, tuttavia, subito dopo, quando gli fu affidato il compito di dirigere la manifattura camerale delle Terme di Diocleziano, che grazie al suo lavoro fu rimessa a nuovo. Con il ritorno dei francesi, però, Vincenzo Colizzi riuscì ad avere un riconoscimento formale delle sue capacità. Fu nominato Ispettore Generale delle Arti e delle Manifatture dei dipartimenti romani. Purtroppo, per il lavoro che svolgeva, la sua paga era misera -e se ne lamentava anche lui -ma «si dedicò con il massimo entusiasmo al nuovo ufficio, esplicando una attività veramente eccezionale e che andava ben oltre le sue mansioni ufficiali» 17 . Si occupò, oltre che di manifatture e arti, anche di agricoltura -in particolare dell'introduzione e dell'incremento della coltura del cotone, del sumacco e di alcune "colture esotiche" come lo zafferano -e divenne il braccio destro sia di De Tournon, il Prefetto di Roma, che di De Gerando. In più, sempre nello stesso periodo, entrò a far parte della Camera di Commercio di Roma e fu nominato di nuovo Segretario perpetuo della Società Romana d'Agricoltura e Manifatture, rimessa in piedi appositamente per lui. Essendo un personaggio molto influente nell'ambito economico dei dipartimenti romani, nel 1811 fece un viaggio in Francia, il quale, secondo ciò che riporta De Felice, sarebbe dovuto durare solo tre mesi ma che in realtà ne durò dieci, per comprendere il funzionamento delle manifatture e dell'agricoltura nella "madre patria", visitando tutte le maggiori località industriali. Studiò a fondo il modo per attuare le innovazioni francesi anche nei territori romani, ma, ad un passo dalla realizzazione del suo progetto di modernizzazione industriale del territorio romano, il nuovo governo preferì stanziare fondi per l'agricoltura piuttosto che per l'industria tessile tanto voluta dal Colizzi. Il colpo fu molto duro da accettare e il 25 novembre 1811 morì improvvisamente «tra il cordoglio di quanti lo avevano conosciuto e avevano lavorato con lui» 18 .
Un altro personaggio della famiglia Colizzi di cui si ha qualche notizia è lo zio paterno, il cui nome scelto come barnabita era quello di Alessandro Maria 19 Fu un personaggio di spicco all'interno dei Barnabiti, infatti riuscì a realizzare una brillante carriera ricoprendo nel corso del tempo molte cariche prestigiose. Di sicuro dal gennaio del 1763 fungeva già da superiore e maestro dei novizi nel Collegio di Zagarolo, carica alla quale venne confermato nel maggio del 1764 21 . Esattamente un anno più tardi venne eletto Superiore del collegio di Spoleto e nel novembre del 1785 fu nominato tra i Confessori della comunità 22 . Diversamente dal nipote, egli non si distinse come uomo di cultura -non ci è pervenuta nessuna sua opera scritta -loro qualche anno prima del bienno rivoluzionario, durante alcuni suoi studi proprio sulle epigrafi latine. In una lettera datata 8 aprile 1790 il rappresentante della famiglia, tale Giacinto Colizzi, scrive a Luigi Vespasiani, personaggio che faceva da tramite tra i Colizzi e il Mariotti: «In raguaglio all'Abate Colizzi di Roma le dico esser questi mio tio (sic!) cugino discendente da "Livio" Colizzi, fratello carnale di Giacinto Colizzi mio autore; non mi è riuscito nuovo che la nostra casa sia ascritta da due secoli alla nobiltà di Perugia, ma vi dirò esser la medesima ascritta da due secoli alla cittadinanza romana e godere sino dal 1500 l'onore della Comenda di Santo Stefano» 31 .
Questa lettera farebbe pensare che i Colizzi residenti in Umbria e quelli romani non fossero semplicemente degli omonimi e l'abate, di cui parla Giacinto Colizzi nella missiva, potrebbe essere sia Alessandro Maria, più maturo e già affermato all'interno dell'ordine, sia lo stesso Giuseppe, dato che all'epoca aveva terminato gli studi e si apprestava a lasciare la capitale per andare ad insegnare al Collegio de' Nobili di Torino. Comunque l'importanza di questo documento sta nel fatto che la presenza di una famiglia Colizzi in Umbria, imparentata con quella romana, potrebbe essere all'origine dei contatti fra Giuseppe Colizzi (all'epoca della Repubblica romana a Macerata perciò non molto distante da Perugia) e i rivoluzionari, soprattutto Annibale Mariotti. Da non sottovalutare, infine, un possibile ruolo del fratello Vincenzo, il quale, durante la Repubblica Giacobina ricoprì incarichi amministrativi importanti a Roma, e che quindi potrebbe aver dato un suggerimento ai riformatori perugini.
Stabilito che Colizzi giunse a Perugia nel 1799 non si sa però quale sia stata la sua attività in quei mesi. Non si sa neanche quante lezioni riuscì a tenere nello Studio, in quanto nell'estate del '99 la Repubblica cadde e certamente il governo provvisorio dello Stato Pontificio appena restaurato non dovette confermargli la cattedra. Nel 1802, Colizzi ricompare improvvisamente nei registri del Collegio di S. Paolo a Macerata, come Procuratore e a questa carica fu riconfermato nell'aprile del 1807 («Eadem die dat litteras patentes electionis Patris D. Josephi Colizzi in Procuratorem Collegij S. Pauli Maceratae») 32 . Nel periodo in esame si è identificato un solo documento testimoniante la sua vita intellettuale e di docente, ovvero l'autorizzazione del Padre Generale alla pubblicazione, nel maggio del 1803, dell'opera di Colizzi intitolata Trattato Fisico Chimico dell'arte di analizzare le acque minerali e di imitarle 33 : più difficile reperire informazioni sul tipo di educazione che potrebbe aver ricevuto. È possibile che la formazione di base Colizzi l'abbia avuta nel collegio romano dell'ordine, ma come possa essere entrato in contatto con le correnti filosofiche dell'empirismo e del sensismo, in particolare, non è dato saperlo con certezza. È necessario, perciò, avanzare delle ipotesi basandosi da una parte sulla diffusione in Italia di queste correnti filosofiche e dall'altra sul tipo di educazione che veniva impartita nei collegi barnabitici nella seconda metà del XVIII secolo.
Nell'introduzione all'opuscoletto intitolato Agli egregi giovani che frequentano le scuole dell'Università di Perugia questo saggio che porta il titolo di esposizione della dottrina sensistica nella sua nativa purezza e semplicità, Colizzi esprime con chiarezza quali siano i suoi punti di riferimento a livello filosofico:
«Dichiararsi nelle Scienze Ideologiche e Metafisiche seguaci di Locke e di Condillac, che è quanto dire la dottrina la più semplice e naturale, quale è quella del Sensismo, è lo stesso, secondo l'opinione di una gran parte de' moderni Ideologi e Metafisici, che dichiararsi fautore di una Dottrina denigrante la sostanza in noi più nobile, di una dottrina conducente irreparabilmente al Materialismo, e Panteismo. In conseguenza di questa maniera di ragionare vengon essi a dare una simil taccia a più e più insigni Filosofi del secolo trascorso; e in generale a chiunque ne' suoi scritti dia a divedere di professare il Sensismo. Essendo io nel loro novero; ed avendolo di più insegnato, allorché in questa illustre Università copriva la Cattedra di Diritto Naturale e Sociale, mi credo in dovere di ribattere queste imputazioni» 39 . Bisogna dire che questo saggio fu pubblicato dal Colizzi nel 1845, ovvero un anno prima di morire; ma è anche irragionevole credere che il suo pensiero sia cambiato durante la vecchiaia; e soprattutto, la citazione diretta di Locke testimonia una vicinanza metodologica al filosofo inglese che impronta anche le altre opere del nostro, senza dimenticare l'altro autore che ha influenzato la produzione del nostro allo stesso modo, ovvero Condillac 40 . A questo punto è lecito chiedersi che tipo di divulgazione ebbero in Italia l'empirismo lockiano e il sensismo di Condillac 41 , anche per capire come Colizzi sia potuto entrarvi in contatto. Queste dottrine ebbero una discre-to egli avesse potuto trarre dall'insegnamento gerdiliano, pur di fatto discostandosene. Nonostante la critica al sensismo lockiano, Gerdil ne apprezzava l'uso dell'esperienza come criterio discriminante per decidere della verità o falsità di una proposizione 52 . Ciò era dovuto anche all'influsso esercitato sul Gerdil dalle nuove scoperte e dalla sua propensione alla scienza. Fu sempre molto vigile e attento alle innovazioni che in quegli anni venivano fatte in fisica. Cercò, però, di non ricongiungere mai la filosofia cartesiana con il pensiero di Galileo, come spesso veniva fatto, ed anzi, quasi sicuramente Gerdil subì l'influsso della corrente sperimentalista baconiana presente nel Piemonte del XVIII secolo 53 . L'amore per la scienza, sviluppato e approfondito durante il periodo di formazione giovanile a Bologna grazie a maestri come Francesco Maria Zanotti e i fratelli Manfredi che lo introdussero allo studio della matematica e della fisica newtoniana, lo portò a scrivere numerose opere di fisica e geometria 54 , e la sua competenza in materia fece sì che alcune delle più prestigiose accademie scientifiche italiane lo volessero come socio 55 .
Tornando ora al Colizzi, possiamo ipotizzare che, in quanto barnabita e avendo insegnato in due città dove il cardinale Gerdil aveva lasciato un segno indelebile, ovvero Torino e Macerata, lo conoscesse bene come filosofo e sicuramente ne avesse letto le opere. Quest'ipotesi trova conferma anche nelle già citate biografie ottocentesche dedicate al Colizzi e nell'elogio funebre del Calderini 56 . Dal punto di vista filosofico, Colizzi avrebbe po-tuto apprezzare delle opere del Gerdil soprattutto l'importanza data al ricorso all'esperienza nella formulazione di un giudizio (unica parte del pensiero lockiano apprezzata da Gerdil), nonché il suo interesse per la scienza e per il nuovo metodo scientifico. Non si può neppure escludere che il Colizzi abbia letto le opere di Locke negli stessi esemplari presenti nella biblioteca del Collegio barnabitico di Macerata, dove il Gerdil aveva lavorato nei mesi in cui preparava L'immatérialité e la Défense 57 . Insomma, per Colizzi, Gerdil potrebbe essere stato un tramite, seppur involontario, di avvicinamento al sensismo.
Tuttavia le scelte più schiettamente illuministiche del Colizzi non erano del tutto inedite tra i Barnabiti. Il più noto esponente dell'Ordine che compì scelte di stampo illuministico fu Paolo Frisi. Nato a Melegnano, pur avendo studiato lettere, filosofia e teologia, per sua viva inclinazione si dedicò alla matematica, alla cosmografia fisica, all'idraulica, in cui presto si distinse nel campo dell'insegnamento universitario 58 . Scrisse molte opere di fisica, tra le quali va ricordata la Disquisitio mathematica in caussam physicam figurae et magnitudinis telluris nostrae, edita nel 1751, non solo per il successo conseguito negli ambienti scientifici contemporanei, ma anche per la storia della sua pubblicazione che portò il Frisi ad uno scontro con l'Ordine dei Barnabiti 59 . Comunque la gran parte delle sue dissertazioni ri- 22 Letizia Giovagnoni [16] ---- 57 CAGNI, I Barnabiti a Macerata cit., p. 210. 58 Su Paolo Frisi si veda U. BALDINI, Paolo Frisi, in Dizionario Biografico cit., vol. 50, pp. 558-568 e Ideologia e scienza nell'opera di Paolo Frisi (1728-1784), a cura di G. Barbarisi, Milano, Franco Angeli, 1987, voll. I-II. Il Frisi, compiuto il noviziato a Milano, fu mandato a studiare teologia all'Università di Pavia. Qui però preferì studiare algebra e geometria col confratello Giampiero Besozzi, sostenitore delle teorie newtoniane e fautore di una maggiore apertura dei barnabiti agli studi scientifici. Angelo Bianchi sottolinea come quest'incontro risultò fondamentale per un Frisi che provava per gli studi ecclesiastici una certa avversione: « Grazie alla vicinanza di questo barnabita scienziato, Paolo Frisi potè assecondare le proprie inclinazioni, trascurando d'altro canto gli studi teologici e le materie religiose, per le quali, in verità, manifestò sempre, anche in seguito, una certa freddezza, se non una vera e propria avversione» (BIANCHI, L'istruzione secondaria cit., p. 144). 59 Appena ventiduenne e non ancora sacerdote, ma già docente di filosofia nel collegio di Lodi, Frisi, nel 1750, cominciò la stesura della Disquisitio, dove si schierò apertamente a sostegno delle tesi newtoniane. Il problema affrontato era quello della forma della terra e dello schiacciamento ai poli. Il successo della Disquisitio fu notevole non solo in Italia, ma non ottenne lo stesso buon esito tra i suoi confratelli. Infatti i Padri Superiori negarono l'autorizzazione alla pubblicazione, adducendo motivi di incompletezza dovuti alla giovane età del Frisi. In realtà, come sottolinea Bianchi, la ragione di questo rifiuto era un'altra: «Ciò che aveva messo in sospetto i superiori della Congregazione era […] il fatto che Frisi affrontava i problemi scientifici secondo le nuove teorie newtoniane manifestando adesione esplicita, senza usare quella cautela ritenuta allora necessaria soprattutto in chi aveva responsabilità didattiche dirette. Più che ad atteggiamenti preconcetti e retrivi, è possibile che questo dissidio dovesse essere attribuito ad uno scontro generazionale, che, all'interno dell'Ordine, avveniva tra docenti anziani, legati all'impostazione didattica tradizionale, e una nuova schiera di docenti, decisi ad innovare l'insegnamento in senso moderno e sperimentale» (BIANCHI, L'istruzione secondaria cit., pp. [149][150]. Nonostante tutto ciò, Frisi riuscì comunque a pubblicare la Disquisitio nel 1751 a Milano, grazie all'aiuto del conte Donato Silva, cui dedicò l'opuscolo. Nel frattempo fu trasferito a Casale Monferrato, come Cartesio e a Newton, senza essersi soffermati abbastanza sul grande italiano» 64 . Il Frisi, però, in questa critica non era mosso da un campanilismo patriottico, in quanto egli era la tipica incarnazione del cosmopolitismo scientifico del Settecento, ma voleva semplicemente riaffermare la centralità della figura di Galileo, ovvero quella di un intellettuale e scienziato a tutto tondo che aveva avuto il merito di cancellare gli errori di quella che egli stesso chiama "antica scuola" 65 . L'intento del Frisi di riabilitare lo scienziato toscano agli occhi degli autori dell'Encyclopédie, che lo avevano escluso, fu raggiunto con successo. Infatti in Francia, il Saggio fu tradotto nel 1767 e, dieci anni più tardi, fu inserito nel terzo Supplément dell'Encyclopédie, come riparazione alla lacuna di cui D'Alembert si era reso colpevole.
Figure 1728
Il personaggio del Frisi sembra, quindi, anticipare l'itinerario di Colizzi, sia per l'impegno nelle materie scientifiche, sia per l'adesione alle correnti filosofiche legate all'Illuminismo. E ciò potrebbe far riflettere sul fatto che i Barnabiti appaiono come un Ordine molto particolare: ovviamente tradizionalista sotto molti aspetti; tuttavia la mancanza di una precisa scuola teologica e filosofica 66 e di un metodo pedagogico specifico 67 , come 24 Letizia Giovagnoni [18] ---- 64 VENTURI, Settecento riformatore cit., p. 734 65 Paolo Casini critica il modo in cui il Barnabita lombardo ha impostato l'opera, ma, allo stesso tempo, sottolinea il fatto che, nonostante tutto, ottenne l'effetto sperato: «Il Saggio […] ha il taglio di uno scritto d'occasione; è un abbozzo frammentario, in cui prevale il tono della rettifica, della riabilitazione, della rivendicazione delle priorità. I dati di copiose letture sono affastellati in modo un po' frettoloso. Manca una nitida trama narrativa; ma è ben posto in rilievo il debito che i cultori delle varie discipline esatte post-galileiane hanno contratto nei confronti del loro pioniere» (CASINI, Frisi tra Illuminismo e Rivoluzione scientifica, in Ideologia e scienza cit., vol. I, p. 25). 66 Dal punto di vista teologico i Barnabiti si limitarono ad indicare la dottrina di San Paolo come unica da seguire, con una preferenza per San Francesco di Sales, «il grande amico dei Barnabiti che nelle sue Lettere ce ne ha lasciato il più lusinghiero e autorevole elogio» (V. COLGIAGO, I Barnabiti, in Ordini e Congregazioni religiose, a cura di M. Escobar, Società Editrice Internazionale, Torino-Milano-Genova-Parma-Roma-Catania, 1951, vol. I, p. 643). Invece per quanto riguarda la filosofia, si ispirarono a San Tommaso nel modo in cui è previsto nelle Costituzioni del 1579 (ivi, p. 644). 67 I Chierici Regolari di San Paolo redassero una propria Ratio studiorum solo nel 1655, a seguito dell'istituzione delle prime scuole dell'Ordine. Si trattava di un testo molto simile a quello dei Gesuiti, dove venivano elencate le regole da seguire da parte di tutte le persone coinvolte nella gestione di una scuola, dal Prefetto agli studi fino agli alunni. Secondo Rocco Pititto: «Educatori per caso e loro malgrado, i Barnabiti non ebbero una scuola pedagogica propria fortemente caratterizzata e non cercarono neppure di averla. […] Questo non significa che non avessero un loro modello educativo specifico da proporre e realizzare. Era, il loro, un modello fatto di saggezza e di lungimiranza e, soprattutto, di buon senso e di amor di Dio.
[…] La consapevolezza della complessità dell'attività educativa portava i Barnabiti ad una maggiore attenzione nella definizione degli obiettivi e nella scelta dei metodi educativi più idonei» (PITITTO, Teorie pedagogiche cit., p. 95). Dello stesso parere è anche Giuseppina Francescaglia-Valentini: «Non esiste un metodo barnabitico di educazione, come sembra l'abbiano i Gesuiti, i Fratelli delle Scuole Cristiane, i Salesiani e altri ordini: non vi è una precisa Ratio Studiorum barnabitica; pur tuttavia i Barnabiti rivendicarono una loro speciale forma, un metodo di educare tutto proprio, che costituisce la loro tra-quello dei Gesuiti, potrebbe aver favorito la nascita, al suo interno, di personalità molto aperte nei riguardi dei nuovi metodi scientifici e delle nuove idee filosofiche in circolazione nel XVIII secolo, come appunto Frisi e Colizzi. Sin dall'inaugurazione delle prime scuole pubbliche agli inizi del XVII secolo 68 , infatti, pur privilegiando l'educazione umanistica, i Barnabiti prestarono particolare cura anche alle materie scientifiche, soprattutto per quanto riguardava la filosofia naturale, la quale, allora, si manteneva entro gli schemi dell'epistemologia e dell'enciclopedia scientifica aristotelica. P. Filippo Lovison, in uno studio sulle scuole barnabitiche durante l'età dei Lumi, asserisce: «La scuola barnabitica in genere, inizialmente a indirizzo umanistico, ebbe la capacità di adeguarsi prontamente alle mutate esigenze dei tempi, e l'attenzione per la scienza susseguì lungo tutto l'arco della sua plurisecolare attività: nel Seicento con l'applicazione del metodo sperimentale; nel Settecento con uno spiccato orientamento scientifico di stampo cartesiano, al punto che le opere di Copernico, come quelle di Newton, si trovano in bella vista nella Biblioteca della Casa madre di San Barnaba, a Milano […]. I Barnabiti non si fermarono innanzi all'apparente disaccordo tra "scienza e fede", dovuto al tema dell'inerranza biblica, cercando di imboccare una strada propria» 69 . È soprattutto a partire dal XVIII secolo, però, che le discipline scientifiche entrarono a far parte a pieno titolo dei piani di studio dei collegi dell'Ordine, dando ampio spazio alla sperimentazione, grazie, in primis, al contributo del Gerdil, il quale redasse dei nuovi programmi per le scuole dei Barnabiti in cui, accanto alle materie classiche come la filosofia, si riconosceva un ruolo importante anche alle scienze, in particolare alla fisica. Tutti gli argomenti, che l'insegnante avrebbe dovuto trattare durante il ciclo di lezioni, dovevano essere affrontati solo sulla base della fisica newtoniana e dell'evoluzione che questa aveva avuto nel corso del Settecento 70 .
ni Sessanta del XVIII secolo, quando iniziarono le ricerche di Antoine Laurent Lavoisier.
In Italia le idee della nouvelle chimie cominciarono a circolare negli ambienti scientifici solo dopo il 1785, ovvero dopo le ricerche sulla composizione chimica dell'acqua, le quali segnarono il vero punto di svolta per la chimica. Da questo momento in poi fecero la loro comparsa molti studi e altrettante traduzioni 79 su questo tema cruciale, e allora il dibattito tra la corrente tradizionalista e gli innovatori fu acceso. Molti tra i chimici e i naturalisti italiani più importanti, come Fontana, Saluzzo, Morozzo e Pini, continuarono ad appoggiare l'esistenza del flogisto e cercarono di impedire l'ampliamento del consenso intorno alla nuova chimica 80 ; i sostenitori di Lavoisier, invece, con a capo il piemontese Giovanni Antonio Giobert 81 , difesero e divulgarono la chimica antiflogistica, attraverso l'utilizzo della stampa periodica di carattere scientifico, la quale, a partire dagli anni Ottanta del XVIII secolo, si stava diffondendo in tutta Italia.
Un passo significativo verso la completa affermazione delle nuove idee fu la traduzione in italiano, ad opera di Vincenzo Dandolo 82 , del Traité élémentaire de Chimie, il lavoro più importante di Lavoisier, in cui quest'ulti- 28 Letizia Giovagnoni [22] concorda: «Il termine rivoluzione scientifica è stato impiegato in anni recenti con grande frequenza da storici e filosofi della scienza per indicare la nascita della chimie antiflogistica. Il suo uso è giustificato non solo dal fatto che esso indica efficacemente il grande mutamento realizzato da Lavoisier nella chimica, ma anche il fatto che il chimico francese, nel febbraio 1773, scrisse nel primo registro di laboratorio che le scoperte sull'aria fissa costituivano per lui un argomento "qui m'a paru fait pour occasioner une revolution en physique et en chimie"» (ivi, p. 5). 79 Ad esempio nel 1785, a Venezia, apparvero le traduzioni in italiano delle Leçons élémentaires d'histoire naturelle et de chimie di Antone Françoise Fourcroy, edite in Francia nel 1782, nelle quali venivano presentate sia una teoria del flogisto, sia quella lavoisieriana. Questo testo è importante perché mise in evidenza l'esistenza di teorie del mutamento chimico la cui diversità non riguardava più interpretazioni di singoli fenomeni, ma la visione stessa della chimica. 80 Sulla chimica flogistica e sui chimici in Italia nella prima metà del Settecento si veda F. ABBRI, La chimica italiana alla metà del Settecento, in De Sedibus, et Causis. Morgagni nel centenario, a cura di V. CAPPELLETTI -F. DI TROCCHIO, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1986, pp. 209-221. 81 Giobert nacque nel 1761 in provincia di Asti. Si dedicò a ricerche teorico-pratiche attraverso le quali rispondeva alle obiezioni mosse contro la nuova chimica e ne metteva in luce la validità e la fertilità tanto da divenire membro attivo della côterie lavoisieriana e corrispondente degli «Annales de chimie». A Torino, assieme al medico Carlo Stefano Giulio, fondò il «Giornale scientifico, letterario e delle arti», periodico attivo solo nel biennio 1789-1790, che fu lo strumento più importante attraverso cui Giobert diffuse le nuove idee nella regione sabauda. Morì nel 1834 (si veda P. DELPIANO, Per una storia della divulgazione scientifica nel Piemonte del Settecento: "Il Giornale scientifico, letterario e delle arti", in «Rivista storica italiana», CVII, 1995, pp. . 82 Vincenzo Dandolo fu farmacista e uomo politico veneziano. Traduttore per eccellenza dei testi della nuova chimica, rese disponibili in italiano anche altri lavori di Lavoisier e della sua côterie. Fu anche autore di un fortunato manuale dal titolo Fondamenti della scienza chimico-fisica applicati alla formazione de' corpi ed ai fenomeni della natura, edito nel 1795. Cfr. F. ABBRI, Lavoisier e Dandolo. Le edizioni italiane del Traité élémentaire de Chimie, in «Annali dell'Istituto di Filosofia di Firenze», VI, 1984, pp. 163-182. mo codificò tutti i concetti della nouvelle chimie. La prima edizione italiana del Traité, che forniva un quadro completo delle concezioni e delle ricerche della scuola antiflogistica 83 , vide la luce, a soli due anni dall'edizione francese, nel 1791 a Venezia con il titolo Trattato elementare di chimica presentato in un ordine nuovo dietro le scoperte moderne 84 e fu, a parere di Dandolo stesso, lo strumento più efficace per favorire la conversione alla nuova teoria in Italia 85 . Gli scienziati più restii, come Lorgna e Pini, continuarono a pubblicare articoli nel tentativo di confutare le idee lavoisieriane, ma i loro sforzi non valsero a nulla. Nei circoli scientifici "progressisti" Lavoisier veniva considerato come il Galilei della chimica e le traduzioni del Traité si moltiplicarono nella penisola 86 .
In questo contesto di discussioni, che vedevano contrapposti i tradizionalisti a scienziati giovani e innovatori, si inserì anche Colizzi, annoverandosi tra i sostenitori della chimica antiflogistica. Come il barnabita possa aver conosciuto e apprezzato le nuove idee non è chiaro; si possono solo avanzare delle ipotesi a riguardo. È possibile che, durante il suo soggiorno a Torino tra il 1791 e il 1794, abbia avuto modo di entrare in contatto con Giobert 87 e che, grazie ad esso, abbia potuto conoscere la nouvelle [23] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia 29 ---- 83 Proprio per dare un'immagine completa della nuova chimica, l'edizione italiana del Traité comprendeva, oltre i due tomi che corrispondevano esattamente alla traduzione dell'originale, altri due volumi in cui si presentava la traduzione della voce Affinité di Guyton de Morveau contenuta nell'Encyclopédie Méthodique-Chimie e un adattamento in italiano della Synonimie e del Dictionnaire della Méthode de nomenclature chimique (opera di Lavoisier in collaborazione con altri scienziati che rivoluzionò il linguaggio in chimica). Nel 1792 Dandolo pubblicò un Supplemento alla prima edizione, contenente due dissertazioni, inviate dallo stesso Lavoisier allo scienziato veneziano, le quali videro la luce prima in italiano e solo dopo il 1793 furono stampate in Francia (ABBRI, Lavoisier e Dandolo cit., p. 167). 84 V. DANDOLO, Trattato elementare di chimica presentato in ordine nuovo dietro le scoperte moderne con figure del Sig. Lavoisier. Recato dal francese e corredato con annotazioni da Vincenzo Dandolo, Venezia, A. Zatta e figli, 1791. 85 Prima che Dandolo ne pubblicasse la traduzione, il Traité era già penetrato in Italia, grazie allo stesso Lavoisier che inviò nel 1789 delle copie alle principali società scientifiche ed a rilevanti scienziati come Volta, Spallanzani e Lorgna. Quindi non sorprende ritrovare nei periodici dell'epoca, come le «Novelle letterarie» di Firenze o negli «Opuscoli scelti» di Milano, brevi segnalazioni e recensioni dell'opera. Ovviamente i giudizi erano tutt'altro che benevoli. Ad esempio nel «Giornale de' letterati» di Pisa, in un articolo del 1789, il Traité venne considerato come «un insieme anomalo di poche verità ingegnosamente legate a errori e a opinioni false» (ABBRI, Lavoisier e Dandolo cit., p. 165). 86 A Napoli fu pubblicata una traduzione del Traité, a cura di Luigi Paris e Gaetano La Pira nel 1792, confermando così nella città partenopea una tradizione secolare di studio e di insegnamento della chimica (ivi, 166). 87 Sicuramente Colizzi conosceva molto bene gli studi pubblicati da Giobert. In molte opere, infatti, il barnabita fa riferimento al chimico piemontese, non solo per un suo lavoro sulle acque di Valdesi ma anche come esempio di scienziato che ha combattuto affinchè la teoria del flogisto venisse confutata: «Moltissimi si sono in questi ultimi tempi sollevati a combattere il flogisto. Tra tutti si è distinto il celebre Sig. Giobert in una vittoriosa dissertazione inserita negli atti dell'Accademia di Torino intitolata Examen chimique de la doctrine du philogistique» (G. COLIZZI, Alli studiosi della Filosofia Chimica ragionamenti due nel primo de' quali si chiamano ad esame due nuove ipotesi sull'analisi e sintesi dell'acqua; nel se-chimie di Lavoisier. Inoltre, come si è ricordato, nei collegi barnabitici le scienze ricoprivano un ruolo primario, soprattutto nelle scuole della Lombardia e del Piemonte 88 , ed è quindi possibile che i testi di Lavoisier circolassero nelle biblioteche dell'Ordine. Sta di fatto che Colizzi nel suo primo studio scientifico, dal titolo Alli Studiosi della Filosofia Chimica Ragionamenti Due, scritto nel 1796 mentre risiedeva a Bologna, manifestò la sua completa adesione alle idee lavoisieriane. Nel primo dei due ragionamenti, dedicato alle nuove ipotesi riguardanti l'analisi dell'acqua, dichiarava apertamente: «Infatti non appena si giunse ad esiliare per sempre dal soggiorno de Mortali il Flogisto, e ad estirparne ogni sua diramazione, che una gran parte delle più celebri Accademie, e de' più illustri Filosofi, fu vista lacerar con sdegno il manto, di cui aveva fino allora vestito, e rifugiarsi sotto l'ombra di Colei che sorse fastosa sulle rovine di quel superbo detronizzato sovrano» 89 . L'attacco non era rivolto solo alla teoria del flogisto, ma anche agli scienziati che ancora si dimostravano restii alle nuove scoperte, soprattutto a quelle legate alla composizione dell'acqua, e che potevano solo essere nocivi allo sviluppo della scienza: «Fabbricano essi nella propria fantasia delle ipotesi a capriccio; rilevano contro le odiate o non intese teorie alcune superficiali anomalie; confondono ciò che quelle hanno di reale, con ciò che avanzano ipoteticamente, e per congettura; e con tale apparente apparato giungono a dominare altrui per si fatta guisa, che li ritraggono dall'informarsi di ciò, che forse interessa prossimamente i loro studi. Da quest'ultima classe di Filosofi conviene siano state poste in campo le ipotesi ch'io m'addossai l'incarico di combattere, con le quali si lusingano di spiegare la sintesi dell'acqua senza supporre ch'ella siasi giammai decomposta, e in tal modo rovesciare affatto le recenti chimiche teorie» 90 . Nella parte conclusiva di questo primo ragionamento, Colizzi appare molto rigido rispetto alle posizioni di codesti studiosi restii, e ironicamente chiede ai tradizionalisti di abbandonare il flogisto oppure, se proprio non fosse stato loro possibile, di fantasticare solamente senza intralciare il cammino verso il progresso della chimica: «Condannino essi una volta per sempre, a perpetua dimenticanza con il flogisto, la lunga serie de'suoi proseliti flogisticati, e deflogisticati. Rinunzino eternamente, oppure, se così vogliono, si consentino di accarezzare soltanto nella propria fantasia i loro gas acquei. E noi, in compenso di un tanto Infine, sempre con un filo di ironia che sottolineava la sua intransigenza nei confronti del passato, proponeva anche un modo per far convivere le due teorie, cosa che avrebbe portato solo giovamento alla scienza, come lo era stato all'epoca delle scoperte di Copernico: «Questo è ciò, cui unicamente riconduconsi le nostre pretensioni; e questa è nel tempo stesso la sola strada da stringere eterna vicendevole amicizia, e fratellanza. Così un giorno gli Anticopernicani stipularono trattato di pace con i seguaci della più sublime delle fisiche Teorie; e siccome da quell'epoca in poi, presso che niun filosofo si vide mettere in campo i sistemi de' Ticoni, e de' Tolomei; e tutti, senza ulteriore motivo di dissenzione e contesa riguardarono la teoria di Copernico come ipotetica, oppure come matematicamente dimostrata; così per lo avvenire potrà chicchessia, senza tema di rimprovero o dissapore, riguardare colla stessa indifferenza l'analisi di que' due elementi. Ed oh da questa scambievole convenzione e concordia quale e quanto bene ne verrebbe a ritrarre la società!» 92 .
La sua ostilità contro la teoria del flogisto e i suoi sostenitori continua anche nel secondo ragionamento, dedicato ai benefici che le nuove scoperte in chimica avevano apportato alle altre scienze come la medicina, la farmacia e la fisica: «E i Sthaliani medesimi, dopo le moderne teorie sulla combustione e respirazione, sull'ossidazione e rivivificazione delle sostanze combustibili e rivivificabili, sulla formazione degli acidi, dei sali, e degli alcali ebbero motivo di arrossire, veggendo di avere per sì lunga stagione idolatrato una ideale Divinità, qual'era certamente il flogisto» 93 . Nonostante che Colizzi seguisse e ammirasse apertamente le innovazioni di Lavoisier e la nuova concezione della chimica, non manca di nominare anche altri scienziati, i quali, pur essendo stati seguaci della teoria del flogisto, avevano comunque dato un contributo importante, se non fondamentale, alla scienza in questione. Primo fra tutti Alessandro Volta, citato praticamente in quasi ogni opera del Colizzi per l'importanza dei suoi esperimenti sui gas, i quali aprirono nuove strade soprattutto nel campo delle ricerche sulla composizione dell'acqua 94 . Oltre al famoso scienziato italia-no, Colizzi riporta spesso il nome di altri studiosi classici, come ad esempio Black, Priestley e Hoffman. Joseph Black si occupò non solo della magnesia alba e della composizione dell'acqua, ma i suoi Experiments rappresentarono il punto di partenza per la scoperta e lo studio dei gas. Joseph Priestley scoprì l'azoto, che chiamò "aria flogistica", e nel 1774 giunse alla preparazione dell'ossigeno, ribattezzato aria "deflogistizzata". Hoffman, infine, fu il fondatore dell'analisi chimica moderna.
Per quanto riguarda gli studiosi che facevano parte della coterie lavoisierana, Colizzi, oltre Giobert, nomina spesso Anton François Fourcroy, il quale collaborò, nel 1787, insieme a Lavoisier, alla stesura della Méthode de nomenclature chimique, opera che rivoluzionò il linguaggio e la nomenclatura in chimica fino allora molto confuso. Inoltre egli fu anche uomo politico, riorganizzatore degli studi superiori e artefice fino al 1808 della politica universitaria francese e del Regno d'Italia 95 . È difficile che Colizzi possa averlo incontrato o aver avuto un qualsiasi contatto con lui, ma sicuramente conobbe le sue opere scientifiche diffuse in Italia a partire dal 1785 96 .
L'attenzione che Colizzi, comunque, prestò alle nuove teorie e alle scoperte scientifiche, si può notare anche dal tipo di studi compiuti. Egli, infatti, condusse in gran parte ricerche riguardanti la composizione dell'acqua e l'analisi delle sorgenti. Questo perché, dalla seconda metà del XVIII secolo, quasi tutti i chimici si interessarono vivamente a questo tipo di indagine. Le discussioni intorno alla natura e alla composizione dell'acqua hanno costituito un lungo capitolo della storia della chimica europea compresa tra il 1784 97 e l'inizio del XIX secolo e Colizzi, con studi incentrati sull'analisi di fonti localizzate nel marchigiano, cercò di farne parte. Infatti in tutte le sue opere riguardanti tale argomento, non ha mai smesso di ribadire l'importanza delle nuove scoperte in materia e la difficoltà in cui ci si poteva imbattere nel dover compiere un'accurata analisi dell'acqua di una sorgente, in quanto serviva una conoscenza approfondita delle sostan- 32 Letizia Giovagnoni [26] sto fenomeno e di offrire uno strumento assai potente, cioè l'elettricità, per la combustione. Ferdinando Abbri sostiene in materia: « Ritengo che il ruolo dello scienziato italiano sia stato ancor più rilevante poiché un nuovo orientamento nelle esperienze sull'aria infiammabile, destinato a condurre alla sintesi dell'acqua, venne impresso dalle sue ricerche. A partire dal 1779 il ruolo dell'idrogeno, l'osservazione del suo comportamento divennero oggetto di studio per tutti i chimici in conseguenza delle ricerche di Volta» (ABBRI, Le terre, l'acqua, le arie cit., p. 275). 95 Fourcroy fu il responsabile dell'Istruzione pubblica fino al 1808, quando, ad un passo dalla realizzazione del suo piano di riforma delle università, Napoleone lo liquidò per sostituirlo con Louis Fontaine (si veda G.P. ROMAGNANI, L'Università imperiale in Italia, in Le Università napoleoniche: uno spartiacque nella storia italiana ed europea dell'istruzione: atti del convegno internazionale di studi, Padova-Bologna 13-15 settembre 2006, a cura di P. Del Negro, L. Pepe, Bologna, Clueb, 2008, pp. [35][36][37][38][39][40][41][42][43][44][45][46][47][48][49][50][51][52][53][54]. 96 Vedi ABBRI, Lavoisier e Dandolo cit., p. 164. 97 Questa data è stata scelta poiché nel giugno del 1783 Lavoiser e Laplace fecero un esperimento sulla combustione di ossigeno e idrogeno scoprendo così che l'acqua era un composto di aria infiammabile e vitale. ze e dei metodi di sperimentazione. Ad esempio, in Analisi dell'acqua di Fontemare, scritta a Macerata nel 1797, afferma: «L'analisi delle acque è oggidì meritatamente riguardata come la più difficile operazione che presenti la Chimica a coloro che la professano. Conviene a praticarla possedere un'esatta cognizione delle sostanze, ch'esse tengono disciolte; conviene saper calcolare l'energia dei reagenti che si adoperano a rintracciarle, afferrare le anomalie che sogliono produrre, estrarre e imprigionare i fluidi elastici che più d' una volta le mineralizzano, e chiamarli a rigoroso esame onde distinguerli; conviene in fine possedere l'arte teoricamente facile, ma in pratica difficilissima, di estimare con accuratezza i principj una volta nelle medesime discoperti» 98 . L'opera più completa di Colizzi su questo argomento è il Trattato Fisico Chimico dell'arte di analizzare le acque minerali, ed imitarle, in cui spiega in modo molto accurato come si deve eseguire l'analisi completa di una sorgente e tutti gli esperimenti necessari per riprodurre l'acqua in laboratorio. Nella prefazione, comunque, ribadisce che ormai tale disciplina è diventata quella più seguita e quella più praticata: «Tra le varie parti, che compongono la Chimica, l'Arte di Analizzare le Acque è forse quella, ch'è stata fin qui coltivata con maggiore entusiasmo. Si può dire oggimai, non averne alcuna, per quanto sia solitario ed alpestre il terreno ove soggiorna, che non abbia dovuto presentarsi in qualche chimico laboratojo, per soggiacervi alle indagini più delicate: se ne conta taluna, che per fino le venti volte è stata riprodotta, quando più, quando meno ricca di principj e di qualità atte a cattivarle la nostra stima» 99 .
Con il passare degli anni, tuttavia, la chimica continuò a progredire e a migliorare, grazie a numerosi studi e ricerche degli scienziati successivi a Lavoisier, e Colizzi dimostrò sempre di essere molto sensibile alle evoluzioni del mondo scientifico. Il XIX secolo, infatti, è stato ricchissimo di innovazioni in questa scienza, a partire dalla teoria atomica di Dalton (1808), la quale individuò la composizione della materia in parti più piccole, appunto gli atomi, fino alle scoperte di Cannizzaro sui pesi atomici, le quali poi indussero Mendeleev alla compilazione della Tavola periodica degli elementi nel 1869. Queste novità portarono, di conseguenza, ad un superamento della rivoluzione chimica di Lavoisier. Negli anni '30 dell'Ottocento ancora si dibatteva, come era successo in precedenza con il flogisto, quale teoria fosse la più completa, scientificamente parlando, e ovviamente Colizzi non si tirò indietro e partecipò attivamente alla discussione. In una sua opera scritta a Perugia nel 1839 ed intitolata Osservazioni sullo stato della Chimica moderna, asseriva: «Dopo il totale rovesciamento della dottrina di Becher e di Sthall, che per lunga stagione dominò nelle Scuole tutte di Europa e sulla quale innumerevoli opere sono state scritte, sembrava che nulla vi avesse a desiderare: avvegnanchè le dottrine, che a quella succedettero, tenevasi per modo comprovate dai fatti, e da esperimenti di ogni genere, da non soggiacere, per lo meno riguardo alle sue basi principali, ad ulteriori rovesci: eppure la cosa non è altrimenti così. La Chimica, fondata dall'illustre ma sfortunato Lavoisier […] è minacciata e secondo alcuni ha di già subito una irreparabile rovina. Da ciò è accaduto, che le opere di quei Dotti si riguardino oggidì come inveterate, e tutto al più come meritevoli di essere consultate in qualche rara occasione» 100 .
Questi cambiamenti repentini di opinione nella chimica, pur essendo basati su un metodo sperimentale, quindi scientificamente fondato, secondo Colizzi, avrebbero potuto allontanare gli alunni dalla materia. Infatti si chiedeva: «Se da un canto è vero che le dottrine, che preser posto dopo la rovina del sistema Sthalliano, ebbero per fondamento dei fatti, e vennero comprovate da una serie di accurate esperienze; e se dall'altro canto le dottrine che a questa si vogliono sostituire, vantano ancor esse de' consimili fondamenti; qual fiducia potrà la nostra scienza ispirare nell'animo de' suoi Allievi, vedendo che le sue dottrine van soggette a variare pressoché di lustro in lustro?» 101 . Lo scopo del lavoro di Colizzi voleva essere quello di capire se le nuove teorie avrebbero potuto avere la forza di sostituire quelle di Lavoisier e dei suoi seguaci, pur essendo fermamente convinto che da una parte il progresso non si poteva arrestare, e dall'altra che prima di accettare il cambiamento ci si sarebbe dovuti fermare a riflettere un momento per non giungere a conclusioni affrettate e approssimative: «In tale stato di esitanza, essendo io intimamente persuaso, che se sarebbe un delitto l'opporsi ai progressi dello spirito umano; debbasi per l'opposto riguardare qual saggio divisamento l'arrestarsi di tratto in tratto nell'indagare, se questi medesimi progressi procedano con le necessarie precauzioni e sicurezze, ho deciso d' intraprendere per lo appunto siffatta indagine, proponendomi per iscopo di esplorare, se le nuove dottrine proposte dai recenti Chimici […] sien tali da obbligarci a rinunziare totalmente alle dottrine dei Chimici pneumatici» 102 . soluta. Perciò si augura che possa esserci una riunione tra i chimici più illustri, in modo da porre rimedio a tutti i dubbi e trovare un'unica via per la chimica: «Un tal voto è diretto ad implorare la riunione di un'Assemblea di Chimici di maggiore riputazione i quali, spogli di ogni spirito di partito, e mossi da puro desiderio di conoscere la verità, si propogano questa medesima per unico scopo delle loro indagini» 103 .
Giuseppe Colizzi, prima del ritorno dei francesi in Italia, si trovava a Macerata ad insegnare e, oltre che nella città marchigiana, fu docente anche nel Collegio barnabitico di San Carlo a Foligno e a Spoleto 104 . Egli venne a Perugia probabilmente nel giugno del 1810, quando fu ufficializzata la sua nomina ad Ispettore dell'Università degli studi di Perugia da parte del governo francese. Già nel maggio dello stesso anno, il Prefetto del Dipartimento del Trasimeno Roederer, in una lettera indirizzata al Ministro dell'Interno e membro della Consulta De Gerando, indicava tra i candidati alla carica di Ispettore dello Studio perugino il Colizzi, descrivendolo così: «Uomo dal talento vastissimo. Celebre nelle scienze, e particolarmente nella Chimica, già Professore in altri Licei, ed ora domiciliato in Spoleto. Cognito a tutte le Accademie e uomo pieno di probità, e di prattica amministrativa» 105 . Queste sue virtù fecero sì che la scelta ricadesse senza difficoltà su di lui 106 , mentre in qualità di Rettore fu nominato Giuseppe Antinori, che aveva ricoperto incarichi importanti durante la Repubblica Romana 107 . [29] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia 35 ---- 103 COLIZZI, Osservazioni cit., p. 256. 104 FILIPPI, L'istituzione del "Liceo Imperiale" in Umbria cit., pp. 397-417. 105 Archives Nationales de France Paris [d'ora in poi ANF], serie F Administration générale de France, le Pays annexes ou dépéndants [d'ora in poi F1e], 145, Dossier 1, Universitè de Pérouse 1809-1810, cc. non numerate, lettera di Roederer a De Gerando del 25 maggio 1810. 106 La nomina ufficiale di Colizzi è nota tramite una lettera, nella quale De Gerando informa Roederer che la Consulta, nella seduta dell'8 giugno 1810, aveva optato per il barnabita perché il più adatto a ricoprire il ruolo da Ispettore (ANF, F1e, 145, d1, cc. non numerate, lettera di De Gerando a Roederer del 9 giugno 1810). 107 Esponente della nobiltà perugina, nacque nel 1776 dal Marchese Girolamo Antinori e da Anna Raffaelli di Cingoli. Dopo la morte della madre fu mandato al collegio dei Tolomei degli Scolopi a Siena, dove ebbe come maestri Ferdinando Gori e Urbano Lampredi. In seguito fu mandato all'Accademia ecclesiastica di Roma in cui scoprì di avere una maggiore inclinazione per le materie letterarie rispetto a quelle giuridiche. Durante la Repubblica romana, a soli ventidue anni, fu nominato Tribuno e fece parte della commissione tribunizia della Pubblica istruzione. Nel 1799 fu eletto amministratore dipartimentale del Trasimeno e si dovette trasferire a Roma, ma rinunciò alla carica non appena venne nomi-La carica di Ispettore che Colizzi stava andando a ricoprire era del tutto nuova nel sistema d'istruzione italiano ed era costituita sul modello della riforma degli studi avvenuta in Francia ad opera di Napoleone. Il sistema francese della pubblica istruzione cambiò con decreto del 17 marzo 1808, grazie al quale Napoleone diede inizio a una riforma generale dell'Università e dell'insegnamento. Tutto il sistema dell'istruzione pubblica fu riorganizzato all'interno della neonata "Università Imperiale", una sorta di ministero, i cui uffici erano articolati nel territorio grazie alle Accademie costituite in tutte le città già sedi di Corti d'Appello. Al vertice di tutto il sistema scolastico era posto il Grand-Maître de l'Université, dal 1808 Louis de Fontaines, che aveva il compito di presiedere il Conseil de l'Université, ed era aiutato nei suoi doveri da alcuni Inspecteurs généraux. Il Grand-Maître doveva nominare i Rettori delle varie Accademie, i quali, coadiuvati da un Consiglio accademico, avevano appunto a loro disposizione uno o due Inspecteurs. L'istruzione di base era data dalle scuole primarie, quella secondaria dai Collegi e dai Licei, mentre le Università erano divise in cinque facoltà: Teologia, Giurisprudenza, Medicina, Scienze e Lettere 108 . Il problema fu applicare tale sistema in Italia. In altre parole: «L'organizzazione delle Accademie sul modello napoleonico in Italia incontrò inevitabili difficoltà a causa della lunga tradizione di indipendenza e per la notevole eterogeneità delle Università. Una specifica Commissione straordinaria […] studiò negli anni 1809-1810 i provvedimenti da adottare per integrare gli istituti italiani nel sistema imperiale. Nei territori diretta- 36 Letizia Giovagnoni [30] nato professore di Mitologia e Poetica nell'appena riformato Studio perugino. Dopo la caduta della Repubblica, Antinori rimase in disparte, nel suo castello a Gubbio, fino al 1805, anno in cui decise di tornare a Perugia. Qui si dedicò prevalentemente all'attività poetica e si associò a molte accademie letterarie. Con il ritorno dei francesi nel 1809 si reinserì nella vita politica. Per ulteriori informazioni sulla biografia dell'Antinori, si veda G. ANTINORI, Notizie biografiche del marchese Giuseppe Antinori di Perugia scritte da sé medesimo, Tipografia Bartelli, Perugia, 1839. 108 Le Facoltà di Teologia furono istituite nelle dieci sedi vescovili metropolitane, tra le quali rientravano anche Torino, Parma e Pisa. Gli studenti dei seminari maggiori dovevano obbligatoriamente seguire i corsi che si tenevano in queste facoltà e i professori dovevano attenersi, nell'insegnamento, ai principi della Dichiarazione dei quattro articoli (editto di Luigi XIV in cui era ribadito il principio di assoluta indipendenza del potere sovrano dall'autorità del pontefice). Per quanto riguarda la Facoltà di Giurisprudenza, gli insegnamenti furono ridotti al Codice Napoleonico, Diritto Romano e procedura e legislazione civile. Tutto ciò fu fatto perché «le facoltà di diritto si prestavano molto ad alimentare l'opposizione degli intellettuali, formando una coscienza civile che in ultima analisi avrebbe contrastato il potere assoluto dell'Imperatore» (S. BUCCI, La scuola italiana nell'età napoleonica, Roma, Bulzoni editore, 1976, p. 72). Le facoltà di Lettere e Scienze, invece, sono da considerarsi le vere novità del sistema universitario napoleonico ed avevano il compito, oltre che di assegnare gradi accademici, di consentire l'accesso all'insegnamento sia statale che privato. Le facoltà di Lettere avevano un piano di studi limitato a soli tre settori (belle lettere, filosofia e storia); la facoltà di Scienze era divisa in quattro insegnamenti (matematica, storia naturale, chimica e fisica). Infine la Facoltà di Medicina subì cambiamenti meno evidenti (ibidem).
----mente annessi alla Francia vennero quindi create le Accademie di Torino, Genova, Parma e Pisa. Data la rigidità delle norme imperiali […] si verificò la soppressione di alcune delle antiche Università italiane» 109 .
Il decreto imperiale, emanato il 17 maggio 1809, sancì l'annessione di Roma e dei territori facenti parte dello Stato Pontificio all'Impero francese. Le Università che vennero comprese nel territorio erano La Sapienza di Roma 110 , il Collegio Romano e, ovviamente, l'Università degli Studi di Perugia. Le autorità francesi, subito dopo l'occupazione militare, affidarono il governo transitorio alla Consulta straordinaria per gli Stati Romani 111 , istituita lo stesso giorno dell'emanazione del decreto di annessione. In questo contesto la situazione di Perugia appariva complicata 112 . Perciò, per evitare che lo Studio venisse ridotto ad un semplice liceo, come già era successo ad altre prestigiose università italiane, si cominciò a lavorare da subito ad una riforma conforme alle leggi francesi. Colizzi fu incaricato da Roederer, d'intesa con il Rettore Antinori, di redigere un progetto di riordinamento dello Studio per assegnare a quest'ultimo la stessa base su cui poggiavano le altre Accademie dell'Impero. Ciò che proponeva, per rimettere in sesto l'Ateneo perugino, oltre ad un riordinamento degli insegnamenti, era l'unione delle rendite dei collegi studenteschi a quelle dell'Università 113 e l'acquisizione dei locali, sicuramente più ampi e più adatti ad ospitare le [31] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia 37 ---- 109 P. ALVAZZI DEL FRATE, Università Napoleoniche negli Stati Romani. Il Rapporto di Giovanni Ferri de Saint-Costant sull'istruzione pubblica (1812), Roma, Viella, 1995, pp. XIX-XX. Le Università soppresse di cui parla Alvazzi del Frate sono quelle marchigiane e l'Università di Siena, declassata a una sorta di succursale dell'Accademia di Pisa. 110 La Sapienza di Roma fu fondata nel 1303 da papa Bonifacio VIII e mantenne pressoché immutata la sua fisionomia fino al XIX secolo, grazie ai provvedimenti stabiliti da Eugenio IV, Sisto V e Leone X. Alcune riforme furono introdotte nel Settecento (1741 e 1748) da Benedetto XIV. La Sapienza era diretta da tre Collegi: dei Teologi, degli Avvocati Concistoriali e dei Medici, e dal Cardinale Camerlengo che aveva la carica di Cancelliere dell'Università. Quest'ultimo, però, non incideva più di tanto sulla direzione dello Studio, perché di fatto comandava il Collegio degli Avvocati Concistoriali, grazie anche alla bolla Inter conspicuos del 1744, emanata da Benedetto XIV. L'Università di Roma era divisa in cinque Classi: Materie Sacre, Giurisprudenza, Medicina e Chirurgia, Filosofia e Arti e lingue. Dopo la parentesi repubblicana, l'Ateneo fu chiuso per l'anno accademico 1800-1801 ma riaprì immediatamente l'anno successivo (cfr. Storia delle Università italiane, a cura di G.P. Brizzi, P. Del Negro, A. Romano, vol. III, Messina, Sicania, 2007). 111 La Consulta era presieduta dal Generale francese Sextius Miollis e composta dai Maîtres des Requêtes del Consiglio di Stato Joseph de Gérando, Laurent Janet e Ferdinando Dal Pozzo. La nomina di Segretario la ottenne l'Uditore del Consiglio di Stato, Cesare Balbo (cfr. ALVAZZI DEL FRATE, Università napoleoniche negli Stati romani cit., p. XVIII). 112 Regina Lupi sostiene sull'argomento: «Così l'Ateneo di Perugia restava in una sorta di limbo mentre, d'altra parte, la stessa Università imperiale era in attesa di un ordinamento definitivo: ordinamento che sarebbe giunto solo nel 1811. In questo lasso di tempo i responsabili locali dello Studio non si arresero all'idea di un'imminente applicazione della legge francese, ma tentarono di presentare le proprie proposte di riforma al nuovo governo» (R. LUPI, Progetti di riforma per l'Ateneo di Perugia negli anni della Consulta (1809)(1810), in La Storia delle Università alle soglie del XXI secolo, Bologna, Clueb, 2008, p. 378). 113 L'annessione delle rendite dei collegi studenteschi perugini era prevista anche nella riforma degli studi proposta durante la Repubblica romana. lezioni dello Studio, del monastero di Monte Morcino, rimasti inutilizzati dopo la soppressione degli Olivetani, ordine a cui apparteneva lo stabile.
L'iter di questo progetto di riforma fu molto lungo e difficile. Colizzi andò più volte durante i mesi estivi a Roma, anche se la situazione apparve molto complessa fin dai primi momenti, dato che alcuni membri della Consulta, come De Gerando e Janet, erano convinti che l'Università di Perugia non dovesse avere un proprio ordinamento, ma si sarebbe dovuta trasformare in un liceo dipartimentale, secondo quanto prevedevano le leggi francesi 114 . Il lavoro del barnabita portò i suoi frutti nell'ottobre del 1810, quando il piano fu approvato con pochissime modifiche. Grazie, quindi, allo zelo e all'abilità diplomatica di Colizzi, l'Università di Perugia non solo rimase in vita, ma riuscì ad ottenere un regolamento proprio, anche se conforme alle leggi imposte dal governo francese 115 .
Il 1º dicembre 1810, quindi, lo Studio perugino riprese i suoi corsi con un nuovo assetto e con una nuova sede. Colizzi, oltre ad essere Ispettore, fu nominato anche docente di Chimica: insegnamento fino allora ricompreso in quello di Fisica 116 . Il lavoro in quegli anni non gli mancò, soprattutto se si pensa al fatto che, pur essendo stata approvata dalla Consulta, la riforma degli studi era provvisoria, dato che si aspettavano le decisioni del governo centrale in materia. Tra il 1811 e il 1812 i contatti con Roma continuarono costantemente e Colizzi mantenne il suo ruolo di mediatore con le autorità francesi almeno fino all'estate del 1813, anno in cui ci fu una vera svolta per la sua carriera 117 . Infatti, grazie alla sua maestria nel 38 Letizia Giovagnoni [32] ----114 Durante l'estate del 1810 Colizzi intrattenne continui contatti con la Consulta. Nel luglio, ad esempio, dopo aver inviato la prima bozza del piano, arrivò subito un rifiuto da parte di De Gerando, perché, secondo quest'ultimo, l'Università di Perugia sarebbe stata assimilata al più presto a quella di Francia, quindi il numero dei cambiamenti sarebbe dovuto essere il minore possibile, in attesa della normativa definitiva. Le trattative continuarono senza sosta fino a settembre, quando De Gerando fece credere a Colizzi di essere arrivati ad una felice conclusione. Le aspettative del barnabita furono disattese. Infatti il 7 settembre 1810 scrisse afflitto ad Antinori: «De Gerando, che mi ha fatto credere fino a questo momento, che al giungere della risposta favorevole di cotesta prefettura, l'avrebbe proposto in Consulta, ora pare avvilito a segno che sembra di non volerlo più presentare» (Archivio storico dell'università di Perugia [d'ora in poi ASUP], P II Archivio moderno, AI Constitutiones et jura -d'ora in poi PII, AI -cc. non numerate). Questo perché un altro membro della Consulta, Janet, era contrario al progetto. Ci volle un mese di incontri, lettere e diplomazia perché si trovasse una soluzione. 115 Il progetto di riforma, che grazie a Colizzi rimase in vigore senza sostanziali cambiamenti fino al 1824, prevedeva, in primo luogo una divisione dell'Università in cinque Facoltà con nuovi insegnamenti e nuovi professori. In più vennero definite più nitidamente la carica di Rettore ed Ispettore, e furono introdotti i Consigli di Facoltà e il Consiglio dell'Università, i quali avevano il compito di disciplinare il funzionamento dello Studio. Infine i locali di Monte Morcino furono dati ufficialmente in gestione all'Università con annessi arredi e la biblioteca. 116 Cfr. ERMINI, Storia dell'Università cit., p. 945. 117 Le istanze che venivano portate a Roma riguardavano soprattutto le nomine dei professori e la tutela della Facoltà di Medicina. Colizzi lavorò a fianco del Rettore dell'Accademia di Roma e riuscì ad ottenere molte garanzie per l'Ateneo. portare avanti le istanze dell'Università, alla sua abilità come amministratore, al suo spessore culturale e sicuramente all'importanza che aveva avuto la figura di suo fratello Vincenzo nella Roma napoleonica, fu nominato Ispettore dell'Accademia di Roma. Nel giugno del 1813, in una lettera ad Antinori, annuncia il suo trasferimento: «Ho ricevuto una [lettera] dal vostro Sig. Ferri nella quale si degna di parteciparmi che dei due Ispettori dell'Accademia di Roma io sarò il primo» 118 .
Successivamente scrisse ancora lettere per informare l'amico Antinori dei primi compiti affidatigli da Ferri de Saint Constant, Rettore dell'Accademia romana, come il concorso per l'assegnazione delle cattedre di matematica, chimica e filosofia al Collegio Romano 119 . Nonostante la soddisfazione per il nuovo incarico, Colizzi rimase sempre molto affezionato a Perugia e alla sua Università e non smise mai di interessarsi ai suoi affari: «Voi potete essere sicuro, che cotesta Università m'interessa, e m'interesserà sempre al par di questa, finché dal canto mio cesserò potendo in qualunque circostanza di esserle utile» 120 .
Non solo cercò di risolvere il prima possibile tutte le questioni legate alla propria sostituzione 121 , ma monitorò costantemente l'operato dei perugini ammonendoli 122 e guidandoli, affinché la riforma degli studi e lo stabile di [33] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia 39 ---- 118 ASUP, PII, AI, lettera di Colizzi ad Antinori del 26 giugno 1813, cc. non numerate. 119 Dopo aver controllato tutti i saggi proposti per l'occasione, Colizzi stilò un giudizio molto severo sull'insegnamento delle scienze a Roma: «Dai saggi che sono stati sottoposti per il fine suddetto mi sono sempre più convinto, che qui s'insegnano le scienze molto superficialmente» (ivi, lettera di Colizzi ad Antinori, 1813). 120 Ivi, lettera di Colizzi ad Antinori del 25 agosto 1813. 121 Come suo successore, sia come professore di chimica sia come Ispettore, fu nominato Luigi Canali. Per quanto riguarda la docenza, non sorsero molti problemi e a Canali fu assegnata la cattedra di chimica già all'inizio del nuovo anno accademico 1813-1814. Invece rispetto alla nomina ad Ispettore ci furono delle complicazioni di tipo economico e burocratico che durarono a lungo. La questione più importante era legata all'onorario e Canali lavorò per molto tempo a titolo gratuito, dato che, secondo il regolamento, la retribuzione come Ispettore dell'Università di Perugia spettava a Colizzi. Come se non bastasse, il governo francese non aveva ancora pagato il barnabita per il suo impiego e perciò questi non poteva assolutamente rinunciare all'onorario perugino per poter vivere decorosamente. Non è chiaro quale sia stato l'esito definitivo della vicenda, ma nel dicembre del 1813 Colizzi si lamentava del fatto che il Gran Maestro non aveva ancora preso una decisione in materia e non che si poteva procedere alla nomina di Canali ad Ispettore provvisorio (ASUP, P II, A I, lettera di Colizzi ad Antinori del 15 dicembre 1813). 122 Nell'ottobre del 1813 arrivarono delle voci a Colizzi, secondo le quali a Perugia si stava provvedendo a stilare una nuova riforma degli studi. Infatti scrive ad Antinori: «Mi ha sorpreso moltissimo il sentire che abbiate non solo progettata, ma fatta una riforma nel piano degli studi di cotesta Università» (Ivi, lettera di Colizzi ad Antinori del 15 ottobre 1813). Tale notizia fece arrabbiare molto il nostro, non solo perché nemmeno a Roma si era provveduto a riformare gli studi, ma anche perché unicamente il Gran Maestro aveva l'autorità e la competenza per simili iniziative. Quindi ammonì il Rettore molto duramente, gli diede dei consigli per poter evitare malintesi che avrebbero portato solo guai allo Studio e si rammaricò di non essere stato consultato prima. Fortunatamente tutto ciò risultò essere un equivoco: qualche giorno più tardi, evidentemente dopo aver ricevuto la risposta di Antinori, Co-Monte Morcino venissero conservati. Il soggiorno romano di Colizzi, però, non fu molto tranquillo. Infatti, dopo pochi mesi dal suo trasferimento, nel gennaio del 1814 il governo francese cadde e fu sostituito da quello napoletano di Gioacchino Murat, che si era schierato contro Napoleone. Malgrado il momento politico molto confuso, Colizzi riuscì a scrivere ad Antinori, per riferigli in tutta segretezza dei fatti che stavano accadendo a Roma: «Siamo alla vigilia del cambiamento di Governo.
[…] Il Re di Napoli, cui è stato assicurato il suo Regno, è quegli che prenderà possesso di questi Dipartimenti a nome de' Coalizzati. Tenete a voi queste notizie, che suppongo vi saranno giunte anche d'altre parti» 123 .
Colizzi era molto allarmato dagli eventi che si stavano presentando sia per se stesso e per la posizione che deteneva, sia per le sorti dell'Università. Dopo l'insediamento ufficiale del Governo napoletano a Roma 124 , la situazione era molto incerta e nemmeno il barnabita, in un primo momento, sembrò sapere cosa fare esattamente, in particolar modo dopo le dimissioni di Ferri de Saint Constant da Rettore dell'Accademia. Le sue indecisioni vertevano soprattutto sull'ipotesi di proporsi come Rettore oppure rimanere ad aspettare in disparte. Il 21 gennaio 1814 Colizzi aveva ormai compiuto una scelta e scriveva all'Antinori: «Io sono stato per un momento indeciso a qual partito apprendermi, ma non essendo autorizzato dal mio impiego a far le veci di Rettore essendo sicuro di non esser pagato, per non ostare un numero infinito di Pretendenti, e per la mia quiete che amo più degli onori e dell'interesse, non mi sono fatto innanzi, nonostante che gli Amici mi avessero assicurato che sarei stato autorizzato dal Governo» 125 .
Pertanto, in questo burrascoso frangente storico, decise di rimanere lontano dai clamori della politica e mantenersi in disparte, aspettando che il suo destino si compisse. Sebbene la sua posizione politica non fosse delle migliori, Colizzi cercò di tenere costantemente informati i perugini di tutto quello che stava accadendo intorno a lui. In una missiva, datata 24 gennaio 1814, oltre a rendere noto ad Antinori il possibile candidato alla guida dell'Accademia di Roma 126 , il nostro sembra riporre grande fiducia in 40 Letizia Giovagnoni [34] lizzi si felicitò del fatto che non era in corso nessuna riforma e che Perugia si era sempre attenuta alle direttive di Roma (ivi, lettera di Colizzi ad Antinori del 27 ottobre 1813). 123 Murat, tanto da affermare: «Si spera molto dalla sua venuta; e chi sa che non ne venga del bene anche all'istruzione pubblica, e che otteniamo da lui ciò che invano abbiamo sperato dal Governo francese» 127 .
Ovviamente si trattò di una vana speranza, anche perché il governo napoletano fu solo una piccola parentesi prima del ritorno del papa e, perciò, sul fronte pubblica istruzione non cambiò nulla. Il sistema francese non fu toccato minimamente. Difatti, il nuovo Direttore Generale dell'Interno, David Winspeare 128 , aveva deliberato che non ci sarebbero dovuti essere cambiamenti nel sistema scolastico, anche se sia La Sapienza che il Collegio Romano erano in fermento e aspettavano con impazienza una qualche innovazione da parte del nuovo governo. Allo stesso modo anche la situazione per l'Università di Perugia rimaneva congelata. Per quanto riguarda lo stato personale di Colizzi, nel febbraio del 1814 egli appariva ancora convinto a non esporsi, seguendo il consiglio di Ferri de Saint Costant, e sembrava voler aspettare il dispiegarsi degli eventi. Infatti scrive ad Antinori: «Io per molti motivi, e in particolare per non dipartirmi dal primo consiglio dello stesso Ferrj non ho fatto alcun passo in attivo o passivo, voglio dire non ho rinunziato al mio posto né ho fatto istanza per conservarlo. Vedremo che ne avverrà, e voi ne sarete prontamente avvisato» 129 .
Colizzi era, quindi, molto sicuro del presente e di ciò che avrebbe dovuto fare nell'immediato. Il futuro, invece, appariva di gran lunga più oscuro: «Riguardo al mio futuro destino, giacché del presente ve ne ho dato un cenno, posso raccontarvi che neppur io so quale sarà per essere. A momenti dovrebbe formarsi una Commissione d'istruzione pubblica residente presso il Sig. Winspeare, che ne sarà il Capo. Se in questa mi sarà assegnato il primo posto, lo accetterò; diversamente rinunzierò alla Commissione, ritirandomi in cotesto Dipartimento ove ho avuto ed ho accettato delle offerte, e in particolare una Cattedra» 130 .
Non è noto sapere quali fossero queste offerte e a quale cattedra si riferisse; sta di fatto che Colizzi rimase a Roma almeno per gran parte del 1815 senza percepire alcun reddito.
Durante il biennio 1814-1815 Giuseppe Colizzi risiedette a Roma, in qualità di Ispettore dell'Accademia, in attesa di un qualche cambiamento. Nonostante che la sua posizione fosse compromessa a causa della collaborazione con il governo francese e che egli si trovasse quindi isolato e senza onorario, cercò in ogni modo di aiutare l'Università degli studi di Perugia a mantenere la riforma degli ordinamenti e la sede di Monte Morcino, da lui stesso ottenute tempo prima con molta difficoltà. Testimone di questo impegno e dell'abnegazione che Colizzi ha sempre dedicato allo Studio della città umbra malgrado che non ne fosse più l'Ispettore, è un carteggio tra il nostro e il Rettore Antinori, consultabile presso la Biblioteca Augusta di Perugia. Tale corrispondenza è composta da quarantasei lettere, redatte in un arco temporale che va dal 1814 al 1825, in cui è possibile ricostruire molte vicende legate alla storia dell'Ateneo perugino e alla vita personale del Colizzi in quel periodo.
Per quanto riguarda le vicissitudini dell'Università di Perugia, con il ritorno del governo pontificio la situazione appariva molto complessa. Per prima cosa i professori che avevano prestato giuramento alle autorità francesi 131 dovettero abiurare e sottoscrivere una formula di ritrattazione 132 , cosa che lo stesso Colizzi fu costretto a fare per evitare conseguenze poco piacevoli («In questa ne sono sottoscritto ancor io, essendo ancor io stato uno de' Peccatori esecrabili, come vi è noto») 133 e suggerì di fare lo stesso sia all'Antinori sia a tutti i docenti presenti a Perugia. In più si doveva lavorare affinché si mantenesse la riforma degli studi senza cambiamenti so- 42 Letizia Giovagnoni [36] ----131 Le vicende riguardanti il giuramento dei professori in età napoleonica sono piuttosto articolate; in questa sede ci si limita a segnalare che la formula adottata nella maggior parte dei casi recitava: «Io sottoscritto prometto, e giuro di non aver parte in qualsivoglia congiura, Complotto o Sedizione contro il Governo attuale; come pure di essergli sottomesso, ed obbediente in tutto ciò che non è contrario alle Leggi di Dio e della Chiesa» (ANF, F1e, 145, d1, lettera di Spada a un destinatario non specificato del 18 novembre 1809). 132 Colizzi inviò la formula di ritrattazione ad Antinori affinché la sottoscrivessero a Perugia al più presto. Tale formula recitava così: «Avendo noi sottoscritti Professori di… fatta la dichiarazione richiesta dal passato Governo Francese espressa ne i seguenti termini, cioè "noi sottoscritti dichiariamo a S. E. il Gran Maestro dell'Università Imperiale di essere nell'intenzione di formar parte dell'Università, e di contrarre gli obblighi imposti ai suoi membri", ora la rivochiamo e ritrattiamo, uniformandoci in tutto e per tutto alle decisioni del S. Padre. Roma questo dì… aprile 1814» (BAP, ms. 3037, Lettere del prof. Giuseppe Colizzi al prof. Giuseppe Antinori, cc. non numerate, lettera di Colizzi ad Antinori del 27 aprile 1814. Le lettere d'ora in poi saranno citate con la sola indicazione di data).
stanziali, e soprattutto conservare lo stabile di Monte Morcino come sede dell'Università. Per questo motivo Colizzi suggerì al Rettore dello Studio perugino di inviare a Roma una Deputazione, formata da persone più che qualificate, per avviare le trattative con il governo pontificio, soprattutto con Mons. Agostino Rivarola, presidente della Commissione di Stato. Antinori seguì il consiglio, anche perché bisognava agire in fretta per evitare di tornare al sistema d'antico regime, come stava succedendo a La Sapienza di Roma 134 .
Colizzi monitorò costantemente il lavoro dei deputati perugini e cercò di procurarsi il maggior numero possibile di abboccamenti con personaggi importanti, come lo stesso Rivarola o come il vescovo di Perugia 135 , per tutelare lo Studio, anche se, a causa della sua posizione, non aveva i contatti di prima e la sua influenza sul nuovo governo era molto limitata. Così confidava all'Antinori nel maggio del 1814: «Dal canto mio siate certo che non mancherò di prestarmi il meglio mi sarà a questo fine. Confesso però che poco potrò fare, non avendo aderenze con i Capi del nuovo Governo» 136 . Grazie alla sua esperienza e ai suoi consigli preziosi, Colizzi diede un contributo inestimabile alla realizzazione dell'impresa: lo Studio perugino, dopo un anno di incontri e di negoziati con le autorità ecclesiastiche, riuscì a conservare quasi immutato l'ordinamento degli studi 137 almeno fino alla [37] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia 43 ----134 «Qui si ripristina tutto sul piede antico. Nella Sapienza si è formato lo stesso giro di Cattedre, e lo stesso metodo riguardo alla Facoltà Legale è stato introdotto, essendosi ripresa la spiegazione del Codice Giustiniano e de' suoi Comentatori» (lettera del 16 maggio 1814). 135 Nel maggio del 1814 Antinori suggerì a Colizzi di procurarsi un incontro con il vescovo. Il barnabita seguì il consiglio, e, malgrado che il vescovo sembrasse voler riacquisire tutti i suoi diritti in ambito universitario, riuscì a convincerlo con le sue doti diplomatiche ad appoggiare la causa dello Studio perugino, anche perché, con il ritorno dello Stato Pontificio, non si poteva cancellare del tutto la sua figura dal governo dell'Università. Infatti scrive: «A seconda de' vostri suggerimenti mi sono recato presso il Vescovo, e gli ho parlato dell'affare di cotesta Università. Mi ha detto di aver dato ordine di prenderne possesso a suo nome, e che intende assolutamente di rientrare ne' suoi diritti. Conoscendo io il suo debole, l'ho catechizzato in modo che sembra ora disposto a favorire la causa della Città, anzi che opporvisi. […] Altronde nel Governo pontificio una qualche dipendenza dal Vescovo è inevitabile» (lettera del 18 maggio 1814). 136 Lettera del 16 maggio 1814. 137 Già nell'estate del 1814, dopo molti incontri con la Deputazione perugina, il Rivarola aveva dato indicazioni su alcune modifiche da fare all'ordinamento. Si trattava di diminuire il numero dei professori e aprire un nuovo concorso per l'attribuzione di alcune cattedre. Colizzi non era molto favorevole a questo provvedimento e scriveva ad Antinori: «A mio modo di vedere, le cattedre che esistono in codesta Università sono le pure necessarie; che anzi ne mancano due essenzialissime, come vi è noto» (lettera del 19 giugno 1814). Le cattedre a cui si riferisce Colizzi non è dato saperlo. L'assetto definitivo fu determinato nel maggio del 1815, quando il papa emanò un breve in cui erano presenti una serie di cambiamenti da apportare all'ordinamento, volti soprattutto al controllo del corpo docente. Infatti esso prevedeva la nomina di quattro censori, il cui compito era di rivedere e di approvare i libri e gli scritti che venivano spiegati a lezione. Inoltre, a fianco del Rettore, il quale doveva riferire ogni bimestre per iscritto alla Sacra Congregazione sull'operato dei professori, erano previsti due Ispettori. Questi dovevano vigilare sulla condotta e sugli insegna-riforma di Leone XII del 1824, e soprattutto lo stabile di Monte Morcino divenne definitivamente di proprietà dell'Università, nonostante che gli Olivetani, una volta ristabiliti dal papa, avessero interferito nelle trattative con il governo pontificio 138 . Sebbene si impegnasse duramente per l'Ateneo perugino, le condizioni economiche e personali in cui versava in quel periodo pesavano molto a Colizzi. Infatti nel corso del tempo si lamentò spesso con Antinori della sua sorte sfortunata per aver collaborato con i francesi ed aver riposto la sua fiducia in quello che sarebbe dovuto essere un nuovo corso, soprattutto per l'istruzione pubblica. Inoltre, in questo stato di ristrettezze economiche e di frustrazione personale, Colizzi «per più motivi ben ponderati», nel luglio del 1814 chiese ed ottenne la secolarizzazione 139 . Le offerte comunque continuavano a non arrivare e fu costretto alle lezioni private per potersi mantenere. È ciò che lamenta in una lettera dell'agosto del 1814: «La mia condizione è peggiore della vostra, e vedo che per poter campare sono costretto a fare delle scuole private» 140 . 44 Letizia Giovagnoni [38] menti dei docenti. Nonostante questo controllo molto più stretto da parte del governo, fu garantito anche per l'anno successivo il mantenimento del sistema creato al tempo della dominazione francese. Colizzi, nel luglio del 1815, afferma: «Nell'anno venturo essendo probabile che il sistema di cotesta Università non subisca variazione, io vi consiglio, e consiglio chiunque di cotesti Professori, a non rinunziare, ma di stare anzi forti al posto che occupano, onde non darla vinta ai Malevoli e Calunniatori» (lettera dell'8 luglio 1815). 138 La questione dello stabile di Monte Morcino rimase incerta almeno fino all'agosto del 1814, quando il papa decise di ripristinare l'Ordine degli Olivetani. In un primo momento sembrava tutto perduto, tanto che Colizzi scrisse ad Antinori: «Il peggio è che sembra essersi ristabilita la massima di restituire i beni mobili e stabili alle Religioni che verranno ripristinate, e che tra queste vi è l'Olivetana. Dunque… lascio a voi di tirarne la dolorosa conseguenza» (lettera del 10 agosto 1814). La situazione cambiò poco tempo più tardi, quando il governo pontificio decise che venissero restituiti solo i beni che i vescovi di ogni città avessero dichiarato utili agli ordini ristabiliti. Quindi Colizzi suggerì ad Antinori di approfittare del momento e di cominciare le trattative con il vescovo di Perugia affinchè dichiarasse il monastero di Monte Morcino un immobile inutile per gli Olivetani. I negoziati durarono mesi e la situazione sembrava non sbloccarsi mai, tanto che nel gennaio del 1815 Colizzi consigliò al Rettore dello Studio perugino di inviare una seconda Deputazione a Roma. Gli esiti furono più che positivi. Nel maggio del 1815 il papa emanò un breve in cui rese ufficiale l'acquisizione dello stabile di Monte Morcino da parte dell'Università di Perugia. Tale stabile è tutt'ora la sede del Rettorato dell'Ateneo. 139 Cfr. lettera del 23 luglio 1814. 140 Lettera del 24 agosto 1814. Per quanto riguarda la situazione finanziaria, Colizzi incontrò difficoltà fin dalla sua nomina ad Ispettore. Infatti nel giugno del 1810, in una lettera diretta al fratello Vincenzo, già Ispettore generale delle manifatture negli Stati Romani e residente in Roma, si lamentava del suo stipendio. Era molto felice per la nomina ad Ispettore, ma l'onorario che percepiva ammontava a soli 80 scudi, cifra stabilita dalla Consulta per chi, già dipendente dell'Università, avesse avuto la carica. Il problema stava nel fatto che Colizzi aveva rinunciato al suo insegnamento a Macerata e quindi si trovava in difficoltà economiche. Il fratello entrò in contatto con De Gerando per risolvere la questione, ma non è chiaro come la faccenda sia andata a finire (ANF, F1e, 145, d1, lettera di Colizzi al fratello Vincenzo del giugno 1810, cc. non numerate). Comunque, tornando al periodo in esame, sembrerebbe che Colizzi non abbia mai percepito l'onorario dovuto all'Ispettore dell'Accademia, né dal governo francese, né da quello provvisorio di Murat. La sua unica entrata era costituita dallo stipendio di Ispettore che l'Università di Perugia, per ordini superiori, aveva continuato a versargli, malgrado egli non svolgesse più tale funzione. Inoltre Colizzi Più volte nel corso del carteggio chiede ad Antinori di informarlo di una qualsiasi cattedra vacante a Perugia, in quanto sarebbe stata la soluzione migliore 141 . Antinori cercò in tutti i modi di accontentare l'amico, ma Colizzi era in una situazione molto delicata e quindi praticamente impossibilitato a ricevere un qualsiasi impiego. Nel luglio del 1815 scrive: «Riguardo a me, non ho che delle speranze di essere impiegato dopo due anni di disimpiego, e perciò di rovina totale per le mie finanze. So che voi vi degnaste di propormi per l'impiego di Matematica in cotesto Collegio nuovo, e ve ne sono e sarò sempre obbligatissimo. Ma v'è chi non mi vede di buon occhio, quantunque sia esteriormente simulato per me il più grande interesse; ed è perciò difficile che io possa di bel nuovo essere nel novero di cotesti professori» 142 .
L'unica possibilità di lavoro che gli fu offerta venne da Spoleto, città che certo non era in cima ai suoi desideri, non avendo uno Studio generale, ma che sembrava l'unica disposta ad accoglierlo con benevolenza, pur non avendole mai dato l'attenzione con cui si era preso cura di Perugia. Sempre nel luglio del 1815 informò Antinori della novità: «Ora sto in qualche trattativa con Spoleto, la quale città mostra verso di me il massimo attaccamento, quantunque da me maltrattata come sapete. Che sarebbe stato se io avessi procurato ad essa il più piccolo de' vantaggi che ho procurato a Perugia?» 143 .
A malincuore dovette accettare l'incarico, perché ormai la sua condizione era troppo compromessa e ne aveva avuto prova quando gli era sta- [39] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia 45 aveva rinunciato a una retribuzione di 20 scudi, assegnatigli dal Consiglio dell'Ateneo umbro come gratificazione per la sua attività nello Studio. Tale gesto aveva provocato una lite con Antinori, risoltasi solo dopo molto tempo (si veda ASUP, P II, AI, lettera di Colizzi a Cesarei del 6 aprile 1814 e BAP, ms 3037, lettera di Colizzi ad Antinori del 7 giugno 1814). I problemi finanziari portarono Colizzi anche a cercare di vendere alcune scanzie che possedeva. Nel febbraio del 1815 scrive: «Per aderire alle istanze presentatemi da Canali, che ha proferito il massimo desiderio di comprare le cinque scanzie che tengo in Fuligno, scrissi al Marchese Barugi che ne facesse fare la stima a quel prezzo che si sarebbe trovato in quella città» (lettera del 12 febbraio 1815). La stima fu di soli 19 scudi; Colizzi la trovò molto bassa, anche perché si trattava di scanzie nuove. Le scanzie vennero poi acquistate dall'Antinori, e Colizzi ne sollecitò il pagamento immediato, date le sue precarie condizioni finanziarie. 141 Ad esempio il 18 maggio 1814 scrive: «Se un giorno si farà per me cattedra vacante, rendetemene avvertito, perché conviene che io pure pensi ai casi miei, essendo andato a vuoto ogni progetto, non essendovi qui nicchia per me opportuna» (lettera del 18 maggio 1814). Ancora in settembre afferma: «Se vi sarà qualche cattedra vacante non lascerò di concorrere; in caso diverso non farò alcun passo, non volendo pregiudicare chicchessia» (lettera del 17 settembre 1814). Infine in una lettera datata 19 ottobre 1814 Colizzi si rassegna al suo destino: «Io, come parmi avervi scritto, verrò costì sugli ultimi del corrente mese o sui primi del prossimo Novembre per riprendere le mie robbe, e con queste mi recherò ove possa trovar miglior fortuna» (lettera del 19 ottobre 1814). 142 Lettera dell'8 luglio 1815. 143 Ibidem.
---- Comunque non poteva aspettare ancora perché ormai le sue condizioni finanziarie erano al limite. Quindi scrive all'amico: «Non mi essendo più possibile di andare innanzi senza un impiego, mi attaccai al sicuro e accettai la Cattedra di Spoleto offertami da quei signori in una specie di entusiasmo. Ora poi, avendo dato parola ed avendola accettata formalmente, non debbo assolutamente mancare; tanto più che son sicuro, come vi scrissi, di aver scelto una dimora, in cui non ho certamente alcun nemico, e ove sono universalmente gradito» 146 .
La nomina di Orioli a Bologna, però, aveva reso vacante la cattedra di Fisica a Perugia e Antinori desiderava che tale impiego fosse concesso al nostro, in cerca di un insegnamento ormai da un biennio. Ma Colizzi dovette rinunciare, almeno per quell'anno, a tale proposta, in quanto ormai in parola con gli spoletini: «Ora vi avverto che io sono già impegnato con la Città di Spoleto. Le maniere gentili e obbliganti delle quali hanno fatto uso per esibirmi la Cattedra di Matematica e Fisica e Chimica in quelle pubbliche scuole mi hanno legato in modo, che ho dovuto accettarla. Sarebbe dunque inutile qualunque passo a mio riguardo, e perciò vi prego a deporre il pensiero» 147 .
Letizia Giovagnoni [40] ---- 144 Di Francesco Orioli non si hanno molte notizie, se non quelle che Colizzi riferisce ad Antinori: originario di Viterbo, venne chiamato a Perugia per ricoprire la cattedra di Fisica durante la dominazione francese. Era comunque anche un letterato e amante dell'antichità, soprattutto quelle etrusche. Nell'ottobre del 1813 Colizzi scrisse ad Antinori: «Vi ricordo ciò che vi scrissi in un'altra mia, ch'egli è un eccellente letterato, ed è anche improvvisatore; ond'è che dovete subito aggregarlo alla vostra Accademia. Si è di più esercitato moltissimo nell'antiquaria, e possiede (per quanto può possedersi) l'antica lingua etrusca, nella quale ha commentato parecchi monumenti» (ASUP, PII, AI, lettera di Colizzi ad Antinori del 29 ottobre 1813). Orioli fu anche arrestato dalle autorità francesi nel dicembre del 1813. Da ciò che si evince dalla lettura del carteggio del Colizzi, non è chiaro il perché di questo arresto. L'unica informazione certa è che già nei primi giorni del gennaio 1814 fu scagionato e poté tornare a Perugia ad insegnare. 145 Quindi, pur essendosi avvicinata la possibilità di poter tornare ad insegnare a Perugia, Colizzi si dovette trasferire a Spoleto. Scriveva ad Antinori di voler vivere con serenità gli anni che gli restavano, dopo tutte le vicende che aveva dovuto sopportare nel bienno appena trascorso: «Io sono certo di ritirarmi in una Città, in cui sicuramente ho ritrovato, e in cui sicuramente godrò, finché io viva, la pace più perfetta. Questo riflesso è il solo che mi consola, dopo le tante vicende cui ho dovuto soggiacere da due anni a questa parte» 148 .
In questo passo Colizzi appare molto amareggiato e stanco. Dopo tanto combattere e protestare, l'unica cosa che sembra volere è una nicchia felice dove poter vivere il resto della sua vita senza problemi. Promette con affetto ad Antinori, data la vicinanza, di passare a trovare gli amici, tra cui lui era sicuramente compreso, molto più spesso («Trovandomi in Spoleto non mancherò di venire a rivedere gli Amici, tra i quali conterò sempre voi, avendomene dato gli argomenti i più decisi») 149 , ma non sembra più interessato agli affari dell'Università di Perugia.
Questa espressione di amarezza, questo desiderio di serenità sembra più il frutto delle difficoltà del momento che non la rinuncia al solito, battagliero impegno che tutte le sue lettere testimoniano. In un'altra missiva mandata da Roma, di cui non si conosce la data, ma che può essere collocata nello stesso periodo, ritroviamo il medesimo umore. Scrive, infatti, che il suo destino era stato sfortunato per essersi troppo occupato degli altri, e di meritare ora un po' di tranquillità: «Gli onori, soprattutto allorché importano la perdita totale della libertà, non sono fatti per me: aggiungete che questo clima mi è totalmente contrario. Dunque me ne tornerò in Perugia, ma ritornerò come semplice privato per godere in pace il resto de' giorni che mi rimangon di vita. Credo di avere abbastanza lavorato a vantaggio degli altri, onde ho il diritto di vivere a me, e di godere di qualche poco di riposo» 150 .
Tralasciando per un momento le sorti di Colizzi, è importante fare una piccola digressione su un aspetto molto significativo nella vita del barnabita: il rapporto con Antinori. I due, oltre che colleghi di lavoro, erano legati da un'amicizia sincera e profonda. Infatti Colizzi, nel carteggio intrattenuto con il marchese, sottolinea spesso l'affetto e la stima che nutriva per lui, consigliandolo sul da farsi per il destino dello Studio perugino e informandolo tempestivamente sugli avvenimenti, anche segreti, che si susseguivano in quel periodo. Colizzi, inoltre, sembrava preoccuparsi anche per la famiglia di Antinori. Nel luglio del 1814, solo per fare un esempio, si prodigò a cercare un maestro qualificato per l'educazione di nipoti del marchese, 151 e in una lunga lettera inviata da Roma, che reca la data ma non l'anno, Colizzi scrive ad Antinori una serie di consigli sul futuro dei suoi figli 152 . Per prima cosa sottolinea come il Rettore dell'Università di Perugia si sarebbe dovuto considerare un uomo molto fortunato, perché aveva avuto figli studiosi che erano arrivati a laurearsi nell'Università della propria città, la qual cosa, secondo Colizzi, era rarissima a quel tempo soprattutto tra i rampolli della nobiltà. Ora che erano diventati adulti, però, spettava a lui, in qualità di capo famiglia, aprirgli la strada nella società civile: «Voi siete, senza che ve ne accorgiate, un fortunato capo di famiglia. Pochi sono quelli (e a Roma fra i nobili nessuno) che abbia avuto il bene di vedere i Figli frequentare per più anni l'Università patria per istruirsi, e porsi in assetto d'intraprendere una carriera onorevole. Ora però ch'essi han fatto la parte loro, sta a voi ad aprire loro la strada per godere il frutto de'loro studj» 153 .
Tra i tre figli di Antinori, Colizzi sembra preferire Annibale, il secondogenito, perché «d'eccellente fondo e vogliosissimo di apprendere», anche se indeciso sulla strada da intraprendere 154 . I consigli che il nostro di- 48 Letizia Giovagnoni [42] ----151 «Mi è riuscito di trovare per maestro de' figli di vostro Fratello un nome di primo merito, ma non potrà essere costì che sui primi di settembre. Egli è dottissimo nelle lingue antiche, e soprattutto nell'ebraico; e quel ch'è più si adatta anche alla prima istruzione» (lettera del 30 luglio 1814). 152 È curioso il fatto che Colizzi abbia scritto in risposta ad un Antinori molto infastidito dal comportamento da lui tenuto. Ciò che veniva contestato al nostro era la mancanza di contatti da quando si era trasferito a Roma. Colizzi si difese dalle accuse così: «Vi lagnate (senza volerlo comparire) a torto di me. Prima di abbandonare cotesta città feci conoscere a tutti gli amici che senza un motivo non avrei loro scritto; e tanto per lo appunto ho osservato scrupolosamente. È ben vero che ho scritto a moltissimi, ma sempre in risposta a qualche affare raccomandatomi. Dunque non io ma voi avete mancato di porgermi» (lettera del 4 gennaio, s.a.). 153 Lettera del 4 gennaio s.a. Colizzi, in questo passo, appare molto polemico nei confronti dei rampolli dell'aristocrazia, soprattutto di quella romana, i quali, a quanto pare, nella maggior parte dei casi non dimostravano una grande attitudine per gli studi 154 Ibidem; prosegue: «Egli è indeciso sulla carriera che dovrà battere. Conviene dunque che vi occupiate anco di lui col procurargli un posto nel militare, o fra gl'Ingegneri». Colizzi diede suggerimenti mirati per tutti e tre i figli di Antinori. Ad esempio sul primogenito Spinelletto scrive: «A Spinelletto non può mancare una Cattedra, ma egli non dovrebbe più oltre tardare a situarsi in uno Studio, ossia di esercitare non per apparenza ma in realtà la professione di legale, presentandosi ne' tribunali ad informare, componendo scritture, de' voti etc. Se lo avesse fatto per lo passato a quest'ora o potrebb'essere primo Giovine in uno Studio, o potrebbe averlo aperto da sé come han fatto parecchi altri suoi Colleghi a lui inferiori per talento e per cognizioni. Vi ricorderete che per facilitargli il concorso a una Cattedra, io lo fissai per ripetitore nel Collegio Pio. Fategli dunque coraggio, e soprattutto fategli conoscere che il patrimonio, che un giorno gli lascerete, non è tale che non abbia bisogno di ampliarlo con le proprie fatiche» (ibidem). Invece sul più piccino, Alessandro, non ha nessun consiglio, perché ancora è troppo giovane: «Alessandrino è ancor giovine, ed ha bisogno di studiare, onde avete ancor tempo a pensare per il suo collocamento nell'Ordine Sociale» (ibidem). spensa al marchese per l'occasione sono preziosi e pieni di affetto, anche se si rammarica molto del fatto di non poterlo aiutare concretamente nella collocazione della prole 155 . Oltre che con il Rettore dello Studio perugino, Colizzi strinse un rapporto molto forte anche con la moglie di quest'ultimo («Voi mi conoscete abbastanza, e forse ancor meglio mi conosce la Marchesa») 156 . Di questa donna si conosce solo il nome, Elisabetta Beaussier di Tolone, e nulla più. Comunque dalle poche informazioni che fornisce Colizzi sul personaggio, essa sembra essere una donna forte e determinata forse più del marito, e a tal riguardo Colizzi scrive, in risposta ad alcune lamentele di Antinori: «Del resto non vedo necessaria la vostra presenza, perché la famiglia possa trovarsi in campagna: la Marchesa è capacissima di reggerla, anzi più capace di voi» 157 .
A questo punto si potrebbe ipotizzare che l'amore, più volte sottolineato nel corso del tempo, che Colizzi ha sempre provato per Perugia e per il suo Studio, sia stato alimentato anche dai forti legami d'amicizia, in primo luogo, con la famiglia Antinori. Sta di fatto che il nostro, a seguito dei due anni romani, cercò in tutti i modi di far ritorno nella città umbra e, dopo un breve passaggio a Spoleto, tornò ad occuparsi, con una rinnovata energia che sembrava ormai aver perso, degli affari dell'Università.
Sul finire del 1815 Giuseppe Colizzi lasciò Roma per andare a ricoprire le cattedre di Fisica, Matematica e Chimica nel liceo di Spoleto. Dall'analisi del carteggio con Antinori si evince che in questo periodo Colizzi era demoralizzato e avvilito, desideroso solamente di trovare un piccolo eremo di pace dove trascorrere gli ultimi anni della propria vita. Questa sua condizione psicologica fu, però, solo momentanea. Già nel settembre del 1816 troviamo il nostro pronto a lasciare Spoleto 158 per tornare di nuovo ad occuparsi, con lo stesso entusiasmo di un tempo, degli affari dello Studio perugino, il quale non passava di certo una fase tranquilla.
Malgrado fosse ancora in vigore il riordino che lo stesso Colizzi aveva redatto e fatto approvare durante la dominazione francese, il governo centrale aveva apportato delle modifiche al sistema, tra cui la reintroduzione del vescovo alla presidenza dell'Università, le quali avevano condot-to a numerosi scontri tra il corpo docente e lo stesso vescovo della città 159 . Gli anni che vanno dal 1820 al 1824 furono di grande tensione per lo Studio, non solo a causa del conflitto circa i poteri del vescovo, ma anche per il fatto che da Roma provenivano voci di un'imminente riforma che avrebbe portato ad una centralizzazione dell'istruzione pubblica e quindi a un declassamento dell'Ateneo perugino. Nel frattempo, Giuseppe Antinori, ormai stanco dopo dodici anni di onorato servizio, lasciò la carica di Rettore e al suo posto fu nominato Colizzi ad interim, il quale cercò, dopo molti viaggi a Roma, incontri e proposte, di salvare le sorti dell'Università. Nonostante gli sforzi suoi e di tutto lo Studio perugino, le voci di un riordino a livello statale si trasformarono in realtà il 28 agosto 1824 quando il "Regolamento degli studi da osservarsi a Roma e in tutto lo Stato ecclesiastico" fu reso esecutivo con la bolla Quod divina sapientia di papa Leone XII 160 .
La riforma leonina spazzò via ogni speranza di poter mantenere l'Università libera, indipendente e con il sistema adottato durante il periodo napoleonico. Colizzi, forse perché ancora personaggio poco gradito per i suoi trascorsi, non fu riconfermato Rettore. Al suo posto fu nominato Luigi Canali, già Ispettore dell'Ateneo in sostituzione proprio del nostro nel periodo francese. Comunque Colizzi continuò ad essere presente ed attivo nella vita pubblica di Perugia. Infatti, dopo molti incontri a Roma, avuti anche mentre era Rettore 161 , riuscì a far riaprire il Collegio Pio e ad ottenere per esso i locali della Sapienza Vecchia, ormai abbandonati da tempo, i 50 Letizia Giovagnoni [44] ---- 159 Si veda ERMINI, Storia dell'Università cit., p. 580. Sebbene Colizzi avesse sempre sostenuto che l'istruzione dovesse essere pubblica e laica, in questa situazione sembrò invece parteggiare per una più decisa presenza del vescovo negli affari dello Studio. Scriveva ad Antinori nel novembre del 1820, infatti, di essersi recato a parlare direttamente con il vescovo, il quale però non si era assolutamente persuaso a recedere dalla decisione di non occuparsi più direttamente dell'Università: «Non prima di ieri mi è stato dato di parlare a Mons. Vescovo per essere egli stato occupato nel dare gli esercizj spirituali ai seminaristi. Per quanto io mi sia studiato di rimuoverlo dalla presa risoluzione di non più intromettersi negli affari tanto dell'Università che del Collegio, non mi è riuscito di ottenerlo: dice che riguardo ai primi egli delegherà in avvenire il suo vicario, e che riguardo ai secondi spetta a voi il decidere» (lettera dell'8 novembre 1820). 160 Nel nuovo sistema fu introdotta l'Università di stato della monarchia pontificia, quindi un'unica legislazione valida per tutto il territorio sottoposto alla giurisdizione papale. L'organo centrale da cui ogni singolo studio dipendeva era la Sacra Congregazione degli Studi; il Rettore sarebbe diventato di nomina papale e lo stesso era per i collegi, disciplinati secondo nuovi criteri e compiti. In più -ed è questa la parte che Colizzi e tutto il corpo docente di Perugia non voleva che si approvasse -nello Stato pontificio sarebbero esistite solo due Università primarie -Roma e Bologna -e le restanti sarebbero state considerate secondarie. Questo nuovo status avrebbe provocato una diminuzione del numero delle cattedre, le quali non dovevano essere più di 17, mentre la laurea che si conferiva in questi istituti di secondo livello, tra cui Perugia, non sarebbe stata considerata idonea per l'ammissione ai collegi professionali e alle docenze universitarie di Roma e Bologna. Quindi, tranne queste ultime due città, gli Studi presenti nel territorio pontificio si trasformarono in una sorta di liceo (ERMINI, Storia dell'Università cit., pp. 584-585). 161 162 . Grazie alle sue doti diplomatiche più volte messe in luce in questa sede, Colizzi fu in grado di stabilire una duratura collaborazione con quello che era sempre stato il suo acerrimo nemico, ovvero il ceto patrizio, «il quale, oltre ad essere stato restaurato, […] albergava anche personalità dall'orientamento culturale moderatamente aperto» 163 . Questa apertura della nobiltà permise a Colizzi di introdurre un riordino dell'insegnamento che unisse i vecchi metodi gesuitici al sistema francese, non senza lasciar trasparire, a tratti, quel lieve sentimento giacobino che lo aveva sempre contraddistinto. Il risultato di tale commistione di elementi fu un'istruzione completa, «una vera e propria istituzione totale […], un dispositivo di potere e di controllo, per quanto improntato all'affettuoso paternalismo finalizzato a plasmare le menti, i cuori e i corpi dei convittori» 164 . Nella costituzione del Collegio Pio, scritta da Colizzi stesso, si trova in primo piano la formazione del fanciullo che avrebbe dovuto renderlo utile a se stesso, alla sua famiglia e allo Stato. Poco spazio era lasciato all'educazione religiosa 165 .
Ancora una volta, pertanto, si è di fronte ad un personaggio che, nonostante la Restaurazione, credeva fortemente nella necessità e nell'utilità di un'istruzione pubblica, statale e meno condizionata dal controllo ecclesiastico. Insomma una personalità all'avanguardia, con idee moderne ed innovatrici, che non smise mai di portare avanti le sue istanze e che per questo fu [45] P 163 Ivi, p. 435 164 Ivi, p. 438. Va sottolineato, comunque, che Colizzi non nutriva molta simpatia verso i Gesuiti. Ad esempio, in una lettera dell'agosto 1814, scrisse ad Antinori con un certo astio: «I Gesuiti reclutano più assai e con maggior esito di un Caporale di Reggimento. Fra i reclutati vi sono tutti i Baccaratisti. In foje han' già spesi 760 scudi, e tengono impiegati molti materazzari per preparare letti per le Reclute che giungono da più parti. È incredibile l'attività di questi risorti settarj del Molinismo e del Probabilismo» (lettera di Colizzi del 13 agosto 1814). 165 Il nuovo sistema di educazione prevedeva l'introduzione di nuove metodologie e ambiti di ricerca al passo con il progresso delle idee e della scienza dell'epoca. Colizzi incluse fra le discipline il sistema metrico decimale, le scienze naturali e l'arte, e ne curò lo sviluppo, armonizzandolo alle capacità di apprendimento dei giovani e cercando di renderlo sempre di pratica utilità e al tempo stesso dilettevole. Lo studio di queste materie doveva essere alternato a lezioni di vita civile e religiosa (cfr. ANGELETTI -BERTINI, La Sapienza Vecchia cit., p. 230 e S. SCALETTI, Scuole e Università a Perugia tra insurrezione e restaurazione: 1831-1835, Perugia, Galeno, 1984, pp. 68-79).
considerato sempre un po' scomodo dalle autorità pontificie. Ne è testimone la censura a cui fu sottoposto il primo tomo della sua opera più importante: il Saggio analitico di giurisprudenza naturale e sociale 166 . Al Colizzi, oltre alla gestione del Collegio Pio, fu affidata per alcuni anni la supplenza alla cattedra di Diritto naturale, insegnamento che, dopo i moti rivoluzionari del 1831, fu sospeso da papa Gregorio XVI, perché considerata "pericolosa" 167 . In ogni modo fu proprio in questo periodo che cominciò a lavorare a quest'opera, divisa in sei volumi 168 e pubblicata a Perugia dalla tipografia Baduel tra il 1833 e il 1836. Il primo di questi tomi, in cui Colizzi cerca di chiarire il fondamento della legge naturale, fu subito mandato alle stampe senza incontrare particolari difficoltà nel suo cammino 169 . Pertanto l'influenza di Colizzi nell'ambiente perugino e la sua fama come intellettuale fecero in modo che il suo volume ricevesse una revisione veloce e benevola. Ormai a stampa avanzata, le autorità ecclesiastiche romane -probabilmente sollecitate da qualche lettore poco amico del Colizzi -decisero che il volume aveva bisogno di un controllo più accurato. Questo passò nelle mani di diversi censori e alla fine la Sacra Congregazione degli Studi contestò a Colizzi una serie di concetti che dovevano essere corretti al più presto: «Dispiaceva ad esempio ai censori romani che nella "quadruplice divisione degli esseri", parlandosi "della vita delle piante, invece di chiamarla puramente vegetativa, si dicesse sensitiva"; che si affermasse "che molti filosofi conobbero la morale in tutta la sua estensione ecc.": asserzione, questa, che […] non si poteva "ammettere perché falsa e perché derogava nella necessità della rivelazione"; si trovava "pericoloso" che nella distinzione delle facoltà umane si attribuissero al "solo corpo" alcune potenze giudicate "proprie dell'anima"; non piaceva che trattandosi degli animali si usassero i ter-
Letizia Giovagnoni [46] ----166 G. COLIZZI, Saggio di Giurisprudenza Naturale e Sociale, Perugia, Tipografia Baduel, 1833-1836, 6 voll. 167 Cfr. STANISLAO DA CAMPAGNOLA, La censura "romana" di un "Saggio" di Giuseppe Colizzi, in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per l'Umbria», LXXVIII, 1981, p. 286. 168 Il primo volume del Saggio si occupa di chiarire il concetto di Diritto naturale, mentre nel secondo tomo Colizzi si concentra sulla dimostrazione di come si applica la teoria del Diritto di natura alle azioni umane. Il terzo è dedicato alle implicazioni della Legge di natura sullo stato di famiglia. Nel quarto e quinto tomo, invece, il Colizzi cambia argomento, occupandosi del Diritto pubblico. L'ultimo volume, infine, tratta del Diritto delle Genti, ovvero dei principi di Diritto internazionale. 169 «L'indiscussa autorità goduta dal dotto barnabita nell'Ateneo perugino gli dovette conciliare una sollecita revisione-censura da parte degli uffici ecclesiastici locali, se già nel maggio-giugno 1833 aveva ottenuto i previsti imprimatur dell'inquisitore Tommaso Vincenzo Lazarini e del vicario generale e censore delegato del vescovo diocesano […] e in agosto il visto del revisore governativo incaricato del delegato apostolico, il professore Nazareno Calderini» (DA CAMPAGNOLA, La censura "romana" cit., p. 285). Da notare che il citato Nazareno Calderini è anche l'autore dell'elogio funebre di Colizzi. Probabilmente i due, oltre ad essere colleghi alla Facoltà di Giurisprudenza, erano legati da un rapporto di stima reciproca. Tutto ciò potrebbe aver in qualche modo influenzato il giudizio del Calderini sull'opera del Colizzi.
Table 46
mini "d'istruzione e di educazione"; né potevano ammettere quanto il Colizzi asseriva "sull'obbligazione di ubbidire alle leggi, perché quantunque la legge ingiusta non produca obbligazione, tuttavia nella maniera in cui l'autore parlava di tale obbligazione, si esprimeva in modo da potersene dedurre che il giudizio di tale obbligazione appartenesse al suddito; oltre di ciò non si dava idea giusta della libertà» 170 .
Questa censura così severa è la riprova che Colizzi e le sue idee moderne non potevano essere accettate dal governo centrale. Comunque egli non rimase immobile e protestò affinché non si procedesse ad una revisione così pignola. Data la complessità del caso, intervenne il Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, il domenicano Domenico Buttaoni, che riuscì a convincere il nostro ad aggiungere al testo almeno due note che riguardavano le censure più importanti. Nella prima Colizzi doveva spiegare il fatto che molti filosofi avevano conosciuto la morale in tutta la sua estensione in questo modo: «asserendo io che i filosofi conobbero la morale in tutta la sua estensione, intendo parlare della morale ordinata al fine sociale; a questa pure non intendo asserire che l'abbiamo compresa in tutta la sua estensione giacché non è delle forze umane il comprenderla; bensì ne abbiamo conosciute le massime principali, nell'applicazione delle quali essi di più soventi volte errarono gravemente: ciò che non ometto di rivelare sopra tutto ove espongo la scienza legislativa» 171 .
La seconda, riguardante la parte dell'obbligatorietà delle leggi che stava molto a cuore al governo pontificio in un momento in cui c'era pericolo di sommosse, avrebbe dovuto dichiarare che: «questa proposizione per tal modo generalizzata, potrà sembrare a taluno che tenda ad indebolire la obbligazione annessa alle leggi positive.
[…] Di fatti la conoscenza che ci procacciamo della forza obbligatrice della legge di natura è l'effetto di un raziocinio che fa la ragione medesima da cui inferisce che non potrebbe trascurarne l'osservanza senza volere la propria imperfezione e la propria infelicità, e però senza porsi in opposizione con se medesimo. Lo che non è delle leggi positive. Esse non escludono certamente l'intervento della ragione, ma questa perché riconosca e convenga di essere obbligata ad osservarla, basta che conosca che dette leggi provengono dalla autorità legittima, la quale, avendo in vista il bene sociale […], non può la ragione medesima non inferirne di essere tenuta ad osservarle. La esattezza di questa proposizione apparisce altresì evidentemente dal vedere che i legislatori, volendo adattarsi alla capacità comune, sogliono premettere a ciascuna legge che promulgano quello che chiamano preambolo, nel quale si studiano di esporre lo spirito della medesima e fan conoscere come essa tenda al benessere sociale» 172 .
Egli dovette accettare le due note proposte dal Buttaoni, e tra il febbraio e il marzo 1834 il volume vide la luce. Questa vicenda ci fa comprendere come il Colizzi, pur essendo passato molto tempo e pur avendo dimostrato di sapersi adeguare al restaurato governo pontificio, era ancora considerato in qualche modo sospetto. Nonostante tutto, la sua attività di docente e di intellettuale continuò senza sosta fino alla morte. Oltre agli altri cinque tomi del Saggio analitico, che lo tennero impegnato a lungo, nel 1845 pubblicò un'operetta 173 , già citata in precedenza, "manifesto" del suo pensiero filosofico e politico. Giuseppe Colizzi morì a Perugia nel giugno del 1846. Come recita il suo necrologio: «Nella sera del 16 giugno 1846, più centinaia di accese faci precedevano circondavano seguivano un feretro, e dodici giovani, aventi al braccio sinistro il velo di lutto, stavano incaricati al trasporto. Numeroso popolo affollavasi in tutte le vie per le quali il funebre convoglio passava tra i mesti canti delle salmodie propiziatorie alle anime de' trapassati. In tutti regnava mestizia. Il feretro sosteneva l'esanime spoglia dell'Ab. D. Giuseppe Prof. Colizzi» 174 .
Il rito funebre fu celebrato nella cappella dell'Università, accompagnato dal Requiem composto da Francesco Morlacchi per la morte del re di Sassonia, ma che, come si trova scritto sempre nel necrologio, «amasi ripetere tra noi in occorrenza di grandi funerali per defonti degnissimi di ricordanza» 175 . La cerimonia farebbe pensare che, dopo tutto, i Perugini non avessero dimenticato i meriti di Colizzi verso la Città. Secondo quanto affermano la biografia scritta da Francesco Bartoli ed alcuni documenti presenti nell'Archivio di Stato di Perugia, Colizzi lasciò tutti i suoi beni al Collegio della Mercanzia, i cui membri eressero un busto in suo onore nel Collegio Pio che per tanti anni aveva diretto 176 . 54 Letizia Giovagnoni [48] ---- Caro Amico, Sono e sarò sempre della stessa maniera di pensare. La mia convenienza è stata compromessa e sagrificata nel modo il più crudele ed ingiusto. Ma ora che fare? Ciononostante vi sarò molto tenuto se nella prima adunanza parteciperete al Consiglio, che avendomi voi comunicato la deliberazione del medesimo a mio riguardo, ne sono rammaricatissimo per più ragioni, e in particolare perché essendo io stato confermato nel medesimo impiego dal Governo Napolitano coll'onorario fissatomi dal Governo Francese, non vi era che quello che potesse ordinare l'abrasione del mio nome dal ruolo di codesta Università. Aggiungerete, che io ringrazio lo stesso Consiglio del pensiero che si è dato di assegnarmi a titolo di gratificazione un trimestre, ma che io non posso accettarlo sotto questo titolo, essendomi dovuto come porzione del mio Onorario. Concluderete, che siccome io più volte ho reclamato contro l'ingiustizia di questi aggravi che si recava a codesta Università, così prego il Consiglio medesimo a volere accettare li scudi 20, importo di detto trimestre, a vantaggio del Gabinetto Mineralogico, che si tornerà costì quando codesto Stabilimento non abbia a soffrire qualche catastrofe che lo rovesci: ciò che mi lusingo non debba accadere.
Del Contemporaneamente verrà pubblicato un proclama, che legerete costì esservi trasmesso in questo corso di posta. In questo collegio Romano si è già ristabilito l'antico uso di dettare in latino le matematiche e sono stati eliminati i libri, che io avevo introdotto. Vi avverto che la formula che vi spedii nell'ultimo corso di posta è la sola che venga ammessa, onde non tardate a farla sottoscrivere. Vi ho aggiunto la mia sottoscrizione, perché ove si è commesso il peccato ivi dee farsi la ritrattazione.
Speditemi a posta corrente l'attestato che vi trasmisi dell'essere io stato approvato e confermato dal Governo napolitano, essendo probabile che debba presentarlo. Potete farne fare una copia conforme per recarla in Consiglio.
Non mancate, di grazia. Colizzi IV Roma, 16 maggio 1814 Carissimo Amico, Mi sono ieri abboccato col Marchese Nicola e con mio piacere l'ho trovato impegnatissimo per la conservazione della vostra Università. Egli parlerà con Rivarola per informarlo di tutto, e ne spera un ottimo esito. Converrà però che facciate de' sagrifici, e in particolare questo di mantenere gratuitamente il nu me ro de' Convittori, che ora [trovasi] a carico della Bartolina. Ond'egli possa nell'occorrenza regolarsi sarà ben fatto, che nella prima occasione gli indiriz ziate i testamenti Fondatori delle tre Sapienze. Dal canto mio siate certo che non mancherò di prestarmi il meglio mi sarà possibile a questo fine. Confesso però che poco potrò fare, non avendo aderenze con i Capi del nuovo Governo. In conformità poi del consiglio che mi date farò una visita a cotesto Monsignor Vescovo, e procurerò di scoprire la sua maniera di pensare. Mi è spiaciuto di aver sentito che Torriglioni siasi qui recato per brigare; ma io tengo per certo che poco otterrà, anzi nulla, giacché si vuole che il Papa sia determinato di ristabilire pochissime Congregazioni Religiose. Avvertirò nonostante di questo medesimo vostro fratello, perché a suo tempo possa oprare, ad impedire, che gl'impegni abbiano effetto. Vi scrissi già la mia ultima risoluzione riguardo al mio affare; ma nelle attuali circostanze fa- [51] P A seconda de' vostri suggerimenti mi sono recato presso il Vescovo, e gli ho parlato dell'affare di cotesta Università. Mi ha detto di aver dato ordine di prenderne possesso a suo nome, e che intende assolutamente di rientrare ne' suoi diritti. Conoscendo io il suo debole l'ho catechizzato in modo che sembra ora disposto a favorire la causa della Città anzi che opporvisi. Essendo io persuaso che ricupererà la grazia del Papa è bene non averlo contrario.
Altronde nel Governo pontificio una qualche dipendenza dal Vescovo è inevitabile. Oggi ritorno dal medesimo in compagnia del Marchese Nicola, che agisce col maggior calore ed impegno. Intanto non mancate di mandargli le copie de' Testamenti de' Fondatori delle tre Sapienze, potendo giovarli in qualche circostanza. Io posso poco, ma siate sicuro che non mancherò di fare il possibile per ottenere un esito favorevole. Vi ho in altra mia partecipato che Monsignor Rusconi è provvisoriamente Capo dell'Istruzione Pubblica in Roma. Egli però non farà innovazioni sostanziali, e si contenta d'informarsi delle innovazioni fatte: nella Sapienza la Facoltà di Legge è stata ristabilita sul piede antico, e nel Collegio Romano hanno que' Professori introdotto l'antica rotina, ed eliminato perfino i corsi di Matematiche che erano stati introdotti. Tutto ciò per altro è stato operato volontariamente e senza l'ordine del suddetto Prelato. Se un giorno si farà per me cattedra vacante rendetemene avvertito, perché conviene che io pure pensi ai casi miei, essendo andato a vuoto ogni progetto, n'essendovi qui nicchia per me op-portuna. Riguardo al noto affare rimetto il tutto alla vostra prudenza ora che le circostanze han variato. Se vi riesce di ottenere la conferma del locale, e delle rendite sarà cotesto il più compìto Stabilimento d'istruzione pubblica dello Stato Pontificio. Io lo spero, ma temo peranche per più motivi, ch'è inutile che vi esponga partitamente. Salutatemi la Marchesa e gli amici.
Vostro Amico Colizzi P.S. Lasciate di spedirmi le lettere sottobanda, ne usate in avvenire del titolo d'Ispettore, che più non mi compete. Il Padre Merendi Domenicano ha avuto ordine di preparare per la ripristinazione dell'ordine. Si vuole di sicuro che verrà ristabilito tra i Monastici il Santo Ordine Benedettino. Questa notizia se si verifica, non potrebb'essere più opportuna per la vostra causa. VI Roma, 23 maggio 1814 Carissimo Amico, Avrete dal Marchese Nicola scritto per mezzo di lettera l'esito dell'abboccamento suo, e degli altri Deputati con Monsignor Rivarola. Dunque le cose si dispongono in guisa, che vi è tutto il motivo a sperare, che l'esito delle premure fatte e da farsi sarà felicissimo. Voi pure avendo avuto motivo di presentarvi in Fuligno al Santo Padre avrete cooperato allo stesso fine. Ne attendiamo per tanto un rapporto; e direi meglio lo attendono questi Signori Deputati per agire di concerto. Il monaco Torriglioni protesta che non si opporrà, perché passi alla Città il bel locale di Monte Morcino, ed assicura di non aver proposto alcuno per rivendicarlo: Altronde come vi scrissi vi è morale speranza che non abbia ad essere ristabilito l'ordine Olivetano, attesa la scarsezza de' soggetti, che il numero di questi si fa ascendere a poco più di trenta. Non dimenticate di spedirmi i noti tre Testamenti; e il Marchese Nicola si raccomanda di agire voi pure con delicatezza con cotesto Monsignor Vicario, e di non opporvi [...] direttamente al dominio che pretenderà esercitare a nome di questo Monsignor Vescovo. Ne' momenti attuali ogni ostacolo può ritardare l'esito delle premure che si fanno dai vostri Deputati, e potrebbe anche renderle inutili. Lo stesso Monsignor Rivarola è di questo sentimento, come vi avrà partecipato il Marchese Nicola. Vi ricordo che io pure voglio ritornare a far parte di cotesto Stabilimento alla prima vacanza di una qualche Cattedra. Salutatemi distintamente la Marchesa, e gli Amici. Ho da queste capito che voi, ed i vostri Cooperatori avete spiegato nelle attuali circostanze moltissima attività, ed avete agito col maggiore impegno. Vi assicuro però che questi vostri Deputati, e in particolare vostro Fratello, ch'è l'anima di tutto, hanno corrisposto perfettamente alla fiducia, ch'è stata in loro riposta dai vostri Concittadini. Il risultato delle loro operazioni è che Monsignor Rivarola, e i Cardinali Pacca e Braschi hanno dato quasi totale assicurazione che conserverete la vostra Università qual'è nello stato attuale. Eglino lunedì si presenteranno al Santo Padre, e gli porgeranno la nota supplica, che vi è a sperare possa essere rimessa a Monsignor Rivarola. Siccome però è assolutamente impossibile, che nel caos in cui si trovano gli affari di prima urgenza, possano non dirò ultimarsi ma pur anche trattarsi gli altri di molto minore entità; così è necessario che cotesta Città deputi qui qualcuno che abbia a trattare quello che riguarda cotesta Università, e che io vedo sì bene incamminato. Il Marchese Nicola propende per Ansidei, e mi assicura essere molto attivo ed efficace. Poiché io non lo conosco neppure personalmente non saprei che aggiungere alle premure di vostro Fratello.
Sulla parola di questo vi scrissi in altra mia, che l'abate Torriglioni mostrava delle ottime disposizioni. Ma ora posso scrivervi con certezza il contrario. Il volpone con una persona, che non posso nominarvi, si espresse parlando di cotesto Monastero in somma confidenza res clamat ad Dominum. V'è però a sperare, che i suoi impegni non avranno alcun'effetto. Poiché sebbene il Santo Padre non abbia tuttavia esternato ad alcuno il suo piano riguardo ai Regolari, e Monache; pure sembra indubitato, che si ristabiliranno poche Religioni, e tra queste le più numerose, e di prima istituzione. Il medesimo Santo Padre ha formato una Deputazione composta dal Cardinale Litta, e de' tre Prelati Morozzo, Bartozzoli, ed Arezzo per esaminare la condotta de' Vescovi giurati, ed un'altra composta di otto Cardinali per gli affari Ecclesiastici, e per l'esame de' Preti giurati.
Riguardo ai testamenti delle tre Sapienze io ve li ho richiesti solo per il caso in cui fosse necessario conoscere gli obblighi, dai quali le medesime erano aggravate. Del resto se ne farà un uso prudente, e con i dovuti riguardi.
In questa Sapienza e Collegio Romano è stato ristabilito il tutto come nel 1807. Atteso questo provvedimento moltissimi Professori sono rimasti in asse. In particolare sono stati eliminati dal ruolo Mangiatordi e Scarpellini, che tutt'ora si trova in Francia. Se ai Perugini riesce di conservare in questa burrasca la propria Università, possono chiamarsi avventuratissimi; ed io lo spero e me ne lusingo in una totale fiducia. In caso diverso molti di cotesti Professori sarebbero in mezzo ad una strada.
Godo di aver sentito il ritorno de' vostri figli in ottimo stato di salute, e prendo parte ancor io nella consolazione vostra, e dell'ottima Madre, che mi riverirete particolarmente. Vale. Colizzi
Letizia Giovagnoni [54] VIII Roma, 7 giugno 1814 Carissimo Amico, Avrete a quest'ora udito l'ottimo accoglimento che hanno avuto dal Santo Padre i vostri Deputati. Ma ciò non basta. Doveva una felice combinazione portare Monsignor Rivarola presso lo stesso Santo Padre nel momento in cui essi sortivano dall'udienza. Ciò ha fatto che il Sovrano abbia rimesso a questo prelato gli affari della vostra Città; lo che erat in votis come vi accennai nell'ultima mia. Dopo tale avvenimento io tengo per certo, che conserverete la vostra Università a un dipresso sullo stesso piede. Difatti Monsignor Rivarola è rimasto con Vostro Fratello, che appena giunto costì si occupi in compagnia di coloro che possono avervi parte, nella formazione del piano di organizzazione, e che gli venga trasmesso al più presto per sottoporlo alla sovrana approvazione. Anche il locale vi sarà ceduto; ed il Torriglione rimarrà come un cavolo torsuto. Egli è in pessima vista presso il Governo, passando come fautore de' Francesi; e questa pure è una fortunata combinazione, come la è l'altra di trovarsi il vostro Vescovo in disgrazia del Pontefice. Dunque fatevi coraggio, e proseguite ad operare con energia Vostro Fratello prima di tornare in Patria dimanderà a Monsignor Rivarola de' schiarimenti, che vi gioveranno per l'operazione che dovete fare, anzi vi serviranno di base.
Table 54
Riguardo a quanto mi accennate del dover io essere contento della risoluzione consiliare relativa al mio affare, non ne dubito punto, giacché avete trovato giustissimi i sentimenti che vi espressi nell'ultima mia. Suppongo che avrete rappresentato al Consiglio che la mia eliminazione dal ruolo fu ingiusta; mentre io fino all'epoca in cui fu in vigore il Governo Napolitano rimasi al mio posto colle medesime prerogative e appuntamenti. In tutti i modi avrete almeno a mio nome rinunziati i venti scudi, e pregato lo stesso Consiglio ad accettarli per lo Stabilimento del Gabinetto Mineralogico. Salutatemi la Marchesa, e ditele che Pucci qui presente similmente la saluta. Giunto che sarà qui il Signor Ansidei mi recherò a fargli visita onde avere la soddisfazione di leggere il piano che mi accennate. Da questo vedrò se per me possa esservi costì collocamento. Il mio galontomismo ha fatto, che mi trovi senza impiego; mentre se avessi voluto aderire al G. Maestro, avrei dovuto ritenere l'Ispettorato e la Cattedra di chimica: che anzi l'avere io voluto servire a tal punto fu il mio motivo per cui non fui pagato. All'essere rimasto senza Cattedra si aggiunge l'essere ora rimasto senza pensione mentre per più motivi ben ponderati ho creduto necessario di cercare la secolarizzazione, che mi è stata accordata.
Mercandetti è pronto a coniare le medaglie; e le avrete sicuramente prima della metà di agosto. Vi avverto però ch'egli vuole sette scudi per cadauna e non più sei; e che nel diritto della medaglia vi ha bensì il ritratto del Santo Padre, ma nel rovescio nulla che alluda al fine per cui la dispensate. Lo stesso Mercandetti si obbliga a coniare nel piccolo orlo piano esistente vicino al lembo del Rovescio il nome del candidato e quel che più vi piacerà.
Riguardo alli scudi venti avete fatto benissimo a ritirarli, ed io li riceverò quando vi contentiate che nella ricevuta ponga, che sono in saldo dell'ultimo bimestre del mio onorario d'Ispettore di cotesta Università a tutto Febbraio. Vale e molti saluti alla Marchesa.
Ditemi s'è vero che Magalotti voglia rinunciare la Cattedra. Se ciò fosse posso concorrervi senza far torto ad alcuno. XI Roma, 30 luglio 1814 Carissimo Amico, Ho in realtà ricevuto la lettera in cui mi inviaste la decisione di cotesto Consiglio che mi riguarda, ed io in una risposta vi accennai, che mi riservavo ad altro tempo di rispondervi. Avendovi poi scritto nell'ultimo ordinario, che avrei accettato li scudi venti, ma soltanto a titolo di onorario per l'ultimo bimestre, vi feci abbastanza conoscere, che io non era contento di detta decisione. Siccome però non è ora più tempo di parlare di questi guai così scrivo in questo stesso corso di posta a Giombini, perché veda di combinare in guisa la ricevuta di non contestare che io ricevo il danaro a titolo di gratificazione, ma perché mi è dovuto come Ispettore.
Veng'ora alle ultime vostre lettere, due delle quali ho ricevuto per la posta, ed una per mezzo di Ansidei. In esse mi incombensate principalmente di tre cose, che posso dire di avere in tutto eseguite. Difatti il Signor Mercandetti ha già cominciato il lavoro delle medaglie che avrete sicuramente prima della metà del prossimo agosto. Ho poi scritto sui certificati che mi avete inviato gli attestati per i due Laureandi che vi accludo; e rispondo per ultimo alla dimanda che mi fate riguardo al metodo, che qui si terrà nella collazione delle Lauree.
Queste, giusto il vecchio costume venivano conferite in parte dal Collegio degli Avvocati Concistoriali in parte da Dottori di Collegio, cioè le Lauree in Giurisprudenza venivano conferite dai primi; quelle in medicina venivano conferite dai secondi. Ora questo Monsignor Bettini, che come vi è noto è Preside e Rettore della Sapienza, ha deciso, che le Lauree mediche si conferiscano pure secondo altro costume, ma che le legali non si conferiscano in altro modo. Tal risoluzione è dispiaciuta assaissimo agli allievi, che hanno presentato delle replicate istanze, perché questo venga per lo meno modificato, ma fin qui senza averne effetto. Comunque però voglia andare la faccenda parmi, che voi vi troviate in circostanze diverse. Perché avendo deciso il Principe, che in cotesta Università non si faccia veruna innovazione, crederei che possiate con sicurezza seguire il sistema dell'anno scorso, facendo però in guisa che v'intervenga questo Mons. Vicario, cui spetta ricevere la Confessione di fede da parte dei Laureandi, senza la quale le lauree, come vi è noto, sono state giudicate nulle. Regolatevi nel resto con prudenza, e molta cautela.
Non ho ancora avuto il bene di abbracciarmi con Ansidei. Egli si recò presso di me, ma siccome non mi trovò in casa, non ebbe l'avvertenza di lasciarmi il luogo di sua abitazione; così non mi è certo possibile di riverirlo, nonostante le più minute ricerche presso Simonetti, Orlandini, Campanelli etc. Siate però certo, che quando egli creda di prevalersi dell'opera mia, non mancherò di assisterlo il meglio potrò. Qui abbiamo in moto missioni, esercizi, catechismi e che so io. Spero che questi si estendano anche costì, avendo i Perugini bisogno di far del bene al pari e anche più dei Romani. Mille saluti alla Marchesa. Addio.
Il Vostro Amico Colizzi P.S. Mi è riuscito di trovare per maestro de' figli di vostro Fratello un nome di primo merito, ma non potrà essere costì che sui primi di settembre. Egli è dottissimo nelle lingue antiche, e soprattutto nell'ebraico; e quel ch'è più si adatta anche alla prima istruzione. Non è questo il primo uomo che abbandona Roma per essere disgustato, mentre parecchi altri si sono diretti altrove. Godo che Perugia ne faccia acquisto, e voi non mancate di averlo in vista, essendo opportunissimo per diversi impieghi. Vale.
Il Campanelli è stato intimato di rinunciare. Me l'ha partecipato egli medesimo chiedendomi consiglio. Tenete a voi la notizia finché non la udiate per altra parte. [57] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia XII Roma, 3 agosto 1814 Carissimo Amico, Ieri finalmente mi fu dato di abboccarmi con Vincenzino Ansidei. Vi assicuro però, che avrei avuto piacere di non averlo in veruna guisa veduto, tanto è stato il rammarico da me provato nell'udire le prodezze de' vostri Concittadini, e gli sforzi che fanno per distruggere un'opera, che forma ora il primo ornamento della vostra Patria. Il ricorso dato al Cardinale Protettore da cotesti Signori del Cambio non vi è così fatale come l'altro presentato al medesimo dai Dottori di Collegio. In esso non contenti di reclamare i loro diritti, dipingono con i colori più neri lo stato attuale di cotesta Università. I ricorsi sono stati rimessi a Monsignor Rivarola. Questi stomacato da tal procedere, e perché non avete nel piano secondato le sue viste, si protestò con Ansidei di volersene lavare le mani, di voler rimettere l'affare al Cardinale Litta, e che tutto si sarebbe ristabilito sull'antico piede (come sapete essere accaduto presso di noi). Avendolo però l'ottimo Vincenzino saputo prendere con buona maniera, ed avendolo toccato sul punto d'onore, facendogli osservare che il Santo Padre aveva a lui rimesso la decisione dell'affare, che la Città poneva in lui solo la sua fiducia etc., giunse in qualche modo a quietarlo così che gli ordinò di lasciargli le carte, promettendogli di esaminarle, e di dargli una risposta. Quando questa non sia evasiva (come v'è pure motivo a temere) converrà che vi risolviate ad eseguire il piano di Monsignore Delegato [depennato] col togliere per lo meno 1/3 delle Cattedre, coll'annoverare tra queste la Veterinaria (giacchè egli la reputa di prima necessità) converrà, che voi e Canali rinunciate alle vostre cariche, non volendo egli altr'Impiegati con onorario che i Professori. Aggiungete a questi guai, che il Torriglioni prosegue a farvi guerra spietata reclamando pazzescamente per i suoi Monaci Monte Morcino. Ieri sera me ne convinsi pienamente, avendolo asserito un medesimo della Commissione, cui Mons. Campanelli, in casa del quale ebbe luogo il discorso, parlò molto in favore dell'Università, e principalmente perché le venga conferito il locale in cui si trova presentemente. Qui i poveri Professori sono trattati in una maniera per essi umiliantissima, e si trovano in totale avvilimento. Si vuole di sicuro che domenica partirà la lettera in forma di Breve in forza del quale saranno ristabiliti i Gesuiti, e verranno riuniti a quelli di Russia. Mille saluti alla Marchesa. Ora sì che ho perduto affatto la speranza di tornare fra voi! Al Marchese Nicola, che mi riverite, prego dire che il maestro di cui gli scrissi nell'ultimo corso di posta è un uomo di circa quarant'anni d'età. Vale.
Colizzi XIII Roma, 10 agosto 1814 Carissimo Amico, La totale assicurazione che mi era stata data, che il Signor Conte Ansidei si recava costì col Corriere di quest'oggi ha fatto, che io non mi sia potuto prevalere, che pure mi si erano presentate, di altra occasione per inviarvi le vostre meda-glie, ma invece le abbia affrancate alla posta. Vi partecipai già, che non mi era stato possibile di avere altra medaglia col ritratto del Santo Padre, che questa col rovescio dell'Anfiteatro Flavio, che in realtà è superbissima, e molto ricercata, nonostante che il conio abbia un poco sofferto. Non presentando esse pertanto altra parte libera per una piccola iscrizione che il margine del Diritto od esiste il basso del Posteriore, potrete per lo appunto farla incidere in questo, potendo contenerla comodamente. Vi accludo la ricevuta dello stesso Mercandetti; e ritirato che avrò il danaro dal Signor Graziosi ve ne darò avviso per lettera. È inutile che vi ragguagli sullo stato della controversia riguardante cotesta Università, avendone scritto a lungo al Signor Ansidei. Il peggio è che sembra essersi ristabilita la massima di restituire i beni mobili e stabili alle Religioni che verranno ripristinate, e che tra queste vi è l'Olivetana. Dunque… lascio a voi di tirarne la dolorosa conseguenza. Salutatemi la Marchesa. Colizzi P.S. Ritirarete dal Signor Paoletti direttamente dalla posta la scatola colle medaglie. Nel prossimo ordinario vi parteciperò la spesa per la franchigia e punto.
XIV Roma, 13 agosto 1814 Carissimo Amico, Graziosi mi ha pagato li scudi 48, de' quali 28 per il Signor Mercandetti come dalla ricevuta che vi ho trasmesso. A quest'ora suppongo che avrete ritirato le medaglie dalla posta. La spesa per il paro è stata di soli baj. 40, oltre cinque altri per la scatola in cui lo ha voluto assicurare. Gli affari di cotesta Università rimangono in statu quo; ma Torriglioni non cessa di brigare con effervescenza. È scritta una circolare ai Vescovi, che potrebbe giovarvi non poco. In essa dopo aver il Santo Padre premesso che ciascun ordine regolare avrà una casa centrale in Roma che sarà la residenza de' superiori, ingiunge ai Vescovi di indicare quali siano le case de' Suddetti Ordini esistenti nelle loro Diocesi; quali ristabiliti quali no, quali utili quali inutili. Vedete che cotesto Monsignor Vicario, che fa ora le veci del Vescovo, col porre la casa di Montemorcino, e dirò meglio gli Olivetani fra i disutili potrebbe fare un gran servizio alla città. Informatene il Marchese Nicola e i Deputati, se pure si trovano tuttora costì. I Gesuiti reclutano più assai e con maggior esito di un Caporale di Reggimento. Fra i reclutati vi sono tutti i Baccaratisti. In foje han'già spesi 760 scudi, e tengono impiegati molti materazzari per preparare letti per le Reclute che giungono da più parti. È incredibile l'attività di questi risorti settarj del Molinismo e del Probabilismo. Vale. Mille saluti alla Marchesa. P.S. Sono state fatte molte diligenze per trovare una casa per i Deputati, ma già pensavo di attendere la loro venuta prima di fissarla per più ragioni. Non sarà gran male che uno o due giorni essi si fermino alla locanda. Comunicate ciò a Canali, che prego salutarmi.
[59] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia XV Roma, 24 agosto 1814 Carissimo Amico, Godo moltissimo, che tutte le funzioni di cotesta Università siano state ultimate a seconda de' vostri desideri, e con generale approvazione, e meco ne han goduto questi Signori Deputati, ai quali ho partecipato la vostra carissima. Essi agiscono con molto impegno, ne mancano di porre in azione ogni molla per ottenere un esito favorevole, ed io lo spero riguardo alla conservazione del locale non meno che delle rendite. Ma non così riguardo alla conservazione del medesimo numero di Cattedre, e di tutti i Professori. A mio modo di vedere dal ruolo di cotesti Impiegati si vogliono scostare diversi soggetti, che non sono in buona vista presso il vigente Governo. Per riuscire in ciò senza far chiasso temo che possa tenersi la stessa condotta che si è tenuta in questa Università, dalla quale sono stati esclusi tutti i Professori nominati dal cessato governo. Siccome però non è improbabile che qui possano essere richiamati e posti di nuovo in esercizio parecchi degli esclusi; non è improbabile che sia costì per accadere il medesimo. Caro Amico vi assicuro, che mi angustia sommamente il solo pensare che possano rimanere senza Cattedra delle persone verso le quali nutro stima ed amicizia sincera, e che nel novero di queste siate ancor voi. Già vi scrissi, che gli impieghi di Rettore e d'Ispettore si vogliono aboliti. Dunque a voi rimarrebbe la sola Cattedra. Ma questa per cattiva ventura è nel numero di quelle non credute necessarie. Vedete pertanto che passate pericolo di perdere ancor questa. Aggiungete che voi avete meco in comune la macchia di esservi avvicinato al Governo Francese, e di aver occupato un posto luminoso, e Dio sa quando sarà questa per cancellarsi. Ma che fare? La mia condizione è ancora peggiore della vostra, e vedo che per campare sono costretto a fare delle scuole private. Non per questo però voglio perdermi d'animo, e voi fate lo stesso, risovvenendovi, che la sorte che stiamo per incontrare è per lo appunto quella che il più delle volte attende coloro che quaggiù ebbero l'ardire di occuparsi a vantaggio de'loro simili. Salutatemi la Marchesa, e comandatemi.
Il Vostro Amico Colizzi XVI Roma, 8 settembre 1814 Caro Amico, Sono qui giunti i ricorsi de' noti vostri Concittadini contro cotesta Università, che vorrebbero rovesciata ad ogni costo. Siate però certo, che tutto al più produrranno qualche ritardo all'ultimazione dell'affare non ne impediranno l'effetto. Lunedì dopo pranzo in una Congregazione deputata si deciderà se debba o no concedervisi il locale di Monte Morcino; ed io tengo per l'infallibile che lo conserverete, mercè un piccolo canone annuo. Anche la riunione delle rendite, e lo stesso numero di Cattedre vi saranno conservate; e nel supposto che si apra per tutte un nuovo concorso di requisiti, voi dovete presentare i vostri, così chiedendo il vostr'onore.
Riguardo al posto di Rettore fate benissimo a non rinunciarlo. Esso cade da sé nel nuovo impianto, dovendo per lo avvenire esercitarsi a turno, e gratuitamente: lo stesso è del posto d'Ispettore. Dunque per questa parte conservatevi passivo. A questo Tribunale della Penitenzieria è giunto nuovo l'affare della scomunica e de' scomunicati. Se n'è ricercato l'autore e non si è trovato. Posto ciò avrebbesi dovuto inviare un ordine a cotesto Monsignor Vicario col quale non solo si vietasse ogni passo ulteriore, ma più si sottoscrivesse di dichiarare nullo il già fatto. Invece si scrive in questo corso di posta al medesimo di dare la facoltà ai Confessori di assolvere i pretesi scomunicati. Voi deducetene le conseguenze. Si vuole di certo che nel giorno 15 del corrente verranno restituite le Marche. Salutatemi la Marchesa.
Colizzi XVII Roma, 17 settembre 1814 Carissimo Amico, Avendo dovuto presentare in questa Penitenzieria l'istanza per la nota assoluzione richiestami dal Signor Dottor Pacifico Pascucci, ho creduto opportuno presentarne una anche a vostro nome, giacchè il non chiederla avrebbe potuto nuocervi nell'opinione di chi l'ha richiesta. Ve la trasmetterò nell'ordinario prossimo tal quale mi verrà consegnata, non volendo conoscere qual sorta di penitenza vi sarà ingiunta.
Vi scrissi già, che questi Signori Deputati hanno felicemente compito l'operazione di già sì bene incamminata dal Marchese Niccola. Essi meritano i pubblici elogi, e in particolare di cotesti Professori, per essere riusciti a conservare lo stesso numero di Cattedre. Se in appresso ne verrà escluso taluno, ciò non potrà attribuirsi loro la colpa, giacchè l'esaminare i requisiti ha voluto il Governo riserbare a se stesso. Siccome però cotesto Monsignor Delegato dovrà riunirli, e suppongo anche informare su i medesimi; così tengo per fermo che la faccenda andrà blandamente, e voi conserverete il vostro onore col conservare la vostra Cattedra a dispetto di chi vorrebbe vedervi fuora. Con chi ha dimostrato in quest'incontro molt'amicizia, ed io che sono stato interpellato dalla Deputazione in tutte le sue operazioni, posso farne la più certa testimonianza. Se vi sarà qualche cattedra vacante non lascierò di concorrere; in caso diverso non farò alcun passo, non volendo pregiudicare a chicchessia. Vi avverto che nel piano (appunto per essersi voluto confermare lo stesso numero de'professori, ed aderire ad alcune viste particolari di Monsignor Rivarola) si è dovuto tagliare all'ingrosso riguardo la partita dell'esito; ma mi lusingo che in atto prattico cotesta Università potrà soddisfare a tutte le spese; temo più che pel nuovo anno scolastico la Sapienza Vecchia rimarrà vuota. Riveritemi il Marchese Nicola, e la vostra Compagna, e dite al primo che non lascio di adoperarmi per avere il piacere di servirlo. Vale.
Vi prego dire al Dottor Pascucci, che fino a mercoledì prossimo non mi è possibile spedirgli il rescritto; ma che sia tranquillo essendo stato sin d'ora assoluto da qualunque censura avesse incorso colla nota sottoscrizione. Carissimo Amico, Vi compiego il noto rescritto di questa Sagra Penitenzieria. Qui si è preceduto diversamente, essendosi ordinato che ciascun professore debba fare una nuova ritrattazione, ed assoggettarsi agli esercizj spirituali. Per quelli però ai quali incombeva l'obbligo d'insegnare la Teologia si è ordinata la esclusione perpetua dalle cattedre, purchè non avessero protestato nell'atto di sottoscrivere di non volere insegnare le proposizioni del Clero gallicano. I vostri Deputati sperano sul fine del mese di essere costì di ritorno, non mancando loro per l'ultimarsi dell'affare che il Breve, per l'estensione del quale il tutto è già in ordine. Canali e Giombini vi salutano, e voi mi riverite tanto e poi tanto la vostra amabile Compagna. Vale.
Colizzi XIX Roma, 1° ottobre 1814 Carissimo Amico, Contro di voi, siccome contro Canali ed altri moltissimi soggetti, sono qui giunti de' forti reclami, e delle accuse più o meno gravi. Esse sono state dirette ad imbrogliare l'affare, ed impedirne l'esito felice, non meno che ad escludere parecchi Professori dalle Cattedre, che occupano in cotesta Università. Nel numero di questi ci siete ancor voi, ed ecco perché vi abbia scritto di concorrere a dispetto di chi vi vorrebbe fuori da cotesto Stabilimento. Canali ha certamente dimostrato molt'amicizia per voi; e ciò vi basti. Dunque avea io ragione di consigliarvi a concorrere; e dovete farlo assolutamente per non darla vinta ai vostri e comuni nemici; tanto più che è naturale il supporre, che chi non presenta i suoi requisiti al concorso vuol dimettersi da se stesso dal suo impiego.
Allo stesso Canali ho partecipato l'ultima vostra lettera, ed egli si è preso l'incarico di parlare con Filipponi, e col Signor Avvocato de Bonis nel suo passaggio per Fuligno. Non mi essendo poi nota l'abitazione del Signor Giuseppe Bona, non mi essendo stato possibile di averne sentore, ho eseguito il vostro suggerimento, e gli ho diretto un biglietto per la posta, invitandolo a recarsi presso di me per ricevere le note stampe.
Pieri, Giombini, e Magalotti ritornano al loro posto; sicché vedete non esservi nicchia per me aperta in cotesta Università. Vi ringrazio per altro del desiderio che mostrate di vedermi di nuovo tra i Professori della medesima, e lo ripeto dall'amicizia cordiale e sincera che avete per me. Salutatemi vostra Moglie, e gli Amici.
Da quattro in cinque giorni a questa parte l'affare dell'Università si va imbrogliando malamente. Io però spero che coll'appoggio di Rivarola si supereranno gli attacchi, che oppongono gli avversari a voi noti. XX Roma, 8 ottobre 1814 Carissimo Amico, Due righe in fretta. Mentre sembrava che l'affare dell'Università fosse giunto felicemente a suo termine; mentre si stava attendendo l'ordine dell'esecuzione di quanto si era convenuto per farne stendere il Breve, alcune difficoltà promosse dal partito contrario hanno arenato il tutto per sì fatta guisa, con questi Signori Deputati han dovuto contentarsi di ottenere, che per l'anno scolastico 1815 niente s'innovi. In conseguenza di tale sovrana risoluzione, cotesti Professori rimangono al loro posto, e voi e Canali conserverete per un anno oltre la Cattedra anche le vostre Cariche di Rettore e d'Ispettore. Se per una parte questo procedere inconseguente mi sa molto labile, dall'altra mi ha consolato che esso viene a salvare parecchi soggetti spettanti a cotesto stabilimento de' quali io vedevo irreparabile la rovina. Canali, che si è dato il massimo moto, e che non ha risparmiato cura e diligenza per il buon esito dell'affare, v'informerà a voce di tutto. Egli partirà in compagnia di Vermiglioli e Pieri su i primi della settimana prossima. Mille saluti alla vostra amabile Compagna.
Il Signor Giuseppe Bona non si è fatto ancora da me vedere. Scrivetegli dunque voi, e ditegli che si rechi da me, che abito al Monte della Farina al numero 50.
Non mi è riuscito di trovare Biondi quantunque lo abbia cercato in sua casa e presso Nelli ove suol capitare frequentemente. Carissimo Amico, Mercandetti non ha voluto calare un soldo: bensì mi ha promesso, che le medaglie riusciranno dello stesso peso di quelle dell'anno scorso, e che saranno in ordine per il giorno 6 di agosto. Al medesimo ho già consegnato trenta dei 40 scudi che mi avete inviati, e che ho prontamente ritirato dalla posta. A suo tempo vi avvertirò del modo da me tenuto per farvi avere le sudd. medaglie con minore spesa possibile. Vi ringrazio della cordialità che mi dimostrate, e vi prego, quando vi sia costì qualche vacanza di cattedra che possa competermi, di rendermene avvertito. Voi poi non dovete assolutamente rinunziare, tanto più che sotto l'attuale Regime di Consalvi pare che le cose prendano migliore aspetto. Riveritemi la Marchesa, e gli Amici.
A quest'ora dovreste avere avuto lettera di Biondi.
Vostro affezionatissimo Colizzi XXX Roma, 9 agosto 1815
Carissimo Amico, Vi spedisco per il Corriere le note medaglie. Essendo riuscite più leggere di quelle dell'anno scorso le ho fatte pesare e le ho pagate a rigor di peso come nel conto che vi compiego. Nel pacco troverete il colonnato che lo stesso signor Mercandetti ha ricusato di ricevere come falso. Se in altro possa servirvi comandatemi. Intanto salutatemi la Marchesa e gli Amici ed avvertitemi quando vi possa essere una nicchia libera per me per rinuncia di alcuno di cotesti Professori. Monsignor Agliata prosegue a migliorare ma con molta lentezza, ed io credo che passerà del tempo lungo prima che sia in caso di uscire. Vale.
Il Vostro Colizzi XXXI Roma, 2 settembre 1815 Carissimo Amico, La persona che da Monsignor Giustiniani delegato di Bologna venne incombezata a trovare due professori l'uno per la Fisica l'altro per la Chimica, propose prima me di ogni altro per la Fisica. Un tale però, che arrossisco nominare, essendo stato dalla medesima interrogato sulla mia condotta, attaccandosi all'impiego passato d'Ispettore, favorì darle delle informazioni tali, sicché ne venni esclu-so. In conseguenza della mia esclusione accadde la nomina di Orioli al vantaggio del quale ho io indirettamente contribuito, avendolo fatto conoscere alla sudd. persona ne' primi giorni ch'egli da Viterbo si recò in questa Città. Eccovi in breve come sia accaduta l'elezione di Orioli alla cattedra di Bologna. In tale stato di cose che dovevo io fare? Non mi essendo più possibile di andare innanzi senza un impiego mi attaccai al sicuro e accettai la Cattedra di Spoleto offertami da quei signori in una specie di entusiasmo. Ora poi avendo dato parola, ed avendola accettata formalmente, non debbo assolutamente mancare; tanto più che son sicuro, come vi scrissi, di avere scelto una dimora, in cui non ho certamente alcun nemico, e ove sono universalmente gradito.
In questa occasione son certo che non vi dispiacerà che io dimandi un qualche piccolo compenso per i miei vetri che lasciai costì, e in particolare per l'apparato di Woulz, che qui ho dovuto ordinare. Parlatene a Canali, cui direte che il Signor Giorgini ora non è qui, ma deve tornare lunedì o martedì prossimo, e che tornato che sia non mancherò di provvedergli i Nautilj. Riveritemi la Marchesa e gli Amici. Addio.
Roma, 19 ottobre 1814 Carissimo Amico, Mi sono recato presso il Signor Bruni pel noto affare; ma egli è da qualche tempo in campagna, ne ritornerà in città prima de' SS.i. Ho potuto però parlarne con un suo giovine, che mi ha promesso di impegnare il suo Principale a rispondermi nel prossimo corso di posta.
Biondi è assorto col suo Alessandro, cosicché difficilmente è accessibile. So che spera molto, e senza dubbio otterrà per lo meno di rientrare nel suo posto. Procurerò di vederlo, e in tale occasione gli presenterò con i saluti i vostri rimproveri. Io come parmi avervi scritto, verrò costì sugli ultimi del corrente mese o sui primi del prossimo Novembre per riprendere le mie robbe e con queste mi recherò ove possa trovare miglior fortuna. Salutatemi la Marchesa e gli Amici, e sono Vostro affezionato Amico Colizzi Carissimo Amico, Avendomi Giombini partecipato che desiderate che mi recassi presso il Signor Bruni per informarmi se avea pagato il noto canone, ho eseguito il vostro desiderio per lo appunto questa mattina. Ho però inteso dal medesimo con mia somma sorpresa, ch'egli ha rinviato a cotesto Signor Dottor Fani il danaro, o per meglio dire l'ordine che gli era stato trasmesso di qui riscuoterlo. Ne adduce per ragione che avendo più volte richiesto al sud. Signor Fani l'istrumento d'investitura per eseguire gli ordini di questa Segreteria di Stato del 18 Giugno, non ha potuto mai ottenerlo. Ciò posto avete torto voi se avete mancato di passare al Fani l'istrumento o ha torto il Fani se avendoglielo voi consegnato non lo ha trasmesso. Intendetevela voi con questo Signore, e se posso in alcuna cosa, comandatemi.
Vi prego di dire a Battistino Vermiglioli che gli risponderò tosto che avrò potuto ritirare il Millinger, e che nel rimanente stia pur tranquillo che mi darò tutta la premura di servirlo. Salutatemi la Marchesa, e il Marchese Nicola e sono il Vostro affezionato Colizzi XXIII Roma, 14 Gennaio 1815 Carissimo Amico, L'affare del locale non è il solo che richieda la sollecita spedizione di una nuova Deputazione. I reclami di alcuni de' vostri Concittadini, le pretensioni di parecchi di cotesti Professori Emeriti, le brighe e gli intrighi del celebre [zoppo] potrebbero portare un colpo fatale anche al rimanente. In conseguenza di questi ben fondati timori suggerii ad Irlandieri di scrivere costì che si sollecitasse la spedizione suddetta. È però necessario che questa sia composta di uomini che abbiano la testa sul busto, ed anche di qualche titolato. A mio parere dovrebb'essere composta (giacchè a voi non è lecito comparire) del Marchese Nicola, di Battistino, del Marchese Sorbello e di Meniconi. È inutile che vi additi lo stato della questione mentre ne sarete informatissimo dalla lettera di Irlandieri. L'affare si rimedierà riguardo al locale con un qualche sagrificio. Ma il resto? Prevedo che senza molta attività ed energia sarà difficile il superare i tanti ostacoli che i Malevoli cercano di frapporre, onde impedire che l'amministrazione de i fondi prosegua ad essere riunita a vantaggio di cotesto Stabilimento.
Per riguardo alla Macherani son certo che appoggerà presso Monsignor Agliata la vostra causa. Mille saluti al Marchese Nicola e alla vostra Consorte, e sono invariabilmente il Vostro affezionato Colizzi 70
Letizia Giovagnoni [64] XXIV Roma, 4 febbraio 1815
Carissimo Amico, L'affare di cotesta Università avrà un esito felicissimo, e i Deputati ritorneranno di sicuro col Breve Pontificio. La loro venuta era necessaria per più motivi, che stimo inutile di annoverarvi, giacchè li saprete d'altronde. L'impegno che ha preso la Congregazione che fece il riscritto, e in particolare Monsignor Arezzo e Rivarola, ha prodotto il buon effetto, che non si è più parlato di un aumento del Canone annuo già fissato: altronde la previdenza di fare la stima di ciò che potrebbe rendere annualmente il locale di Monte Morcino è stata savissima ed opportuna. Ho lasciato in casa di Biondi la vostra lettera, giacché vi sono passato tre volte, né ho mai avuto il bene di trovarlo. Ho scritto a Barugi di Fuligno perché faccia stimare le scanzie, che venderò a Canali che me le ha richieste.
Mille saluti alla Marchesa, e al Marchese Nicola, e amatemi.
Colizzi XXV Roma, 12 febbraio 1815 Carissimo Amico, Per aderire alle istanze presentatemi da Canali, che ha proferito il massimo desiderio di comprare le cinque scanzie che tengo in Fuligno, scrissi al Marchese Barugi che ne facesse fare la stima a quel prezzo che si sarebbe trovato in quella città. Mi risponde che la stima l'ha fatta eseguire, e importa scudi 19. Veramente a me importarono assai di più; né le ho poste mai in opera, onde sono realmente nuove. Mi aggiunge di volere spedirvele; procurandovi il maggiore risparmio nel trasporto. Ho pensato di rendervi di tutto ciò avvertito, perché, quando vi accomodi, possiate farle trasportare in Perugia su i Carri de' contadini, o in altro modo più economico. Vi accludo la lettera stessa di Barugi, perché vi serva di giustificazione. Il danaro lo consegnerete a Giamboni, cui scrivo in questo stesso corso di posta, ordinandogli che ve ne faccia la ricevuta.
Avrete udito da Canali l'esito nel totale felice dell'affare riguardante il Locale di cotesta Università. Conviene che ora vi aiutate nel procurare di nascondere quel che potrete senza compromettervi delle mobilie, e arredi sacri, giacché il tutto dee restituirsi ai Monaci. I Deputati faranno qui il rimanente, e proveranno di salvare per lo meno i letti. In questo affare, secondo me la maggiore disgrazia è stata la perdita delle Botti, mentre avrebbe la vendita di questi prodotti prodotta una risorsa ragguardevole a codesto Stabilimento. Salutatemi la Marchesa, e comandatemi.
Vostro Amico affezionato Colizzi [65] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia XXVI Roma, 25 febbraio 1815 Caro Amico, La perdita de' mobili è stata irreparabile. Si è fatto di tutto per impedirla ma inutilmente. Mons. Agliata avea fissato per tale che i Monaci han diritto ad un compenso proporzionato a quel che cedono. Ne dovea quindi venire in conseguenza che si dovesse loro promettere monastero in questa città, come è stato fatto, che si dovessero loro accordare le mobilie, e obbligare cotesto stabilimento a pagare ai medesimi il noto canone.
Riguardo però alla mobilia la cosa è stata alquanto modificata mentre si rilascerà all'Università una buona parte degli arredi sacri, non verran toccati gli scafali ed il tavolone della libreria, e rimarranno al loro posto i quadri murati. Vedete dunque che la perdita che fate non è poi gran cosa. È ben vero che la biblioteca rimarrà vuota ma voi che conoscete la qualità de' libri che la componevano converrete che per questa parte perdete pochissimo. Ciò che è riuscito gravoso ai vostri Deputati (e lo è in realtà) è stato il dovere accordare il trasporto in Gubbio o in Fuligno dell'archivio, della libreria, e de' quadri. Ma che fare? Conveniva abbassar la testa, e sottoscrivere; tanto più che sarebbe stato infinitamente più gravoso a cotesta Università l'aumento che le si minacciava di altri 2 o 3 cento scudi annui. Dunque fatevi animo, nascondete quel che potete, e rimettetevi a chi ha voluto, che per tal modo e non altrimenti si convenisse.
Nell'ultima vostra mi scriveste, che non eravate in caso di pagarmi per ora le scanzie: siccome però io le vendo per bisogno di danaro, così mi vedo costretto a dirvi, che se non potete pagarmele subito, sarò costretto a darle ad altra persona che le prende allo stesso prezzo, e mi paga sul momento. Dunque in occasione che spedite il danaro pel Breve a Canali speditegli li scudi 19 per le scanzie.
Ho anche bisogno di un attestato (trovandomi insegnante di Chimica) di avere in cotesta Università supplito in diverse circostanze alle Cattedre di Matematica, e di Diritto naturale e pubblico. Vi prego a farmi cavare siffatto attestato dal Libro del Consiglio, e di sottoscrivere voi il foglio apponendovi il sigillo solito e di spedirmelo per qualche occasione favorevole onde risparmiare la spesa della posta. Riveritemi Egli però non vuole cedere un quattrino, e richiede 8 scudi per medaglia come nell'anno scorso. Saranno esse dello stesso peso, ed avranno nel rovescio il campo libero, onde possiate farvi incidere l'iscrizione onoraria comodamente. Se io mi trovassi in caso, gl'impronterei il danaro come feci nell'anno scorso; ma nel corrente le mie finanze sono ristrette in modo che non posso improntare veruna somma. Dunque spedite il danaro, che nel resto vi servirò con la maggiore sollecitudine.
Nell'anno venturo essendo probabile che il sistema di cotesta Università non subisca variazione, io vi consiglio, e consiglio chiunque di cotesti Professori a non rinunziare; ma di stare anzi forti al posto che occupano, onde non darla vinta ai Malevoli, e Caluniatori. Riguardo a me non ho che delle speranze di essere impiegato dopo due anni di disimpiego, e perciò di rovina totale per le mie finanze. So che voi vi degnaste propormi per l'impiego di Matematica in cotesto Collegio nuovo, e ve ne sono e sarò sempre obbligatissimo. Ma v'è chi non mi vede costì di buon occhio, quantunque sia esteriormente simulato per me il più grande interesse; ed è perciò difficile che io possa di bel nuovo essere nel novero di cotesti professori. Ora sto in qualche trattativa con Spoleto la quale città mostra verso di me il massimo attaccamento, quantunque da me maltrattata come sapete. Che sarebbe stato se io avessi procurato ad essa il più piccolo de' vantaggi che ho procurato a Perugia? Voi conservatemi la vostra amicizia che mi sarà sempre carissima, e riveritemi la Marchesa, tutta la famiglia, e l'ottimo Signor Bordoni.
Carissimo Amico, Vi sarà nota l'offerta fatta al Professore Orioli della Cattedra di Fisica sperimentale all'Università di Bologna. Tal notizia son certo che vi porrà in orgasmo per farmi avere questa che in cotesta rimarrà vacante per questa traslocazione. Ora vi avverto che io sono già impegnato con la Città di Spoleto. Le maniere gentili e obbliganti della quale hanno fatto uso per esibirmi la Cattedra di Matematica e Filosofia e Chimica in quelle pubbliche scuole mi hanno legato in modo, che ho dovuto accettarla. Sarebbe dunque inutile qualunque passo a mio riguardo, e perciò vi prego a deporre il pensiero. Io sono certo di ritirarmi in una Città, in cui sicuramente ho ritrovato, e in cui sicuramente godrò, finchè io viva, la pace la più perfetta. Questo riflesso è il solo che mi consola dopo le tante vicende, cui ho dovuto soggiacere da due anni a questa parte. Alla vostra che mi spedite per mezzo di Pucci non risposi, perché mi parve non richiedesse risposta. Trovandomi in Spoleto non mancherò di venire a rivedere gli Amici, tra i quali conterò sempre voi, avendomene dato gli argomenti i più decisi. Addio. Salutatemi la Marchesa. Carissimo Amico, Non prima di ieri mi è stato dato di parlare a Monsignor Vescovo per essere egli stato occupato nel dare gli esercizj spirituali ai seminaristi. Per quanto io mi sia studiato di rimuoverlo dalla presa risoluzione di non più intromettersi negli affari tanto dell'Università che del Collegio, non mi è riuscito di ottenerlo: dice che riguardo i primi egli delegherà in avvenire il suo Vicario, e che riguardo ai secondi spetta a voi il decidere. Dunque dipende da voi l'affidare la Cattedra di Rettore del Collegio a Burgalassi o a Mezzanotte, o ad ambedue divisamente. Eglino mi assicurano che saranno indifferenti sulla determinazione che sarete per prendere.
Anche rapporto al giovine Magalotti conviene che prendiate una risoluzione. Il Zio, da quanto mi scrive sembra in tutti i modi risoluto di ricondurlo in Collegio, e solo dimanda per grazia di farlo passare alle Matematiche. Mi riverisca la Marchesa, e i figli, e sono Il Vostro Amico Colizzi XXXV Roma, 18 agosto 1821 Carissimo Amico, Comprendo benissimo che dovete trovarvi in qualche angustia ed inquietudine; ma queste avran fine per voi: lo che non sarà per me, per lo meno finchè le cose non siano state fermate. La vostra carica vi delega all'amministrazione generale delle rendite di cotesti stabilimenti; ne io sono tenuto che supplire per voi in vostra mancanza. Avete dunque torto a lagnarvi di trovarvi abbandonato; giacchè, lo ripeto, l'incarico di amministrare, e il provvedere alle finanze dell'Università spetta a voi e non a me, e se io talvolta vi ho prestato mano è stato per pura connivenza e amicizia. Del resto non vedo necessaria la vostra presenza, perché la famiglia possa trovarsi in campagna: la Marchesa è capacissima di reggerla anzi più capace di voi. Riguardo a me non ritornerò indubitatamente finché non avrò ottenuto qualche cosa per cotesta Università e non abbia ultimato alcuni miei particolari interessi. Salutatemi tutti di casa, e sono Vostro affezionato Amico Don Giuseppe Colizzi XXXVI Roma, 5 settembre 1821 Amico Caro Ciccolini mi ha fatto ricapitare li scudi venti che gli avete consegnato, e ve ne sono obbligatissimo.
Vi ho scritto altra volta che la vostra rinunzia sarà accettata, e forse in questo medesimo corso di posta riceverete la lettera del Cardinale, in cui v'incaricherà unicamente di proseguire per pochi giorni quanti per lo appunto ne dovran passare prima del mio ritorno in cotesta Città. Io non cesso di agire pel bene di cotesto Stabilimento scientifico, e spero qualche cosa di ottenere: non però senza tirarmi addosso delle odiosità.
Fin qui nulla posso precisarvi perché in realtà nulla si è fissato. Mi spiace di non aver avuto il bene di conoscere una persona tanto celebre per le sue conoscenze e per le sue qualità morali quale è il vostro ospite. Fate che gradisca i miei rispetti, seppure si trova tuttavia presso di voi.
Riveritemi la Marchesa, e gli Amici.
Il Vostro affezionato Amico Colizzi XXXVII Roma, 26 settembre 1821 Carissimo Amico, Compatisco assai le vostre circostanze, ma perché conosciate le mie eccovi in breve lo stato dell'affare al momento attuale.
Monsignor Nicolai (di cui ho saputo essere proprio di prendersi tutte le brighe possibili senza ultimarne una) affin di prender tempo si attaccò al pretesto che avea bisogno da costì di documenti di quanto io a voce asserivo. Questi, come sapete, furono inviati, né tardai un momento a presentarglieli. Ma nel mentre mi lusingavo di poter incominciare a trattare l'affare, mi partecipò, come vi scrissi, che una impreveduta incombenza di Segreteria di Stato l'obbligava per un giorno ad occuparsi di cose più rilevanti, ed intanto mi commise due promemorie, in una delle quali volle che gli facessi conoscere la mia maniera di pensare circa il modo di rimediare allo sbilancio di cotesta Amministrazione, nell'altra gli facessi conosce- [71] P. G. Colizzi all'Università degli Studi di Perugia re con la maggiore generalità lo stato dell'Università, e degli annessi stabilimenti etc. Eseguii il tutto prontamente. Ma che? Sono già scorsi dei giorni, né mi è fin qui riuscito di passare un quarto d'ora a tavolino con il medesimo, né d'indurlo a prendersi per lo meno la briga di leggere le mie carte. Anche questa mattina mi avea dato l'appuntamento, che poi è andato in fumo: me ne ha dato un altro per venerdì mattina; temo però che ancor questo finirà in qualche Congresso, od impegno particolare. In somma io mi trovo presso che nella disperazione, non sapendo a qual partito mi apprendere. Attenderò venerdì e in seguito prenderò qualche risoluzione, giacché non valuto l'avergli fatto conoscere le urgenti circostanze di cotesta Amministrazione, e i disordini ai quali conviene dare un pronto riparo. Non così nell'affare con i Padri Olivetani. Poiché con essi mi è dato di poter parlare ed agire, spero di concludere la conciliazione in brevissimo tempo. Ho trovato della brava gente, e non quale da noi si supponeva. Mi incresce ciò che mi scrivete del Cherubini. Il vostro onere porterebbe che voi, lasciando l'impiego, presentaste a Monsignor Nicolai (che sicuramente lo dimanderà) l'ultimo rendiconto, e propriamente il rendiconto a tutto giugno dell'anno corrente. Prevedo che questa mancanza gli costerà la perdita dell'impiego. Sabato spero di potervi scrivere qualche cosa di preciso. Riveritemi tutti di vostra Casa. Addio.
Il Vostro Amico affezionato Don Giuseppe Colizzi XXXVIII Perugia, 21 ottobre 1821 Carissimo Amico, Monsignor Tesoriere ieri fu a Terraglia e questa sera sarà in Giano, ove si fermerà fino a venerdì. Sabato pranzerà in Fuligno e la sera in Perugia. Queste notizie sono sicure, avendomele date lo stesso Monsignor Vescovo, che questa medesima mattina gli ha spedito un plico con lettere in Giano. Caro amico, io mi trovo (tibi soli) in qualche angustia e temo che col dimandare in Roma un soggetto per rimediare ai nostri guai abbiamo fatto un passo falso. Non aggiungo di più. Addio, salutatemi tutti.
Domani dopo pranzo sarà costì Alessandrino. Dovendo assolutamente ritornare la sera della vigilia de' SS. per tal modo avrà costì dimorato gli otto giorni promessigli. Riguardo all'affare dell'Università io l'avevo posso dire concluso e non rimaneva che combinare oggi con Monsignor Tesoriere alcune cose per averne l'ultimatum. Ora però il tutto va a scombussolarsi, così che non so neppure io cosa accaderà. Poiché mi picco di onestà, non voglio assolutamente che si abbia a dire che ho distrutto il Consiglio, né l'interna sua sistemazione per favorire alcuno.
Riguardo alla vostra venuta che fate dipendere dal mio consiglio io non la vedo necessaria, e se io fossi in voi (soprattutto nello stato attuale di cose) farei a meno di venire. Addio. Mille saluti a tutti.
Don Giuseppe Colizzi XL Roma, 24 dicembre 1821 Caro Amico, Per ben due volte sono stato in compagnia del Signor Filipponi nella Computisteria Camerale per ricercare i Boni che attestano il credito della Sapienza Vecchia per le note somministrazioni; ma ogni ricerca è stata inutile. Esiste tra le carte, che ora ho presso di me, non solo la ricevuta di detto Curiale, ma altresì una lettera in cui contesta di averli passati e consegnati in Computisteria, e di avere ottenuto la liquidazione del credito. L'affare è serio, né si sa congetturare d'onde abbia avuto origine tal mancanza: altronde il danno sarebbe grandissimo, giacché pagandosi il terzo, il nostro credito (che si paga assolutamente) è di circa 2400 scudi. Fate di grazia delle indagini tra le vostre carte e tra quelle dell'archivio per vedere se mai n'esistessero detti boni.
Monsignor Tesoriere non ha più alcuna parte nel nostro affare il quale ora dipende interamente dal Cardinale Segretario di Stato. Codesto prelato mi ha tolto di speranza riguardo alle promesse somministrazioni. Dunque? Voi ne vedete al pari di me le conseguenze. Pieri parte nella 1a domenica o al più tardi nel lunedì del prossimo Gennaio, e sicuramente si apriranno le Cattedre di fisica sperimentale e meccanica ai 10 o agli 11 di detto mese.
Riveritemi Gli affari di questa Università, senza la malattia del Santo Padre, si sarebbero ultimati nella loro totalità da più giorni a questa parte. Monsignor Soglia mi fa sperare che per martedì si spedirà l'ultimatum con le nomine, e null'altro. Vedremo, ma io ne dubito ancora per lo stesso motivo.
Codesto Monsignor Cancelliere, da più ordinarj ha ricevuto l'ordine di affiggere gli inviti per il concorso alle due Cattedre vacanti e per i Sostituti. Voglio sperare che a questa ora l'avrà fatto. Ho scritto a Bartoli che faccia coraggio a Spinello e al suo Checchino, tanto più che debbono essere nella Facoltà di Giurisprudenza due sostituti, uno per la Canonica, l'altro per la Civile.
Se non lo fanno, un giorno ne proveranno il pentimento. Il vescovo di Camerino tanto ha fatto, e tanto ha brigato ch'è riuscito a ottenere l'Università con i mezzi necessari. Non avrà però che 17 cattedre come pure Macerata, né quindi il Diritto di Laurea nelle Scienze Fisico-Matematiche.
Non è sperabile di avere costì un Collegio Filologico, giacché questo suppone che nell'Università vi siano per lo meno le principali Scuole di Lingue Orientali.
Riguardo alla dilazione richiesta per il concorso alle cariche di sostituti, il vostro riflesso è ottimo; e altronde l'ordine spedito a Monsignor Vicario portava che si pubblicasse contemporaneamente tanto il concorso per le Cattedre che quello per i Sostituti.
Del resto il piacere che dite avere da me ricevuto non merita ringraziamenti, e voi dovete prendervi tutto il comodo possibile, come già mi esternai con la Marchesa alla quale unitamente a tutti di vostra Casa vi prego a porgere i miei più cordiali complimenti. Qui, da mattina a sera, le processioni per le Contrade si succedono senza interruzione. Voglio sperare che lo stesso si farà costì in occasione del Giubileo.Vedendo la Signora Marianna e la Teresina vi prego a riverirmele. Addio. Conservatevi, e comandatemi. Caro Amico, Vi lagnate (senza volerlo comparire) a torto di me. Prima di abbandonare cotesta città feci conoscere a tutti gli amici che senza un motivo non avrei loro scritto; e tanto per lo appunto ho osservato scrupolosamente. È ben vero che ho scritto a moltissimi, ma sempre in risposta a qualche affare raccomandatomi. Dunque non io ma voi avete mancato di non porgermi delle occasioni di scrivervi.
Vengo ora direttamente alla vostra lettera. Voi siete, senza che ve ne accorgiate, un fortunato capo di famiglia. Pochi sono quelli (e in Roma fra i nobili nessuno) che abbia avuto il bene di vedere i Figli frequentare per più anni l'Università patria per istruirsi, e porsi in assetto d'intraprendere una carriera onorevole. Ora però ch'essi han fatto la parte loro, sta a voi ad aprire loro la strada per godere il frutto de' loro studj.
A Spinelletto non può mancare una Cattedra, ma egli non dovrebbe più oltre tardare a situarsi in uno Studio ossia di esercitare non per apparenza ma in realtà la professione di legale, presentandosi ne' tribunali ad informare, componendo scritture de' voti etc. Se lo avesse fatto per lo passato a quest'ora o potrebb'essere primo Giovine in un Studio, o potrebbe averlo aperto da sé come han fatto parecchi altri suoi Colleghi a lui inferiori per talento, e per cognizioni. Vi ricorderete che per facilitargli il concorso a una Cattedra, io lo fissai per ripetitore nel Collegio Pio. Fategli dunque coraggio, e soprattutto fategli conoscere che il patrimonio, che un giorno lascerete, non è tale che non abbia bisogno di ampliarlo colle proprie fatiche.
Riguardo ad Annibale io lo amo molto, perch'è d'eccellente fondo, e vogliosissimo di apprendere. Egli è indeciso sulla carriera che dovrà battere. Conviene dunque che vi occupiate anco di lui col procurargli un posto nel militare, o fra gl'Ingegnieri. Intendo benissimo che simili risoluzioni richiedono de' grandi sagrifici; ma oltre che coll'attivarsi e brigare si diminui scono, vi ha di più questo di buono: che fatti una volta non vi si pensa più.
Alessandrino è ancor giovine, ed ha bisogno di studiare, onde avete ancor tempo a pensare pel suo collocamento nell'Ordine Sociale.
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Del resto assicuratevi che se in questo Stabilimento avessi veduto una nicchia adatta per i vostri figli, ve l'avrei proposta senza bisogno che voi me ne scriveste. In esso non vi era che un impiego che avrebbe potuto convenire ad Annibale; ma quello era stato promesso o a Pieri o al Sig. r Poletti; ed è stato dato a quest'ultimo per averlo il primo ricusato. Voi mi conoscete abbastanza, e forse ancor meglio mi conosce la Marchesa, onde non potete sospettare della sincerità di quanto vi espongo.
Io qui non passerò sicuramente l'estate. Gli onori, soprattutto allorché importano la perdita totale della libertà, non son fatti per me: aggiungete che questo clima mi è totalmente contrario. Dunque me ne tornerò in Perugia, ma ritornerò come semplice privato per godere in pace il resto de giorni che mi rimangon di vita. Credo di avere abbastanza lavorato a vantaggio degli altri; onde ho il diritto di vivere a me, e di godere di qualche poco di riposo. Non La provincia Romana nel 1608 annoverava così sette comunità, in una realtà socio-politica assai composita e complessa, se non più, come quella della provincia Piemontese. Tuttavia, è una realtà in cui i Barnabiti hanno potuto muoversi con un certo agio, avviando una attività apostolica che li ha portati a estendere la propria presenza al Centro e al Sud della penisola italiana.
L'espansione dei Barnabiti ebbe un'accelerazione dopo il 1608, allorché il superiore della Provincia Romana, con il consenso del Superiore Generale, prese in considerazione le offerte di nuovi luoghi di apostolato, fatta non solo dai vescovi e dai governi locali, ma anche da privati disposti allo scopo a fare all'Ordine donazioni anche cospicue; o ottenne di permutare luoghi anche di recente acquisizione con altri ritenuti più convenienti. Come conseguenza la Provincia Romana riuscì a entrare anche nel Granducato di Toscana, superando non pochi ostacoli di diversa natura, religiosa, politica ed economica.
Agli inizi del Seicento Roma era rimasta ancora come doveva essersi mostrata agli occhi dei Barnabiti sin dal loro arrivo nella "città eterna": una realtà atipica, una città dalle tre anime, poiché era centro della Chiesa Cattolica, capitale dello Stato pontificio e città municipale, dove le famiglie nobili dominavano da lungo tempo la scena politica, sociale ed economica; ma era anche una città ricca di contrasti, giacché, a fronte di un abitato ricco di palazzi, chiese, conventi, con splendide piazze e fontane imponenti, vi era un tessuto edilizio composto prevalentemente da case basse e malsane, un centro urbano senza borgo, senza periferia, senza dintorni, senza contado, corredata da un agro a coltivazione estensiva e terreni a pascolo, con pochi abitanti e ai confini di vaste zone malariche e paludose abitate da bufali e cinghiali, con una produzione agricola insufficiente a soddisfare i consumi primari degli abitanti della città, e una struttura viaria rimasta sostanzialmente quella cinquecentesca 2 . Così come a fronte dell'afflato spirituale che Roma poteva offrire al pellegrino che la visitava, abbiamo la denuncia, fatta agli inizi del '600 dal gesuita Alessandro de Angelis ( †1620) nella sua opera In astrologos, della mentalità astrologica, che si era infiltrata nella Chiesa, circondandola di un mondo di indovini, maghi, aruspici, interpreti di sogni, facitori di sortilegi e con il fiorire di libri di segreti, profetici e astrologici, consultati per conoscere non solo le future vicende della Res publica christiana e della Sede Apostolica, ma anche per predire la sorte dei pontefici o degli aspiranti al pontificato 3 . Una tale mentalità ave- 86 Mauro M. Regazzoni [2] ---- va raggiunto il culmine della diffusione proprio nel secolo XVII, ed è possibile rendersi conto di quanta libertà godessero questi astrologi, o "esperti" di arti divinatorie negli ambienti ecclesiastici, anche attraverso i pur numerosi moniti e decreti sinodali di condanna 4 . Un'indulgenza che cesserà solo con Urbano VIII ( †1644) 5 . Ciononostante, in una lettera a papa Paolo V (1621) 6 , scritta da Napoli nel settembre del 1606, Tommaso Campanella ( †1639) lasciava intravedere il mutamento che stava avvenendo nel significato più profondo della funzione di modello, svolta dal papato nella prima età moderna. Di fatto, egli si chiedeva: «Dove è la differenza tra popoli ecclesiastici e gli altri? Le pene, li tributi, le carceri, li tormenti, l'angarie son simili per tutto. Dunque tutti caminano per una via; e così li principi credono che 'l papato sia simile al dominio loro, e l'obbediscono per servirsi di lui, non per servire a lui; e questo viene perché noi ci servimo di Dio, ma non servimo a Dio. E così si perde la fede» 7 .
I Barnabiti si trovarono di fronte a un processo di sviluppo dello Stato della Chiesa simile a quello di un principato territoriale che, in linea con [3] I Barnabiti 4 Cfr. M.P. FANTINI, Saggio per un catalogo bibliografico dai processi dell' Inquisizione: orazioni, scongiuri, libri di segreti, in «Annali dell' Istituto storico italo-germanico in Trento», XXV (1999), pp. 587-668. 5 In realtà, anche Urbano VIII era ricorso a pratiche astrologiche per stornare i cattivi auspici e le predizioni di morte imminente che si addensavano intorno alla sua persona, ricorrendo alle arti di Tommaso Campanella ( †1639). Le incaute predizioni sulla imminente fine del papa, formulate dall'abate di Santa Prassede, il vallombrosano Orazio Morandi ( †1630), produssero la bolla del 4 gennaio 1631 e la costituzione Inscrutabilis iudiciorum Dei del 1° aprile, con le quali Urbano VIII rinnovò le disposizioni di Sisto V del 1586 contro gli astrologi; e ai colpevoli di attentare alla vita del papa con le arti magiche comminò non solo la scomunica, ma anche la confisca dei beni e la morte. In conformità ad esse, fece condannare i sette responsabili della "congiura Centini", che per anni avevano cercato di farlo morire per mezzo di pratiche magico-demoniache. Il ----le moderne monarchie europee tese a liberarsi dai limiti derivanti dagli organi rappresentativi, puntava allo sviluppo di forme personali di governo 8 . Assistettero così a un progressivo processo di esautorazione del collegio cardinalizio, dettato anche dal bisogno di ovviare a un sistema di governo disturbato dai frequenti cambi ai vertici dello Stato pontificio e per le incertezze che dominavano un governo collegiale: i cardinali furono addirittura obbligati a risiedere a Roma e a non lasciare lo Stato pontificio senza licenza del papa. Inoltre, il pur accentuato nepotismo di Paolo V escluse programmaticamente ogni interferenza dei familiari nelle questioni politiche e religiose di maggiore rilievo; cioè, pur permanendo forte l'intreccio tra "privato" e "pubblico", il primo rimase subordinato alle priorità istituzionali. Il calo di potere fu compensato, comunque, da un aumento di benefici, donazioni, poteri di prestigio, che vedrà il costante sforzo di alcuni papi nel favorire le proprie famiglie con l'erezione di principati e acquisti di città, castelli e terre nella regione romana, limitando o annullando gli effetti della bolla emanata nel 1567 da Pio V ( †1572) 9 e di quella progettata nel 1679 da Innocenzo XI ( †1689) 10 : la prima conteneva il divieto di alienare e infeudare città e luoghi dello Stato della Chiesa; e la seconda, se attuata, avrebbe consentito solo il mantenimento dell'uso privo di predicato, ossia avrebbe proibito di unire il titolo al nome della terra. Al nepotismo porrà termine solo la bolla di Innocenzo XII ( †1700) nel 1692 11 .
Sia che detenessero feudi sovrani (i Farnese, i Della Rovere, i Cybo e i Medici), sia che si accontentassero di feudi minori (i Borghese, gli Aldobrandini, i Barberini, i Chigi, i Corsini, i Pamphilj, i Ludovisi, i Rospigliosi e gli Ottoboni), queste famiglie, dunque, erano presenti nell'amministrazione dello Stato sempre ai massimi livelli: sovrintendenti generali dello Stato, prefetti di dicasteri della Sacra Consulta e del Buon Governo, capitani generali della milizia, sovrintendenti generali delle fortezze, governatori di città 12 . Contemporaneamente estesero la propria presenza anche 88 Mauro M. Regazzoni [4] ---- 8 nell'amministrazione provinciale, muovendosi su un terreno che, a prima vista, sembrava loro meno congeniale. In ogni caso, la nuova condizione patrimoniale e sociale introdusse un principio di concorrenza fra le diverse famiglie, che alimentò il fenomeno del mecenatismo in campo artistico e architettonico. In questo senso, il '600 rappresentò per lo Stato pontificio un momento di notevole creatività, che favorì soprattutto la città, mentre poche tracce lasciò in provincia.
Fra i segni visibili di un miglioramento architettonico vi furono le piazze e le ville urbane, che rappresentarono veri e propri laboratori di sperimentazione per gli architetti romani; e se i Barberini, i Ludovisi e gli Aldobrandini furono le famiglie promotrici della edificazione di alcune fra le più belle ville romane, i nomi dei Chigi e dei Pamphilj sono legati alla sistemazione di alcune delle più belle piazze di Roma, a scapito di edifici preesistenti. In particolare, il desiderio di papa Alessandro VII ( †1667) 13 di dare decoro al palazzo Aldobrandini -ceduto nel 1659 alla famiglia Chigi -coinvolse direttamente i Barnabiti con la loro chiesa dedicata a San Paolo. Il progetto, per una questione di "simmetria", prevedeva la risistemazione dell'intera piazza Colonna, tagliando la facciata della chiesa e delle case adiacenti, compresa l'abitazione dei Barnabiti; ma in pratica decretò la demolizione dell'intero complesso 14 . La decisione fu presa con un chirografo del 5 febbraio 1659; e le spese di demolizione della chiesa furono addebitate ai Barnabiti: a coloro, cioè, che a più riprese l'avevano ampliata e abbellita 15 e, in seguito a un incendio avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 [5] I Barnabiti At 16,9: la visione del Macedone che supplica Paolo di passare in Macedonia). Nello stesso periodo si pensò di commissionare al pittore Lorenzo (Anselmi?) tre quadri per Santa Maria dei Lumi a San Severino Marche, prendendo a modello quelli della cappella privata del cardinale Benedetto Giustiniani: oltre a San Carlo Borromeo, doveva essere ritratto anche San Paolo «che getta il libro nel fuoco, con altri effesini che facciano settembre 1617, avevano provveduto -grazie anche all'aiuto economico degli altri collegi dell'Ordine 16 -a restaurarla e riaprirla al culto nell'agosto del 1618 17 . 90 Mauro M. Regazzoni [6] l'istesso»; e altri al pittore aquilano, Giulio Cesare Bedeschini, per Roma, fra cui uno rappresentante la peste. Cfr . Rinnovata anche con l'aiuto del vescovo di Lucera, il milanese Ludovico Maggi ( †1619) -che donò non meno di quattromila scudi -la chiesa di San Paolo fu riaperta al culto con il rito di benedizione da lui presieduto il 10 agosto 1618, con il permesso del vice-gerente, Cesare Fedele ( †1620), vescovo titolare di Salona (sul Maggi, vedi WEBER, Legati cit., p. 750). Il 12 agosto, domenica, vi celebrò la Santa Messa il cardinale Pietro Aldobrandini ( †1621), che donò a sua volta duecento scudi, e il papa concedette l'indulgenza non solo per quell'anno, ma anche per i successivi sette nel giorno anniversario, a quanti avrebbero visitato la chiesa; e la stessa sera ancora Monsignor Maggi celebrò solennemente i vespri, accompagnati dalla musica sacra. Nel gennaio 1626, tuttavia, la comunità dovette rinunciare a nuovi lavori, per l'impossibilità di acquistare la casa dei Soderini, conseguenza del fatto che il cardinale Ludovico Ludovisi ( †1632), nipote di Gregorio XV, attraverso l'internunzio Marco Antonio Toscanella, aveva comunicato di aver ritirato l'offerta di centomila monete d'oro, promessa più volte -vivente lo zioe più volte ripetuta anche per scritto già tre anni prima. Tuttavia Urbano VIII, con altri uomini di fama, approvò dopo molte consultazioni i disegni della nuova chiesa e offrì quindicimila monete d'oro, collocando pure in un deposito favorevole quanto ricavato dalla vendita di monili, gemme e altri oggetti preziosi. Il card. Ludovisi motivò la mancata promessa, adducendo proprio le spese da sostenere per modificare piazza Colonna, dovendo intervenire sulla casa dei Soderini e sull'intero isolato. In realtà, il vero motivo era da ricercarsi nell'ingente somma da dare ai Gesuiti, perché rinunciassero ai diritti e alle azioni legali per esigere la restituzione del prestito fatto ai Ludovisi di duecentomila monete d'oro, versate in sostituzione della pena prevista per Isabella Gesualdo ( †1629), ultima erede del principato di Venosa e della contea di Conza, qualora si fosse sposata al di fuori del parentado. La Gesualdo, per altro, lo aveva creduto lecito in seguito alla decisione a lei favorevole, I Barnabiti, comunque, parteciparono all'abbellimento della città capitolina, dapprima con il progetto di costruire una nuova chiesa e una casa più adatta e accogliente sulla via Papale, pensando di vendere ai Teatini di Sant'Andrea della Valle la chiesa e la casa di San Biagio all'Anello 18 ; e poi con la decisione, presa alla fine del 1611, di edificare la chiesa nel rione Sant'Eustachio e di dedicarla a San Carlo Borromeo (canonizzato il 1 novembre 1610) 19 , entrando in competizione con i Lombardi, che intendevano costruirla al posto della preesistente chiesa dedicata a San Ambrogio, nel rione Colonna 20 . Accanto alla chiesa i Barnabiti vollero costruire anche un collegio e, dopo non poche difficoltà 21 , il 2 marzo 1617 i Padri di San Biagio completarono l'acquisto delle case, che sorgevano sull'area necessaria allo scopo 22 . Con tale atto si compiva pure il destino della chiesa di San Biagio all'Anello 23 , di cui già il 16 luglio 1616 -alla morte del titolare, il cardinale Orazio Spinola (avvenuta il 30 giugno) 24 -era stata decisa la vendita ai Teatini 25 . Pertanto, nel settembre del 1616 si pensò concretamente al trasferimento della comunità nella nuova chiesa, ma la decisione fu lasciata al Capitolo Generale, con la raccomandazione che «una tal Chiesa venghi officiata et S. Biagio sii profanata quanto prima, mentre che il titolo vaca, acciò possi esser stimato, misurato et venduto» 26 24 Cfr. APR I, f. 57 r . 25 il titolo fu assegnato al cardinale Ottavio Belmosto 27 . I Padri a questo punto ritennero più che opportuna l'unione del titolo di San Biagio a quello di San Carlo e, se non mancarono problemi sia dal punto di vista pastorale che logistico 28 , il 20 marzo 1617 il titolo presbiterale fu trasferito e unito a quello della nuova chiesa. Il Cardinale mutò il proprio titolo in quello dei Santi Biagio e Carlo ai Catinari, prendendone possesso canonico il 15 giugno 29 ; e quando morì -il 16 dicembre 1618 -fu sepolto nella nuova chiesa a latere epistulae dell'altare di San Biagio 30 . Dal 1611, in otto anni di lavoro, la chiesa vide compiersi l'erezione della cupola, che si elevò a un'altezza di 65 metri; ma la scarsità di mezzi economici impedì di compiere quanto restava da fare: il santuario, l'abside e la facciata. All'inizio del 1626 il P. Biagio Palma ( †1635) pensò di rivolgersi a Carlo Barberini ( †1630) 31 , duca di Monterotondo; e se il 7 maggio stese la supplica da presentargli, perché si facesse carico dell'opera, seguendo il consiglio di un suo segretario decise di fargliela avere tramite sua moglie, Costanza Magalotti ( †1644), non appena il principe si fosse ripreso dall'indisposizione che lo aveva colpito. Tuttavia, il 13 maggio, dopo un pellegrinaggio alla Casa di Loreto, passando davanti all'abitazione del cardinale Giovanni Battista Leni ( †1627), vescovo di Ferrara e arciprete della Basilica Lateranense, si sentì "forzato ad entrare" e a chiedere udienza all'alto prelato, al quale poté così sottoporre a voce la stessa supplica preparata in scritto per il Barberini e ne ottenne la piena disponibilità.
Finalmente, nel maggio del 1636 furono avviati i lavori della cappella maggiore e del coro, nonché della facciata, al fine di assicurare stabilità alla cupola e al restante dell'edificio 32 e, dopo non poche difficoltà 33 , «l'11 giugno 1640, giorno di San Barnaba, si terminò col calare la palla e croce di bronzo indorata in cima del cuppolino» 34 . 94 Mauro M. Regazzoni [10] ---- 31 Cfr. A. MEROLA, Carlo Barberini, in DBI 6, pp. 170-171. 32 Cfr. 34 La cupola era stata ricoperta di piombo, a partire dal settembre del 1620 (cfr. R 5, f. 65 r ). Negli anni successivi essa fu colpita da diversi fulmini, uno dei quali il 17 luglio 1638 uccise il P. Giacomo Antonio Ricca. In seguito a questo luttuoso evento, la comunità decise di fare elemosine nel giorno di San Cristoforo, un voto a Santa Barbara, e altre pratiche pie per impetrare l'aiuto dal cielo. Papa Alessandro VII, a sua volta, fece porre nel cupoli-Nel frattempo, nel luglio del 1629 fu proposto al P. Giovanni Ambrogio Mazenta ( †1635) 35 di assumere la cura della chiesa della Madonna del Tempio 36 ; e nel luglio del 1632 i Barnabiti, avvertendo la necessità di un luogo di formazione dei nuovi religiosi nella Città eterna, pensarono di chiedere la chiesa di San Sebastiano all'Arco di Tito (già Santa Maria in Pallara) al Palatino, nel Rione Campitelli, per mettervi il noviziato; e il Superiore Generale sollecitò il Superiore provinciale e la sua consulta a valutare la bontà del progetto, anche se la chiesa «pare però humida» 37 .
Quanto alla chiesa di San Paolo alla Colonna, le difficoltà economiche in cui versava nel 1651 avevano portato i Padri della Comunità a ritenere opportuno, per evitarne la chiusura, di vendere alcuni beni, fra cui una vigna appartenuta alla famiglia del P. Pietro Boncompagni ( †1652), ma il Superiore Generale intervenne a bloccare il progetto per non disgustare il donatore e propose in alternativa il ricorso all'eredità di Filippa Ricci ( †1633), legata al collegio San Paolo di Macerata, per pagare parte dei censi fondati sulle case della comunità; inoltre li informò circa l'intenzione della Confraternita dei Bergamaschi, che aveva la vicina chiesa dei Santi Bartolomeo e Alessandro, di comprare l'intero sito e, per affrontare al meglio la questione, suggerì di ricorrere ai buoni uffici del cardinale Federico Corner ( †1653) 38 e dell'ambasciatore di Venezia presso la Santa Sede, Giacomo Querini ( †1677) 39 . Tutto ciò, però, non fece altro che alimentare un'ulteriore fonte di preoccupazione per il Superiore Generale e la sua Consulta, in quanto sembrava che papa Innocenzo X ( †1655) 40 , in base alle informazioni raccolte dalla Congregazione super statu Regularium, fosse orientato a sopprimere il collegio, nonostante questo avesse un discreto numero di soggetti (7 padri e 2 fratelli conversi). Se nella bolla In- [11] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 95 staurandae regularis disciplinae del 1652 il nome del collegio non fu inserito, tuttavia il Superiore Generale consigliò il Superiore della comunità di ricorrere ai buoni uffici di persone influenti come Niccolò Ludovisi ( †1664), principe di Piombino, e Ippolita Ludovisi ( †1674), vedova di Giorgio Aldobrandini ( †1637), principe di Rossano, ai quali si era rivolto anche il vescovo di Strongoli, il barnabita Martino Denti de Cipriani ( †1665) 41 . Le condizioni economiche del collegio, tuttavia, rimasero estremamente critiche, tanto da dover ricorrere più volte ai sussidi provenienti dagli altri collegi 42 . Alla fine, il 22 febbraio il Superiore Generale avvisò il suo Vicario Generale a Milano della decisione di papa Alessandro VII di voler demolire la chiesa di San Paolo in piazza Colonna e di voler in certo qual modo compensare la perdita, aiutando la congregazione nella fabbrica della chiesa e del collegio di San Carlo. Il Papa non permise neppure di lasciare intatta la cappella dedicata a San Paolo per potervi celebrare saltuariamente la messa, mandando un sacerdote da San Carlo; e il 19 marzo 1659 il Superiore Generale comunicava che «a dì 17 corrente fu profanata la chiesa di San Paolo in Piazza Colonna e intimato il Breve»: ossia che la chiesa era stata sconsacrata ed era stato letto alla presenza del vicegerente Mons. Marcantonio Degli Oddi ( †1668), vescovo titolare di Gerapoli di Isauria, e del Procuratore Generale dei Barnabiti, il Breve di soppressione e di estinzione del collegio 43 . Infine, il 1 gennaio 1660 il Superiore Generale comunicava che il papa con un chirografo aveva concesso la vendita delle case in piazza Colonna al principe Ludovisi 44 ; e il 4 agosto i Barnabiti ottennero dal pontefice di poter unire la cura parrocchiale di San Benedetto in clausura a quella di San Carlo 45 . Intanto, quanto si stava realizzando in Roma da parte dell'amministrazione pubblica, aveva fatto levare non poche voci critiche, dato che si era in un periodo di grave crisi economica di portata europea, che, scuo- 96 Mauro M. Regazzoni [12] ---- 41 Cfr. S. PAGANO, Stato della Congregazione dei Barnabiti tendo la struttura di gran parte del Paese già dal 1620, aveva posto fine al precedente periodo di espansione. In particolare, contro la spesa complessiva di un milione di scudi per la sistemazione della piazza antistante la Patriarcale Basilica di San Pietro avviata nel 1656, si levò la voce dell'ambasciatore veneziano Querini, secondo il quale «altro non si era fatto che dipingere la povertà». Infatti, in una relazione al suo governo scrisse che «trecento colonne piantate in forma ovale servono semplicemente di prospettiva e recinto; e tutto ciò renderà per sempre disabitata la città leonina, o sia il Borgo, abbandonato il Vaticano e, pur di fare la clausura del Conclave, spianate le case, moltiplicate le acque delle fontane, scemati li fuochi, cagionata in conseguenza la mal'aria».
Un milione di scudi che, «uscito dalle vene e dal più puro sangue dei poveri, non si sa per anco se dalle imprecazioni o per altro rispetto, si sia congelato o trasfuso in durissime pietre» 46 . A tale critica risposero le stesse corporazioni edilizie, sostenendo che proprio ciò avrebbe dato spazio all'occupazione e proprio in quel periodo di grave crisi economica, che nei territori della Chiesa era senza dubbio più sentita che altrove. Tanto è vero che tra i segni più evidenti vi erano l'accresciuta povertà dei mendicanti e dei vagabondi, l'indebitamento dell'erario, il ridursi delle colture nell'agro romano e nella maremma con il trionfo delle greggi vaganti, la contrazione degli affari mercantili e degli impieghi manufatturieri, con la conseguente crescita della fiscalità.
In ogni caso, la corte pontificia e le famiglie aristocratiche romane furono sempre più coinvolte in quella che stava diventando una vera e propria gara e che alla fine vedrà non poche di esse -soprattutto quelle di più antico lignaggio (Colonna, Orsini, Caetani, Cesarini, Conti, Manni, Cesi e Savelli) -pagarne le conseguenze maggiori in termini economici fino a cedere il passo alle nuove (Bonelli, Boncompagni, Peretti, Aldobrandini, Borghese, Ludovisi, Barberini, Pamphilj, Odescalchi, Rospigliosi, Altieri, Chigi e Del Grillo). Così, nel 1622 Pier Francesco Colonna ( †1633), per sanare il dissesto finanziario provocato dalla notevole attività edilizia del P. Marzio ( †1614) 47 , fu costretto a vendere la baronia di Colonna, il ducato di Zagarolo -dove i Barnabiti avevano una comunità con una chiesa dedicata all'Annunziata -insieme a Passerano e al principato di Gallicano, al cardinale Ludovico Ludovisi ( †1632) 48 , con il permesso dello zio, papa Gre- [13] I Barnabiti
I Barnabiti approfittarono dell'attività apostolica per estendere la propria presenza nello Stato della Chiesa, valutando attentamente le opportunità che si presentavano per nuove fondazioni.
Nell'ottobre del 1610 i Padri Gerolamo Boerio ( †1626) e Fedele Monti ( †1630) si interessarono della proposta della chiesa di San Lorenzo a Imola, provvista fra l'altro di una canonica confortevole, in grado di ospitare anche otto persone, nonché di granai e cantine, di un pozzo e di un cortile, oltre ad ampi appezzamenti di terreno, case, orti e botteghe date in affitto. La chiesa, situata nella piazza centrale della città, era molto frequentata, sia per la sua comodità rispetto alle altre chiese, sia per la devozione al santo titolare. Le difficoltà maggiori erano di natura logistica, per la vicinanza di Imola a Bologna e per la sua relativa grandezza; e di natura economica, in quanto l'arciprete aveva posto come condizione di riservare per sé le pensioni derivanti dalle entrate dei terreni e delle botteghe e, dopo la sua morte, cento scudi annui per il nipote; inoltre, si sottolineò l'eccessiva 98 Mauro M. Regazzoni [14] ---- 49 Dionigi di San Giorgio 56 . Per risolvere l'intricata questione si chiese sia il sostegno del cardinale domenicano Agostino Galamini ( †1639) 57 , nativo del luogo, sia l'interessamento del cardinale Erminio Valenti ( †1618), vescovo di Faenza. Ciò condizionò negativamente la richiesta fatta nell'ottobre del 1618 dai Deputati della medesima confraternita, di inviare tre o quattro Padri in missione in quello stesso territorio. Infatti il Superiore Generale non poté fare altro che subordinare il proprio consenso alla possibilità di fondare in loco un collegio e ciò solo a conclusione della lite con i Gesuiti 58 . Nell'attesa, si ipotizzò di chiedere al Valenti di poter avere in Faenza una chiesa e una casa, e di poter aprirvi un collegio per ospitare i Padri di passaggio 59 ; tuttavia, poche furono le speranze e alla fine ciò scoraggiò ulteriori tentativi di aprire collegi in quella terra.
Nel frattempo, nel dicembre del 1614 era stato chiesto al cardinale Domenico Ginnasi ( †1639) di favorire la possibilità di aprire un collegio sia a Castel Bolognese, nel Ravennate -suo luogo di nascita -sia a Cesena che a Reggio, nell'intento di istituire la Provincia religiosa dell'Emilia, ma non si concluse nulla; così come niente si concluderà l'11 maggio del 1629 in sede di Capitolo Generale 60 ; mentre nel luglio del 1617 si rifiutò l'offerta di una chiesa nella città di Rimini 61 .
Mauro M. Regazzoni [16] ---- 56 Nel Capitolo Generale del 1632, invece, fu proposta l'apertura di un ospizio a Forlì, grazie ai beni lasciati a questo scopo alla congregazione da certa Bernardina Numaia. La questione fu demandata al nuovo Superiore Generale e alla sua consulta, ma non se ne fece niente 62 .
Nel Centro-Italia, nel 1608 fu Trevi, nella valle spoletina, ad avanzare una propria proposta. Infatti, il 26 aprile, dal nobile Sestilio Valenti ( †1620) fu chiesto ai Barnabiti di aprire un collegio, sotto il patronato del nipote, il cardinale Erminio Valenti ( †1618) 63 , vescovo di Faenza: proposta che prevedeva l'impiego di due o tre sacerdoti per la cura d'anime. L'offerta, inizialmente accettata perché giudicata adattissima per mettervi il noviziato e una scuola di lettere umanistiche 64 , già a maggio fu soggetta a un ripensamento e per una migliore valutazione il 16 giugno il Superiore provinciale Innocenzo Chiesa ( †1637), appena giunto a Roma, incaricò i Padri Pro- [17] I Barnabiti 62 Cfr. S 23, f. 15 r . 63 Sestilio Valenti passò la maggior parte della propria esistenza al seguito di Giovanni Luigi "Chiappino" Vitelli, marchese di Cetona, nelle Fiandre, e alla sua morte (nel luglio 1575 nei pressi di Anvers) divenne tutore dei suoi figli per quattordici anni. Poi si trasferì a Napoli e quindi a Roma, dove morì il 7 novembre 1620. Sulla famiglia Valenti vedere: WE-BER, Legati cit., pp. 960-961. Quello con i Barnabiti non fu l'unico tentativo, così come non mancarono contatti con altri Ordini religiosi. Il 14 ottobre 1614 Sestilio di Vincenzo Valenti fece testamento a Roma, presso il notaio Tranquillo Pizzuti, e nominò esecutori testamentari i cardinali Maffeo Barberini (poi papa Urbano VIII) ed Erminio Valenti, suo nipote. Egli lasciò alla chiesa della Madonna delle lacrime di Trevi, retta dai Canonici Regolari Lateranensi, la somma di 5000 scudi romani e 2800 scudi napoletani per far venire a Trevi i Chierici Regolari Minori fondati da San Francesco Caracciolo, che erano a San Lorenzo in Lucina, perché costruissero una chiesa e un collegio per i giovani di Trevi; ma dispose che, nell'impossibilità di avere loro o altri ordini religiosi, l'eredità passasse al Santuario mariano trevano, affinché usassero delle rendite ricavate nell'arco di dodici anni dei beni ereditati, per il restauro della cappella che custodiva la sacra immagine della Madonna. In realtà, di queste volontà non ne fu eseguita alcuna; e, se l'eredità in contanti servì per il cosiddetto "Maritaggio Valenti", dei beni immobili nessuno passò al santuario. 64 Cfr. S 13, f. 9 v ; AA 2, m. I, fasc. 12.
spero Grassi ( †1627) e Giovanni Ambrogio Mazenta ( †1635) di recarsi sul posto per un sopralluogo. L'esito fu negativo, ma il 4 ottobre il provinciale volle recarvisi di persona -mentre era in corso la visita canonica della Provincia -accompagnato dal co-visitatore, il P. Fabiano Chiavelloni ( †1622), e il 14 ottobre decise definitivamente di declinare l'offerta; dopo di che, il 31 ottobre, rientrò in sede 65 . In realtà, il ripensamento era dovuto all'affacciarsi all'orizzonte di una proposta di fondazione a L'Aquila, che sembrava assai più conveniente 66 . Nel giugno del 1628, a venti anni di distanza dalla prima proposta, Trevi rinnoverà la richiesta, con offerte che però risulteranno meno favorevoli di allora 67 ; e un ultimo tentativo sarà fatto nel marzo del 1639, ma anche in questo caso non si riuscirà ad attuarlo 68 . Il 27 marzo 1609, con il P. Bernardo Guenti ( †1631), il Provinciale si recò a Marino, sobborgo di Colonna, a dodici miglia da Roma sulla via Appia, per visitare la chiesa della Santissima Trinità con annessa casa, che Don Pietro Gini, sacerdote milanese, aveva intenzione di donare alla Congregazione in vista di una possibile fondazione. Le convenzioni fissate inizialmente a quanto pare non dispiacquero, anche se nel mese di maggio il Superiore Generale invitò il P. Chiesa a chiedere chiarimenti circa il mantenimento dei Padri, che dovevano essere tre, con l'assistenza di due fratelli conversi; e suggerì di far togliere dall'obbligo delle messe l'applicazione delle stesse e l'obbligo della predicazione a tutte le feste. Tuttavia, mentre il P. Guenti premeva per chiudere al più presto la trattativa, già il Superiore Generale limitava il personale disponibile a due soli sacerdoti da reperire tra le comunità romane; e il P. Chiesa l'11 giugno, ritornato sul posto per un nuovo sopralluogo, concluse che il progetto non era più realizzabile 69 .
Nel 1610 il sacerdote Quinto Marzio Fasanelli ( †1618), arciprete di San Rufo a Rieti, offrì alla congregazione la propria chiesa, accettando di fornire gli opportuni chiarimenti a proposito della situazione della parrocchia e valutando la proposta di farsi religioso, fattagli probabilmente dallo stesso Superiore Generale. Tuttavia, attraverso il P. Fabiano Chiavelloni ( †1622) comunicava l'impossibilità non solo di levare la cura della parrocchia, ma anche di smembrarla, poiché era costituita da appena cinquanta case, e i cinque canonicati che la sostenevano fruttavano insieme cinquanta ducati annui; inoltre non riteneva opportuno farsi religioso, sia per l'età avanzata e la salute malferma, sia per il timore che, dovendo rinunciare a tutto al momento dell'inizio dell'anno di probazione, avrebbe rischiato di perdere chiesa, casa ed entrate qualora non fosse stato accettato 70 . La proposta, per altro, fu ripresentata dagli stessi cittadini, nell'aprile del 1614, nell'agosto del 1615 e nel marzo del 1616, avendo come referente sempre il P. Chiavelloni 71 . Nel febbraio del 1617 il Fasanelli, vedendo probabilmente incerti i Barnabiti nei confronti della sua chiesa, propose la parrocchia di San Giovanni, posta al centro della città, prospiciente la piazza «grande, bella e comoda», dove si affacciava anche il palazzo del Governatore, Alessandro Canali, e la sede del Magistrato 72 . Tuttavia nell'agosto dello stesso anno ritornava a proporre la chiesa di San Rufo, forse presentendo ormai vicina la propria morte, che, infatti, lo coglieva nella notte tra il 13 e il 14 marzo 1618 73 , dopo che il provinciale e il Procuratore Generale si erano recati in loco per vedere le condizioni della chiesa e rassicurare con la loro presenza il vescovo della diocesi reatina, il cardinale Pietro Paolo Crescenzi ( †1645) 74 , sulle loro buone in- [19] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 103
---- 70 Cfr. Dossena, Lettera al Padre Don Fabiano Chiavelloni in San Biagio all'Anello a Roma, 28 dicembre 1610, in RLPG serie I, vol. 15, f. 328; Q.M. Fasanelli, Lettera al Padre Don Fabiano Chiavelloni, in San Biagio all'Anello a Roma, 13 dicembre 1610, in AA 2, m. I, fasc. 16, n. 1. Tra il 1612 e il 1614 i barnabiti chiesero ulteriori chiarimenti e aggiornamenti in merito alla parrocchia: quanti abitanti aveva la città di Rieti, quante parrocchie, quanti studenti vi erano in Seminario, quante anime aveva la parrocchia di San Rufo, in quale giorno liturgico cadeva la festa del santo, quanto fruttavano i cinque canonicati (che il vescovo era disposto a unire) e che valutazione si poteva fare del beneficio di San Rufo (cfr. ivi nn. 6-7). 71 76 . Nel giugno del 1620 il cardinale Crescenzi ripropose ai Barnabiti l'assunzione della cura della parrocchia di San Giovanni o, in alternativa, quella di San Eusanio 77 ; e nel marzo del 1627 fu lo stesso Governatore della città, Alessandro Rangoni ( †1640) 78 , a promettere la chiesa di San Giovanni, aggiungendo il Collegio Reatino -dove si leggeva Grammatica, Umanità, Logica e gli "Instituta", che i Barnabiti avrebbero potuto sostituire con i Casi di coscienza -e un'entrata che, sommata a quella della chiesa, raggiungeva i 600 scudi 79 . Tuttavia, non se ne fece nulla. 104 Mauro M. Regazzoni [20] segnato 76 Cfr. AA 2, m. I, fasc. 16, nn. 18; 21-27. Probabilmente il vescovo si indusse ad agire così in fretta anche per evitare i tentativi dei parenti del defunto arciprete di ottenere per sé quanto apparteneva alla parrocchia, non ultimi i canonicati. 77 Cfr. AA 2, m. I, fasc. 16, nn. 28-36. 78
Nel 1611 si affacciò una proposta da Pesaro 80 , mentre nel Capitolo Generale del 1612 si presentò l'opportunità di fondare a Gallicano, ma l'eccessivo onere convinse la Congregazione a non accettare 81 . I Padri capitolari, invece, incaricarono il P. Bartolomeo Gavanti di sondare la possibilità di aprire un collegio a Foligno, grazie all'offerta di una chiesa, fatta dalla Confraternita di San Girolamo e della Misericordia; ma le cose non ebbero un percorso tranquillo, giacché, in attesa della costruzione della nuova chiesa di San Carlo, essendo ospitati nella casa attigua all'Ospedale e celebrando le loro funzioni nella chiesa di San Pietro in Posteruola, i Barnabiti cercarono di assicurarsi queste due strutture; e, se il 4 luglio 1614 si concluse l'acquisto della casa per trecento ducati, nel settembre del 1615 si ottenne anche la chiesa 82 . Non solo: il Priore dell'Ospedale propose ai Barnabiti di assumere l'ufficio di celebrare la Santa Messa quotidiana nella chiesa della struttura sanitaria, compreso le confessioni a Natale, Pasqua e Pentecoste, avendo la possibilità di riscuotere l'elemosina riservata al sacrificio eucaristico e ricevendo anche i 25 ducati annui che spettavano a un frate della chiesa di San Giovanni Battista, che fino allora aveva avuto tale compito, accresciuti di altri 5 scudi. Ciò avrebbe permesso ai Barnabiti di coprire il debito di 200 ducati, avendone essi versati cento. Ma la proposta, nonostante fosse ritenuta buona, non fu accettata, perché contraria alle Costituzioni 83 . Quanto poi al progetto di ristrutturazione della casa, il Superiore Generale modificò il disegno proposto, suggerendo di spostare la scala vicino alla porta d'entrata della chiesa e di aggiungere un piccolo ambiente nel portichetto, per il portinaio e per un confessionale per gli uomini. Rilevò poi come al piano della chiesa e del cenacolo non si potessero aggiungere altre stanze che la cucina, la dispensa, la cantina e i bagni; mentre la porta per i somari diventava del tutto superflua e l'ambiente a cui da- [21] I Barnabiti ----va accesso sarebbe servito più comodamente come piccola stalla 84 . Nel 1617 invitò i Padri a rinviare lo spostamento del cenacolo e a «non gettare in niun modo le stanze sopra l'Arco della strada, perché mediante questo cavalcavia, entrandosi in altr'isola, venimo a liberarsi dall'assedio di San Girolamo e della Misericordia, quali vedendone altra porta aperta non saranno così ostinati» 85 .
Inoltre, i "dispareri" fra le parti non furono pochi, come emerge ancora nel 1618 da una lettera del Superiore Generale al Governatore della Compagnia di San Girolamo e della Misericordia, Silvestro Pertichetta, e ai suoi Consiglieri, Federico Barnabei e Giovanni Battista Costantini, nella quale il P. Boerio, pur gettando acqua sul fuoco, non si esime da alcune puntualizzazioni:
«Gli scrive d'haver ricevuto a' giorni passati un memoriale sottoscritto dalli Signori Silvestro Pertichetta, Governatore, Federico Barnabei et Giovanni Battista Constantini, Consiglieri della Compagnia detta della Misericordia, con alcuni rilievi, intitolati Dispareri, tra li Reverendi Padri Barnabiti et la Venerabile Congregatione soddetta, a' quali prima non ha Sua Peternità dato risposta, per non haver l'informationi necessarie, quali si sono procurati in questo tempo; et, se bene intendesi qualche mancamento dalla parte de' Padri, non però tali che habbino d'haver il titolo di Dispareri, non dovendo esser meraviglia, se tall'hora, all'improviso, vi sii qualche cosa da dire. Et quanto al patto che si fa per l'oratorio, rilevano che più sii colpa de' Confratelli che de' Padri, a' quali spiace grandemente quel traghetto, che perciò da' Visitatori fu ordinato che a tutto loro potere fosse levato, per tema che a loro non fosse datto la colpa di qualche disordine, che potesse nascere. Et in fatti le parole dette dal P. Bergamasco nacquero di qui, per haver uno di loro aperta quella porta per certo servitio, incolpando un altro i Padri, perché la porta stesse aperta. Al mancamento del paramento, più presto i Padri gli ne darebbero, che levarglili; et s'intende che la porta della chiesa sta aperta tutto il giorno sino alle tre et quattro hore di notte. Riconoscono il debito delli 4 scudi, ma l'impotenza et la povertà loro, in par-
Mauro M. Regazzoni [22] ----te gli escusa, come dal riffare la pittura guasta; non però tanto come si dice ne' Dispareri. Dicesi ancora, che la Messa si può dire come piace al sacerdote, non ostante che si havesse a dire orationale particolare di qualche santo, come fu quella di s. Apollonia, che facilmente si sarà detta, se bene non se ne saranno accorti; et il dire che i Padri sono solo Capellani, non pare termine che si debba usare con noi, quali solo siamo obligati a celebrare in quella chiesa, et non a dire le messe come le vogliono loro. S'intende ancora, che il non haver celebrato in quella chiesa per longo tempo non è stata colpa de' Padri, ma per l'ordine di Mons. Vicario nella visita, per haver ritrovato la chiesa et parati indecenti. La Pisside era sempre al loro servigio, quando la volevano, ma, credendo li Padri che non gli dispiacesse che essa servisse più presto al Signore che star rinchiusa in un armario, se ne servivano. Dicono bene i Padri, ch'anch'essi hanno servito di Messale, di parati tanto tempo, che sopravanzava la comodità della Pisside, che fu forse cagione che il P. Superiore gli dicesse quelle parole, che gl'havevano più be- Nonostante questi problemi di carattere giuridico e liturgico, il 26 ottobre 1623 la chiesa di San Carlo visse un momento di forte carica emotiva con la posa di una nuova campana del peso di ottocento libbre, benedetta su licenza del vescovo da Gregorio Rampesi, abate del monastero olivetano di Santa Maria maggiore in campo, che le impose il nome del santo arcivescovo di Milano; così come meno di dieci anni dopo, il 12 ottobre 1632, lo stesso abate, sempre con la delega del vescovo, benediceva altre due campane, più piccole della precedente (del peso di quattrocentoquaranta e duecentocinquanta libbre), dedicandole rispettivamente agli apostoli Pietro e Paolo 87 .
Nel frattempo, tra la fine del 1624 e gli inizi del 1625 la città di Foligno chiese alla comunità dei Barnabiti -che, come altre comunità, non era esente da problemi di natura giuridico-economica 88 -di assumere l'onere [23] I Barnabiti 156-157. 87 La fusione delle due campane minori era stata affidata al francese Jacques Dosset, che operava a Perugia; mentre la spesa fu sostenuta in parte attraverso le elemosine pervenute dalla cittadinanza e in parte grazie al sostegno economico della madre del P. Pietro Boncompagni, Superiore della Comunità dei barnabiti in Foligno. Il 14 ottobre furono poste a dimora nella torre campanaria. Il 7 dicembre 1694 il vescovo Giovanni Battista Pallotta ( †1694) ne benedirà un'altra di millesettecento libbre (cfr. ACFl I, ff. 31 r ; 47 r ; II, f. 4 r ). 88 Cfr. ACFl I, ff. 6 r ; 12 v ; 17 r ; 24 v ; 28 v ; 29 v ; 46 r ; 51 v -52 r ; 58 v -59 r ; 66 r-v ; 67 r-v ; 68 r ; 70 r ; 71 v ; 73 v ; 145 r . I problemi erano legati alle non poche donazioni che i Barnabiti ricevevano da diverse famiglie di Foligno e del circondario, che spesso imponevano in cambio oneri a volte pesanti o suscitavano contrversie con i mancati eredi. Tra i molti benefattori possiamo ricordare oltre al Vitelli: Camilla Silvestri, che aveva donato la sua casa ai Padri nel 1612; di aprire le scuole, offrendo 500 ducati di entrata. A loro volta, i Padri posero come condizione «che non habbiano a leggere arte inferiore alla Rettorica», acconsentendo però a sovrintendere alle scuole inferiori; e che il contributo cittadino non fosse meno di 400 ducati «per mantenerci maestri, prefetto, portinaro», suggerendo al Governatore, Alessandro Rangoni, di comprare il sito retrostante a San Carlo per fabbricarvi l'edificio scolastico 89 . Nel 1629, però, sorse una questione intorno alle scuole per i più giovani, visto che i Padri Teodulo Brollini ( †1645), superiore della comunità, e Probo Coppa ( †1666) furono ripresi e penitenziati per aver «introdotto senza licenza l'insegnar in casa delle lettere humane, pensando forse pian piano dar principio alle scuole», e con il rischio di ottenere invece l'effetto contrario, «togliendone più tosto la volontà a chi vi haveva qualche inclinatione» 90 . Il tentativo si ripetè nel 1647, allorché nel corso della visita canonica al collegio i Padri visitatori scoprirono che «il Padre Don Pietro Antonio [Cornetti] fa scola et insegna la Grammatica a 12 figlioli… non sapendo con quale autorità»; e ciò comportò per il superiore l'applicazione delle pene previste dal decreto emanato dalla Consulta generalizia: la sospensione dall'ufficio. Tuttavia, il Superiore Generale e le sua consulta furono comprensivi, grazie anche alle raccomandazioni fatte da alcuni genitori degli scolari, e quindi il superiore mantenne il proprio ufficio e la scuola continuò a funzionare ancora per un certo periodo 91 . 108 Mauro M. Regazzoni [24] Domenico Fabro ( †1613) e Giovanni Battista Bolognino; Margherita Jacobilli, moglie di Curzio Onofrio; Cecilia Vetaniani ( †1619), Massimilla Aquilini, Artemisia Romani ( †1622), Vincenzo e Marco Poli, che nel 1632 donarono un appezzamento di terreno coltivato a ulivi, chiamato "Le Mareta", nel territorio di Scandolaro; Marzio Serra, Domizio Buccolini, Lucia Cristofori e Feliciano Pacifico, che donò una serie di terreni: uno ricco di querce e ulivi, chiamato "Il Colle", nel territorio di Limisano in Emilia Romagna; due nei pressi della chiesa di Sant'Angelo nel territorio dell'Abbazia Santa Croce di Sassovivo vicino a Foligno, di cui uno arativo, detto "Il Ponte", con pergolato e casale; una casa in Limisano prospiciente la piazza della chiesa di Sant'Angelo; un giardino o orto appena fuori il paese; uno arativo con pergolato, chiamato "Il campo delle noci". Tra gli altri possedimenti possiamo citare un terreno a Cantalupo, nei pressi di Bevagna. Ricordiamo infine Mario Cirocchi ( †1689). 89 Nel 1614, invece, su invito del Priore di Bevagna i Barnabiti verificarono la possibilità di aprirvi una missione, impegnando due Padri e un Fratello converso per due mesi, o anche un anno; ma la cosa fu giudicata di difficile realizzazione 92 . Altre opportunità giunsero invece da Velletri, dove il 10 giugno 1614 i cittadini veliterni chiesero alla Congregazione di aprirvi un collegio 93 ; e il Superiore Generale pensò di mandare i Padri Pompeo Facciardi ( †1654), Giacomo Antonio Carli ( †1631), Anselmo Zampi ( †1630) e Giustino Battibocca ( †1655) per «fare buon fondamento in quel luogo» 94 . Il 1° marzo 1615 il curato della chiesa di San Martino, il canonico Giovanni Battista Rossi, per favorire il buon esito dell'iniziativa si disse pronto a rinunciare alla cura della chiesa in favore dei Barnabiti, che la ritenevano sufficiente alle loro esigenze e favorevole per la sua vicinanza a Roma 95 ; ma non si concluse nulla sia per la morte del cardinale François de Joyeuse ( †1615) 96 , che era il titolare della diocesi suburbicaria, sia per l'esi- [25] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 109
---- 92 Cfr. in RLPG serie I, vol. 18: Tornielli, Lettera al Padre Don Angelo Filippo Pezzi, Superiore di San Carlo a Foligno, 1° luglio 1614, f. 167; ID., Lettera al Padre Don Giovanni Ambrogio Mazenta, Superiore Generale, a Bologna, 1° luglio 1614), ff. 168-170 (in particolare f. 170). 93 Il progetto fu appoggiato e favorito da Monsignor Seneca, Vicario del Cardinale Joyeuse, e dall'agente di quest'ultimo, Antonio de' Nobili, noto al Superiore di San Biagio, il P. Costantino Pallamolla; ma nel 1614 si frappose la concorrenza dei Gesuiti. In ogni caso, nel novembre dello stesso anno si pensò di mettere a disposizione per la nuova missione i Padri Pompeo Facciardi, Giacomo Antonio Carli, Anselmo Politi e Giustino Battibocca. Le difficoltà comunque persistevano e nell'aprile del 1615 si pensò di chiedere il sostegno di Cristophe de Revel, Signore di Rantigny, amicissimo del Joyeuse. Cfr. Mauro M. Regazzoni [26] ma Trinità a Monte Pincio. Il 104 . Infine, il 30 aprile 1624 il Superiore Generale poté inviare la bolla di erezione del collegio con la patente di superiore conferita al P. Brollini. Il 21 giugno 1625, tuttavia, Urbano VIII pro-mulgò un decreto proibente la fondazione di conventi o monasteri privi del numero minimo di dodici religiosi, pena lo loro soggezione giuridica agli Ordinari delle singole diocesi, e ciò fu occasione di futuri equivoci nei rapporti tra la congregazione e i vescovi di Fossombrone.
Nel 1627 il Confaloniere e gli Anziani della città chiesero ai Barnabiti di accettare di insegnare logica e filosofia; e il Superiore Generale dovette condizionare la buona disposizione della Congregazione ad aderire alla richiesta, alla concessione da parte della Santa Sede della licenza necessaria, stante il permesso della Sacra Congregazione dei Religiosi di tenere in loco solo due sacerdoti e un fratello converso, data l'esiguità degli spazi a disposizione, accettando che fossero soggetti alla giurisdizione dell'Ordinario 105 . Più tardi, il 9 maggio 1629, la comunità chiese allo stesso Dicastero pontificio di mutare il luogo di costruzione della chiesa in deroga alle disposizioni testamentarie e nel 1633 chiese di poter erogare le entrate previste dalla testatrice per il mantenimento del collegio nella fabbrica di un nuovo collegio, resasi necessaria per gli spazi angusti che caratterizzavano il vecchio edificio; ma ciò fu concesso loro solo nel 1635. La diversa interpretazione data dalle parti all'atto aprì la strada a una serie di controversie sul diritto di visita del vescovo diocesano, che si protrassero per molto tempo anche dopo l'esenzione ottenuta in seguito al decreto di Innocenzo X e ai successivi provvedimenti della stessa Sacra Congregazione del 27 luglio 1655, approvati da Alessandro VII, e quelli del 29 novembre 1657, contro i vescovi che pretendevano la soggezione dei conventi per la mancanza di dodici religiosi 106 .
Nel frattempo, nel 1632 si affacciò la proposta di assumere la Penitenzieria e di aprire uno studio di filosofia a beneficio della città. In questo senso il P. Mazenta, in assenza del Superiore Generale, scrisse al P. Giorgio Bonfiglio ( †1649), Superiore della Comunità di San Carlo: «In quanto a siti, li pare che vi sia qualche difficultà. Saria però bene di veder di stabilir prima la Penitenzieria e, se per beneficio della Città s'agiongesse un studio di filosofia, in tal caso si potrebbe cercar sito più largo, di miglior fabrica e miglior aria, e che fosse di milior commodità a' nostri; e tale sarebbe la corte alta con una chiesa al piede, quadra, ovale, over oblunga, quale, cavalcando con il choro la via di S. Monica -formandosi la sottochiesa -s'abbassarebbe il piano della contrada più vicina al corso, a li-
Mauro M. Regazzoni [28] ---- Scrivendo al provinciale, però, precisò che la questione non era altro che un favore fatto alla città: «Della dispensa di Fossombrone non urget nos: è solo per soddisfatione della città; non bisogna andar a fabricar lontano dall'habitato della città con dispendio grande» 108 .
Tuttavia, ancora nel 1635 non si era posto mano alla fabbrica del nuovo collegio, per la difficoltà a comprare gli edifici utili a creare lo spazio necessario 109 . Così pure nel febbraio del 1643 la volontà dei testatori non era stata ancora soddisfatta, sempre per lo spazio ritenuto ancora troppo angusto per poter realizzare il monastero nella casa Sabatelli-Tacchini. I Barnabiti, da parte loro, avevano acconsentito a chiedere alla Santa Sede di mutare la volontà dei testatori per favorire la cittadinanza e avevano aderito all'invito di comprare il campo del vescovo, salvo poi essere impediti nel costruire quanto richiesto 110 . I Padri, allora, rinnovarono la richiesta di poter fabbricare quanto stabilito in luogo più consono ai bisogni della comunità e, a sua volta, Innocenzo Sabatelli, nipote dei testatori, chiese alla Santa Sede un'ingiunzione per i Barnabiti a mettere in atto la volontà degli zii, affrettandosi a trovare il luogo adatto allo scopo e utilizzando le entrate, [29] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 113
----che, a suo dire, ammontavano a ventimila scudi 111 . L'8 maggio i Barnabiti precisarono che la somma lasciata loro era in realtà di soli settecento scudi e attraverso il Procuratore Generale richiamarono i sacrifici e gli sforzi fatti dalla congregazione per sanare i debiti contratti e sostenere le liti intentate da più parti, ricordando in particolare che nel tentativo di comprare un terreno posto in località Bottavio, su istanza del vescovo e dei cittadini di Fossombrone per avviare la costruzione del convento, proprio questi ultimi si lasciarono trascinare nella lite mossa dalle monache, dagli agostiniani, dai camaldolesi e dagli oratoriani, che vi si opponevano, obbligando i Barnabiti a ritirarsi e a orientarsi all'acquisto di alcune case vicine alla loro. La Santa Sede accettò il memoriale dei Barnabiti e acconsentì che l'oratorio fosse aperto nonostante la presenza di appena due Padri e un Fratello converso, contro i dodici soggetti previsti dal contratto 112 .
Tra Terni, Castro e Fano Nel novembre del 1613 vi fu la proposta per una fondazione a Terni e il Superiore Generale accettò di inviare due padri, Pompeo Facciardi e Filiberto Marchini ( †1636), per cercare di fondare una missione in quella città umbra, ma già nel mese di settembre del 1614 il Superiore Generale scriveva al Facciardi di non tornarvi, perché -riferendosi al nuovo vescovo, Clemente Gera ( †1643) -«quel Prelato molto promette et nulla attende» 113 . Tuttavia, nel 1616 le cose sembravano arrivate a un buon punto, visto che l'atto notarile fu redatto il 4 giugno e indicava in venti scudi il canone annuo da versare ai Canonici Regolari Lateranensi; e si pensava già a come fabbricare il collegio e a prendere accordi con i religiosi delle comunità vicine, nonostante che inizialmente il vescovo non fosse favorevole e avesse mosso non poche opposizioni 114 . A sua volta la città di Terni offrì la chiesa di San Tommaso, disponibile per la morte del parroco, e la Congregazione ne trattò ancora con i Canonici della patriarcale Basilica di San Giovanni in Laterano, e con l'arciprete, il cardinale Scipione Borghese Caffarelli, ai quali il rettore della chiesa era sottoposto; ma anche con Vulpiano Volpi ( †1629) 115 , segretario della Sacra Congregazione dei Regolari, che manifestò ai Barnabiti la volontà del papa perché la chiesa fosse accettata 116 . Il 15 giugno 1616, poi, la città propose ai Padri riuniti in Capitolo Generale la chiesa di Santa Maria in Trivio 117 ; dopo di che calò il silenzio sulle trattative. Di ciò fu in parte ritenuto responsabile il Superiore della Provincia Romana, che avrebbe creato impedimenti al Procuratore Generale nella sua opera di persuasione dei Canonici Lateranensi, di Mons. Volpi e del cardinale Borghese Caffarelli 118 . Infine, se nell'ottobre del 1617 l'arciprete di Piediluco si fece promotore di una nuova trattativa per la chiesa di San Tommaso con esito fallimentare 119 , di fronte alle profferte di Mons. Gera, oltre a mostrare poca fiducia in esse il Superiore Generale commentò, fors'anche con un pizzico di amara ironia: «Mons. di Terni al presente ci vuol alettar con speranze, non havendoci aiutati con fatti quand'era il tempo» 120 .
Il 7 novembre 1614 il Procuratore Generale procurò lettere commendatizie dai cardinali Pietro Aldobrandini ( †1621) 121 e Odoardo Farnese ( †1626) 122 presso il Re di Spagna per ottenere dal duca Ranuccio I Far- [31] I Barnabiti Nel 1616, invece, per poter entrare e stabilirsi a Fano si tentò la via della predicazione, ma il vescovo, Tommaso Lapi ( †1622), tagliò corto, rispondendo che era solito affidarla ai Gesuiti e ai Cappuccini 125 . Sei anni dopo, sarà il P. Teodulo Brollini a chiedere al nuovo vescovo, il cardinale Francesco Boncompagni ( †1641), di poter fondare un collegio in quella «cità nobile e molto richa e comodissima per la nostra Religione»; ma invano 126 . Nel 1625, invece, si entrò in trattativa per ottenere la chiesa di Sant'Antonio 127 ; mentre nel 1627 il pievano di Cartoceto si offrì di rinunciare alla propria chiesa pur di poter permettere alla congregazione di apri- 116 Mauro M. Regazzoni [32] tempo, nel 1600 divenne Governatore di Vetralla, ma già il 25 settembre dello stesso anno venne nominato Legato a Viterbo: incarico che ricoprì fino alla morte. L'11 gennaio 1621, in qualità di protodiacono, optò per l'ordine dei cardinali-preti, senza ricevere alcun titolo; e il 3 marzo optò per l'ordine dei cardinali-vescovi, vedendosi assegnata la sede di Sabina. Fu Il Superiore Generale invitò il P. Boccalupi a concludere le trattative per il collegio, dando assicurazione che i Barnabiti avrebbero assunto l'insegnamento dei casi di coscienza, della retorica e della filosofia, nonché nelle scuole inferiori attraverso l'ausilio di maestri laici 132 . Nell'ottobre dello stesso anno Jesi fece una proposta che fu considerata da subito difficile, anche se appetibile per la promessa di una rendita di 400 o 500 scudi annui, da ricevere per vent'anni, e le provvigioni per otto cappelle 133 quanto vi fosse il favore del vescovo, Pirro Imperioli ( †1617), anche questa, come le precedenti, non si concluse positivamente, per la morte del vescovo e per la scarsità di soggetti da inviare in loco 134 .
Se le attese potevano alimentare speranze che, disilluse, cedevano il passo a delusioni a volte cocenti, fino a rappresentare un serio motivo di attrito tra le parti in causa, non meno fastidiosi erano i problemi che potevano sorgere dal coinvolgimento di singoli religiosi con le autorità diocesane e civili, che tendevano a volte ad approfittare della loro disponibilità, per impegnarli a trattare con Roma anche questioni non strettamente pertinenti alla sfera ecclesiastica e religiosa, costringendo i superiori maggiori ad accondiscendere obtorto collo alle loro richieste. Sono significative a questo proposito le lettere inviate dal Superiore Generale ad Alfonso Bianchi, Vicario Generale della diocesi di Assisi, al Governatore, Giuseppe Pontani 135 , e ai Priori della città umbra a proposito dell'incarico da loro conferito al P. Giovanni Clemente Bassani ( †1654), che, terminato il ciclo di predicazione quaresimale ad Assisi, anziché rientrare in comunità a Foligno dovette portarsi a Roma per sbrigare alcune incombenze da essi affidategli. Infatti, il P. Mazenta scrisse: «Per servitio loro, concede Sua Paternità al detto Padre di transferirsi a Roma, con patto però che i negotii impostigli non siano affari secolari, da' quali suole esser molto aliena la nostra Congregatione» 136 . E al P. Bassani ricordò: ---- 134 Cfr. Boerio, Lettera al Padre Don Marcello Baldassini sr, Superiore di San Carlo ai Catinari a Roma, 17 ottobre 1617, in RLPG serie I, vol. 22, f. 390. Questa lettera era la risposta a una del Baldassini del 7 ottobre. In tale data il vescovo di Jesi era probabilmente ancora in vita, ma non sappiamo se lo fosse al momento della risposta. Comunque, morì poco dopo, perché già il 13 novembre fu nominato come suo successore il teatino Marcello Pignatelli ( †1653). L'Imperioli, già Vicario Generale della diocesi durante il governo del cardinale Camillo Borghese tra il 1597 e il 1599, era stato eletto vescovo il 28 gennaio 1604. 135 Nell'agosto del 1616 il canonico Cesare Saraceni di Lanciano invitò i Barnabiti nella sua cittadina, inviando al Superiore Generale una lettera in cui lo esortava a «servir a coteste anime, mediante l'opera dei vostri»; e il Superiore Generale gli rispose, inviando il P. Onorio Albertazzi ( †1653) per sondare le effettive possibilità di aprirvi un collegio; ma non se ne fece nulla 138 . L'8 settembre 1622 fu il nuovo arcivescovo, Andrea Gervasio ( †1668), a offrire ai Barnabiti la parrocchia di Santa Lucia, rimasta vacante per la morte del parroco, avvenuta tre giorni prima, ma non si potè aderire alle richieste del presule 139 .
Pochi mesi prima, invece, a Macerata con la morte di Vincenzo Berardi (avvenuta il 30 marzo 1622) la Congregazione era entrata in possesso della sua eredità per fondare nella sua casa un collegio con chiesa annessa 140 . [35] I Barnabiti 341. Tra gli altri adempimenti vi era la costituzione di una congregazione, denominata "Pia Berarda" dal cognome del testatore, alla quale si sarebbero dovuti iscrivere i Superiori delle comunità religiose presenti in Macerata e quindi avrebbe dovuto essere composta da ventidue persone, che avrebbero dovuto sovrintendere all'esecuzione del testamento e a congregarsi periodicamente per la verifica;
Il testamento, rogato il 28 marzo 1622, divenne esecutivo il 1° aprile, suscitando non poche opposizioni da parte della cerchia dei parenti, sobillati dai Gesuiti, e più tardi (nel 1626) dai deputati del comune, che erano particolarmente interessati all'eredità, e dall'Ordine dei Cruciferi (Crocigeri o Crocifissi) (nel 1627) 141 . Nel 1638 ulteriori difficoltà sorsero in seguito al testamento redatto il 21 agosto 1627 dalla moglie del Berardi, Filippa Ricci 142 , e rogato il 14 febbraio 1629 per l'opposizione dei legatari 143 ; ma alla fine i Barnabiti riuscirono a stabilirsi in città e nell'agosto del 1639 aprirono uno studentato teologico, dedicandolo a San Paolo 144 . Ciò non impedì l'affacciarsi di ulteriori difficoltà nella conduzione del collegio, soprattutto nella gestione dei beni dell'eredità Berardi, sia per intromissioni degli altri legatari, sia per discordie all'interno della stessa comunità dei Barnabiti Dense nubi, intanto, si stavano addensando all'orizzonte, a causa delle crescenti tensioni in campo politico internazionale, soprattutto nei rapporti tra la Santa Sede e la Spagna per il tentativo del governo di Madrid di far sentire la propria preponderanza, teso com'era alla "conquista morale" della "Città dei Papi". Nonostante ciò, i pontefici da Clemente VIII ad Alessandro VII, pur non favorendo gli spagnoli, non vollero mai rompere i rapporti con la Spagna, anche per il suo ruolo di forte e sincera oppositrice della pressione ottomana; e quindi Innocenzo X ritenne preferibile la loro permanenza nel vicino vice-regno di Napoli, lasciando immutato lo status quo durante l'insurrezione di Masaniello. D'altra parte la Spagna godeva di forti simpatie presso la nobiltà romana, che possedeva feudi nel napoletano (vedi i Ludovisi e i Barberini), ma non presso il popolo, irritato dalle "ingiurie" e dalle "violenze" degli spagnoli 153 .
Nel vice-regno di Napoli I Barnabiti vissero queste tensioni, poiché fra le città più attive nel richiedere la loro presenza vi fu proprio Napoli, dove già il 29 novembre 1605 il viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera y Quiñones ( †1621), conte di Benavente, aveva concesso loro di fondare un collegio dove avessero ritenuto più opportuno, scegliendo fra le strade di Porto, Toledo, Selleria e Banchi Nuovi 154 ; e dove -come detto -avevano accettato nel 1607 la cura della chiesa di Santa Caterina di Spina Corona, fondata dai patrizi del Sedile (o "Seggio") 155 157 . Di fatto, i Padri dovettero prendere atto della situazione assai complessa e drammatica del Mezzogiorno, giacché la guerra dei Trent'anni e le sue ripercussioni in Italia stavano incidendo pesantemente negli indirizzi generali di alcuni Stati e in modo particolare nei domini italiani della Spagna. Soprattutto nel viceregno di Napoli la crescente necessità di trovare nuove entrate si stava traducendo nell'adozione di una più severa ed esosa politica fiscale, al prezzo di creare una profonda frattura tra i ceti feudali e la Corona spagnola, ma anche tra gli stessi ceti dirigenti, tra i feudatari, i togati e i gruppi di finanzieri e mercanti 158 .
Alle voci di scrittori come Giovanni Antonio Summonte, Francesco Imperato e Giovanni Antonio Palazzo 159 -impegnate ad appoggiare le ri- [39] I Barnabiti 156 Il contratto fu rogato il 27 novembre 1607 e ratificato il 28 gennaio 1608. Firmarono l'atto il priore, Nicola Giovanni de Abbundo, e quaranta confratelli. 157 Cfr. in RLPG serie I, vol. 14: Dossena, Lettera al Padre Don Luigi Mozzato, a Napoli, 21 maggio 1607, ff. 71-72; ID., Lettera al Padre Don Germano Mancinelli, Procuratore Generale, a Roma, 23 maggio 1607, ff. 72-73; ID., Al medesimo, 9 ottobre 1607, f. 168. La chiesa di Sant'Eligio, eretta nei pressi di Piazza del Mercato, faceva parte di un complesso, che comprendeva anche un ospedale. La pia opera, risalente al 1270, fu fondata durante il regno di Carlo I d'Angiò dalla Confraternita dei Santi Eligio, Dionigi e Martino, che era stata istituita -secondo la tradizione -da tre membri della corte angioina: Jean d'Auteuil, Guillaume de Bourgogne e Jean de Lyon. Nel '500 furono aggiunti un orfanotrofio e un educandato. Tuttavia, la chiesa non fu trovata dai Barnabiti «conforme alli nostri istituti». 158 159 Cfr. R. SIRRI, Giovanni Antonio Summonte, in V. BRANCA (diretto da), Dizionario critico della letteratura italiana, vol. IV, Torino 1986 2 , pp. 230-232. Di lui abbiamo una Historia della città e regno di Napoli (edita in gran parte postumo tra il 1601 e il 1643), nella quale inserisce fatti e memorie non prive di qualche fermento filopopolare e di qualche moderata polemica antinobiliare; D. BUSOLINI, Francesco Imperato, in DBI 62, pp. 290-291. Al-vendicazioni "popolari" di una autonomia istituzionale del vice-regno e al tempo stesso nel tenere saldi i poteri di una monarchia "temperata" o limitata, quale garante dell'equilibrio politico -il potere spagnolo mancò di dare una risposta chiara e si limitò a incerti compromessi, preoccupato più di attenuare i contrasti che di assicurare una qualche soluzione reale 160 . Di fatto, ciò provocò una serie di sommosse antispagnole, a partire dalla rivolta contro il viceré, Pedro de Alcántara Téllez Girón y Velasco Guzmán y Tovar ( †1624) 161 , marchese di Peñafiel e duca d'Osuna, che nel maggio del 1620 fu costretto a lasciare Napoli nelle mani del nuovo luogotenente e Capitano Generale del Regno, il cardinale Gaspar de Borja y Velasco ( †1645) 162 al quale già nel mese di dicembre subentrò il cardinale Antonio Zapata y Cisneros ( †1635) 163 .
Le sommosse assunsero progressivamente contorni di maggiore respiro sociale per il coinvolgimento del ceto togato di Napoli -mentre la nobiltà si andò stringendo sempre più attorno all'autorità del viceré spagnolo 124 Mauro M. Regazzoni [40] 161 L'Osuna (o Ossuna) fu viceré di Napoli dal 21 agosto 1616 al 4 giugno 1620, dopo aver ricoperto l'ufficio di viceré di Sicilia tra il 1611 e il 1615. Sospettato ingiustamente di aspirare a formare uno stato indipendente per sé, nel 1620 fu richiamato in Spagna, destituito e processato, ma morì il 24 settembre 1624, prima che fosse pronunciata la sentenza. 162 -----e culminarono nell'insurrezione del 7 luglio 1647, ispirata dall'opera fervida e assidua del giurista e sacerdote Giulio Genoino ( †1648) 164 , coadiuvato dall'Eletto del Popolo e suo nipote Francesco Antonio Arpaia ( †1648) 165 , e capeggiata al grido di "Viva il re di Spagna, mora al governo" dal pescatore Tommaso Aniello, detto "Masaniello" ( †1647) 166 . Questi, con il giuramento da parte del viceré Rodrigo Ponce de Léon ( †1672) 167 , duca d'Arcos, dei "Capitoli d'intesa" (il 13 luglio 1647) -in cui si dava piena attuazione alle richieste del popolo -ottenne, sia pure momentaneamente, di placare le violenze e i disordini e di ristabilire l'autorità del viceré.
I motivi di una tale crisi, dunque, non possono essere addebitati al solo cieco fiscalismo spagnolo, ma vanno cercati anche nei contrasti politici e sociali che divisero la classe dirigente, soprattutto per l'esclusione della feudalità del Regno dalle alte funzioni di governo del Collaterale; e portarono a un vivace e profondo dibattito politico e istituzionale, che si richiamava apertamente ai principali modelli politici europei e con questi intese misurarsi. La rivolta si estese in diverse aree del vice-Regno 168 e si trasformò così in un affare di politica internazionale con l'interessamento del cardinale Giulio Mazzarino ( †1661) per un intervento francese. Di fatto, con la morte violenta di Masaniello 169 e l'assunzione della carica di Capitano Generale del popolo da parte dell'armaiolo Gennaro Annese ( †1648) 170 , la ri- [41] I Barnabiti 168 L'insurrezione divampò anche nei feudi del marchese di Pescara e di del Vasto, Alfonso d'Avalos ( †1665), che, a parte Vasto -la sola rimastagli fedele -dovette fronteggiare in modo particolare i cittadini di Serracapriola e Lanciano e, una volta vinta la disperata resistenza dei ribelli, partecipò a vari fatti d'arme ad Avella, Bajano, Secondigliano e Caivano. Meno fortuna ebbe suo fratello Diego d'Avalos ( †1697), principe di Isernia, costretto a fuggire di fronte ai rivoltosi. A sua volta, Andrea d'Avalos ( †1708), principe di Montesarchio, non solo reagì con prontezza contro gli insorti, ma partecipò alla reazione nobiliare in seguito alla morte di Masaniello, alla quale contribuì un suo servitore (Tommaso De Caro), inviato a Napoli con questo incarico; e andò in soccorso del fratello minore, Francesco d'Avalos ( †1649), principe di Troja, nella repressione dei moti popolari, ripendendo Troja e Lucera. Cfr 169 Il Masaniello fu ucciso il 16 luglio 1647 in una congiura organizzata da Felice Basile ( †1658), fornitore dell'armata reale e uno degli appaltatori delle nuove gabelle imposte dal vice-re, dandone l'incarico al mugnaio Salvatore Cattaneo e al conservatore dei grani Michelangelo Ardizzone ( †1682), spinto a ciò -secondo il De Caro -dai sentimenti antipopolari tradizionali nella sua famiglia, o per guadagnarsi il favore e le ricompense della nobiltà e del vice-re. Cfr volta napoletana prese un corso originale e si trasformò pochi mesi dopo in moto politico, con la proclamazione il 22 ottobre 1647 della Serenissima Republica del regno di Napoli 171 . Questa, però, in seguito alla richiesta della protezione francese e l'inserimento nelle trattative di Henri II de Lorraine ( †1664) 172 , quinto duca di Guise, ebbe vita assai effimera. Quest'ultimo, infatti, mirando ad assumere la signoria di Napoli, il 16 novembre dello stesso anno ottenne di essere nominato "Generale delle armi" e poi "Doge" della Repubblica napoletana, portando a bruciare l'estremo tentativo di parte "popolare" di dare vita a un "temperato ordine" di governo cittadino, fondato su un'intesa organica, politica, tra rappresentanza "popolare" e oligarchia nobiliare napoletana, insieme alla rivendicazione dei diritti della capitale e del vice-regno di Napoli nei confronti della Corona spagnola. Se ciò minacciò di trasformare il Napoletano in un nuovo teatro bellico, ciò fu evitato perché il ceto nobiliare, dapprima incline alla rivolta, se ne dichiarò estraneo; e la rivolta fu stroncata il 6 aprile 1648 dall'azione congiunta dei baroni e dei soldati di Spagna, determinando la ripresa nobiliare e la chiusura oligarchica dei Seggi della capitale 173 .
Il 24 ottobre 1648, con il termine della Guerra dei Trent'anni, la potenza spagnola si avviò verso un rapido quanto inarrestabile declino, ma nel Napoletano riuscì comunque a reprimere facilmente le rivolte e a conservare saldamente i suoi possessi italiani. Poche impiccagioni, alcune oppor- 126 Mauro M. Regazzoni [42] ---- 173 Alla repressione dei moti antifeudali parteciparono fra gli altri Giovanni Girolamo Acquaviva d'Aragona ( †1665), conte di Conversano, e i suoi figli Cosimo ( †1665), Giulio ( †1647) e Tommaso; e i membri dei diversi rami della famiglia Caracciolo: i marchesi di Bucchianico, con Ferrante Caracciolo ( †1647); i duchi di Martina, con Francesco Caracciolo ( †1655); i baroni di Amorosi con Francesco Caracciolo ( †1691); i principi di Avellino, con Francesco Marino Caracciolo ( †1674); e i duchi di San Giorgio e marchesi di Torrecuso, con Girolamo Maria Caracciolo ( †1662). Così pure si dimostrarono fedeli i duchi di Maddaloni, con Diomede Carafa della Stadera ( †1660); i principi di Roccella, con Gregorio Carafa ( †1690). Cfr Su questi eventi gli Atti del collegio di Santa Maria di Portanova non dicono quasi nulla: riportano semplicemente il testo di una lettera, pervenuta alla comunità il 12 settembre 1648, del Prefetto della Cappella reale di Napoli (o Cappellano maggiore), che trasmetteva le richieste del conte d'Oñate, viceré di Napoli, circa la partecipazione dei Barnabiti alla processione pubblica con le reliquie del sangue di San Gennaro, indetta dall'arcivescovo per il tune distribuzioni di grano e qualche modesta concessione furono sufficienti a spegnere i moti; ma le richieste di denaro non diminuirono neppure nella seconda metà del Seicento e la miseria del popolo rimase immutata, con l'incremento dei mendicanti che, nel chiedere soccorso per poter sopravvivere, costrinsero gli stessi viceré a opporsi più volte alle pressanti richieste di denaro da parte del governo madrileno.
Vi riuscì anche nel 1654, allorché il tentativo -subito fallito -del duca di Guisa di ristabilire il proprio potere nel vice-regno al posto dei Borboni, che lo vide, con l'aiuto della flotta francese nelle acque del Golfo di Napoli, sbarcare con le proprie truppe nei pressi di Castellammare di Stabia il 12 novembre. L'occupazione durò pochi giorni, giacché già il 26 novembre abbandonarono il paese dopo uno scontro con le truppe del conte di Castrillo, García de Avellaneda y Haro ( †1670), succeduto nel governo del vice-regno al conte d'Oñate il 10 novembre 1653.
Ad aggravare la situazione, si aggiunse la concorrenza di eventi naturali straordinari, come i terremoti, le carestie e le pestilenze, che colpirono più volte l'Italia centro-meridionale 174 , contro i quali la popolazione e il clero reagirono anche con manifestazioni religiose particolarmente sentite e partecipate (processioni con il Santissimo Sacramento o con il Crocifisso, predicazioni a carattere penitenziale, adorazioni eucaristiche), atte «a placare l'ira divina» 175 .
[43] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 127
---- 174 Cfr. MB II, pp. 321-323; 369; 633. In particolare, ricordiamo i terremoti avvenuti tra il 1613 e il 1659, che colpirono diverse regioni del centro-sud (con epicentro due volte il Gargano, più volte la Calabria, Amatrice e i Monti della Laga, il Sorano e la Terra di Lavoro) e delle isole (con epicentro Naso, Mineo e Nicolosi in Sicilia), aggravando la condizione di miseria (cfr. AA.VV., Catalogo dei forti terremoti in Italia dal 461 a.C. al 1980, Roma 1995, pp. 262-263; 264-275; 276-281). Gli Atti del collegio di Portanova di Napoli ricordano fra tutti il terremoto che il 30 luglio 1627 colpì il Gargano e fece sentire i propri effetti non solo in Puglia (nella Capitanata settentrionale), ma anche in molte località dell'Appennino dauno e a Napoli con scosse così violente e ripetute da provocare danni ingenti non solo alle città e ai paesi, ma anche ai campi, devastandoli, e ai fiumi e ai laghi, riducendone al minimo la portata (cfr. ACN I, ff. 87v-88v). Così pure le eruzioni del Vesuvio, come quella avvenuta tra il 15 e il 16 dicembre 1631, quando la lava coprì gran parte del territorio tra San Giorgio a Cremano e Torre Annunziata, facendo oltre tremila vittime (cfr. ACN I, ff. 109 v -110 r ; ACT 9, ff. 59 13v -59 14r ; CVB 14, m. I, f. unico, n. 20; AA.VV., Civiltà del Seicento a Napoli, vol. II, Napoli 1984, pp. 37-39); o le pestilenze, come quella che colpì Napoli tra il febbraio e l'agosto del 1656 (ma prolungando l'emergenza fino alla fine di dicembre), che in una popolazione di quattrocentocinquantamila abitanti fece tra le duecentoquaranta e le duecentosettantamila vittime e nel solo mese di giugno portò alla tomba dodici Barnabiti
Chiamati a operare in questo contesto così agitato e fosco, i Barnabiti videro comunque crescere le richieste di una loro presenza non solo nella capitale del vice-regno, ma anche al di fuori di essa, tanto che nel 1613 il Superiore Generale dovette intervenire con i Visitatori Generali per chiarire la situazione dei progetti in corso di attuazione: In effetti, nel novembre del 1608 vi era stata l'offerta da parte dei patrizi del Sedile di Portanova della chiesa di Santa Maria in Cosmedin 177 - 128 Mauro M. Regazzoni [44] no dopo essere passati e aver sostato in Santa Maria delle Grazie e in San Carlo. Il 178 In effetti già il 24 settembre 1610 si ritenne necessario acquistare la casa di Eustorgio Agnesi, contigua al coro e alla sacrestia per poter ampliare l'abitazione dei Padri, abbandonando la vecchia casa presa in affitto, posta dietro al "Seggio" e ormai cadente; ma anche per dare maggiore agio ai curati e ai confessori della chiesa. La proposta fu approvata il 28 gennaio 1611, ma per difficoltà insorte si dovette temporaneamente abbandonare l'affare e restituire i milletrecento ducati chiesti in prestito a Orazio Parascanno. La casa fu poi acquistata nell'agosto del 1612 (cfr. ACCN I, ff. 3 r -5 r ; 6 v ; 8 r ; 8 v -9 r ). Un'altra seria difficoltà si rivelò l'aprovvigionamento idrico: in effetti solo nel 1615 riuscirono a ottenere di accedere alla fonte sita nel vicino monastero di San Severino in vico dei Mirabilli, che sorgeva sul terreno della nobile famiglia dei Genoino, fino alla costruzione di un pozzo autonomo nel proprio collegio (cfr. ACN I, ff. 26 v -27 r ). 179 ----tesa di vedere realizzata l'iniziativa, il marchese propose loro di celebrare nella non lontana chiesa di San Francesco dei Cocchieri 181 . La proposta fatta dal Tapia prevedeva da parte dei Barnabiti: l'acquisto di una casa in via Toledo per dare inizio a una chiesa e a un oratorio sotto il titolo e invocazione del santo arcivescovo di Milano, fornendo quattro sacerdoti confessori, ma prevedendo di aumentarne il numero con il crescere delle necessità; l'insegnamento della dottrina cristiana ogni giorno festivo, secondo l'esempio dato dallo stesso San Carlo nella sua Chiesa di Milano, esercitando i fedeli nella devozione e in tutte le cose necessarie al sapere e al vivere cristiano; l'erezione di una confraternita di uomini, soprattutto di avvocati e canonisti che, oltre agli esercizi della vita spirituale, si proponessero come regola l'assistenza gratuita e la protezione delle cause dei fanciulli poveri e delle vedove; l'obbligo di fare oratorio in chiesa ogni giorno di festa, il mercoledì e il venerdì, predicando, proponendo esercizi spirituali di devozione e permettendo di potervi fare musica quando fosse stato possibile il farlo; l'assegnazione di un luogo nobile nella chiesa presente e futura per la sepoltura del donatore, dei suoi famigliari e dei suoi discendenti, i quali avrebbero dovuto comparire perpetuamente nel novero dei fondatori e dei benefattori principali della chiesa, e quindi in grado di godere di tutte quelle prerogative e suffragi che la congregazione era solita concedere ai suoi benefattori, alle quali si sarebbero dovute aggiungere quelle che i Padri della Comunità di San Carlo avrebbero ritenuto giusto concedere, spinti dalla loro pietà e gratitudine; e l'obbligo di inserire nell'edificio della chiesa, una volta terminato, i soli stemmi della congregazione e della famiglia Tapia di Belmonte.
Da parte sua, il Tapia concedeva che tali obblighi sarebbero dovuti entrare pienamente in vigore solo dopo che nel nuovo collegio vi avessero preso dimora almeno sei religiosi 182 . Tale proposta, in un primo momento ri- ----181 Via Toledo, così intitolata in onore del viceré Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga ( †1553) marchese di Villafranca, dopo il 1870 era stata rinominata via Roma, ma oggi ha ripreso il suo antico nome. La possibilità di fondare un collegio in via Toledo si riaprì il 25 luglio 1621, allorché si prospettò l'acquisizione dell'eredità di Francesco Antonio Focito ( †1620), comprendente una casa in detta via, adiacente alla chiesa dei Teatini, Santa Maria di Loreto. Tuttavia, la casa fu venduta a questi nel 1668 per consentire l'ampliamento della loro chiesa. Cfr via, nel febbraio 1615, una volta ricevuto il disegno del progetto di Chiaia si prese coscienza della sproporzione tra il sito avuto e il prezzo pagato, tanto da far concludere al Superiore Generale: «Da simili accidenti s'imparerà a credere meno: coi 4 milla ducati havressimo comprato in Lombardia molto più» 188 . Inoltre, nel mese di aprile sorsero alcune difficoltà, per le quali si temette persino di essere costretti ad abbandonare l'impresa. Infatti: «A Napoli… si è inteso per questo ordinario che il male si è fatto peggiore, stando che li Padri nostri, colà in numero di tre, sono statti percossi con piatonate et sangue; altri gettati a terra con pugni et pomi di spade, sono stati calpestati con mettergli li piedi sopra la panza, anche da schiavi del Padrone, et hanno fatto la pace et remissione senza auttorità però del Capitolo et de' vocali, pensando che il condonare l'ingiurie gli dovesse esser attribuita a virtù christiana et religiosa. Ad ogni modo, per insistenza dell'Avversarii, restano discreditati con il Viceré, con il Nuncio, con il Vicario Archiepiscopale, con li Signori della Città et particolarmente con quelli dell'Annonciata, coi quali li percussori fanno offese; acciò li nostri venghino cacciati da Chiaia, sollevandoli ancor contro li vicini del Borgo, i quali erano prima nostri amorevoli, amici, et pure sono stati da Reverendi Padri Giesuiti assoluti, senza altro strepito. Stimavano bene Sua Paternità et li Padri Assistenti che Voi si dovesse transferire sino a Napoli, per acquistar qualche credito a quella Casa, ma per la staggione hanno poi giudicato altrimente; però si potrebbe supplire, facendo Vostra Reverenza scrivere una buona lettera dal Signor Don Francesco di Castro al vice-re suo fratello et da' Cardinali al Signor Cardinale Aldobrandino et Cardinale Arcivescovo et Nuncio, perché, se bene li Padri habbino perdonato, ad ogni modo tocca al vice-re a diffendere la virtù de' religiosi. Leggi questo capitolo al P. Procuratore Generale, acciò anch'egli s'adopri per il comune credito; gioverà con il Nuncio il Cardinale d'Araceli et sarà anche bene raccomandarsi al P. Tal Il desiderio era di edificare l'oratorio presso la casa di Pietro Curtoni, ma poiché la fretta non è mai stata buona consigliera, il Superiore Generale consigliò di riflettere bene sul progetto per farlo bene e una volta per sempre 191 . Il 30 settembre 1616 furono tracciate le fondamenta della chiesa e il 9 ottobre fu posta la prima pietra: la nuova fondazione prese il nome di San Carlo in Colle a Chiaia 192 . Tuttavia, ulteriori ostacoli venivano frapposti dalle opposizioni dei Domenicani del convento del Santo Rosario e dei religiosi del monastero della Vittoria, che si erano mossi -soprattutto questi ultimi -per ottenere il rispetto della distanza delle 140 canne. Tali difficoltà furono ben presto superate, anche attraverso il ricorso alla Sede Apostolica, ottenendo da papa Paolo V le necessarie esenzioni e i debiti permessi. In ogni caso, non vi si poté stabilire una vera e propria comunità ancora per sette anni e, per il suo funzionamento, dipese in tutto dai Padri di Santa Maria di Portanova 193 ; ma il 14 maggio 1623 questi ottennero dal Capitolo Generale di insediare in San Carlo una comunità regolare a beneficio dei fedeli con l'invio in loco di alcuni Padri 194 ; e sei anni più tardi, il 12 maggio [49] I Barnabiti Pochi giorni prima però, il 3 maggio 1629, era stata presentata dall'arcivescovo di Napoli, il cardinale Francesco Boncompagni ( †1641), la proposta di assumere anche l'onere della Penitenzieria: un'offerta che non si poteva rifiutare 196 . Nel 1634, dopo quattro anni di sperimentazione, l'arcivescovo, in forza dell'esperienza positiva, ritenne opportuno istituirla in perpetuo e canonicamente per i Barnabiti e con atto pubblico assegnò loro 250 aurei annui per tutto il tempo del suo governo della diocesi, dando ai religiosi anche una casa di sua proprietà in vicinanza della cattedrale, perché potessero svolgere senza eccessivo incomodo il prezioso ministero 197 . Tuttavia, l'arcivescovo si riservò il diritto di esaminare i candidati proposti dalla congregazione e di impedire l'eventuale sostituzione di qualcuno dei soggetti senza essere stato previamente interpellato, come emerge da una lettera del Superiore Generale al Superiore della Provincia Romana, Pompeo Facciardi: «L'Emminentissimo Boncompagni li dichiarò che non voleva si movessero li Penitenzieri assegnati, se prima non ne havesse lui avviso et approvasse tal levata; e che innanzi di inviare a quel posto un Padre, se gliene desse ragguaglio, volendo egli sapere la qualità del soggetto: et essendo difficile trovar cambio del detto Padre a proposito e a gusto dell'Emminentissimo, delicatissimo et a cui dobbiamo tanto» 198 . D'altra parte, l'esperienza stessa ci dice che il "perpetuo" in questi casi è relativo, giacché basta veramente poco per mettere tutto in discussione. Le opposizioni, questa volta, furono fomentate dai Canonici della cattedrale, dai Teatini e dagli Oratoriani di San Filippo Neri, detti "Gerolimini" 199 . I primi erano preoccupati che i Barnabiti prendessero anche la 134 Mauro M. Regazzoni [50] ---- cura della parrocchia, del seminario e della sacrestia della loro chiesa e, facendo leva sul fatto che il cardinale Boncompagni non aveva il potere di introdurre i Barnabiti nella loro chiesa senza il loro consenso (e ciò, nonostante vi fosse il beneplacito dello stesso Papa), portarono la lite davanti a diversi tribunali fino alla Sacra Rota, la quale però sentenziò a favore dei Barnabiti, con una sentenza definitiva emessa nel novembre del 1637 200 . I Chierici Regolari, da parte loro, se non persero occasione per esercitare pressioni sull'arcivescovo, perché ritornasse sulle proprie decisioni, con i Barnabiti avevano aperto un contenzioso riguardante l'abitazione presso la Penitenzieria; e il Superiore Generale, Giovanni Battista Crivelli ( †1651), affrontò tale questione in una lettera al rettore della Penitenzieria, Gennaro Boccalupi ( †1645):
Table
«Spiace il fastidio [che] le viene dato da' Teatini e spera che il Signor Cardinale li proteggerà che in fine la Penitenzieria è cosa sua. La casa compresa deve servir solo per habitatione de' Padri Penitenzieri, i quali anche lontano potrebbero habitare, ma per esser più pronti al loro ufficio e servigio ritiene habitar vicino; li privilegi addotti da que' Padri -crediamo parlino di fondar Chiese e monasterii -s'aiuti con tutti i mezzi possibili. L'esser essa penitenzieria stata confermata con Breve Apostolico servirà per sbattere li Padri Teatini» 201 . E, sempre allo stesso, in un'altra lettera consigliò: «Gioverà mostrar al di fuori di non far altro di quella Congregatione, ma quasi insensibilmente tirarla avanti a perfettione per fuggir questo primo incontro d' invidia. Cotesta nostra non è di luogo pio, ma necessaria habitatione ai Penitenzieri ministri della Cattedrale et Arcivescovo, i quali devono essere vicini, per essere pronti al servizio della Chiesa e delle persone» 202 .
La fiducia del cardinale, però, fu sempre a favore dei Barnabiti, come riconobbero gli stessi cittadini di Napoli per bocca dei loro rappresentanti: «Una delle più degne cose che il Signor Cardinale Buoncompagno nostro Arcivescovo ha fatte in questa sua Catedral Chiesa e di maggior servitio di nostro Signor Iddio e giovamento del publico è l'avervi instituito Penitenzieri i PP. Barnabiti, i quali per la loro molta bontà e ottima dottrina et essempio e per la continua assistenza che fanno al lor carico, hanno dato con universal sodisfattione e grande edificatione a tutti che, essendo hora dopo sett'anni che sono in pacifica possessione della Penitentieria, [sono] state mosse contro essi Padri alcune controversie in cotesta corte delle quali Vostra Eminenza sarà informato. Ne riconosciamo obligati a suplicarla che [51] I Barnabiti degni protegere la giustizia d'essi Padri, accioché sotto la sua prottetione ricevino il compimento d'essa da' ministri che l'hanno da riconoscere. Con la qual gratia aggiungerà Vostra Eminenza così particolar debito alli infiniti che gli abbiamo, per quelle che continuamente con singolar humanità è servita concederne, che a tutti noi et a tutta la città stessa ne rimarrà memoria di perpetua obbligatione» 203 .
Gli sforzi per allontanare i Barnabiti dalla Penitenzieria si realizzarono alla morte del cardinale Boncompagni -avvenuta nel 1641quando il nuovo arcivescovo, il card. Ascanio Filomarino ( †1666) 204 , si rivelò in tutto favorevole ai canonici della cattedrale. Infatti, nonostante la sentenza della Sacra Rota del 5 giugno 1637, favorevole ai Barnabiti, nel febbraio 1642 il nuovo arcivescovo chiese alla Santa Sede di dichiarare nullo il Breve rilasciato al predecessore nel 1633, che concedeva ai Barnabiti la Penitenzieria in perpetuo, adducendo il mancato adempimento della "clausola" annessa: la «Dummodo sit provisum Paenitentieriae de annuis redditibus ad congruam substentationem sufficientibus», che impegnava a dotarla di beni sufficienti al mantenimento dei penitenzieri 205 . Il 24 marzo 1642 la sentenza della Concistoriale fu favorevole all'arcivescovo, ma già tre giorni prima il Vicario Generale era intervenuto a sospendere i penitenzieri dalle loro funzioni; e i Barnabiti, per evitare inutili e dannosi contrasti con il nuovo arcivescovo, acconsentirono a ritirarsi da quel luogo di ministero dopo tredici anni. Il Breve Alias per bonam memoriam di Urbano VIII del 5 aprile 1642 sanciva la fine di una tale esperienza apostolica 206 .
Nel frattempo, i Barnabiti il 19 ottobre 1629 avevano accettato la protezione del Monte di San Giuseppe sotto il patrocinio dei Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, istituito dai coniugi Giuseppe Belli e Aurelia Maltacea, e il 24 successivo la sua amministrazione; ma dopo la loro morte vi rinunciarono il 23 gennaio 1637 207 . L'arcivescovo Boncompagni, a sua volta, il 28 settembre 1631 aveva benedetto la lapide posta per l'inizio dei lavori di rifacimento della chiesa di Santa Maria in Cosmedin 208 .
Se quelle citate sono le proposte di fondazioni più rilevanti, non possiamo dimenticare che dal 1618 i Barnabiti avevano assunto anche la cura della piccola chiesa di San Giacomo dei Sellari 209 , mentre altre -prima di questa -furono rifiutate per la scarsità dei mezzi messi a disposizione e per l'esiguità del numero dei Padri disponibili. Tale sorte avevano avuto nel luglio del 1608 la riproposta cura della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli al Vomero e quella di San Giorgio maggiore, che -dopo prolungata riflessione -non fu ritenuta fattibile nel dicembre del 1611 210 ; la chiesa con il Conservatorio di Sant'Onofrio a Capuana, che non piacque 211 ; così [ Rosa, che i Padri avevano già abitato e che ora dovevano riadattare alle nuove esigenze, e la chiesa chiamata dal popolino Santa Maria dei Meschini, che interessava anche ai Padri Trinitari. Allo scadere delle feste di Pasqua del 1634 i Barnabiti dovettero affrontare gli interventi ostili sia dei religiosi concorrenti sia dell'erede della casa del De Rosa, Francesco Caetani, intenzionato a far valere i propri diritti. A risolvere il duplice contenzioso intervenne l'arcivescovo di Napoli, che agì a favore dei Barnabiti, obbligandoli però a versare un vitalizio al rettore della chiesa, Don Giuseppe Auriemma, e impose il silenzio in perpetuo sull'intera questione. Al termine di un primo lotto dei lavori, i fedeli furono ammessi nella parte nuova della chiesa l'8 settembre 1635; ma i lavori proseguirono ancora per alcuni anni, interessando in particolare le cappelle laterali nel 1638 e l'altare maggiore nel 1642, con altre rifiniture che si protrassero fino agli inizi del 1643. La chiesa fu aperta comunque ufficialmente nella festa di San Tommaso apostolo il 21 dicembre 1642. Il complesso dei lavori intrapresi portò però alla distruzione delle antiche memorie della chiesa preesistente, risalente al sec. IX. 209 16. Tra le diverse proposte, quella avanzata il 5 febbraio 1613 riguardava la donazione di una casa con terreno annesso a Capodimonte in zona Posillipo (confinante con i beni di Giovanni Angelo Orlandi, di Orazio Imperato e degli eredi di Giovanni Battista Sansone), da parte di un mercante di nobile famiglia milanese e nativo di Como, Amanzio Birago ( †1620), a condizione, fra l'altro, che i Barnabiti celebrassero per i suoi defunti una messa quotidiana in perpetuo e si costruisse un oratorio, dedicandolo ai Santi Amanzio e Carlo, dove celebrare la Santa Messa sia nei giorni della loro festa, sia nella memoria liturgica di San Francesco. La cosa si spinse talmente avanti da suscitare nel Superiore Generale il sospetto di una accelerazione troppo artificiosa della conclusione; tuttavia la trattativa si concluse positivamente e l'atto, rogato il 18 marzo 1613, fu confermato il 29 aprile e approvato dal Capitolo Generale il 19 aprile 1614 (vedi S 16, f. 12 r ). Intanto, il 5 luglio 1613 la casa era stata modificata e adibita a Oratorio dedicato a San Carlo. Il 13 marzo 1623, tuttavia, se ne decise la vendita con il consenso del figlio del donatore, Don Tommaso Birago; e tra i possibili compratori vi furono Porzia Rossi, i Servi di Maria di Capua e gli Agostiniani della chiesa di Santa Maria della Consolazione di Napoli. Tra il 1627 e il 1634 le trattative si restrinsero ai due ordini religiosi e si conclusero a favore degli Agostiniani. Nel frattempo, il 6 luglio 1633 Flaminio Aureli e suo fratello Domenico fecero atto di donazione di un fondo nella stessa zona, a cui legarono alcune condizioni, fra le quali la più pesante era che un terzo dei frutti doveva essere consegnato ai fratelli durante la loro vita e dopo la loro morte al figlio di Domenico. Nel 1643 la comunità di Santa Maria di Portanova dovette vendere una casa con annesso giardino, sempre in zona Posillipo, anche per l'impossibilità di riparare la casa, che stava andando in rovina. Cfr. Falconi, Lettera al Padre Don Pompeo Facciardi, Procuratore Generale, a Roma, 23 settembre 1643, in RLPG serie I, vol. 44, ff. 373-375. Nel 1694 si prospettò nella stessa zona un'analoga cessione di un podere con casa annessa; in questo caso però il Superiore Generale, Ottavio Visconti senior, e la sua consulta dissero chiaramente al Superiore di San Carlo alle Mortelle, Giovanni Matteo Parravicini, che la lettera capitolare della comunità non li aveva trovati per nulla accondiscententi a tale vendita e fecero osservare: «Il podere di Posillipo è così apprezzato a riguardo del sito, che se i Padri non l'havessero, dovrebbero procurar di comprarlo nonché di venderlo mentre lo possiedono; e ciò per dare qualche sfogo d'animo in occasione di necessario e conveniente sollievo, del quale anche Vostra Reverenza ne ha bisogno. Hanno di più detto che vendono un fondo sicuro per impiegare il danaro in censo, che dal nome porta seco di cessare: non pare buona economia, massime non avendo l'attuale impiego. Che se detta possessione ha bisogno di riparo, può farsi a poco a poco ogni anno, con che la spesa si renderà insensibile. Vostra Reverenza si ricordi del proverbio di Milano che dice: Casa casca, livello finisce, cen-Non andarono in porto neppure le proposte dei rettori di alcune chiese "nazionali": nel 1614 la cura della chiesa dei Genovesi, dedicata a San Giorgio, ma il sito proposto era circondato da molti conventi di religiosi 213 ; e nel febbraio del 1616 la chiesa di Sant'Anna dei Lombardi, offerta alla congregazione, stimando un reddito di 700 scudi annui, purché undici sacerdoti vi celebrassero la messa quotidianamente 214 . Tuttavia, già nel 1609 l'allora Superiore Generale, Cosimo Dossena ( †1620), aveva messo in guardia i Padri di andare cauti con i vescovi lombardi che avevano chiese nel vice-regno di Napoli 215 ; e, di fatto, per la chiesa di Sant'Anna -nonostante fosse ritenuta "la miglior cosa che sii in quelle contrade" 216 -non si raggiunse alcun risultato anche per l'intervento dei magistrati, sollecitati da alcuni Lombardi residenti in Napoli contrari alla trattativa 217 . Altre oppo- [55] I Barnabiti e un reddito annuo di 800 ducati, a condizione di avere due Padri che vi celebrassero la Messa e vi insegnassero la dottrina cristiana. Il Superiore Generale, pur prendendo in seria considerazione l'offerta, non poté non lamentare un eccesso nel numero di proposte di luoghi campestri e di ricreazione 220 . L'11 maggio 1635 fu la volta del paese di Somma Vesuviana a chiedere al Capitolo Generale di fondarvi un collegio; ma, per quanto valutata positivamente, non si diede seguito alla cosa per le molte difficoltà presentatesi, provocate sia dall'intervento del papa, sia da una lite con i Fatebenefratelli 221 .
A L'Aquila Più in generale, nel vice-regno di Napoli si dimostrò conveniente la proposta di fondazione a L'Aquila avanzata da Domizio Alfieri il 19 novembre 1608. Essa fu formalizzata il 6 aprile 1609 con la donazione inter vivos al P. Giacomo Antonio Carli ( †1631), presente in città per predicarvi il quaresimale, della propria casa con giardino, sita nella parrocchia di Santa Giusta presso Porta Bazzano, e di un terreno in località Bazzano, a due miglia dalla città, perché i Barnabiti vi costruissero un collegio e una chiesa in onore dei Santi Paolo e Barnaba, dotando il beneficio di una rendita annua di duecento ducati a cui furono aggiunti altri cinquanta ducati annui, a condizione che i Padri celebrassero due sante messe settimanali per i defunti e, all'inizio del mese, ognuno di loro offrisse il Santo Sacrificio per il donatore e i suoi avi; che entrassero in possesso del collegio non prima del 1° maggio 1610 e che i beni non fossero alienati in perpetuo 222 . Lo stesso Superiore Generale, il 12 maggio 1609, riconobbe l'importanza dell'offerta; ma il primo luglio furono avanzate alcune osservazioni, di cui il Superiore Generale dovette tenere conto e sottoporle al Superiore provinciale: Se il 21 gennaio 1610 la Congregazione accettò la donazione fatta dall'Alfieri, il 12 maggio il P. Carli ne prese ufficialmente possesso 226 . A sua volta, il vescovo della città, Gundisalvo de Rueda ( †1651) 227 , celebrò la Messa pontificale con il rito di dedicazione dell'oratorio costruito in onore di San Paolo; e, in segno di riconoscenza, il 7 luglio 1610 il Superiore Generale stabilì che l'Alfieri con la sua famiglia avrebbe potuto abitarvi fino alla fine dei suoi giorni. Il 28 aprile 1611 la transazione fu ratificata e il 2 maggio successivo la fondazione fu approvata definitivamente 228 ---- Querceto a Montenero con un rustico, centocinquanta olmi con viti e cento ulivi; Cona Quercione con un rustico; Gambacorta alle Faete con un rustico; Fontanette con duecento pioppi e trecento salici; Limiti, e, nei dintorni di Sora, i poderi di Giovanni Magnone e di Macario Corridore entrambi con un rustico), coltivabili a grano, vigne e frutteti, nonché con allevamenti di bovini, che evitavano al Collegio di sot-In realtà, la fondazione -che alla fine era stata resa possibile sia dalla protezione dei duchi di Sora, Gregorio I Boncompagni ( †1628) 243 e la di lui consorte Eleonora Zapata ( †1679) 244 , sia da Girolamo Giovannelli ( †1632) 245 , vescovo di Sora -suscitò l'ostilità di alcuni ordini religiosi presenti in città e nei dintorni. Infatti, nel 1630 il domenicano fra Giovanni Tommaso da Roccasecca, vicario del locale convento di San Domenico, il minore conventuale fra Antonio d'Arpino, guardiano del convento di San Nicola, e fra Felice de Paoli, priore del convento di Sant'Antonio di Fontana Liri -ai quali si unirono da Isola del Liri fra Erasmo d'Itri, guardia- 146 Mauro M. Regazzoni [62] tostare alle pretese dei contadini, ai quali il cancelliere applica il detto: «Non vi è malizia superiore alla malizia dei contadini». Se da una parte evitavano ciò, vendendo essi stessi frumento o vino, dall'altra, però, andavano incontro a inconvenienti riguardanti la stessa vita comune, che provocavano lamenti nei Superiori. Infatti, la vendita di vino era progressivamente aumentata al punto che il convento aveva assunto l'aspetto di una cantina, dove si vendeva «il vino alla minuta, tra le imprecazioni, gli scandali e le bestemmie degli ubbriaconi in un chiostro di religiosi, luogo di santità, non già di peccati». Così che nell'ottobre del 1835 si venne alla decisione di limitare la produzione di vino al fabbisogno del convento e di vendere solo l'uva; e nell'aprile del 1836, visti i risultati poco confortanti, si presero due drastici provvedimenti: si edificò un muro divisorio tra la chiesa e il collegio, onde evitare il passaggio dei fedeli attraverso la porta del campanile per evitare un inopportuno e molesto transito dei fedeli attraverso il collegio; inoltre, «a evitare che qualche male esperto ripristini il sistema barbaro e crudele di fare il vino ramato, velenoso, cioè di cuocere il vino in un calderone di rame, dal quale sicuramente sviluppasi il veleno, nell'esser resunta (sic!) del calore del fuoco dell'immensa fornace e che sicuramente non può che nuocere alla sanità ed alla ragione di chi lo beve, come troppo fatalmente vedesi coll'esperienza di questo paese di temibili ubbriaconi; ed a fine anche di abbellire il cortile, ossia la piccola corte o chiostro, e rendere più luminoso il farinaro e le due camere di sopra, non che le grotte, si è fatto levare e murare l'immenso calderone collo sfabbrigare tutto, uno con l'affumicato e negro suo tetto, che lo copriva fino al Portone, come cosa inutile, né servita da due anni. Così si è acquistata molta luce e si sono tolte le succidezze, facendosi intonacare ed imbiancare i muri tutti ivi circostanti del collegio, che prima erano rozzi e neri, al par degli altri della stretta. La natura poi ci ha dato il mezzo per fare il vino, quale è quello della bollitura naturale in un vaso di legno, ove si cuoce naturalmente per così dire, acquistando la forza mercé il calorico, che si sviluppa dal musto, come si prattica in tutti i Paesi non barbari. È dunque inutile la bollitura artificiale per mezzo del fuoco in un vaso di velenoso rame, senza essere stagnato. L'esperienza ancora ci sta insegnando che anche in Arpino e specialmente per chi ha comodi di fresche cantine, il metodo di fare il vino ritornato è di eccellente riuscita» (ACAr III, ff. no del locale convento francescano di San Francesco, e fra Benedetto Sillieri, priore carmelitano del santuario della Madonna de La Forma -scrissero alla Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari per protestare contro la permanenza dei Barnabiti ad Arpino. Al dire dei rappresentanti degli Ordini mendicanti, una tale presenza rappresentava un «grave danno e pregiudizio» per loro in quanto li privava della possibilità della "cerca" di grano, vino, olio e altre vettovaglie, di candele e uova, necessari alla loro sopravvivenza; li accusarono di aver causato la morte di pecore e altri animali e di aver fatto diroccare case per edificare monasteri e chiese a loro insaputa; fecero notare come i più danneggiati sarebbero stati i cappuccini, che vivevano di elemosine, e, infine, aggiunsero che l'"Università", di cui i Barnabiti avrebbero dovuto prendersi cura, non poteva sovvenire al bisogno di tutti. Pertanto, il loro licenziamento sarebbe stato non solo giusto, ma anche meritorio e un autentico atto di grazia. La risposta arrivò nel giugno dello stesso anno dal Governatore, dal Camerario e dal Consiglio dell'Università, nonché dai rappresentanti del governo cittadino e dei dintorni, che a loro volta inviarono alla stessa Sacra Congregazione un memoriale in difesa dei Barnabiti, nel quale si denunciava la falsità delle accuse e si faceva notare come gli stessi cappuccini non avessero firmato la petizione, in quanto non solo non avevano perso o visto diminuire alcunché nella "cerca", ma anzi l'avevano vista crescere 246 . In realtà, i sottoscrittori del memoriale accusatorio si rivelarono una minoranza e per di più appartenenti a quei conventi che la Sacra Congregazione stessa stava pensando di sopprimere o di unire ad altri, per lo scarso numero dei membri e per le critiche condizioni economiche in cui da tempo versavano.
In ogni caso, nel maggio del 1635 il Superiore Generale -il rieletto P. Crivelli -al termine del Capitolo Generale dovette rispondere in maniera negativa alla richiesta del vescovo di Sora, il Canonico Regolare Lateranense Paolo Benzoni ( †1637), di aprire le scuole in Arpino per la scarsità di soggetti 247 .
Più tardi, nel giugno del 1636, sembrò riaprirsi la possibilità di una presenza dei Barnabiti a Catanzaro, con la prospettiva di sostituire i Teatini, che stavano per lasciare un loro collegio in quella città, adiacente alla chiesa di Santa Caterina della omonima Confraternita, il cui priore, Decio Di Francia, si era fatto latore della proposta insieme ai deputati Giuseppe [63] I Barnabiti
Se notevole fu l'attività svolta nel centro-sud d'Italia, una decisione presa nel Capitolo Generale del 1629 costrinse i Padri della Provincia Romana ad ampliare il proprio raggio di interesse e di azione oltre i confini nord-occidentali dello Stato della Chiesa. Infatti, il 4 maggio le furono assegnati i collegi di Pisa e di Pescia 253 , tolti alla Provincia Lombarda -alla quale Pisa apparteneva dal 12 aprile 1617, dopo la separazione dalla Provincia Piemontese 254 -e fu concesso di erigere un oratorio nella nuova fondazione di Firenze, intitolandolo a San Carlo Borromeo 255 . Non solo: il [65] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 149 12 maggio i Padri capitolari le confermarono l'appartenenza delle case fondate nel triennio precedente: Arpino, Firenze e Livorno 256 . Appena quindici anni dopo, però, il 6 maggio 1632 la comunità di Pisa avanzò in Capitolo Generale la richiesta di essere riassegnata alla provincia Lombarda e di essere eretta in noviziato, ma non fu esaudita 257 .
A Firenze Tentativi per «piantare luogo in Firenze, o in Siena», vi erano già stati tra il 1608 e il 1609, ma si dovette attendere il 1617 per avere un'occasione apparentemente più favorevole, allorché il senese Lorenzo Usimbardi ( †1636) 258 si offrì di aiutare in tal senso la Congregazione presso i Granduchi. Come possibile offerta accennò alla chiesa parrocchiale di San Paolo, lasciando aperta, qualora non si fosse riusciti a concludere per quella chiesa, la possibilità di cercare altro luogo migliore «et con migliori partiti» 259 . Il Superiore Generale chiese al P. Venanzio Canaccini ( †1622) di vedere se quella di San Paolo fosse una grossa parrocchia, se fosse in grado di dilatarsi e se fosse smembrabile; inoltre, chiese che tipo di abitazione vi fosse, quanti ambienti contenesse, quante persone potesse ospitare, se vi fosse la possibilità di ampliarla e se sussistessero degli obblighi perpetui 260 . Nel contempo, fu avanzata un'altra proposta, come si deduce dalla lettera che il 22 luglio il P. Boerio scrisse al Procuratore Generale a Roma: 150 Mauro M. Regazzoni [66] ---- Si trattava dell'oratorio di San Sebastiano de' Bini (o San Bastiano de' Bini) 262 , annesso all'ospedale di Santo Spirito dipendente da quello di Santo Spirito in Sassia a Roma, che il Commendatore di Santo Spirito sembrava disposto a cedere alla Congregazione e per la quale interposero i propri buoni uffici sia l'Usimbardi che un monaco olivetano del monastero di Santa Apollinare 263 . In attesa del placet granducale si incaricò ancora il P. Canaccini di raccogliere informazioni sulle caratteristiche e qualità della chiesa e delle case, sulle entrate, gli obblighi e le spese per l'officiatura 264 . [67] I Tuttavia nel gennaio 1618 il Superiore Generale consigliò il Procuratore Generale di lasciar perdere San Sebastiano 265 , giacché l'atteggiamento del Commendatore era alquanto mutato, come risulta da una lettera al Superiore di San Frediano: «Mons. Commendatore non vuol dare il luogo di San Sebastiano, nisi interveniat evidens utilitas, et il P. Procuratore Generale dice che ci costarebbe tanto quanto il comprar una casa» 266 ; dove l'"evidente utilità" per il Commendatore non era certamente spirituale, ma temporale. Pertanto, si tornò a puntare su San Paolo, soprattutto perché l'Usimbardi sembrava essere riuscito a ottenere l'assenso dei Canonici del Duomo, che reggevano quella chiesa; ma alla fine non si ottenne nulla anche su questo fronte, anche per l'indisponibilità del cardinale Borghese a concedere il proprio appoggio, «non volendosene impacciare» 267 . La situazione è ben delineata in una lettera che il Superiore Generale scrisse al P. Canaccini per rincuorarlo: «Resti sicura che persuasione d'alcuno non m'ha mosso, com'ella pensa, a scrivergli la difficoltà che si tiene d'haver luogo in Firenze, ma il vedere che con tutti gli ufficii di persone tanto principali et amorevoli non si possi arrivare. Ad ogni modo si deve sperare che col tempo forse le cose si maturarano meglio et ella non si dovrebbe perder d'animo in ciò; ma agiutarsi alla meglio, servendosi dei debiti mezzi» 268 .
Dovranno passare almeno cinque anni prima di vedere affacciarsi altre opportunità e quasi altrettanti per vedere realizzato il progetto di un collegio a Firenze. In effetti, il 4 maggio 1623 pervenne al Capitolo Generale la proposta di fondarlo presso la chiesa parrocchiale di San Niccolò oltr'Arno, ma anche in questo caso, pur dopo un'iniziale positiva accoglienza, la si lasciò cadere 269 . L'occasione propizia si presentò invece nell'ottobre del 1626, allorché furono riprese le trattative per accettare la prima offerta, quella dell'ormai ottantunenne d. Tommaso Perini, e il Superiore Generale, Giulio Cavalcani ( †1631), il 4 novembre scrisse al P. Giovanni Angelo Bossi ( †1665), Superiore di San Frediano in Pisa: 152 Mauro M. Regazzoni [68] ---- «Informatosi dal Padre Don Cesario [Fini], vada quanto prima a Firenze; s'abbocchi col Padre Don Tomaso Perini, Beneficiato di S. Lorenzo; procuri di persuaderlo di rinuntiare quell'Oratorio alla nostra religione per servitio di Dio, essendo le religioni perpetue e le confraternite col tempo svaniscono. Sarà di gusto a quell'Altezze e alla città, i principali della quale in Pisa parlano della nostra introdutione in Firenze; sarà di molto merito suo. Vedendo buona dispositione in questo sacerdote, presenti la lettera al Don Nicolò Dell'Antella, che potrà favorire il negotio. Sua Paternità gli dà autorità e prometta anche la ratificatione. Se il negotio piglia buona piega, avanti lo stabilimento procuri il consenso dell'Altezze col consiglio e favore del detto Don Nicolò. A quell'Altezze s'accenni che per la buona loro inclinatione s'è giudicato non servirsi di mezzi per ricevere immediatamente il favore. Se sarà consigliato di ricorrere ad altri corteggiani principali, come il P. Usimbaldi, si rimette. Parta presto e tratti con diligenza, perché est periculum in mora. De' Padri della Compagnia e Teatini non si fidi. In questo parlare tratti con segretezza. Non Banfi di affrettarsi a ottenere il placet granducale «conforme al desiderio dell'Amico per la sua età decrepita e per essere sollecitato da altri», rinnovando la raccomandazione della segretezza (cfr. ivi ID., Lettera al Padre Don Nicolò Banfi, in San Frediano a Pisa, 3 marzo ni fece redigere dal notaio l'atto di donazione inter vivos e i Barnabiti lo stesso giorno ne fecero rogare l'atto di possesso 278 ; ma non erano passati ancora quattro mesi, che il Perini sollecitò i Padri ad abitare al più presto la casa e a officiare l'oratorio 279 . Essi, allora, chiesero di poter inviare in loco due Padri e un Fratello converso, e, per superare lo scoglio rappresentato dall'opposizione dell'arcivescovo di Firenze Alessandro Marzi de' Medici ( †1630) 280 , ricorsero ancora una volta alla Sacra Congregazione per l'interpretazione del Concilio di Trento e chiesero l'aiuto del nipote dell'arcivescovo, il canonico della cattedrale e cavaliere di Santo Stefano Angelo Marzi de' Medici ( †1628). Nel contempo, però, come atto di buona volontà, cercarono di venire incontro al desiderio dell'arcivescovo di avere due teologi dell'Ordine e accettarono di sottomettere la comunità religiosa all'ordinario diocesano 281 . Il placet fu concesso il 26 giugno 1627 dal Pre- [71] I In forza di queste decisioni, il Superiore Generale comunicò al P. Nicolò Banfi ( †1630), che «il Padre Procuratore Generale ha ottenuto licenza d'aprire l'oratorio con la conditione d'essere soggetti all'Ordinario, intanto che si potranno mandare 12 persone. Sarà necessario superar prima la difficoltà mossa dai frati di S. Spirito, il che si farà con la Bolla di Clemente VIII. Se facessero altre oppositioni, ne dia avviso quanto prima. Sarà forse espediente anche pigliar prima la casetta contigua per accomodar con qualche decoro l'oratorio. Si rimette però a lor due, che sono sul fatto» 284 .
Il 16 luglio l'arcivescovo autorizzò l'inizio del servizio liturgico, una volta che l'oratorio fosse stato convenientemente restaurato e benedetto 285 . Dalla lettera, per altro, si desume che, se agli occhi del Superiore Generale la piccolezza dell'oratorio poteva sembrare una garanzia per svolgere i lavori necessari in tutta tranquillità, a disilluderlo intervennero le opposizioni mosse dagli Eremitani di Sant'Agostino di Santo Spirito, che -per bocca del sindaco del loro convento, il P. Giacinto Bonsi -arrivarono ad avanzare pretese sull'oratorio stesso, alle quali si aggiunsero quelle dei Carmelitani di Santa Maria del Carmine, che -attraverso il loro sindaco, il P. Giuseppe Alamandini -chiedevano il rispetto della distanza tra i collegi religiosi, pretendendo però trecento canne, anziché le previste centoquaranta 286 . A que- 156 Mauro M. Regazzoni [72] te nel vol. 28 sto proposito, il Superiore Generale in una lettera del 22 settembre 1627 scrisse al P. Filiberto Marchini: «Il P. Procuratore Generale non ha per buona la nostra ragione con li frati, fondata su la Bolla di Gregorio XIII Salvatoris, presupponendo sia revocata con gli altri privilegii da questo Papa nella Bolla litterae in forma brevis; ma qui si è osservato che il Pontefice revoca li privilegii contrarii alle Bolle di Clemente VIII e di Gregorio XV intorno al fondare. E questi Pontefici non fanno mentione nelle loro bolle della distanza delle 140 canne, onde non sono annullati li nostri privilegii intorno all'erigere e fondare dentro allo spatio delle dette canne. Si osservi con diligenza e si proponga al giudice, il che poteva anche raccogliere dalle scritture mandate» 287 .
L'incertezza del momento spinse alcuni esponenti della corte granducale a proporre come alternativa ai Barnabiti la chiesa di San Fiorenzo -più nota come Santa Firenze -vista anche la disponibilità del cardinale Lorenzo Magalotti ( †1637) 288 , fiorentino, a restaurare quella chiesa e a fabbricarvi la cappella maggiore, per poi farla officiare da otto o dieci religiosi. Lo stesso esibirsi del primo segretario del Granduca per far ottenere il placet del sovrano lasciava intendere il desiderio di Ferdinando II di risolvere al più presto la fastidiosa lite con gli Agostiniani a favore di questi ultimi; ma la proposta rappresentava pure una possibile alternativa nel caso in cui non si fosse ottenuto di ampliare il sito avuto dal Perini. Tuttavia, si decise di agire in tutta segretezza per non urtare quest'ultimo; ma la buona piega presa dalle trattative per la ripresa dei lavori, fecero accontonare tale proposta 289 .
Infatti, dopo una prima sospensione dei lavori, imposta dal Vicario Generale Pietro Niccolini ( †1651) 290 ----questi ne ottennero la ripresa il 18 ottobre 1627. I frati allora ricorsero al Nunzio Apostolico presso la corte granducale e i Barnabiti interpellarono direttamente la Santa Sede, che avocò a sè la causa e, grazie anche ai buoni uffici dell'ambasciatore fiorentino a Roma, emise sentenza favorevole ai Barnabiti. Anche questo ostacolo, dunque, fu superato e l'11 gennaio 1628 il P. Marchini poteva comunicare al Superiore Generale di aver aperto l'oratorio 291 . Quest'ultimo poi, agli inizi del 1629, inviò il fratello converso Fabiano Amidani, esperto carpentiere, per realizzare ulteriori lavori di ampliamento dell'oratorio; ma a metà marzo, non essendo stati ancora avviati, se ne decise il rinvio, rimettendo la questione al Capitolo Generale. Il 4 maggio i Padri capitolari approvarono la costruzione del nuovo oratorio, ma lo scoppio della peste e forse anche la mancanza di mezzi finanziari ne ritardarono l'attuazione. Nel novembre del 1638, comunque, fu acquistata una casa della chiesa di San Romolo e incorporata nel nuovo collegio 292 ; e, grazie all'aiuto economico di Rosso del Rosso 293 , fu eretto un oratorio sotterraneo, dedicato alla Vergine Assunta e a tutti i Santi, nel quale si celebrò la prima messa il 23 settembre 1639 e il 14 novembre successivo i Padri vi eressero una confraternita per i giovani 294 . Il 17 settembre 1640 fu acquistata una seconda casa della chiesa di San Romolo, nella quale fu tra- 158 Mauro M. Regazzoni [74] ---- 296 Valutata duemila scudi, la casa veniva ceduta per quattrocento scudi, riservando ai proprietari l'usufrutto vita natural durante, che, per loro stessa ammissione, doveva essere breve, essendo «in etade cadente e decrepita, da durar poco». Il Superiore Generale invitò il superiore di San Carlino a valutare la qualità della casa e gli eventuali impedimenti, ma soprattutto ad agire con destrezza e prudenza, secondo i consigli degli stessi padroni: «Si desidera che, sotto colore di qualche negozio, sia visitata la casa dove habita detto Cavaliere, con prudenza, ché il Cavaliere non pigli sospetto; e ciò solo per veder la casa e non plus ultra, s'ella sia a proposito per la loro religione; perché si farà nascere occasione di farla restare in loro dominio con poca spesa». Ma troppi erano i litigi, per poter concludere positivamente la trattativa; e il Superiore Generale infatti concluse che era «negozio da lasciar ad altri». Cfr sa di San Giorgio e di una rendita annua di cento ducati con il sostegnoquanto agli aiuti temporali -dei sacerdoti della Congregazione del Chiodo 297 , che ne avevano la cura e con i quali si stava trattando anche un progetto di unione 298 . Tuttavia, la sua realizzazione si prospettò da subito difficile e si sperò nell'aiuto di Silvio Pieri Piccolomini d'Aragona ( †1609), signore di Sticciano e di Camporsevoli -preconizzato Maestro di Camera del Granduca di Firenze, Cosimo II, e amico della Congregazione -per capire le intenzioni sia del granduca, sia dell'abate commendatario, sia della città, e le condizioni che avrebbero apposto alla stipula dell'eventuale contratto. Per altro, la Congregazione chiedeva di assicurare ai Padri almeno la possibilità di mettervi un collegio formato e un'entrata sufficiente a mantenerli. Nonostante che il Piccolomini fosse diventato effettivamente Maestro di Camera di Cosimo II, nell'aprile del 1609 la trattativa si arenò 299 . Ancora nel novembre del 1610 il Superiore Generale, scrivendo al Procuratore Generale a Roma del piccolo numero dei Padri della Compagnia del Chiodo, mantenne aperta la speranza di un soluzione positiva per coloro che godevano «quel poco di heredità che il P. Alessandro Olmi hora rege» 300 .
Oltre che con questa compagnia, i Barnabiti erano in trattative per avviare l'unione anche con la Congregazione dell'Oratorio del Santissimo 160 Mauro M. Regazzoni [76] ----297 La Congregazione del Chiodo (o dei Santi Chiodi) era stata fondata nel 1567 da Matteo Guerra (o Guerri) ( †1601) -chiamato Teo da Siena -infermiere presso l'ospedale di Santa Maria della Scala di Siena e membro di varie compagnie caritative e confraternite. In linea con le indicazioni conciliari recuperò il patrimonio penitenziale e caritativo delle compagnie religiose tradizionali e ne fondò una, che prevedeva due rami: uno di sacerdoti e uno di laici, impegnati nell'insegnamento della dottrina cristiana ai fanciulli e nella cura della pietà eucaristica con la promozione dell'adorazione del Santissimo Sacramento e della pia pratica delle Quarantore. Il nome deriva dal luogo in cui i membri si radunavano: la cappella della Madonna del Manto, detta del Chiodo per la reliquia della passione che vi era custodita. La nuova Congregazione fu riconosciuta nel 1584 e si trasferì nella chiesa di San Giorgio. Dopo la morte del fondatore, l'istituto non ebbe vita facile e nel 1666 il ramo dei chierici secolari fu soppresso da Alessandro VII e confluì nella Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri di Pistoia, che aveva fatto proprie le Costituzioni della Vallicella. Il Crocifisso di Pistoia 301 , i cui membri, per altro, avevano deciso di confluire nell'istituto senese per la loro scarsa consistenza numerica 302 . Si riaffrontò il progetto di unione con l'istituto senese nel 1626 e poi nel 1628, con l'intervento di Ascanio Pieri Piccolomini d'Aragona ( †1671) 303 presso l'arcivescovo di Siena, Alessandro Petrucci ( †1628) 304 ; fu ripresentato tra il 1631 [77] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 161
----301 La Congregazione dell'Oratorio del Santissimo Crocifisso era stata fondata il 6 gennaio 1600 da quattro sacerdoti di nobile famiglia (Jacopo Ippoliti, Michele Forteguerri, Filippo Scarpelli e Pietro Antonio Torricelli) insieme ad alcuni laici (Alessandro de' Ricci, Jacopo Ruini e Matteo Gaiffi), che si erano ritirati a vita comune nella canonica della parrocchia di San Prospero, riconoscendo nell'Ippoliti il loro primo Rettore e provvedendo alla predicazione e all'amministrazione dei sacramenti insieme al vicario della pieve di Sant'Andrea, Giovanni Battista Casseri. La congregazione fu approvata il 31 gennaio 1602 dal vescovo di Pistoia, Alessandro Caccia (o Del Caccia) ( †1649). Che il nuovo istituto intendesse vivere secondo le Costituzioni della Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri alla Vallicella non emerge con chiarezza nei documenti di fondazione, ma in alcune lettere del pistoiese Bonifacio Vannozzi ( †1621), scritte tra il 1602 e il 1607, dalle quali si evince pure come il nuovo istituto religioso pistoiese ancora in stato embrionale fosse soggetto a forti opposizioni. Con la conferma apostolica di Paolo V il 5 maggio 1610, la Congregazione del Santissimo Crocifisso fu innestata nell'Istituto Oratoriano e ottenne l'autonomia parrocchiale dalla pieve di Sant'Andrea. Vedi CISTELLINI, San Filippo Neri cit., t. III, pp. 1652-1653, nota 163; AA 2, m I, fasc. 13. Vedere anche i documenti nell'Archivio Diocesano di Pistoia, Fondo S. Filippo; e nell'Archivio Storico di Pistoia, Fondo S. Prospero. 302 Per lo scarso numero dei membri e per la mancanza di vocazioni, si giunse alla decisione di unirsi ai chierici secolari della Congregazione del Chiodo. L'atto di unione fu rogato il 4 maggio 1616 da Michele Forteguerri e Giovanni Battista Casseri, che era entrato nel frattempo nella Congregazione, e dal conte Ettore di Carpegna che aveva condotto le trattative. Gregorio XV con il Breve Romanos decet pontificum del 17 febbraio 1620 (con il quale si estingueva anche il beneficio parrocchiale di San Prospero, unendolo alla chiesa parrocchiale di Sant'Andrea) sanciva l'unione, ribadendo però l'appartenenza dell'istituto agli Oratoriani: un'appartenenza che però rimase nominale fino al 2 novembre 1666, quando la Congregazione del Chiodo fu soppressa da Alessandro VII. Il 4 novembre, temendo un destino analogo, i "Sacerdoti del ss. Crocifisso" ripresero le Costituzioni della Vallicella e il 6 ottobre 1696 Innocenzo XII con apposita bolla dava la conferma apostolica che la congregazione pistoiese era inserita a tutti gli effetti nella Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri. L'istituto rimase in vita a Pistoia fino alla soppressione napoleonica. 303 Nel 1633, poi, il P. Marchini fu incaricato di seguire le trattative e a lui il Superiore Generale scrisse: «Lodo la diligenza usata nel negotio dell'unione con Siena: l'intentione della Congregazione fu di unire insieme le case, chiese, entrate et persone 162 Mauro M. Regazzoni [78] Colonna Per facilitare ulteriormente il negozio dell'unione, il Superiore Generale incaricò il P. Fiorenzo Schilling ( †1670) di chiedere lettere di favore all'Imperatore d'Austria per il Granduca di Toscana e al Piccolomini per il fratello, arcivescovo di Siena 308 . Sempre nel 1608 fu avanzata pure la possibilità di scegliere tra la chiesa parrocchiale di Sant'Andrea in via di Camollia -suggerita da Curzio Sergardi ( †1625) -la Badia di Santo Stefano e il santuario di Santa Maria di Provenzano (su indicazione del Granduca). Quanto a quest'ultima, il Superiore Generale rilevò che si sarebbe potuta accettare se avesse avuto almeno un'entrata di 2000 ducati, ma era una chiesa «non finita, senza casa e senza entrata» 309 . Dell'offerta dell'Abbazia-Santuario si parlò ancora nel maggio del 1613, quando il Superiore Generale fu del parere che sarebbe stato meglio anteporre la chiesa di San Giorgio ad essa, «già che la Madonna di Provenzana è erretta in Capitolare» 310 ; e fu riproposta sia nell'aprile del 1618, quando, con i buoni uffici del Gran Priore dei Cavalieri di Santo Stefano, il conte Giovanni Battista Bandinelli, si cercò di conoscere le condizioni poste dal Commendatore per ottenerla 311 ; sia nel novembre del 1628 312 .
Nell'ottobre del 1628 si iniziò a trattare per una fondazione a Livorno 313 : in un periodo in cui la città stava crescendo in maniera considerevole, fino a rappresentare un'eccezione nel panorama urbanistico italiano, demograficamente stagnante. Infatti, essa era passata dai cinquemila abitanti del 1609 ai più di novemila del 1622, grazie al successo della politica mercantile e demografica di Ferdinando I de' Medici ( †1609) (con le cosiddette leggi "livornine", emanate nel 1591 e nel 1593) e proseguita dal figlio, Cosimo II de' Medici ( †1621), che, pur razionalizzando le strutture portuali e ampliando il tessuto urbano, aveva però abbandonato i progetti troppo grandiosi del Padre 314 . I Granduchi di Toscana, di fatto, con i loro provvedimenti, avevano esteso e ampliato le esenzioni concesse ai mercanti e agli immigrati, accordando loro privilegi e monopolî, sollecitando l'insediamento di "nazioni" straniere (Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi e Italiani, Ebrei, Turchi, Armeni, Persiani…), richiamando -non sempre con successo -colonie e arrivando persino a offrire rifugio a tremila moreschi espulsi dalla Spagna, per poi a sua volta espellerli per la loro violenta rissosità. Così Livorno nel giro di pochi anni aveva acquisito la fisionomia di una piazzaforte fortificata, la dinamicità di un porto di deposito e l'aspetto di una vera e propria città.
L'occasione per i Barnabiti si presentò allorché l'arcivescovo di Pisa, Giuliano de' Medici ( †1636) 315 , chiese loro di assumere la cura della Peni- 164 Mauro M. Regazzoni [80] ---- tenzieria nella chiesa matrice 316 ; e il 4 gennaio 1629 fu firmato il contratto 317 . L'anno successivo, però, si rinnovarono i timori per lo scoppio della peste e se nel giungo del 1630 il Superiore Generale scriveva alle comunità dei Barnabiti una lettera circolare per dare le opportune disposizioni per affrontare l'emergenza, nel mese di agosto Urbano VIII concedeva un Giubileo di tre mesi, perché si implorasse da Dio misericordia e la preservazione di Roma e delle altre città italiane dal flagello: giubileo che fu annunciato nella chiesa maggiore di Livorno dal prevosto e vicario foraneo, d. Andrea Bonaparte. Tuttavia, a Livorno, in particolare, il contagio divenne certezza il 7 dicembre 1630, quando si registrarono i primi casi e il Governatore Pietro de' Medici ( †1654), dopo aver decretato l'isolamento della città, affidò ai Barnabiti la cura del lazzaretto e in particolare nominò il P. Giovanni Stefano Pelucchini ( †1643) prefetto dell'Annona degli ospedali, che ebbe perfino una sezione staccata ad Antignano. Nel contempo, dietro suggerimento del medico Giuseppe Balbiano, gli Anziani e i Gonfalonieri della città il 12 dicembre decisero di rinnovare un voto fatto alla Madonna e a San Sebastiano già nel 1479 318 . Superata la fase più acuta del flagello, nel settembre del 1631 il Granduca invitò i Barnabiti a mettere in campo ogni sforzo per la costruzione della chiesa in onore al santo, a scioglimento dei voti fatti e il 7 dicembre 1631, in occasione del primo anni- [81] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 165
----316 Livorno, promossa a città il 19 marzo 1606, ebbe come matrice l'oratorio di Santa Maria (sorto nel sec. XII) a cui fu aggiunto il titolo di Santa Giulia fino al 1534, quando fu costruita la chiesa di Sant'Antonio, alla quale furono uniti i titoli di Santa Maria e di Santa Giulia, ormai non più esistenti. Tra il 1605 e il 1606 fu portata a termine in Piazza d'Arme la chiesa di San Francesco, che divenne la principale della città e, con lo spostamento dei canonici, furono anche trasferiti i titoli di Santa Maria e di Santa Giulia. È a questa chiesa che probabilmente si fa riferimento. 317 Il 4 gennaio 1629 (1628 secondo lo stile pisano) il contratto fu firmato dall'arcivescovo di Pisa, Giuliano de' Medici, e a nome della Congregazione dal P. Giovanni Angelo Bossi, della comunità pisana di San Frediano; nel contempo fu ottenuto il consenso del Granduca di Toscana, Ferdinando II de' Medici, per lettera scritta all'arcivescovo dal conte Orso Pannocchieschi d'Elci. Il 15 gennaio 1629 i Padri Giovanni Stefano Pelucchini (o Pellicani) e Gaudenzio M. Solari con il P. Bossi presero possesso della Penitenzieria. I Barnabiti, appena giunti a Livorno, furono ospitati presso l'Ospedale della Confraternita della Misericordia, officiando le funzioni religiose nella chiesa della confraternita, dedicata a San Francesco, situata all'angolo della via omonima e Piazza d'Arme; e tre mesi dopo, il 1 marzo, presero in affitto per cento aurei annui la casa del medico Cesare Monti in via San Giuseppe. Già l'anno successivo, però, ottennero dall'arcivescovo una lettera di supplica al granduca, con la quale si chiedeva per i religiosi la concessione di una più consona abitazione vicina alla chiesa maggiore perché potessero svolgere con maggiore comodità il loro ministero e i Barnabiti promisero l'arrivo di un religioso di lingua francese. Così, nel marzo del 1630 ne ottennero una della Dogana nei pressi della chiesa matrice. Il versario del voto, il superiore della missione, il P. Gabriele M. Spreafico ( †1680), e il P. Gaudenzio M. Solari ( †1668) chiesero al Granduca di concedere ai Barnabiti l'erigenda chiesa di San Sebastiano 319 . Anche se la delibera ufficiale di concessione datava 31 dicembre 1631, in realtà non poche furono le difficoltà che si presentarono per la sua attuazione e si giunse a considerare anche la possibilità di abbandonare la missione; ma il 16 gennaio 1632 fu esibita la lettera d'intenti sottoscritta dalla città di Livorno e, per evitare ulteriori ritardi, il 20 aprile il Granduca non solo concesse l'area per l'edificazione della chiesa, indicata nel luogo dove sorgevano i magazzini, ma -come da richiesta fatta il 31 gennaio -donò anche due capannoni delle Fornaci del Mulino a Vento, già usate per fabbricare i mattoni per la costruzione dei forti e della cinta di protezione della città. A questo punto tra l'8 e il 19 maggio 1632 il Capitolo Generale, dopo avere ridiscusso la proposta, accettò di farsene carico e l'8 giugno l'atto di donazione fu firmato dal segretario di camera del Granduca e senatore Lorenzo Usimbardi 320 . Si iniziò con l'erigere un oratorio, ma alla fine di luglio il nuovo Superiore Generale, Giovanni Battista Crivelli, raccomandò di non lasciare per alcun motivo "di ufficiar la Chiesa maggiore per andar ad accomodar il magazeno in oratorio", per evitare che la città non adempisse al voto fatto 321 . Nel contempo, inviò la bolla di Gregorio XV relativa alle fondazioni dei religiosi, per ottenere dall'arcivescovo un decreto attuativo per il collegio dei Barnabiti in Livorno 322 . I lavori della chiesa furono opportunamente seguiti da un perito 323 ----restringere l'area edificabile destinata alla chiesa e alla casa per i Padri; e il Superiore Generale se ne lamentò con l'arcivescovo:
«Sua Altezza Serenissima ne fece la gratia con l'aiuto di Vostra Signoria Illustrissima del sito et chiesa da farsi in Livorno; ma hora il Commune et ministri loro pare che la ristringano troppo. Desidera di servir quel popolo, ma non con tanto danno, che in futuro tempore potrebbe caggionare, per mettere operai, che s'introdurebbe a puoco a puoco la proprietà, quale la nostra Congregatione molto aborisce; e se bene li operai al presente saranno officiosi et caritatevoli, nulla di meno in progresso di tempo mancherebbe tal officiosità per il che ne sarebbe causa di disordini» 324 .
Il Superiore Generale, ancora nel febbraio 1633 rimproverò i Padri della missione di Livorno per gli stessi ritardi: «Intende Sua Paternità dalla lettera del 7 corrente quel tanto fanno per la fabrica del oratorio, che sarà causa del ritardar la communità in adempir il voto, come altre volte ha scritto Sua Paternità, che il far chiesa per modo di provisione sarà causa di refredar la communità. Procurino però di perfecionar la cominciata impresa» 325 .
Finalmente, il contratto tra la città di Livorno e i Barnabiti entrò ufficialmente in vigore dall'8 marzo 1633, il 16 agosto si poté consacrare la nuova chiesa -dedicandola a San Sebastiano e, come contitolare, a San Rocco -e lo stesso arcivescovo di Pisa vi celebrò la prima messa, cantata con il concorso dei musici chiamati per l'occasione da Lucca e da Pisa; e in tale occasione fu portata in processione la statua di San Sebastiano, donata dalla Confraternita di Santa Giulia, alla presenza delle autorità cittadine, del clero secolare e regolare e delle diverse confraternite. Il quello che si sperava, giacché nel febbraio del 1635 i Padri dovettero pensare a rintuzzare i tentativi di avanzare diritti sulla chiesa da parte degli Eremitani di Sant'Agostino, che curavano la chiesa di San Giovanni 327 ; e, se il 2 maggio la missione livornese era eretta in collegio minore 328 , nel mese di giugno vi fu un nuovo sollecito ad adempire il voto della città, facendo presente, tra l'altro, che la chiesa esistente non era per niente «bastevole ed honorevole per le nostre funtioni perpetuis futuris temporibus» 329 . La morte dell'arcivescovo, avvenuta il 6 gennaio 1636, lasciò temere un cambiamento anche nella conduzione della Penitenzieria e, su richiesta dei Barnabiti, il Granduca sollecitò il prevosto della chiesa maggiore perché i Padri continuassero a mantenere quell'ufficio. Nell'agosto del 1636, poi, la comunità ottenne il permesso di edificare in una cappella laterale una copia della Santa Casa di Loreto, per alimentare una devozione mariana cara ai Barnabiti, e il 25 marzo 1639 poté inaugurarla 330 . Nel frattempo, nel 1638 si era prospettata l'assunzione della cura parrocchiale, ma l'attuazione si rivelò irta di difficoltà, per non dire impossibile per via delle Costituzioni che l'impedivano, nonostante che in alcuni casi vi fossero state delle deroghe: «La Constitutione prohibisce l'accettar parrochie et il Capitolo Generale ha talvolta dispensato per entrar in città, dove la Congregatione desiderava haver luogo; ma l'accettar cura d'anime dove già habbiamo casa, sarebbe cosa nuova et havrà difficultà, anche nel Capitolo Generale» 331 .
Nel 1643 il P. Spreafico, cogliendo al balzo l'occasione fornitagli da un detto popolare che affermava: «Chi va a Loreto e non va a Sirolo, vede la Madre, ma non il Figliolo», decise di introdurre nella chiesa di San Sebastiano una copia fedele del crocifisso di Sirolo, facendola fare in loco grazie a un suo amico, Giovanni Massei, e facendola trasportare prima a Ve-nezia, e poi, via mare, a Livorno grazie ad Angelo Rinalducci. Arrivato a destinazione, l'8 marzo il crocifisso fu posto nel lato settentrionale della chiesa, all'esterno a destra della cappella della Santa Casa di Loreto 332 . Nel 1644, invece, le difficoltà economiche in cui versava la città per il mancato sviluppo del porto influirono sulle condizioni economiche del collegio, che si aggravarono anche per il mancato aiuto promesso più volte, per scritto e a voce, dall'arcivescovo di Pisa, deludendo le speranze ripostevi: la crisi fu tale da lasciar intravedere la possibile chiusura del collegio stesso 333 . Superata la crisi, il 14 febbraio 1650 il Governatore della città, il senatore marchese Filippo Pandolfini ( †1655), convocò il Superiore di San Sebastiano e, per ordine del Granduca, fece pressione sui Barnabiti perché aprissero un Ginnasio pubblico nella città di Livorno 334 . Il 28 aprile le stesse maestranze cittadine scrissero una lettera al Capitolo Generale, che fu letta dai Padri capitolari il 12 maggio, perché i Barnabiti accettassero di aprire due scuole di Umanità, una superiore e l'altra inferiore, a partire dall'anno scolastico 1650-1651 per i successivi otto anni; e il Capitolo Generale decise di accettare la proposta 335 . L'8 ottobre fu steso lo strumento notarile tra le autorità cittadine e i Barnabiti e il 3 novembre fu inaugurato l'anno scolastico 336 .
La peste del 1630-1631 fu all'origine anche della profonda crisi che colpì la comunità di Pescia, letteralmente decimata dal morbo, nonostante che il podestà e vicario del luogo, Giovanni Battista Carnesecchi, fosse fra i più attenti e attivi nel fornire informazioni e nello spingere a prendere le decisioni più opportune, segnalando tempestivamente le notizie della diffusione del morbo a partire dal gennaio del 1631. Grazie alla sua testimonianza e a quella di altri amministratori locali ci si può rendere conto non solo della situazione creatasi e dei provvedimenti adottati, ma anche constatare come allora vi fosse la perfetta consapevolezza che, qualunque ne fosse stata la causa, il contagio si trasmetteva da persona a persona e che il pericolo maggiore era costituito non da fantomatici "untori", bensì da portatori sani o momentaneamente tali, che provenivano da fuori. Tra le decisioni adottate, infatti, vi fu quella di aumentare il controllo del traffico sulle strade del territorio, accertandosi che nei centri abitati, allora generalmente cinti da mura, non entrassero persone sconosciute sospette o provenienti da aree territoriali potenzialmente o apertamente infette. Il servizio era svolto da un adeguato corpo di guardia, che vedeva reclutati i cittadini delle varie comunità tra i sedici e i sessanta anni, ed era particolarmente gravoso, perché -soprattutto nei centri agricoli -toglieva le braccia dal lavoro dei campi, e pericoloso, perché esponeva più facilmente al rischio del contagio.
Le provvidenze per evitare la diffusione del morbo riguardarono non solo i contatti fra i malati con le loro cose e i sani, ma anche l'igiene personale e pubblica, che, in assenza di altri rimedi conosciuti, era un fattore efficace di prevenzione, se non di cura. Ne fa fede un documento, steso dal cancelliere del paese di Buggiano, assai interessante per la sua capacità di mostrarci nei dettagli i provvedimenti da prendersi e riguardanti in modo particolare:
Gli ambienti: «Se nelle case infette è rimasto alcuno, che non habbia ahuto male, o che ahutolo sia guarito, quel tale potrà fare la diligentia di profumare, e nettare le case, lavare, e purgare li panni, e quando non ci sia rimasto alcuno, o che li rimasti non siano atti, ci potremo servire dei becchini. Vadino a fare le suddette Funtioni non digiuni, con qualche preservativo, e si lavino le mani, e il viso con aceto. Nella camere, o stanza, dove è stato l'ammalato, facciasi nel mezzo di essa un buon fuoco, e s'aprino tutti gl'usci, e finestre, e levate via tutte le robbe, si spazzi benissimo, innaffiando li pavimento con aceti, o almeno con ranno forte e spazzino le muraglie, et il solaro, et havendo comodità, sarebbe bene imbiancarla. Si profumi, fatto questo per due sere con zolfo, e poi un'altra sera con cocchole, e bacche di ginepro, rosmerino, o altra cosa odorifera, e mentre si fanno detti profumi, si tenghino le finestre serrate. Nei luoghi comuni si getti un buon caldaro di ranno forte, e della calcina viva, avendone».
Gli arredi della casa: «Il letto dov'è stato l'infermo, cioè i ligniami, o panni di ogni sorte, che hanno servito immediatamente a detto infermo, si abbrucino. Li panni lini di tutte le sorti, che non hanno servito immediatamente a l'infermo, per assicurarcene si mettino in una caldaia di ranno forte, e si lascino quivi per tre giorni e poi li si lavi con buon bucato, lavandoli in acque correnti. Li panni lani, che non si possono lavare, materassi, guanciali, o altre cose simili si sbacchettino bene parecchie volte, si mettino all'aria in modo che possino ricevere il freddo della notte, e stiano così esposti per almeno 25 giorni. Le casse, tavolini, stagni, ferramenti o altre cose simili si lavino con l'aceto, et in defetto con ranno forte. Le botte si lavino per di fuori, e poi se li abbruci attorno della paglia, o altra cosa simile».
Gli oggetti e le scritture personali: Gli alimenti per le persone e gli animali: «Li grani, e biade basta mutarli due, o tre volte da una parte all'altra della stanza». Tuttavia, la regola d'oro era e rimaneva sempre la stessa: «La più vera, e miglior regola è l'abbruciare le robbe, come non sono di gran valore; perché altrimenti sempre si corre pericolo» 337 .
Le resistenze opposte da più parti e in particolare dai Deputati di sanità locali resero praticamente inefficaci le misure prese, che, se applicate correttamente e con il dovuto rigore, avrebbero forse impedito al morbo di fare più danni di quanti poi ne fece. Anche nel pesciatino il contagio durò fino alla primavera del 1632. 340 .
Tentativi di aprire nuovi collegi furono avviati anche nel vice-regno di Sicilia; e in particolare nell'aprile del 1624 a Palermo. Il Superiore Generale, Giulio Cavalcani, ne raccomandò l'affare al Superiore provinciale, Tobia Vilanterio Corona ( †1626), consigliandolo di orientarsi preferibilmente là dove i Barnabiti erano già stati in missione; e per questo si chiesero lettere di favore ai parenti dell'arcivescovo, il cardinale Giovanni Doria ( †1642) 341 , per ottenerne il gradimento; così come si chiese l'intervento di "Madama Reale" a Torino -ossia di Maria Cristina di Borbone-Francia ( †1663) -perché intervenisse presso il vice-Re di Sicilia, Emanuele Filiberto di Savoia ( †1624) 342 . Per sondare tale possibilità si recò a Palermo anche il P. Mazenta, ma le notizie non furono confortanti, tanto che il Superiore Generale gli chiese di assicurarsi «se sii vero che vi sii la prohibitione Regia, perché quando vi fosse sarebbe bene il ritornarsene, perché l'aspettar il placet di Spagna sarà negotio di molti mesi» 343 . Tuttavia, l'anno successivo si giunse alla conclusione che vi era «poco fondamento per negotiare» 344 . Nel 1628 giunsero ulteriori proposte da Licata 345 ; tuttavia, il Superiore Generale in una lettera del 7 maggio 1628 al P. Cassiano Puccitelli ( †1634) mostrò tutte le sue perplessità sulla possibilità di fondare un collegio in quella città: «L'haver da fabricar chiesa e collegio e fondar l'entrata per 12 persone è negotio da pensarvi; e non si risolverà di qua senza certezza di cosa maggiore di quella che scrive. Il mandar due sacerdoti della qualità che richiede è impossibile; onde con buona maniera si può licentiare, con dire ch'è chiamata et aspettata in Milano e che, dovendo uno de' nostri predicare in Palermo, se il Vescovo o Cittadini havranno stabilito cosa alcuna, potranno trattare con lui» 346 Similmente, sembrò aprirsi uno spiraglio nell'aprile del 1631, ma già nel successivo mese di giugno i "capitoli" del trattato con i membri della Confraternita di San Sebastiano per una fondazione a Messina furono ritenuti insufficienti e le trattative furono abbandonate 349 . Oltre che per sondare la possibilità di aprire nuovi collegi, alcuni Padri furono richiesti da uomini di governo per svolgere anche delicati incarichi. Così nel dicembre del 1650 il P. Giulio Scampoli ( †1688) fu inviato a Palermo da Melchiorre Borgia per trattare alcune questioni con Juan José d'Austria ( †1679), dietro licenza e fornito di lettere testimoniali del nunzio apostolico nel vice-regno di Napoli, il vescovo di Camerino Emilio Bonaventura Altieri ( †1676) 350 .
Nel 1624, invece, il Procuratore Generale fu incaricato di trattare con il cardinale Scipione Borghese Caffarelli per avere la sua chiesa di San Bartolomeo a Brescia, tenendosi pronto, in caso di orientamento positivo, a 174 Mauro M. Regazzoni [90] ---- presentò l'occasione di aprirvi un collegio, per favorire l'ospitalità dei Padri di passaggio e fu ritenuta assai conveniente dal Superiore Generale e dai suoi Assistenti; ma già agli inizi del mese successivo la relazione sulla casa offerta non fu favorevole, perché la descriveva come bisognosa di una radicale opera di ristrutturazione, e si giunse alla conclusione che l'ospitalità si sarebbe ottenuta «con maggior dispendio che all'hosteria» 357 . Nell'ottobre del 1624 venne meno anche la possibilità di avere la casa di un certo Marco Celio, per l'improvvisa morte del donatore 358 ; ma poco dopo il prevosto della chiesa di Sant'Ulderico avvisò i Barnabiti le del 1627 la chiesa e il convento furono dati ai "Cinturoni riformati" 362 ; e si cercò di approfittare delle nozze del duca onde ottenere più facilmente il permesso di stabilirsi in Piacenza 363 . Nel dicembre 1628, scrivendo al P. Lino Vacchi a Bologna, il Superiore Generale gli raccomandava di portarsi a Parma per prendere contatti con la duchessa madre, Margherita Aldobrandini ( †1646) 364 , con la duchessa Margherita de' Medici ( †1679) 365 , moglie del duca Odoardo I Farnese ( †1646), e con la zia di quest'ultimo, Margherita Farnese ( †1643) -in religione suor Maura Lucenia -badessa del monastero di Sant'Alessandro 366 : «Se bene il Signor Cardinale Ippolito Aldobrandini gli ha scritto che tratti il negotio per lettere, giudica nondimeno molto espediente che, essendo la Ser.ma Sposa giunta in Parma, vada anch'egli per negotiare di presenza prima con Sua Signoria Illustrissima, che, essendo venuta la Sposa, ha stimato essere intentione di Sua Signoria Illustrissima che si trovasse in Parma. Veda di fargli constare la difficoltà d'ottenere il consenso da' cittadini, per non esser costume il chiederlo, come si è veduto in Fiorenza; né esser per noi necessario, ché non siamo mendicanti; anzi, pensiamo di portar entrata sufficiente da Montù. Presenti poi subito le lettere di Milano e di Roma alla Duchessa Madre, dando prima la sua alla Serenissima Donna Maura, col fargli intendere che desideriamo faccia ufficio col Signor Duca sì, ma principalmente con la Signora Duchessa Madre. Ultimamente con memoriale supplichi di nuovo la Duchessa Sposa. Se vedrà esserci buona speranza, seguiti la negotiatione col dimandar per memoriale il consenso, senza far mentione né di S. Uldrico, né d'altra Chiesa. Se le cose non s'incaminassero molto bene, chieda almeno la gratia per haver un hospitio. Si consigli con il Signor Conte Otto, al quale scrive il Padre Don Mattia Guarguanti. Non è bene che col compagno resti in Corte, quando bene fosse invitato» 367 .
Inoltre, pur apprezzando l'impegno del prevosto di Sant'Ulderico per far concedere la propria chiesa alla congregazione, i Barnabiti si orientarono sempre più verso la chiesa di Santa Brigida 368 ; e nel contempo rifiuta-rono la proposta di Ercole Benedetto Sanasseri ( †1631) di assumere la cura di una chiesa da lui offerta, prima di ottenere il placet ducale 369 . In realtà, ciò che si riuscì a ottenere in quel momento, fu solo la possibilità di fondare in Piacenza un ospizio e per questo si mandò il P. Mauro Beretta ( †1630), piacentino di nascita, per trattare l'affare con il Governatore 370 .
Durante il Capitolo Generale del 1630, il 4 maggio il P. Cristoforo M. Croce ( †1630) si fece latore di una lettera del vescovo di Piacenza, Alessandro Scappi ( †1650), nella quale egli manifestava l'intenzione di affidare loro l'erigenda Penitenzieria nella Cattedrale, offrendo nel contempo una casa e una chiesa con un reddito di 200-300 scudi per mantenervi due sacerdoti e promettendo di aumentare l'emolumento per altri due sacerdoti. I Padri capitolari, però, nell'accettare l'offerta proposero come alternativa alla Penitenzieria la disponibilità ad aprire un collegio 371 . In ogni caso, nel febbraio 1631 il P. Mazenta, Vicario Generale, assicurò al vescovo di mandare alcuni Padri per continuare la missione in loco 372 . Nel contempo si cercò di trovare una chiesa adatta a loro e tornarono a chiedere la prepositurale dedicata a Santa Brigida, il cui prevosto era disponibile a rinunciarla a favore della congregazione; e per concludere le trattative furono inviati i Padri Giovenale Falconi ( †1672), Superiore di Santa Maria di Canepanova a Pavia, e Pietro Martire Canevari ( †1652). Effettivamente, agli inizi di marzo il vescovo affidò ai Barnabiti la chiesa prepositurale; ed essi gli chiesero di scorporare la parrocchia dalla chiesa, o di poter avere solo la chiesa e la casa «con patto di fabricare una Capella particolare con stanza per il Parocho» 373 .
Ulteriori difficoltà, però, affiorarono sia per la concessione delle Bolle pontificie, sia per l'improvviso ripensamento del prevosto di Santa Brigida, che, pentito della rinuncia fatta e per le pressioni del clero piacentino, nel febbraio del 1632 si dichiarò non più disponibile a cedere la chiesa. In alternativa fu proposta un'altra chiesa curata e il Vicario Generale ne valutò la possibilità, sperando di ottenere quella di Sant'Ulderico; e nel contempo incaricò il Procuratore Generale di prevenire la supplica contraria del clero di Piacenza. In giugno, però, tutto si risolse positivamente e le difficoltà furono superate felicemente, grazie anche all'interessamento di Marcello De Rosis, subentrato al defunto Sanasseri 374 . Nello stesso mese, con la nomina di P. Cornelio Porzio ( †1635) a primo superiore del collegio di Santa Brigida, Piacenza cessava di essere missione ed era inserita nella provincia Pedemontano-Gallica 375 .
Destinati al fallimento, invece, furono i tentativi intrapresi nel 1614 presso i vescovi di Parma, Alessandro de Rossi ( †1615) 376 , e di Borgo San Donnino, Giovanni Linati ( †1627) 377 ; e se nel settembre del 1626 si riaffacciò nuovamente la possibilità di una fondazione a Parma grazie all'in- [95] I Barnabiti nell'Italia centro-meridionale (1608-1659) 179 tervento del cardinale Ippolito Aldobrandini ( †1638) presso sua sorella Margherita, anche questo tentativo non ebbe successo 378 . Si tentò nuovamente alla fine del 1635, ma nel febbraio del 1636 il Superiore Generale ne riconobbe l'impossibilità, date le forti turbolenze politiche del momento 379 .
Ci siamo indugiati nell'offrire una panoramica non tanto della "lettera", quanto piuttosto dello "spirito" che animò la ricerca semeriana (an-190 Antonio M. Gentili [4] ----che se limitatamente allo scritto su cui si appuntò la maggior parte delle critiche) 36 , poiché questo ci consentirà di comprendere quanto fossero lontani dal suo "sentire" coloro che lo sottoposero a un implacabile vaglio inquisitorio, vaglio che oggi risulta decisamente stonato e anacronistico. Il che conferisce al pensiero del barnabita un carattere profetico: carattere a cui il maturare della coscienza cristiana nell'incontro-scontro con la modernità avrebbe dato pienamente ragione. L'apertura dell'archivio dell'ex Sant'Officio (inizio del 1998), e più in particolare la recente messa a disposizione del dossier semeriano (febbraio del 2007), ci consente di fare piena luce sulla complessa vicenda inquisitoria a carico del barnabita, che si protrasse per ben dieci anni (1909)(1910)(1911)(1912)(1913)(1914)(1915)(1916)(1917)(1918)(1919). Dopo avere offerto una visione riassuntiva di «quelle affascinanti e allo stesso tempo opprimenti fonti documentarie» 37 , ne daremo un regesto disposto cronologicamente (va detto infatti che i documenti si trovano in un ordine… disordinatissimo) nella prima Appendice. Faremo infine seguire la pubblicazione di una scelta di documenti particolarmente significativi nella seconda Appendice. Dal 1907Dal al 1913 Il 17 luglio 1907 veniva dato alle stampe il decreto pontificio Lamentabili sane exitu, datato 3 luglio e recante una sintesi degli «errori dei modernisti». Una decina di giorni dopo il sempre bene informato "Corriere della sera" rendeva noto come «qualche arrabbiato antimodernista» stesse «studiando una specie di sillabo di proposizioni estratte dai libri del Semeria per farli poi mettere all'Indice» (29 luglio1907). Che non si trattasse di una pura ipotesi lo si sarebbe potuto verificare l'anno successivo, quando nel numero del 23 ottobre 1908 del foglio integralista "L'Unità Cattolica" di Firenze apparve l'elenco di 33 proposizioni dovuto alla penna del direttore Alessandro Cavallanti (1879-1917) 38 ed estratte dalle ope- [5] Il processo al P. Semeria 191 ---- 36 42 . Dopo una circostanziata e puntigliosa esposizione, la missiva terminava con l'accorato appello espresso al plurale, quasi fosse portavoce della fronda antimodernista: «chiediamo e imploriamo la condanna», s'intende delle opere semeriane. Di lì a due mesi -non sappiamo quale nesso intercorra tra i due fatti e neppure chi ne sia stato il promotore vaticano -padre Mattiussi si vide arrivare «quasi autorevolmente» la richiesta di «un elenco degli errori sparsi nelle opere di padre Semeria». Dandone notizia al Colletti in data 23 novembre 1909, 192 Antonio M. Gentili [6] ---- 39 Il testo è ripreso in FD, pp. 515-521. 40 Su Mattiussi e in particolare sul rapporto con Semeria, cfr. FD, pp. 220-221. Per quest'insieme di dati si veda: A. GENTILI, All'origine della progettata "messa all'Indice" degli scritti semeriani: Il carteggio Mattiussi-Colletti (1904-1922, in «Barnabiti Studi», 4 (19879, pp. 143-183. I rapporti con Pio X e la sua "segretariola" sono ampiamente illustrati in A. M. DIEGUEZ-S. PAGANO, Le carte del "sacro tavolo", Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano 2006. 41 Fatto sta che meno di un mese dopo la lettera del Rinieri, il 12 gennaio 1910, gli eminentissimi e reverendissimi membri del Sant'Officio «decreverunt: opera patris Semeria examinentur in Sancto Officio per reverendissimos patres Andrioli, Lottini, Joseph a Monte Rotondo [Checchi], comparatis ad rem libris hac super re editis» 43 . I libri fatti pervenire alla "Suprema" -così veniva chiamato il Sant'Officio -erano 16, come si vedrà fra poco esaminando i contributi dei suddetti periti.
La perizia di Alfonso Andrioli (1864Andrioli ( -1922 44 , datata 18 gennaio 1913, consta di 64 pp. a stampa e concerne l'esame di Scienza e fede. «Sarei dell'avviso -conclude -che il Semeria non continuasse a tacere, ma che a profitto della buona causa consecrasse quell'intelligenza e quello zelo che niuno gli può negare, facendolo paternamente avvertito che nel ripubblicare le opere esaurite o nel dare alle stampe nuovi lavori, esponesse con più chiarezza e precisione filosofica e teologica le sue opinioni» 45 .
La perizia (senza data) di Giovanni Lottini (1860-1951) 46 in ben 208 [7] Il processo al P. Semeria 193 ---- La sua attività -così prosegue -è condotta con «arte finissima e dirò anche (questa è l'impressione che ho ricevuta) con somma astuzia sotto il pretesto di progresso scientifico» 47 . Il Lottini, dunque, non soltanto ritiene che Semeria abbia errato in più punti, ma -sia pure con l'attenuante dell'"impressione" -che addirittura fosse in malafede. Il suo ruolo, come vedremo, sarà determinante nel processo a carico del barnabita 48 , che parlerà di «severa requisitoria dell'autorevole personaggio» 49 .
La perizia di Giuseppe da Monte Rotondo, alias Giuseppe Maria Checchi (1869-1942) 50 , consta di 120 pp. datate Trinità 1910 (22 maggio) e anch'esse relative alle suddette 16 opere del barnabita inquisito. Il Checchi conosce i pronunciamenti antisemeriani del gesuita Giuseppe Barbieri (1848-1908) 51 , di Arturo Colletti (Studi critici sul Modernismo), di Alessandro Cavallanti (Modernismo e modernisti) 52 , e riporta in calce la lettera di Ilario Rinieri, per poi concludere: «…E qui ho dovuto spaventarmi». Infatti lamenta l'influsso negativo che simile libellistica era destinata a suscitare in vescovi, sacerdoti e giornalisti cattolici. «Con questo sistemaaggiunge -credo si potrebbe dimostrare che il libro dei santi evangeli sia il più eretico e il più pernicioso del mondo» (p. 110). Il giudizio conclusivo è favorevole alla produzione di Semeria, le cui opere «lungi dal meritare condanna, meriterebbero diffusione…» 53 .
Contestualmente all'esame cui venivano sottoposti gli scritti semeriani, agli inizi del 1912, il 14 gennaio, padre Mattiussi venne ricevuto in udienza privata da Pio X (1835.1903-1914). Dandone un ragguaglio al Colletti il 5 febbraio 1912, scrive: «Ho domandato a Sua Santità se farei bene, aiutando un altro padre che m'invitava, a raccogliere errori dai libri di Semeria. Il S[anto] P]adre] mi ha risposto che non ce n'era bisogno; non mi ha voluto dir chiaro che cosa si farà, ma mi ha fatto capire che ci si pensa». E infatti nella riunione dei consultori del 15 aprile 1912, quattro proponevano che Semeria chiarisse le «proposizioni equivoche» contenute nei suoi scritti, mentre gli altri undici chiedevano il parere di altri due o tre esaminatori, come la congregazione dei cardinali avrebbe decretato il successivo 24 aprile 1912 chiamando a esprimere il loro parere Carlo Rossi (1876Rossi ( -1948, che attraverso un lungo e circostanziato esame delle opere si rivelerà favorevole al barnabita 54 e Giovanni Lottini, di cui si è già detto. La delibera dei cardinali del Sant'Officio relativa all'istruzione del processo inquisitorio veniva approvata da Pio X l'indomani 55 .
Quantunque la perizia favorevole, sia pure condizionatamente, di due su tre esaminatori potesse far bene sperare, a dare però ulteriore credito alla ventilata condanna o, meglio ancora, a urgerne l'auspicata pubblicazione, Arturo Colletti in quello stesso mese di aprile dava alle stampe il libello antisemeriano cui si è già fatto cenno, La Scrittura impugnata dal modernismo nei libri del padre Giovanni Semeria barnabita, Perugia 1912 (la data dell'Imprimatur è del 31 marzo), dove venivano registrate 38 proposizioni damnandae estrapolate dalle opere del barnabita o a esse riferite 56 . Tale elenco apparve il mese successivo su "L'Unità Cattolica" del 5 maggio 1912 (Riassunto degli errori semeriani, secondo un opuscolo recente del padre Arturo Colletti). Immediata fu la reazione di Semeria, il quale, «in ossequio al desiderio» espresso dai suoi superiori, redasse ai primi di giugno del 1912 una difesa a stampa, che venne fatta pervenire a diversi esponenti della gerarchia ecclesiastica in modo che si rendessero conto dell'ignobile campagna 57 . Padre Mattiussi, al corrente della situazione, comprese che critiche così eccessive e sommarie avrebbero finito con il favorire piuttosto che nuocere al barnabita, e di conseguenza ne ragguaglia in questi termini l'amico filippino, svelando ancora una volta come godesse di informazioni di prima mano: «Quanto alla condanna del S[emeria], non verrà, e bisogna rassegnarsi.
Credo tuttavia che qualche cosa si farà, per togliergli influenza. … Forse Genova ne sarà liberata. Peggio per altri Paesi. E vi andrà con l'aureola del martire!» (Lettera del 10 giugno 1912 continua a lamentarsi che non lo vogliono condannare; ma non si forma la coscienza di dover procedere da sé e supplire all'incertezza degli altri» (Lettera dell '11 giugno 1913). Simili disposizioni d'animo di papa Sarto sono ricordate nei processi canonici, in cui si leggono queste parole del pontefice: «Sono parecchi mesi che i libri del Semeria sono al Sant'Ufficio e ancora non è uscita alcuna decisione. Questo mi dispiace assai, perché intanto la fede viene intaccata» 59 .
Pio X, morto il 20 agosto 1914, lasciava dunque una pesante eredità al suo successore, Benedetto XV (1854-1922, la cui elezione suscitò in Semeria la speranza di vedere risolta la propria vertenza, così che fosse riabilitato presso l'autorità ecclesiastica e quindi gli venisse spianata la via del ritorno in Patria. Nel frattempo l'esule barnabita, passato in Svizzera per le vacanze estive, con il sopraggiungere della guerra non poté fare ritorno in Belgio e di conseguenza prese stanza presso l'Opera Bonomelli, in Ginevra, finché il 13 giugno 1915 fu chiamato dal generale Luigi Cadorna (1850-1928) a rivestire l'incarico di cappellano presso il Comando 196 Antonio M. Gentili [10] ---- 66 . La duplice iniziativa di padre Semeria si colloca in contemporanea con la ripresa del processo inquisitorio, di cui il padre generale informava il confratello in una lettera del 22 marzo 1915: «Si sta trattando la causa dei suoi libri» 67 . E infatti la primavera di quell'an-no vide impegnato il Sant'Officio nell'affrontare -così ci si riprometteva -in via definitiva la vertenza semeriana. Un "bando" non pubblicato della Congregazione dell'Indice 68 , in data 12 aprile 1915 reca la scritta «Giovanni Semeria… Decretum Sancti Officii feria IV», ossia il mercoledì nel quale ogni settimana si teneva la riunione dei consultori della "Suprema". Ciò significa cha la causa del barnabita, e segnatamente del volume Scienza fede ristampato alla macchia in questo torno di tempo, aveva già preso la via della condanna con una segnalazione previa all'Indice? Sta di fatto che una settimana dopo, il 19 aprile 1915, si raccolsero pareri «Sulle opere di padre Semeria». Dalla lettura dei diversi pronunciamenti risulta che su quindici consultori, l'assessore Domenico Sbarretti, il commissario Domenico Pasqualigo e il redentorista Drehmanns 69 72 ; il che ci fa comprendere come all'interno degli Ordini religiosi e dello stesso Sant'Officio si scontrassero valutazioni diametralmente opposte. Stanti però i pronunciamenti di cui sopra, si sarebbe potuto fondatamente concludere che il "caso Semeria" era avviato a una soluzione "ragionevole". E invece il processo si rivelerà sempre più minaccioso a carico del barnabita inquisito, anche perché sventuratamente erano uscite in quel torno di tempo due edizioni clandestine di Scienza e fede, la più discussa opera semeriana: la prima a Piacenza nel 1914 e la seconda a Sesto San Giovanni (MI) nel 1915. I superiori, forse messi a parte della piega che stavano assumendo gli eventi, si rivolsero al Sant'Officio con lettera di padre Felice Fioretti (1850-1928) del 25 aprile 1915, nell'intento di scagionare l'Ordine e quindi Semeria da ogni responsabilità circa la suddetta deprecata iniziativa 73 . Ciò nonostante, e si direbbe in barba ai pronunciamenti dei consultori, il 28 aprile 1915 il Sant'Officio, «capta occasione ex novis editionibus», decretò il libro semeriano «Scienza e fede inserendum in Indicem librorum prohibitorum». Il papa, in qualità di prefetto della Congregazione del Sant'Officio, stabilì il giorno successivo che la sentenza fosse «dilata usque ad proximam audientiam», che di norma si sarebbe tenuta la settimana seguente. E infatti il 6 maggio 1915 Benedetto XV approvò il decreto del Sant'Officio e stabilì che fosse trasmesso alla Congregazione dell'Indice 74 . Da una lettera del papa che citeremo in seguito, risulta che tale decreto tardò a essere trasmesso, così che la "Suprema" nella riunione del 19 maggio 1915 stabilì senz'altro «publicandam damnationem operis Scienza e fede» da parte della suddetta Congregazione. Il papa, che nel frattempo aveva ricevuto tramite il padre generale il Pro memoria latino del quale si è parlato, con nota vergata il giorno seguente decise che la comunicazione della condanna alla Congregazione dell'Indice venisse differita «donec nova hac super re communicatio a Sanctitate sua habita fuerit» 75 . Contestualmente Benedetto XV il 20 maggio 1915 scriveva a Domenico Sbarretti (1856-1939) 76 , assessore e cioè addetto alla segreteria del Sant'Officio 77 , chiedendo di approfondire la causa alla luce del Pro memoria latino 78 poiché era stato impressionato dall'enormità di alcune critiche mosse a Semeria.
I cardinali del Sant'Officio, che ebbero fra mano il Pro memoria fatto stampare con delibera del 26 maggio 1915 e distribuito in dodici copie 79 , avvalendosi anche di ulteriori perizie decisamente negative dovute a due membri della Congregazione, Ludovico Billot (1846-1931), gesuita 80 e Guglielmo Van Rossum (1854-1932), redentorista 81 , decisero nuovamente, il 16 giugno 1915, che venisse pubblicato «decretum damnationis operis Scienza e fede quamprimum». Il 17 giugno 1915 il papa comunque «resolutionem … adprobavit sed sibi reservavit determinare tempus quo decretum damnationis publicandum sit» 82 . Evidentemente la difesa di Semeria, formulata in latino e quindi intenzionalmente dotata di particolare autorevolezza, sortì l'effetto contrario. Egli infatti difendeva l'opera incriminata con non poca energia, il che probabilmente indispose i suoi critici. Che tale poi fosse il suo sentire, possiamo dedurlo anche da una lettera di Tommaso Esser , OP e segretario della Congregazione dell'Indice 83 , il quale, scrivendo il 9 giugno 1915 al cardinale Ettore Ireneo Sevin (1852-1916) della Concistoriale, ricordava la dichiarazione fatta da Semeria ai giornali in merito alle recenti riedizioni di Scienza e fede: «Non rimprovera dunque il libro in quanto tale, anzi lo asserisce del tutto corretto, essendo stato approvato dall'autorità ecclesiastica; soltanto gli dispiace che se ne sia fatto, senza il suo consenso, una nuova edizione» 84 .
Il fatto che Semeria operasse in zona di guerra in qualità di Cappellano militare presso il Comando Supremo, indusse Benedetto XV a congelare il decreto per ragioni di opportunità, temendo che, nella situazione bellica in cui ci si trovava, simile provvedimento potesse manifestare «ostilità personale per il generale Cadorna», nonché avallare l'idea che i cattolici, per ragioni di principio e memori delle passate prese di posizione antirisorgimentali, non fossero sinceramente patriottici 85 . A tali ragioni si vennero aggiungendo le condizioni di salute del barnabita, il quale nell'au-tunno del 1915 registrò una crisi di nevrastenia acuta che lo avrebbe costretto a lasciare il fronte nel novembre e poi a essere ricoverato in una clinica svizzera il gennaio seguente.
In due successive udienze che il papa accordò al padre generale, il caso Semeria registrò una svolta che si sarebbe rivelata decisiva. A Benedetto XV -il quale nell'incontro del 9 novembre 1915 ribadiva la necessità che padre Semeria «chiarisse meglio la sua dottrina» -Vigorelli faceva presente come fosse «utile conoscere le proposizioni che furono disapprovate nei suoi libri» perché le potesse ritrattare. Al che il Papa rispose: «Vedrò di farle avere queste proposizioni». Già in preda ai primi sintomi del grave male, tributario a un tempo dello stress della guerra, dell'estenuante logorio dell'esilio e del persistente clima di sfiducia, Semeria volle allora rivolgersi direttamente a Benedetto XV per perorare la sua causa, con una prima lettera del 22 novembre 1915, che però il padre generale non ritenne opportuno inoltrare. Il barnabita non disarmò, così che il padre generale girò al papa una seconda lettera del 6 dicembre 1915. Nella successiva udienza del 23 dicembre 1915, il padre generale rinnovò la richiesta delle proposizioni e si sentì rispondere dal papa, in riferimento a Semeria: «Si potrà fare la pace anche con lui, ma si esigeranno trattative». Con ciò il pontefice faceva presente che l'elenco delle proposizioni non era ancora pronto e che considerava opportuno l'inoltro di una "Supplica" formale, che venne redatta da padre Fioretti l'8 gennaio 1916. Benedetto XV, in data 20 gennaio 1916, rassicurò che detto elenco era in preparazione, quantunque non risultasse ancora pronto nel marzo di quell'anno, quando a fatica Semeria stava uscendo dalla nevrastenia acuta che lo aveva colpito e condotto a tentare il suicidio 86 .
Finalmente il 12 maggio 1916, mentre si trovava convalescente presso l'Opera Bonomelli in Ginevra, Semeria poté avere fra mano un primo elenco di proposizioni (filosofiche), cui si aggiunse un secondo elenco (teologiche) il 31 maggio 1916. Non sappiamo chi le abbia redatte, né questo risulta dalla documentazione del Sant'Officio. Evidentemente il papa volle agire in modo autonomo, servendosi di don Luigi Orione (1872-1940) in qualità di mediatore, come si ricava dai processi canonici del santo tortonese. Un teste assicura che Benedetto XV trovò «esaurienti» le risposte di Semeria. Di fronte però a «nuove insistenze per la condanna» da parte del cardinale del Sant'Uffizio, che presentò al papa il «decreto già preparato», questi lo «ritirò e disse che la pratica era chiusa» 87 . Il 29 giugno 1916 Se- [15] Il processo al P. 89 , trasferendo la propria dimora nel collegio dei Barnabiti in Bologna. Preso atto che si profilava di nuovo l'ipotesi della condanna delle sue opere e in particolare di Scienza e fede, Semeria si rivolse direttamente al Pontefice, e in una lunga lettera del 17 novembre 1918 propose tre vie di soluzione, tra cui (la terza) riguardava la pubblicazione di un opuscolo, non tanto a propria difesa, ormai superflua, ma in «difesa dei lettori dal danno che il libro può fare ad essi» 90 . La suddetta lettera venne girata dal cardinale Pietro Gasparri (1852-1934) a Merry del Val e accompagnata da uno scritto il cui il Segretario di Stato si chiedeva quale mezzo di riparazione andasse adottato da Semeria e quale teologo lo avesse ad assistere nella correzione del libro o nella condanna degli errori ivi contenuti 91 . Il Sant'Officio, alla cui guida, come si è detto, era Merry del Val, formulò e approvò il 27 novembre 1918 la proposta di una Lettera a un amico in cui venissero rilevati e ritrattati i principali errori contenuti nella discussa opera. Il giorno dopo il papa vi appose il suo consenso 92 e il Sant'Officio designò Giovanni Lottini, "primo compagno" che, come si è visto, si era mostrato decisamente critico, a notificare a Semeria, di sette anni più giovane ma che sarà assai meno longevo di lui, le proposizioni erronee contenute nel libro incriminato 93 .
Ne seguì che in data 12 marzo 1919 si deliberò che Semeria fosse convocato presso il Sant'Officio, gli si facesse nuovamente sottoscrivere, con non poca umiliazione dell'interessato, il giuramento antimodernista 94 e firmare il decreto di condanna di Scienza e fede, riconoscendone in tal 202 Antonio M. Gentili [16] ---- Poco meno di un mese dopo, i cardinali del Sant'Officio, presa visione dello scritto, decretarono il nihil obstat (23 luglio 1919). Il papa vi appose il suo consenso, aggiungendo che non si doveva far parola che restava abrogato il decreto di condanna, la cui pubblicazione doveva invece rimanere anche in futuro soltanto «sospesa» (espressione volutamente sottolineata e che rivestirà anche il sinistro significato di una spada di Da-mocle…). Al barnabita si ingiungeva in pari tempo di non pubblicare altri scritti senza accordarsi con il Sant'Officio, mentre il papa approvava precisando che dovevano essere sottoposti all'esame del Sant'Officio sol-tanto «gli scritti di materie teologiche e filosofiche» 102 . In data 12 agosto 1919 veniva informato di tutto ciò il padre generale.
Una dozzina di giorni dopo, il 25 agosto 1919 Semeria si presentò nuovamente al Sant'Officio, dove gli fu notificato il nihil obstat per la pubblicazione della Lettera e gli venne comunicato che la famosa condanna restava sospesa… 103 . La Lettera, datata 28 agosto 1919, prendeva la via della stampa -sarebbe uscita nel numero di ottobre della "Rivista di filosofia neoscolastica" e indirizzata a padre Agostino Gemelli (1878-1959) 104 : «Mio dolce amico, ricevo la severa requisitoria dell'autorevole personaggio 105 contro il mio Scienza e fede» 106 -, mentre Semeria si accingeva a prendere la via dell'Oceano che l'avrebbe portato in America del Nord per una tournée oratoria finalizzata a reperire fondi che consentissero di sostenere l'Opera Nazionale per il Mezzogiorno d'Italia fondata insieme a don Giovanni Minozzi (1884-1959) per sovvenire alle necessità degli orfani di guerra. Prima di partire Semeria scrisse al papa, in data 17 novembre 1919, manifestando tutta la propria riconoscenza per l'avvenuto "epilogo di una controversia" 107 . Tale era il titolo della palinodia semeriana, cui seguiva come sottotitolo "Lettera aperta del padre Giovanni Semeria a proposito del volume Scienza e fede". L'«autorevole personaggio», che la documentazione in esame ci consente di identificare con Giovanni Lottini, aveva sottoposto al barnabita inquisito tre questioni: 1) «la razionalità della convinzione filosofica dell'esistenza di Dio»: 2) «la razionalità della ragione» e 3) «il rispetto della Scolastica in genere e di san Tommaso in specie». Quanto al primo punto, padre Semeria si appella a san Paolo, che nella Lettera ai Romani 1,20 afferma: «Invisibilia enim ipsius [scilicet Dei] a creatura mundi per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur». La ragione, dunque, attinge la realtà di Dio. Questo -prosegue Semeria -è confermato dai Padri e dai Dottori (soprattutto dalle Summae dell'Angelico) ed è ripreso dal concilio Vaticano I, che ha affermato la necessità della dimostrazione dell'esistenza di Dio contro i fideisti e la possibilità contro i razionalisti. A questo punto il barnabita accenna a Kant, alla sua impostazione volontaristica o soggettivistica del problema religioso. Denuncia l'illusorietà di un suo utilizzo «in senso cristiano», affermando che «la Chiesa fu di parere contrario». In questo modo Semeria prende le più aperte distanze dal filokanti- 204 Antonio M. Gentili [18] ----smo di cui era stato accusato e che realmente è riscontrabile nei suoi scritti, sia pure come via più accessibile alla cultura moderna in ordine alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. Con ciò però egli ribadisce che, se sono legittime «condanne ad affermazioni di indole filosofica» da parte della Chiesa, la Chiesa stessa «non nega la collaborazione volitiva nelle stesse indagini razionali». Il «dogmatismo morale» era salvo! Quanto al secondo punto, Semeria afferma che il soggettivismo «fu il grande fondamentale nemico della fede lungo il secolo XIX. E ricorda i pronunciamenti pontifici di condanna, come le encicliche Aeterni Patris del 1879, in cui Leone XIII rilanciava il tomismo, la Pascendi Dominici gregis del 1907, che rappresenta l'atto di condanna del modernismo, e il "motu proprio" Sacrorum Antistitum del 1910, con il quale si imponeva il giuramento antimodernistico. In particolare la Pascendi confuta ampiamente l'agnosticismo e il "motu proprio" recita, come prima affermazione: «Deum... certo cognosci, adeoque demonstrari etiam posse, profìteor», dove è citato il Vaticano I.
Infine, si trattava di riabilitare scolastica e tomismo. Semeria si esprime in modo assai equilibrato: San Tommaso «non ha esaurito ogni speculazione filosofica», ma «ha dato espressione classica a quella parte fondamentale della speculazione filosofica a cui si è applicato». Gli argomenti di cui egli si servì «non hanno perduto il loro valore» e «anche oggi sono atti a combattere l'incredulità». E dopo un sincero elogio al «genio e santo» di Aquino, Semeria, sia pure in modo indiretto, rivendica un solo maestro: «Nel discepolato più docile a Cristo e alla sua Chiesa» Tommaso «acquista il suo titolo e quasi direi il diritto di Maestro. Ecco perché -scrive padre Semeria -o mio carissimo amico [padre Gemelli], te lo posso, finendo, suggerire io pure a Maestro, senza venir meno alla perentoria sentenza evangelica Non chiamate nessuno vostro maestro... Gesù benedetto rimanga maestro tuo e mio, ma vivo e schietto nella sua Chiesa. In lui, in nostro Signore Gesù Cristo, ci sia dato unirci, amico, uniti perderci e trovarci, umiliati salutarmente, graziosamente esaltati». Parole conclusive che nascondono il dramma e la sua conclusione positiva 108 .
A pochissimi giorni dall'uscita dell'Epilogo, il primo a congratularsi fu proprio quel padre Mattiussi che vedemmo all'origine della mancata condanna semeriana, scrivendone direttamente a Semeria il 27 novembre 1919. Se ne congratulò anche "La Civiltà Cattolica" con una lunga nota del padre Enrico Rosa (1870-1938) 109 .
Poteva sembrare che il "caso Semeria" fosse definitivamente risolto e invece assistiamo a una serie di penosissimi strascichi che si protrassero sino alla fine della vita del padre e oltre. Possiamo rapidamente passarli in rassegna 110 . Anzitutto perdurava per Semeria il divieto di predicare in Roma e in Liguria. Lo ebbe a ribadire Pio XI (1857.1922-1939) Un anno dopo, Semeria scrisse per la sua rivista "Mater Orphano- 206 Antonio M. Gentili [20] ----110 Oltre alla documentazione presso l'ACDF cui facciamo riferimento, si può aggiungere l'increscioso episodio del marzo 1924, quando il cardinale De Lai, segretario della Concistoriale, convocò il Superiore Generale per notificargli le rimostranze di un vescovo che denunciava a Pio XI come Semeria, al termine di una conferenza, fosse stato freneticamente applaudito e «baciato». Il che offrì all'implacabile "nemico" del barnabita di far presente che «il Santo Padre … non vorrebbe si dovesse riprendere la faccenda del Sant'Uffizio, che fu aggiustata allora alla buona»; «Barnabiti Studi», 16 (1999), p. 277. Alle pp. 271-272 247 è ricordato l'incontro in Viale del Re (l'attuale Viale Trastevere nelle cui vicinanze abitava de Lai) del barnabita con il cardinale, che rispose al suo gesto di ossequio dandogli del «matto». 111 ACDF SO, CL, 1910, n. 12, 952. 112 «Mio caro padre, non prima di ieri l'altro ho potuto discorrere col cardinale Pompili [Basilio (1858[Basilio ( -1931, vicario generale di Sua Santità dal 1913], né prima di oggi ne posso discorrere con lei. Il cardinale, dunque, mi ha detto 1) che l'ordine non viene da lui, ma dal papa. Della cosa egli aveva sentito Benedetto XV, e volle risentire Pio XI: anzi lasciò a loro la libertà più larga a decidere, e loro decisero come decisero. 2) L'ordine non è neppure lontanamente una condanna o un postumo o un sintomo di condanna. Tutt'altro. Il cardinale mi parlò con infinita benevolenza di lei e dell'opera sua, e mi disse che molta benevolenza ebbe Benedetto XV ed ha Pio XI. È una misura di prudenza, è un voler risparmiarsi fastidi: e Pio XI i fastidi li teme, come fossero peccati. Ella ha strascichi di polemiche e… stracci di antichi amici, a Roma. Il papa vuol prima… farli morire, e seppellire. Almeno che sia spenta meglio l'odiosità. E credo che il papa pensa, con terrore, ai Gesuiti. Del resto le posso dire io medesimo che a un intelligente cui suggerivo l'idea di invitare lei per una conferenza, scappò detto: padre Semeria! C'è da avere un mondo di noie dai miei colleghi! Era prete. 3) L'ordine è temporaneo. Il cardinale intende ritornarci col papa fra poco. Si vede che va avanti a proroghe, perché mi disse che se n'era parlato col papa un due mesi addietro un'altra volta. 4) L'ordine non ha nulla di misterioso o di umiliante. Perciò il cardinale vicario gradirebbe una sua visita, se ella può, e le dichiarerebbe tutto, alla don Basilio, e cuore in mano. Questo, caro padre, il resoconto del colloquio. Può immaginare se io non mi sia valso della confidenza che mi concede il cardinale, per dare una soddisfazione all'affetto che io le porto. Come dico, però la causa aveva bisogno non d'avvocati, ma di un po' d'altro tempo. La ossequio caramente. Se mi vuol mandare qualche articolino pel mio giornale dei giovani di Roma e del Lazio, mi fa un grande onore e un sommo piacere. Le accludo alcuni numeri, gli ultimi, del medesimo. Suo don Giuseppe De Luca» (ASBR, Carte Semeria).
rum" nel numero di maggio-giugno 1925, una meditazione sul Sacro Cuore, di cui pure fece un estratto, intitolandolo Il Cuor ch'Egli ebbe, uscito con l'imprimatur di padre Alberto Lepidi 113 . Il fascicolo giunse comunque sul tavolo del Sant'Officio e padre Ludovico Ferretti, OP (1868-1936) e "primo socio", lo sottopose ad esame nel febbraio del 1926. La pratica si trascinò almeno per un mese fra proposte e controproposte relative al titolo e a non pochi passaggi del testo 114 , finché, con le correzioni apportate da padre Marco Sales OP (1877-1936), Maestro del Sacro Palazzo (1925), e la firma di Ernesto Ruffini (1888-1967), sostituto per la censura dei libri, l'opuscolo poté vedere la luce con il nuovo titolo, suggerito dallo stesso Semeria, Quel cuore che ha tanto amato gli uomini 115 . La vicenda in sé e il raffronto tra la primitiva stesura e quella definitiva mostrano con quale ossessiva puntigliosità si procedesse nella revisione di un innocuo saggio oratorio (non quindi strettamente e formalmente teologico) e come fosse il linguaggio semeriano a fare problema: tant'è vero che tutte le correzioni risentono di una mentalità aridamente dogmatica 116 . Semeria ricorderà l'episodio ne I miei quattro papi, scrivendo in terza persona: «A persona che io conosco assai davvicino accadde di sentirsi rimproverato per avere applicato al Cuore di Gesù in un discorso il dantesco emistichio "Se il mondo sapesse il Cuor ch'Egli ebbe", perché il critico petulante ci trovò una negazione: ebbe?! dunque non ce l'ha più» 117 .
Intanto perdurava il veto per Roma e Liguria, come il Sant'Officio ribadì nella plenaria del 24 marzo 1926 (966), anche se non mancarono richieste di segno opposto, come quella di Carlo Dalmazio Minoretti (1861-1938) 118 , arcivescovo di Genova dal 1925, in una lettera al cardinale Gasparri del 12 maggio 1926 (972-973). Alla fine di quell'anno, persuaso che non vi fosse bisogno di previe autorizzazioni in virtù delle disposizioni del papa che limitava la censura alle opere filosofiche e teologiche 119 , Semeria dava alle stampe I miei ricordi oratori che il Sant'Officio fece revisionare da Ernesto Ruffini, in qualità di consultore. Queste le sue valutazioni, in data 8 gennaio 1927: «Non vi ho trovato nulla di reprensibile. Sono semplici memorie, aneddoti giovanili raccontati con brio. Il padre mostra animo sincero e grato per i suoi vari maestri ed educatori. Dice bene dei diversi collegi cattolici dei quali è stato alunno, loda molto le scuole teologiche romane, tesse panegirici per personaggi illustri ch'egli ebbe la fortuna d'avvicinare come discepolo, quali per esempio il De Rossi e il car- [21] Il processo al P. Semeria 207 ----dinale Satolli. Accenni ad argomenti religiosi non mancano (per es. 16s, 25, 27, 32, 67-76, 94s, 97s, 101, 111), ma, ripeto, nulla vi ho riscontrato che meriti comunque censura. Lascio però all'alta sapienza delle eminenze vostre vedere se ciò nonostante il padre Semeria debba essere ammonito per aver osato dare alle stampe questi ricordi senza premunirsi, almeno per delicatezza, del nulla osta del Sant'Officio» 120 . Diventavano con il passare degli anni sempre più crescenti le opportunità di ricondurre a Genova colui che vi aveva legato indissolubilmente il nome e la fama. Facendo leva sulla nuova attività in favore degli orfani di guerra e sulla conseguente necessità di provvedere al loro mantenimento e ai loro studi, Semeria scrisse al segretario del Sant'Officio Merry del Val il 13 novembre 1928 perché gli venisse tolto il veto di recarsi in quella città e ottenne di lì a poco risposta positiva 121 , così che poté predicare al Collegio Nazionale del capoluogo ligure il 9 dicembre 1928. Cosa che non mancò di suscitare le rimostranze degli antisemeriani e le rettifiche dell'arcivescovo. Il dossier del Sant'Officio conserva il testo della predica 122 . Gli antisemeriani comunque non si dettero per vinti e inviarono al Sant'Officio, all'inizio del 1929, un memorandum nel quale scongiuravano che il barnabita rimettesse piede nel capoluogo ligure, facendo notare che, deceduto il cardinale Gaetano de Lai, i filosemeriani erano tornati alla ribalta 123 . Come se non fosse sufficiente, don Fiorentino Aragona (1876-1956), direttore della "Liguria del popolo" dal 1923, che già in passato aveva più volte sottoposto a censura la predicazione di Semeria, chiedeva con lettera del 2 marzo 1929 a Nicola Canali (1874-1961), assessore del Sant'Officio, che venissero richiamati in vigore i provvedimenti della Santa Sede contro la permanenza del barnabita in Genova 124 . In una successiva lettera del 3 marzo 1929 al segretario del Sant'Officio, l'Aragona denunciava una «recrudescenza del semerianesimo» 125 , denuncia che poco dopo il cardinale Tommaso Pio Boggiani (1863-1942) 126 notificò al Sant'Officio, scrivendo sempre al suddetto segretario in data 8 marzo 1929 127 .
Figure 94
Di qui a due anni Semeria avrebbe chiuso la sua travagliata parabola terrena, morendo sulla breccia il 15 marzo 1931. C'era da essere certi che la sua causa sarebbe stata sepolta con lui. E invece il dossier del Sant'Officio registra un documento postumo non privo di interesse. Si tratta di una lettera che monsignor Mario Sturzo (1861-1941), vescovo di Piazza Armerina, inviò il 12 settembre 1932 al segretario della "Suprema", il cardinale Donato Sbarretti. Vi si legge: «Eminentissimo principe, in pari data ho spedito raccomandata a codesta Sacra Congregazione un esemplare del romanzo di [Pietro] Casu (1878-1954) con prefazione del padre Semeria Ghermita al core. Questo esemplare fu spedito dal padre Semeria or sono più anni, a un seminarista, al quale il rettore non lo consegnò essendo un romanzo. Esaminato il contenuto di detto romanzo è stato giudicato poco castigato per giovani e persone religiose. Segnalo ciò a Vostra Eminenza affinché giudichi se sia tollerabile che l'Opera Nazionale per gli orfani ecc. diffonda tal libro che per giunta reca la prefazione del fu padre Semeria, che certo vale ad accreditarlo anche moralmente» 128 .
Figure 1861
Vorremmo concludere, se la vicenda semeriana non offrisse ulteriore sostegno al netto rifiuto della prassi inquisitoriale maturato con il Vaticano II e sanzionato da Giovanni Paolo II durante il Grande Giubileo del 2000, citando un pensiero di padre Henri-Dominique Lacordaire OP (1802-1862), tanto amato dal barnabita e non meno irenico di lui, il quale paragonava i procedimenti dell'Inquisizione, di norma affidati al suo Ordine e che si compivano in Roma, con quelli delle altre nazioni cattoliche, notando come i primi sapessero conciliare amore all'ortodossia con dolcezza di metodi, a differenza dei secondi tristemente noti per la loro durezza: «On a vu constamment Rome être à la fois la cité de l'ortodoxie et la cité de la douceur, pure comme une vierge et faible comme elle». Alla resa dei conti anche il "caso Semeria" sembra confermare il giudizio del celebre oratore domenicano, mettendo quantomeno in risalto l'opera rispettosa della coscienza e prudentemente mediatrice dei papi, pure in un contesto che sembrava non lasciare spazio anche al più ragionevole e legittimo dissenso. [23] Il processo al P. Semeria 209 ----895 -Nihil obstat per la pubblicazione della Lettera a un amico. Non pubblichi altri scritti senza l'intesa col SO, 23.7.1919. Approvazione del papa 24.7.1919: non si faccia parola che resta abrogato il decreto di condanna, la quale pubblicazione deve rimanere anche in futuro soltanto sospesa (sottol. nel testo). [29]
Il processo al P. Semeria Intendo di compiere un dovere di coscienza, nel denunziare alla Sacra Congregazione del Sant'Uffizio, di cui l'Eminenza vostra reverendissima è Secretario, le opere del padre Giovanni Semeria, delle quali invio copia. Gli errori che vi si contengono, sebbene non tutti, si trovano esposti in cinque quinterni, rispondenti ai cinque volumi 130 del detto Scrittore. In ogni quinterno sono citati i passi erronei di ogni volume, col rispettivo titolo, con l'indicazione delle pagine, ed insieme con la confutazione dell'errore. Gli errori teologici o giudicati contrari alla fede, sono compresi tra uncinetti in rosso. Gli errori contenuti ne' detti volumi, sono molteplici e gravi, e si possono distinguere nelle categorie seguenti:
1. Errori storici e filosofici; 2. Errori esegetici 3. Errori teologici; 4. Errori sulla fede, riguardanti la divinità di Gesù Cristo; la presenza reale di Gesù Cristo nella eucaristia; la natura del dogma; la costituzione della gerarchia ecclesiastica; le prove dell'esistenza di Dio; e quelle, come anche la natura, del primato di Pietro. Vi s'insegna la evoluzione della Chiesa, e quella del dogma; la teoria secondo la quale Iddio e la rivelazione sono conosciuti per un sentimento od intima esperienza immanente, frutto di un bisogno dell'anima: ed in generale tutta la dottrina modernistica, esposta e condannata già compiuta e solennemente dall'enciclica Pascendi dominici gregis e poi ricondannata in parte da tutto l'episcopato subalpino nella Lettera Circolare 1909 131 , della quale invio copia, lettera sanzionata solennemente dal Santo Padre Pio X nella sua Ad Archiepiscopum Mutinensem ceterosque episcopos regionis Aemilinae (Acta apostolicae Sedis, 1909, pp. 488-89).
5. Intonazione protestantica, mentalità razionalistica, propaganda e lode di scrittori esegeti protestanti e razionalisti. I detti libri sono stampati in tutta Italia ed alcuni sono tradotti in lingua francese. Il danno, generato dalla lettura di essi, ne' sacerdoti novelli, nella gioventù studente, e nell'accolta di donne seguaci, massimamente qui in Genova, è addirittura incalcolabile. Altri libri, contenenti la stessa dottrina, del Fogazzzaro, del Laberthonnière, del Loisy…, sono già stati condannati. Unico rimedio contro la continuata propagazione di questo veleno, si è un provvedimento radicale. Per le quali cose tutte, chiediamo ed imploriamo dal- [31] Il processo al P. Antonio M. Gentili [32] ----132 Su Ilario Rinieri, vedi Introduzione. 133 La congregazione dei cardinali del SO era costituita da Mariano Rampolla del Tindaro (segretario), Serafino Vannutelli, Angelo di Pietro, Girolamo M. Gotti, Domenico Ferrata, Pietro Respighi, Raffaele Merry del Val, Francesco Segna, Giuseppe Calasanzio Vives y Tuto, Giovanni Battista Lugari (assessore), Tommaso M. Granelli OP (commissario). Per i rapporti dei suddetti con Semeria, vedi Introduzione.
propositiones aequivocae in suis operibus contentae ut easdem explicet distinctius, sub lege ut eius libri in luce edi non possint, nisi praehabitis explicationibus a Sancto Officio probandis. (La formola di questo Voto è stata redatta da monsignor Lega e approvata dagli altri tre). Ceteri undecim 139 (751) Eminenza, memore della accoglienza paternamente benevola c'ebbi dalla Eminenza vostra quando, parecchi anni addietro potei ricorrere a lei direttamente in una circostanza 146 per me difficile, vengo di nuovo a lei, Principe eminentissimo, per let-
Il processo al P. Semeria 219 tera a sottoporle candidamente e reverentemente alcune osservazioni suggeritemi da voci che mi pervengono di sospetti che ancor graverebbero sui libri da me altra volta licenziati alle stampe. Non è certo una difesa che io voglio qui intraprendere, sì piuttosto, conscio dei difetti d'ogni opera umana e più in particolare della mia opera speciale, vorrei fare appello alla benignità d'un indulgente giudizio complessivo. Preme a me sia chiaro all'eminenza vostra e ad altri cui potesse spettare un giudizio autorevole su questa mia opera grossa e varia, troppo forse e grossa e varia, l'animus con cui l'ho intrapresa e condotta, animus docile alle dottrine della Chiesa, alle direttive della Santa Sede, docile di una docilità, d'un desiderio di edificazione delle anime che spero non mi sia venuto meno neppure oggi che le scrivo. Di questo animus parmi testimonianza prima e più eloquente l'aver io sottoposti tutti gli scritti miei non solo, come di dovere, al giudizio e alla correzione dei miei superiori barnabiti, ma proprio della Curia romana nella persona del Maestro dei Sacri Palazzi 147 . So bene che tale approvazione da me ogni volta richiesta e ottenuta non franca l'opera da ogni errore, ma certo dai più grossolani e gravi contro la fede che pur talvolta anche per pubblica stampa mi vennero addebitati. A me preme solo mostrare che io invocai quanto potei di preventivo giudizio e proprio dalla più romana competenza; tanto più che, e il vivente ancora reverendissimo padre Maestro Lepidi ne può far fede, non mi rifiutai a nessuna delle correzioni che mi furono o chieste o suggerite.
Quando, pubblicati già da tempo alcuni almeno dei miei libri, potei accorgermi che non ne era del tutto gradito il tono e qualche speciale indirizzo, mi trattenni dal pubblicare più oltre; anzi rifiutai energicamente, sia pure richiesto da editori interessati, ogni ripubblicazione delle opere già licenziate alle stampe in una prima, seconda, edizione ed esaurite. Aggiungo che fermai la traduzione francese al primo volume 148 , e soppressi tutta una traduzione in lingua inglese già pronta.
Né è a dire che mi contentassi di non stampare più nulla, quasi chiudendomi in uno sdegnoso e dispettoso silenzio; no, da parecchi anni in qua ho pubblicati parecchi articoli, anche molto lunghi, in riviste anche importanti, note e diffuse, col debito permesso sempre e l'unica precauzione d'un pseudonimo per evitare critiche ai miei scritti determinate da ostilità eventualmente sistematica o abituale alla mia persona, al mio nome. Debbo dire, in linea di fatto, che questi miei articoli numerosi e vari e non di materia profana, non ebbero mai neppure da una stampa poco tenera per me e vigile, il più piccolo appunto. Il che potrebbe farmi pensare che il mio desiderio di unità nel pensiero e col pensiero cattolico non sia stato del tutto platonico e senza efficacia pratica, reale.
Tale mio animo mi sono permesso di richiamare e documentare brevemente così alla eminenza vostra affinché risulti che, non essendo esso mutato, la Dio mercé, oggi, non ho nessuna difficoltà neppure oggi a chiarire ciò che sembrasse oscuro o ambiguo, a rettificare ciò che sembrasse mal detto, se di ciò avvertito e richiesto. Accolga benignamente, Principe eminentissimo, questa espressione dei miei intendimenti e mi conforti della sua benedizione.
Della Eminenza vostra umilissimo in Cristo servo, Giovanni Semeria barnabita. Ginevra, 6 marzo 915. Portare al Santo Padre una copia del libro del Semeria, Scienza e fede ora ristampato 150 , e dirgli di metterlo in relazione con la lettera scritta dallo stesso all'eminentissimo Merry del Val, al quale sembra che egli abbia detto nella lettera che non avrebbe permesso la ristampa della sua opera senza il necessario permesso dell'autorità religiosa.
Sulle opere di padre Semeria [19.4.1915] Monsignor Assessore [Donato Sbarretti] 151 legge, prima della discussione, l'ultima lettera del padre Semeria al cardinale Segretario (751; 6.3.1915). Padre Raffaele [Carlo Rossi] 152 , commentando questa lettera, fa osservare le buone intenzioni del padre Semeria, e nota pure che la ristampa del volume Scienza e Fede non può essere né desiderata né approvata dall'autore. 153 . Si astiene dal dare un parere; ma fa osservare che al padre Semeria è stata fatta una guerra spietata da persone che non erano in grado di giudicarlo e che basta il voto di padre Raffaele per convincerne.
2. Padre [Felipe] Maroto 154 . Anche si astiene; ma se si trovasse che le opere del padre Semeria sono da riprovare, proporrebbe una via benevola come vien proposta da padre Raffaele; oppure una condanna donec corrigantur, che resterebbe segreta se padre Semeria correggesse le opere oppure ne impedisse la ristampa. [35] Il processo al P. Semeria 157 . È nel suo voto. Dice che il modernismo è stato diffuso più dagli scrittori antimodernistici, ossia dai critici del modernismo, anziché dagli stessi scrittori accusati di modernismo. Vorrebbe che padre Semeria, dopo quelle pratiche o spiegazioni che vorrà la Congregazione, fosse riammesso alla predicazione, ecc.
7. Padre [Joachim Marie] Dourche 158 . Presenta gli appunti scritti (756). Insiste sull'osservazione che se padre Semeria si è servito di ragionamenti e di teorie insolite nella filosofia e nella teologia puramente cattolica, lo ha fatto solo perché voleva portare a conclusioni cattoliche persone imbevute di altra istruzione e abituate ad altri metodi. Disprezza altamente la guerra fatta al padre Semeria. Antonio M. Gentili [36] ----il consultore una calunnia atroce. Ricorda poi che la guerra contro il Semeria fu tanto spietata, che una volta, mentre egli faceva a Genova un corso di predicazioni, i suoi nemici diffondevano perfino nella stessa chiesa l'opuscolo del Colletti in cui si diceva che padre Semeria non crede alla presenza reale. 12. Padre Commissario [Domenico Pasqualigo] 163 . Dice che gli errori nelle opere di padre Semeria non sono evidenti e non si rilevano con una prima lettura. Questo accomodarsi ai ragionamenti ed ai metodi di scrittori non cattolici finisce in generale col creare confusione e dubbi. Credo che il libro Scienza e fede faccia male nelle mani delle persone inesperte. Fa pure osservare che dopo la ristampa di detto volume, padre Semeria e la sua Congregazione religiosa non ha fatto protesta alcuna. Ricorda pure che padre Semeria non dette il giuramento 164 antimodernistico se non con varie eccezioni. Dice che padre Semeria in certi punti non dice tutto, ma solo una parte in modo però che il lettore possa completare, venendo così a conclusioni non cattoliche. Vorrebbe che le gravi detrazioni di cui è stato vittima il Semeria non creino intorno a lui un ambiente di simpatie con danno della serenità di giudizio. È per la condanna [di Scienza e Fede] o pura e semplice, oppure donec corrigatur.
13. Padre [Alberto] Lepidi 165 . Premette che il Semeria è un sacerdote pio, zelante ed ubbidiente, e che ha eseguito con piena docilità la correzione da lui indicatagli nella stampa delle sue opere. Dice che le opere del Semeria sono apologetiche e quindi è giustificata la grande varietà di metodi e di linguaggio. Non vi trova errore. Riprova i suoi detrattori (830-834).
Il voto che a me piace più è quello del padre Giuseppe [Maria Checchi] da Monte Rotondo 166 . Ecco il perché. Per giudicare di un Corso di letture non è buon metodo il chiedere se esso raggiunga o no l'ideale assoluto, o l'ideale nostro, della perfezione, ma se si dovrà dire buono se buono è il fine dell'autore e se le letture sono atte ad ottenere tale fine.
Ora il fine del padre Semeria fu un fine eccellente, apostolico quanto mai per una classe di persone difficili a raggiungere. Quanto all'attitudine delle letture ad ottenere il loro fine, sono persuaso che neppure uno degli uditori del padre Semeria ne riportasse una idea ostile alla religione; sono anzi persuaso che molti per mezzo di quelle letture furono liberati da idee ostili ed affezionati alla fede cristiana.
Sono pure persuaso che il libro continente [sic] quelle letture, in mano di persone intelligenti del tipo di quelle a cui erano fatte le letture, non può che fare un [37] Il processo al P. Semeria 223 ----gran bene. E giacché quei tali sono legione, è da augurarsi, da coloro a cui preme il bene di quelle anime, che molti leggano il libro suddetto onde persuadersi della insufficienza della scienza moderna a sciogliere il gran problema della vita. Anche per quelli che sono de ovili c'è tanto da imparare nel lodato libro sia riguardo alla sostanza, sia riguardo al metodo di apologetica, che niente esagerato mi pare il voto del padre Giuseppe: che si richiami cioè padre Semeria a riprendere il suo da tanto tempo interrotto apostolato. Innanzi tutto distinguo la questione dottrinale del modernismo, già condannato, e la questione critica, se cioè nelle opere esaminate del padre Semeria, e prese nel senso obiettivo dell'Autore vi sia il complesso degli errori modernistici, o almeno la tendenza ad insinuare il modernismo. In quanto al corollario della soluzione di questa questione critica, vale a dire la condanna o non condanna di queste opere ed in particolare del libro Scienza e fede, me ne debbo astenere lasciandone la responsabilità alla Sacra Congregazione, come Benedetto XIV me lo prescrive nel § 15 della costituzione Sollicita ac provvida 169 . A questo riguardo però, credo dover scartare senz'altro il pregiudizio che si potrebbe invocare contro il Semeria, dall'edizione ristampata nel 1915 di quest'ultimo libro: il padre Semeria infatti, dopo la sua lettera al generale 170 dei Barnabiti, pubblicata da molti anni, sta in legittimo possesso della fama di cattolico romano e ne professa docilmente la fede; dunque fino ad evidente prova del contrario, non potrei senza grave offesa della carità e della giustizia, attribuirgli alcuna cooperazione in quella edizione nuova; ma son in diritto in farne responsabili altri o a un fine di lucro, o ad altri fini ancora meno scusabili. E basta.
In quanto alla questione dottrinale, non ho bisogno di protestare che io come tutti i miei reverendissimi colleghi di questa Consulta, vi aderisco conforme al giuramento.
Riguardo alla questione critica che viene soggettata al mio voto consultivo, rispondo negando che nelle suddette opere si verifichi la tendenza ad insinuare il modernismo, ed a più forte ragione negando che vi si trovi il complesso degli errori modernistici.
A questo mio voto, aggiungo una mente che riguarda il sacerdote [Arturo] Colletti ed il padre Ilario Rinieri SJ 171 : viene dimostrato ad evidenza dalla critica 224
Antonio M. Gentili [38] già compiuta nei voti qui stampati di tre reverendissimi consultori e qualificatore 172 del Sant'Officio che gli opuscoli del Colletti e la denuncia presentata dal Rinieri alla Suprema, son infetti del reato di enorme calunnia e diffamazione a carico del Semeria; sarebbe quindi gravissima iniquità da parte del supremo Tribunale criminale della Santa Sede, lasciar passare impunemente tale delitto.
1°. Riguardo all'intenzione dell'Autore: sia dagli antecedenti di lui, sia dall'assieme di ciascuno dei libri suddetti, non si può dimostrare che sia stata la sua intenzione diversa dalla seguente, apertamente palesata nei medesimi libri: egli ha cercato di convincere della verità cristiana le vittime del filosofismo moderno; si è sforzato di farlo riconducendoli alla verità, per quanto fosse possibile, con le loro stesse premesse e atteggiandosi verso di loro, non da nemico ma da amico, conforme alla massima perfino il sant'Ignazio di Loyola: Entriamo dal prossimo per la porta di lui e facciamo in modo che esca dalla nostra.
2°. In quanto all'esecuzione dell'intento, egli fa sufficiente ed espressa professione di cattolico romano, in particolare di ammettere, come tutti i cattolici, l'esistenza di un Dio personale e distinto dal mondo, provata a posteriori (e non soltanto creduta per mero istinto naturale) da suoi effetti, anche per le cinque vie descritteci da san Tommaso e spiegate dal Gaetano 173 ; di ammettere la divinità di Gesù Cristo; la sua presenza reale nel Sacramento dell'altare; l'ordine soprannaturale; la verità e realtà della risurrezione di Gesù Cristo; l'immobile verità del dogma rivelatoci dal cielo, la cui sola spiegazione è suscettibile nella Chiesa di una evoluzione solo comprensiva, dopo la chiusura della rivelazione pubblica con la morte dell'ultimo apostolo. Egli ammette l'immutabile costituzione della Chiesa, quale l'ha fondata Gesù Cristo.
Egli però alquanto difetta di soda e classica formazione teologica e quindi ha inciampato in qualche scoglio che altrimenti avrebbe facilmente evitato; inoltre egli si è mostrato un poco troppo propenso ai metodi di Blondel e di Labertonnière, quando ancora se ne disputava tra cattolici, ma cercando di cavarne buone conclusioni.
Questo è quanto si può ricavare con verità e giustizia dall'essere critico delle mentovate opere e dagli antecedenti del religioso e del sacerdote autore di esse. Ricavarne una opposta conclusione sarebbe andar contro le prescrizioni dei § § 18, 19 e 20 della costituzione Sollicita et provvida di Benedetto XIV, innovata da Leone XIII 174 .
È quindi semplicemente da negarsi che nella mente obiettiva dell'autore, risultante dal complesso delle sue opere ed in specie del libro Scienza e Fede, la pro- [39] Il processo al P. Semeria 225 ----fessione fattavi di cattolico romano ed in particolare riguardo alle verità da me sopra mentovate, venga distrutta dai difetti sia di linguaggio teologico classico, sia di non accuratezza dottrinale, ammessi dallo stesso, in particolare nella spiegazione dell'analisi della fede e dell'argomento cosiddetto morale dell'esistenza d'Iddio. Gli si oppone di aver ridotto quest'ultimo all'inefficace coscienza kantiana; ma quest'addebito non risponde alla verità critica: basta leggere i testi incriminati, per veder che il Semeria professa l'insufficienza della dimostrazione kantiana e la trasforma, non in opposizione e ad esclusione degli argomenti di san Tommaso, ma supponendoli e trasportando il processo adoperato dall'Angelico alla coscienza dell'uomo, per dedurne a posteriori l'esistenza di Dio reale e distinto dall'uomo. Concedo che vi potrebbe essere per un incauto ed inesperto lettore, il pericolo di confusione d'idee in cosiffatto libro, ma il mezzo proporzionato al fine di allontanare e prevenire tale pericolo, viene additato dal reverendissimo padre Andrioli al n. 75 della sua relazione 175 ; e certamente una misura riprensiva più di questa, se colpisse l'autore, sarebbe eccessiva perché fondata in una violazione della verità e della giustizia: non sunt facienda mala ut vieniant bona. Mi astengo, come ho accennato di sopra di [sic] qualunque più determinata sentenza che appartiene alla Suprema Congregazione.
Riguardo alla mente aggiunta a questo mio voto, avverto che non si tratta più ora di revisione da farsi a stregua della lodata costituzione benedettina, ma si tratta di un delitto, la cui prova emerge ad evidenza dalla revisione critica delle opere semeriane; dunque alla medesima Sacra Congregazione, come a Supremo Tribunale criminale, compete la repressione di quel delitto, se non altro, nel presente dibattito, per connessione di causa.
Ciò premesso, mi basta ricordare che il Colletti, nei suoi opuscoli ed il Rinieri nella sua denunzia muovono contro il Semeria le accuse di ateismo, di negazione della divinità di Gesù Cristo, della sua risurrezione, presenza reale nell'Eucaristia ed altre somiglianti eresie ed empietà, le quali accuse son prette calunnie; ed esse, divulgate da quelli opuscoli, non hanno servito ad altro che a seminare la discordia, la incertezza nel campo cattolico e perfino nell'episcopato e nelle più alte sfere del governo della Chiesa. Giustizia vuole dunque che la condanna ricada sul capo di colui il quale l'ha voluto con menzogne ed esagerazioni provocare contro altrui. In quanto al Rinieri, lo stesso indegno procedimento si è palesato nella denunzia presentata da lui: a questo proposito l'Istituto della Compagnia di Gesù (Congregazione XII, Decreto 19) ordina a tutti i superiori di essa di procedere contro siffatti calunniatori e detrattori, qualunque sia la loro vittima. Ora la detrazione commessa dal suddetto è tanto più grave quanto più alto è il Tribunale cui è indirizzata. Misura dunque adattata a reprimere tale delitto è di avvisare il padre generale della Compagnia di Gesù di procedere contro di lui a norma delle Costituzioni dell'Ordine. Primo biasimo. «Una filosofia, dice il Semeria (ediz. romana, pag. XVII; ediz. Sesto San Giovanni, p. 13), che non sia nutrita di buona scienza, è un bel fabbricato campato in aria; la base di tutto è l'esperienza e questa ci è data dalla scienza (vale a dire dalla conoscenza dei fatti)».
Risposta. Se Semeria volesse dire doversi ripudiare la metafisica, come la ripudia Kant, come la ripudiano i positivisti d'oggi, dovrebbe certamente condannarsi; ma non è questo il senso del Semeria. Egli vuol dire che la metafisica, conoscenza delle cose astratte ed universali, è una continuazione della fisica, conoscenza dei fatti, e deve fondarsi in essa; la base della conoscenza umana è l'esperienza. «La filosofia, dice lo stesso Semeria (Le vie della Fede. Conferenza II 176 ; ediz. rom., p. 65), divenne a poco a poco un giuoco di idee; si vollero queste imporre ai fatti o ignorati del tutto o degnati appena di uno sguardo frettoloso. Questo appartarsi dalla realtà nocque all'amore: la filosofia divenne superba, ricadde nel sistematico, fu troppo cosa di parole».
Per la qual cosa nel libro Scienza e Fede (due presenti ediz.: rom., p. XVII o altra ediz. p. 13) il Semeria scrive: «Parrebbe venuto il tempo di fare una pace dignitosa. Gli scienziati non dovrebbero avere né affettare disprezzo per la filosofia (ossia la metafisica); …alla loro volta i filosofi non dovrebbero né affettare, né avere ignoranza scientifica. La metafisica vuol essere una continuazione, come il nome dice, della fisica; e per continuare bisogna conoscere. Una filosofia che non sia nutrita di buona scienza è un bel fabbricato campato in aria». E questo stesso insegna la scuola: «Philosophus, ait Cajetanus (1 a p., q. 82, a. 3), obedit rationi, cui sensus testimonium perhibet» (Cfr. 1 a p., q. 84, a. 3, ad 2 um , not.) 177 .
Secondo biasimo. Volendo parlare delle prove dell'esistenza di Dio, addotte da san Tommaso (1 a p., q. II, a. 3), il Semeria ne diminuisce la certezza, perché (Lettura X, "Alla ricerca di Dio", n. 7, [p. 192]) dice: «Le prove dell'esistenza di Dio, a cui noi ora mettiamo mano, efficientissime per condurci ad un assenso ra-
Il processo al P. Semeria 227 ---- Risposta. Il padre Semeria non nega la certezza delle prove in sé, ma non sono esse tanto evidenti, che l'intelletto non possa oscurarsi intorno ad esse sia per debolezza di mente, sia per passione. «Non vi attendete, dice, una dimostrazione sperimentale, e neanche una dimostrazione matematica». «L'uomo, secondo san Paolo (Semeria dice in questa Lettura X, n. 6, [pp. 191-192]) e secondo la realtà delle cose, conosce istintivamente Dio: ma poi facendosi a riflettere su quella idea, non la mantiene, né pura né efficace come dovrebbe, e ciò per un abbassamento e corrompimento generale della sua vita interiore; abbassamento e corrompimento, che in una idea falsa e inefficace di Dio si esprime; e da una idea falsa e inefficace è ulteriormente promosso».
Terzo biasimo. Il Semeria dice apertamente, che una dimostrazione scientifica della esistenza di Dio non l'abbiamo (Lettura XII, n. 10 [cfr. p. 240]). Affermazione ereticale.
Risposta. L'esistenza di Dio si dimostra per via d'intellettuali principi, che illuminano i fatti: C'è in natura il moto, il causato, il contingente; ecco i fatti. Ci sono i principi dell'intelletto: «Omne quod movetur ab alio movetur; et in motis et moventibus, non potest esse indefinita progressio. Ergo datur movens primum, quod a nullo movetur, immobile, etc.» Per via poi di fatti esteriori senza discorso, Dio non si dimostra. Ed è questo che dice il padre Semeria. Si dimostra però, contro i materialisti, che la materia come essa per esperienza si mostra, non può essere principio primo né di vita, perché morta, né di moto, perché inerte. Ed è perciò che il sistema materialistico è senza base; si potrebbe dire scientifica la sua confutazione.
Quarto biasimo. Il padre Semeria nella ricerca del divino sceglie come criterio l'esperienza non nel mondo esterno o coi sensi, ma nel mondo interiore con la coscienza. È la coscienza interiore che sperimenta l'imperativo categorico, il dovere, che fa all'uomo sperimentare Dio (Lettura IX, n. 7, [pp. 172-173]). Ora questa è dottrina nuova; è la dottrina della ragione pratica del Kant; ed è dottrina riprovata dall'enciclica Pascendi: «Modernistae credenti ratum ac certum est, realitatem divini reapse in se ipsam esistere, nec prorsus a credente pendere. Quod si postules, in quo tandem [haec] credentis assertio nitatur, reponent in privata cuiusque hominis experientia» [D, 2081].
Risposta. La dottrina del Semeria in proposito, è questa: l'uomo porta nel suo cuore impresso il dettame, l'ordine del da farsi liberamente e del da evitarsi: la legge naturale. «Non c'è vita veramente umana, vita degna, nobile e grande, senza morale…, senza un bene e un male obbligatori, senza dovere» (Lettura XIV, n. 6, [p. 270]). Non c'è dovere senza Dio. «L'umanità ha sentito Dio e lo sente in quella ineffabile vece che i filosofi chiamano imperativo categorico, i comuni mor- Eccellenza reverendissima, gli è con non poca meraviglia e sorpresa che io ricevetti ieri la comunicazione fattami da vostra eccellenza di una nuova edizione del libro di padre Semeria Scienza e fede. Noi non sappiamo proprio nulla e non ci rimane che protestare altamente contro una pubblicazione non voluta assolutamente da noi, e nemmeno, fatto accertato, da padre Semeria. Da dieci anni in qua fu nostro proposito di non permettere qualsiasi ristampa delle opere di padre Semeria; e fummo fedeli al nostro proposito. Sgraziatamente non tutto si poté ottenere, perché ancora due anni fa la casa editrice Rinfreschi di Piacenza ristampò di suo arbitrio appunto il libro Scienza e fede. Immediatamente noi protestammo e protestò anche il padre Semeria; si diffidò financo il Rinfreschi a mezzo dell'avvocato Giuseppe Forzani; ma non si poté intentare una causa, perché risultò che l'editore, Pustet, non aveva ottemperato alla legge per salvaguardare i diritti dell'edizione e dell'autore. La qual cosa ci veniva pure dichiarata dal signor senatore avvocato Vittorio Capelli fino dallo scorso anno; e ci veniva riconfermata ancora nel marzo di quest'anno con sua lettera ripetendoci che egli non trovava fondata la causa da promuovere contro il tipografo Rinfreschi di Piacenza per l'abusiva ristampa dell'opera Scienza e fede, perché non erano state adempiute, dall'autore, e nemmeno dal primo editore, le formalità prescritte dalla legge per la tutela della proprietà letteraria, e assicurandoci che si sarebbe andati incontro ad una sentenza sfavorevole, con la condanna, per di più nelle spese. Ciò che è detto per l'editore Rinfreschi di Piacenza, purtroppo vale anche per la casa editrice Madella di Sesto San Giovanni. Siamo nell'identico caso. Così stando le cose, a noi non rimane che deplorare il fatto, spiacenti a nostra volta, ed una seconda volta, di una pubblicazione eseguita arbitrariamente, e contro il nostro espresso volere.
Col bacio del sacro anello, di vostra eccellenza devotissimo servitore, padre Felice M. Fioretti 182 , assistente generale dei barnabiti e vicario del proposto generale assente. [45] Il processo al P. Semeria 231 ---- Il cardinale Prefetto della Sacra Congregazione dell'Indice 184 mi ha fatto conoscere che non ha ancora ricevuta la comunicazione del Sant'Officio, che io gli aveva [sic] annunziato, riguardo alla condanna di Scienza e fede del padre Semeria. Frattanto mi è stato comunicato l'originale di una lettera che lo stesso padre Semeria ha scritto al suo generale per confutare gli addebiti che ha saputo essersi fatti a lui. La lettera non abbraccia tutti i capi di accusa, e perciò non si può dire giustificazione completa né esauriente. Nondimeno mi fa impressione ciò che dice intorno all'accusa fattagli di aver negata la conoscibilità di Dio col lume della ragione perché ne risulta che non nega le cinque vie di san Tomaso e ancora meno «l'invisibilia Dei per ea quae facta sunt» di san Paolo: soltanto dice che per il suo uditorio l'argomento di san Tomaso è meno efficace di quello da lui addotto. Vorrei perciò che ella facesse fare tante copie dell'unito manoscritto di padre Semeria quanti sono i cardinali appartenenti al Sant'Officio 185 , e le mandasse a ciascuno con preghiera di leggerla e di giudicare se anche dopo quella lettura credono doversi stare in decisis. [ ----183 Per la congregazione dei cardinali vedi supra, A X. 184 Prefetto della Congregazione dell'Indice era il card. Francesco Salesio della Volpe (1844-1916). 185 Vedi supra, A X. 2. Non intentionem qua ductus sum proferam, hanc enim benevolentes critici mei (si quos enim malevolentes habui non curo) bonam fuisse agnoscunt; sed intentio operantis nihil prodest ubi et quando operis intentio alia ab intentione operantis evadit. Quae scripta et impressa sunt igitur discussionis obiectum unicum erunt.
Figure 1844
Item scripta illa mea a pluribus theologis in praelum edi permissa fuisse omittam; quamquam inter hos theologos reverendissimus pater Lepidi annumeretur. Haec quidem licentia imprimendi praesumptio quaedam est in libris edi permissis nihil contra fidem contineri. Non autem hic de fide agitur, iuxta saltem criticos prudentiores, periculose potius quaedam a me expressa dicuntur vel non satis ad normam veritatis et philosophicae et theologicae perpolita.
3. Duo capita praesertim accusationis inspiciam. Perhibeor enim 1° argumenta afferri solita ad Dei existentiam demonstrandam philosophice, me infirmasse contra et rei veritatem et concilii [Vaticani] canones. 2° item me sanctum Thomam haud satis esse reveritum.
Contra quae -ut perspicue procedat oratio -ostendere conabor ea quae scripsi de rationabili Dei investigatione nec sanae rationi, nec conciliorum definitionibus, nec item debitae erga sanctum Thomam reverentiam adversari (1). 4. Sanctum Thomam ita revereor ut ipsum ducem eiusque in Summa theologica argumenta ad Dei existentiam probandam adhibeam (2). Utique haec ar-
Il processo al P. Semeria 233 ----gumenta a sancto Thoma allata renovanda esse nunc, hodie affìrmo, nunc post septem fere saecula a sancto Thoma elapsa, post tot systemata exorta, et praesertim post Kantii criticam 187 : renovare antem argumentorum expositionem, scilicet ea exponere attendendo ad obiecta philosophica post sancti Thomae tempora prolata, non est despicere sanctum Thomam eiusque scripta, nisi quis velit omnem philosophicam activitatem interimere. Abiicienda si dicerem illa argumenta iuste utique deprehendere, immutata ea proferre vel potius repetere aliud est (ut puto) extremum pariter vitiosum: -ego nec abiicienda dico, nec repetenda ea assumo, renovanda potius affirmo attentis novis adversariorum speculationibus. Hoc, vel nihil intelligo, vel rectum videtur. Haud certe argumenta impetit ille qui ea contra novas obiectiones defendit: haud Thomam spernit qui argumenta eius adhuc contra recentiores, ea illustrando, profert.
Multo minus argui possum irriverentiae erga sanctum Thomam si argumenta addo ab eo non prolata, saltem in loco ubi ex professo de Dei existentia rationabiliter demonstranda agit (argumentum morale, ut aiunt). Sanctus Thomas ipse nunquam professus est se solam et totam veritatem in universis suis operibus esse complexum, multoque minus totam in unaquaque operum suorum parte. Id assumere esset monstruosum.
Imo nec irreverentiae argui possem erga eum vel si unum aut aliud argumentum ab eo allatum respuissem. Nonne licuit theologis religiosissimis et sancti Thomae sectatoribus, thesim unam aliamve sancti Doctoris respuere? nonne licuit eminentissimo cardinale Mazzella 188 verbi gratia respuere thesim sancti Thomae de impossibilitate fìdei et scientiae circa idem obiectum in eodem subiecto? 189 Cur igitur reprehendar si non thesim aliquam sed argumentum aliquod ad thesim demonstrandam a sancto Thoma adhibitum respuissem? Hoc autem non feci. Omnia argomenta, quinque scilicet a sancto Thoma allata et ego attuli in opere meo. 5. Sed nimis me severum exhibuisse in illis argumentis scrutandis perhibeor, ita severum ut nullam tandem illis vim probandi reliquerim.
Nimis me severum fuisse possibile est... quanquam et hoc inferius erit discutiendum; sed severitas ipsa, si eam adhibui, legitima, imo perlegitima est. Si applicatio principii severitatis recta fuerit nec ne, infra; principium ipsum severitatis optimum est. Ille enim qui Deum esse probare vult, debet philosophum agere nisi velit in damnatum fideismum incidere; philosophum, ergo logicum, ergo ratiocinatorem. Ratiocinatur autem aliquis utique vel non; non datur medium. Ipse sanctus Thomas huius severitatis philosophicae in Dei demonstratione se magistrum nobis, mihique, exhibuit; nam a) argumentum a sancto Anselmo 190 prolatum 234
Antonio M. Gentili [48] ---- Quibus praemissis clarum est cur noluerim promittere scientificam demonstrationem existentiae Dei. Id enim, attento usu italico et actuali termini huius «scientificus» (quem usum sequi debebam italice loquens) idem fuisset ac promittere demonstrationem mathematicam vel physicam. Mathematica autem nec demonstrat nec unquam demonstrabit Deum, quia mathematica agit solum de quanto et Deus in quantitatis categoriam non cadit. Idem dicas de physica.
Quod si, hoc non obstante, aliquis reprehendat me scientiae nomen limitative usurpasse, vel potius limitativum sensum penes plures hodie communem ac- [49] Il processo al P. Semeria Per totum librum in hoc incumbo ut lectores assuetos positivistis placitis quae longe lateque pervadunt sub scientiae nomine, convincam Deum esse certo constare quamvis non constet ea ipsa methodo et via qua constat esse solem vel lunam; certo constare quamvis non constet scientiarum (scilicet physicae et matematicae) more modoque. Certo tamen constat, quia certitudinem assequi possumus nos homines non solum sensus exteriores rationemque abstractam adhibendo (ut physici et mathematici faciunt) sed omnes animi vires xun olh yuch ut philosophi veri nominis faciunt.
8. Quoad voluntatem bonam necessariam ad fidem vel philosophicam scilicet convictionem naturalem de Dei existentia habendam. Hoc etiam mihi obiicitur me voluntatem bonam in Dei investigatione naturali, exegisse. Quod certe feci. Utique dixi bonam voluntatem subiective esse necessariam ad Dei existentiam vel philosophice acceptandam. Sed quis hoc neget, si paulum reflectat? Omnes eatholici auctores arguunt cuiusdam malae voluntatis atheos in Deum non credentes. Ergo bona voluntas requiritur ut atheismus ab animo excludatur. Quod ut clarius evadat conferatur quaeso haec de Dei existentia materia cum materia mathematica. Si quis neget aliquod theorema euclideae geometriae post prolatam illi demonstrationem, is qui negat insipientiae utique, non inhonestatis arguitur: de re enim agitur quae, ut ita dicam, intellectum subiugat independenter ab omni interventione voluntatis. Nullus autem inscientiae, stoliditatis, inintelligentiae arguit atheum, sed potius malae voluntatis, inhonestatis. Ergo haud independenter a voluntate demonstratio existentiae Dei intellectum subiugat.
Quod minime signifìcat argumenta non extare ad intellectum athei convincendum apta, sed intellectus in homine non existit solus, imo cum voluntate a qua aliquatenus pendet in omnibus viis suis, et speciali quadam ratione pendet in tota hac de Deo naturali et rationali investigatione.
Id praesertim est verum si agatur de acceptatione religiosa, bona, moraliter utili existentiae Dei. Potest enim quis Deum esse convinci dupliciter -daemoniace vel humaniter -Deum blasphemando ut daemones, vel Deum accipiendo ut filius patrem. Hoc autem, acceptationem bonam, vult ab adversariis suis qui Deum esse probare contendit. Ad Patrem filios prodigos adducere in libro meo conatus sum. Id autem non assequereris sine bona voluntate. Hae distinctiones clarissimae et certissimae sunt.
Argumenta illa quinque notissima quae ipse quoque singula et omnia adhibui, concludunt ad Deum (Deum esse), sed sub qua notione? Haec est quaestio. Non certe, ut monui, ad Deum sub notione plena; non ad Deum quatenus Deus supponit pro Trinitate. Dixi in libro Scienza e fede ea concludere ad attributa Dei (notionem quandam) nondum tamen ad Deum sub notione sufficiente. Attende, ut clara sit res, ad tertiam viam. Ea concludit ab existentia entis contingentis ad existentiam entis necessarii. Ergo Dei, sed sub notione nondum sufficiente contra atheos (Vide supra n. 9 sub finem). Idem de aliis viis singulis affirmari potest et est a cardinale Cajetano affirmatum. Ergo Deum sub notione et ratione contra atheos sufficiente illa quinque argumenta nondum ostendunt per se ipsa.
Hoc minime implicat ea nihil ostendere et probare, sed non ostendunt et probant modo completo existentiam Dei prout Deus concipitur centra atheos. Hoc autem ita est verum quod ipse sanctus Thomas post demonstrationem factam articulo illo III, quaestio II, pars X, qui inscribitur An Deus sit, quaestionibus sequentibus (III, IV etc.) quaerit adhuc an Deus sit corpus, an Deus sit mundus clarissime demonstrans quod in articulo III, quaestione II assecutus fuerat Deum dumtaxat sub notione insufficienti. De Deo enim vere et proprio Deo absurdum est quaerere an sit corpus. Aliis verbis demonstrationem existentiae Dei vere et proprie dicti (notione sufficiente Deus) quam ipse inchoaverat illis quinque viis sanctus Thomas prosequitur et perficit ulterius demonstrando illud Ens immobile, necessarium, incausatum etc. esse spiritualem, intelligentem, bonum (hoc usque in quaestione XII) uno verbo praeditum iis attributis sine quibus Deus non est Deus, Deus non est id quod credentes in Eum hodie omnes concipiunt. Idem ipsum et ego, duce sancto Thoma feci in opere meo. Postquam enim Lettura XIII quinque vias thomisticas explevi et Lettura XIV argumentum morale quod vocant adieci, conatus sum ostendere illud Ens necessarium incausatum, immobile esse [51] Il processo al P. Semeria a mundo distinctum, intelligens personale (id contra panteistas, Lettura XV) et bonum (Lettura XVI, contra pessimistas). Et hoc pacto audeo dicere demonstrationem absolutam existentiae Dei, prout Deus a nobis contra atheos concipitur, dedisse, sed tantum in fine libri non in cursu, sicut sanctus Thomas non q. II, art. III, sed sequentibus quaestionibus tandem demonstrationem perfecit. Uno verbo. Scrupulosam demonstrationem Dei existentiae in meo Scienza e fede instituere conatus sum. Scrupulosam quam nempe nullus atheus posset impugnare, quae contra atheos posset realiter convincere. Ideoque scrutatus sum fundamenta quibus demonstratio innititur, praecisum punctum ad quod singula argumenta ducunt; hoc autem non est demonstrabilitatem negare sed statuere quemadmodum aedificium non labefactat qui describit exacte omnes partes eius. 13. Saepe saepius audivi a criticis me hoc illudve negasse quod tamen minime negaveram sed aliis verbis, alia formula asserueram, alia et, meo iudicio meliore. Sic exempli gratia saepissime audivi me negavisse principium causalìtatis. Et tamen pagg. 228-229 evidentissime illud affìrmo non tamen formula communi quae mihi imperfecta videtur, sed sub formula quam dedit Leibnitius 196 «nihil est sine ratione sufficiente». Est autem negatio alicuius principii illud aliis verbis asseruisse? alia formula? Haec verba alia esse meliora neges si vis; non autem accuses veluti negatorem assertorem novum in forma.
14. Agnosticismum -quod totius modernismi caput est -me redolere alii dixerunt. Et agnosticismum plures annos ante encyclicam Pascendi, longe lateque refutavi hoc in opere (cfr. Letture V et VI). Forsan autem agnosticismi perhibeor quia negavi hominem posse ad perfectam Dei notionem pervenire? Heu qui hoc dicit (et quidem dixerunt), oblitus est quae mirabiliter sanctus Thoma disserit de cognitione Dei semper analoga nunquam univoca. Vel quem Deum intelligentem dico hoc est tantum analogice non univoce dictum: alia enim, longe alia e nostra est Dei sapientia. Quis vero dicat perfecte notum id quod est tantum notum analogice? Potius haeresis est comprehensionem Dei ex parte intellectus creati possibilem dicere. Quis enim esset residuus tunc mysteriis divinis locus?
Post autem prolatam encyclicam Pascendi celeber orator, mihi non palam amicus propter metum, qui tamen magno plausu instituit e pulpito refutationem errorum ab enciclica ipsa damnatorum, mihi fassus est se fere omnia hausisse e meo libro Scienza e fede. Pastor dioeceseos illius sermones valde laudavit, mihique Scienza e fede haud sibi piacere dìxit modernismi causa. Addictissimus Giovanni Semeria, barnabita.
(1) Accusationem a quibusdam prolatam me rationalem demonstrabilitatem existentiae Dei denegasse nec dignam examine puto. Quomodo enim Dei demonstrabilitatem ille denegat qui per librum integrum hanc ipsam demonstrationem prosequitur? ut ego per totum Scienza e fede prosequor.
(2) «Come ho personificato il criticismo di Immanuel Kant e l'agnosticismo di Herbert Spencer, vorrei anche il teismo cristiano personificarlo in san Tommaso d'Aquino» (Scienza e fede, p. 193). «... Egli (san Tommaso) s'incontrò a vivere in un'epoca satura della vecchia filosofia greca e del novello spirito cristiano: e il suo tempo scientificamente raccolse e rappresentò in se stesso come nessun altro» (ib.). En utique verba contemptoris sancti Thomae! Quam illi laudem maiorem decernas? forsan et tempore post eum sanctm Thomam praedixisse asseras? Articulum vero Summae theologicae (p. I, q. II; a. III) ubi quinque illas celebres vias sanctus Thomas profert mirabilem appello, p. 197.
Figure 193
( Primo perché non scancellano e non potranno mai scancellare le bestemie [sic] o eresie che sono nel suo libro, come per esempio quella dove dice che in quelli che innegiano con affetto religioso alla Terra o all'Umanità, non c'è in fondo che uno sbaglio di parole, simile a quello del sindaco di villaggio che pigliava la parola condoleanze per la parola congratulazioni (Scienza e fede, p. 181). Come ancora quella dove asserisce essere de[gl]i atei moralmente ammirabili, mentre tanti teisti (così chiama egli quelli che hanno conservato la fede cristiana) sono moralmente esecrabili. Haeretica quoad primam partem, scandalosa quoad secundam. Come tante altre asserzioni passim, dove la bella parte è sempre fatta ai miscredenti e la peggio data ai credenti. Per non dire niente di questa dottrina, ere-
Antonio M. Gentili [54] ----tica anche essa, ma tanto cara ai modernisti, sulla quale sembra insistere di nuovo nella sua lettera (pp. 7-8 [Pro memoria latino]); vale a dire che la fede informe, la fede senza l'amore, fides quae per charitatem non operatur, è cosa insignificante e di nullo valore.
II. Inconcludenti le spiegazioni del padre Semeria, perché fuori di proposito. Tutta la sua difesa porta sopra due punti che non furono mai toccati nelle ragioni della condanna. «Duo capita, inquit, accusationis inspiciam, etc.» In primo luogo si estende per longum et latum a purgarsi da ogni irreverenza verso san Tommaso. Ma a che pro? Chi mai ha pensato a condannare il suo libro per questo motivo, anche dato et non concesso tutto quel che dice a questo proposito. Si trattava di ben altra cosa che della reverenza a san Tommaso! Non ad rem. In secondo luogo si dimena molto per provare che ha ammesso il valore probativo delle cinque vie del medesimo san Tommaso, intorno all'esistenza di Dio. E anche là egli piglia non causam pro causa. Nelle ragioni della condanna, non c'era altro in questa parte, se non che, dopo aver esposto le vie classiche per ea quae facta sunt, il Semeria dichiara che il Dio trovato per quel mezzo non è ancora in possessione di tutti suoi attributi, che sarà il Deus mentis meae, ma no il Deus cordis mei; che dunque questa via, sulla quale getta il discredito, è insufficiente e che bisogna trovarne un'altra. Ora tutto questo è contrario, non tanto a san Tommaso, quanto a san Paolo: «Invisibilia ipsius, dice l'apostolo, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur, sempiterna quoque ejus virtus et divinitas, ita ut sint inexcusabiles, quia cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt aut gratias agerunt». E non è quel Dio di san Paolo in possessione di tutti suoi attributi? Questo dunque fu giustamente notato contro Semeria, ma non fu detto che egli rigettava senz'altro (troppo furbo per questo) la prova ex iis quae facta sunt. Iterum non ad rem.
III. Inconcludenti le spiegazioni di Semeria, perché ben lungi da purgarsi degli errori notati, egli li riconferma, specialmente quanto all'argomento principale del suo libro, l'esistenza di Dio. «Utique, dice, haec argumenta a sancto Thoma allata -e si noti bene che qui non è san Tommaso in causa, ma la Scrittura, ma san Paolo -haec argumenta renovanda esse nunc hodie affirmo [ IV. Le spiegazioni di Semeria sono inconcludenti, perché non toccano neppure da lontano le gravissime censure fatte intorno al suo naturalismo. Cos'è la fede per lui? Sinonimo di teismo, di sentimento religioso. Come va che in un libro che ha per titolo Scienza e fede, neppure una volta, ab initio ad finem, non si trova [ne]anche una allusione alla fede teologale, appogiata sopra la parola e la rivelazione di Dio? Si è purgato Semeria di tante accuse così ben fondate di modernismo, quanto alla nozione di verità, quanto al criterio di essa, quanto alla continua mutabilità della medesima? Quanto al pragmatismo che pone la verità in funzione dell'agire, essendo vero tutto quello che provoca all'azione, falso quel che non ha più una tale efficacia? De his omnibus, ne verbum quidem.
Antonio M. Gentili [56] ---- VI. Le spiegazioni di Semeria sono inconcludenti, perché non di buona fede. Dice alla fine: «Forsan erravi nesciens, nolens». Questo sarà forse vero per molte cose, perché il Semeria si mostra dapertutto povero teologo, che ha una tinta di sapere, ma non ha approfondito nulla e perciò mischia tutto in una terribile confusione, come lo mostra ancora nella sua lettera, dove confonde il concetto di Trinità col concetto di Dio. Ma si crede dottore e va avanti, abusando della sua facilità di parole per spargere le più strane idee. Dunque, erravit nesciens et nolens in multis. Ma, che abbia avuto la coscienza di fare una opera cattiva quoad substantiam, lo mostra quel che ha scritto alla fine della sua prefazione, dove intravedeva l'anticipata condanna del suo libro e finisce col dire: Quod scripsi, scripsi [p. XXV]. La lettera del padre Semeria, ben lungi di essere meritevole d'indulgenza, mi sembra a me mostrare sempre più l'urgenza della condanna. L'ora è terribile. E non dice lui (p. 11 [Pro memoria latino]) che un famigerato predicatore, suo amico (occultus tamen propter metum Judaeorum) va cercare nel suo libro gli argomenti per rifutare gli errori condannati dall'enciclica Pascendi? E quanti sono nel stesso inganno… ita ut in errorem inducantur, etiam electi.
Ma se noi lasciamo correre, siamo rei d'un grande crimine inanzi a Dio. Ogni giorno condanniamo questi infelici preti colpevoli di sollicitazione 206 , ecc, e bene. Ma un più grande crime è quello di Semeria, e di tutti quanti preti corrompono la fede. Il male fatto da essi è senza paragone maggiore. [57] Il processo al P. Semeria 243
Questo libro mi sembra uno dei più pericolosi che si possino immaginare. Altri saranno in cui l'errore modernistico sarà più crudamente proposto e propugnato; nessuno in cui sia insinuato con arte più fina, ed insieme con maggiori doti di brio, di eleganza, d'ingegno e di tutte quelle qualità che fascinano l'anima dei giovani. Mi scriveva uno che sta benissimo al corrente delle cose: «I padri [Bartolomeo] Piombo e [Giovanni] Carrega (di Genova) 207 potrebbero dirgli a quanti e quanti l'infelice Semeria ha fatto perdere la fede». E veramente, dopo letto da capo a fondo questo solo libro Scienza e fede, capisco senza difficoltà quanto deve essere vero.
Del resto, si trova in capite libri, nella bocca dell'autore medesimo, la testimonianza della propria coscienza. Habemus confitentem reum. Semeria lui stesso, alla fine della prefazione, ha giudicato la sua opera e l'ha giudicata come da condannarsi dalla Chiesa. Così scrive con faccia veramente tosta, p. XXV: «Questa descrizione di quello che la filosofia oggi potrebbe e dovrebbe essere… è, me ne accorgo, una cattiva presentazione di questo libro, del quale suona più che altro, anticipata condanna. Ma mene accorgo troppo tardi: ormai è scritto e anch'io, come Pilato (ohimè! che brutto paragone anche questo!), non ho il coraggio di cancellare. Quod scripsi, scripsi».
L'egregio lavoro del padre [Giovanni] Lottini 208 presenta, in tutto e per tutto, la vera fisionomia del libro, la quale è indubitatamente modernista, nel peggiore senso della parola. Credo che in questo giudizio concorderà chiunque avrà letto la sua relazione con qualche attenzione. Per me, dovendo adesso esporre le ragioni del mio voto, il quale è per la condanna pura e semplice, ma esponendo in breve, e perciò senza descendere a tutti i particolari e neppure a tutti i capitali errori dei quali il libro è ripieno dal principio alla fine: mi attaccherò a pochi punti più ovvii, e lascierò da parte le cose più astruse, ancor che feconde di idee perversissime e distruttrici di ogni verità e di ogni religione.
I. Osservazioni intorno alla nozione della fede.
È da notare che in un libro, che ha per titolo Scienza e fede, neppure una sola volta, dalla prima all'ultima pagina, neppure per simplice e lontana allusione, si parla della fede cristiana, fondata sulla parola di Dio, o, come dice il concilio Vaticano, «quae a Deo rivelata vera esse credimus propter auctoritatem ipsius Dei revelantis» [cfr. DH, 1789]. Niente della revelazione, niente del magistero della Chiesa, niente sopra tutto della distinzione fra la conoscenza naturale di Dio e la soprannaturale. Niente, niente.
Per Semeria, fede significa né più né meno, teismo o senso religioso, per opposizione a scienza, che non è altro che matematica, fisica, astronomia e simili. Di là nasce una terribile confusione dal principio alla fine, che ha per risultato inevitabile di traviare completamente i spiriti e, con l'usare i termini consecrati nella dottrina cristiana in un senso tutt'altro, di stabilirgli nel buio del più puro razionalismo.
Ma se ancora, questa fede, che per il padre Semeria si confonde col teismo, ossia col senso religioso, avesse sempre per oggetto il Dio vero, personale, distinto dal mondo, creatore e signor nostro, riconosciuto come tale! Ma niente affatto. Potrà essere l'inconoscibile di Spencer, il noumeno di Kant, la materia di Spinoza, e scriverà Semeria questa ineffabile bestemmia [cfr. Lettura V, n. 10: "Il teismo involontario dei filosofi atei"].
E così secondo lui, la fede in Dio sarà anche in quelli che non ammettono cosa veruna al di sopra della materia o dell'umanità, purché questa materia o questa umanità venga invocata con l'intonazione buona e giusta di entusiasmo, di devozione, di amore religioso. Tutt'al più vi sarà un sbaglio di nome preso l'uno per l'altro, come quando il sindaco quivi menzionato pigliava il nome condoleanze per il nome congratulazioni [p. 181].
II. Osservazioni intorno alla fede scompagnata dalle opere.
Il Semeria sembra abondare in quella eresia, cara a tutti i modernisti e condannata dal concilio di Trento, sez. 6, can. 28 [DH, 838; questo e il riferimento seguente sono citati poco sotto] e dal concilio Vaticano, sez. 3, cap. 3 [DH, 1810-1815. In particolare 1814], secondo la quale la fede senza l'amore, la fede scompagnata da ogni opera, non è vera fede. (Nel luogo sopra citato prosegue dicendo: [pp. 179-180: «Ecco qua degli uomini, i quali, interrogati, vi rispondono di credere in Dio … ma intanto la loro vita … non solo è quanto di meno divino si piuò pemsare, ma quanto si può immaginare di più antireligioso…»]).
Dunque secondo il Semeria, come sono atei per isbaglio, cioè non veri e formali atei quelli che non vogliono sapere di un Dio distinto dal mondo, a condizione che con entusiasmo e amore religioso invochino o l'umanità o la terra: nel stesso modo sono teisti per isbaglio, cioè non veri e formali teisti quelli che, pur confessando il Dio vivo e vero, non vivono d'un modo conforme alla loro credenza [pp. 179-182. "Atei e teisti per isbaglio"].
E si trova lo stesso errore più formalmente insegnato a p. 191: «E non mi dite, o amici, che con la fede in Dio, molti conducono una vita scellerata e molti negandolo, una vita onesta, perché fermandoci ai primi, non è fede in Dio una semplice nozione astratta e sbagliata di lui». Donde si deduce che i cristiani i quali vivono male, non hanno la fede vera per lo solo fatto della loro mala vita. Mentre che il E poi, astrazione fatta dall'errore teologico, che cosa più scandalosa di quella opposizione di uomini moralmente detestabili, i quali intellettualmente sono teisti, a uomini moralmente ammirabili, che intellettualmente sono atei? (p. 181). La conclusione che viene ai giovani è che a nulla serve la religione. E tutto il libro di Semeria è là dentro.
III. Osservazioni sulle prove dell'esistenza di Dio.
Dice p. 192: «La filosofia e il cristianesimo concordemente suggeriscono che le prove della esistenza di Dio, sufficientissime per condurci a un assenso ragionevole, non possono e non potranno mai rendere l'assenso intellettualmente necessario».
Dove ha visto Semeria nella filosofia, e specialmente nel cristianesimo che le prove dell'esistenza di Dio non possono e non potranno mai rendere l'assenso intellettualmente necessario? Il cristianesimo insegna, sì, che la fede è essenzialmente libera. Ma alla differenza di Semeria, il cristianesimo per fede intende l'assenso dato alla parola di Dio rivelante, e perciò insegna che c'è un'altra conoscenza di Dio, la quale si presuppone necessariamente alla fede, come la natura alla grazia (atteso che a meno di cadere in uno assurdo fideismo, prima di credere alla parola d'altrui, bisogna essere d'altronde certo che esista quello di cui referisce la parola, e che la sua parola è autorevole). Ed è questa la naturale conoscenza di Dio di cui parla il canone 1 De revelatione del concilio Vaticano contro l'errore capitale del tradizionalismo! [D 1801].
E san Paolo, nel cap. I ad Romanos [S. lo cita in Scienza e fede, p. 191], e il libro della Sapienza al cap. XIII. E là non si suggerisce che le prove dell'esistenza di Dio non possono e non potranno rendere l'assenso intellettualmente necessario. Si suggerisca piuttosto tutto il contrario: «Invisibilia ipsius per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur, ita ut sint inexcusabiles. Vani sunt omnes homines qui de his quae videntur bona non potuerunt intelligere eum qui est, neque operibus attendentes agnoverunt quis esset artifex… Et si tantum potuerunt scire ut possent aestimare saeculum, quomodo hujus Dominum non facilius invenerunt». Certo dell'impossibilità di prove che rendono l'assenso necessario, non c'è traccia. A meno che Semeria intenda dire che non può mai essere necessario l'assenso, essendo sempre nella potestà della volontà di stornare l'intelletto dalla considerazione dei motivi, o di estendersi sopra i sofismi che gli oscurano. Ma a questo conto, dovrò dire che non posso vedere necessariamente la luce del sole, perché posso sempre chiudere a buio le finestre della camera.
Ma vediamo cosa dice Semeria delle prove dell'esistenza di Dio. Dice insufficienti, almeno per nostri tempi, le prove di san Tommaso. E non si tratterebbe di altro che di san Tommaso, pazienza (benché questo continuo disprezzo, questa continua ironia con la quale tratta tutta la Scolastica sia sommamente riprovevole, ingiuriosa alla Chiesa e a tutta la sua tradizione). Ma, lo ripeto, pazienza! Se non che si tratta di molto più. Si tratta della Scrittura, del magistero ecclesiastico, dell'anatema del Concilio Vaticano.
La regola della fede ci impone intorno alla conoscenza dell'esistenza di Dio, due cose. Primo, che la ragione naturale può con certezza conoscere Iddio Creatore e Signore nostro e, come è detto nel giuramento antimodernistico (che Semeria fra parentesi non ha voluto fare) 209 Semeria, che in questo capitolo [Lettura X] contradice a se stesso, vinto dall'evidenza, se ne cava dicendo che il Dio trovato per questo mezzo non è ancora Deus cordis mei, e perciò non basta. Getta il discredito sopra questa sola via soda e secura, ne scosta i suoi auditori, per dopo, nelle lezioni seguenti metterli in pieno kantismo.
Dice infatti il Semeria alla p. 200: «Mentre (a noi moderni) paiono ridursi a due i cinque argomenti di san Tommaso, uno vi si aggiunge, che è certo uno stupore per noi vedere omesso a questo luogo, tanto ci sembra che esso vinca in importanza ed efficacia tutti gli altri. È l'argomento desunto dall'ordine morale». E alla p. 200 dice conseguentemente così: «Mezzi una volta, etc.». Ma per me, il mio stupore sta precisamente nel stupore del padre Semeria. Perché è cosa elementare, nella teologia sacra e tradizionale, che questo argomento è assolutamente nullo, e che Kant avendo voluto riparare con la sua ragione pratica la rovina accumulata da lui intorno alla ragione pura, fu il più pericoloso maestro di ateismo che si possa immaginare. E la ragione è chiara, perché se la coscienza del dovere è intimamente collegata con la conoscenza di Dio, lo è come conseguenza e collegata al suo principio, non come principio collegato alla sua conoscenza. In altri termini la nozione del dovere non è una nozione da cui si parte per arrivare a conoscere Dio, ma invece è una nozione a cui si arriva dopo aver conosciuto Dio. O ancora in altri termini, la coscienza del dovere prova che noi abbiamo una anticipata e quasi quasi innata convinzione di non essere nostri padroni, di essere invece costituti sotto il dominio assoluto d'un supremo creatore, il quale comanda che l'ordine sia osservato e proibisce che sia turbato. Ma non è un punto di partenza per conchiudere: Iddio esiste. Perché nell'ipotesi in cui si supporrebbe ancora sconosciuto Iddio, cosa potrebbe essere la voce della coscienza; per [61] Il processo al P. Tutto il succo del modernismo. Per lui la verità non è cosa assoluta, ma relativa.
Antonio M. Gentili [62] ----
Beatissimo Padre, memore della bontà paterna, che la Santità Vostra ebbe altre volte già a mostrare anche a me, mi permetto esporle umilmente quanto segue.
La pubblicazione della condanna di cui un mio libro era stato l'oggetto da parte della Sacra Congregazione del Sant'Ufficio, fu dalla Santità Vostra a principio della guerra sospesa con atto benevolo per me, e in se stesso inspirato dalla precauzione che in illis rerum adiunctis qualcuno dei male intenzionati (i quali non mancano mai) interpretasse malignamente la condanna del libro, condanna dottrinale, quasi torto o diminuzione alla persona del sottoscritto e al Comando militare italiano presso cui era chiamato a far da Cappellano.
Adesso, finita la guerra, alcune voci giuntemi all'orecchio mi hanno fatto ri-
Antonio M. Gentili [64] ----pensare alla pubblicazione della suddetta condanna come a cosa possibile, anzi addirittura nolto probabile, se non proprio certa. In base a ciò, con la più schietta umiltà e franchezza, oso proporre alla Santità Vostra il dubbio se l'inconveniente, temuto tre anni addietro e che provocò la sospensiva non permanga, per avventura, anche adesso. Uomini maleintenzionati che spiano ogni pretesto per dipingere la Santa Sede come poco favorevole od ostile alla Italia, alla sua guerra, agli uomini che vi hanno portato onesto operoso contributo, lungi dal mancare, abbondano oggi in Italia e fuori. Forse tra costoro, uomini di mala fede, non mancherebbe chi svisasse, di nuovo, come torto inflitto alla persona la condanna pronunciata contro il libro, sfruttando per attirare odiosità alla Santa Sede, una certa popolarità che al sottoscritto è venuta nelle sfere militari dalla opera confortatrice svolta alla fronte per ben tre anni. La Santa Sede promulgando la condanna mirerebbe ad impedire quel male che la lettura del libro può aver già fatto e può fare ancora. Orbene, il sottoscritto, se la precedente preliminare osservazione, non sarà parsa intieramente fuori di luogo e insussistente, proporrebbe alcuni modi atti, gli pare, a raggiungere questi giustissimi scopi spirituali, evitando i possibili rischi, diremo così politici, della promulgazione.
Il sottoscritto può impegnarsi: 1. A non pubblicare più affatto il libro in quistione da gran tempo esaurito. Quanto alle pubblicazioni fatte alla macchia, contro la sua volontà, esse furono fatte a principio della guerra (con molti altri libri di altri autori) per le truppe agglomerate nella zona bellica. Adesso sono esauriti e non sarebbe più un affare, se pur lo fu allora, pei librai il ritentare la prova.
2. Se la doppia garanzia di non pubblicare più l'omai vecchietto libro e che non venga pubblicato non paia sufficiente, l'autore potrebbe ripubblicare il libro con le correzioni che gli vengano autorevolmente e caritatevolmente suggerite dalla Sacra Congregazione per mezzo di qualche esperto teologo. Nella nuova veste il libro potrebbe cancellare le cattive impressioni passate e prevenir le future. Né forse sarebbe nuova la procedura, se esistono le condanne donec corrigatur.
3. E questa terza proposta non esclude la seconda: il sottoscritto potrebbe pubblicare un opuscolo il quale partisse dal fatto che errori furono o trovati nel libro o dal libro dedotti, e tali errori apertamente scartasse. Non farebbe una difesa al libro inopportuna, dopo la reale se anche non promulgata condanna, ma una difesa dei lettori dal danno che il libro può fare ad essi.
Questi mezzi di raggiungere gli scopi spirituali a cui la condanna del libro mira, risparmiandone la pubblicazione e promulgazione, lo scrivente propone più fiducioso, perché si verrebbe di tal guisa ad evitare quel "quid" di disdoro inerente a ogni condanna, lo si verrebbe ad evitare non solo né tanto a lui individuo, quanto alla Congregazione alla quale egli appartiene e a cui la Santità Vostra ha continuato a mostrare la bontà verso di essa nutrita dai suoi illustri predecessori.
La precedente condotta del sottoscritto, non sempre prudente, sempre (oso dirlo) docile, può affidare la Santità Vostra che il favore concessogli non sarebbe seme gittato su cattivo terreno, e che il mezzo o i mezzi dalla Santità Vostra o dalla Sacra Congregazione prescelti tra quelli ch'egli offre, sarebbero puntualmente [65] Il processo al P. Semeria
adoperati. E con animo riconoscente e più tranquillo il sottoscritto ripiglierebbe più energicamente il lavoro per la buona battaglia, per la gloria di Dio, il bene delle anime e la esaltazione nonché la libertà della santa Chiesa, che è oggi e sarà domani così necessaria. Invocando sopra di sé l'Apostolica Benedizione e baciando l'Anello del Pescatore, della Santità Vostra devotissimo in Gesù Cristo figlio e servo, Giovanni Semeria barnabita. Roma, 17 Eminentissimi ac reverendissimi domini 217 decreverunt: Ad mentem. Del progetto del padre Semeria si accetta il primo e il terzo punto con questa variante che, invece di un opuscolo, pare più opportuno che pubblichi una lettera ad un amico in cui si rilevino e si ritrattino i principali errori.
Antonio M. Gentili [66] ---- L'eminentissimo cardinale Segretario 219 ieri ha letto agli eminentissimi padri l'istanza presentata dal padre Semeria alla Santità Vostra, nella quale il detto padre -il quale sa della condanna del suo libro Scienza e fede decretata dagli eminentissimi padri nella feria IV, 19 maggio e 16 giugno 1915 ed approvata poi dalla Santità vostra nella feria V successiva, 17 giugno, che soltanto si è riservato di determinare il tempo opportuno per la pubblicazione -il padre Semeria, che conosce tutto questo, propone vari modi per raggiungere i giustissimi scopi spirituali della condanna medesima, senza che si venga alla pubblicazione -e ciò ad evitare il disdoro che dalla medesima cadrebbe sulla sua Congregazione. Gli eminentissimi padri 220 , udita la lettura dell'istanza, hanno unanimemente decretato che del progetto del padre Semeria essi approvano il primo e terzo punto, cioè di non pubblicare più la detta opera -ormai esaurita -e di pubblicare invece un opuscolo, in cui il padre Semeria confuterebbe gli errori che furono trovati nel libro, o da esso apertamente dedotti. Soltanto gli eminentissimi padri si sono manifestati d'opinione essere più opportuno che l'opuscolo rivesta la forma di una lettera ad un amico, in cui potrebbero essere rilevati e dal padre Semeria ritrattati i principali errori.
Gli eminentissimi padri hanno poi designato il padre [Giovanni] Lottini di notificare al padre Semeria le proposizioni erronee che sono state trovate nel detto libro.
L'opuscolo o lettera in parola prima di pubblicarsi dovrà essere riveduto dal Sant'Officio.
Gli eminentissimi padri infine hanno voluto che si dica al padre Semeria di astenersi da ulteriori pubblicazioni senza la preventiva approvazione del Sant'Officio.
Minuta della relazione per il papa. [67] Il processo al P. Semeria 253 ---- Eminentissimi ac reverendissimi domini 221 decreverunt: Si chiami il padre Semeria in Sant'Uffizio, dove, premesso il giuramento antimodernistico, dichiari di accettare la condanna della sua opera Scienza e fede e di ritrattare tutti gli errori contenuti in questa e nelle altre sue opere.
Questo documento, debitamente firmato, si conserverà in Sant'Uffizio. Nello stesso tempo il padre Semeria prepari uno schema di lettera da pubblicarsi a riparazione dello scandalo, in cui dica che, sapendo che la sua opera è stata condannata, riconosce la giustizia di tale condanna, sinceramente vi si sottomette riprovando tutti gli errori in essa contenuti (in confronto specialmente col decreto Lamentabili e col giuramento antimodernistico).
Antonio M. Gentili [68] ---- Sanctissimus adprobavit, sed mandavit che nel comunicare la decisione del Sant'Offizio relativa alla lettera del padre Semeria non si faccia parola, che con la medesima resta abrogato il decreto relativo alla pubblicazione della condanna del libro in questione; la qual pubblicazione deve rimanere anche in futuro soltanto sospesa. In secondo luogo poi la mente deve restringersi agli scritti di materie teologiche e filosofiche. Riceviamo dal padre Giovanni Semeria, nostro collaboratore, una lettera aperta nella quale egli chiude le discussioni che furono fatte intorno al suo volume Scienza e fede. Noi la pubblichiamo, richiamando l'attenzione dei nostri lettori sull'importanza delle dichiarazioni di padre Semeria.
[69]
Il processo al P. Semeria 255 ---- 223 Vedi doc. precedente. 224 Questo testo è ripreso dai Decreta 1909, p. 90, dove però non si fa menzione di Scienza e fede: «Lettera del padre Semeria "Mio dolce amico" pubblicata nella "Rivista neoscolastica" con cui ritratta gli errori sparsi nelle sue opere. Nihil obstat, ecc.» (ACDF).
Mio dolce amico 225 , ricevo la severa requisitoria dell'autorevole personaggio 226 contro il mio Scienza e fede soprattutto, e mi guardo bene dall'opporvi una pretensiosa apologia. Me ne guardo per cento ragioni, ma specialmente perché mi sono abituato a ragionare con maggiore concretezza individuale sulla base del vecchio principio universale: errare humanum est, pel tramite della minore: homo sum, humani nihil a me alienum puto. Il perché, ripensando ai forse troppi volumi scritti e stampati "quand'ero in parte altr'uomo da quel che or sono", vo ripetendo in cuor mio il biblico delicta iuventutis meae et ignorantias meas ne memineris, Domine. E se fossi un sant'Agostino, potrei anche quei miei libri riprenderli ed analiticamente correggerli, migliorarli... se fossi sant'Agostino. Sono invece un povero Giovanni Semeria, e non franca la spesa di riesumare tante pagine, che ormai da decenni dormono il tranquillo sonno di qualche vecchio fondo di biblioteca. Giova bensì che io ti metta in guardia contro errori che non parmi avere avuto mai la espressa intenzione di professare, ma verso i quali potei condiscendere, scivolando, in giorni di facile entusiasmo, per trasposizione di mansuetudine, dagli erranti agli errori, con pericolo e danno di qualche lettore troppo fiducioso e non abbastanza cauto.
I punti precipui su cui mi giova richiamare la tua attenzione sono: 1) la razionalità della convinzione filosofica della esistenza di Dio; 2) la razionalità della ragione; 3) il rispetto della Scolastica in genere e di san Tommaso in specie. Il primo dei quali si collega al libro mio più direttamente e il secondo è coinvolto nel primo, come il terzo si intreccia coi due che lo precedono.
Inutile che io ti ricordi come la razionalità o ragionevolezza della esistenza di Dio sia stata affermata apertis verbis dal grande Apostolo dei gentili san Paolo, pur così nemico di ogni nonché razionalismo proprii nominis, dall'arido intellettualismo; non è forse suo il scientia inflat? Ma pur suo è l'invisibilia enim ipsius a creatura mundi per ea quae facta sunt intellecta conspiciuntur. Ne è meraviglia che quell'anima violentemente, ardentemente religiosa parlasse così. Perché si tratta di sapere se la religione (il cui oggetto essenziale è Dio, così essenziale che senza di lui essa sfuma) sia o no cosa umana nel senso più sano e profondo della parola: cosa cioè per l'uomo doverosa e possibile. Una divinità irrazionale, non razionalmente attingibile, vorrebbe dire una religione, la religione cosa antiumana, almeno finché l'uomo rimarrà un essere essenzialmente ragionevole, "animal rationale".
Per poter dire all'ateismo ch'esso è colpevole, bisogna che alla ragione umana non manchino i mezzi per trovare Dio, come per incolpare chi non ha trovato un aggetto, bisogna gli siano stati concessi mezzi adeguati per rinvenirlo.
Ci tengo, come vedi, a mostrarti quanto religiosa sia e non profana questa tesi della dimostrabilità della esistenza di Dio, per eludere una difficoltà preliminare: o che ci ha da vedere la filosofia con la religione? La religione con la filosofia? Vogliamo forse ridurre quella a questa?
Appunto perché religiosa, questa tesi ha trovato concordi con san Paolo, Padri e Dottori intenti alla stessa dimostrazione; e poi coi Dottori si viene giù a san Tommaso, dove della tesi troviamo una coscienza più perspicua e una più lucida formula. Nella Summa contra Gentiles, che non va trascurata neppure dopo la Summa Theologica, egli si equilibra tra due estremi: l'estremo di chi vorrebbe dire superflua la dimostrazione di Dio, cioè della sua esistenza, tanto l'esistenza di Dio è evidente; e di chi la vorrebbe dire impossibile. E stabilisce, il Dottore Angelico, che evidente non è come lo sono i primi principii che non si dimostrano, anzi sono elemento vitale imprescindibile di ogni dimostrazione; ma dimostrare si può e si deve e si dimostra… come egli prova col fatto, riferendo, illustrando le prove, diremo così classiche.
Fedele alla tradizione sua più antica e costante, la Chiesa nel secolo XIX, e sui primordi di questo secolo XX, ha riaffermato la doppia tesi della necessità e della possibilità di una dimostrazione della esistenza di Dio contro non solo nemici aperti, ma contro amici e figli devoti sì, incauti però.
La dottrina in questi contrasti venne ad ampliarsi ed approfondirsi. Perché questi amici offrivano, in apparenza, alla apologia cattolica il farmaco del più poderoso antirazionalismo. Razionalismo! Non era stato il grande errore del secolo XVIII? L'arma di Voltaire? Non era bello che il secolo XIX si levasse frantumando, addirittura frantumando quell'arma micidiale per la fede? Alla ragione che sa tutto, che può tutto, si proponevano questi apologisti di sostituire la ragione che non sa nulla, non può nulla senza il soccorso della fede. La fede per costoro diventava il prodromo, il presupposto della ragione. Un razionalismo rovesciato addirittura. Perciò stesso però doveva già riuscire logicamente sospetto, perché quando si va da un eccesso all'altro, o, come dicono i logici, da una proposizione alla sua contraria, si può rimanere nella stessa linea di errore. La Chiesa non accettò questo dono funesto di una fede campata in aria, di una condanna alla ragione che ne era la demolizione, di una manovra che, per spezzare un'arma ostile alla fede (razionalismo), distruggeva uno strumento umanamente indispensabile.
E tanto più volentieri la Chiesa riaffermò il valore, la dignità, la forza della ragione umana, in quantoché a negarla non si trovano soli i Tradizionalisti e i Fideisti, della fede amici troppo fervidi; ma anche, per quanto possa parere strano, in loro compagnia altri uomini e filosofi della fede amici molto tiepidi, se non addirittura nemici dichiarati. Accenno tra l'altro ad Emmanuel Kant. Non entro qui, né posso in una disamina del suo, proprio suo pensiero. Che cosa egli personalmente abbia effettivamente pensato e detto e voluto, è questione storica, da risolversi con un esame accurato delle veramente poco leggibili sue opere. Ma sul mercato filosofico egli passò come un critico radicale della così detta ragione pura, cioè della vera e propria ragione umana, un critico però che, impaurito delle sue demolizioni razionali, si arresta e cerca riprendersi con lo spediente della ragione pratica.
Certe ferite tuttavia non si risanano. Una ragione sospetta a se medesima, è una ragione pregiudicata senza rimedio. La ragione, per poterci noi fare affidamento, dev'essere come la moglie di Cesare, senza sospetto; tanto più che se la moglie di Cesare contro i sospetti poteva adire ai tribunali, non c'è tribunale ragionevole a cui appellare da sospetti contro la ragione che essa stessa, la ragione, abbia formulati.
Poteva bensì sembrare che Kant desse la mano a Lamennais, che la critica [71] Il processo al P. Semeria raggiungesse il fideismo, che il filosofo Kant, la sua dottrina corrente si potesse utilizzare in senso cristiano. La Chiesa fu di parere contrario. Dalla critica kantiana, malgrado i correttivi della ragione pratica, anzi proprio grazie a loro, vide spuntare il volontarismo o soggettivismo. Dio si confondeva col dovere. L'uomo ricostruiva Dio per le sue necessità, per i suoi bisogni. Non Dio creava l'uomo, l'uomo creava Dio. Il credo rovesciato dalle prime linee. E qui tu vedi, caro amico, perché e come possono venir fuori dalla autorità della Chiesa condanne e affermazioni di indole filosofica, come questa sul valore della ragione. Egli è che certi filosofemi (per es. questo: l'uomo crea Dio) urtano dritti dritti contro certi elementarissimi dogmi (per es. Dio crea l'uomo). E una volta che il dogma elimina, per via di contraddizione che non ne consente la esistenza e coesistenza, un filosofema, il filosofema contrario diventa vero; vero non solo filosoficamente, ma anche religiosamente.
E non è che la fede si voglia introdurre in un campo non suo, ma le forze superiori utilizzano e preesigono le inferiori: per es. la biologia presuppone la chimica. Né la fede prenderà, trarrà dalla ragione la sua salvezza, come statua dal suo, per giunta unico, piedistallo. No, caro amico, la fede quando poi nasce (ed è generazione superiore, ex Deo, non inferiore ab homine, come se la ragione coi veri raziocini suoi bastasse a generarla), la fede trae la sua unica incomunicabile saldezza dal soffio divino della grazia che investe ragione e volontà. E la Chiesa non nega la collaborazione volitiva nelle stesse indagini razionali; ma la cooperazione necessaria della volontà non distrugge né menoma la azione, vera e propria azione dell'intelletto.
Il grande fondamentale nemico della fede appare lungo il secolo XIX il soggettivismo, la doxa od opinione, direbbe Aristotele, sostituita alla scienza; il sentimento o la volontà sostituiti, diciamo noi, alla ragione obbiettiva. Perché il soggettivismo assume appunto queste varie colorazioni: è sentimentalismo, quando si vuole giudice della verità il vago ed oscuro sentimento; è volontarismo o pragmatismo, quando si parte addirittura dalla volontà come norma e criterio, meglio ancora produttrice della verità. E la ragione stessa, la nostra, diventa creatrice di verità nell'idealismo trascendentale di Hegel e compagni. È sempre il soggettivismo, l'egoismo spirituale, la ragione umana sostituita all'intelletto divino, eretta in intelletto divino; l'uomo fatto Dio.
Contro questo fondamentale errore, sempre alter et idem, sempre idem et alter, lotta variamente la Chiesa, e più da Pio IX in poi, sotto Leone XIII e sotto Pio X. I vari celebri, notissimi documenti, dalla Aeterni Patris alla Pascendi e alla Sacrorum antistitum, si riassumano in una rivendicazione, religiosa per i suoi scopi, della forza e della oggettività della ragione, contro le pretese del soggettivismo.
Questa filosofia veramente razionale, e, perché rispettosa della ragione, aperta verso la fede, la Chiesa del secolo XIX trova e trovò già formulata classicamente nella età scolastica in colui che di quella classica Scuola fu più il più classico interprete, san Tommaso d'Aquino. Fu detto di Dante che non ha certo cantato ogni lirico impulso dell'anima agitata e commossa, ma che, quando un moto lirico o una fantasia luminosa egli, Dante, ha tradotto nel suo verso, fa disperare di poterlo meglio tradurre mai. Anche Tommaso d'Aquino non ha esaurito ogni speculazione filosofica, ma ha dato espressione classica a quella parte fondamentale della speculazione, a cui si è applicato. Gli argomenti di cui si servì san Tommaso non hanno perduto il loro valore, e come ai suoi tempi sono oggi atti a com-battere l'incredulità. Ecco perché si torna a lui quando si vuol vedere chiaro in una questione, l'abbia poi egli esaurita o l'abbia, con insigne sapienza, avviata sa quelle che rimasero poi sempre le sue rotaie. Egli si trovò a vivere in una primavera spirituale, quando lo spirito umano, dopo la innegabile parentesi del Medioevo, rientrava in possesso del più lucido, sintetico, acuto filosofo greco Aristotele, colui del quale può dirsi che universa antiquitas locuta est. E san Tommaso non si mise a rimorchio di Aristotele, come fanno gli scolari piccoli e pigri: rivisse nell'ambiente della filosofia greca che si andava sviluppando dalle vecchie pagine dello Stagirita. E fu un santo oltreché un genio; non diede solo alla verità, con slancio superbo, le forze del suo ingegno, diede con immensa devozione umile tutte le energie della sua anima. O veritas Deus, disse anche lui, fac me unum tecum in caritate perpetua. Ecco perché Leone XIII non solo auspicò, ma con la sua autorità, seguito poi anche dai successori pontefici, richiamò a san Tommaso; e volle un ritorno a lui che fosse tutto insieme assimilazione e fecondazione delle sue dottrine, imitazione delle sue virtù.
Genio e santo. Egli lascia dietro di sé striscie del pari luminose nell'atmosfera che vorrei dire sublunare della filosofia, e nei cieli, negli alti cieli della teologia; ardito nell'asserire i diritti della ragione, umile nel riconoscerne i limiti, questi, per via di amoroso, docile ossequio al dono della fede, supera e trascende. Non mai il dono della fede divina egli sciupa o intacca coi sofismi di una ragione superba, non mai alla ragione in nome della fede impone sacrifizi che non siano ragionevoli. Nemico di ogni vaporosità sentimentale, non è estraneo alle legittime esaltazioni dell'anima; cauto nel cammino sillogistico, ardito nei mistici voli; la lucida parola diviene talvolta canto pio, fervido sulle sue labbra, come quando, dopo aver scritto gli articoli sottili sulla Eucaristia, intona l'inno trionfale Lauda Sion.
Nel discepolato più docile a Gesù Cristo e alla sua Chiesa "del Verbo incorruttibile / conservatrice eterna", egli acquista il suo titolo e quasi direi il diritto di Maestro. Maestro, grazie appunto a tal genesi, ben diverso da altri che quanto più attirano verso di sé personalmente, tanto paiono distrarre e distraggono dalla maestosa corrente cattolica i loro seguaci, mentre egli i suoi seguaci più fidi alla Chiesa, a Gesù Cristo, a Dio ricongiunge.
Ecco perché, o amico carissimo, te lo posso, finendo, suggerire io pure, valendo così poco, a Maestro, senza venir meno alla perentoria sentenza evangelica: "Non chiamate nessuno vostro Maestro fuor di Colui che è solo e per tutti e per sempre… Gesù Cristo". Ed egli Gesù benedetto rimanga Maestro tuo e mio, ma vivo e schietto nella sua Chiesa -e a lui, alla Chiesa ci riconducano, non esclusive d'altre, le forze meravigliose d'una filosofia aperta verso la teologia e di una teologia delle razionali energie, che nella filosofia si sintetizzano, in nome stesso di Dio altamente rispettosa.
In lui, in nostro Signore Gesù Cristo ci sia dato unirci, amico, uniti perderci e ritrovarci umiliati salutarmene, graziosamente esaltati.
Tuo Giovanni Semeria.
[73]
Il processo al P. Semeria
Lettera di padre Semeria a Benedetto XV (926) Beatissimo Padre, Solo il timore di rubare alla Santità Vostra un tempo prezioso mi ha trattenuto dal chiederle una udienza prima di partire per l'America, nell'intento di ringraziarla di quanto la Santità Vostra ha fatto per me nell'affare del Sant'Uffizio, felicemente concluso omai. L'articolo, che dovrà proprio essere il suggello di detta conclusione, uscirà quanto prima nella "Rivista Neoscolastica" del padre [Agostino] Gemelli. Il padre reverendissimo [Pietro] Vigorelli umilierà una copia alla Santità Vostra. Della mia riconoscenza, che le professo qui per iscritto, spero poter dare miglior prova alla Santità Vostra con le opere. Dopo il mio viaggio transoceanico 227 , se Dio, come spero, lo benedirà, solleciterò l'onore di baciare il sacro anello del Pescatore alla Santità Vostra. Della quale su me e le mie povere opere invoco la benedizione.
Della Santità Vostra devotissimo servo in Cristo, Giovanni Semeria.
Genova, 17 novembre 1919.
Antonio M. Gentili [74] ---- 227 Con queste scultoree parole lo scrittore e critico letterario Carlo Bo descriveva il celebre Barnabita all'indomani della Grande Guerra. Di ritorno dal breve viaggio in America del 1920, con il cuore dilatato per l'ot-----* Questo breve saggio intende portare all'attenzione degli studiosi alcuni documenti inediti o poco conosciuti riguardanti il periodo 1919-1924, rinviando a una trattazione successiva l'analisi approfondita e dettagliata del complessivo rapporto tra il P. Giovanni Semeria (1867Semeria ( -1931 e il Fascismo, non essendo ancora stata scritta la Storia dell'Ordine dei Barnabiti in quel periodo. Dal 1921Dal , e, in particolare, dal 1924 tima accoglienza riservatagli dai suoi connazionali all'estero e le tasche piene dei tanti dollari racimolati per i suoi orfani, aveva ritrovato il proprio paese sull'orlo del collasso, materiale e morale 2 .
L'Italia era in subbuglio. Non solo la grande vittoria patriottica, alla quale tanto aveva dato il suo contributo come Cappellano Militare, pareva svilirsi nel mito della "vittoria mutilata" di D'Annunzio -da lui mai troppo amato (vedi l'impresa di Fiume, 1919) -ma anche prendeva le mosse sotto i suoi occhi il cosiddetto "biennio rosso": la grande paura degli anni 1919-1921, che avrebbe portato, in poco più di due anni, all'avvento del Fascismo 3 .
Oltre agli altissimi costi umani e materiali causati dal conflitto bellico, tra l'inflazione galoppante, la crescente disoccupazione e la terribile epidemia chiamata "spagnola", si era accentuato il malcontento popolare alimentato dal fascino della rivoluzione leninista. Seguirono gli anni difficili dell'occupazione delle fabbriche -iniziando da Torino e da Milano -della nascita dei Consigli di Fabbrica, degli scioperi, dell'occupazione e della socializzazione della terra, dei moti per il carovita, che portarono a indisturbati saccheggi di negozi e di magazzini.
Dal punto di vista politico, nel 1919 si era passati dal governo di Vittorio Emanuele Orlando a quello di Francesco Saverio Nitti, che alternava momenti di mediazione a forti repressioni. Nelle importanti elezioni del 6 novembre di quello stesso anno si cristallizzò agli occhi del paese la forte avanzata del Partito Socialista come l'affermazione del Partito Popolare di don Sturzo 4 , mentre si guardava, in una sorta di strabismo civile, all'impresa fiumana di D'Annunzio e all'inizio delle violenze fasciste. All'indomani dello "sciopero delle lancette" del mese di marzo del 1920, 262 Filippo M. Lovison [2] ---- In quello stato di preoccupante agitazione sociale, Semeria rimaneva un costante punto di riferimento per la coscienza dei cattolici, al di là di ogni ideologia. Proprio nel settembre del 1921, un lettore del Corriere, dopo aver letto due suoi articoli ivi pubblicati, gli scriveva a proposito dell'Inno di Mameli e di molte altre cose ancora: «Reverendissimo Padre. Ho letto con sommo piacere le sue due ultime letture comparse sul Corriere relative alle "gesta" non tanto dei partiti (…) quanto della "Stampa Liberale"! Riguardo al grido famoso, ho potuto fare anch'io la stessa constatazione quando accompagnai (sempre fiancheggiandolo a guisa di "guardia regia", e sostando a varie riprese, per farmi un'idea dell'insieme veramente meraviglioso) il corteo da S. Maria degli Angeli alla Minerva, e sentii da cento e mille bocche gridare, (…) urlare, [3] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 263 ---- 5 Interessante l'evoluzione del pensiero cattolico sul Fascismo. Un privilegiato punto d'osservazione, anche se non l'unico, è senz'altro «La Civiltà Cattolica», dove, per esempio, apparve l'articolo Le feste centenarie di Dante e le gazzarre dei sovversivi in Italia, in «La Civiltà Cattolica», 4 (1921), pp. 1-11, dove si afferma: «Non occorre qui studiare il "fenomeno" del fascismo, come altri ha fatto con evidente indulgenza, se non immeritata benevolenza [Mario MISSIROLI, Il fascismo e la crisi italiana, Bologna 1921]. Basta osservare gli eccessi e le brutalità dei fascisti, avveratesi anche in occasione delle feste dantesche, per giudicare di qual fatta sia stata e voglia essere la loro partecipazione alla glorificazione di Dante, e la partecipazione di quelli che li arruolano e stipendiano per le loro imprese di disordine, palliate di patriottismo o di nazionalismo eccessivo» (p. 6). Le recenti pubblicazioni di Giovanni Sale hanno messo in evidenza i successivi atteggiamenti tenuti dalla rivista, che lentamente «pur denunciando le violenze delle squadre fasciste, si impegnò nell'opera di legittimazione del fascismo agli occhi del mondo cattolico: il suo fine professato era quello di "correggere, moralizzare" e insieme "cristianizzare" questo nuovo fenomeno, "meglio che partito", "ancora mutabile e multiforme"» (G. SALE, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, Milano 2007, pp. [27][28]. magari "Viva il Papa", ma mai "Viva il Papa re". Più volte sentii gridare "Viva il Re", come feci pure io per rispondere a tre o quattro giovinastri fascisti che gridavano "Viva il Re, abbasso i preti, viva Giordano Bruno"!... Non per questo scrivo, ma per esprimerle due miei pensieri, che mi vennero subito in mente alla lettura della prima lettera. Godo nel vedere che per caso l'idea mia si è incontrata con la sua: "l'Inno di Mameli" deve essere cantato dai cattolici italiani dappertutto e in tutte le loro cerimonie, ad adunanze o feste, ecc., ecc., come l'Inno Patrio per eccellenza. I veri patrioti siamo noi soli in Italia. 2° Bisognerebbe prendere questa circostanza per promuovere tra i cattolici una fervida ed efficace azione di boicottaggio contro la mala stampa, la quale purtroppo vive e prospera, s'ingrassa (e poi tira calci a noi stessi), con i denari nostri! Forse ora la proposta troverebbe gli animi disposti, o non scomparirebbe miseramente come tante altre volte nei tempi passati. Bisognerebbe prendere di mira proprio il "Giornale d'Italia" per cominciar bene. La prego di dare un'occhiata al qui unito opuscoletto; al quale farà presto seguito un altro un po' più diffuso che pure manderò a Vostra Riverenza, se si compiace di darmi il suo indirizzo preciso. Avverto che le date riportate le ho prese dal Diario della Grande Guerra pubblicato dal Dup... alla fine del 1918. Con ossequio distinto mi professo suo… 10 settembre 1921» 6 .
Fosche tinte di uno scenario che rischiava di far scivolare il paese in aperta guerra civile. Del resto, come altri, lo stesso Benedetto Croce fino al 1925, data del suo Manifesto degli intellettuali antifascisti, aveva scorto nel fascismo una forza "patriottica" «nuova e positiva, capace di infondere vigore a una classe dirigente indebolita dalla crisi del dopoguerra, dalle elezioni del 1919 e minacciata dal bolscevismo» 7 . Anche non pochi uomini nella Chiesa speravano in un pronto riallineamento morale di un male ritenuto, a torto o a ragione, comunque "minore" 8 .
Succeduto a Benedetto XV (1914-1922 9 , benché inflessibile nei confronti dell'Action Française 10 e vicino alla resistenza contro il laicismo anticlericale in Messico, più attendista e benevolo si rivelò infatti l'atteggia- 264 Filippo M. Lovison [4] ----del Tritone [da appena un anno era la nuova sede de Il Messaggero]. Non ho saputo quanto avrei desiderato, ma ho saputo quanto basta per non consigliare rapporti di preferenza. Spero incontrarla presto a Roma, e mi raccomando sempre alle sue efficaci preghiere, come servitore ed amico affezionatissimo. Grosoli» 14 .
Nessuno pareva in grado di ostacolarlo, almeno apertamente; nemmeno il Presidente del Consiglio dei Ministri Francesco Saverio Nitti 15 , benché il Barnabita rimanesse ben saldo nelle sue idee di sempre, che convergevano nella difesa dei diritti del Vangelo nella società italiana, tutta, anche quella del profondo Sud: «Arrivo una domenica a Y [paesino della Basilicata] donde ero stato invitato, dove ero stato annunciato. Tableau! Nessuno ad attenderci all'arrivo dell'automobile pubblica. Nessuno, fuori d'un buon cristiano, che non è del paese, il quale ci spiegò in fretta la situazione che si potrebbe definire "il Sindaco nell'imbarazzo". Un sindaco massone infatti non può da una parte rifiutarsi a una Conferenza patriottica d'un Cappellano militare, che per giunta (modestia a parte) gode di una certa notorietà, che è stato alla fronte (formula magica… rituale… efficacissima). Ma dall'altra, come si fa ad andare in Chiesa, a sentire il prete? ché il Cappellano militare, si ha un bell'indorar la pillola, mascherare la realtà, è, e rimane, un prete. Il caso è grave. I princìpi anticlericali non sono meno sacri dei patriottici. Andiamo dal Sindaco in Municipio… dal Sindaco, un bel faccione, nato fatto per non ricevere delle sicure impronte ideali. Ci accoglie colla impeccabile cortesia meridionale; sempre salve le forme qui. Verrà in Chiesa: farà uno strappo alla coscienza laica. Ma aspetta la Conferenza, vuole la Conferenza; un discorso laico o quasi, a base del solito frasario che, proprio per essere il solito, per essere frasario, ha perso e perde ogni bellezza. Me lo dice, me lo ripete, per poco non me lo impone. Bisogna che io lo richiami al senso della realtà, che, cioè, fino a prova contraria, manipolare i discorsi è affar mio, più che suo. So quello che devo dire e anche quello che devo tacere. Raramente sentii come quella mattina il vuoto ridicolo se non fosse rattristante della religione laica… come chi dicesse musica silenziosa, arit-
Filippo M. Lovison [6] di S. Chirico Raparo una somma per i lavori da eseguirsi colà. Anche a nome dei mie comprovinciali, la ringrazio di vero cuore. Gradirò suo cortese riscontro a Roma -Camera dei Deputati -dove mi recherò domani. ----metica senza numeri. È la povera religione delle Logge dove non si prega mai, dove di Dio si parla poco per non parlarne troppo male, e dei preti si parla malissimo senza averne paura di parlarne troppo: religione di uomini che usano trattarla pari a pari del Padre Eterno. La ignoranza sarebbe meno antipatica senza quel sussiego di pose, e quel falso scintillio di frasi. Il guaio si è che questa mentalità borghesissima, filistea, arida e secca e presuntuosa, ha generato una indifferenza pratica che dall'alto, col facile contagio delle cattive abitudini, è discesa in basso» 16 .
Guardato con rispetto per il suo recente e sofferto passato di patriota e di sacerdote, Semeria non venne mai direttamente perseguitato dal Fascismo, benché non potesse abbassare la guardia sia nei confronti del medesimo come dei ritrovati "ritornelli" della sua sempre discutibile ortodossia, che lo costrinsero a scrivere una lettera aperta al P. Gemelli: L'epilogo di una controversia a proposito del volume Scienza e Fede 17 . Semeria era pur sempre Semeria! Eccezionale singolarità che non poteva essere sorvolata se non a costo di strattonare indebitamente quella sua nera tonaca sempre più svolazzante, disinvolta e onnipresente tra i figli del popolo, gli orfani di guerra, da un lato all'altro dell'Italia, per fondare orfanotrofi, asili, scuole, laboratori, colonie agricole, come tra le case degli industriali e gli uffici governativi, per chiedere sovvenzioni e contributi 18 . Consapevole di sé, poteva ancora permettersi di riflettere, di «cercare di conoscere il fascismo», come ai vecchi tempi 19 . Già, i vecchi tempi!, con le loro speranze e loro ferite, che si intrecciavano in mille modi. A questo proposito, gli scriveva il suo carissimo Luigi Cadorna:
«Egregio e caro Padre. Finalmente ho sue notizie, delle quali da molto tempo mancavo. Le sono grato degli auguri inviatimi colla sua lettera del 17. A lei che fa tanto bene, vadano pure i miei auguri, affinché possa raccogliere nella vita operosa le migliori soddisfazioni. Io mi sono da ieri l'altro rifugiato tra questi monti, mentre mia mogie e Carla sono andate in Svizzera, ove le raggiungerò in Settembre, per ritornare poi a fine d'ottobre a Firenze. L'Orlando è ignominiosamente caduto, come meritava, ma la situazione che ha lasciato è assai grave. Coll'avvento del corrotto Nitti (inevitabile dal punto di vista prettamente parlamentare) si apre l'aperta guerra tra l'Italia putrida del passato e l'Italia sorta dalla guerra. Questa non potrà che trionfare, ma attraverso quali vicende? Ed io che non sono più buono a nulla, rimarrò a contemplare gli avvenimenti da questa solitudine, in attesa… del verdetto della Commissione d'inchiesta. Spero che nelle sue peregrinazioni capiterà anche da queste parti. Ed intanto voglia gradire i miei cordiali saluti e quelli di mia sorella. Suo Affezionatissimo L[uigi] C[adorna]» 20 .
Da qui il suo sguardo vigile e attento su quanto maturava in quel fatidico anno 1919, i cui pallidi primi riflessi amplificava poi a gran voce dalle pagine dei quotidiani e riviste cattoliche, ragionando, per esempio, sulle motivazioni del suo amore di patria che lo portavano sulle barricate della difesa dello Stato costituito 21 ; amore tanto forte quanto necessariamente e temporaneamente insensibile anche ai sussulti della piazza; per lui era un dovere, era una necessità!, come quando al fronte era toccato proprio a lui l'ingrato compito di predicare ai soldati il valore del sacrificio supremo. Lontano da ogni richiesta di azione repressiva, chiedeva «solo che si faccia una diagnosi profonda di un perturbazione che nessuno, a meno di essere anarchico, può esimersi dal battezzare per patologica», auspicando, da parte dei buoni cattolici, la preparazione di homines novi per uno Stato, finalmente, con la "s" maiuscola: «Quello che è accaduto, che accade in Italia, un po' dappertutto, poteva materialmente essere molto più grave: data la mirabile assenza della autorità pubblica in certe ore ed in certi luoghi, i saccheggi potevano essere più vasti e più vandalici; data l'esasperazione delle parti potevano i colpi micidiali essere più numerosi. Forse per questa minore gravità la massa in genere si mostra relativamente poco impressionata e pavida. Né noi vogliamo turbare questa calma relativa, gettare panico vile e malo consigliere. Ma se invece di guardare alla materiale entità dei fatti, se ne scruta la natura morale, sono, bisogna convenirne, assai gravi. E forse il più grave, voglio dire il più sintomatico fra tutti, fu il sostituirsi quasi sempre pacifico, di nuove e certo illegali, se non illegittime, autorità popolari (le Camere del Lavoro), alle autorità che fin qui passavano per le sole legittime: le autorità dello Stato. Le
Filippo M. Lovison [8] ----20 ASBR, Lettere Semeria, cartellina 100, Busta 6, lettera inedita del Generale Luigi Cadorna a P. Giovanni Semeria, Torre Pellice, Torino, 23 giugno 1919. 21 Vedi G. SEMERIA, Sulle tombe dei nostri morti parole di gloria e di conforto, in «Mater Divinae Providentiae -Mater Orphanorum», Numero unico, In Memoriam, Roma, novembre 1921, pp. 5-6. apparenze pacifiche, in questo caso, danno anche un sapore più piccante alla sostanza della cosa. In molte città bastò a far rispettare i negozi dalla folla avida di saccheggiarli, la scritta "consegnate le chiavi alla Camera del Lavoro"; altrove i membri della suddetta Camera, senza ombra di resistenza da parte dei cittadini interessati, senza timore di biasimo o condanna da parte dell'autorità statale, requisirono non solo i generi alimentari di prima necessità, ma addirittura le automobili. Una sostituzione in regola di una autorità privata alla autorità pubblica. L'assenteismo di queste autorità, dal Ministero ai Sottoprefetti, prima dello svolgersi rapido, violento dei fatti -la mancanza di reazione poi -il non avere né una parola di biasimo, né un accento di protesta, gareggiano in gravità fra di loro. Pigre e torbide prima del colpo, non hanno dopo neanche la forza di reagire; si lasciano prevenire come dei dormienti e schiaffeggiare come degli inconsci. A questo ha ridotto sé medesimo, in mezzo secolo di esercizio, lo stato liberale borghese: questo Stato che a parole ha ostentato una coscienza ipertrofica della sua autorità, che le sue balde pretese ha saputo far valere contro gli inermi e i miti. Io penso con tristezza ai begli articoli che sul Resto del Carlino ci regalava Giovanni Gentile sullo Stato come espressione suprema dello Spiri-to… coll's maiuscola, che vorrebbe poi dire Dio, un Dio molto hegeliano, ma in fine Dio. Lo Stato divino! Bella figura gli fanno fare proprio i suoi devoti. Quei devoti che sono, bisogna confessarlo, tutto zelo (e che zelo) quando si tratta di difendere i diritti, le prerogative dello Stato di fronte alla Chiesa, vulgo ai preti! Che un povero prete, un parroco di campagna si arbitri d'insegnare a dieci marmocchi l'alfabeto senza permesso dello Stato, personificato, per suo strazio, nella scurissima figura di un Vice-ispettore di VI classe, oibò! non lo tollererà l'onorevole Celli che dicono vegli con fraterno (framassonico) zelo sulla educazione popolare. Ma che un Segretario (specie di vice-parroco laico) della Camera del Lavoro requisisca tutto un magazzino di stoffe, o una fiammante automobile, esercitando Lui senza tanti complimenti quel ius imperii che si credeva prerogativa dello Stato, non se ne darà per inteso neanche S.E. l'onorevole Nitti. Bazzecole! Così, dopo aver negato a Dio quello che era di Dio, Cesare non sa più rivendicare a se stesso ciò che è suo. Così finisce di impotenza e viltà questo Stato laico e borghese. Laico ha perduto la coscienza vera e granitica dei suoi diritti; borghese rinuncia ai suoi diritti poiché ha perso l'abitudine di fare il suo dovere. Da un pezzo essere Ministro significa soprattutto godersi gli onori e i pochi quattrini che il Ministero rappresenta. Il giorno in cui il dovere non è più quello comodissimo e dolce di riscuotere lo stipendio, o quello stupido di firmare delle carte, ma quello virile, sacro d'assumere responsabilità, fronteggiare pericoli, incontrare odiosità, allora è la abdicazione. Questa pochezza governativa e statale è la espressione della fiacchezza generale borghese. La borghesia, la classe da cui escono i nostri uomini di Governo, 99 volte su 100, non ha avuto nessuno scatto, e fa bene, ma non ha avuto neppure essa nessuna agile iniziativa, nessuna ragionata protesta, e non è un bene. La borghesia si ritira, si eclissa. O meglio continua la sua ritirata. La quale dura da un pezzo, silenziosa, inconscia, inavvertita da molti, ma c'è. Gelosa dei suoi diritti, gelosa dei suoi beni, che cosa ha fatto una buona parte della nostra borghesia, della così detta nobiltà, che poi ora politicamente ed economicamente è borghesia, per il bene altrui, per i suoi doveri? Che cosa ha fatto per illuminare, per dirigere il popolo? Egoista non ha trovato né la parola giusta, né il gesto opportuno, salvo poche, troppo poche eccezioni. E sono venute su le Camere del Lavoro, un misto di proletari e di mestatori. Gente operosa, intraprendente. Certo queste Camere del Lavoro, questi nuclei proletari, hanno in questi giorni giocato d'audacia: hanno praticato l'abile politica del colpo di mano. I più occupati tra i socialisti non si illudono: non considerano quanto è accaduto come un termometro di dinamica reale e costante. L'aver potuto governare per un giorno non vuole ancora dire maturità a governare per sempre. L'aver contribuito a una soluzione ultraillusoria, sì ultraillusoria, del terribile problema economico, non vuol dire capacità di soluzioni reali. Se il gesto non celasse un pericolo mortale, quasi ci sarebbe da obbligare questi statisti improvvisatissimi a gestire l'annona pubblica in queste ore difficilissime, delicatissime. Hanno giocato d'audacia. Ma se il gioco è riuscito, come è riuscito, vuole anche dire che questi nuclei godono di una fiducia, presso molti elementi, superiore a quelle di cui godono le autorità governative. Quelli hanno saputo fare ciò che questi non hanno osato tentare. Sono riusciti… la popolazione li ha appoggiati. L'appoggio non durerebbe a lungo. Se dopo aver requisito i negozi belli e interi in modo sommario, dovessero realmente approvvigionare la folla, ben presto questa consacrerebbe ai suoi cari rappresentati quei moccoli (e non solo moccoli) che ha di questi giorni consacrati in così facile abbondanza ai Sindaci, ai Prefetti, alle Guardie di Pubblica Sicurezza e ai RR. Carabinieri, ma oggi il favore popolare c'è stato, c'é. Sarebbe vano dissimularlo. Assenteismo governativo, viltà borghese, audacia proletaria, favore pubblico per i nuovi organi popolari, spiegano il lato più grave dei fenomeni ai quali abbiamo assistito. Economisti, noi ci chiediamo attoniti se sia questo sciupio della merce il vero modo di farla abbassare, se i decreti frettolosi degli incompetenti possano costituire una reale e stabile provvidenza: patrioti, noi ci chiediamo angosciati se sia questa la buona tattica per rialzare il prestigio dell'Italia all'estero ottenendo quei risultati che saranno anche economicamente così importanti. Uomini politici, poiché lo siamo, lo vogliamo essere, noi non invochiamo con parole roboanti misure repressive -chiediamo solo che si faccia una diagnosi profonda di una perturbazione che nessuno, a meno di essere anarchico, può esimersi dal battezzare per patologica. La casta che ci governa dal 1876 in poi, vera casta, vera scuola, se la parola casta non piace, ha educata se stessa e noi alla concezione vile ed egoistica della funzione direttiva. Bisogna rieducarci. In questo senso il Paese oggi più che mai chiede degli homines novi; capaci, avidi di iniziative e di responsabilità. E sei i vecchi non sanno, non vogliono convertirsi, sappiano i giovani che non basta sostituire i vecchi; il problema non è di persona, è di spirito. La patria ha ancora bisogno non di eunuchi burocratici, ha bisogno supremo di soldati forti e generosi… generosi soprattutto e buoni. A noi cattolici il prepararglieli» 22 .
Filippo M. Lovison [8] ----apparenze pacifiche, in questo caso, danno anche un sapore più piccante alla sostanza della cosa. In molte città bastò a far rispettare i negozi dalla folla avida di saccheggiarli, la scritta "consegnate le chiavi alla Camera del Lavoro"; altrove i membri della suddetta Camera, senza ombra di resistenza da parte dei cittadini interessati, senza timore di biasimo o condanna da parte dell'autorità statale, requisirono non solo i generi alimentari di prima necessità, ma addirittura le automobili. Una sostituzione in regola di una autorità privata alla autorità pubblica. L'assenteismo di queste autorità, dal Ministero ai Sottoprefetti, prima dello svolgersi rapido, violento dei fatti -la mancanza di reazione poi -il non avere né una parola di biasimo, né un accento di protesta, gareggiano in gravità fra di loro. Pigre e torbide prima del colpo, non hanno dopo neanche la forza di reagire; si lasciano prevenire come dei dormienti e schiaffeggiare come degli inconsci. A questo ha ridotto sé medesimo, in mezzo secolo di esercizio, lo stato liberale borghese: questo Stato che a parole ha ostentato una coscienza ipertrofica della sua autorità, che le sue balde pretese ha saputo far valere contro gli inermi e i miti. Io penso con tristezza ai begli articoli che sul Resto del Carlino ci regalava Giovanni Gentile sullo Stato come espressione suprema dello Spiri-to… coll's maiuscola, che vorrebbe poi dire Dio, un Dio molto hegeliano, ma in fine Dio. Lo Stato divino! Bella figura gli fanno fare proprio i suoi devoti. Quei devoti che sono, bisogna confessarlo, tutto zelo (e che zelo) quando si tratta di difendere i diritti, le prerogative dello Stato di fronte alla Chiesa, vulgo ai preti! Che un povero prete, un parroco di campagna si arbitri d'insegnare a dieci marmocchi l'alfabeto senza permesso dello Stato, personificato, per suo strazio, nella scurissima figura di un Vice-ispettore di VI classe, oibò! non lo tollererà l'onorevole Celli che dicono vegli con fraterno (framassonico) zelo sulla educazione popolare. Ma che un Segretario (specie di vice-parroco laico) della Camera del Lavoro requisisca tutto un magazzino di stoffe, o una fiammante automobile, esercitando Lui senza tanti complimenti quel ius imperii che si credeva prerogativa dello Stato, non se ne darà per inteso neanche S.E. l'onorevole Nitti. Bazzecole! Così, dopo aver negato a Dio quello che era di Dio, Cesare non sa più rivendicare a se stesso ciò che è suo. Così finisce di impotenza e viltà questo Stato laico e borghese. Laico ha perduto la coscienza vera e granitica dei suoi diritti; borghese rinuncia ai suoi diritti poiché ha perso l'abitudine di fare il suo dovere. Da un pezzo essere Ministro significa soprattutto godersi gli onori e i pochi quattrini che il Ministero rappresenta. Il giorno in cui il dovere non è più quello comodissimo e dolce di riscuotere lo stipendio, o quello stupido di firmare delle carte, ma quello virile, sacro d'assumere responsabilità, fronteggiare pericoli, incontrare odiosità, allora è la abdicazione. Questa pochezza governativa e statale è la espressione della fiacchezza generale borghese. La borghesia, la classe da cui escono i nostri uomini di Governo, 99 volte su 100, non ha avuto nessuno scatto, e fa bene, ma non ha avuto neppure essa nessuna agile iniziativa, nessuna ragionata protesta, e non è un bene. La borghesia si ritira, si eclissa. O meglio continua la sua ritirata. La quale dura da un pezzo, silenziosa, inconscia, inavvertita da molti, ma c'è. Gelosa dei suoi diritti, gelosa dei suoi beni, che cosa ha fatto una buona parte della nostra borghesia, della così detta nobiltà, che poi ora politicamente ed economicamente è borghesia, per il bene altrui, per i suoi doveri? Che cosa ha fatto per illuminare, per dirigere il popolo? Egoista non ha trovato né la parola giusta, né il gesto opportuno, salvo poche, troppo poche eccezioni. E sono venute su le Camere del Lavoro, un misto di proletari e di mestatori. Gente operosa, intraprendente. Certo queste Camere del Lavoro, questi nuclei proletari, hanno in questi giorni giocato d'audacia: hanno praticato l'abile politica del colpo di mano. I più occupati tra i socialisti non si illudono: non considerano quanto è accaduto come un termometro di dinamica reale e costante. L'aver potuto governare per un giorno non vuole ancora dire maturità a governare per sempre. L'aver contribuito a una soluzione ultraillusoria, sì ultraillusoria, del terribile problema economico, non vuol dire capacità di soluzioni reali. Se il gesto non celasse un pericolo mortale, quasi ci sarebbe da obbligare questi statisti improvvisatissimi a gestire l'annona pubblica in queste ore difficilissime, delicatissime. Hanno giocato d'audacia. Ma se il gioco è riuscito, come è riuscito, vuole anche dire che questi nuclei godono di una fiducia, presso molti elementi, superiore a quelle di cui godono le autorità governative. Quelli hanno saputo fare ciò che questi non hanno osato tentare. Sono riusciti… la popolazione li ha appoggiati. L'appoggio non durerebbe a lungo. Se dopo aver requisito i negozi belli e interi in modo sommario, dovessero realmente approvvigionare la folla, ben presto questa consacrerebbe ai suoi cari rappresentati quei moccoli (e non solo moccoli) che ha di questi giorni consacrati in così facile abbondanza ai Sindaci, ai Prefetti, alle Guardie di Pubblica Sicurezza e ai RR. Carabinieri, ma oggi il favore popolare c'è stato, c'é. Sarebbe vano dissimularlo. Assenteismo governativo, viltà borghese, audacia proletaria, favore pubblico per i nuovi organi popolari, spiegano il lato più grave dei fenomeni ai quali abbiamo assistito. Economisti, noi ci chiediamo attoniti se sia questo sciupio della merce il vero modo di farla abbassare, se i decreti frettolosi degli incompetenti possano costituire una reale e stabile provvidenza: patrioti, noi ci chiediamo angosciati se sia questa la buona tattica per rialzare il prestigio dell'Italia all'estero ottenendo quei risultati che saranno anche economicamente così importanti. Uomini politici, poiché lo siamo, lo vogliamo essere, noi non invochiamo con parole roboanti misure repressive -chiediamo solo che si faccia una diagnosi profonda di una perturbazione che nessuno, a meno di essere anarchico, può esimersi dal battezzare per patologica. La casta che ci governa dal 1876 in poi, vera casta, vera scuola, se la parola casta non piace, ha educata se stessa e noi alla concezione vile ed egoistica della funzione direttiva. Bisogna rieducarci. In questo senso il Paese oggi più che mai chiede degli homines novi; capaci, avidi di iniziative e di responsabilità. E sei i vecchi non sanno, non vogliono convertirsi, sappiano i giovani che non basta sostituire i vecchi; il problema non è di persona, è di spirito. La patria ha ancora bisogno non di eunuchi burocratici, ha bisogno supremo di soldati forti e generosi… generosi soprattutto e buoni. A noi cattolici il prepararglieli» 22 .
Filippo M. Lovison [10] ----
, Lezioni dell'ora, in L'Avvenire d'Italia, 10 luglio 1919. Fondato il 1° novembre 1896 da Giovanni Grosoli e Giovanni Acquaderni con il nome di L'Avvenire, "la libera voce del cattolicesimo italiano" fu un costante punto di riferimento per i fuoriusciti dal PPI, favorevoli a una qualche forma di collaborazione col Fascismo. Da tale giornale nacque successivamente la testata cattolica Avvenire. Nel marzo del 1919, a Piazza San Sepolcro a Milano, Mussolini aveva dato vita ai "fasci di combattimento".
Appena tre giorni più tardi, sulla stessa testata giornalistica bolognese diretta da Filippo Crispolti, deputato del Partito Popolare 23 , appariva quest'altro suo intervento, nel quale riaffermava con forza e lungimiranza la centralità dell'unica vera questione del momento: quella morale! «Cent'anni fa, all'ingrosso, il grido di riforma e di salvezza politico-sociale fu: abbasso la nobiltà! Viva la borghesia, il terzo stato! La nobiltà era allora, o pareva, il grande nemico, il male dell'universo. Piove? Governo ladro. Pioveva troppo allora! la colpa era dei nobili, i vecchi nobili; gli orgogliosi e oziosi nobili. Liquidarli bisognava, senza misericordia, insediando in loro vece la borghesia. Le ascensioni della borghesia erano il vangelo della redenzione umana. Guai a chi le contrastava! Guai a chi pur senza contrastarle, se ne mostrasse poco entusiasta! Era un retrogrado, un codino, un sanfedista, era un anacronismo vivente; testa piccola e cuore chiuso ai grandi soffi della vita moderna. Non c'è da faticar troppo per ritrovare discorsi, articoli di cent'anni fa intonati su queste due note: la nobiltà, ecco il nemico! La borghesia, ecco la grande speranza! Cent'anni sono passati; e io non dirò che si sia arrivati alla riabilitazione della nobiltà; certo siamo arrivati alla critica della borghesia. E che critica! Tutto ciò che la borghesia, il terzo stato dicevano contro la nobiltà, oggi si ripete contro di essi dal quarto stato, dal proletariato. La borghesia è oggi il nemico, il male dell'universo. Se ne invoca la liquidazione. Le speranze più balde, più sicure sono nel proletariato, purché, bene inteso, non se ne contrastino le ascensioni. Ah! quando non più i vili borghesi, cupidi, interessati, prepotenti, ma il proletariato, il mite, il virtuoso, il disinteressato proletariato avrà finalmente il sopravvento, e non solo dominerà tutta la società, ma la assorbirà; quando potrà dire con verità ciò che Luigi XIV diceva con orgoglio il Re: "lo Stato sono io", allora avremo finalmente la vera civiltà, quella civiltà e quella felicità di cui questo vile mondo borghese, non ha saputo darci che promesse e speranze del pari mendaci. La stereotipia del discorso numero due, discorso proletario, antiborghese, e del discorso numero uno, discorso borghese antinobiliare, fa temere fortemente ad ogni spirito riflessivo che uno valga l'altro. In realtà [11] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 271 peccano entrambi della stessa fatuità gonfia e superficiale. Cent'anni fa il partito borghese, diverso in parte dalla borghesia, come il partito proletario non è proprio identico al proletariato, creava in un impeto di passionalità superficiale, piuttosto un capro espiatorio che un vero responsabile; il vero responsabile del male innegabile della società. La colpa era dei nobili. E come superficialmente indagava la causa, faziosamente proponeva il rimedio: i borghesi al posto dei nobili, come chi dicesse: gli angeli al posto del diavolo. Ahimè! questa parola tradisce tutto il vizio dell'argomento. Lasciamo stare se i nobili fossero demoni; certo i borghesi non erano angeli. Nobili e borghesi erano uomini, malati delle stesse miserie, capaci delle stesse iniquità. E ciò non voleva dire che non si potesse o non si dovesse raffrenare anche per via di leggi sociali e politiche le prepotenze dei nobili; ma ciò voleva dire che non si sarebbe avvantaggiato un gran che sostituendo alla prepotenza degli uni la prepotenza degli altri, i vizi degli uni, i vizi degli altri. Uomini, i borghesi avrebbero finito per riprodurre i vizi nobiliari se non frenati moralmente nelle loro passioni, e se in queste, per via di adulazione, radicati ed esaltati. E così accadde, perché lo ripetiamo, uomini erano anche i borghesi, e perché (avendo dimenticato questa verità così elementare) non si lavorò ad educarli cristianamente, a imbrigliarne e atrofizzarne con lento, assiduo lavoro, le loro umane passioni. Il guaio si è che oggi si ripete lo stesso errore, la stessa severità arcigna contro la borghesia, la stessa adulazione per il proletariato. A sentire certi apostoli, ad abbracciarne la complessiva predicazione orale e scritta (e più la orale che la scritta, perché per un resto di pudore si fanno cancellare dalla stampa le frasi scottanti del comizio), si ha l'impressione che il proletariato, per il partito proletario, sia impeccabile come lo erano una volta i borghesi. In realtà il male è più profondo e il rimedio deve essere più radicale. Il Cristianesimo ce lo ha insegnato e noi non abbiamo che da rammentarlo assiduamente a noi e agli altri. Mettere i proletari al posto dei borghesi, lasciando stare ciò che parole simili hanno di fatalmente vago, è una operazione politica che può essere necessaria, che può sopratutto piacere ai proletari, ma che non avanza praticamente ed efficacemente il problema della umana felicità, se i proletari non abbiano corretti in se quei vizi che hanno finito per rendere esoso e insopportabile il regime borghese in certi luoghi e a certe ore della prova contemporanea. Non giova cangiare posizione nel letto quando si ha il male nel corpo. Non giova capovolgere la società se non si corregge. Per noi cristiani sono queste delle verità elementari… dovrebbero esserlo del resto anche per i non cristiani, quando fossero un po' veggenti e sinceri, tanto sono banalmente elementari. Se a questa verità ci terremo stretti per davvero, in teoria e in pratica, si smusseranno molte golosità o piuttosto si dissiperanno molti equivoci. I temperamenti conservatori avranno meno paura di chi promuove le ascensioni del proletariato, quando vedrà che si lavora sul serio alle ascensioni morali o spirituali di esso, non a sole ascensioni economiche e politiche che senza il miglioramento spirituale sono impossibili o effimere. E i temperamenti democratici lavorando a queste ordinate ascensioni integrali, cominciando perciò dalle spirituali, su queste insistendo, dicendo perciò al popolo quelle verità che non giovano sempre lì per lì a conquistare o conservare la medaglietta, ma giovano a miglioralo e quindi ad elevarlo veramente -segneranno una linea Alcuni recenti studi, se evidenziano le dinamiche del compromesso consumatosi tra Chiesa e Fascismo rinviando a una precisa cultura ed ecclesiologia di impronta tridentina, non paiono comunque ritrovare il P. Semeria tra i suoi protagonisti di allora 25 . I possibili benefici derivanti, per esempio, in campo scolastico, come la tanto auspicata Conciliazione, non portarono il Barnabita a ipotizzare una limitazione della Chiesa all'ambito prettamente "religioso", togliendole quell'alta funzione di civiltà alla quale aveva consacrato tutta la sua vita 26 . Era questo il suo cruccio che lo spingeva continua- [13] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 273 ----
, Da un feticcio all'altro, in L'Avvenire d'Italia, 13 luglio 1919. Per un'utile riflessione, occorre ricordare come alla fine del medesimo anno venivano pubblicate a Milano le sue Lettere pellegrine (1 a Edizione "Vita e Pensiero"); frutto dei suoi viaggi alla scoperta delle regioni della Basilicata e della Calabria, in vista della nascita, nel 1920, dell'"Opera per il Mezzogiorno d'Italia". Sorprende la sua tenace ricerca di comprensione amorevole delle realtà sociali e politiche che incontrava. Si vedano, per esempio, i suoi riferimenti critici ai problemi legati al latifondo, sia nei confronti dello slogan "la terra ai contadini" (cfr. G. SEMERIA, Lettere pellegrine, Venosa 1991, pp. 65-67), sia nei confronti dei grandi proprietari assenteisti: i Doria di Avigliano: «Percepire la rendita e basta. Tosar la pecora e basta. Non sono un bolscevico… occorre dirlo? Sto anzi diventando un po' reazionario di fronte alle bricconate e alle vanità bolscevicoidi. Sono più che mai convinto della bontà della organizzazione individuale della proprietà, perché, a tutt'oggi, la molla individuale mi sembra la più efficace per ottenere, attraverso il lavoro fervido, quella produzione copiosa, che sta alla base d'ogni distribuzione equa e sufficiente. Mi urtano i nervi le forme generiche, vaporose: la terra ai contadini… il latifondo ecco il nemico. Ma proprio quando si crede alla proprietà individuale in nome del lavoro, come si fa a giustificare la proprietà di chi non fa nulla, assolutamente nulla per beccarsi le centinaia di migliaia di Lire annue? Siamo ragionevoli, per bacco!» (Ibidem, p. 122). 25 «La Santa Sede cadde nella trappola tesale da tempo da Mussolini: quella cioè di ridurre la Chiesa in Italia soprattutto a un apparato di potere -quindi ampiamente manovrabile sulla base di scambi di interessi -limitandone le funzioni all'ambito 'religioso', ma di fatto spogliandola, dal punto di vista sociale e della coscienza nazionale, della sua alta funzione civilizzatrice che è il segno concreto della sua perenne adesione al Vangelo. L'incapacità della gerarchia ecclesiastica a comprendere tale passaggio, va principalmente addebitata alla cultura religiosa del tempo. Per lo più ancora di impronta tridentina (almeno in ambito ecclesiologico), e anche ai limiti della formazione teologica e culturale del clero, anche di quello preposto al governo della Chiesa, ancora profondamente segnato dagli epigoni della lotta contro il modernismo» (SALE, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione cit., p. 72). 26 Vedi i suoi interventi di critica e di correzione alla pedagogia fascista, per quanto riguarda la ginnastica, l'istruzione, lo sport. Circa quest'ultimo importante aspetto: «Stupisce che sia stato un movimento come quello cattolico, tradizionalista e legato a modelli della civiltà rurale, a comprendere per primo il significato di una pratica propria del mondo industriale, come lo sport, e non un partito come quello socialista, rivolto alla nuova realtà della fabbrica, ma che, comunque, rivelò un forte ostruzionismo alle pratiche sportive. Lo sport cattolico fu il movimento che riuscì a resistere più a lungo -seppur tra mille difficoltà -all'affermazione dell'ideologia fascista nel campo dell'attività fisica» (F.M. VARRASI, Economia, politica e sport in Italia (1925)(1926)(1927)(1928)(1929)(1930)(1931)(1932)(1933)(1934)(1935). Spesa pubblica, organizzazioni spor-mente a interrogarsi sulla vera natura del Fascismo, al quale si doveva rispondere con «una guida morale più sicura nel clero». Per rendersene conto, basta leggere, dello stesso periodo, il suo scritto inedito dal titolo Il Fascismo in Provincia, senza data, ma verosimilmente composto tra il 1919-1922, in virtù dei costanti riferimenti al viaggio esplorativo da lui compiuto -spinto dalla carità verso gli orfani di guerra -in alcune regioni del Mezzogiorno d'Italia, oltre ai richiami inerenti ai governi Nitti e Giolitti.
«Persisto a credere interessante lo studio dal vero della provincia; interessante per gli italiani e per gli stranieri che vogliono conoscere l'Italia. Povera Provincia! È la cenerentola, ma è il serbatoio delle forze nuove. Torno da un giro in Calabria, sempre pro orfani di guerra: ho fatto prediche, ho tenuto conferenze, ho conversato con ogni genere di persone nei paesi, al circolo dei galantuomini, dove si fa la politica provinciale, nelle case private, in treno, di notte in attesa del treno coi ferrovieri, di giorno in diligenza con i viaggiatori compagni di pena, o con il cocchiere a cassetta. Il mondo vero lo si scopre così. E io cercavo specialmente di conoscere il fascismo. Le cui manifestazioni ufficiali sono notissime, fin troppo note, ma la cui realtà profonda è qui. Più d'uno con quei giudizi sbrigativi e spicci che piacciono tanto in conversazione e fanno fortuna su per i giornali, ha sentenziato che il fascismo è spontaneo, autoctono al Nord, è importazione e imitazione al Sud. Naturalmente è partito da questo principio, che il Fascismo vuol dire reazione antisocialista (vero, ma vero parzialmente) e dal fatto (mezzo vero anch'esso) che il socialismo è, non dico in Italia, non meridionale. Orbene: il fascismo è anche reazione antisocialista. Ma pure sotto questo rispetto non gli sono mancati degli addentellati per venire su se non proprio autoctono, fiorente non appena importato. Il Sud Italia ha visto nel dopoguerra la marea se non socialista, socialistoide. Anche al Sud ci sono signori, e questi signori non hanno attraversato il quarto d'ora più lieto della loro vita consulibus Nitti e Giolitti, quando al Nord gli operai occupavano allegramente le fabbriche, ma al Sud i contadini si preparavano ad occupare non meno lietamente le terre. Il fascismo meridionale è un po' lì, reazione antisociali-stoide… Però non è tutto lì. Mi è parso di vedere un lineamento del fascismo proprio al Sud, un lineamento già visto da altri, non fosse abbastanza sottolineato, e che un giorno forse ci spiegherà e ci permetterà di spiegare parecchie cose. Il fascismo è la irruzione della forza, degli elementi giovani, a cui la guerra, questa enorme rivoluzione, ha dato una coscienza del proprio valore che in altri tempi e in altre circostanze i giovani venticinquenni non solevano avere. La guerra ha dato ai ventenni delle sensazioni vertiginose. Hanno avuto dei doveri tremendi da compiere, ma hanno anche avuto l'occasione di esercitare dei doveri strani. A vent'anni hanno comandato con una intensità e un'estensione che in tempi di pace non si riusciva a raggiungere nemmeno a quaranta anni. La modestia non è la virtù dei giovani. E questi giovani che in guerra ebbero la sensazione ch'essi salvavano il paese, che se le sono sentite dir da altri queste cose di cui un po-
Filippo M. Lovison [10] ----
Filippo M. Lovison [14] tive specializzate, impianti ed espansione delle pratiche agonistiche amatoriali e "professionistiche" in un paese a regime autoritario, Tesi di laurea discussa nella Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Firenze, Anno Accademico 1994-1995, p. 86).
----chino erano già convinti di per sé. Questi giovani tornati a casa non hanno poi potuto tornare alla solita vita, hanno voluto salvare ancora il paese, salvarlo colla energia, con quel ferro da chirurgo che si trovavano aver maneggiato, o, via, con quel polso fermo che solo permette il maneggio sicuro e benefico di quel ferro. I giovani idealisti sono perciò i rappresentanti più simpatici e anche più autentici del fascismo.
Filippo M. Lovison [14] tive specializzate, impianti ed espansione delle pratiche agonistiche amatoriali e "professionistiche" in un paese a regime autoritario, Tesi di laurea discussa nella Facoltà di Economia dell'Università degli Studi di Firenze, Anno Accademico 1994-1995, p. 86).
----chino erano già convinti di per sé. Questi giovani tornati a casa non hanno poi potuto tornare alla solita vita, hanno voluto salvare ancora il paese, salvarlo colla energia, con quel ferro da chirurgo che si trovavano aver maneggiato, o, via, con quel polso fermo che solo permette il maneggio sicuro e benefico di quel ferro. I giovani idealisti sono perciò i rappresentanti più simpatici e anche più autentici del fascismo. La Provincia ne abbondava e ne abbonda. Appartengono alla piccola borghesia i più. Hanno studiato più o meno. Qualcuno si è fermato a una Licenza, altri è arrivato alla Laurea; qualcuno a metà strada tra la Licenza e la Laurea, il Diploma: Maestro, Ragioniere, Agronomo. Un po' spostati in provincia, come del resto sarebbero e sono spostati per il loro provincialismo profondo nella capitale. Troppo sapienti per un borgo, non abbastanza agguerriti per affrontare vittoriosi le lotte della vita in una grande città. Bravi figliuoli! Lo dico con convinzione sincera. Migliori se avessero una guida morale più sicura nel clero, nelle alte classi dirigenti, nella famiglia. Questo elemento ha assimilato del fascismo la gioventù, la forza e… il patriottismo. Sono patrioti come lo è in Italia nostra, grazie a Dio, la borghesia modesta. I centri poco patriottici in Italia sono i centri operai. L'operaismo moderno è nato sotto auspici internazionali, anarcoidi. È così, dolorosamente così. Ho trovato un giovanotto solo che mi si è apertamente confessato socialista, ancora socialista, socialista tesserato: era un operaio, una specie d'operaio. I piccoli borghesi, giovani, sono diventati pseudo socialisti vent'anni fa per essere capi.
Oggi il socialismo non vanta più capi borghesi. La piccola borghesia giovane è patriottica, rimane patriottica. Questi giovani borghesi sono il miglior elemento fascista. Essi riserbano delle sorprese ai vecchi papaveri, ai cosiddetti signori che hanno visto di buon occhio, forse, hanno aiutato il nascente fascismo aspettandosene un valido sostegno conservativo. La sbagliano e molto questi signori, gridava in uno scompartimento ferroviario, pieno di fascisti, un simpatico giovanotto, improvvisandosi borghese, fascista ça va sans dire, anche lui. La sbagliano questi signorotti se credono che noi saremo il puntello dei loro cadenti privilegi, i manutengoli della loro dominazione feudale perpetuatasi stancamente pur attraverso i nuovi organismi politici. La sbagliano! E l'accento non lasciava dubbio sulla sincerità di quel linguaggio, come il coro fascistico dei presenti mostrava l'adesione di tutti a quell'ordine di idee poco conservativo. Non sono solo i privilegi feudali che subiscono le minacce del fascismo, ma anche i vecchi papaveri, ho detto e ripetuto, i moralizzatori della vita e dell'autorità politica dell'ultimo trentennio: papà venerandi e figli di papà, Massoni o giù di lì; gente abituata ad aver in casa ora il Deputato, come un giorno il prete, e a vedere il deputato di famiglia diventare Senatore, dopo essere stato sottosegretario. Questa classe politica, che in Provincia c'è, ma pare alla liquidazione: il curatore della liquidazione è il fascista. Si capisce che tutta questa gente furba, ricca, forte non stia colle mani alla cintola, corra alle difese. I nemici più pericolosi del fascismo, mi diceva un altro giovane avvocato, meno giovane del precedente, non fascista per quanto benevolo, i nemici -oltre, s'intende, quei delinquenti che confluiscono sempre verso i partiti vittoriosi, che vedono nel fascismo il manganello e il pugnale, oltre i giovincelli troppo teneri, che amano soprattutto gridar eja, eja, alalà -i nemici più pericolosi sono convertiti dell'ultima ora o membri o emissari di quella classe politica volpina che non vuol cedere il posto a elementi nuovi per davvero, puri. Fan- [15] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo no e faranno di tutto. E il problema del fascismo in provincia forse è lì. Il problema drammatico: se il fascismo rappresenterà i margini nuovi degli antichi grandi elettori e grandi eletti, o se sarà la nuova falange macedone contro le vecchie riserve elettorali. Terribile problema che fin d'ora costituisce la drammaticità di questo movimento, che creerà la convulsione di tutto questo periodo mano mano che si avvicineranno le elezioni; ossia i nodi verranno al pettine.
Non solo dai confratelli di San Carlo ai Catinari in Roma Semeria assunse la direzione della rivista mensile Mater Divinae Providentiae, aggiungendovi il sottotitolo di Mater orphanorum, ma anche promosse la rivista intercollegiale dei Barnabiti Vita Nostra 28 . Il 2 febbraio del 1921, infatti, usciva nel periodico mensile Vita Nostra del "Collegio Alla Querce" 276 Filippo M. Lovison [16] ---- 27 ASBR, Fondo Semeria, Il Fascismo in Provincia, ff. 8, ms inedito, ultimi tre fogli su carta intestata Arcipretura Parrocchiale S. Isidoro Agricola Giarre. Sia lodato Gesù Cristo. Vedi Fig. 2. 28 Interessante la sua presentazione della rivista, che svela i sentimenti del suo animo: «Cari Amici… Convittori e Allievi… presenti, passati e futuri. È un vostro collega, molto ex-collega che si rivolge a voi con una fiducia, una baldanza, vorrei dire giovanile. Gli sta a fianco, in verità, un venerabile vostro Superiore, anzi, a dirlo fra noi, sarà Lui il Direttore dell'azienda che sto per spiegarvi, ma intanto fo io da cagnolino che va avanti per mettere il campo a rumore… un bel rumore. Dunque circa cinquant'anni fa io ero convittore, scolaro come voi, perché scolaro e convittore dei PP. Barnabiti. E vi erano degli altri Padri allora che adesso sono morti e a Moncalieri (il mio collegio) li ricordano ancora… il P. Canobbio, il Piccolo Cavour, come lo chiamavano i convittori più evoluti e coscienti, per una certa sua politica con cui guidava il collegio, buono, diritto, malgrado il suo fare un po' burbero, ed il Padre Canfari, che correva sempre a fare tutte le commissioni possibili e immaginabili, e il P. Frediani, di una eloquenza, che per sfogarsi avrebbe cercate e meritate volte più ampie della nostra cappella. Ma non abbandoniamoci ai ricordi, non divaghiamo, anche perché non si pensi più vecchio di quel che sono… Oggi io rimpiango una cosa tra parecchie che non ci fosse allora tra convittori e allievi dei Barnabiti, per loro, proprio per loro, un organo di comunicazione. La causa è forse che allora non era venuto fuori il sindacalismo. Ma adesso che si vanno sindacando perfino gli scopini municipali, perché non sentiremo fremere in se l'animo sindacale dei nostri Convittori e Allievi? Nostri… Noi ci sentiamo così, o giovani, noi Padri che abbiamo dato e diamo a voi il meglio di noi, delle nostre energie di mente e di cuore. Vi penso così io pure che ahimè! ho cessato di essere Maestro nella vostra cara scuola di Genova per diventare il pedagogo degli Asili infantili dell'Italia Meridionale. Ho però trovato io il mezzo per stringere i vincoli sempre più saldi tra voi stessi e tra voi e noi: vincoli fraterni, vincoli filiali, vincoli paterni: il giornale, ossia il Periodico. Io credo questa una novità, un Periodico intercollegiale -un pe-di Firenze, un breve e curioso articolo, sempre a firma di P. Giovanni Semeria, dal titolo: Politica in diciottesimo 29 .
Figure 2
Si trattava di una vera e propria lezione di educazione civica, rivolta a quei giovani che studiavano nel prestigioso Istituto del proprio Ordine religioso, per suggerire «poche idee chiare su certe questioni grosse o rumorose»; tra queste, il Fascismo, appunto, all'indomani, tra l'altro, della domenica del 21 novembre 1921, che aveva insanguinato Bologna: nota come "i fatti di Palazzo Accursio". In essa appare evidente il tema del disordine causato dall'irresponsabile assenza dello Stato e, quindi, della sua autorità; da qui le conseguenti distorsioni delle "violenze legali", che si ponevano comunque nell'immediato a difesa dell'ordine costituito -«nasce da un guaio un altro guaio [il Fascismo], che è guaio insieme e rimedio» -ma che in ogni caso non può «in quanto è forza o violenza, non può essere uno stato, una condizione permanente». Semeria guarda già avanti, al domani consegnato nelle mani di quei giovani 30 , a cui dedica l'anelito finale: «Noi vogliamo che il fascio un giorno si chiami Italia». [17] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 277 riodico che parli a tutti i Convittori di un determinato gruppo e dove i convittori possono parlare -che dice ai genitori le opere dei figli e ai figli i desiderata dei genitori, ai genitori coi figli i sogni, gli ideali dei loro Educatori -che sia un eccitamento e una palestra, una sorgente di luce e uno specchio… Eppure è un'idea tanto semplice. Come formiamo una famiglia noi PP. Barnabiti, piccola famiglia sì. Ma di persone che si stimano, si amano, si compatiscono anche, e lavorano tutte per le stesse cause, non la formano, a loro modo, anche i nostri allievi? e poiché questa grossa famiglia è dispersa per l'Italia, anzi per il mondo (a proposito: ci sono convittori di Barnabiti anche di Rio Janeiro…!) non è naturale che si stabilisca tra i nuclei dispersi un po' di corrispondenza? Ed ecco il periodico nostro e vostro che noi vogliamo scrivere e leggere insieme con voi. Una cosa raccomando vivamente a voi, ai vostri Superiori, alle vostre famiglie: abbonarsi, abbonarsi tutti, abbonarsi in massa. Perché, è vero, una copia basterebbe per molti, ad esempio per una camerata, se… se voi foste dei micragnosi, come dicono a Roma con beata efficacia di espressione… e invece vivaddio! Voi siete dei gran signori perché avete il cuore grande. E poi avete la vostra famiglia materna, e il nostro Periodico deve entrare in ogni famiglia perché si sappia a casa la vita che si vive nel collegio, seguano gli sforzi che si fanno qui da noi per allevare bene i figlioli loro. E poi ricordatevi: principio generale che non si profitta se non leggendo bene e non si leggono bene se non i libri che si possiedono. La proprietà collettiva non esiste; non è più proprietà; non è proprio ciò che è altrui…» (G. SEMERIA, Presentazione, in «Vita nostra», Anno I, n. 1, gennaio 1921, pp. 1-3). 29 G. SEMERIA, Politica in diciottesimo, in «Vita Nostra», anno I, 2 (1921), pp. 54-56. 30 Vedi i documenti parzialmente pubblicati da Boldorini, nella sua opera citata, pp. 42 e sgg., dai quali si stralcia, per esempio, la sua avversione a ogni forma di prepotenza (pp. 50-51) o questa sua descrizione del balilla di un tempo: «… onesto eroe popolare, fanciullo d'età adulto di spirito. Egli lancia il sasso… Il Balilla non usa intanto e soprattutto non abusa di una sua forza superiore contro un debole. Il che non è sempre prepotenza, ma può esserlo facilmente e dà alla prepotenza il sapore antipatico della viltà… Il Balilla è un fanciullo, fisicamente un debole, non forte, come gli uomini… Nella sua piccola coscienza il Balilla sente un po' confusamente che quei soldati erano austriaci, quel vecchio un genovese. Lo straniero opprimeva la Patria, l'Austria l'Italia… E scatta: prende la prima cosa che gli si soffre; una pietra. E la scaglia con la sua piccola mano, col suo braccino, forte solo del senso di giustizia» (p. 50; evidenti le analogie con la trama di quel tanto contestato film di guerra che gli causò non pochi problemi, vedi LOVISON, P. Semeria nella Grande Guerra: un "caso di coscienza"? cit., pp. 215 sgg.). Ma il Balilla degli anni Venti, ----«Ecco: politica no… ma viceversa politica sì. È, ossia pare, un indovinello, ma è in indovinello che si lascia indovinare subito. Sta bene: i giovani non devono fare politica, come fino ad una certa età non devono fumare; come non debbono, fino ad una certa età, prender moglie. La politica è una sirena da cui bisogna guardarsi. E meno degli altri giovani devono farne i giovani del Collegio, ambiente un po' chiuso e dove tutto perciò esplode con maggior fracasso. In Collegio si è per studiare, per diventare uomini: prima fare i muscoli, poi esercitarli nella lotta. Sta bene… e potremmo continuare con molte altre ragioni eccellenti per scartare la politica dalla vita collegiale. Ma, viceversa, come si fa oggi ad appartarsi completamente dalla politica? A ignorarla? Il Rettore può ben chiuder l'uscio, ma non arriva a tappare le finestre. Ci sono le vacanze… ci sono (non parlo di vie obli-que… io confido che i nostri le detestino) ma ci sono gli strilloni dei giornali, gli affissi innumerevoli, i mille modi diversi per cui arzigogolano… Io vorrei fare della politica ad usum delphinorum, perché un giorno i re sarete voi… popolo sovrano, dunque oggi siete i dauphins. Non politica pettegola, politica direttiva. Poche idee chiare su certe questioni grosse e rumorose. Non poco rumoroso è il fascismo. È nato durante la guerra in Parlamento, è rinato dopo la guerra in piazza. Programma concreto: picchiare; ieri il nemico esterno, oggi il nemico interno. Lasciamo il fascismo d'ieri. Per quello d'oggi, siamo in materia delicatissima. Picchiare è un diritto e un dovere dello Stato. Lo Stato deve picchiare Lui, perché non picchi nel paese nessun altro, non individui, non gruppi. L'uso della violenza in mano dello Stato è forza; l'uso della forza per mano privata è violenza. Individui o gruppi, non conta; anche i gruppi sono privati. Ma quando lo Stato non può o non vuole fare il suo dovere, esercitare il suo diritto, e rimanendosi Stato spettatore inerte, un gruppo usa la violenza, nasce da un guaio un altro guaio, che è guaio insieme e rimedio; dal socialismo anarcoide, violento, nasce il fascismo, patriottismo violento anch'esso. La parola d'ordine è vim vi repellere. Guaio e rimedio, come chi dicesse malattia e medicina, disordine e ordine. Giano bifronte, ecco il fascismo. La sua nascita è legittima. Non si può lasciare alla teppa il diritto di massacrare i galantuomini. Dico teppa, perché il socialismo anarcoide, a Bologna, per esempio, assassino di Giordano, non è più socialismo, partito politico, gruppo per così dire sociale; è teppa. Per opporre alla violenza che uccide la violenza che difende i cittadini bolognesi e di altre città, non hanno dovuto chiedere e non hanno chiesto a nessuno. Fu un moto spontaneo: anormale, irregolare nel senso dell'anormalità, è scoppiato dal fatto del rispondere a un'altra anormalità. Un diavolo che caccia l'altro. Ma se è lecito vim 278 Filippo M. Lovison [18] continua Boldorini, per il Semeria doveva essere questo: «Per la giustizia contro la prepotenza, ecco la vera energia, ecco il Balilla. Ricordatelo giovani italiani, siate anche o non siate di nome Balilla. Ricordatelo. Contro tutte le prepotenze, per quanto siate giovani, contro chiunque si giovi della forza che ha in mano, per indebito suo vantaggio e per danno personale altrui, ricco che maltratta il povero, padrone che maltratta l'operario, operario che vilmente assale il padrone, uomo che offende la donna, giovinastro che insulta o contrista un ragazzo; contro tutte le prepotenze, giovani italiani, col cuore almeno se non potete col braccio, colle parole se non potete coll'azione, col proposito della volontà se non potete ancora coll'effetto dell'azione; contro tutte le prepotenze, in nome della giustizia, con la forza invitta e santa del coraggio, per la giustizia» (pp. 50-51).
----vi repellere, non è lecito un vim violenter inferre; lecita la difesa individuale e sociale, non la vendetta 31
Non solo dai confratelli di San Carlo ai Catinari in Roma Semeria assunse la direzione della rivista mensile Mater Divinae Providentiae, aggiungendovi il sottotitolo di Mater orphanorum, ma anche promosse la rivista intercollegiale dei Barnabiti Vita Nostra 28 . Il 2 febbraio del 1921, infatti, usciva nel periodico mensile Vita Nostra del "Collegio Alla Querce" 276 Filippo M. Lovison [16] «Ecco: politica no… ma viceversa politica sì. È, ossia pare, un indovinello, ma è in indovinello che si lascia indovinare subito. Sta bene: i giovani non devono fare politica, come fino ad una certa età non devono fumare; come non debbono, fino ad una certa età, prender moglie. La politica è una sirena da cui bisogna guardarsi. E meno degli altri giovani devono farne i giovani del Collegio, ambiente un po' chiuso e dove tutto perciò esplode con maggior fracasso. In Collegio si è per studiare, per diventare uomini: prima fare i muscoli, poi esercitarli nella lotta. Sta bene… e potremmo continuare con molte altre ragioni eccellenti per scartare la politica dalla vita collegiale. Ma, viceversa, come si fa oggi ad appartarsi completamente dalla politica? A ignorarla? Il Rettore può ben chiuder l'uscio, ma non arriva a tappare le finestre. Ci sono le vacanze… ci sono (non parlo di vie obli-que… io confido che i nostri le detestino) ma ci sono gli strilloni dei giornali, gli affissi innumerevoli, i mille modi diversi per cui arzigogolano… Io vorrei fare della politica ad usum delphinorum, perché un giorno i re sarete voi… popolo sovrano, dunque oggi siete i dauphins. Non politica pettegola, politica direttiva. Poche idee chiare su certe questioni grosse e rumorose. Non poco rumoroso è il fascismo. È nato durante la guerra in Parlamento, è rinato dopo la guerra in piazza. Programma concreto: picchiare; ieri il nemico esterno, oggi il nemico interno. Lasciamo il fascismo d'ieri. Per quello d'oggi, siamo in materia delicatissima. Picchiare è un diritto e un dovere dello Stato. Lo Stato deve picchiare Lui, perché non picchi nel paese nessun altro, non individui, non gruppi. L'uso della violenza in mano dello Stato è forza; l'uso della forza per mano privata è violenza. Individui o gruppi, non conta; anche i gruppi sono privati. Ma quando lo Stato non può o non vuole fare il suo dovere, esercitare il suo diritto, e rimanendosi Stato spettatore inerte, un gruppo usa la violenza, nasce da un guaio un altro guaio, che è guaio insieme e rimedio; dal socialismo anarcoide, violento, nasce il fascismo, patriottismo violento anch'esso. La parola d'ordine è vim vi repellere. Guaio e rimedio, come chi dicesse malattia e medicina, disordine e ordine. Giano bifronte, ecco il fascismo. La sua nascita è legittima. Non si può lasciare alla teppa il diritto di massacrare i galantuomini. Dico teppa, perché il socialismo anarcoide, a Bologna, per esempio, assassino di Giordano, non è più socialismo, partito politico, gruppo per così dire sociale; è teppa. Per opporre alla violenza che uccide la violenza che difende i cittadini bolognesi e di altre città, non hanno dovuto chiedere e non hanno chiesto a nessuno. Fu un moto spontaneo: anormale, irregolare nel senso dell'anormalità, è scoppiato dal fatto del rispondere a un'altra anormalità. Un diavolo che caccia l'altro. Ma se è lecito vim 278 Filippo M. Lovison [18] continua Boldorini, per il Semeria doveva essere questo: «Per la giustizia contro la prepotenza, ecco la vera energia, ecco il Balilla. Ricordatelo giovani italiani, siate anche o non siate di nome Balilla. Ricordatelo. Contro tutte le prepotenze, per quanto siate giovani, contro chiunque si giovi della forza che ha in mano, per indebito suo vantaggio e per danno personale altrui, ricco che maltratta il povero, padrone che maltratta l'operario, operario che vilmente assale il padrone, uomo che offende la donna, giovinastro che insulta o contrista un ragazzo; contro tutte le prepotenze, giovani italiani, col cuore almeno se non potete col braccio, colle parole se non potete coll'azione, col proposito della volontà se non potete ancora coll'effetto dell'azione; contro tutte le prepotenze, in nome della giustizia, con la forza invitta e santa del coraggio, per la giustizia» (pp. 50-51).
Storico dei Barnabiti di Roma 33 . Nel primo, intitolato Il Fascismo, rimarcando la confusione del momento, ribadisce il carattere ineluttabile della "violenza legale" fascista «nel senso che questa violenza difendeva l'ordine stabilito. Un patriottismo violento contro il nemico o i nemici interni, violento nei sentimenti, e violento nelle forme; ecco il fascismo nuovo». Lapidario nelle sue conclusioni: «Dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine. Lo Stato deve esso subentrare ai partiti, esso assidersi arbitro in mezzo a loro».
«Pochi argomenti presentano tanta confusione e tante confusioni; pochi meritano, come questo, di essere chiariti per la loro importanza. Storicamente il fascismo è nato un bel giorno durante la guerra, quando parve che il paese e nel paese e col paese il Governo non resistesse abbastanza. Pochi deputati, che poi divennero molti, si strinsero allora in una specie di fascio: il fascio delle buone volontà decise a mettere la salute del paese, minacciato di sconfitta, al di sopra di ogni altro ideale. Salus reipublicae suprema lex, decise a trasfondere dappertutto la propria energia operosa e polemica di amor patrio. In questo primo fascio politico c'era sì della confusione, perché i membri del Fascio venivano da tutto l'orizzonte politico, da destra, da sinistra, dall'estrema sinistra, perfino. Ma quella confusione non appariva, non balzava fuori, perché c'era confusione dappertutto e perché quella materia così eterogenea era fusa tutta in una massa sola dalla fiamma di un disperato amor di patria. Ma dal Parlamento il fascismo passò al paese, dalla guerra al dopoguerra. Per tutte queste prime settimane del 1921 abbiamo assistito al rifiorire del fascismo, nome e cosa. Il nome però era identico, non più la cosa. Non si trattava più di combattere il nemico esterno, e pur si trattava di combattere ancora, e precisamente un nemico interno. Questo nemico interno si chiamava socialismo; non più il vecchio socialismo, figurino tedesco, di Berlino, ma il nuovo, figurino russo, di Mosca. Questi bolscevichi in pace come in guerra vituperavano, negavano la patria:
Il suo pensiero si approfondisce in altri due inediti -non si sa ancora bene se e dove pubblicati -un tempo appartenenti all'Archivio dell'Istituto Vittorino da Feltre di Genova, e oggi custoditi nell'Archivio [19] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 279 ---- 31 Vedi il riferimento all'uso della forza in G. SEMERIA, La guerra di fronte al Vangelo, in Saggi… clandestini, II, op. cit., p. 331, citato da LOVISON, P. Semeria nella Grande Guerra: un "caso di coscienza"? cit., pp. 163-164. 32 Si fa fatica a delineare un preciso quadro di riferimento interno, benché necessariamente eterogeneo, anche se in generale la genesi dei cattolici fiancheggiatori del Fascismo nascente non pare ancora definirsi nettamente, sfumandosi alquanto tra le categorie dei filofascisti e dei clerico-fascisti (contrari a Sturzo, questi ultimi non volevano sospendere la collaborazione col Governo Mussolini). Il giudizio già ricordato di Alcide De Gasperi deve dunque fare i conti con i chiaroscuri della Storia, tanto brevi quanto dai mille volti, al punto che, prendendolo bene per le corna, il Semeria vedeva nel Fascismo di quel momento un «Giano bifronte», dai movimenti sfuggenti e imprevedibili; non si trattava tanto di lanciargli contro delle crociate alla vecchia maniera, quanto di cristianizzarlo, "battezzarlo" nella sua ormai consueta terminologia. In fin dei conti, da sacerdote, sempre aveva insegnato che il male si combatte con il bene. Storico dei Barnabiti di Roma 33 . Nel primo, intitolato Il Fascismo, rimarcando la confusione del momento, ribadisce il carattere ineluttabile della "violenza legale" fascista «nel senso che questa violenza difendeva l'ordine stabilito. Un patriottismo violento contro il nemico o i nemici interni, violento nei sentimenti, e violento nelle forme; ecco il fascismo nuovo». Lapidario nelle sue conclusioni: «Dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine. Lo Stato deve esso subentrare ai partiti, esso assidersi arbitro in mezzo a loro». «Pochi argomenti presentano tanta confusione e tante confusioni; pochi meritano, come questo, di essere chiariti per la loro importanza. Storicamente il fascismo è nato un bel giorno durante la guerra, quando parve che il paese e nel paese e col paese il Governo non resistesse abbastanza. Pochi deputati, che poi divennero molti, si strinsero allora in una specie di fascio: il fascio delle buone volontà decise a mettere la salute del paese, minacciato di sconfitta, al di sopra di ogni altro ideale. Salus reipublicae suprema lex, decise a trasfondere dappertutto la propria energia operosa e polemica di amor patrio. In questo primo fascio politico c'era sì della confusione, perché i membri del Fascio venivano da tutto l'orizzonte politico, da destra, da sinistra, dall'estrema sinistra, perfino. Ma quella confusione non appariva, non balzava fuori, perché c'era confusione dappertutto e perché quella materia così eterogenea era fusa tutta in una massa sola dalla fiamma di un disperato amor di patria. Ma dal Parlamento il fascismo passò al paese, dalla guerra al dopoguerra. Per tutte queste prime settimane del 1921 abbiamo assistito al rifiorire del fascismo, nome e cosa. Il nome però era identico, non più la cosa. Non si trattava più di combattere il nemico esterno, e pur si trattava di combattere ancora, e precisamente un nemico interno. Questo nemico interno si chiamava socialismo; non più il vecchio socialismo, figurino tedesco, di Berlino, ma il nuovo, figurino russo, di Mosca. Questi bolscevichi in pace come in guerra vituperavano, negavano la patria: 280 Filippo M. Lovison [20] ----33 Spulciando tempo addietro tra queste stesse carte, Gentili avanzò questa ipotesi: «Pur non curvando la schiena e non tacendo le riserve», Semeria corse il rischio di passare per un «avvocato del Fascismo e un glorificatore incondizionato di esso». Noteremo in proposito come agli inizi del 1921, prima della marcia su Roma, Semeria considerava il Fascismo come «un patriottismo violento nei sentimenti, violento nella forma». Gli riconosceva una funzione antibolscevica, ma notava che, «dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine». Anche se si era rivelato «necessità momentanea», il Fascismo non poteva assolutamente essere legittimato per la sua violenza, ma semmai per il suo patriottismo. E siccome «il Fascismo vuol riprendere tutti i valori della patria, materiali e spirituali,… il nostro dovere cattolico è cristianizzare il fascismo». «Anche nel fascismo bisogna far penetrare sempre più schietta, piena, generosa la idea cristiana»; altrimenti, «senza religione, sarà bufera che devasta». Sebbene apprezzasse e sostenesse il tentativo del PPI e i propositi del suo fondatore don Luigi Sturzo (1871-1959), da lui conosciuto in Sicilia, Semeria sottovalutò nel suo ottimismo infantile, come avrà a dire Alcide De Gasperi (1881-1954), la matrice profondamente illiberale del fascismo. Cfr durante la guerra questo antipatriottismo si nascondeva sotto il manto ipocrita del pacifismo…: per non dire che si odiava il patriottismo, si diceva di odiare il militarismo, la guerra; in pace la maschera cadeva e i bolscevichi si proclamavano antinazionali. Abbattevano, perché nessuno dubitasse delle loro vere intenzioni; abbattevano la bandiera nazionale, per alzare la bandiera rossa. E non rifuggivano da altre violenze, anzi, abusando d'una funesta e codarda neghittosità dello Stato, le venivano moltiplicando con strazio quotidiano della legge. I fascisti hanno rialzato la bandiera nazionale e contro la violenza bolscevica non hanno esitato ad adoperare una violenza legale, nel senso che questa violenza difendeva l'ordine stabilito. Un patriottismo violento contro il nemico o i nemici interni, violento nei sentimenti e violento nelle forme; ecco il fascismo nuovo. Il quale lì per lì ha fatto del bene, sia come violenza sia come legalità, per le due cose insieme congiunte. I nemici della legge, dell'ordine, grazie ai fascisti trovarono pane per i loro denti e dovettero per lo meno sospendere le loro violenze. Fu detto da taluno, a proposito di queste due violenze, la bolscevica e la fascista, che esse si equivalgono. E certo nel non essere né l'una né l'altra maneggiate dalle autorità legittime sono uguali, sono entrambe rivoluzionarie; ma non si equivalgono perfettamente, interamente, per questo che una è violenza di privati contro la legge comune, l'altra è violenza di privati ma per il trionfo della legge vigente. Noi non possiamo mettere allo stesso livello il cittadino fazioso, che violentemente strappa la bandiera nazionale dal luogo pubblico dov'ella ondeggia, legittimo simbolo della unità del paese, e il cittadino robusto, che energicamente strappa dal Municipio una rossa bandiera di classe. I primi risultati del rinascente coraggio civile dei buoni, dei primi cazzotti distribuiti dai conservatori agli estremisti rodomonti facili a una immunità così loro concessa da uno Stato debole, furono eccellenti. Le masse, che non trovando ostacolo di sorta, avanzavano più spensierate quasi che coraggiose per le vie della illegalità, del disordine, alla vista dei bastoni e delle pistole fasciste fecero un provvido alt, o addirittura un meraviglioso front indietro. Alcune città d'Italia respirarono come nei villaggi quando, dopo parecchie grassazioni causate dalla assenza dei RR. Carabinieri, questi tornano a farsi vedere. Bisognerà solo ricordare, in linea di sentimento e in linea di azione, che un bel gioco dura poco, se no, non è più bello. Non si tiene troppo a lungo una stessa nota, non si suona troppo a lungo una stessa musica senza farla diventar noiosa. Dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine. Lo Stato deve esso subentrare ai partiti, esso assidersi arbitro in mezzo a loro. Ci vuole un forte soldato che abbia un'anima civile, ci vuole un forte civilista che abbia la grande anima, come i campioni della libertà Americana. Sopra le violenze delle fazioni bisogna elevare la idea della giustizia cristiana servita con fede e con amore» 34 . [21] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 281 ----34 ASBR, Fondo Semeria, Il Fascismo (1921), ms inedito. Si tratta di tre fogli manoscritti del P. Giovanni Semeria vergati su carta intestata: COLONIE ALPINE DI GUER-RA / P. SEMERIA / Direzione Generale / Torino / Via Orfane, 5. Vedi Fig. 3. Dalla lettura dei documenti riportati, la sua prima interpretazione del fascismo appare tra le più lucide del momento: non quella di una malattia morale dell'Italia e dell'Europa, non quella del frutto di un ritardo nello sviluppo storico di alcuni paesi, non quella del supremo sfor-Semeria del resto non rinunciava di confrontarsi su questi temi con Luigi Cadorna, del quale prese ovunque le difese, e che il 15 novembre 1922, a proposito dei suoi difficili rapporti con Mussolini, gli scrisse:
Figure 3
«Reverendo e caro Padre. Ho letto sul Corriere d'Italia dell'11 corrente il magnifico articolo che mi ha dedicato, e io le sono molto grato per il benevolo interesse che Ella -nella sua bontà -sempre mi dimostra. Io credo però che il risultato sarà un buco nell'acqua, perché, mentre il fascismo ovunque vado mi dà grandi dimostrazioni di simpatia, il suo capo non so per quale ragione mi osteggia, e me l'ha dimostrato a più riprese nel Popolo d'Italia. Il Mussolini ha intorno a sé alcuni miei nemici, e principalmente è intimo di quella canaglia del Dou… [Douhet Giulio, richiamato in servizio grazie alle sue amicizie col Partito Nazionale Fascista], il quale, proprio in questi giorni ha pubblicato un Diario critico della guerra in due volumi, totale 900 pagine, a L. 36 [Torino 1922], delle quali almeno 600 sono scritte per denigrarmi ferocemente, con una malafede sorprendente. Dice perfino (p. 75 del II volume) che io ero forte coi deboli e debole coi forti. Un vero libello. Può pensare dunque se con tali amici al fianco, il Mussolini può essere ben disposto verso di me. Ma non me ne importa nulla. Io non ho bisogno dei sorrisi ministeriali, qualunque essi siano. Peggio per chi mi negherà la giustizia, alla quale ho diritto, come Lei ha benissimo scritto, e che il popolo già mi rende ovunque vado. Gradisca, caro Padre, i cordiali saluti di tutti noi e mi creda Suo Affezionatissimo L[uigi] Cadorna. Né il Ministro della guerra ha animo abbastanza grande per patrocinare la mia causa, sebbene con ciò egli farebbe un magnifico gesto nel suo interesse. Ma peggio anche per lui» 35 .
Se il 24 giugno 1923, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III e del Capo del Governo Benito Mussolini, Semeria -accompagnato dal suo Segretario don Minozzi e da due Canonici -aveva inaugurato a Roma il monumento ai ferrovieri dello Stato caduti per la Patria 36 , continuava ancora la sua faticosa e sofferta disamina del fenomeno fascista -«Il fascismo non è, diviene… Posso sbagliarmi, ma pare a me che quest'anima del fascismo, idea dominante, impulso sovrano, sia l'idea nazionale o patriottica» -alla luce del proclamato favore alla religione cattolica, che si riscontrava in atti concreti di cui prende atto, come, per esempio, il suo in- 282 Filippo M. Lovison [22] zo del capitalismo per bloccare l'ascesa delle classi lavoratrici, quanto la «conseguenza del rapido processo di trapasso ad una società di massa, nei paesi dove tale passaggio si verificò in particolari condizioni di ritardo, di debolezza, di anormalità economiche e politiche» (G. MARTINA, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, IV, L'età contemporanea, Brescia 1995, p. 202, nota 4). Da qui il suo volere stare ad ogni costo accanto all'uomo del proprio tempo e alle sue vicende, vivificandone la "natura morale". 35 ASBR, Lettere Semeria, cartellina 100, Busta 6, lettera inedita del Generale Luigi Cadorna a P. Giovanni Semeria, Firenze, 15 novembre 1922. 36 Vedi Fig. 4.
Figure 4
---- Riflessioni e considerazioni che si intrecciano sia con la sua principale preoccupazione, quella di dare da mangiare ai suoi orfani, sia con i pregiudizi ancora messi in circolazione sul suo conto da parte di certi ambiti ecclesiali 39 . Ormai "persosi" nella carità, nell'impossibilità di una sua strumentalizzazione di parte, il buon Barnabita si muoveva senza troppi fastidi tra chi riconosceva comunque in lui quello che vide Carlo Bo: «un personaggio affascinante, che si portava appresso un vago sentore di ere- 286 Filippo M. Lovison [26] ---- 38 ASBR, Fondo Semeria, Fascismo e Cattolicismo (circa 1924), ff. 7, ms inedito. Vedi Fig. 5. Forse da sfumare giudizi perentori, come questo: «Dopodiché guardò con simpatia al fascismo, valutato quale movimento in grado finalmente di garantire all'Italia il superamento della "questione romana". Ancora prima dell'ascesa di Benito Mussolini a incarichi di governo, il padre barnabita -abbandonate le sue iniziali simpatie per il Partito Popolare Italiano -propugnò un'alleanza tra cattolici e fascisti nel superiore interesse della Chiesa. Nel Capo delle camicie nere, Semeria ravvisò il potenziale paladino degli interessi ecclesiastici; e in effetti, dopo la marcia su Roma, egli ottenne cospicui fondi pubblici per le sue attività assistenziali. Del programma fascista, apprezzava particolarmente la valorizzazione della Grande Guerra e l'investimento nazionalistico» (M. FRANZINELLI, Semeria, Giovanni, in Dizionario del Fascismo, II, Torino 2003-2005, p. 618). 39 «Vorrei non si ricominciasse con le accuse vaghe che screditano, snervano, e non giovano. Si dica chiaro e netto ciò che ho detto e fatto di male. E non si inventi. Anche la storia delle cose dette in privato è una vecchia arte. È così facile fraintendere e inventare!» (lettera del P. Giovanni Semeria al Superiore Generale Guerrino Benedetto Fraccalvieri, Voghera, 10 aprile 1923, in SEMERIA, Saggi… clandestini, II vol. cit., p. 390). sia». Per questo, se non disdegnava di chiedere denaro a chiunque 40 , quando si trattò di individuare un intermediario fra il Governo e la Santa Sede, alla fine del 1922, la proposta del P. Genocchi -poi disattesa a favore del P. Tacchi Venturi -non lo sfiorò nemmeno, cadendo sul suo strettissimo amico e compagno di apostolato, don Giovanni Minozzi. «Quale fu invece l'atteggiamento che assunse la Santa Sede, e in particolare il neo eletto pontefice Pio XI, nei confronti del nuovo governo fascista? Possiamo dire che essa, pur non assolvendo il fascismo per le passate e per le recenti violenze, cercò di dare fiducia a Mussolini, nella speranza che si impegnasse a "cristianizzare" il partito che si credeva dominato dalla massoneria e, partendo dalla sua posizione di forza, riuscisse a dare uno sbocco soddisfacente per tutti alla "questione romana". La Chiesa insomma si aspettava dall'uomo nuovo Mussolini una politica nuova, non inficiata cioè dalle antiche pregiudiziali "massonico-liberali" nei confronti della Santa Sede» 41 .
Se questa era la trappola del compromesso in cui sembrò cadere la Santa Sede, ossia dell'accettazione benché temporanea del movimento fascista come baluardo a sinistra e sostegno alla Chiesa, Semeria sembrava invece percorrere altre vie, quelle di sempre: l'amore alla patria e la fedeltà al Vangelo. Non abdicò mai al ruolo sociale della religione e alla sua funzione civilizzatrice nella società italiana. «Io penso a questi [gli operai] principalmente. Abbiamo perso le masse. Gli operai che lavorano e quindi vivono in masse nei grandi centri, non sono più cristiani. Ma noi abbiamo il diritto di essere tristi, perché le masse operaie non sono più cristiane, dopo tanti secoli di Vangelo. Come riconquistarle? con quali apostoli? Con operai apostoli della loro condizione. Il giudeo (chi si fa giudeo) converte il giudeo. La legge è questa. Ci vuole una élite, un lievito operaio cristiano nella massa operaia pagana. Operai che abbiano imparato a gustare il Cristianesimo, la vita cristiana» 42 .
Il resto era nelle cose, come attesta lo scritto del cardinale Gasparri del 31 luglio 1924, all'indomani dell'assassinio di Matteotti: «Il partito fascista è certamente condannabile dai cattolici, loro estraneo e anche nemico, massime in alcune parti; ma non così radicalmente, per principio suo tima accoglienza riservatagli dai suoi connazionali all'estero e le tasche piene dei tanti dollari racimolati per i suoi orfani, aveva ritrovato il proprio paese sull'orlo del collasso, materiale e morale 2 .
L'Italia era in subbuglio. Non solo la grande vittoria patriottica, alla quale tanto aveva dato il suo contributo come Cappellano Militare, pareva svilirsi nel mito della "vittoria mutilata" di D'Annunzio -da lui mai troppo amato (vedi l'impresa di Fiume, 1919) -ma anche prendeva le mosse sotto i suoi occhi il cosiddetto "biennio rosso": la grande paura degli anni 1919-1921, che avrebbe portato, in poco più di due anni, all'avvento del Fascismo 3 .
Oltre agli altissimi costi umani e materiali causati dal conflitto bellico, tra l'inflazione galoppante, la crescente disoccupazione e la terribile epidemia chiamata "spagnola", si era accentuato il malcontento popolare alimentato dal fascino della rivoluzione leninista. Seguirono gli anni difficili dell'occupazione delle fabbriche -iniziando da Torino e da Milano -della nascita dei Consigli di Fabbrica, degli scioperi, dell'occupazione e della socializzazione della terra, dei moti per il carovita, che portarono a indisturbati saccheggi di negozi e di magazzini.
Dal punto di vista politico, nel 1919 si era passati dal governo di Vittorio Emanuele Orlando a quello di Francesco Saverio Nitti, che alternava momenti di mediazione a forti repressioni. Nelle importanti elezioni del 6 novembre di quello stesso anno si cristallizzò agli occhi del paese la forte avanzata del Partito Socialista come l'affermazione del Partito Popolare di don Sturzo 4 , mentre si guardava, in una sorta di strabismo civile, all'impresa fiumana di D'Annunzio e all'inizio delle violenze fasciste. All'indomani dello "sciopero delle lancette" del mese di marzo del 1920, 262 Filippo M. Lovison [2] ---- In quello stato di preoccupante agitazione sociale, Semeria rimaneva un costante punto di riferimento per la coscienza dei cattolici, al di là di ogni ideologia. Proprio nel settembre del 1921, un lettore del Corriere, dopo aver letto due suoi articoli ivi pubblicati, gli scriveva a proposito dell'Inno di Mameli e di molte altre cose ancora: «Reverendissimo Padre. Ho letto con sommo piacere le sue due ultime letture comparse sul Corriere relative alle "gesta" non tanto dei partiti (…) quanto della "Stampa Liberale"! Riguardo al grido famoso, ho potuto fare anch'io la stessa constatazione quando accompagnai (sempre fiancheggiandolo a guisa di "guardia regia", e sostando a varie riprese, per farmi un'idea dell'insieme veramente meraviglioso) il corteo da S. Maria degli Angeli alla Minerva, e sentii da cento e mille bocche gridare, (…) urlare, [3] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 263 ----metica senza numeri. È la povera religione delle Logge dove non si prega mai, dove di Dio si parla poco per non parlarne troppo male, e dei preti si parla malissimo senza averne paura di parlarne troppo: religione di uomini che usano trattarla pari a pari del Padre Eterno. La ignoranza sarebbe meno antipatica senza quel sussiego di pose, e quel falso scintillio di frasi. Il guaio si è che questa mentalità borghesissima, filistea, arida e secca e presuntuosa, ha generato una indifferenza pratica che dall'alto, col facile contagio delle cattive abitudini, è discesa in basso» 16 .
Guardato con rispetto per il suo recente e sofferto passato di patriota e di sacerdote, Semeria non venne mai direttamente perseguitato dal Fascismo, benché non potesse abbassare la guardia sia nei confronti del medesimo come dei ritrovati "ritornelli" della sua sempre discutibile ortodossia, che lo costrinsero a scrivere una lettera aperta al P. Gemelli: L'epilogo di una controversia a proposito del volume Scienza e Fede 17 . Semeria era pur sempre Semeria! Eccezionale singolarità che non poteva essere sorvolata se non a costo di strattonare indebitamente quella sua nera tonaca sempre più svolazzante, disinvolta e onnipresente tra i figli del popolo, gli orfani di guerra, da un lato all'altro dell'Italia, per fondare orfanotrofi, asili, scuole, laboratori, colonie agricole, come tra le case degli industriali e gli uffici governativi, per chiedere sovvenzioni e contributi 18 . Consapevole di sé, poteva ancora permettersi di riflettere, di «cercare di conoscere il fascismo», come ai vecchi tempi 19 . Già, i vecchi tempi!, con le loro speranze e loro ferite, che si intrecciavano in mille modi. A questo proposito, gli scriveva il suo carissimo Luigi Cadorna:
«Egregio e caro Padre. Finalmente ho sue notizie, delle quali da molto tempo mancavo. Le sono grato degli auguri inviatimi colla sua lettera del 17. A lei che fa tanto bene, vadano pure i miei auguri, affinché possa raccogliere nella vita operosa le migliori soddisfazioni. Io mi sono da ieri l'altro rifugiato tra questi monti, mentre mia mogie e Carla sono andate in Svizzera, ove le raggiungerò in Settembre, per ritornare poi a fine d'ottobre a Firenze. L'Orlando è ignominiosamente caduto, come meritava, ma la situazione che ha lasciato è assai grave. Coll'avvento del corrotto Nitti (inevitabile dal punto di vista prettamente parlamentare) si apre l'aperta guerra tra l'Italia putrida del passato e l'Italia sorta dalla guerra. Questa non potrà che trionfare, ma attraverso quali vicende? Ed io che non sono più buono a nulla, rimarrò a contemplare gli avvenimenti da questa solitudine, in attesa… del verdetto della Commissione d'inchiesta. Spero che nelle sue peregrinazioni capiterà anche da queste parti. Ed intanto voglia gradire i miei cordiali saluti e quelli di mia sorella. Suo Affezionatissimo L[uigi] C[adorna]» 20 .
Da qui il suo sguardo vigile e attento su quanto maturava in quel fatidico anno 1919, i cui pallidi primi riflessi amplificava poi a gran voce dalle pagine dei quotidiani e riviste cattoliche, ragionando, per esempio, sulle motivazioni del suo amore di patria che lo portavano sulle barricate della difesa dello Stato costituito 21 ; amore tanto forte quanto necessariamente e temporaneamente insensibile anche ai sussulti della piazza; per lui era un dovere, era una necessità!, come quando al fronte era toccato proprio a lui l'ingrato compito di predicare ai soldati il valore del sacrificio supremo. Lontano da ogni richiesta di azione repressiva, chiedeva «solo che si faccia una diagnosi profonda di un perturbazione che nessuno, a meno di essere anarchico, può esimersi dal battezzare per patologica», auspicando, da parte dei buoni cattolici, la preparazione di homines novi per uno Stato, finalmente, con la "s" maiuscola: «Quello che è accaduto, che accade in Italia, un po' dappertutto, poteva materialmente essere molto più grave: data la mirabile assenza della autorità pubblica in certe ore ed in certi luoghi, i saccheggi potevano essere più vasti e più vandalici; data l'esasperazione delle parti potevano i colpi micidiali essere più numerosi. Forse per questa minore gravità la massa in genere si mostra relativamente poco impressionata e pavida. Né noi vogliamo turbare questa calma relativa, gettare panico vile e malo consigliere. Ma se invece di guardare alla materiale entità dei fatti, se ne scruta la natura morale, sono, bisogna convenirne, assai gravi. E forse il più grave, voglio dire il più sintomatico fra tutti, fu il sostituirsi quasi sempre pacifico, di nuove e certo illegali, se non illegittime, autorità popolari (le Camere del Lavoro), alle autorità che fin qui passavano per le sole legittime: le autorità dello Stato. Le
, Lezioni dell'ora, in L'Avvenire d'Italia, 10 luglio 1919. Fondato il 1° novembre 1896 da Giovanni Grosoli e Giovanni Acquaderni con il nome di L'Avvenire, "la libera voce del cattolicesimo italiano" fu un costante punto di riferimento per i fuoriusciti dal PPI, favorevoli a una qualche forma di collaborazione col Fascismo. Da tale giornale nacque successivamente la testata cattolica Avvenire. Nel marzo del 1919, a Piazza San Sepolcro a Milano, Mussolini aveva dato vita ai "fasci di combattimento". peccano entrambi della stessa fatuità gonfia e superficiale. Cent'anni fa il partito borghese, diverso in parte dalla borghesia, come il partito proletario non è proprio identico al proletariato, creava in un impeto di passionalità superficiale, piuttosto un capro espiatorio che un vero responsabile; il vero responsabile del male innegabile della società. La colpa era dei nobili. E come superficialmente indagava la causa, faziosamente proponeva il rimedio: i borghesi al posto dei nobili, come chi dicesse: gli angeli al posto del diavolo. Ahimè! questa parola tradisce tutto il vizio dell'argomento. Lasciamo stare se i nobili fossero demoni; certo i borghesi non erano angeli. Nobili e borghesi erano uomini, malati delle stesse miserie, capaci delle stesse iniquità. E ciò non voleva dire che non si potesse o non si dovesse raffrenare anche per via di leggi sociali e politiche le prepotenze dei nobili; ma ciò voleva dire che non si sarebbe avvantaggiato un gran che sostituendo alla prepotenza degli uni la prepotenza degli altri, i vizi degli uni, i vizi degli altri. Uomini, i borghesi avrebbero finito per riprodurre i vizi nobiliari se non frenati moralmente nelle loro passioni, e se in queste, per via di adulazione, radicati ed esaltati. E così accadde, perché lo ripetiamo, uomini erano anche i borghesi, e perché (avendo dimenticato questa verità così elementare) non si lavorò ad educarli cristianamente, a imbrigliarne e atrofizzarne con lento, assiduo lavoro, le loro umane passioni. Il guaio si è che oggi si ripete lo stesso errore, la stessa severità arcigna contro la borghesia, la stessa adulazione per il proletariato. A sentire certi apostoli, ad abbracciarne la complessiva predicazione orale e scritta (e più la orale che la scritta, perché per un resto di pudore si fanno cancellare dalla stampa le frasi scottanti del comizio), si ha l'impressione che il proletariato, per il partito proletario, sia impeccabile come lo erano una volta i borghesi. In realtà il male è più profondo e il rimedio deve essere più radicale. Il Cristianesimo ce lo ha insegnato e noi non abbiamo che da rammentarlo assiduamente a noi e agli altri. Mettere i proletari al posto dei borghesi, lasciando stare ciò che parole simili hanno di fatalmente vago, è una operazione politica che può essere necessaria, che può sopratutto piacere ai proletari, ma che non avanza praticamente ed efficacemente il problema della umana felicità, se i proletari non abbiano corretti in se quei vizi che hanno finito per rendere esoso e insopportabile il regime borghese in certi luoghi e a certe ore della prova contemporanea. Non giova cangiare posizione nel letto quando si ha il male nel corpo. Non giova capovolgere la società se non si corregge. Per noi cristiani sono queste delle verità elementari… dovrebbero esserlo del resto anche per i non cristiani, quando fossero un po' veggenti e sinceri, tanto sono banalmente elementari. Se a questa verità ci terremo stretti per davvero, in teoria e in pratica, si smusseranno molte golosità o piuttosto si dissiperanno molti equivoci. I temperamenti conservatori avranno meno paura di chi promuove le ascensioni del proletariato, quando vedrà che si lavora sul serio alle ascensioni morali o spirituali di esso, non a sole ascensioni economiche e politiche che senza il miglioramento spirituale sono impossibili o effimere. E i temperamenti democratici lavorando a queste ordinate ascensioni integrali, cominciando perciò dalle spirituali, su queste insistendo, dicendo perciò al popolo quelle verità che non giovano sempre lì per lì a conquistare o conservare la medaglietta, ma giovano a miglioralo e quindi ad elevarlo veramente -segneranno una linea Alcuni recenti studi, se evidenziano le dinamiche del compromesso consumatosi tra Chiesa e Fascismo rinviando a una precisa cultura ed ecclesiologia di impronta tridentina, non paiono comunque ritrovare il P. Semeria tra i suoi protagonisti di allora 25 . I possibili benefici derivanti, per esempio, in campo scolastico, come la tanto auspicata Conciliazione, non portarono il Barnabita a ipotizzare una limitazione della Chiesa all'ambito prettamente "religioso", togliendole quell'alta funzione di civiltà alla quale aveva consacrato tutta la sua vita 26 . Era questo il suo cruccio che lo spingeva continua-mente a interrogarsi sulla vera natura del Fascismo, al quale si doveva rispondere con «una guida morale più sicura nel clero». Per rendersene conto, basta leggere, dello stesso periodo, il suo scritto inedito dal titolo Il Fascismo in Provincia, senza data, ma verosimilmente composto tra il 1919-1922, in virtù dei costanti riferimenti al viaggio esplorativo da lui compiuto -spinto dalla carità verso gli orfani di guerra -in alcune regioni del Mezzogiorno d'Italia, oltre ai richiami inerenti ai governi Nitti e Giolitti.
«Persisto a credere interessante lo studio dal vero della provincia; interessante per gli italiani e per gli stranieri che vogliono conoscere l'Italia. Povera Provincia! È la cenerentola, ma è il serbatoio delle forze nuove. Torno da un giro in Calabria, sempre pro orfani di guerra: ho fatto prediche, ho tenuto conferenze, ho conversato con ogni genere di persone nei paesi, al circolo dei galantuomini, dove si fa la politica provinciale, nelle case private, in treno, di notte in attesa del treno coi ferrovieri, di giorno in diligenza con i viaggiatori compagni di pena, o con il cocchiere a cassetta. Il mondo vero lo si scopre così. E io cercavo specialmente di conoscere il fascismo. Le cui manifestazioni ufficiali sono notissime, fin troppo note, ma la cui realtà profonda è qui. Più d'uno con quei giudizi sbrigativi e spicci che piacciono tanto in conversazione e fanno fortuna su per i giornali, ha sentenziato che il fascismo è spontaneo, autoctono al Nord, è importazione e imitazione al Sud. Naturalmente è partito da questo principio, che il Fascismo vuol dire reazione antisocialista (vero, ma vero parzialmente) e dal fatto (mezzo vero anch'esso) che il socialismo è, non dico in Italia, non meridionale. Orbene: il fascismo è anche reazione antisocialista. Ma pure sotto questo rispetto non gli sono mancati degli addentellati per venire su se non proprio autoctono, fiorente non appena importato. Il Sud Italia ha visto nel dopoguerra la marea se non socialista, socialistoide. Anche al Sud ci sono signori, e questi signori non hanno attraversato il quarto d'ora più lieto della loro vita consulibus Nitti e Giolitti, quando al Nord gli operai occupavano allegramente le fabbriche, ma al Sud i contadini si preparavano ad occupare non meno lietamente le terre. Il fascismo meridionale è un po' lì, reazione antisociali-stoide… Però non è tutto lì. Mi è parso di vedere un lineamento del fascismo proprio al Sud, un lineamento già visto da altri, non fosse abbastanza sottolineato, e che un giorno forse ci spiegherà e ci permetterà di spiegare parecchie cose. Il fascismo è la irruzione della forza, degli elementi giovani, a cui la guerra, questa enorme rivoluzione, ha dato una coscienza del proprio valore che in altri tempi e in altre circostanze i giovani venticinquenni non solevano avere. La guerra ha dato ai ventenni delle sensazioni vertiginose. Hanno avuto dei doveri tremendi da compiere, ma hanno anche avuto l'occasione di esercitare dei doveri strani. A vent'anni hanno comandato con una intensità e un'estensione che in tempi di pace non si riusciva a raggiungere nemmeno a quaranta anni. La modestia non è la virtù dei giovani. E questi giovani che in guerra ebbero la sensazione ch'essi salvavano il paese, che se le sono sentite dir da altri queste cose di cui un po-
Filippo M. Lovison [20] ----33 Spulciando tempo addietro tra queste stesse carte, Gentili avanzò questa ipotesi: «Pur non curvando la schiena e non tacendo le riserve», Semeria corse il rischio di passare per un «avvocato del Fascismo e un glorificatore incondizionato di esso». Noteremo in proposito come agli inizi del 1921, prima della marcia su Roma, Semeria considerava il Fascismo come «un patriottismo violento nei sentimenti, violento nella forma». Gli riconosceva una funzione antibolscevica, ma notava che, «dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine». Anche se si era rivelato «necessità momentanea», il Fascismo non poteva assolutamente essere legittimato per la sua violenza, ma semmai per il suo patriottismo. E siccome «il Fascismo vuol riprendere tutti i valori della patria, materiali e spirituali,… il nostro dovere cattolico è cristianizzare il fascismo». «Anche nel fascismo bisogna far penetrare sempre più schietta, piena, generosa la idea cristiana»; altrimenti, «senza religione, sarà bufera che devasta». Sebbene apprezzasse e sostenesse il tentativo del PPI e i propositi del suo fondatore don Luigi Sturzo (1871-1959), da lui conosciuto in Sicilia, Semeria sottovalutò nel suo ottimismo infantile, come avrà a dire Alcide De Gasperi (1881-1954), la matrice profondamente illiberale del fascismo. Cfr durante la guerra questo antipatriottismo si nascondeva sotto il manto ipocrita del pacifismo…: per non dire che si odiava il patriottismo, si diceva di odiare il militarismo, la guerra; in pace la maschera cadeva e i bolscevichi si proclamavano antinazionali. Abbattevano, perché nessuno dubitasse delle loro vere intenzioni; abbattevano la bandiera nazionale, per alzare la bandiera rossa. E non rifuggivano da altre violenze, anzi, abusando d'una funesta e codarda neghittosità dello Stato, le venivano moltiplicando con strazio quotidiano della legge. I fascisti hanno rialzato la bandiera nazionale e contro la violenza bolscevica non hanno esitato ad adoperare una violenza legale, nel senso che questa violenza difendeva l'ordine stabilito. Un patriottismo violento contro il nemico o i nemici interni, violento nei sentimenti e violento nelle forme; ecco il fascismo nuovo. Il quale lì per lì ha fatto del bene, sia come violenza sia come legalità, per le due cose insieme congiunte. I nemici della legge, dell'ordine, grazie ai fascisti trovarono pane per i loro denti e dovettero per lo meno sospendere le loro violenze. Fu detto da taluno, a proposito di queste due violenze, la bolscevica e la fascista, che esse si equivalgono. E certo nel non essere né l'una né l'altra maneggiate dalle autorità legittime sono uguali, sono entrambe rivoluzionarie; ma non si equivalgono perfettamente, interamente, per questo che una è violenza di privati contro la legge comune, l'altra è violenza di privati ma per il trionfo della legge vigente. Noi non possiamo mettere allo stesso livello il cittadino fazioso, che violentemente strappa la bandiera nazionale dal luogo pubblico dov'ella ondeggia, legittimo simbolo della unità del paese, e il cittadino robusto, che energicamente strappa dal Municipio una rossa bandiera di classe. I primi risultati del rinascente coraggio civile dei buoni, dei primi cazzotti distribuiti dai conservatori agli estremisti rodomonti facili a una immunità così loro concessa da uno Stato debole, furono eccellenti. Le masse, che non trovando ostacolo di sorta, avanzavano più spensierate quasi che coraggiose per le vie della illegalità, del disordine, alla vista dei bastoni e delle pistole fasciste fecero un provvido alt, o addirittura un meraviglioso front indietro. Alcune città d'Italia respirarono come nei villaggi quando, dopo parecchie grassazioni causate dalla assenza dei RR. Carabinieri, questi tornano a farsi vedere. Bisognerà solo ricordare, in linea di sentimento e in linea di azione, che un bel gioco dura poco, se no, non è più bello. Non si tiene troppo a lungo una stessa nota, non si suona troppo a lungo una stessa musica senza farla diventar noiosa. Dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine. Lo Stato deve esso subentrare ai partiti, esso assidersi arbitro in mezzo a loro. Ci vuole un forte soldato che abbia un'anima civile, ci vuole un forte civilista che abbia la grande anima, come i campioni della libertà Americana. Sopra le violenze delle fazioni bisogna elevare la idea della giustizia cristiana servita con fede e con amore» 34 . [21] Dal "biennio rosso" all'avvento del Fascismo 281 gli interessi particolari del fascismo, vista la parte preponderate che esso ormai ha preso nella vita nazionale, si risolvano negli interessi medesimi del paese. La religiosità del fascismo è interesse italiano; a seconda che sarà religioso o ateo salverà, contribuirà a salvare, o perderà la patria. Ché la religione essa non muore; non muore la Chiesa alla e nella umanità; ma ben possono morire alla Chiesa nazioni infelici; ben possono anche senza arrivare alla morte, attraverso delle crisi religiosamente formidabili. E quando crisi simili si determino fatalmente, non gli apostoli di Cristo ne debbono avere paura. Anzi… ma è naturale che abbiano paura gli Apostoli di provocare tali crisi. È naturale ne abbiano timore (la parola paura è troppo brutta) però nei riguardi e negli interessi della Patria che della Chiesa medesima. Noi abbiamo troppo sofferto negli ultimi decenni dello scetticismo religioso largamente diffuso, audacemente predicato sotto un regime liberale di nome, di fatto vile, scetticismo religioso tradottosi in morale e sociale, perché non ci spaventi l'idea di tornare a tanta noia. Quanta perdita di energie, ciò significherebbe! Quanti avvilimenti di fronte all'estero? e che ritorno alla barbarie! Perciò il nostro dovere cattolico è cristianizzare il fascismo; intensificare da parte nostra le correnti religiose che lo pervadono, paralizzare le anticlericali che lo minaccino o lo sfiorano. Tutto questo mostrandoci non a parole ma a fatti, o, se vuolsi, a parole e a fatti verbo et opere italiani di quanto lo può essere qualunque altro, più e meglio di qualunque altro. Israelitae sunt? Et ego dicano con S. Paolo i nostri discorsi e le nostre azioni. Un amore indomito per questa cara Italia, un amore immenso alla fede di Cristo, sono le due fiamme che unite possono, devono consumare ogni scoria, determinare ogni sano progresso fecondo» 38 .
Riflessioni e considerazioni che si intrecciano sia con la sua principale preoccupazione, quella di dare da mangiare ai suoi orfani, sia con i pregiudizi ancora messi in circolazione sul suo conto da parte di certi ambiti ecclesiali 39 . Ormai "persosi" nella carità, nell'impossibilità di una sua strumentalizzazione di parte, il buon Barnabita si muoveva senza troppi fastidi tra chi riconosceva comunque in lui quello che vide Carlo Bo: «un personaggio affascinante, che si portava appresso un vago sentore di ere- 286 Filippo M. Lovison [26] secondo un'abitudine non infrequente del Semeria -si colloca a breve distanza dalla precedente.
«Carissimo Filippo, ti ringrazio del doppio articolo sul Pro Patria…quantunque avrei preferito una buona rèclame alla Eredità del secolo… ma spero che preso l'abbrivio andrai avanti. Mi ti raccomando perché quella povera Eredità è comparsa in mal punto quando tutti erano distratti dalle elezioni…e anche la stampa cattolica fin qui si è fatta ben poco viva; quanto alle tue osservazioni ci veggo sotto un po' di tendenza psicologica all'apologia Pontificia. Di fatto fu che il '48 finì male: ma come negare che era incominciato bene? che era stato preparato da uomini di fede? non erano tali Balbo, Rosmini, Gioberti, Pellico, Manzoni, Troja, Tosti, Tommaseo, ecc.? L'aver finito così male non si dovette anche al retrofront assoluto di Pio IX? con l'allocuzione del 29 aprile? Tu guardi un po' troppo il '48 come fatto locale, ma allora s'agitò il problema, ancora insoluto, dell'accordo tra la Chiesa e i tempi moderni. La Chiesa, nel suo organismo mutabile è ancora molto medievale, e lo era anche più al '48. E il mondo moderno si affacciò e chiese d'essere benedetto e Pio IX lo benedì, poi lo mandò a farsi benedire. Dopo d'allora il moto nazionale dovette essere ghibellino non per volontà di uomini, per forza di cose. Dopo Gaeta il licenziamento di Rosmini, l'insediamento di Antonelli, l'Italia o non si faceva o si faceva contro il Papa, il quale non ne voleva più sapere di niente, niente di quanto è portato fatale della vita moderna. Forse io dovevo dire che il ghibellinismo del '59 cominciò dal 29 aprile del '48, dalla rottura tra Pio IX e l'Italia nuova. E sta il fatto che l'Italia poteva essere fatta dal partito guelfo, e fu fatta invece dal partito ghibellino, il quale approfittò degli errori del guelfo. Tu con quello spirito sofistico che ti è un po' congenito come nel mio io lo spirito ereticale (?!), tu troverai che fu bene che le cose andassero così, come hai trovato bene che i cattolici si fossero astenuti dalla vita politica; ma la realtà è che non c'è male puro al mondo, quindi non un male di cui non si possa trovare un lato buono, da cui non sia derivata o meglio non si possa trarre qualche buona conseguenza. Ma io sfido il più sottile dei mortali a provarmi, a dirmi, che fu un bene il farsi d'Italia per opera dei ghibellini. Vero o no -in tutto quel periodo che culmina nel '48 e ne prende il nome -si preparò un terribile errore, che poi fu palese dal '59 in poi (ma già nel '48 era maturo): l'errore fu da parte della Chiesa lasciarsi sfuggire la causa nazionale. Oggi tutti si lagnano (i cattolici) che l'Italia è contro la Chiesa, ma non abbiamo il coraggio di dire mea culpa. E questo è male e in questo fai male anche tu caro amico con le tue sottigliezze -permettimi che te lo dica -perché ci disavvezzi dal sentire le nostre responsabilità. Tu inclini da qualche tempo a una specie di fatalismo provvidenziale -per cui sostieni e metti in luce beni più o meno veri derivati da mali reali -e inconsciamente animi per l'avvenire a perseverare noi per quella tortuosa e sterile via dove ti par che la Provvidenza porti e colga tanta copia di beni. Altri men colti di te gettano la colpa sulla Massoneria, sul diavolo... e il mea culpa non si dice mai. E studiata così la storia non c'insegna e non c'insegnerà mai nulla. E dopo avere lasciato fare una Italia ghibellina ove noi lasciamo crescere un'Italia anticristiana -perché i ghibellini erano sì anticlericali ma Cristiani (da Dante a Manzoni, due pretti ghibellini) -e i neosocialisti sono anticristiani. E noi standocene tranquillamente con le mani alla cintola prepareremo il loro avvento. La povera democrazia Cristiana esclusa dalla attiva vita politica è una accademia pura e semplice, che il popolo non capisce e non capirà mai. Il popolo capisce Ferri, Colajanni, Pantano che resistono che combattono, che votano per la libertà (?!) e per il benessere della classe operaia, non capisce noi che diciamo tante belle cose e ci mettiamo da noi nella incapacità di farne nessuna. Anche la mia lettera va in lungo e hèlas non è tale da potersi pubblicare. Ma tu fa un buon esame di coscienza su questa utilità dei mea culpa sulla inopportunità di giustificare a un presunto o problematico punto di vista provvidenziale delle non presunte ma lampanti corbellerie storiche. Sono un po' rivoluzionario ed eretico? non è vero? Ma le eresie superficiali sono spesso delle verità molto intime, i dogmi [h]anno cominciato per parer eresie; non fu eresia ai Giudei il Cristianesimo nascente? Pigliamo le nostre brave responsabilità non solo individuali ma collettive, anche se la collettività si chiami Chiesa o Papato… perché politicamente l'una e l'altro sono fallibilissimi. Il nostro torto è di estendere inconsciamente in pratica a queste cose politiche la infallibilità dogmatica. Certo, in astratto non si ha il coraggio di dire vera una tale mostruosità, ma in pratica, caso per caso, si ragiona sempre come se quella mostruosità fosse vera. E perciò si ragiona male, poco serenamente. Ma per certo punto e basta. Respira anche per me questa fresca auretta alpina. Riveriscimi la tua Signora, e ricordati della mia Eredità. Tuo Semeria» 7 .
Nella breve lettera del settembre 1902, Semeria inviava al Crispolti il suo secondo testo, chiedendone una citazione. «Caro amico, penso che ora nella tranquillità di Demonte avrai tempo di leggermi. Ti mando dunque il mio volume "Dogma Gerarchia e culto" pregandoti di parlarne -ma nella seconda -metà di ottobre sull'Avvenire d'Italia. Ma fa così: prepara ora l'articolo e poi mandalo allora al giornale…».
Il 1912 rappresenta uno dei periodi più critici del Barnabita. I sospetti sulle sue idee e gli scritti in rapporto all'avanzamento del movimento modernista, del quale lo si ritiene uno dei maggiori ispiratori in [5] L'epistolario Italia, provocano il suo esilio in Belgio. Ad esse si aggiungono accuse non fondate, probabilmente strumentali, ma attribuitegli sulla scia della crisi genovese (si veda il caso Caron). Costretto all'esilio, come è noto affrontò la dolorosa situazione in spirito di non comune obbedienza.
«Carissimo, ti ringrazio del tuo gentile pensiero, tanto più in quanto che temevo di essere stato da te dimenticato: un giudizio temerario, il peccato in cui si casca più facilmente quando si soffre. Io ho fatto il mio dovere obbedendo, ma ciò che sta accadendo non è, per questo, meno forte. Ora noi siamo nel regime di arbitrio e del sospetto. Il mio allontanamento da Genova non ha avuto e non ha l'ombra della motivazione e significa in pratica un tentativo di ridurmi alla disperazione perché… per chi? Si direbbe che alcuni vogliono uno sproposito per poi biasimarlo. No, così non può andare avanti. Nel Medio Evo si era molto più rispettosi della libertà individuale, dei diritti acquisiti… di fatto ciò che in fondo costituisce la dignità umana. Tutto questo mi duole per me e mi duole per la Chiesa, alla quale non si guadagnano certo delle simpatie con questi metodi. Ti ringrazio d'aver perorato la mia causa presso un Card… ma se ragionava a quel modo… Sarò lietissimo di vederti a Bruxelles, perché per ora di una mia venuta in Italia non credo ci sia probabilità nessuna. Ricordami alla tua Signora. Affezionatissimo Semeria» 8 .
Più intensa risulta la corrispondenza negli anni del conflitto mondiale, che verte da un lato sulla passione patriottica di Semeria e sulla sua volontà di incidere in qualche modo sulla situazione in Italia. Il suo temperamento non gli consente infatti di guardare ai fatti da spettatore. Quando ancora la neutralità italiana, col distacco dalla Triplice e nella divisione degli animi tra pacifisti e nazionalisti, si trovò pericolosamente in bilico, si contano due sue lettere dell'autunno del '14, che mostrano la sua esigenza di non lasciarsi andare alla sorte e alla passione dei sentimenti. Emerge la necessità di un ruolo attivo che il Paese dovrebbe giocare, nonché il timore di veder precipitare le cose verso soluzioni finali, una volta conclusosi il conflitto, capaci di alimentare ulteriormente una stagione di asprezze e risentimenti, che di fatto la generazione successiva fu poi costretta ad affrontare. L'idea dell'azione che i paesi neutrali avrebbero potuto esercitare nei confronti dei belligeranti ai fini della limitazione e magari della cessazione del conflitto, azione nella quale l'Italia avrebbe potuto operare come promotrice, nacque in Semeria, come appare dalla lettera da lui inviata a don Brizio Casciola, anche con lo sco-294
Giovanni Crispolti [6] ----mati) e qualche Repubblica del Sud (Brasile, Argentina). Tutti costoro dovrebbero unirsi -(lega) e unirsi armati (come la Svizzera) quanto ciascuno può (come abbiamo fatto noi, così la Romania e potrebbe far la Spagna -per far trionfare al momento opportuno grazie alla riserva armata bella e pronta il concetto di equilibrio e di nazionalità; due concetti non egoistici, nobili. L'equilibrio dice che nessuna delle quattro forme di civiltà che sono oggi in lotta sia distrutta o fiaccata in modo equivalente alla distruzione, né Francia né Germania né Inghilterra né Russia. La nazionalità te l'ho già spiegata sopra. L'idea non mi pare assurda. Si Sembra però che Crispolti faccia parte di coloro che, pur non avversando tale proposta, la giudicano se non inutile almeno irrealizzabile, considerando da un lato l'intensità della politica interventista, dalla quale non furono esclusi neanche gruppi cattolici, dall'altro l'effettiva staticità di una sempre incerta politica governativa. «Mio caro Crispolti, mi pare che troppo leggermente, sia pure sottilmente ragionando al tuo solito, poiché loico sei, tu abbia scartato la mia idea della Lega senza sostituirvi però niente d'altro e di meglio. Man mano che l'idea della neutralità si consolida e che l'opinione pubblica ci si viene comodamente adagiando, si vede chiaro quanti pericoli così come essa è ora pigra, inerte, passiva, racchiude per il presente e per l'avvenire. Che cosa farà una Italia che abbia perseverato in questa neutralità, sia pure armata, ma appartata, inerte, che cosa farà il giorno in cui si farà la grande pace? e si rifarà la carta europea? Il meno che le toccherà sarà di partirsene come il 1878 da Berlino colle mani vuote e in più l'odio degli uni e il disprezzo di tutti. È la prospettiva matematicamente sicura. Bisogna dunque di uscire io non dico dalla neutralità, ma da questa neutralità. Aspettare che a questa uscita ci provochi e quasi ci obblighi un fatto nuovo, grave, decisivo: uno schiaffo, una minaccia… e appendere il cappello nostro su un chiodo che devono piantare gli altri. Ma chi sarà così ingenuo, per non dire babbeo, da provocarci quando provocazione significherà invito non a partecipare ai rischi della guerra, ma al bottino della vittoria? A spartire il bottino ci penseranno da sé i vincitori, se pur ne avranno abbastanza. La mia Lega dei neutri, promossa dalla Italia, è certo una via di uscita, e che non sia così ingenua lo può dimostrare la risposta dell'amico G. De Sanctis, che qui ti trascrivo. Modifica la mia idea perché, per esempio, non vuol saperne di una partecipazione degli Stati Uniti Nord America (la dottrina di Monroe deve valere per e contro di loro). Ma non la scarta. Ecco i termini in cui egli sostanzialmente si esprime. Scopi di una lega potrebbero essere: 1) nel caso di un mutamento dell'assetto territoriale europeo assicurare ai contraenti equi compensi, tenuto conto delle loro legittime aspirazioni nazionali; 2) impedire ad ogni costo che il risultato di fatto della guerra sia lo stabilirsi sulla terraferma europea della preponderanza pericolosa di una potenza, sia questa la Germania o la Russia; 3) se la guerra si protrae in modo da danneggiare troppo gli interessi dei neutrali, intervenire perché si concluda prontamente una pace che tenga conto di questi interessi e della situazione dei belligeranti. A questa lega -conclude il De Sanctis -sarebbero da invitare la Rumenia e la Bulgaria (se però con una diplomazia sagace si riuscirà ad impedire che prendano le armi prima del tempo e più che le prendano l'una contro l'altra, lasciando poi libero l'aderirvi a quelle che lo volessero delle potenze minori). Il programma -continua il De Sanctis -come vedi, è limitato e modesto, ma è, credo, attuabile. E il suo coronamento dovrebbe essere un Congresso di Roma… Tu sei o sarai proprio a Torino e ne potresti parlare col De Sanctis stesso. L'importante è non adagiarci, specie noi Cattolici, nel comodino della neutralità, lasciando che i famosi eventi maturino per noi la non meno famosa pera da cogliere poi beatamente. Non si può [restare] colle braccia al sen conserte davanti a un turbine simile. La opinione pubblica del giornalismo cattolico potrebbe utilmente agire e tu per essa; o forse meglio ancora: parecchi di voi potreste agire sul Governo colle vostre personali relazioni. E chi sa che il Vaticano non possa aiutare anch'esso la lega per mezzo dei suoi diplomatici e del clero? Pensaci ancora e perdonami la mia insistenza. Ossequi a tua moglie. Tuo Semeria» 11 . Ma i fatti, mentre sembravano smentire Semeria rispetto a una sua certa ammirazione per la Germania, non offuscano la sua valutazione morale sugli eventi gravissimi avvenuti in quei giorni, anche se non viene meno la speranza che le atrocità del conflitto non uccidano, col rimorso, il senso morale che è al fondo di tutte le nazioni. La data a penna sulla lettera è certamente di Crispolti e il contenuto non lascia dubbi su di essa. C'è solo da domandarsi perché, dalle intestazioni amichevoli della precedente corrispondenza, si passi all'uso del titolo. Ciò può spiegarsi, come vedremo in un successivo caso analogo, col fatto che la lettera proponga al destinatario il suo uso per la stampa. «Signor Marchese, ho letto con l'interesse più vivo, come sempre del resto, la sua lettera a Francesco Saccardo, dov'Ella spiega le sue squisite doti di moralista cristiano. Ma appunto la lettura attenta e simpatizzante mi fa nascere un problema morale che sarei lieto di veder risolto da Lei su quelle medesime colonne dove chi le ha fatto nascere, forse non in me so- [9] L'epistolario ----patie per il piccolo Belgio, cattolico e oppresso. Se la Germania saprà che cattoliche coscienze senza odio per lei deplorano la sua condotta verso il Belgio perché ingiusta, non sarà uno stimolo di più a riparare la ingiustizia restituendo, nel giorno del rendiconto finale, al Belgio la sua libertà? I popoli grandi -e il tedesco lo è di certo -non si disonorano riconoscendo e riparando le loro eventuali ingiustizie; si disonorano commettendole e più confermandole. La ringrazio anticipatamente se mi vorrà rispondere. Un assiduo del Momento» 12 .
«Caro Filippo, ti ringrazio della lettera e dei numeri del Cittadino. Non lo ricevo abitualmente e purtroppo ci troverei poco di interessante oltre i tuoi articoli e qualcuno di Mikros. Capisco le prudenze della Santa Se-de… essa non sarà mai abbastanza superiore all'atroce conflitto: ma in verità, non ho capito troppo perché mai essa Santa Sede debba prendersi in qualche modo la responsabilità della stampa cattolica italiana. Sta bene per l'Osservatore Romano ma, nel mio piccolo cervello, m'aspettavo una dichiarazione di disinteresse da parte della Santa Sede di ciò che possono dire o fare i giornali cattolici italiani, o francesi, o tedeschi, ecc. E tuttavia ci saranno le sue brave ragioni del fatto. Trovo che davvero il Santo Padre Benedetto XV dà prova di animo perspicace, elevato e cristiano. E i nostri stessi giornali cattolici, a parte quelle irresponsabilità loro di fronte alla Santa Sede e viceversa che io vagheggerei, preferisco siano intonati a molta equità. Non ho però l'animo tranquillo sulla nostra neutralità. Un viaggio recente in Germania mi ha convinto che noi siamo in fondo severamente giudicati. Ed effettivamente noi oggi abbiamo una etichetta neutrale (officiale) ma sotto quell'etichetta coviamo un'antipatia mal repressa per la Germania. È una posizione falsa, e bisogna uscirne. Io credo che voi tutti pubblicisti dovreste lavorare a questo… perché la indecorosità, la illogicità di questa antipatia reale che non sa arrivare alla guerra e di questa neutralità officiale che non sa imporsi al paese, è evidente. Si potrebbe anche più facilmente ottenere dalla stampa questo almeno: una distinzione tra Austria, con cui abbiamo lagnanze nostre vere, e Germania. Ma questo è poco, troppo poco. Se l'Italia non vuole rimanere poi miseramente isolata, bisogna che esca dall'isolamento adesso, o colla guerra (meglio persino forse una guerra sfortunata che questa neutralità losca, insincera) o con una iniziativa grande, generosa… Qui tornerebbe in campo la famosa idea della Lega dei neutri. Ti parrò forse un poco presuntuoso e sconclusionato, ma non sono solo a pensare le cosa che ti dico, non sono solo in questo paese estero dove le cose si vedono sotto un angolo diverso, ma che ha pure la sua importanza. Addio. Ossequi a tua moglie. Vedo che hai avuto una onorificenza… quel che più monta mi pare cambiata molto in meglio l'atmosfera in cui vivi. Rallegramenti. Affezionatissimo Semeria» 13 .
[11] L'epistolario ----Quasi in contemporanea si innesta la lettera cui si è fatto precedentemente riferimento, e che alla prima lettura crea un nuovo problema di datazione. Questa non era indicata, ma il testo non consentiva di fraintendere il periodo dello scritto. Il lungo accenno alla invasione del Belgio non appare equivocabile; tuttavia l'intestazione della lettera non era rivolta, come di consueto, all'amico o a Filippo, ma al suo titolo, e con il "lei". Evidentemente Semeria aveva sentito il bisogno di intervenire di persona; ma non potendo o non volendolo fare per ovvi motivo legati alla sua posizione (vedi il suo uso di firmare spesso i suoi scritti con pseudonimi o sigle) lo fa con una "lettera al giornale", che Crispolti avrebbe certamente pubblicato. «Egregio Marchese, chi Le scrive non è un uomo autorevole; no, è semplicemente un uomo di buon senso e che, piuttosto (poiché essere uomo di buon senso è già grandissima cosa), cerca di non perder la testa in questo turbinio di passioni che la guerra ha scatenato. Sono italiano, molto italiano di sentimenti nonché (non Le paia strano quanto poi dirò) perché vivo all'estero. Vivo in un ambiente ultra francofilo e torno proprio adesso fresco fresco da un viaggio in Germania. Non pretendo d'avervi colto una vasta massa d'osservazioni pellegrine, ma tutto quello che ho visto mi ha fatto gustare in modo speciale lo spirito della Dichiarazione del Momento… alla cui compilazione ho ragione di credere ch'ella non sia estraneo. Se vuol darmi un angolo di ospitalità, vorrei ribadire qui alcuni punti sui quali sarebbe così bello che tutta la stampa italiana più seria si trovasse d'accordo. Non entro in questioni di neutralità o meno; ma oggi non siamo ufficialmente neutrali e tutti siamo convinti che del serbare o rompere quest'attitudine è giudice il Governo a cui tutti dobbiamo l'arduo compito, non tanto esprimendo un nostro ragionato modesto parere (benché questo pure mi paia […] quanto mostrandogli intima fiducia e professandogli anticipatamente una alacre docilità. Siamo dunque neutri ufficialmente ogni ora, se lo siamo ufficialmente, perché non esserlo anche moralmente? Questa neutralità morale non esclude la simpatia intorno per uno o altro dei gruppi belligeranti, non esclude neppure qualche simpatica manifestazione delle simpatie interne. Ma allora alle espressioni simpatiche di simpatia ci sono manifestazioni antipatiche di antipatia e non oserei dire che la nostra stampa anche più seria se ne attenga sem-pre… Qualcuno direbbe che ci si abbandona troppo frequentemente. E il bersaglio di quella antipatia è la Germania. Non esiste da noi, ch'io sappia, una stampa gallofoba, esiste una stampa germanofoba. Si limitasse questa stampa a ricordare i torti che ha avuto verso di noi l'Austria, a esprimere desideri nazionali in contrasto cogli interessi austriaci, si potrebbe anche dire transeat. Il pubblico tedesco colto capirebbe tutto questo, perché c'è un pubblico tedesco colto e intelligente. Sarà bene ripeterlo oggi che è di moda (oh, la moda!) parlare della barbarie tedesca, come un anno fa era di moda parlare di cultura tedesca. Ciò che il colto pubblico Tedesco non capisce è perché mai e come mai noi italiani, dopo trent'anni e più di amicizia (dico 20 partendo dalla Triplice, ma prima della Triplice fin dal 1866 noi eravamo amici della Germania), anzi di alleanza, dopo che ci siamo dichiarati neutrali, nutriamo e sfoghiamo tanto malanimo contro di essi. Che cosa, si chiedono, abbiamo noi, noi Tedeschi, che cosa abbiamo fatto di male alla Italia? Non siamo noi che nel '66 vi abbiamo aiutato a conqui[stare…] non siamo forse stati sempre entusiasti e studiosi delle sue bellezze? non abbiamo accolto a migliaia i suoi operai trattandoli, per legge ordinaria, in modo che non hanno mai avuto a lagnarsene? Certi massacri operai non sono avvenuti da noi. A parte degli screzi particolari inevitabili, non siamo sempre proceduti d'accordo? Non abbiamo noi Tedeschi ospitato cordialmente gli innumerevoli studiosi che sono accorsi d'anno in anno alle nostre Università? Quando Tedeschi colti e squisitamente educati mi rivolgevano queste domande, io non sapevo che cosa rispondere. E mi vergognavo poi da me, leggendo sui nostri giornali accuse generiche di barbarie e contrapponendole per un verso ai nostri panegirici di pochi anni fa, per un altro verso allo spettacolo che mi si offriva dinanzi. Questo popolo Tedesco in questa ora di guerra è semplicemente meraviglioso. Io non dico che non lo siano anche gli altri, Francesi, Inglesi, Russi; non ho nessuna ragione di negare, né incluso unius è qui exclusio alterius né per lodare a destra ho bisogno di vituperare a sinistra. Ma la calma di tutta la popolazione, la laboriosità, l'affratellamento di tutte le classi, la regolarità economica sono stupende. Voi siete costretti a dire: che gran popolo! E magari poi a deplorare fra voi che tante virtù siano sciupate in una guerra colossale, che su questo quadro magnifico si distendano delle ombre. Che sugo c'è a negare tutto questo? Che male c'è a dirlo? È proprio onorevole per l'umanità che uno dei belligeranti sia un popolo di bruti? È onorevole per gli stessi avversari? Fossi un Francese, vorrei darmi il gusto di pensare, di credere che i miei nemici siano eroi, non canaglie. Per fortuna, a noi italiani, neutri finora, il compito è più facile. Dovessimo anche uscire dalla neutralità non vorrei che entrassimo nella regione spirituale degli odii bassi, volgari; vorrei combattessimo per qualche cosa, non che odiassimo nessuno. Ma ora… colla neutralità officiale, la serenità del giudizio e del linguaggio s'impone verso di tutti. Il mancarne, come troppi fanno spudoratamente, contro la Germania non solo è una ingiustizia, i fatti essendo quali li ho riferiti, non solo è una infedeltà -trent'anni di alleanza non si cancellano in un giorno -è anche una grossa imprudenza. Con questo linguaggio ostile la nostra stampa non fa un gran danno oggi alla Germania, ma prepara ben pochi vantaggi a noi per l'indomani della truce guerra. Vincitrice o vinta, la Germania sarà sempre la Germania, cioè un popolo di prim'ordine non solo militarmente, ma civilmente… coi suoi difetti, e grossi se volete, ma con delle enormi qualità e noi ne avremo bisogno ancora; forse ancora migliaia dei nostri Italiani vorranno cercarvi lavoro e pane; parecchi vorranno profittare delle meravigliose Università e biblioteche. Che accoglienze preparano a tutti costoro quei giornalisti leggeri che fanno consistere il patriottismo nella maldicenza, il valore nella ingiuria, lo spirito nel frizzo amaro? Se a giornalisti cattolici questo compito di serenità verso tutti i belligeranti è reso agevole dalla religione, vorrei che anche ai liberali fosse reso facile da un illuminato patriottismo. Del resto se domani sarà necessario far capire anche ai Tedeschi certe verità per essi un po' ostiche, vi riuscirà molto meglio una stampa e una nazione che abbia dato prova di serenità amichevole, che non un popolo abbandonatosi all'orgia di una volgare partigianeria. Siamo seri, per bene, una buona volta; [13] L'epistolario Semeria-Crispolti non dimentichiamo in un giorno gli anni, non passiamo con la sentimentalità dei fanciulli dagli osanna ai crucifige; riconosciamo la grandezza della lotta che in questo momento si combatte, gigantesca non solo per il numero dei combattenti, ma anche per molte virtù eroiche di cui tutti i combattenti danno prova. E invece di insultare alla barbarie tedesca, facciamo un poco tra noi i conti» 14 .
Il nesso tra le posizioni del Semeria di fronte alla neutralità prima e alla guerra poi con quelle relative al Fascismo, consente di interpretare con più fondamento quanto egli stesso scrive ed esprime in diverse circostanze. Le valutazioni abbastanza divaricate che si hanno nei suoi confronti in merito a questi temi esigono anzitutto che si escludano quelle che appaiono piuttosto derivate da un atteggiamento di accumulazione (fenomeno frequente nei casi di demonizzazione delle vittime di pubbliche accuse) tendenti ad ampliare l'area accusatoria o, al contrario, di strumentalizzazione. Per questo escluderemo scritti che piuttosto vanno considerati in entrambi i sensi ad usum delphini.
Tutta la passione nazionale del Semeria alimenta in un primo momento la decisa volontà di pace che emerge dal suo profondo sentire di sacerdote e di cristiano; la guerra è una sciagura che va evitata e contro la quale non ci si può limitare a sperare. Semeria si rivela in tutta la sua vita un combattente, che difende energicamente le sue convinzioni. Di qui nasce la sua proposta che, per esempio, Casciola e molti altri abbracciano con grande convinzione. Da qui numerose sue lettere dirette ad amici, a politici, a giornalisti, insomma a persone che potevano portare le sue proposte avanti con speranza di successo. Un'accoglienza però non senza contrasti in alcuni settori del mondo cattolico 15 , e sembra anche da parte dello stesso Crispolti che, rappresentante autorevole e ascoltato, reagisce freddamente di fronte alla sua proposta che giudica del tutto irrealizzabile. Semeria è mosso dal desiderio di pace e anche dalla preoccupazione che l'Italia venga a trovarsi, con la sua neutralità passiva, in situazione morale e politica di vergogna e di emarginazione, giudicata come chi voglia usufruire di una posizione privilegiata quando tutti i belligeranti fossero ormai esausti. Per questo, mentre da un lato cerca di for-consiglio, ma tu dovresti battere e ribattere forte questo chiodo sulla stampa. I cattolici debbono avere più netta la coscienza morale della guerra e spanderla intorno a sé. La stampa può compiere un simile ufficio, La nota generosa non vibrerà indarno sotto la penna tua e di altri uomini di parte nostra. Si tratta di riprendere le nobili tradizioni manzoniane, le tradizioni del '48 guelfo, quando le nostre rivendicazioni erano fatte sulla base d'un principio universale, e si chiedeva a gran voce una patria libera per noi e per tutti. Dio ti aiuti a far bene questa santa campagna. Prega per me che almeno la guerra mi riapra, non fosse che momentaneamente, le porte d'Italia. Ossequi a tua moglie. Affezionatissimo Semeria» 17 .
Sarà l'esperienza di Cappellano militare al quale Cadorna lo ha chiamato, alla quale si è offerto come a un dovere sacerdotale per essere a fianco dei soldati, che completerà quella che possiamo definire l'apertura totale degli occhi sulla guerra «che è comunque e sempre una sciagura», come scriverà in altro testo, e da non accettare. «Caro amico, ti ringrazio dell'invio del tuo doppio articolo… non posso congratularmi con te dell'articolo stesso. Vedi combinazione… mentre tu col tuo solito garbo e acume malmenavi il mio articolo Brusadelliano, io lavoravo di mani e di piedi a difendere te e articoli tuoi recenti (la proposta di Lord George 18 ), articoli a cui sottoscrivo ambabus manibus, in quegli ambienti dove hanno fatto pessima impressione, o almeno assai cattiva. Qui ogni accenno non dico di astensione in merito alla guerra (astensione spirituale) ma di poco favore è giudicato un neutralismo persistente, e persistente in forma subdola, con effetti, se non con intenti, quasi proditori. Sono, lo ammetto, ipersensibilità dell'ambiente, che non è tuttavia un ambiente né volgare né stupido… ma bisogna tenerne conto. Tanto più che s'ha da badare all'effetto concreto dei discorsi che si fanno. Ora l'effetto concreto di discorsi del genere che tu suggerisci agli italiani "la guerra nostra è giusta o no? è utile o no? chi lo sa? Lo sa il Governo… noi ci battiamo perché lo ha detto e lo dice lui senza cercar più oltre" è disastroso. Perché con quale coraggio vuoi che combatta un esercito che abbia per sistema qualche bella convinzione? E come vuoi che regga alla guerra un popolo a cui si sia predicato quello che tu suggerisci? Fu così il '59 e il '66, ma, caro mio, quelle guerre sono state un gioco di fanciulli a petto di questa… sono passate poche settimane, pochi mesi; qui si tratta ormai di anni e non è finita né accenna a finire. La carità di patria ci suggerisce di tener alto, non di tener freddo l'animo dei combattenti. Credi tu che il linguaggio da te suggerito ai cattolici italiani sia quello dei cattolici francesi e tedeschi? Ed è poi proprio sincero? Sulla base dell'ordine dato dai Superiori, la morale cattolica ha suggerito sempre di edificarsi una convinzione interna della bontà della cosa ordi-nata, non una astensione, che mi pare il suggerimento tuo. L'intimo tuo non lo so; ma l'impressione che fanno sul pubblico i ragionamenti del tuo genere è questa: voi cattolici non avete il santo coraggio di dire che la guerra è stata una corbelleria, se non una furfanteria -non siete così ingenui da andar in galera -e non avete neanche il coraggio di dire che è stata una guerra giusta e buona; pur se siete convinti del contrario ve la cavate col silenzio, l'astensione; ma questa copre l'ostilità, l'avversione. Il risultato finale sarà che per questa tua via noi passeremo a guerra finita per un partito antipatriottico malgrado quello che tutti avranno fatto alla meglio e molti avranno fatto di male. Contro i fatti eroici patriottici staranno le sottili parole. Tale fu realmente il mio pensiero non di guerrafondaio, tu lo sai -non di uomo d'odio, tu lo sai -ma di osservatore sereno della vita politica che è quella che è. E politica non si può non farne noi nel nostro mondo moderno, dove ogni uomo è cittadino, con un voto in tasca che deve al momento opportuno dare a Tizio, Caio e Sempronio. Politica è la posizione di chi dice: la guerra è buona cosa... come di chi dice: è un altro affare; come di chi soggiunge: non ne so nulla se non che il Governo Salandra l'ha voluta. Anche l'agnosticismo è una filosofia a suo dispetto. Tu hai molta autorità e meritata nel nostro campo e io appartengo alla schiera di coloro che se ne sono sempre rallegrati. Perciò i tuoi articoli hanno una doppia importanza: il seguito che trovano presso gli amici, il valore rappresentativo che assumono presso i nemici. Questi oggi hanno interesse a dipingere i Cattolici come degli ostinati neutralisti, ostinati e subdoli, che non dicono quello che pensano, ma pensano molte cose che tacciono o dicono sotto voce… E poiché è interesse dei nemici il dipingerli tali, non so se sia interesse nostro il lasciarci dipingere come tali. Più scriverei se avessi tempo. Io non voglio che noi cattolici italiani siamo nazionalisti, guerrafondai, predicatori d'odio, ma abbiamo le energie di formarci delle convinzioni politiche, e pur lasciando a ciascuno nell'ambito della dottrina morale cristiana di formarsi le sue, non eleviamo a dignità di ideale il non averne nessuna… salvo al prendere atto degli ordini del Governo ed eseguirli. Addio carissimo. Saluti a tua moglie. Affezionatissimo Semeria» 19 . La corrispondenza tra i due continuò con un salto attorno agli anni venti, quando Crispolti, nominato senatore dall'ultimo Governo Facta, prese la parola in Senato il 3 dicembre 1924, in occasione della proposta di legge tesa a "normalizzare" il fascismo. Mussolini aveva allora inviato un suo documento personale al Direttorio del partito, nel quale affermava di essere contro la violenza perché questa portava grave danno al Governo e al Fascismo. Crispolti si era espresso dicendo: «Intendiamoci: avrei desiderato che su questo punto l'estensore avesse adoperato in certi momenti altre parole… Avrei voluto che parlando della violenza, l'onorevole Mussolini avesse detto di astenersene [17] L'epistolario ---- 19 Lettera del 21 ottobre 1916. Vedi Fig. 3. non soltanto perché essa porta grave danno al Governo e al fascismo, ma perché ciò è un delitto, e il delitto non si deve commettere. Le masse, on. Presidente del Consiglio, a qualunque partito appartengano, fortunatamente sentono ancora oggi più forte la voce che parla loro di giustizia, che quella che parla loro di utilità. E qui apro una parentesi; a chi stamani leggeva il messaggio vicino a me, è sfuggita questa osservazione: "sono parole!". Certo, i messaggi sono sempre parole, ma ciò che appunto si attendeva dal Governo era appunto una parola; atti repressivi ne aveva compiuti molti, ma la parola del Governo, che sopra i suoi ha maggior forza della repressione, quella non si era solennemente sentita. Voglio dire che finalmente l'onorevole Mussolini impone al partito stesso di prendere l'iniziativa della propria epurazione» 20 .
A questo discorso Semeria espresse un globale consenso, sottolineandone il coraggio in un Senato -oltre che in un regime, pur se ancora non formalmente costituito in Regime -ormai praticamente domato, ma aggiungendo precise riserve. Scrive Semeria il 18 dicembre 1924: «Caro amico, lascia che mi rallegri per il discorso bello, coraggioso, civile, cristiano tenuto al Senato. Hai fatto il tuo dovere dicendo quello che hai detto. Hai saputo difendere le ragioni della giustizia confermando quelle della carità. Credo che noi cattolici dobbiamo mostrare fame e sete della giustizia, perché o io sbaglio o se non l'avremo e non lo mostriamo, un giorno il popolo potrà chiamare responsabile la Chiesa della propria debolezza. Ma dobbiamo mostrare che è proprio zelo di giustizia e non odio di persone o avversione di parte che ci domina».
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