La nave
sulla scena teatrale
Marija
Mitrović
Università di Trieste
D
alla biblica arca di Noé e dalla barca mitologica con la quale Caronte
trasportava le anime dei morti all’Ade, gli oggetti natanti hanno un ruolo
altamente simbolico e occupano un posto importante nel mondo dell’immaginazione e dell’arte. Navigare richiede sforzo, resistenza e coraggio,
porta all’incontro con l’ignoto, esotico e avventuroso. La nave è come un
mondo in miniatura: su una superficie minuscola vivono e lavorano genti
di diversi paesi che spesso, oltre ad avere la pelle di colore diverso, parlano lingue diverse e sono caratterizzate da abitudini diverse. Anche i nomi
delle parti di un oggetto navigante lo avvicinano ad un essere vivente, alla
sua pienezza, alla sua diversità e alla sua fertilità: nella lingua serba/croata la nave ha “utroba” (trad. lett. visceri), “kljun” (trad. lett. becco), “telo”
(trad. lett. corpo), “kobilica” (trad. lett. piccola cavalla). I sogni, gli ideali, il desiderio di scoprire il nuovo, di collegare il visibile con l’invisibile,
il reale con l’immaginario, nei miti e leggende più vari sono sempre associati agli oggetti natanti.
Una delle prime opere della letteratura croata a raggiungere una notorietà popolare è un libro in prosa che si intitola Korabljica (Barca).
Andrija Kačić Miošić (1704-1760), l’autore di questa raccolta di prosa,
pubblicata a Venezia nel 1760, è uno dei primi autori di bestseller della letteratura croata. Divenne famoso perché sapeva utilizzare modalità comunicative vicine all’uomo comune, quali il decasillabo epico sul piano formale e la narrazione aneddotica. Per quanto riguarda i temi è sempre rima-
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sto fedele alla storia e degli eventi storici si fece divulgatore. Il libro intitolato Korabljica (nome arcaico per la nave) non descrive gli avvenimenti o avventure marittime, il narratore non scende sulla nave e non la descrive in nessun modo. Partendo dalla Bibbia e dalle cronache medievali,
Kačić Miošić racconta gli eventi del sud slavo dalla nascita di Cristo fino
ai giorni a lui contemporanei. E poiché questo testo ricco di temi storici,
mitici e biblici necessariamente contiene “ogni tipo di ogni cosa e di ogni
evento”, l’autore lo intitola semplicemente: Barca, ispirandosi alla biblica
arca di Noé, sulla quale si sono imbarcati tutti gli esseri viventi che all’epoca esistevano al mondo. Già allora l’autore poteva contare alla capacità
del lettore di recepire il titolo metaforico come un richiamo all’abbondanza e alla diversità del mondo.
Nello stesso modo in cui, da una parte, la letteratura usa l’oggetto
natante come una metafora per la ricchezza e la varietà dei oggetti ivi
imbarcati, così, dall’altra, è straordinariamente vasta la gamma di nomi
che indicano gli oggetti natanti in ogni lingua. Elenco qui solo quelli più
frequenti, usati più spesso per designare un oggetto natante in lingua
serba/croata/bosniaca:
brod (brodica), lađa, korab, korablja, čun, čamac, gondola, kajak, kaić, vapor,
parobrod, barka, barkun, jedrenjak, plav/plavca, splav, šajka, šiklja, galija, galion,
fregata, jahta...
È logico che una nozione così ricca di significati e di valori simbolici attragga gli scrittori e successivamente anche gli autori di drammi, sebbene sia chiaro che sul palcoscenico non sia facile rappresentare un oggetto natante. Per questa occasione abbiamo scelto tre drammi scritti nella
lingua che all’epoca si chiamava serbo-croato. Sono drammi scritti da
autori di grande rilevanza, che oltre ad essersi esibiti come autori per il
teatro, erano anche affermati e stimati scrittori di prosa.
Miroslav Krleža (1893-1981) all’inizio della sua carriera letteraria
(dalla vigilia della Prima guerra mondiale fino agli anni venti) era ossessionato dal tema di grandi uomini, geni, e del loro conflitto con l’ambiente in cui vivevano. Nelle opere teatrali di Krleža tre personaggi storici hanno avuto ognuno il proprio dramma: Gesù Cristo, Cristoforo Colombo e
Michelangelo. Il dramma intitolato con il nome del personaggio che ha
scoperto l’America si svolge interamente sulla galea “Santa Maria”. Con
il titolo Cristobal Colon, che riportava la versione spagnola del nome di
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questo grande esploratore e con la dedica a Lenin, Krleža aveva consegnato il dramma al direttore del principale teatro zagabrese nel 1917. Il
direttore l’aveva respinto sicuramente non a causa della dedica (perché
allora Lenin godeva molta stima in quelle parti d’Europa), ma perchè il
dramma gli sembrava irrappresentabile. Il testo fu pubblicato solamente
un anno dopo, ma già allora privo della dedica e con la variante italiana
del nome del grande esploratore Cristoforo Colombo, pezzo teatrale di
tendenze espressionistiche, è molto complesso: sarebbe facile rappresentarlo sul grande schermo, ma quasi impossibile sulla scena teatrale. Sulla
scena devono comparire non solo l’equipaggio che nel momento drammatico della sfiducia verso il capitano si trova sul ponte della nave, ma
anche gli schiavi incatenati ai remi in sottocoperta, ove scoppia una sommossa che spinge poi il comandante a gettare in mare i rivoltosi. Il dramma è rimasto nel cassetto per quasi mezzo secolo ed è stato rappresentato
per la prima volta appena nel 1955, come lo spettacolo di laurea di una
giovane generazione di talentuosi attori belgradesi. Per poter metterla in
scena all’epoca del controllo rigido da parte della censura comunista, l’autore ha dovuto intervenire e modificare il finale: originariamente il protagonista era l’uomo che denunciava la necessità del cambiamento radicale
di un mondo ormai corrotto. Ma, in seguito alla rivoluzione, il protagonista non poteva finire nella solitudine totale e in contrasto con il mondo che
lo circonda. Colombo non poteva più tuonare contro il mondo come menzogna, condizione che si poteva superare solo avvicinandosi al mondo
nuovo, all’ignoto come tale. Egli rinuncia dunque al suo ruolo prometeico
e si fa visionario di un futuro di speranza.
Il dramma ha avuto ancora una rappresentazione, l’unica a rispettare
il testo originale del 1917, che fu molto riuscita. Georgij Paro, regista e
insegnante di arte teatrale non solo in Croazia, lo allestì su una nave vera
che navigava nel porto di Ragusa (Dubrovnik) nel 1973. Si trattava di teatro realistico e il pubblico faceva parte di quella massa alla quale il drammaturgo assegnava il ruolo di comparsa sulla nave che scopriva l’America.
L’autore croato Milan Begović (1876-1948) era più famoso e più
rappresentato fuori Croazia che nel suo paese, soprattutto nell’area germanica (dal 1890 fino al 1915 Begović ha lavorato come drammaturgo nei
teatri di Amburgo e di Vienna). Anche il dramma di cui parleremo brevemente qui, Amerikanska jahta u splitskoj luci (Lo yacht americano nel
porto di Spalato) è stato pubblicato per la prima volta nel periodico men-
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sile belgradese Srpski književni glasnik (Gazzetta letteraria serba) in cirillico nel 1930; a Zagabria soltanto nel 1964. Intanto è stato messo in scena
più volte – già nel 1930 al Teatro nazionale croato a Zagabria (Hrvatsko
narodno kazalište – HNK), poco dopo è stato allestito anche a Belgrado,
poi nel 1979 a Spalato, dove la rappresentazione è avvenuta all’aperto e
infine nel 1990, quando è stato messo in scena ancora una volta al Teatro
nazionale croato. Negli anni settanta è stato oggetto di un adattamento televisivo e nella Repubblica Ceca di una versione cinematografica1. Per
quanto riguarda l’allestimento della scena il dramma non è particolarmente impegnativo e il suo indirizzo stilistico come anche il suo riferimento ai
problemi sociali hanno contribuito ad un successo di pubblico. Nel primo
e terzo atto del dramma dalla finestra del soggiorno di un palazzo nel quale vive una famiglia nobile, un tempo potente ed ora decaduta, i personaggi osservano lo yacht ancorato nel porto di Spalato. Solo nel secondo atto
l’azione si sposta sul ponte, e sempre sul lussuoso yacht si tiene la solenne cena, decisiva per il destino dei protagonisti.
Vida Ognjenović (1941-) ha delineato in modo molto preciso il contesto spazio temporale del dramma My name is Mitar: esso si svolge nel
1910 nel sottocoperta del transatlantico “Dante”, la nave di linea che collegava le Bocche di Cattaro e New York. Il dramma è stato scritto nel 1983
e l’anno successivo è stato messo in scena al teatro belgradese Atelje 212,
il cui palcoscenico ha ospitato nel lontano 1956 per la prima volta nell’Est
europeo Aspettando Godot, al pari di opere di altri numerosi autori occidentali d’avanguardia che all’epoca nelle altre città dell’Est non venivano
rappresentati.
Tutti e tre i drammi riflettono la realtà sociale, politica e antropologica del tempo. All’epoca della Prima guerra mondiale la prima grande
svolta è stata la Rivoluzione russa capeggiata da Lenin e Krleža vede il
suo Cristobal Colon come una persona profeticamente solitaria, come un
solipsista piuttosto che un rivoluzionario, sebbene egli sia interessato al
fenomeno della rivoluzione, di evidente attualità. È vero che si corregge
quasi subito, omettendo la dedica originaria a Lenin, e tuttavia il contesto
in cui germina quest’opera è determinato proprio dalla Grande guerra e dai
rivolgimenti rivoluzionari; un’opera, in realtà, ideata piuttosto come una
leggenda di difficile rappresentabilità scenica più che un dramma vero e
proprio. Lo spazio ristretto del ponte navale è il luogo in cui il protagonista diventa profeta del nuovo, scopre l’importanza e la grandezza di spazi
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sempre nuovi e di nuovi mondi, che non sono solo geograficamente nuovi.
Quel dramma mette in scena una serie di dilemmi legati alla società: quale
tipo di rapporto esiste tra il nuovo e il vecchio mondo, il cambiamento ha
solo un significato sociale o deve avere anche un senso metafisico, e quale
legame c’è tra il leader e la massa.
Milan Begović scrive il suo dramma durante la grande crisi economica del 1929. La famiglia diventata povera all’improvviso guarda con nostalgico desiderio lo yacht americano che adesso appartiene al loro ex domestico e cerca di risolvere i problemi materiali tentando di instaurare rapporti
matrimoniali e commerciali con il ricco proprietario dello yacht. Lo yacht
qui è il simbolo della ricchezza nuova, del nuovo mondo, dell’America, che
permette all’individuo di innalzarsi e realizzare, già nella prima generazione il “Sogno americano”, l’American Dream.
Negli anni ottanta del secolo scorso, quando nasceva il dramma di
Vida Ognjenović, nella Jugoslavia di allora, l’emigrazione diventa un fenomeno di massa. In quegli anni il lavoro non si cerca oltre oceano come
accadeva fino alla Seconda guerra mondiale, bensì nei paesi europei, soprattutto in Austria, in Germania e in Francia. Nello stesso periodo, in tutte
le repubbliche jugoslave questo era il periodo del massiccio apprendimento delle lingue straniere, l’epoca in cui ognuno, già dalla terza elementare doveva affrontare le difficoltà di pronunciare le prime parole straniere, e due anni dopo anche lo studio di una seconda lingua straniera. L’autrice del dramma poteva dunque senza fatica creare effetti comici facendo
pronunciare ai viaggiatori montenegrini sul transatlantico le parole inglesi con il tipico accento epico montenegrino.
Nonostante siano stilisticamente diversi, tutti e tre i drammi, che si
svolgono interamente o solo parzialmente (come nel caso del dramma di
Begović) su una nave, sono particolari studi sociologici dell’epoca in cui
sono stati creati.
Nel dramma Cristofor Colombo Krleža si sofferma sul momento più
emozionante del viaggio, la notte che precede la scoperta del Nuovo mondo. Una terribile tempesta impazza, e tutti sono profondamente delusi e arrabbiati perché hanno intrapreso un viaggio che pare interminabile. Quella
sofferenza corporea dei marinai oltre ad essere ”il teatro fisico più forte è
anche realizzato nella maniera più coerente di tutta la drammaturgia croata” (Gašparović 32) è uno spettacolo rituale della paura dalla morte. A
Krleža il mondo si mostra come la metafora dell’inferno, del manicomio.
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E in quel manicomio, cioè sulla scena, entra l’ammiraglio Colombo. Portando dentro di sé l’idea dell’Utopia, Colombo incarna la ricerca dell’impossibile: per lui è impossibile il ritorno alla corruzione della Spagna dalla
quale era scappato cercando il Nuovo. Preda della collera ribelle della massa infuriata, Colombo non cerca di calmarla con promesse e concessioni,
ma la contrasta con la sua personale utopia e con l’autorità dell’ammiraglio, cioè del Leader:
Admiral: samosvijesno i okrutno: Narode! Ja hoću da uhvatiš veslo. Ja hoću da se
pobijemo s gromovima i s morem. Ja hoću, narode! (Ammiraglio: con disinvoltura e con crudeltà: Popolo! Io voglio che tu prenda il remo. Io voglio che noi combattiamo contro i tuoni e il mare. Io voglio, popolo!)
Ma la ciurma lo prende in giro, vuole linciarlo, e quando il condottiero canta la canzone con la quale annuncia l’avvenire del Nuovo, all’improvviso, come nelle tragedie greche, deux ex machina, appare il sole e la
terraferma. Il dramma dell’estasi adesso si trasforma nel dramma della fiducia e del dubbio. Inizia il dialogo tra Colombo e l’Ignoto. Alla fine, l’Ammiraglio conclude: se l’uomo vuole perseverare negli ideali, deve navigare
da solo in quella direzione. Quel motivo della solitudine dell’uomo, del
resto presente anche nelle altre opere di Krleža, è particolarmente marcato nella scena finale, in cui Colombo crocifisso sull’albero grida alla folla
che ha davanti.
In un certo senso anche lo Yacht americano nel porto di Spalato di
Begović è un dramma dove si confrontano il Vecchio e il Nuovo Mondo,
i patrizi decaduti e i loro ex servitori, ora proprietari di yacht lussuosi. Come ricorda A. Kudrjavcev (199-205) proprio verso la fine degli anni Venti
gli yacht privati dei milionari americani entrano nell’Adriatico e quindi
anche nel porto di Spalato. I quotidiani spalatini di allora seguono con interesse questi eventi (più o meno nello stesso modo in cui i quotidiani triestini seguono l’attraccare di grandi navi da crociera che portano per un
breve periodo migliaia di turisti in città). Comunque, la critica non ha riconosciuto in Begović il drammaturgo capace di descrivere i problemi tipici
di Spalato (i patrizi erano decaduti da ormai tanto tempo, la crisi economica europea aveva colpito la borghesia cittadina, l’industria, i commercianti...), e lo ha accusato di disegnare i personaggi e le situazioni con
poca profondità psicologica. Tuttavia, come sottolinea Senker (45) “l’inaspettato e secondo molti critici anche psicologicamente poco convincente
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cambiamento nel comportamento di Phoebe e Tudor Begović si spiega con
un influenza dell’ambiente eccessivamente forte su tutti i personaggi che
vi si trovano.” Quando l’azione si sposta dal salotto patrizio sullo yacht, i
signori e soprattutto la signorina Điđeta si sentono persi e spaventati.
Quando, invece, nel terzo atto, Tudor, il proprietario dello yacht, arriva nel
salotto dove una volta lavorava come servitore, egli “mette da parte i suoi
principi ‘americani’ e accetta le norme che regnano nel mondo dei patrizi
dalmati decaduti” (ibid.); salva la famiglia dai guai finanziari intestandole un assegno per un importo molto alto. Ciò che altri critici giudicavano
come un atto non motivato, come una sorta di deus ex machina, è invece
considerato da Senker come il risultato della fiducia dell’autore nel ruolo
dello spazio nella soluzione dell’agone drammatico: il salotto qui è il simbolo del vecchio e della decadenza mentre lo yacht simboleggia il mondo
nuovo e ricco. Tutta l’azione e la caratterizzazione dei personaggi sono
messi in relazione con questi significati simbolici dello spazio e del luogo.
Per essere più vicini al testo originale della commedia My name is
Mitar scritta dalla scrittrice belgradese Vida Ognjenović, dovremmo riprodurre il titolo inglese in lettere cirilliche. Perché questa “ballata scenica
sull’emigrazione“ (come recita il sottotitolo) è stata ispirata da un libricino, pubblicato nel 1910 a Saint Louis negli USA anch’esso in lettere cirilliche con il titolo Uputstva srpskom radeniku u Americi (“Istruzioni per i
lavoratori serbi negli Stati Uniti”). L’autrice, nata nelle Bocche di Cataro,
dichiara di aver trovato questo libricino nella biblioteca di famiglia, ma
solo dopo averlo ritrovato presso il Library of Congress si è messa a scrivere un dramma sulla vita difficilissima degli emigrati.
Nel lontano 1984 molte sere vicino a casa mia a Belgrado, sulla piazzetta davanti al teatro Atelje 212 si sentiva il canto stonato di un gruppetto
di giovani e meno giovani con gli abiti tipici montenegrini tradizionali, tutti
con le valigie e con un ombrello sotto braccio. Le canzoni erano tristi, si
cantava l’addio alla piccola patria perché bisognava partire oltre Oceano. Il
gruppo, seguito dal pubblico, entrava poi nella sala sotterranea del teatro,
allestita tutta come se si trovasse sottocoperta di un transatlantico. Lì si assisteva alle prove continue di tutti i membri del gruppo intenti a comprendere e pronunciare le loro prime parole in quella nuova lingua (come spiegava l’autrice, nel libro pubblicato negli USA nel 1910 tutte le trascrizioni delle parole inglesi erano “tradotte“ in lettere cirilliche). Anche la pronuncia di questa gente stonata era tale da non assomigliare affatto all’in-
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glese. L’accento, la melodia, tutto si piegava verso la pronuncia di un serbo antico e regionalmente molto marcato.
Assistiamo alla scena dell’inizio della vita in terra straniera: le persone
che viaggiano verso il Paese ignoto si interrogano su cosa diranno a chi e come
si esprimeranno nella nuova lingua una volta arrivate nel mondo ignoto. Agli
occhi di uomini e donne che partono da un sistema sociale arcaico e rigorosamente patriarcale tutto sembra estraneo e tutto incute timore. Essi rimangono
relegati sottocoperta; lì sotto studiano, si interrogano, si ammalano, muoiono… finché viene a trovarli l’unica persona della quale si fidano perché parla
la loro lingua e conosce anche l’inglese. Solo di lui hanno fiducia ed è per questo che la loro delusione è immensa quando scoprono che gli ha ingannati
anche quel uomo che sembrava essere uno di loro, il quale aveva sottratto i
documenti di un montenegrino appena defunto che – secondo le regole di
bordo – era stato gettato a mare. L’unica persona di cui si fidavano giunge dunque in quella terra sconosciuta che tanto li impaurisce provvisto di documenti
falsi: si scopre infatti che anche quell’uomo era una specie di avventuriero,
cioè un anarchico ricercato. Così l’ultimo punto di riferimento di questa gente
dalla mentalità chiusa e ancorata alla tradizione crolla sulla soglia del Nuovo
Mondo, e sulle loro labbra rimangono solo le bestemmie. My name is Mitar è
un dramma eccellente sul conflitto tra la tradizione e il mondo nuovo, ignoto,
minaccioso, pauroso, un dramma pieno di lacrime e sorrisi.
In tutti e tre i testi teatrali la nave è il veicolo che porta in America o
da essa torna. L’America è il simbolo di un mondo completamente nuovo,
è la patria della felicità promessa facilmente realizzabile, ma è anche il
luogo dell’emigrazione amara. In nessuno dei drammi i passeggeri sbarcano sul suolo americano, il viaggio è più importante della destinazione
finale, l’attesa è più drammatica dell’affrontare la realtà.
Il dramma di Krleža simbolizza il mondo in misura più grande.
Krleža poteva dimostrare tutta la solitudine e l’isolamento dell’individuo
geniale solamente dopo che ha collocato il mondo su una nave, dopo che
ha considerato la nave il mondo intero.
Nel dramma sul carattere tragico dell’emigrazione lo spazio stretto e
chiuso del sottocoperta pone in risalto la chiusura della gente che si è avviata verso il mondo nuovo e, quindi, la loro paura di quel mondo nuovo,
dell’acqua che li circonda, delle persone che viaggiano con la stessa nave
ma parlano altre lingue, quella loro paura, su quella nave, in quel stretto
sottocoperta, è – enorme.
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Il simbolo dello yacht ancorato nel porto di Spalato è molto più semplice e di natura molto meno antropologico-psicologica: esso è il frutto del
desiderio forte, la personificazione e addirittura lo stereotipo della ricchezza, del lusso che una volta apparteneva anche alla famiglia spalatina.
Adesso il baricentro del mondo si è spostato sull’altra semisfera; il nostro
mondo si è svuotato, è diventato insensibile, buio.
In conformità alle leggi del genere letterario del dramma moderno, il
dramma meno complesso e il più semplice, il più realista, è stato messo in
scena più frequentemente. I drammi di contenuti filosofici, esistenziali,
dalla struttura complessa, vengono messi in scena raramente e con molte
difficoltà, non solo scenografiche, ma anche di comprensione da parte
della critica. I primi drammi di Krleža sono piuttosto concepiti per la lettura, mentre il testo della Ognjenović, che rammenta i giorni difficili di
una determinata occorrenza storica, tende ad essere sottovalutato in una
fase di costruzione della nazione (montenegrina), che vuole vedersi rappresentata come sempre vincente.
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A
1
120
Note, Notes, Anmerkungen, Notes
B
Ringrazio qui il collega Boris Senker di Zagabria che mi ha fornito i dati che
riguardano il destino del dramma di Begović
A
Opere citate, Œuvres citées,
B
Zitierte Literatur, Works Cited
Zbornik radova sa skupa Milan Begović i njegovo djelo. A cura di Josip Ante
Soldo. Vrlika-Sinj 1997, 280.
Recepcija Milana Begovića. Zbornik radova sa međunarodnog znanstvenog skupa
povodom 120. obljetnice rođenja Milana Begovića. Zagreb 1998, 487.
Boris Senker, Begovićev scenski svijet. Zagreb 1987, 257.
Gašparović Darko, Drammatica Krležiana. Zagreb 1989, 246.
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