Aspetti del regionalismo italiano del primo dopoguerra
di Valerio Strinati
Accentramento, autonomie locali e regioni nella crisi del primo dopoguerra
Nel periodo compreso tra il 1919 e la marcia su Roma, il dibattito politico sulla crisi del sistema liberale registrò, tra le ricette più o meno radicali di rifondazione del rapporto tra cittadini e istituzioni, una significativa ripresa di interesse verso i temi del decentramento amministrativo e delle autonomie locali, che, dopo essere stati per decenni appannaggio di élites non rassegnate alla sconfitta delle proposte regionaliste formulate a ridosso dell’unificazione amministrativa, tornarono ad animare la polemica contro l'accentramento in un momento di grande dinamismo politico, configurandosi come un punto di coagulo non secondario delle posizioni di contestazione dell’egemonia della classe dirigente liberale, il cui declino era considerato ormai da più parti irreversibile.
Autonomia, regionalismo, federalismo si riproposero allora come espressione di un'istanza di rinnovamento delle istituzioni e di ampliamento della partecipazione politica
“Gli anni del dopoguerra […] – ha scritto Ernesto Ragionieri – furono caratterizzati da un sommovimento interno di carattere radicale nella società italiana, da una rottura dell'equilibrio precedente dalla quale emerse una tendenza al configurarsi in modo diverso della posizione e dei rapporti reciproci fra i singoli gruppi sociali del paese. La esplosione regionalista e la tendenza a organizzarsi su scala regionale e con finalità regionaliste che fu caratteristica di importanti gruppi politici dell’Italia meridionale e insulare ne costituirono una delle riprove più significative"(E. Ragionieri, Accentramento e autonomie nella storia dell’Italia unita, , in “La Regione”, n. 1, gennaio-febbraio 1963, p. 30).), non più procrastinabile per un Paese uscito gravemente provato dal conflitto e ormai diffidente nei confronti di una classe dirigente che, dopo avere rischiato di perdere la guerra, si accingeva a perdere la pace, per l'incapacità di cogliere l’insieme dei problemi di una società insieme stremata ed animata da un’aspettativa di cambiamento diffusa in tutti i ceti sociali e intensamente sostenuta, in particolare, dai combattenti, intenzionati a rivendicare senza sconti il compenso delle sofferenze patite in tre anni di trincea.
Non mancavano elementi di fatto che spingevano in questa direzione: lo sforzo bellico, infatti, aveva sollecitato una notevole centralizzazione dei poteri decisionali nelle mani dell’Esecutivo e dello Stato Maggiore, con la conseguenza di comprimere l'attività di tutti gli organi rappresentativi, dal Parlamento alle autonomie locali. A conflitto concluso, si trattava quanto meno di ripristinare le condizioni di normale funzionamento degli enti territoriali, secondo un impegno genericamente già assunto da Vittorio Emanuele Orlando nella qualità di ministro dell’interno del Governo Boselli e, successivamente, di Presidente del Consiglio
Cfr. R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura cit., p. 278.. In realtà, se si guarda ai primi programmi elaborati per il dopoguerra, si coglie soprattutto l’intenzione di rinviare la soluzione del problema del decentramento amministrativo, a fronte di altre emergenze ed urgenze. In tale direzione sembravano infatti orientate le commissioni istituite per affrontare i problemi della transizione dalla guerra alla pace. Così, ad esempio, alla Commissione Villa (dal nome del suo presidente, Giovanni Villa, senatore e avvocato erariale dello Stato), istituita con l'art. 13 del Decreto luogotenenziale 10 febbraio 1918, n. 107, e nominata dal Ministro del tesoro, fu affidato il compito di elaborare le linee di una riforma amministrativa, ma essa si limitò ad affrontare le emergenze ritenute prioritarie: la semplificazione degli organi dell'amministrazione e del sistema dei controlli; la razionalizzazione degli uffici, con la soppressione di gradi gerarchici pletorici e, cosa più rilevante, la riduzione del personale in misura non superiore ad un quarto per ciascun Ministero e per l'amministrazione delle Ferrovie dello Stato. La priorità era dunque assegnata al profilo finanziario, e l’esigenza prevalente era quella di giungere ad un drastico ridimensionamento degli organici, per ridurre gli oneri ormai insostenibili a carico del bilancio dello Stato, attraverso una politica di contenimento dell'espansione delle funzioni pubbliche, determinata dalle contingenze belliche, ma prevedibilmente destinata a protrarsi, almeno in parte, anche in tempo di pace
Scriveva Vittorio Scialoja, già ministro del governo Boselli: “La tendenza, già notevole, ad una progressiva estensione dei compiti dello Stato ha trovato nella guerra favorevoli condizioni per una spinta potente. Lo Stato non dovrà conservare tutte le attribuzioni che esercita durante la guerra, moltissime delle quali […] hanno le loro ragione di essere solo nelle eccezionali condizioni belliche e quindi verranno meno o dovranno trasformarsi col cessare di esse. È certo però che le profonde trasformazioni prodotte dalla guerra nell’organismo sociale non scompariranno del tutto e che il nuovo assetto sociale ed economico richiederà un regime di più rigida organizzazione in ogni campo di attività. I compiti futuri dello Stato risulteranno quindi di gran lunga aumentati in confronto al periodo anteriore alla guerra. E non si tratterà soltanto di aumento quantitativo, ma di vere e proprie funzioni nuove nel campo fattivo dell’attività sociale” (V. Scialoja, I problemi dello Stato italiano dopo la guerra, Bologna, Zanichelli, 1918, p. 244-5)
; al tempo stesso, contraddittoriamente con tali premesse, si auspicava che una politica di austerità potesse consentire il recupero delle risorse necessarie per fare fronte alle richieste di adeguamenti retributivi da parte dei pubblici impiegati, i cui stipendi non riuscivano a tenere il ritmo dell’inflazione
Cfr. A. Porro, Le inchieste parlamentari e governative sul problema della burocrazia nel primo dopoguerra italiano, Roma, Camera dei deputati, Segretariato generale, 1969, pp. 19-28. Una impostazione analoga a quella perseguita dalla Commissione Villa fu adottata anche dalla Commissione governativa incaricata di "studiare e proporre i provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra a quello di pace": la cosiddetta “Commissionissima”, istituita dal Decreto luogotenenziale 21 marzo 1918, con circa seicento componenti, si suddivise in due Sottocommissioni (ciascuna articolata in varie sezioni), la prima, presieduta da Vittorio Scialoja, sui problemi giuridici, amministrativi e sociali, e la seconda, presieduta da Edoardo Pantano, sui problemi economici. Malgrado gli ambiziosi propositi iniziali, anche la Commissione si ridusse ad affrontare il problema della riforma della pubblica amministrazione sotto il profilo della razionalizzazione delle strutture e della riduzione degli organici, sempre in relazione a irrisolti problemi di finanza pubblica
Cfr. ivi, pp. 30-39. Si veda anche V. Scialoja, I problemi dello Stato italiano dopo la guerra cit., pp. 250-54. , ma non prese in considerazione, se non marginalmente, l'idea che il decentramento organico potesse rappresentare una soluzione di lungo periodo al problema dell'efficienza e della economicità della macchina amministrativa e al tempo stesso una risposta in positivo alla domanda crescente di partecipazione politica, da attuarsi anche mediante il trasferimento dal Parlamento ad altri organi rappresentativi a carattere territoriale del compito di dettare norme primarie su materie di interesse locale.
Autonomie locali e regionalismo nei dibattiti parlamentari: i problemi delle nuove province
Il tema del decentramento, trattato in modo sporadico e con scarsa convinzione in sede governativa, trovò maggiore spazio in ambito parlamentare, dove, dopo le elezioni del novembre 1919, fu rilanciato e sostenuto in molte occasioni da un variegato schieramento che comprendeva popolari, repubblicani, radicali, demoliberali ed il gruppo di "Rinnovamento", espressione della componente più politicizzata del movimento combattentistico (nelle cui fila era stato eletto anche Gaetano Salvemini). Un esempio significativo in tal senso è il dibattito parlamentare sul disegno di legge presentato dal governo Giolitti, per l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'ordinamento dell'amministrazione e la condizione del personale
Cfr. Camera dei deputati, Legislatura XXV, sessione 1919-20, Documenti, Disegno di legge n. 1002, Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sull'ordinamento e il funzionamento delle Amministrazioni centrali e dei servizi da esse dipendente, e sulle condizioni del relativo personale.: anche se il decentramento organico o burocratico non costituiva l'oggetto principale dell'inchiesta (che si sarebbe dovuta concentrare sul ridimensionamento delle strutture e degli organici, nonché sulla possibilità di conservare nell'ordinamento italiano, alcuni istituti di decentramento esistenti nei territori annessi), non mancarono interventi ed ordini del giorno su di esso: i deputati popolari Di Fausto, Tangorra e Bertolini sostennero l'improcrastinabilità dell'istituzione delle regioni
Nel suo intervento, l'on. Di Fausto, tra l'altro, citò alla lettera l'Appello a tutti gli uomini liberi e forti del gennaio 1919, rivolto da Sturzo e dai suoi più stretti collaboratori per la costituzione del nuovo partito ( cfr. Camera dei deputati, Legislatura XXV, 1° sessione, Discussioni, tornata del 24 febbraio 1921, p. 8069). Sempre per il Partito popolare, nella successiva seduta, il deputato Tangorra illustrò un ordine del giorno sottoscritto da altri deputati del Gruppo, sulla necessità di "attuare un largo decentramento amministrativo, sulla base della regione, che deve essere costituita come ente autarchico per i servizi amministrativi di interesse locale" e di una maggiore "autonomia degli enti locali" (tornata del 25 febbraio, p. 8113), spalleggiati anche dai radicali Lissia, Ruini e Casertano
Affermava l’on. Lissia: “Burocrazia e decentramento amministrativo vero e proprio, o decentramento autarchico, per intenderci meglio, sono così intimamente connessi da non potersi separare e risolvere indipendentemente” (Camera di deputati, Legislatura XXV, Discussioni,1° sessione, tornata del 24 febbraio 1921, p. 8084). E l’on. Casertano così denunciava i danni del centralismo: “Congestione al capo, paralisi alla periferia, ecco l’ordinamento burocratico italiano, quale lo costatava il Gioberti nel 1848 e che tale permane. Bisogna dunque avere il coraggio di sgombrare funzioni soverchie dagli organi centrali per passarli agli organi locali” (tornata del 25 febbraio 1921, p. 8127), dal democratico liberale Chimienti
Nella discussione l'on. Chimienti presentò il seguente ordine del giorno: "La Camera, convinta che la riforma dell’ordinamento amministrativo sulla base del sistema regionale sai ormai matura, invita il Governo a presentare il relativo disegno di legge” (Camera dei deputati, XXV Legislatura, 1° sessione, Discussioni, tornata del 26 febbraio 1921, p. 8171) nonché dagli esponenti del Gruppo di Rinnovamento D’Alessio e Orano
“Il decentramento regionale – affermò D’Alessio – deve ormai scuotere il decrepito imperialismo amministrativo, diffondere nel territorio, all’infuori di ogni vieto pregiudizio di euritmia e uniformità, l’attività dell’ente pubblico, adattarla alle particolari condizioni dei diversi luoghi; ed in tale adattamento sono insite la semplificazione e l’economia” (Camera dei deputati, XXV Legislatura, 1° sessione, tornata del 24 febbraio 1921). Dal canto suo, lo scrittore Paolo Orano, ex socialista, interventista, eletto nelle liste sardiste, e destinato a una brillante carriera durante il fascismo, aveva dedicato gran parte del suo intervento al tema dell’autonomia dell’isola (Cfr. in particolare, ivi, p. 8078) e da altri parlamentari di varie tendenza. I socialisti si limitarono ad esprimersi in senso critico nei confronti dell'accentramento amministrativo, indicato come il sintomo della incapacità delle classi dirigenti di promuovere una effettiva riforma delle istituzioni
Secondo l’on. Brunelli “Se c’è un problema che dimostra l'impotenza della borghesia italiana a fare delle radicali riforme della nostra compagine dello Stato è proprio quello della burocrazia il quale è sempre stato agitato da tutti i governi” (Camera dei deputati, Legislatura XXV, sessione 1, 26 febbraio 1921, p. 8164), senza però esprimersi sulla proposta di creazione delle regioni, mentre il comunista Graziadei, pur non pronunciandosi sui temi delle autonomie e del decentramento, pose in rilievo il nesso indissolubile tra la natura di classe dello Stato e il suo carattere centralistico
Cfr. Camera dei deputati, Legislatura XXV, sessione 1°, tornata del 3 marzo 1920, p. 8297 .
Il dibattito rivelò la presenza di una forte corrente critica nei confronti dello Stato accentrato, nonché il favore con cui gruppi politici di consistenza non trascurabile – fatto nuovo rispetto ai precedenti della camera elettiva - guardavano all'avvio di un processo di decentramento, ma anche una notevole disparità nei diversi punti di vista, e, in ultima analisi, una certa confusione di idee
Cfr. A. Porro, Le inchieste parlamentari e governative sul problema della burocrazia nel primo dopoguerra italiano cit. p. 89 tra chi concepiva la regione come ente autarchico, chi puntava sul potenziamento delle autonomie esistenti, chi tendeva a privilegiare un ampio decentramento burocratico e chi oscillava tra le diverse ipotesi. Peraltro, in sede di replica, il Presidente del Consiglio manifestò un'importante apertura nei confronti del decentramento organico e, pur senza parlare di regioni, ipotizzò un consistente trasferimento di funzioni dallo Stato agli enti locali.
Lo Stato moderno ha dovuto assumere una grande quantità di servizi che ad esso alcuni anni or sono non appartenevano. È provvedimento logico che lo Stato rimetta agli enti locali molti di quei servizi, che il progresso del tempo, il miglioramento delle condizioni delle Amministrazioni locali, la maggiore cultura, il nessun pericolo per l'unità nazionale, consentono di deferire a corpi locali.
Camera dei deputati, Legislatura XXV, 1° sessione, tornata del 3 marzo 1921, p. 8301
Tuttavia, le parole di Giolitti rimasero lettera morta e non trovarono alcun riscontro nella relazione conclusiva della Commissione - presieduta dal senatore ed ex prefetto Giovanni Cassis - che, pur riconoscendo la fondatezza delle critiche mosse al centralismo, liquidò la questione delle regioni definendola non ancora matura e si attestò sulla prospettiva del decentramento burocratico e di un cauto ampliamento delle attribuzioni degli enti locali esistenti
"Sull'importante argomento del decentramento, problema che ad alcuni sembra matura per larghe applicazioni mentre ad altri desta preoccupazioni di ordine sociale, politico ed economico, la Commissione ha preso determinazioni riassunte nel voto seguente: 'La Commissione, considerato che il decentramento organico diretto alla sua più ampia esplicazione , colla costituzione delle Regioni - sulla cui istituzione non tutta la Commissione concorda - non potrebbe attuarsi con provvedimenti che non siano profondamente maturati, anche allo scopo di evitare che i nuovi Istituti comportino aumento di spesa; è di avviso che la trasformazione degli ordinamenti attuali debba intanto iniziarsi con un largo decentramento burocratico delle funzioni di amministrazione diretta dello Stato; con una semplificazione delle funzioni di vigilanza e tutela degli enti locali nel senso di una più larga autonomia di essi, maggiore o minore a seconda della loro importanza; con un graduale passaggio di alcune funzioni governative agli enti stessi (7 giugno 1921)'" (Camera dei deputati, Legislatura XXV, sessione 1921, Commissione parlamentare d’inchiesta sull'ordinamento delle amministrazioni dello Stato e sulle condizioni del personale (legge 16 marzo 1920, n. 260, presentata alla Presidenza della Camera dei deputati il 10 settembre 1921, vol. I, p. 141)., secondo una posizione che presumibilmente rispecchiava un orientamento ancora maggioritario in seno al Parlamento.
In tema di autonomie, peraltro, la Commissione affrontò un tema molto controverso, tale da sollecitare un pronunciamento rapido e al tempo stesso suscettibile di produrre effetti immediati sull’organizzazione amministrativa: si trattava, infatti, dell'orientamento da assumere in merito alla conservazione o meno del regime di decentramento organico vigente al momento dell’armistizio nelle province annesse all'Italia, già appartenute all'impero asburgico. Di tale ordinamento, la relazione forniva un'approfondita descrizione, senza però entrare nel merito delle opzioni possibili: il sistema, vigente nella Venezia Giulia e nel Trentino, si fondava su una Dieta provinciale, in larga parte elettiva, dotata di competenze legislative proprie, ovvero esercitate nell'ambito dei limiti indicati dallo Stato o ad esse deferite per legge; organo esecutivo della Dieta era la Giunta provinciale, presieduta da una capitano nominato dal sovrano e composta da un certo numero di assessori eletti dalla Dieta. Anche i comuni erano dotati di competenze proprie e di altre eventualmente delegate loro da leggi provinciali o statali
Cfr. ivi, p. 105-107, e: Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione per la riforma dell'amministrazione, Sottocommissione "Problema della Regione", Relazione, in Ministero per la Costituente, Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, Relazione all’Assemblea Costituente, II: Autonomie locali, Roma, 1946, p. 203-4. .
Nell'immediato dopoguerra, l'idea di salvaguardare almeno in parte l’assetto autonomistico delle province annesse fu presa seriamente in considerazione dai governi in carica e la sezione XXVII della Commissione per il dopoguerra, dedicata a questo tema e presieduta dall'on. Colonna di Cesarò, aveva raccomandato l’istituzione di giunte consultive provvisorie da affiancare ai governatori militari delle province occupate in virtù delle clausole armistiziali
Cfr. F. Salata, Per le nuove provincie e per l’Italia: discorsi e scritti, Roma, Stabilimento tipografico per l’amministrazione della guerra, 1922, p. 13,. Anche il Presidente del Consiglio Nitti manifestò una prudente apertura nei confronti di un regime di autonomia differenziato per i territori in via di annessione, e, oltre ad inserire un esplicito riferimento in tal senso nel discorso della corona che aprì la XXV Legislatura
“Le nuove terre riunite all’Italia impongono la soluzione di nuovi problemi. La nostra tradizione di libertà deve segnare la via alle soluzioni con il maggiore rispetto delle autonomie e delle tradizioni locali.” (Camera dei deputati, Inaugurazione della 1° sessione della XXV Legislatura, 1° dicembre 1919, p. XII), adottò i primi provvedimenti in materia: con il decreto luogotenenziale 4 luglio 1919, n. 1081, il governo dei territori occupati venne trasferito dall'autorità militare a quella civile, e venne istituito presso la Presidenza del Consiglio un Ufficio centrale per le nuove provincie del Regno, posto sotto la direzione dell'irredentista giuliano Francesco Salata, convinto autonomista
"Forte era in lui - scrive di Salata Ester Capuzzo - la consapevolezza della utilità del tradizionale sistema di self-government usufruito dalle terre irredente nel nesso asburgico, consapevolezza che finirà per alimentare la sua visione della necessità di conservare un ampio margine di autonomia a territori assuefatti a quel particolare sistema da molti decenni" (E. Capuzzo, Dall’Austria all'Italia: aspetti istituzionali e problemi normativi nella storia di una frontiera, Roma, La Fenice Edizioni, 1996, p. 98), incaricato di esercitare "i poteri spettanti al Governo nell’amministrazione generale dei territori oltre l'antico confine", mentre "le funzioni spettanti all’autorità politica provinciale" (ovvero al prefetto) furono attribuite a due Commissari straordinari per la Venezia Giulia e per il Trentino, nominati con il regio decreto 20 luglio 1919, nelle persone, rispettivamente, di Augusto Ciuffelli, parlamentare vicino al Salandra e più volte ministro, e di Luigi Credaro, noto pedagogista, deputato radicale e ministro della pubblica istruzione dal 1910 al 1914. Nella circolare esplicativa 28 luglio 1919, n. 48 la Presidenza del Consiglio puntualizzò l'intenzione del Governo di procedere nel rispetto delle leggi e delle tradizioni locali che, anzi, avrebbero potuto fornire anche spunti per riforme autonomistiche di carattere nazionale
“Noi vogliamo mostrare coi fatti ai nuovi nostri concittadini che, contro ogni tendenza livellatrice o assorbente, l'Italia intende sì di risolvere sollecitamente e razionalmente i loro problemi e di attuare un organico programma di azione civile, amministrativa ed economica; ma che vuole anche rispettare le loro leggi, le loro condizioni speciali, le loro tradizioni.
Senza alcun preconcetto, noi vogliamo fare, anzi, di molti istituti politici e sociali delle nuove terre, e tra questi in particolare delle autonomie comunali e provinciali, utile studio sperimentale per riforme nel Regno” (ivi, p. 286. L’intera circolare e molti altri testi sono riprodotti in F. Salata, Per le nuove provincie e per l’Italia: discorsi e scritti, cit.). Nella sua impostazione generale, la circolare sembrava però orientata più a tracciare un programma per il futuro che ad assumere un impegno per il presente, poiché disegnava un modello istituzionale transitorio ancora caratterizzato da una certa propensione all'accentramento, sia pure motivata dalla temporaneità della situazione: essa giustificava infatti la nomina dei Commissari, dipendenti dal citato Ufficio centrale, con l'esigenza di concentrare l’amministrazione dei nuovi territori "in una sola mano, responsabile e competente". Una Commissione consultiva centrale presso tale Ufficio, istituita dallo stesso decreto n. 1018 del 1919, che avrebbe dovuto riunirsi in seduta plenaria e Roma, in sezioni provinciali (adriatico, trentino) o in comitati speciali, sarebbe entrata in funzione solo più tardi: sciolta con il regio decreto 22 luglio 1920, n. 1233, fu ricostituita con il successivo decreto 14 agosto 1920, n. 1234, ma iniziò la sua attività verso la fine dell’anno successivo.
Anche la discussione parlamentare sui disegni di legge di approvazione dei Trattati di pace di St. Germain-en-laye tra Italia ed Austria (Legge 26 settembre 1920, n. 1332) e del Trattato di Rapallo tra Italia e Regno dei serbi, croati e sloveni (Legge 19 dicembre 1920, n. 1778) fece emergere un orientamento favorevole a una soluzione rispettosa delle autonomie di cui già le province annesse godevano: per quel che riguarda in particolare il Trattato tra Italia ed Austria, la Commissione della Camera incaricata dell'esame preliminare del disegno di legge (relatore il radicale Gabriello Carnazza) raccomandò che nell'adottare le disposizioni di coordinamento tra la legislazione italiana e quella vigente nei territori annessi, si procedesse con "la più grande cautela", e si spinse fino ad ammettere la superiorità della legislazione asburgica in materia di autonomie
"È noto come talune parti della legislazione attualmente vigente in quelle provincie rappresenti [sic] un notevole progresso di fronte alla legislazione italiana" (Camera dei deputati, Legislatura XXV, sessione 1919-20, Documenti, Disegni di legge e relazioni, Relazione della Commissione […] sul disegno di legge presentato dal presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’interno Giolitti (seduta del 22 luglio 1920) Approvazione del Trattato di pace di San Germano e annessione al Regno dei territori attribuiti all’Italia (A.C. n. 628-A), p. 4, invitando la Camera a non manomettere "ordinamenti amministrativi a cui quelle nobili popolazioni sono affettuosamente legate per la prosperità e lo sviluppo che sotto l'imperio di esse quelle regioni poterono acquistare”; e a prestare una particolare attenzione nei confronti della popolazione di lingua tedesca “perché questo nostro Stato esse non abbiano a considerare come un nemico, ma come un protettore ed un amico”
Ivi, p. 4-5
Conseguentemente, la Commissione proponeva di modificare l'articolo 4 della legge, come poi in effetti avvenne, aggiungendo alla disposizione che autorizzava il Governo a pubblicare nei territori annessi "lo Statuto e le altre leggi del Regno e ad emanare le disposizioni necessarie a coordinarle colla legislazione vigente in quei territori" l'ulteriore precisazione: "e in particolare con le loro autonomie comunali e provinciali". La medesima formulazione fu adottata anche nella legge di ratifica del Trattato di Rapallo.
Nella discussione in Assemblea sulla ratifica del trattato di pace con l'Austria, le aperture della Commissione trovarono non pochi riscontri: il riconoscimento del principio del decentramento per le province annesse - affermava in un discorso peraltro di taglio fortemente patriottico l’on. D’Alessio (Gruppo di Rinnovamento) - non doveva limitarsi all’apertura di uffici periferici dell’amministrazione centrale “vivaio di carriere burocratiche o di fortune politiche: ma [doveva] essere un decentramento come riconoscimento di quelle popolazioni ad amministrare da sé i propri interessi”
Camera dei deputati, Legislatura XXV, 1° sessione, Discussioni, 2° tornata dell’8 agosto 1920, p. 5139. Nello stesso senso si pronunciò il popolare Mattei-Gentili, che rivendicò alla sua parte politica l’iniziativa di avere proposto in Commissione la modifica dell’articolo 4 e raccomandò al Governo di mantenere le Diete locali e di indire al più presto, oltre alle elezioni politiche, “anche quelle dei Corpi amministrativi, cioè quelle dei comuni e della Dieta regionale”, sperimentando così una forma di decentramento regionale che l’esponente popolare si augurava di vedere attuata in tutta Italia
Ivi, p. 5146.. Anche il nazionalista Luigi Federzoni avanzò la proposta di dare vita a Consigli distrettuali elettivi, ma al fine di frenare il possibile insorgere di un separatismo altoatesino e di “soddisfare interamente non le velleità del pangermanesimo separatista, bensì le esigenze legittime di un naturale sviluppo della lingua e del costume dei nuovi cittadini tedesco dello Stato italiano”
2° tornata del 9 agosto 1920, p. 5284. Federzoni dedicò inoltre una parte del suo intervento alla critica di un emendamento presentato da Filippo Turati all’articolo 3 del disegno di legge: l’esponente socialista, con notevole lungimiranza (e dando prova di una sensibilità per il problema autonomistico scarsamente condivisa dalla maggioranza massimalista del suo partito), aveva infatti proposto di dare vita a due province, di Trento e di Bolzano, dotate ciascuna di una propria Dieta elettiva, e, pur riconoscendo che l’autonomia di quei territori avrebbe potuto assecondare un’egemonia clericale e conservatrice, aveva sottolineato il dovere dello Stato italiano “di rispettare tutte quelle autonomie e le istituzioni di quella gente tedesca da cui molto avremmo da imparare, e rispettarle con religioso sentimento di devozione.”
Ivi, p. 5311. Nella stessa seduta era stato respinto un ordine del giorno socialista, di cui era primo firmatario Claudio Treves, secondo il quale ogni decisione sulle annessioni avrebbe dovuto essere preceduta “dalla libera consultazione delle popolazioni” (ivi, p. 5306) Il Presidente del Consiglio Giolitti, peraltro, nel riaffermare la volontà del Governo di tenere nel dovuto conto la peculiare condizione dei nuovi cittadini italiani di lingua tedesca, argomentò contro l’emendamento di Turati su un piano prevalentemente metodologico, rifacendosi a quanto aveva già sostenuto al termine della discussione generale, circa la necessità di “provvedere all’ordinamento di quelle provincie, quando siano in Parlamento i rappresentanti delle Provincie stesse”
Ivi, p. 5314. Nel dibattito si era dunque manifestato un consenso diffuso, anche se generico, verso l’ipotesi di conservare l’assetto autonomistico delle aree allogene inglobate, ma la posizione della classe dirigente liberale su questo punto restava ambigua poiché l’asserito desiderio di rispettare culture e tradizioni delle nuove province non si spingeva fino al punto di delineare per esse uno specifico assetto istituzionale e mal si conciliava con l’intento di estendere l’ordinamento statutario a quelle aree, senza che venissero definite deroghe o regimi comunque territorialmente differenziati
Come sottolinea Ester Capuzzo: "[...] la classe dirigente liberale auspicò un sostanziale rispetto dei diversi gruppi allogeni pur procedendo verso un progressivo centralismo amministrativo" (E.. Capuzzo, Dall'amministrazione militare all'ordinamento italiano. Trento e Trieste tra il 1919 e il 1922, in "Clio", XXIV, gennaio-marzo 1988, n. 1, p. 47) .
Il confronto parlamentare sui temi autonomistici riprese pertanto all’inizio della XXVI Legislatura, che vide appunto l’ingresso alla Camera dei deputati dei rappresentanti delle province annesse. Il contesto politico era però profondamente mutato, nel senso di un più esasperato sciovinismo italiano, alimentato dalla presenza di un'agguerrita pattuglia di parlamentari fascisti e nazionalisti, dai ripensamenti di non pochi deputati che, già favorevoli all'autonomia delle zone di confine, avevano iniziato la loro marcia di avvicinamento al fascismo, e, per reazione, da una più tenace difesa dell'identità nazionale - che includeva la rivendicazione della continuità dei regimi autonomistici vigenti sotto l'impero asburgico
Cfr. ivi, p. 65 - da parte di alcuni esponenti delle minoranze etniche e linguistiche, soprattutto nelle Venezia Giulia e nell'Istria, dove più esplicito appariva il contrasto tra la componente italiana e quella slava. Questo clima di accentuata conflittualità iniziò a manifestarsi sin dalla discussione sull’indirizzo di risposta al discorso della corona: l’altoatesino De Walther, dopo avere esplicitamente parlato di condotta “conquistatrice” dell’Italia, rivendicò il diritto ad usare la propria lingua materna nell’Aula di Montecitorio, e il nazional-liberale slavo Vilfan
L’intervento dell’on. De Walther si trova in: Camera dei deputati, Legislatura XXVI, 1° sessione, Discussioni, tornata del 20 luglio 1920, p. 110-11; per l’intervento dell’on. Vilfan, si veda: ivi, pp. 117-20. rivolse dure critiche alla condotta repressiva verso l'elemento slavo da parte dell’autorità militare italiana nel periodo dell’occupazione della Venezia-Giulia, tanto da suscitare le proteste non solo dei deputati nazionalisti e fascisti, ma dello stesso presidente del Consiglio Giolitti
Ivi, p.119, nonché la polemica replica del deputato triestino Suvich, irredentista eletto nelle liste nazionaliste e futuro sottosegretario nel governo fascista, di smentita delle argomentazioni del collega slavo, che aveva sostenuto, nel suo intervento, l’attendibilità delle statistiche del governo austriaco relativamente alla presenza minoritaria della popolazione di nazionalità italiana in alcune aree delle province annesse
Ivi, p. 121. Il tema dell’autonomia fu ripreso, in un discorso dai toni apologetici per la parte relativa alla riunificazione della Venezia Giulia all’Italia, del deputato giuliano Pogatschnig, già irredentista e fascista dal 1920, che richiamò l’attenzione sulla differenza tra decentramento burocratico ed autonomia, esprimendosi favorevolmente sull’opzione regionalista, in contrasto con gli orientamenti prevalenti nella sua corrente politica, non solo come scelta di continuità rispetto alla precedente amministrazione austriaca, ma come scelta strategica in un’ottica complessiva di riforma dell’ordinamento
“L’unità autonomica estesa alle regioni gioverebbe forse, a mio parere, moltissimo, per risollevare il prestigio di quelle, che furono veramente le capitali storiche delle nostre regioni d’Italia, senza per questo intaccare minimamente l’unità statale ed amministrativa della Patria, la quale, a parer nostro, è tanto radicata e tanto naturale da non poter correre più il minimo pericolo” (Camera dei deputati, Legislatura XXVI, Discussioni, tornata del 22 giugno 1921) . Nella discussione, inoltre, fece il suo esordio nel parlamento italiano Alcide De Gasperi, che sostenne la conciliabilità tra il patriottismo rivendicato dai deputati trentini e la salvaguardia delle autonomie di quelle province, anche in funzione di una pacifica convivenza con le popolazioni alloglotte “perché nella istituzione di autonomie locali nelle nuove provincie è contenuto quel tanto di libertà e quel tanto di garanzia per il diritto di esistenza nazionale, che noi dobbiamo e possiamo concedere a cittadini di diverse lingue, senza intaccare la nervatura centrale dello Stato”
“Perciò – proseguiva l’esponente popolare – noi domandiamo la ricostituzione delle autonomie locali nelle nuove provincie, non soltanto per la nostra concezione organica dello Stato, non soltanto per le esigenze stesse della nostra situazione di trapasso dall’una all’altra legislazione, ma la domandiamo anche in funzione di questo compito di assicurare una possibile convivenza con diverse nazionalità sulla frontiera settentrionale, perché crediamo che potremo in queste autonomie locali immettere il movimento politico degli allogeni come cellule che sono al servizio e non in contrasto con il potere statale” (Camera dei deputati, Legislatura XXVI, 1° sessione, Discussioni, tornata del 24 giugno 1921).. L’appello del deputato trentino appariva peraltro rivolto più al futuro che a un presente il cui clima appariva profondamente mutato rispetto a solo due anni prima, e nel quale l’ipotesi di una svolta politica in senso autoritario prendeva corpo in modo sempre più palpabile, e con essa la volontà di piegare i movimenti sociali che avevano scosso i primi mesi del dopoguerra, e di minare qualsiasi possibilità di evoluzione in senso democratico dell’ordinamento liberale, anche in senso autonomistico. Non si trattava quindi solo di un decrescente interesse verso i temi dell’autonomia, denunciato ad esempio dal futuro propagandista fascista Paolo Orano nel suo intervento
Nell’osservare che nel discorso della corona, contrariamente alla precedente Legislatura, il tema del decentramento era stato appena sfiorato, Orano aggiungeva: “Dal 1919 in qua si direbbe che l’idea del decentramento abbia messo paura. […] Sento che esiste una tale paura, sento questa diffidenza e noto la negligenza voluta che è nei due testi, e nel discorso della corona e dell’indirizzo di risposta, il che vuol dire che in realtà il Governo attuale non è ancora arrivato alla certezza della necessità del decentramento” (Camera dei deputati, Legislatura XXV, 1° sessione, Discussioni, tornata del 20 giugno 1921, p. 45) , ma soprattutto del contesto politico generale, nel quale la capacità del fascismo di intercettare diverse sensibilità - riuscendo a cooptare anche esponenti dell'interventismo democratico, giunto ormai al termine della sua parabola - sulla base di un programma nazionalista e corporativo, si coniugava con l’intensificarsi delle iniziative squadriste, in un crescendo di violenze che, nelle aree alloglotte, si erano indirizzate non soltanto verso le organizzazioni proletarie ma anche verso le istituzioni e i movimenti organizzati delle altre nazionalità: tale era il caso dell’incendio del Narodmi dom, il centro culturale slavo di Trieste
Cfr. Camera dei deputati, Legislatura XXVI, 1° sessione, Discussioni, tornata del 23 giugno 1921, pp. 182-87. Sull'incendio del Narodni Dom, e sulle sue ripercussioni politiche, si veda: R. Wörsdörfer, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 25-28; M. Verginella, Il confine degli altri: la questione giuliana e la memoria slovena, Roma, Donzelli, 2008, p. 32-3; F. Fabbri, Le origini della guerra civile: l'Italia dalla Grande Guerra al fascismo (1918-1921), Torino, UTET, 2009, 245-24 7; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale (1866-2006), Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 142-144. , organizzato dagli squadristi triestini nel luglio dell'anno precedente ed esplicitamente rivendicato il 23 giugno alla Camera deputato Francesco Giunta, leader del fascismo triestino, durante una dura replica alle accuse mossegli dal Vilfan. Due giorni prima, nella seduta del 21 giugno, lo stesso Mussolini era intervenuto polemicamente contro le presunte aperture dei Commissari civili e dello stesso Salata nei confronti delle popolazioni allogene, criticando il loro operato nella definizione dei collegi elettorali (“Egli – affermava il futuro dittatore riferendosi a Salata – ha regalato il collegio di Gorizia agli sloveni e ha regalato quattro deputati tedeschi alla Camera italiana”
Tornata del 21 giugno 1921, p. 90-91. Mussolini si riferiva all’accoglimento delle proposte di Francesco Salata al Governo sulla definizione dei collegi elettorali nelle province annesse. ) e si era rivolto minacciosamente ai deputati altoatesini: “ […] essi debbono dire e far sapere oltre Brennero che al Brennero ci siamo e ci resteremo a qualunque costo”
Ivi.
Il clima del giugno 1921 era dunque ben diverso da quello in cui si era aperta la Legislatura precedente, e l’obiettivo della concessione di istituti di autonomia alle province annesse sembrava ormai lontano, anch’esso travolto da un nazionalismo sempre più astioso ed intollerante verso l'idea stessa di una articolazione istituzionale volta a soddisfare peculiari esigenze delle popolazioni dei territori di confine, i cui rappresentanti parlamentari furono considerati spesso alla stregua di nemici, malgrado le promesse e le aperture manifestate verso le minoranze allogene sin dal periodo dell'amministrazione militare
Cfr. E. Capuzzo, Sull'introduzione dell'amministrazione italiana a Trento e a Trieste (1918-1919), in "Clio", XXIII, 1987, n. 2, aprile- giugno 1987, p. 260. Tuttavia, con il governo Bonomi furono tentati ulteriori passi, anche se sempre molto oscillanti, per mantenere aperto il discorso sull'ipotesi di uno speciale regime amministrativo per le nuove province: in particolare, il regio decreto 31 agosto 1921, n. 1269, ridefinì poteri e funzioni dei Commissari generali civili istituiti a Trento, Trieste e Zara, anche in relazione ad una pronuncia del Consiglio di Stato che aveva negato la possibilità di attribuire poteri legislativi ai Commissari stessi, come invece si poteva presumere dalla precedente normativa
La decisione 28 aprile 1921, n. 128 del Consiglio di Stato (sesta sezione) si legge in F. Salata, Per le nuove provincie e per l’Italia cit., pp. 350-356. La decisione incontrò anche il consenso della Commissione reale per la revisione della legislazione di guerra e la sistemazione legislativa delle nuove provincie (parere del 10 gennaio 1921), presieduta dal sen. Vittorio Scialoja (ivi, p. 356-7) , e diede facoltà al Governo centrale, nelle more della creazione delle Province “in via costituzionale”, di istituire Giunte provinciali straordinarie, affidando loro "l’esercizio delle funzioni amministrative attribuite dai vigenti regolamenti provinciali alle Diete e alle Giunte provinciali" (art. 3). Venne inoltre sospesa l’applicazione delle leggi e dei decreti varati dopo l’annessione, fino alla pubblicazione delle norme di coordinamento con la legislazione statale e di esecuzione, già previste nelle leggi di approvazione dei trattati di pace. Contestualmente al regio decreto 19 novembre 1921, n. 1622, sulle attribuzioni dei vice Commissari generali civili di Parenzo e Gorizia, si procedette, con decreti recanti la stessa data, all’istituzione delle Giunte provinciali straordinarie, dotate dei poteri sopra indicati, nonché del potere di proposta legislativa al Governo, su materie già di competenza delle Diete
Con il 19 novembre 1921, n. 1746 fu istituita la Giunta di Trento, composta da sei membri, e presieduta dal sen. Enrico Conci; seguì l’istituzione della Giunta di Parenzo (regio n. 1747), composta, di 14 membri e presieduta dal sen. Innocente Chersic; della Giunta di Gorizia (regio decreto n. 1784), composta da dieci membri e presieduta da Luigi Pettarin, e della Giunta di Zara (regio decreto n. 1749), composta da tre membri e presieduta dall’avv. Giovanni Lubin.. L'istituzione delle Giunte provinciali straordinarie fu, di fatto, l’ultima iniziativa di rilievo compiuta dallo Stato liberale per delineare una soluzione in senso autonomistico del problema delle nuove province: la discussione proseguì anche in seno alla Commissione consultiva centrale e alle Commissioni consultive regionali per la Venezia Giulia, per la Venezia Tridentina e per Zara (istituite, rispettivamente con regio decreto 8 settembre 1921, n. 1319 e con tre decreti presidenziali del 5 novembre 1921), ma, malgrado l’impegno profuso dal Salata per dare attuazione ad un ordinamento autonomistico nelle “terre redente”
Si vedano in proposito le lettere indirizzate da Francesco Salata il 15 e il 26 dicembre 1921 ai Commissari civili in relazione alla decisione della Commissione consultiva centrale di sottoporre al più presto “all’esame delle Commissioni consultive regionali la questione delle autonomie regionali, provinciali e comunali, e l’altra relativa alle circoscrizioni amministrative dei nuovi territori”. (Ivi. pp. 320-324. , e malgrado la rappresentatività delle Commissioni consultive regionali, presiedute dai Commissari civili e di cui facevano parte di diritto i parlamentari della rispettiva circoscrizione e i presidenti delle Giunte provinciali straordinarie, i voti espressi da tali collegi rimasero lettera morta. Il 15 ed il 26 dicembre 1920, infatti, Francesco Salata, in qualità di Capo dell’Ufficio centrale per le nuove provincie e di presidente della Commissione consultiva centrale, aveva sollecitato i Commissari civili affinché le Commissioni consultive regionali si pronunciassero sul tema del mantenimento dell’ordinamento autonomistico nei rispettivi territori: dal febbraio all’aprile 1922 le Commissioni regionali (Venezia Giulia, il 22 aprile; Venezia Tridentina, il 19 aprile e Zara, 8 febbraio) nel richiamarsi agli impegni assunti dal Governo italiano con le leggi di approvazione del trattato di pace con l’Austria e del Trattato di Rapallo, si pronunciarono in senso favorevole al mantenimento del sistema delle Diete provinciali, così come pronunce in tal senso si ebbero da parte della Giunta provinciale straordinaria di Gorizia e Gradisca (27 febbraio 1922) e della Giunta provinciale di Zara (9 febbraio 1922), mentre la Giunta provinciale dell’Istria approvò un ordine del giorno che, con maggiore realismo, auspicava una rapida estensione al proprio territorio della legge comunale e provinciale italiana, modificata nel senso di un ampliamento dei poteri dei Consigli provinciali
I documenti citati sono riportati in F. Salata, Per le nuove provincie e per l’Italia cit., pp. 320-346..
Le pronunce delle Commissioni consultive non ebbero tuttavia alcun seguito e costituirono anzi il canto del cigno di questo regionalismo di confine, destinato ad essere soffocato con la violenza: pochi mesi dopo, infatti, ebbe inizio una vera e propria offensiva squadrista, voluta da Mussolini ed organizzata da Francesco Giunta, che, nel complesso, costituì una vera e propria prova generale della marcia su Roma, anche grazie alla complicità dei vertici militari e burocratici.
L'assalto delle squadre ebbe inizio nel marzo 1922, quando, in seguito alla vittoria della componente autonomista nelle elezioni tenutesi per la Costituente dello Stato libero di Fiume, i fascisti organizzarono un colpo di stato che, grazie alla piena connivenza delle autorità tutorie e della guarnigione italiana, si concluse con la destituzione del governatore legittimamente eletto, Riccardo Zanella, e la sua sostituzione con un sedicente Comitato di difesa nazionale, poi sostituito da un Consiglio nazionale, in vista dell’annessione all’Italia
Cfr. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale cit., p. 165-6 . Pochi mesi dopo, nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre le squadre fasciste occuparono Bolzano, reclamando le dimissioni del sindaco Julius Perathoner, e il 4 ottobre occuparono Trento, costringendo il Commissario Credaro ad abbandonare la città, dopo avere trasferito i poteri all’autorità militare
Sull’operazione squadrista di Bolzano e Trento, anche come atto di preparazionne della marcia su Roma, rivolto sia all’ulteriore indebolimento del goveno Facta sia all’estensione dell’influenza politica del fascismo come protettore dell’”italianità” nelle province di frontiera, cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista: la conquista del potere 1921-1925,(1966) Torino, Einaudi, 1995, p.318-9; E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia-Giulia, Bari, Laterza, 1966, p. 159 ss. ; M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale cit., pp. 166-168. Il 17 ottobre veniva nominato prefetto per la Venezia Tridentina Giuseppe Guadagnini, che si insediò a Trento il 31 novembre.
Dopo tali vicende, il destino delle autonomie delle nuove province era segnato: con il R. D. 17 ottobre 1922, n. 1353, uno degli ultimi atti del governo Facta, si procedette alla soppressione dell’Ufficio centrale, con contestuale trasferimento delle relative funzioni e dei relativi servizi ai Ministeri competenti per materia, entro il 31 dicembre dello stesso anno. Lo stesso decreto rinviava ad un atto del sovrano la nomina del Presidente della Commissione centrale consultiva, ed a tale incarico fu chiamato lo stesso Salata, con il compito anche di procedere alla liquidazione dell’Ufficio centrale, in attuazione del decreto 22 ottobre 1922, che, essendo in corso la crisi politica, fu pubblicato dopo la formazione del governo Mussolini. Il Salata rimase tuttavia in carica per pochi giorni, e il 9 novembre rassegnò le dimissioni da entrambi gli incarichi, in conseguenza del proposito manifestato dal nuovo governo di sciogliere le Commissioni consultive, formalmente per ricostituirle su nuove basi, in realtà per decretarne la fine
In uno scritto del dicembre 1922, lo stesso Salata ricorda che una nota del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri aveva chiarito l’intenzione del nuovo esecutivo di avvalersi delle Commissioni consultive per “dare al Governo utili suggerimenti nello studio dei complessi problemi che riguardano la regolazione giuricia delle manifestazioni della vita sociale, industriale e commerciale delle nuove provincie”. Il Governo Mussolini aveva inoltre lasciato cadere una proposta di Salata di ampliare il numero dei componenti delle Commissioni consultive e aveva proceduto ad un riordino che in realtà si configurava come un vistoso ridimensionamento di tali organismi. “Non apparvero adeguati a questo vasto compito [di svolgere funzioni consultive del Governo] l’ordinamento [sic] dato alle Commissioni consultive con il decreto Reale 16 novembre 1922, n. 1446, e la loro composizione quale risulta dai decreti presidenziali del 30 novembre scorso. Sopra tutto - proseguiva il Salata – si è tolto alle nuove Commissioni il diritto di iniziativa che spettava alle precedenti, per la complessa sistemazione politico-amministrativa delle nuove provincie; e tutto si restringe ormai alla possibilità che ha il Governo di richiederne il parere. […] ma ad ogni modo basti il confronto tra il nuovo decreto e quello abragato dell'8 settembre 1921 per avere la sensazione di una differenza essenziale. E senza soffermarsi alle Commissioni locali (così si chiamano, per evidente fobia del preteso “regionalismo” le antiche Commissioni regionali) alle quali ben poco lavoro sarà possibile – la Commissione centrale avrebbe potuto, con uno sforzo di intensa operosità, assolvere entro il 31 dicembre la parte essenziale urgente del suo lavoro se non avesse perduto, nella molteplice crisi, più che due mesi e fosse rimasta, almeno in parte prevalente, composta di elementi già informati dei problemi” (F. Salata, Il nuovo Governo e le nuove provincie, in “Le nuove provincie”, fasc. III, dicembre 1922 (estratto), p. 9-10). Con il regio decreto 7 gennaio 1923, infine, venivano abrogate le disposizioni che stabilivano il coordinamento e l’adattamento della legislazione italiana rispetto a quella asburgica “ciò in cui consisteva il principale risultato conseguito dall’autonomismo salatiano, confortato dai propositi giolittiani di riforma generale ma antitetico rispetto al centralismo del nuovo regime”
A. Agnelli, Gli autonomisti giuliani e l’avvento del fascismo, in Il fascismo e le autonomie locali cit., p. 189
Il succedersi cronologico degli eventi è qui particolarmente significativo e in un certo senso emblematico, poiché mostra inequivocabilmente che il ripensamento del progetto autonomista per le nuove province aveva avuto inizio prima della marcia su Roma e che l’ultimo governo liberale, presieduto da Luigi Facta, aveva avviato l’opera di smantellamento dell’insieme degli organismi speciali sorti al fine di definire le linee guida di una sperimentazione rivolta ad una parte del territorio nazionale, ma suscettibile anche, in un diverso contesto politico, di ulteriori sviluppi. In questo caso, l’affermazione politica e militare del fascismo accelerò e portò a termine il processo di normalizzazione e di riconduzione dei territori annessi al modello uniforme di amministrazione vigente in tutto il paese, ma non ne fu l'elemento promotore. Nella crisi di sistema che squassava l’intero paese, la liquidazione del regionalismo (e di quel peculiare aspetto di esso riguardante le province annesse), anche nelle sue versioni più minimaliste, fu una delle conseguenze dell’atteggiamento prevalente nel ceto politico liberale: l’esperienza di una gestione sostanzialmente autoritaria del potere durante la guerra e l’incapacità di vedere nei conflitti sociali del “biennio rosso” altro che il rischio di un dissolvimento dell’autorità dello Stato, avevano reso le classi dirigenti ancora più guardinghe che in passato nei confronti di qualsiasi rivendicazione e di qualsiasi proposta di riforma volta ad ampliare stabilmente il livello della partecipazione politica e di coinvolgimento di nuove classi sociali nella gestione del potere. Non desta sorpresa, quindi, che, per questo aspetto, il fascismo non avesse fatto altro che completare il lavoro di depotenziamento di quella che era apparsa come una realistica possibilità di aprire una breccia nell’assetto centralizzato e oligarchico dello Stato. In ultima analisi, anche la vicenda del regionalismo del primo dopoguerra concorre a dimostrare che il fascismo, se da un lato liquidò il sistema liberale, per altri versi ne fu l’esecutore testamentario
Cfr. F. Rasera, Dal regime provvisorio al regime fascista (1919-1937), in Storia del Trentino: l’età contemporanea. Il Novecento (vol. VI), Bologna, Il Mulino, 2005, p. 91.
Il crogiuolo laico: salveminiani, combattenti, repubblicani
I timidi e contraddittori segnali di apertura alle istanze di decentramento e di autonomia riscontrabili nelle sedi istituzionali devono essere considerati anche alla luce della percezione del nuovo clima determinatosi nella società, dell'acuirsi del conflitto di classe e della contestuale e crescente difficoltà, per il ceto politico che aveva portato il Paese alla prova cruciale della guerra, di corrispondere, almeno in parte, alle aspettative di rinnovamento sociale, etico e politico che la fine del conflitto aveva suscitato e che il governo Orlando aveva incoraggiato con la promessa di radicali riforme in favore dei combattenti.
In tale contesto, autorevoli esponenti della formazioni di democrazia laica e cattolica avevano individuato nell'autonomia regionale l’elemento portante di un percorso di riforma delle istituzioni in senso democratico e un canale privilegiato di inclusione sociale e di mobilitazione politica per una platea socialmente variegata, ma non indefinita. Come si vedrà, infatti, l’autonomismo e il regionalismo, nell'immediato dopoguerra, ebbero come referente sociale privilegiato il ceto medio urbano e ancor più i ceti agrari (in particolare, piccoli proprietari, mezzadri, coloni), sui quali era gravato prevalentemente lo sforzo bellico, specialmente nel Mezzogiorno: la mobilitazione degli anni 1915-1918 aveva infatti agito come una brutale accelerazione del processo di nazionalizzazione delle generazioni più giovani appartenenti a questi gruppi sociali, costrette per tre anni ad abbandonare modi di vita statici e tradizionali ed a sperimentare, indossata la divisa, nuove forme di organizzazione, più o meno istituzionalizzata, di socializzazione, di solidarietà, di raccordo con le classi medie da cui proveniva la maggior parte degli ufficiali, ed anche di ribellione o quanto meno di resistenza al dispotismo delle gerarchie militari. Più nello specifico, secondo l'orientamento meridionalista e liberista che innervò la proposta autonomista di quegli anni, un nuovo attivismo sociale e politico degli ex combattenti avrebbe potuto costituire il motore di un più ampio processo innovatore, rivolto a contrastare l'invadenza del centralismo fiscale e amministrativo di apparati ignari delle problematiche locali, nonché l'oppressione economica delle grandi concentrazioni industriali e finanziarie del Nord, alle quali si imputava di avere stretto, all'ombra della legislazione protezionista, un patto scellerato con il latifondo e con il potere politico e burocratico, destinato ad aggravare gli squilibri sociali e territoriali del paese, e ad accentuare il drenaggio di risorse dal Sud, già denunciato, all'inizio del secolo, negli scritti di Francesco Saverio Nitti
Cfr. F. S. Nitti, Nord e Sud. Prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche in Italia, Torino, Roux e Viarengo, 1900.
Sulla base di tali premesse si mossero pertanto varie correnti politiche, di differente matrice ideologica e culturale: nell’ambito della democrazia laica e repubblicana, fu particolarmente significativa la riflessione del gruppo riunito attorno a Gaetano Salvemini e alla sua Lega democratica per il rinnovamento della vita pubblica (A. Cecconi, F. Comandini, A. De Viti De Marco, G.B. Klein, G. Luzzatto), dalla quale sarebbero emersi orientamenti destinati ad essere ripresi anche nell’ambito della discussione all’Assemblea Costituente. In particolare, nello svolgimento del pensiero dello storico pugliese, attivamente impegnato nell'organizzazione degli ex combattenti, il federalismo, mutuato dal pensiero di Carlo Cattaneo, scoperto nel corso della crisi degli anni 1899-1900
In un giudizio retrospettivo del 1955, Salvemini avrebbe scritto: “Che cosa era il mio federalismo? Era quello di Cattaneo. L’unità nazionale fuori discussione. Ma esercito e reclutamento regionale, e non nazionale; autonomie regionali e provinciali; finanza, scuole, igiene, strade, porti, tutte le materie che non fossero politica estera e sue immediate dipendenze, divietate al Governo centrale della repubblica federale e affidate agli Enti autonomi locali” (G. Salvemini, Meridionalismo socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfè, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 671). Sull’argomento si veda anche E. Sestan, Salvemini storico e maestro, (1958) ora in Scritti vari, III: Storiografia dell’Otto e Novecento, Firenze, Le Lettere, 1991, p. 323. , aveva costituito il punto di approdo della riflessione meridionalista, e si fondava sulla rivendicazione di un più robusto sistema di autonomie quale strumento di mobilitazione politica delle masse contadine, di lotta contro il latifondo
“Spezzare le complicità esistenti tra il governo centrale e i latifondisti che dominavano le regioni meridionali, avendo al seguito la piccola borghesia debole, famelica e desiderosa di imitare le classi superiori, era per Salvemini la prima cosa da fare. E a questo scopo niente poteva essere più efficace dell'ordinamento federale con la sua carica di autonomia e di iniziativa dal basso, e, al tempo stesso, del suffragio universale con l’ampliamento dei diritti di cittadinanza alle grandi forze sociali rimaste fino allora escluse.” (C. Lacaita, Salvemini interprete e continuatore di Cattaneo, in Gaetano Salvemini e le autonomie locali, a cura di M. Degl'Innocenti, Manduria-Bari-Roma, 2007, P. Lacaita, p. 58) come massima espressione di una condizione di arretratezza economica e sociale, e di creazione di una classe dirigente locale emancipata dalla tara del trasformismo e in grado di contrastare il potere oligarchico delle burocrazie e dei grandi gruppi industriali e finanziari
"La difesa del principio dell'autogoverno, l’opposizione contro il centralismo del potere, sia a livello ministeriale sia di organi periferici, la polemica e la sfiducia verso la piccola borghesia dei travet tendenti ad infiltrarsi nei pubblici uffici, a costituire il braccio secolare di una burocrazia autoritaria e antidemocratica, porteranno Salvemini a lottare costantemente contro ogni forma di accentramento e a scegliere come linea di azione politica la difesa delle autonomie in una sorta di federalismo sui generis, legato soprattutto alla polemica politica contingente e alla difesa degli interessi del meridione” (I. Biagianti, Il federalismo di Gaetano Salvemini, in Gaetano Salvemini tra politica e storia, a cura di G. Cingari, Bari-Roma, Laterza, 1986, p. 198). Muovendo da questa impostazione, Salvemini si orientò verso un federalismo a base provinciale e municipale, perno di una riforma democratica delle istituzioni e presupposto – come egli stesso sostenne nei confronti di un impianto troppo dottrinario del regionalismo - per l’eventuale creazione delle regioni "dal basso", come conseguenza di una libera attività federativa di comuni e province potenziati nelle loro attribuzioni attraverso una redistribuzione delle competenze tra centro e periferia in grado di limitare le funzioni dello Stato centrale all'ambito degli interessi essenziali della collettività nazionale, di circoscrivere e razionalizzare l’attività della Camera e di restituire alle comunità locali poteri effettivi di autogoverno.
Postillando un articolo di Gino Luzzatto (Decentramento o federalismo, in “L’Unità”, 5 aprile 1919), nel quale si sosteneva che “la creazione d’organi rappresentativi ed amministrativi regionali con autonomia larghissima e con l’assorbimento di quasi tutte le attribuzioni attuali dello Stato può considerarsi come il mezzo efficace per distruggere l’accentramento e l’elefantiasi burocratica", Salvemini precisò il suo pensiero affermando:
[…] il problema da risolvere è se la ricostruzione delle autonomie locali debba avvenire sotto forma di regionalismo, oppure se il trasferimento delle funzioni e delle entrate finanziarie statali debba avvenire a vantaggio dei comuni e delle provincie. Io sto per questa seconda soluzione: perché i comuni e le provincie già esistono, mentre le regioni sono organismi inesistenti. […] Io […] ritengo che le provincie attuali, arricchite di funzioni e di redditi e rese perfettamente autonome, debbono, nella loro incondizionata autonomia, avere facoltà non solo di consorziarsi per intraprese di interesse comune (lavori pubblici, istruzione inferiore e media, ecc.), ma addirittura di fondersi in amministrazioni regionali più vaste e più complesse.
Ma questi consorzi e queste funzioni debbono nascere da bisogni locali, essere volute dalle amministrazioni autonome locali, e non deliberate e designate a priori dal Parlamento centrale
(G[aetano] S[alvemini], Postilla: l’articolo di G. Luzzatto e la Postilla si leggono anche nell’antologia L’Unità di Gaetano Salvemini, a cura di B. Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza, 1958, pp. 584-7). Sull’argomento, cfr. anche F. Grassi Orsini, Salvemini, i gruppi "unitari", la "Lega democratica per il rinnovamento della vita politica italiana" ed il federalismo sociale, in La costruzione dello Stato in Italia e in Germania, Manduria-Bari- Roma, Lacaita, 1993, p. 167-8; R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura cit., p. 263.
Su questa posizione si ritrovò anche il giovane Piero Gobetti (all'epoca tra gli animatori della Lega democratica), che riprese le stesse problematiche in un articolo del 1919, di chiaro stampo salveminiano, dal titolo "La riforma dell'amministrazione"
Cfr. [P. Gobetti], La riforma dell’amministrazione, in "Energie Nove", serie seconda, n. 1, 5 maggio 1919, ora in Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, pp. 88-94. Affermava tra l'altro Gobetti: " La base per il decentramento regionale non deve essere la regione, poiché, indipendentemente dal regionalismo antiunitario, è evidente che la regione non rappresenta da noi una differenziazione chiara e sicura. [...] Si parta dunque dalle unità più piccole: la provincia e il comune; si rafforzi e si consolidi l'autonomia di cui godono già adesso nel campo dell'amministrazione. Si lasci a questi organi locali la facoltà di unirsi e di fondersi secondo gli interessi che nasceranno: ecco la base per il nuovo ordinamento" (p. 94).
. La convergenza tra i due autori si manifestava soprattutto in una comune visione dell'autonomia come processo di ricostruzione “dal basso” dell’apparato pubblico, alla quale però Gobetti aggiungeva una sottolineatura di carattere più sociale che istituzionale, ponendo in primo piano l’esigenza di liberare energie compresse dalla logica autoritaria del centralismo e del protezionismo, e di promuovere la capacità dei soggetti collettivi di autorappresentare e di gestire direttamente i propri interessi
Cfr. R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura (1862-1942) cit., p. 267., secondo un'idea di liberalismo come prassi di composizione dinamica del conflitto di classe, che il giovane intellettuale torinese aveva mutuato dalla riflessione di Luigi Einaudi sulle mobilitazioni operaie a cavallo tra XIX e XX secolo e in particolare sullo sciopero generale di Genova del 1900
L. Einaudi, Le lotte del lavoro, Torino, P. Gobetti, 1924.
In questa stessa ottica, un articolo del 30 novembre 1920, dal significativo titolo "La rivoluzione italiana", metteva in collegamento la probabile vittoria socialista alle elezioni amministrative con una nuova stagione delle autonomie: Gobetti, evidentemente sottovalutando la portata strategica della sconfitta subìta dal movimento operaio con la conclusione dell'occupazione delle fabbriche, intervenuta solo due mesi prima, preconizzava infatti che l'autonomia sociale e classista espressa dal movimento consiliare torinese avrebbe animato anche l'azione delle amministrazioni locali a guida socialista, e a tale fine sollecitava le organizzazioni operaie a liberarsi dalla propensione centralista e burocratica di cui era gravata e nella quale vedeva accomunate le già visibili degenerazioni autoritarie della rivoluzione bolscevica e il burocratismo imputato alla componente riformista del PSI e della CGdL, considerata per questo profilo di fatto più assimilabile ai comunisti russi del gruppo ordinovista.
Le elezioni amministrative che oggi si compiono hanno un'importanza centrale. Rappresentano la fine del vecchio regime. I socialisti (come partito d'opposizione) dando battaglia e occupando qualche migliaio di comuni attueranno l'auspicata ribellione al centro. Creeranno il decentramento - una forma di governo locale - dato che dovranno governare e non si potranno accontentare di una semplice negazione. Questo processo, a cui non vedo che nessuno abbia pensato, e che in Italia è maturo (non era invece maturo in Russia, onde lo squilibrio più grave), nega per sempre le aberrazioni di una dittatura operaia e, contro le tendenze burocratiche dei Turati, Treves e D'Aragona, pone in valore le soluzioni autonomistiche dei socialisti torinesi
P. Gobetti, La rivoluzione italiana: discorso ai collaboratori di "Energie Nove", in "L'Educazione Nazionale", 30 novembre 1920, ora in Scritti politici cit., p. 193
Se l'accostamento di bolscevichi russi e riformisti italiani può apparire per molti aspetti poco più di un azzardo ideologico e storico, la contrapposizione tra le “tendenze burocratiche” dei socialisti riformisti e “le soluzioni autonomistiche dei socialisti torinesi” mette in evidenza anche uno spunto critico nei confronti delle varie ipotesi di istituzionalizzazione dell’organizzazione sindacale e di creazione di organi di rappresentanza dei gruppi professionali con propri poteri normativi (non estraneo al pensiero del sindacalismo riformista), in difesa del principio dell’autonomia politica del movimento operaio, e della sua irriducibilità ad un sistema del quale avrebbe dovuto costituire l’alternativa e non certo il puntello. Non si trattava di una questione peregrina, dato che contestualmente all'elaborazione del corporativismo fascista ad opera soprattutto di Alfredo Rocco
Sulla concezione del corporativismo di Alfredo Rocco cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista: il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006, pp. 43-47; e A. Gagliardi, Il corporativismo fascista, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 12-15, il tema dell’assunzione di funzioni pubbliche, anche di tipo normativo, da parte delle organizzazioni sindacali, eventualmente inquadrate in camere del lavoro regionali, era stato teorizzato da più parti come un aspetto non secondario del processo di decentramento istituzionale e di semplificazione della funzione parlamentare, nell'ambito di una più generale attenzione verso la problematica della rappresentanza degli interessi e delle professioni che, nel primo dopoguerra, coinvolse quanti ritenevano possibile pervenire, per tale via, ad un riconoscimento istituzionale della funzione di regolazione normativa dei rapporti di lavoro assunta dai sindacati nello Stato moderno. Proprio Salvemini, tra gli altri, integrò il discorso sul federalismo con la proposta di dare vita a camere professionali, formate da rappresentanze dei lavoratori e dei datori di lavoro, quale parte di una complessiva strategia di rinnovamento istituzionale nella direzione del superamento dei limiti del parlamentarismo liberale e di una sua razionalizzazione
“Il problema della pletora e della congestione legislativa, la Camera deve risolverlo trasferendo ai comuni, alle provincie, alle federazioni regionali, tutta quella parte di funzioni legislative, che non riguarda interessi veramente nazionali; deve risolverlo, anche al centro, distribuendo i diversi problemi, che siano di interesse veramente nazionale, fra speciali corpi legislativi, specializzati ciascuno per una determinata classe di argomenti – uno di questi organi sarebbe il così detto Parlamento del lavoro: corpi legislativi minori su cui al Parlamento centrale non resterebbe che una funzione – e non sarebbe né agevole né breve – di coordinazione e di revisione finale” (G. Salvemini, Impotenza, in “L’Unità”, 1° aprile 1920, non firmato, ora in Il ministero della malavita e altri scritti sull’età giolittiana, a cura di Elio Apih, Milano, Feltrinelli, 2° ed., 1966, p. 484 ), da intendersi soprattutto come trasferimento ad altri soggetti di poteri normativi ritenuti non tipici dell’esercizio della sovranità statale, complementare a quello che avrebbe dovuto realizzarsi attraverso il rafforzamento delle autonomie locali
"[...] la posizione di Salvemini e degli 'unitari' non [fu] una sempice riproposizione di un federalismo di tipo tradizionale su base semplicemente territoriale. La proposta che venne discussa all’interno della rivista 'L’Unità' fu quella del 'federalismo sociale' che era alla base di una rifondazione dello Stato mediante la costruzione di un nuovo sistema di rappresentanza che costituisse il superamento di un sistema oligarchico, in vista della realizzazione di una democrazia di massa, senza cadere nel predominio assoluto dei partiti" (F. Grassi Orsina, Salvemini e il federalismo, in Gaetano Salvemini e le autonomie locali, a cura di M. Degl’Innocenti, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2007, p. 90). Gobetti, per questo aspetto, si spinse lungo la strada opposta a quella indicata da Salvemini, e, nel concentrarsi sulle potenzialità del movimento consiliare torinese e sul tema dell'autogoverno dei produttori, prefigurò un pluralismo ordinamentale non corporativo, ma derivante dall'assunzione da parte del movimento operaio di un ruolo di direzione politica che avrebbe dovuto costituire uno degli assi portanti della "rivoluzione liberale" e del rinnovamento istituzionale ad essa conseguente
Parlando del movimento dei Consigli di fabbrica, Gobetti scriveva: “Siamo di fronte a uno dei fenomeni più schiettamente autonomisti che abbiano saputo prodursi nell’Italia moderna. Chi fuori di ogni pregiudizio di partito, pensoso degli effetti della crisi postbellica che è crisi di volontà, di coerenza, di libertà, confidi ancora in una ripresa del movimento rivoluzionario interrotto nel Risorgimento che penetri finalmente nello spirito delle masse popolari e le svegli alla libertà, dovrebbe scorgere in questi sentimenti e in queste prove la via maestra della lotta politica futura” (P. Gobetti, La rivoluzione liberale: saggio sulla lotta politica in Italia, [1924], Torino, Einaudi, 1969, p. 114).
Autonomie sociali ed autonomie territoriali furono anche al centro dell’attenzione del periodico La Critica politica, diretta dal repubblicano Oliviero Zuccarini, che condusse una vivace campagna autonomistica con toni non lontani da quelli dell’Unità salveminiana
Sulla contiguità ideale tra la Critica politica e l'Unità di Salvemini, cfr. A. Agosti, Rodolfo Morandi: il pensiero e l'azione politica, Bari, Laterza, p. 36-7.: sin dalle dichiarazioni programmatiche, il periodico repubblicano si distinse per un marcato antistatalismo
"Oggi lo Stato è giunto al limite massimo di sviluppo. La sua funzione si è addimostrata dannosa per gli individui, per le classi, per i partiti e ha determinato una situazione economicamente artificiosa, finanziariamente disastrosa, socialmente insostenibile [...] Il centralismo ha reso impossibili i controlli rendendo inutile la funzione parlamentare. I partiti sono ridotti all'impotenza e la loro azione politica è oggi puramente esteriore. La libertà non è più che un nome. Democrazia non esiste, giacché il popolo né governa, né potrebbe governare. Solo la burocrazia è onnipotente" [O. Zuccarini], Linee programmatiche, in "La Critica politica", I, n. 1, 25 dicembre 1920-1° gennaio 1921. e si espresse a favore di "ampie e snodate autonomie", in grado di risvegliare energie economiche e sociali compresse dal centralismo: non solo quindi autonomie locali, ma anche autonomie sociali, in vista di un modello di rappresentanza delle classi lavoratrici in grado di amplificare la funzione di autotutela "fino ad assorbire le funzioni produttive" e contestualmente di ridurre al minimo le funzioni statali. Sostenendo tale esigenza, Zuccarini affermava:
Solo con un ordinamento siffatto la lotta sociale può essere riportata nei suoi veri termini, lasciando che le classi lavoratrici perfezionino i propri congegni sindacali fino ad assorbire le funzioni produttive, provvedendo da se stesse - con un consapevole sforzo di elevamento - alla propria emancipazione, anziché attenderla o pretenderla dall'intervento legislativo.
Una soluzione - come quella che abbiamo prospettato - non può aversi che su base regionale e federale in uno Stato ridotto al minimo indispensabile degli organi, delle funzioni e delle attribuzioni
ivi
In questa particolare configurazione dello “Stato minimo” confluivano sia le tematiche emancipazioniste ed il pedagogismo politico mazziniano, sia la reminiscenza della contestazione liberista alla legislazione sociale, quale elemento di alterazione dell’equilibrio del mercato del lavoro, derivante da un eccesso di protezione normativa esercitato sul versante dell’offerta e da un contestuale depotenziamento dell’autonomia delle parti sociali. Per Zuccarini, il centralismo costituiva l'espressione più palese del deficit di democrazia dello Stato uscito dal processo unitario, e la matrice del conseguente proliferare di particolarismi e corporativismi, dei quali il fenomeno del trasformismo aveva costituito l'espressione più palese a livello parlamentare, agendo anche come surrogato patologico di una effettiva capacità di governo locale. Pertanto, la regione, per essere una realtà effettivamente vitale, non avrebbe dovuto essere un’elargizione del legislatore statale, inesorabilmente destinata a replicare quegli schemi, bensì, come aveva sostenuto anche Salvemini, rappresentare il risultato di una libera attività federativa degli enti locali minori
"Ma la regione deve essere intesa come libero aggruppamento. Ripugnerebbe al principio di autonomia, per noi fondamentale, pretendere di fissare i limiti delle circoscrizioni regionali e di stabilirne o di volerne stabilire il modello. Noi non pensiamo affatto che la regione possa sorgere in virtù di un nuovo atto di legislazione che costituisca ad arbitrio dell'autorità centrale nuove circoscrizioni amministrative e nuovi organi di amministrazione. [...]è essenziale che le autonomie si realizzino nella organizzazione della regione per libera scelta e per liberi aggruppamenti [...]. Le autonomie regionali non possono altrimenti concepirsi che come sulla rappresentanza degli interessi liberamente aggruppati e federati. In un sistema di organismi regionali pel commercio, per l'industria e per l'agricoltura, per il lavoro, per le arti, per la cultura ogni forma di attività troverebbe il suo posto e gli interessi particolari avrebbero la tutela della loro legittima rappresentanza" (O. Zuccarini, Tendenze e fini di un movimento autonomista, in "La Critica politica", II, n. 4, 25 aprile 1922).. Zuccarini, peraltro, con la sua elaborazione regionalista e federalista, puntualizzava ed articolava ulteriormente un orientamento sostanzialmente condiviso dal Partito repubblicano, che, in occasione del XV Congresso nazionale (Trieste, 22-25 aprile 1922) approvò alcuni documenti sui temi delle autonomie locali. In particolare, un ordine del giorno Schiavetti, Quattrini, Zuccarini, riprendendo un analogo documento presentato da Giovanni Conti, sottolineava tra l’altro la necessità di "sospingere tutte le sane forze produttive, spesso divise da dissidi subdoli e artificiosi" a battersi contro il militarismo, il protezionismo ed il fiscalismo e, in particolare "contro l'oppressione dello Stato accentratore di tutte le funzioni politiche e di funzioni economiche e sociali, per la libertà e autonomia politica e amministrativa delle regioni"
Partito repubblicani italiano, Resoconto sommario del XV Congresso nazionale, Trieste, 22, 23, 24, 25 aprile 1922, Roma, Società anonima poligrafica italiana, 1922, p. 53. Un ordine del giorno Zuccarini, anch'esso approvato dal Congresso, scendeva ancora più nel dettaglio e, nel sostenere che "l'accentramento statale nelle sue varie forme intervenzioniste e protezionistiche" aveva prodotto "a) nel campo politico, l'annullamento progressivo della sovranità popolare; b) nel campo economico, lo sperpero della ricchezza, l'indebolimento delle attività produttive e lo sviluppo di infinite forze parassitarie; c) nei rapporti sociali, il moltiplicarsi e l'inasprirsi dei contrasti e delle insolidarietà [sic] di classe", affermava che il futuro ordinamento repubblicano avrebbe dovuto poggiare su basi regionali e federali, "intendendo la Regione come libero raggruppamento e come rappresentanza di interessi federali, e la Federazione come unità per reciprocità di intenti" e invitava il Partito a svolgere la propria iniziativa "precisando il problema delle autonomie nei suoi termini di antitesi con l'organizzazione attuale dello Stato, e nel tempo stesso a seguire con simpatia lo svilupparsi in tutta Italia di aspirazioni e di tendenze autonomiste [...]"
Ivi, p. 66-7
Combattentismo e sardismo
Federalismo, regionalismo ed autonomismo non erano dunque soltanto appannaggio di singole personalità o di circoli intellettuali, sia pure influenti, come quelli riuniti attorno all’”Unità” salveminiana o alla “Rivoluzione liberale” di Gobetti: anche gruppi organizzati e partiti politici, oltre al PRI, si fecero portatori di tali esigenze, soprattutto laddove esse si coniugavano con la domanda di una più intensa partecipazione politica dei ceti sociali che avevano maggiormente sopportato il peso della guerra.
Un autorevole avallo alle posizioni regionaliste era venuto proprio dal primo Congresso dell' Associazione Nazionale Combattenti (Roma, 22-27 giugno 1919) che, benché fortemente concentrato sull'ipotesi di un impegno politico diretto dei combattenti in vista delle imminenti elezioni, le prime del dopoguerra
cfr. G. Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Bari-Roma, Laterza, 1974, p. 99
, ebbe occasione anche di pronunciarsi, grazie soprattutto all'impegno profuso in tal senso dai delegati del Sud Italia, in favore del decentramento burocratico ed amministrativo, del rafforzamento degli enti locali e dello sviluppo dell'istituto regionale
Cfr. R. Ruffilli, La questione regionale dall'unificazione alla dittatura (1862-1942) cit., p. 267.. Occorre del resto considerare che, nell'ambito della stessa ANC, e soprattutto tra i dirigenti meridionali, l'influenza delle posizioni Salvemini non era affatto trascurabile, tanto è vero che, in occasione del Congresso regionale pugliese dell'Associazione, superando l'opposizione della corrente nazionalista, lo storico fu incluso nella lista dei candidati del Partito di Rinnovamento, nato dalla componente più politicizzata del combattentismo, ed il programma adottato per il collegio di Bari ne riprese quasi integralmente le posizioni e le valutazioni, anche in materia di decentramento e "federalismo dal basso"
Cfr. Le elezioni in provincia di Bari, in " L'Unità", 30 ottobre 1919, ora in G. Salvemini, Il Ministero della mala vita e altri scritti sull'Italia giolittiana, cit. pp. 478– 482 .
Sempre dal tronco combattentista si sviluppò la particolare esperienza del Partito Sardo d'Azione, unica espressione di una tendenza autonomista con un consistente seguito di massa a base regionale. Nell'isola, il movimento dei combattenti era nato con un certo ritardo rispetto ad altre regioni, ma si era rapidamente ampliato – anche per la circostanza che la Brigata “Sassari” era stata l’unica unità combattente dell’Esercito italiano reclutata su base territoriale - e con il primo Congresso regionale (Nuoro, 25 maggio 1919) era sorta la Federazione sarda dell'ANC, che, sotto la guida del salveminiano Camillo Bellieni, adottò una piattaforma meridionalista, liberista, autonomista e cooperativistica; la rivendicazione autonomistica aveva tuttavia dei contorni ancora vaghi
“Tra il 1918 e il 1921 c’è, fra i dirigenti del movimento (destinati a diventare in gran parte i dirigenti del Psd’A), molta incertezza su quello che dovrà essere questa ‘autonomia’ di cui si parla, in genere, insieme col (o in contrapposizione al) decentramento, in cui poi si stenta a distinguere il ‘decentramento amministrativo’ da un ‘decentramento burocratico’: ma c’è anche qualche accenno a un ‘decentramento politico’ che vorrebbe essere l’altro nome dell’autonomia” (M. Brigaglia, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi: La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998, p. 601 e ruotava attorno all'idea di un ampliamento dei poteri degli enti locali, della creazione di consorzi tra amministrazioni e di un adeguamento del carico tributario all'effettiva capacità contributiva dell'isola. Queste proposte, peraltro, trovarono buona accoglienza anche al Congresso nazionale di Roma dell'ANC, dove furono illustrate dal delegato sardo Efisio Mameli, e dove, come si è detto, si registrò una sostanziale comunanza di vedute tra i delegati meridionali, sui temi delle autonomie locali, della libertà doganale e della distribuzione agli excombattenti delle terre incolte e del latifondo
Cfr. L. Nieddu, Dal combattentismo al fascismo in Sardegna, Milano, Vangelista, 1979, pp. 14-16.
L’affermazione elettorale della lista sarda dei combattenti “Elmetto” in occasione delle consultazioni politiche del novembre 1919, confermò l’ampiezza del consenso che si era andato consolidando attorno al movimento combattentistico, ma fece anche emergere il dissenso tra il gruppo salveminiano di Sassari, guidato da Bellieni, e il gruppo cagliaritano riunito attorno alla rivista “Il solco” e guidato da Emilio Lussu, pluridecorato eroe di guerra e allora acceso nazionalista, sostenitore dell’impresa fiumana e in stretto contatto con Alceste De Ambris, capo di gabinetto di D’Annunzio.
Subito dopo le elezioni, Bellieni, con una lettera Agli amici della Giunta Esecutiva (30 novembre), aveva proposto di dare vita ad un partito politico a base contadina, distinto dalla Federazione regionale dell’ANC, rappresentativo degli “interessi della comunità sarda”, “regionale e regionalista”, e idealmente collegato al pensiero di Salvemini, esplicitamente richiamato quale punto di riferimento nella lotta contro la subalternità economica del Mezzogiorno
“Il movimento unitario guidato da Salvemini è precisamente il movimento dei produttori e dei consumatori pugliesi, calabresi e basilichi che vogliono opporsi alla brutale sopraffazione dell’Italia superiore”. La Lettera di Bellieni è citata parzialmente in L. Nieddu, Dal combattentismo al fascismo in Sardegna cit., pp. 59-61 . La proposta trovò inizialmente la ferma opposizione di Lussu, probabilmente, come è stato ipotizzato, contrario più che per specifiche ragioni politiche, per motivi ideologici, riconducibile all’incompatibilità della corrente nazionalista con i salveminiani, ritenuti espressione di una linea rinunciataria nei confronti delle rivendicazioni italiane sulla Dalmazia
Cfr. ivi, p. 64-5.. L’assioma autonomista, pur espresso in modo estremamente generico, non venne tuttavia messo in discussione da nessuna delle due correnti, e, anzi, costituì parte integrante del programma approvato in occasione del Congresso di Macomer (8-9 agosto 1920), che segnò peraltro una netta affermazione del gruppo cagliaritano, facente capo a Lussu e a Lionello De Lisi, nei confronti del gruppo sassarese di Bellieni, che pure si era recato all’appuntamento congressuale con un documento antisocialista, liberista e più esplicitamente regionalista (nonché di sostegno alla proposta della maggioranza dell’ANC di dare vita ad un Partito di Rinnovamento). Nel documento dei cagliaritani il riferimento ai temi del decentramento, dell’autonomia e della repubblica, restava invece subordinato a quelli dell’organizzazione dei produttori finalizzata a perseguire obiettivi di espropriazione del capitale privato, di soppressione del Senato e di creazione, in suo luogo, di organismi basati sui consigli tecnico-economici della produzione
Cfr. S. Sechi, Movimento autonomistico e origini del fascismo in Sardegna, in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, vol. I. 1967, p. 154 , che se da un lato richiamavano le parole d’ordine del sindacalismo rivoluzionario, soprattutto nella sua componente interventista, dall’altro non erano estranei (come si è visto) all’elaborazione di Salvemini e della corrente federalista repubblicana
“Salvemini e Sorel sono, in effetti, i pensatori dai quali maggiormente sembra influenzato il documento programmatico di Macomer. Purtroppo non si giunge a contemperare le due aspirazioni in un coerente tessuto politico-ideologico” (S. Sechi, Dopoguerra e fascismo in Sardegna: il movimento autonomistico nella crisi dello Stato liberale (1918-1926), Torino, Einaudi, p. 222) . Il programma approvato dal Congresso, fallito il tentativo di mediazione tra le due componenti intrapreso dal deputato sardista Mastino, recava dunque la forte impronta del gruppo cagliaritano
“In conclusione si leggeva nel programma – le aspirazioni dei combattenti nel campo della questione sociale sono: ricostruzione della produzione sulla base della organizzazione libera dei lavoratori produttori in lotta contro lo sfruttamento capitalistico; limitazione progressiva dei poteri dello Stato, discentramento di tutti i poteri pubblici, sostituzione progressiva e ove occorra violenta di istituti superflui e superati con formazioni sindacali, istituti regionali, comunali, di categoria” (cit. in: L. Nieddu, Dal combattentismo al fascismo in Sardegna cit., p. 82-83) ; esso tuttavia pose le premesse per l’avvio del processo di costruzione del Partito Sardo d’Azione, spinto in avanti sia dal progressivo accostamento tra Lussu e Bellieni, sia dall’esito delle elezioni amministrative del 1920, che videro una netta affermazione della lista dei combattenti a Sassari, dove fu conquistata la maggioranza del Consiglio provinciale, con la presidenza dell’on. Mastino, e l’insuccesso della lista cagliaritana, che conquistò nel Consiglio provinciale solo sei rappresentanti. Il Partito Sardo d’Azione venne quindi costituito formalmente con il Congresso di Oristano (16-17 aprile 1921), a ridosso delle elezioni politiche convocate per il 15 maggio e in un momento in cui il nascente fascismo sardo riusciva a contendere con un certo successo al neonato partito, il consenso dei combattenti
Sulle origini del fascismo in Sardegna, si veda, oltre ai citati S. Sechi, Movimento autonomistico e origini del fascismo in Sardegna (in particolare pp.171-181); L. Nieddu, Dal combattentismo al fascismo in Sardegna (pp. 141-160), G. Sotgiu, Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo, Roma–Bari, Laterza, 1990, pp. 111–154: il Congresso fu un’occasione per confermare ed accentuare la vocazione autonomistica del Psd’A, con la definizione di un programma provvisorio, dovuto in gran parte all’elaborazione di Bellieni, basato sulla proclamazione del principio della sovranità popolare e dell'autogoverno del popolo sardo, dell’autonomia amministrativa, della libertà di commercio e del cooperativismo come strumento principale di emancipazione delle classi lavoratrici e di superamento della lotta di classe
Cfr. M. Brigaglia, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo cit., p. 617.
La scelta autonomista fu ribadita anche nel II Congresso del Partito, che però, dopo il successo alle elezioni del 1921 (in cui i sardisti colsero una brillante vittoria, diventando il secondo partito, con il 28,8 per cento dei voti, dopo il Blocco nazionale, e distanziando notevolmente sia i socialisti sia i popolari), si trovò a fronteggiare una crisi politica, riconducibile, come ebbe ad affermare Bellieni, al contrasto con “potenti forze che agiscono in senso diverso, se pure non completamente contrario”
In: L. Nieddu, Dal combattentismo al fascismo in Sardegna cit., p. 199. rispetto al sardismo; in effetti, il Congresso si svolse nei giorni della marcia su Roma (ebbe inizio il 29 ottobre a Nuoro), in un clima di incertezza e di attenzione verso la crisi in atto, che distolse dalla trattazione specifica di altri temi, e si risolse, soprattutto per l’intervento di Lussu, in una netta presa di posizione antifascista
Cfr. Ivi, p. 200.
La linea adottata a Nuoro, però, incontrò presto nuove difficoltà, dovute non solo alla situazione politica generale, ma anche all'abile opera del nuovo prefetto, il generale Asclepia Gandolfo, inviato da Mussolini per cercare di ricomporre le faide interne al fascismo isolano, ma soprattutto per favorire l'incontro dei sardisti con il PNF sul terreno del combattentismo, del nazionalismo e dell'antiparlamentarismo. Anche se Mussolini si oppose a qualsiasi concessione di carattere sostanziale sull'autonomia dell'isola, il tentativo di Gandolfo produsse risultati notevoli e nel corso del 1923 molti esponenti del PSd'A entrarono nel PNF
Sull’azione condotta dal prefetto Gandolfo, cfr. L. Nieddu, Dal combattentismo al fascismo in Sardegna cit., pp. 220-228; G. Sotgiu, Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo cit., pp. 202-228; M. Brigaglia, Emilio Lussu e “Giustizia e Libertà” : dall’evasione di Lipari al ritorno in Italia (1929-1943), 2° ed., Cagliari, Edizioni della Torre, 2008, p. 19, mentre il gruppo superstite riunito attorno a Bellieni, Mastino, Francesco Fancello (da tempo, quest’ultimo, residente a Roma) e a Lussu - che pure in un primo momento aveva creduto alla possibilità di una intesa ed era stato incaricato dal Direttorio del Partito di condurre le trattative con il prefetto
Sulla vicenda del rapporto tra Lussu e Gandolfo si veda anche G. Fiori, Il cavaliere dei Rossomori: vita di Emilio Lussu, Torino, Einaudi, 2000 (2° ed.), pp. 130-146 -, accentuò il proprio distacco dal governo fascista. Dopo il delitto Matteotti, i due deputati sardisti Mastino e Lussu presero parte all'Aventino, non senza perplessità per l'orientamento legalitario adottato della maggioranza dello schieramento costituzionale, e la perplessità si trasformò in distacco in occasione del V Congresso del Partito ( 27 settembre 1925), quando, con l'approvazione di un ordine del giorno Mastino, si dichiarava ormai superata l'esperienza aventiniana e si ribadiva la scelta autonomistica, dando mandato al direttorio di ricercare l'intesa con le altre formazioni del medesimo orientamento, "facendosi promotore di un partito nazionale d’azione, per far confluire, attraverso di esso le masse contadine nella vita politica del paese”
In M. Brigaglia, Emilio Lussu e “Giustizia e Libertà”, p. 19. Sul Congresso di Macomer, cfr. anche G. Sotgiu, Storia della Sardegna dalla Grande Guerra al fascismo cit., p. 270-1. Questa politica, che si sarebbe spinta fino a contatti con l'Internazionale comunista e ad un inizio di confronto tra Lussu e Antonio Gramsci, fu interrotta dalla stretta repressiva culminata nelle "leggi fascistissime" del 1926, che costrinse gli esponenti del sardismo democratico, come quelli delle altre formazioni antifasciste, al silenzio, alla prigione e all'esilio.
Il regionalismo cattolico
Meridionalismo e liberismo sono anche alla base, sul versante cattolico, dell'impegno di Luigi Sturzo e del partito popolare sulla questione regionale: nell’elaborazione di una piattaforma politica che presentava alcuni punti di contatto con quella di Salvemini
Cfr. M. L. Salvadori, Sturzo e Salvemini nell'età giolittiana, in Luigi Sturzo nella storia d'Italia: atti del Convegno internazionale di studio svoltosi dal 26 al 28 novembre 1971, I, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1973, p. 613-621. Pietro Gobetti scrisse in proposito, utilizzando peraltro una terminologia salveminiana: “Gaetano Salvemini e Luigi Sturzo sono riusciti a promuovere in Italia il più recente esperimento di illuminismo politico offrendo il metodo e alcuni esempi di problemismo pratico" (P. Gobetti, La rivoluzione liberale cit. p. 145), Sturzo apportò la peculiare sensibilità del pensiero sociale della Chiesa, declinando l'istanza autonomistica nella dimensione garantista della salvaguardia delle formazioni sociali intermedie, non più, come pure era stato nel recente passato, in termini di contrapposizione antagonistica nei confronti dello Stato liberale, ma come parte di un progetto politico di riforma istituzionale, volto a riqualificare il tradizionale organicismo cattolico nel quadro di una democrazia rappresentativa nella quale un largo spazio sarebbe stato assegnato alle classi rurali, e in particolare dalla piccola proprietà agraria (da promuovere anche attraverso la liquidazione del latifondo) nonché ai ceti medi urbani - ovvero a settori sociali che stentavano a trovare referenti nei partiti tradizionali e ai quali non appariva interessato il socialismo massimalista - in funzione moderatrice sul piano politico e di contenimento e stabilizzazione della conflittualità sul piano sociale
Cfr. G. De Rosa, Il Partito popolare italiano, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 14-18.. In questa prospettiva, fin dalla fondazione del Partito, alla fine del 1918, il tema del riordino della rappresentanza – di cui la battaglia proporzionalistica fu l’aspetto più visibile, ma non certo l’unico - e la redistribuzione di essa tra organi diversi aveva assunto un particolare rilievo: rispetto alla complessità dei problemi ed alle ansie di rinnovamento espresse dal dopoguerra, infatti, il popolarismo assumeva come prioritaria la questione della tutela istituzionale del pluralismo organizzativo della società civile, da salvaguardare rispetto all'invadenza dello Stato burocratico e protezionista, e da promuovere e tutelare al fine di liberare energie compresse dal centralismo dell'ordinamento liberale, ormai incompatibile con le dinamiche economiche e sociali innescate dal conflitto
Nell'appello A tutti gli uomini liberi e forti, che costituì la prima piattaforma programmatica del Partito Popolare, adottata il 18 gennaio 1919, si leggeva, tra l'altro: “Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali - la famiglia, le classi, i Comuni - che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private. E perché lo Stato sia la più sincera espressione del volere popolare, domandiamo la riforma dell'Istituto Parlamentare sulla base della rappresentanza proporzionale, non escluso il voto delle donne, e il Senato elettivo, come rappresentanza direttiva degli organismi nazionali, accademici, amministrativi e sindacali: vogliamo la riforma della burocrazia e degli ordinamenti giudiziari e la semplificazione della legislazione, invochiamo il riconoscimento giuridico delle classi, l'autonomia comunale, la riforma degli Enti Provinciali e il più largo decentramento nelle unità regionali". . In questi termini, se la critica all'assetto atomistico dello Stato liberale si riallacciava alla tradizione antistatuale del cattolicesimo intransigente, essa era al tempo stesso rivolta ad un'altra ed opposta finalità, consistente nella denuncia dell'insostenibilità di un assetto sostanzialmente oligarchico nel momento in cui il dopoguerra aveva scatenato una dinamica sociale del tutto inedita rispetto al passato. Di qui la proposta politica di Luigi Sturzo, tendente a delineare una trasformazione degli organi della rappresentanza, "venendo incontro all'urgenza, avanzata da più parti , di interpretare e regolare gli impulsi verso le trasformazioni istituzionali emerse nel dopoguerra"
N. Antonetti, Sturzo, i popolari e le riforme istituzionali del primo dopoguerra, Brescia, Morcelliana, 1988, p. 111, coniugando la matrice giusnaturalistica del pensiero sociale cattolico con istanze progressive e di riforma sociale - come la rivendicazione della terra per i contadini-combattenti – in una prospettiva di armonizzazione del rapporto tra istituzione statuale, formazioni sociali minori e cittadini, non più in contrapposizione all’ordinamento statutario, ma orientato comunque in direzione del suo superamento
"Quali i caratteri che contrassegnano questo salto qualitativo dell'autonomismo attraverso Sturzo? Anzitutto, come dato più evidente, la rivendicazione autonomista non intende mettere in discussione l'assetto unitario nazionale. [...] Le autonomie locali, basandosi sulle diverse tradizioni storiche e culturali, completano il processo di unità, reso incompleto dal soffocamento delle forze locali. In questo modo, la critica di Sturzo allo Statolo unitario-liberale si muove sempre nel quadro del giusnaturalismo neo-tomista, ma questo rimane un punto di riferimento di fondo, mentre l'attenzione prevalente si focalizza sulle conseguenze concrete, politiche, che le storture dello Stato liberale importavano [...]" (F. Piva, Autonomie comunali e regionali nel programma e nell'azione del Partito Popolare italiano, in Saggi sul Partito Popolare italiano nel cinquantenario della sua fondazione, Roma, Istituto Luigi Sturzo, 1969, p. 117): mentre ai partiti politici sarebbe spettato il compito di aggregare e di organizzare la rappresentanza politica dei cittadini nell'ambio di una Camera dei deputati eletta su base proporzionalistica, un Senato riformato avrebbe dovuto assicurare la rappresentanza degli interessi, a partire dalle autonomie locali e dalle organizzazioni sindacali riconosciute, con un sistema elettorale di secondo grado, mentre ai Consigli superiori, resi anch'essi elettivi, sarebbe spettato il compito di dettare disposizioni ciascuno nell'ambito del rispettivo ordinamento di settore, sulla base di un mandato conferito dal Parlamento nazionale
Cfr. N. Antonetti, Dottrine politiche e cultura giuridica alla Costituente. Sturzo e Ambrosini di fronte al problema del bicameralismo, in Ambrosini e Sturzo. La nascita delle Regioni, a cura di N. Antonetti e U. De Siervo, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 121-22.. Il PPI non era l'unica formazione politica del dopoguerra che agitava congiuntamente il tema del decentramento regionale e quello della rappresentanza degli interessi, con conseguente trasferimento di parte della funzione legislativa a corpi diversi dalla Camera elettiva, ma agì più incisivamente di altre forze, considerato anche il suo assetto di partito di dimensione nazionale e investito di un ampio consenso elettorale sin dalla nascita, tale da consentirgli di inquadrare la questione regionale nell'ambito di un più generale progetto di riforma istituzionale.
Il III Congresso del Partito popolare (Venezia, 20-23 ottobre 1921), offrì a Sturzo l’occasione per riassumere il suo pensiero sul tema del decentramento amministrativo, delle autonomie locali e della costituzione della regione. In qualità di relatore su questi punti, il sacerdote calatino delineò compiutamente la fisionomia autonomistica e regionalistica del popolarismo, destinata a costituire uno dei lasciti più significativi e fecondi per il risorto partito cattolico nel secondo dopoguerra: nella relazione, Sturzo ricordò l'attività svolta dal gruppo parlamentare popolare per l'affermazione dei principi del decentramento burocratico e istituzionale, e ripercorse le iniziative e le prese di posizione assunte dal Partito su questi temi: l'Appello a tutti gli uomini liberi e forti, del gennaio 1919; il I Congresso a Bologna, nel giugno dello stesso anno, con l'approvazione di un ordine del giorno di monsignor Gentili, per la conservazione del regime di autonomia delle province annesse (o, come si preferiva dire all'epoca, delle terre redente); la presentazione di un progetto di legge istitutivo delle Camere regionali di agricoltura, il 6 febbraio 1920, "prima proposta concreta di decentramento regionale autarchico, organico, speciale, a base sindacale", seguito da un disegno di legge sul medesimo argomento del popolare Achille Visocchi, ministro dell'agricoltura nel governo Nitti, riproposto dal suo successore Giuseppe Micheli, anch'egli parlamentare del PPI
La relazione al Congresso di Venezia è stata pubblicata in varie edizioni. Tra le altre, v. L. Sturzo, Mezzogiorno e classe dirigente: scritti sulla questione meridionale dalle prime battaglie politiche siciliane al ritorno dall'esilio, a cura di G. De Rosa, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1986, p. 567, nonché, al Congresso di Napoli (aprile 1920), l'approvazione di un ordine del giorno Martini, di riconferma dell’obiettivo delle Camere di agricoltura, e di un ordine del giorno Gianturco sui consigli di lavoro provinciali e regionali. Sempre in occasione del Congresso di Napoli era stato inoltre riaffermato il programma autonomista in favore degli enti locali, predisposto nell'imminenza delle elezioni amministrative del 1920 e poi ulteriormente precisato nel Consiglio nazionale del maggio dello stesso anno, con una formula (ancora molto prudente) che rivendicava l’istituzione delle regioni come “organo di decentramento amministrativo e di rappresentanza politica degli interessi locali’’ (ordine del giorno Pini-Sturzo) seguito, nel luglio, da un analogo documento dei deputati popolari del Mezzogiorno
Cfr. ivi, pp.567-571..
Sempre nella relazione veneziana, Sturzo chiarì anche che il popolarismo aveva ormai superato l’antistatalismo degli intransigenti e che pertanto il programma regionalista non era antistatale, ma contro “il predominio statale burocratico, che bisogna correggere”, e aggiungeva: “La regione è concepita da noi come una unità convergente e non divergente dallo Stato”
L'intento di Sturzo come relatore al Congresso di Venezia - ha scritto Gabriele De Rosa "fu di riuscire a delineare la prospettiva di un decentramento e di un regionalismo non come opposizione alla concezione unitaria dello Stato, ma come ulteriore e possibile sviluppo nell'ambito stesso dello Stato esistente, di vitalità storiche regionali fino ad allora compresse dalla centralizzazione burocratica. L'ente regione avrebbe dovuto essere, secondo Sturzo, una specie di garante dell'autonomia della società civile rispetto agli eccessi del 'procacciantismo parlamentare' e della 'sopraffazione politica'" (G. De Rosa, Il Partito popolare italiano cit., p. 99-100. . Dopo avere indicato l’ambito delle possibili competenze regionali (lavori pubblici, agricoltura, scuole secondarie e professionali, industria, commercio, lavoro, beneficenza, igiene e servizi delegati dallo Stato), Sturzo concluse rivendicando l’istituzione delle regioni “come enti elettivi-rappresentativi autonomi-autarchici, amministrativi-legislativi degli interessi circoscritti al proprio territorio” e sollecitando il loro coordinamento con il “movimento sindacale cooperativo e mutualista, che forma il sostrato dello sviluppo sociale moderno, e che non può essere avulso dalle attività della vita regionale e provinciale […]”
L. Sturzo, Mezzogiorno e classe dirigente: scritti sulla questione meridionale cit., p. 597: una formula che riassumeva e definiva il carattere insieme organicista e garantista del regionalismo popolare.
Svolta nel pieno crisi dello Stato liberale, il documento appariva più una riaffermazione della posizione del Partito popolare e una indicazione per il futuro
Il dibattito sul decentramento rappresentò […], più che altro, una riaffermazione di principi e la volontà del partito di tenere in piedi, di fronte all'opinione pubblica ed alle altre forze politiche, una parte fondamentale del programma popolare, che affondava le sue radici nella storia e nel pensiero del movimento cattolico e che aveva avuto negli anni della prima democrazia cristiana la sua più decisa formulazione. (F. Malgeri, Il Partito Popolare attraverso i suoi congressi nazionali, in Saggi sul Partito popolare italiano nel cinquantenario della sua fondazione cit., p. 66) che un programma di immediata fattibilità: la proposta sturziana si proponeva infatti di dare uno sbocco in ultima analisi moderato alla crisi dello Stato liberale, senza però rinunciare a denunciarne il carattere oligarchico ed elitario e a stigmatizzare l'ostinato rifiuto a prendere in considerazione qualsiasi sviluppo istituzionale suscettibile di promuovere una maggiore partecipazione democratica da parte di strati sociali tradizionalmente tenuti ai margini della vita nazionale, ma che la guerra aveva mobilitato ed organizzato secondo modalità mai viste in precedenza, con conseguenze che nessuno schieramento politico si era dimostrato in grado di prevedere e di governare.
Per questi aspetti, la politica dei popolari trovava non pochi punti di contatto con altre più radicali proposte autonomiste, di cui si è cercato di dare brevemente conto: era quindi inevitabile che il regionalismo e l'autonomismo, nelle diverse versioni, finissero con l’entrare in rotta di collisione nei confronti del fascismo
È stato affermato, con un giudizio riferito all'esperienza di "Critica politica", ma che può essere estesa a tutto l’indirizzo regionalista e federalista: “Nella lotta al fascismo, è insita anche una documentata denuncia delle insufficienze dello Stato post Risorgimentale, accentratore, che ha provocato la crisi generale della società italiana e ha permesso che di questa crisi si servisse il fascismo nella sua occupazione violenta del Paese” (P. Permoli, Tra democrazia e fascismo, introduzione a La Critica politica 1920-1926 cit., p. 24) che, dopo essersi giovato dei fermenti del dopoguerra per mobilitare un'ampia area sociale contro le ultime vestigia del sistema liberale, aveva promosso uno sbocco reazionario al disfacimento dell’ordinamento statutario, seguendo una strategia istituzionale diametralmente opposta a quella auspicata dal pensiero autonomistico. Nel passaggio dal governo autoritario al regime, a metà degli anni ’20, in un clima di esaltazione dell'assolutismo statalista, un ruolo fondamentale era stato infatti assolto dallo smantellamento delle autonomie locali elettive, dalla subordinazione del potere locale al governo centrale e dall'italianizzazione forzata delle aree allogene, altrettanti passaggi nell'affermazione del profilo totalitario della dittatura fascista, che, d'altra parte, non mancò di favorire spinte e pulsioni campaniliste, come palliativo per la perdita di autonomia da parte delle comunità locali.
Il regionalismo dal primo al secondo dopoguerra
Caduto il fascismo, dunque, il regionalismo si sarebbe riproposto come fattore di discontinuità con il precedente ordinamento totalitario, recuperando l'istanza di partecipazione democratica che aveva contrassegnato anche il percorso del primo dopoguerra, ma al tempo stesso differenziandosi notevolmente da quell’esperienza, per diverse ragioni, che può essere opportuno illustrare per comprendere meglio come lo stesso tema si sia posto in termini molto diversi in due stagioni della vita pubblica italiana e come il regionalismo degli anni '20 presenti caratteristiche peculiari che lo connotano come un fenomeno politico-culturale per molti aspetti diverso da quello destinato a svolgere un ruolo di primo piano nel dibattito dell'Assemblea Costituente.
In primo luogo, perse notevolmente peso, anche per le modificazioni subite in un ventennio dalla composizione sociale del paese, la componente ruralistica, che aveva svolto invece un ruolo molto importante nella formazione delle istanze autonomistiche del primo dopoguerra, in una prospettiva comune alle correnti cattoliche e laiche e mirante sia a dislocare piccoli proprietari, mezzadri e coloni su una posizione democratica, sia, soprattutto nella visione del Partito Popolare, a favorire la diffusione della piccola e media proprietà terriera, come elemento di stabilizzazione sociale e politica
“La soluzione del problema agrario – affermava Sturzo nel 1923 - deve contribuire a formare quel ceto medio economico che è molto limitato nel Mezzogiorno, e che è uno dei nessi connettivi più saldi della società; e che - per il fatto di non essere né troppo piccolo né abbastanza ricco – sente meglio la spinta al lavoro, alle imprese, ai guadagni, e quindi è una forza dinamica di prim'ordine, molto maggiore di quelli che possiedono troppo, che sono lontani dal tumulto della vita che lavora, privi dell'ebbrezza che dà il contatto con la natura, che si trasforma e si rinnova nelle sue forze produttive” (L. Sturzo, Il Mezzogiorno e la politica italiana (1923), in Mezzogiorno e classe dirigente cit., p. 635). Il nesso tra la questione meridionale e la questione agraria, peraltro, rappresentò di certo un elemento di continuità tra il primo ed il secondo dopoguerra, ma fu declinato in termini differenti. Nella prospettiva autonomista degli anni ’20 la liquidazione del latifondo meridionale significava infatti la liquidazione di uno dei pilastri sociali del protezionismo e quindi dell’assetto oligarchico sociale che lo alimentava
Nel già ricordato programma della lista barese di Rinnovamento per le elezioni del 1921 era scritto tra l’altro: “Nella politica interna i candidati considerano indispensabile una lotta sistematica in difesa della grande maggioranza della popolazione, e specialmente dei contadini meridionali, contro le oligarchie che, già prima della guerra, dominavano la nostra vita pubblica, e si sono servite della guerra per rafforzarsi ed annullare ogni funzione legislativa del Parlamento. Queste oligarchie, strettamente legate fra di loro, sono costituite da quelle industrie che, sfruttando parassitariamente […] il bilancio dello Stato e l'economia del paese, dall’alta burocrazia civile e militare, e da quelle corporazioni operaie che, dimenticando i doveri di classe, spalleggiano le industrie parassitarie” (Le elezioni in provincia di Bari, cit, in G. Salvemini, Il ministro della malavita cit, p. 480), e la premessa per una politica di sviluppo economico e civile del Mezzogiorno fondata sull’opzione liberista
"Il problema meridionale - scriveva Oliviero Zuccarini - è veramente un problema agricolo, e per avere consensi effettivi e spontanei bisogna volere una politica di pace, di lavoro e di risparmio; ma una politica in questo senso non può essere che federalista: solo rompendo il cerchio dello Stato accentratore e fiscale è possibile svolgere una politica che efficacemente tuteli il risparmio, minato dal fiscalismo e rapinato dalla plutocrazia bancaria, e dia alla terra quegli investimenti capaci di permettere un più intenso lavoro" (O. Zuccarini, Il programma dei gruppi di 'Rivoluzione liberale', in "La Critica politica", IV, 25 luglio 1924, n. 7). Nel secondo dopoguerra, lasciata ormai alle spalle la polemica antiprotezionista, poco attuale nel momento in cui tutte le forze politiche antifasciste erano ampiamente convinte dell’impossibilità di avviare la ricostruzione di un paese stremato rinchiudendosi in un gretto nazionalismo economico, il tema dello smantellamento del latifondo si andò progressivamente distaccando dalla prospettiva autonomistica: i partiti di sinistra, che guidarono all’esordio degli anni Cinquanta un forte movimento di occupazione delle terre, assegnarono alla riforma agraria, insieme alle riforme dell’industria e del credito, la funzione di promuovere un mutamento strutturale a carattere nazionale dell’assetto produttivo del paese. Comunisti e socialisti ritenevano che, proprio in quanto “riforma di struttura”, la riforma agraria non potesse essere attuata se non in base a criteri uniformi, dettati dal Parlamento nazionale e per questo aspetto, ne giudicavano l’attuazione difficilmente compatibile con un assetto accentuatamente autonomistico, quale si era andato profilando nella prima fase della discussione all’Assemblea Costituente e temevano che ove le regioni non fossero rimaste confinate ad un compito meramente esecutivo della legislazione nazionale, avrebbero potuto costituire il veicolo istituzionale più idoneo ad esprimere le resistenze delle forze sociale più retrive e particolaristiche, la cui dissoluzione era invece ritenuta indispensabile ai fini della liquidazione del fascismo non solo come sistema di potere, ma anche come blocco sociale.
In secondo luogo, salvo per una prima fase dell'elaborazione teorica della Democrazia Cristiana, nel secondo dopoguerra si sarebbe allentata fino a dissolversi la connessione tra decentramento organico e rappresentanza degli interessi. Come si è visto, tale nesso era invece stato postulato in vario modo nell'ambito del dibattito sulle autonomie nel primo dopoguerra, e da più parti l’istituzione di consigli tecnico-economici era stata considerata la strada più diretta per assecondare l’inserimento delle forze sindacali nello Stato e favorirne l’integrazione, fornendo così una risposta a quanti, a partire da Santi Romano nella sua nota prolusione pisana del 1909
Cfr. S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, prolusione letta nell'Università di Pisa (1909-1910), poi in Scritti minori, v. I, p. 317 ss. , avevano colto nell'emergere di organizzazioni sociali indipendenti un potenziale rischio per l'unitarietà delle funzioni e delle prerogative fondamentali dello Stato, finché fossero rimaste in posizione antagonistica rispetto ad esso. L’idea di un inquadramento istituzionale dei ceti produttivi ispirato al superamento del principio della lotta di classe e alla creazione, anche coercitiva, di una solidarietà interclassista in nome delle superiori esigenze della produzione nazionale e in difesa di una presunta identità “proletaria” dell’Italia, divenne ben presto una componente importante dell’armamentario ideologico del nazionalismo, confluito nel ribollente calderone dell’interventismo e poi nel fascismo: questi temi, declinati in chiave corporativa, vennero agitati con successo per sostenere una critica radicale al parlamentarismo, coerente con il progetto di trasformazione autoritaria dello Stato, ed al tempo stesso rappresentarono una prospettiva in grado di mobilitare un ampio schieramento sociale e soprattutto di dare voce alle delusioni e alle frustrazioni degli ex combattenti, soprattutto di quelli provenienti dal ceto medio
Cfr. G. Santomassimo, La terza via fascista cit., p. 29, che, per le difficoltà di reinserimento nella vita civile, si sentivano spinti ai margini della società, estranei e spesso ostili alle rivendicazioni sindacali ed alle lotte condotte dai lavoratori, e traditi nelle loro aspettative di rinnovamento da una classe politica percepita, non senza ragione, come un’oligarchia conservatrice e indifferente ai sacrifici e alle aspirazioni di chi aveva trascorso anni in trincea. Nel periodo compreso tra la marcia su Roma e il consolidamento del regime, la scelta progressivamente messa a punto e sancita definitivamente con la legge sindacale del 1926, di statalizzare le organizzazioni dei lavoratori, facendone, sostanzialmente, organi dell'amministrazione, marcò fortemente la differenza con la posizione di quanti avevano invece ritenuto che l'inserimento della rappresentanza degli interessi nell'ordinamento avrebbe rafforzato e non demolito il pluralismo sociale e politico. Negli anni immediatamente precedenti all'insediamento del governo fascista, infatti, l'idea di dare vita a camere rappresentative degli organismi sindacali o professionali, a base locale o nazionale, era stata fatta propria, come si è detto, anche da organizzazioni politiche e sindacali, nonché da gruppi e singole personalità che si richiamavano all'interventismo democratico o al neutralismo, dal PPI, ai repubblicani, alla CGdL saldamente nelle mani dei socialisti riformisti e a personalità come Salvemini o Zuccarini. In quel contesto politico, la problematica della rappresentanza degli interessi era stata spesso affiancata a quella del rafforzamento delle autonomie locali, con varie motivazioni, riconducibili, sostanzialmente, ad un approccio partecipativo e funzionalista: da un lato, da parte di taluni, come Salvemini o il gruppo fondatore del PSd’A, si manifestava l'opinione, per molti versi non priva di ingenuità, che il decentramento territoriale ed istituzionale avrebbe potuto concorrere efficacemente a dare uno sbocco in positivo alla crescente conflittualità sociale, e a ridefinire i rapporti tra i soggetti della produzione, a vantaggio soprattutto delle classi lavoratrici; d'altra parte, si riteneva che tale decentramento avrebbe potuto contribuire a risolvere la crisi del sistema di governo parlamentare, attraverso una redistribuzione verso la periferia di funzioni, anche normative, che avrebbero contribuito a decongestionare l’amministrazione centrale, gravata dalle numerose competenze assunte durante la guerra, consentendole di concentrarsi sulle attribuzioni essenziali della sovranità e di svolgere, per il resto, un’opera di coordinamento di una rete articolate di autonomie. Con la fine della guerra, da più parti era stata invocata la rapida dismissione da parte della pubblica amministrazione delle numerose funzioni esercitate nella sfera della produzione e del consumo (lo si è visto esaminando le discussioni parlamentari e l’attività delle commissioni governative) così come era stata sostenuta l’improcrastinabilità di un ridimensionamento dell'elefantiasi degli apparati burocratici, non più giustificata da esigenze belliche e non più sostenibile per la finanza pubblica. Non c'è dubbio che l'ipotesi di decongestionamento del sistema attraverso il decentramento ed il trasferimento di funzioni normative ed amministrative a soggetti pubblici sub statali rispondesse ad una esigenza reale, ma al tempo stesso essa era ispirata ad una visione riduttiva della crisi delle istituzioni liberali, non circoscrivibile ad una mera questione di perdita di funzionalità e di efficienza. Di fatto, nel primo dopoguerra, le pur diffuse posizioni autonomiste e regionaliste non riuscirono ad incidere efficacemente sulle questioni politiche essenziali: la persistenza di posizioni conservatrici nelle classi dirigenti, la loro incapacità ad intraprendere un percorso di integrazione di masse storicamente escluse o comunque tenute ai margini della vita pubblica, e a guidare una riforma della politica e delle istituzioni in grado di incidere sui rapporti sociali e di recepire le forti istanze di cambiamento espresse nelle lotte del biennio 1919-20. Perfino le versioni più moderate delle proposte autonomiste, tendenti a conseguire una certa democratizzazione della vita pubblica locale attraverso un ampliamento delle attribuzioni degli enti territoriali esistenti ed, eventualmente, la creazione delle regioni, erano apparse un rischio eccessivo ad un ceto politico che, nel contempo, non era stato in grado di accennare ad un solo gesto che potesse fare intendere l'esistenza di una residua volontà di resistenza all'offensiva squadrista: anche per questa ragione, dopo la caduta del regime fascista, la creazione delle regioni in un contesto di più forti e garantite autonomie territoriali, sarebbe stata considerata da più parti un segno tra i più significativi della rottura con il passato e del carattere innovativo dell’ordinamento democratico e repubblicano. A parte i richiamati tentativi della Democrazia cristiana di riproporre, con l'istituzione delle regioni, lo schema del corporativismo cetuale di matrice cattolica, il tema della rappresentanza degli interessi risultò invece sostanzialmente compromesso dall'esito nettamente statalista e totalitario dato ad esso dall’ordinamento corporativo fascista, che, oltre a non risolvere nessuno dei problemi posti nel primo dopoguerra, aveva dato vita ad un'ulteriore bardatura burocratica e ad un inquadramento autoritario dei lavoratori, privati dei più elementari diritti. Confinata nel CNEL, la rappresentanza delle categorie professionali sarebbe rimasta un tema marginale nel dibattito all'Assemblea Costituente, e anche nel confronto sull'istituzione delle regioni, il relatore democratico cristiano Gaspare Ambrosini avrebbe rapidamente abbandonato la proposta di fare delle associazioni professionali e di categoria la base elettorale per la formazione degli organi rappresentativi.
Dopo un ventennio di governo totalitariamente centralizzato, in cui l’esecutivo aveva concentrato su di sé e sulla figura del dittatore tutti i poteri costituzionali dello Stato, le correnti politiche che già avevano paventato del primo dopoguerra le conseguenze negative dell’accumulazione di funzioni da parte dell’amministrazione e che avevano sperimentato la difficoltà di rendere reversibile tale situazione, videro nell'istituzione delle regioni e nel rafforzamento del sistema delle autonomie locali uno dei più validi ed efficaci contrappesi nei confronti dell'invadenza dello Stato e, in particolar modo, del potere esecutivo. Il problema non era più affrontato in chiave funzionale, nei termini di decongestionamento degli apparati e di redistribuzione dei poteri dal centro alla periferia: nel dibattito dell’Assemblea Costituente esso fu piuttosto sollevato ed affrontato nei termini, essenzialmente politici e di ingegneria costituzionale, delle garanzie indispensabili ad evitare nuove degenerazioni in senso autoritario degli apparati pubblici e a caratterizzare in senso effettivamente e stabilmente democratico il nuovo ordinamento.
(Pubblicato in: Mondo contemporaneo, n. 1. 2013)
PAGE \* MERGEFORMAT 32