Maria Lucia De Nicolò
Bagni di mare.
L’uso terapeutico e salutistico
(secc. XVIII-XX)
Mostra, 23 giugno - 30 settembre 2023
Copertina: E.Tito, Luglio in riva al mare, 1893.
Retro di copertina: S.Carr, Sulla spiaggia, 1881.
Ultima pagina: E.H. Potthast (1857-1927), Al mare.
Grafica: Giuseppina Dolci
Stampa: Tipolito La Pieve Poligrafica - Villa Verucchio (Rn)
ISBN: 9788899249502
Mostra antologica di trattati medici
con raccomandazioni e suggerimenti in merito ai bagni di mare e guide
che raccolgono regole comportamentali per i bagnanti con informazioni su terapia del mare, scelta della spiaggia, ospizi marini, regole per
il bagnante, stabilimenti balneari.
23 giugno - 30 settembre 2023
La medicina del mare
La pratica dei bagni di mare a scopo terapeutico si perde nella notte dei
tempi così come, in generale, la fiducia nel potere curativo dell’acqua.
Non sorprende che Verrio Flacco, il più grande erudito dell’età augustea,
nella sua opera De verborum significatu, che documenta un immenso
materiale di erudizione linguistica ripreso da svariate opere di antichi
scrittori, fosse propenso a spiegare l’etimologia della parola aqua riconoscendo in essa un dono divino concesso all’uomo per trarne benessere,
a qua iuvamur. Un etimo certamente azzardato ed improbabile che traduce però convinzioni collettive profondamente radicate. Al di là delle
congetture di Verrio, pervenuteci attraverso una epitome compilata da
Sesto Pompeo Festo (II sec. d.C.), anche la stessa parola bagno, dal greco
balanéion, pare legarsi ad un riconoscimento medicamentoso dell’acqua. Si fa infatti derivare dal verbo greco ballo (caccio) unito al sostantivo
ania (dolore), a significare una pratica utile a rinfrancare il fisico stanco e
provato attraverso l’immersione delle membra in un bagno ristoratore.
Per gli antichi il mare, così come i fiumi, laghi, sorgenti erano governati
da divinità che contribuivano ad infondere all’elemento liquido prodigiose virtù. Queste convinzioni, proprie di una mentalità magica e religiosa
alimentavano la pratica di una medicina istintiva intimamente suggestionata dai riti lustrali, che attribuivano alle acque effetti purificatori e conseguenti virtù risanatrici. L’utilizzo dell’acqua rispondeva ad una medicina naturale i cui sicuri benefici, universalmente riconosciuti, potevano
caricarsi poi in considerazione di particolari momenti astrologici. Basti
pensare alla ritualità magica del bagno risanatore e preventivo di tante
malattie nelle acque dei fiumi e del mare nel solstizio d’estate, celebrata
nelle più antiche civiltà e talmente viva nella tradizione popolare da indurre a più riprese la chiesa, fin dai primi secoli dell’era cristiana, ad un’azione culturale tesa ad imbrigliare l’usanza pagana dei bagni purificatori,
nella festa del battesimo spirituale di San Giovanni Battista. Già le civiltà
dell’Estremo e Medio Oriente, particolarmente quella cretese, avevano
attribuito al mare specifiche virtù terapeutiche, indicando anche il giovamento che si ritraeva, oltreché dall’uso dell’acqua marina sotto forma di
abluzioni, bagni e bevande, anche dal clima, dalle sabbie e dalle alghe.
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Anche nei racconti mitologici riaffiorano spunti di talassoterapia: Giunone, simbolo della fecondità torna vergine ad ogni immersione nel mare;
Venere, dea della bellezza, lega la sua nascita alla spuma delle onde; Melampo, famoso medico ed indovino di Argo, era riuscito a guarire con un
bagno freddo di acqua marina le figlie del re affette da una grave malattia
che pareva incurabile. Lo stesso Omero decanta a più riprese gli effetti
salutari delle acque salmastre. È nel mare che ricercano sollievo per le ferite Diomede ed Ulisse: “… tersero quindi entrambi alla marina l’abbondante sudor, gambe lavando e collo e fianchi. Riforbito il corpo e ricreato
il cor, si ripurgano nei nitidi lavacri” (Iliade, X, 572-574). L’acqua di mare,
ritenuta da molti scrittori di materia medica come la migliore fra tutte le
acque minerali, presso i Greci era impiegata anche come purgativo. Con
essa veniva preparato un vino chiamato da Dioscoride (I sec. d.C.) vinum
tethalassomenon e che Celso (II sec. d.C.), proprio per la sua origine denominava vinum groecum. Associata a miele, l’acqua di mare diventa il
thalassomeli, un rimedio che venne utilizzato fino al secolo XVIII. Ippocrate di Chio (IV-V sec. a.C.), considerato il padre della medicina, accenna
in varie occasioni all’azione tonica e rinfrescante del mare e ne richiama
le virtù curative negli aforismi, celebrandone l’efficacia specialmente per
la risoluzione delle malattie della pelle: “Aqua marina his qui pruritum
sentium et ab acribus humoribus morderentur, tum lotione, tum folu, calida prodest”. Euripide invece ne sperimenta personalmente l’efficacia riacquistando la salute dopo un viaggio per mare intrapreso in compagnia
di Platone e decanta i risultati della terapia in una frase che diventerà un
motto del riconoscimento del mare come panacea: “il mare lava tutti i
mali degli uomini” (thàlatta klùzei pànta anthropòn kakà). L’imperatore
Augusto, che si preoccupava molto della sua salute, notoriamente cagionevole, aveva trovato giovamento ai suoi disturbi costituzionali con abluzioni di acqua tiepida riscaldata al sole. Al mare, secondo quanto ci ha
tramandato Svetonio (Vite dei Cesari, II, 82), più che fare dei veri bagni,
Augusto era solito, specie per ritrovare serenità e curare il suo sistema
nervoso, riposare su un sedile di legno e tuffare nell’acqua ora le mani,
ora i piedi. Con l’uso di bagni freddi, sottoponendosi alle prescrizioni del
suo medico personale, Antonio Musa, era riuscito a guarirsi da una forma di epatite e, in altra occasione, da una fastidiosa sciatica. Gaio Plinio
Secondo (I sec. d.C.) scrive un inno all’acqua nel XXXI libro della Naturalis
historia, soffermandosi a decantare i pregi delle acque marine per la cura
di varie affezioni.
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Le acque marine riscaldate giovano a curare i dolori ai tendini, a cementare le ossa dopo una frattura, servono per le contusioni e per rendere secco il corpo e a questo scopo si usa anche acqua di mare fredda.
Si conoscono molti metodi di cura, ma il principale è quello dei viaggi in
mare per i tisici e per emottisi. Poco tempo fa – ricordo – lo utilizzò con
successo Anneo Gallone navigando alla volta dell’Egitto. L’Egitto non è
infatti di per sé lo scopo di un viaggio, ma ci si va in considerazione della
lunghezza del tragitto in nave, per curarsi sul mare. Per di più i vomiti
stessi causati dal beccheggio sono un rimedio per moltissime malattie
della testa, degli occhi e del petto e per tutte quelle per cui si beve l’elleboro (malattie nervose). È opinione dei medici che l’acqua di mare,
presa da sola, sia più efficace per eliminare i gonfiori e, facendovi cuocere dentro farina d’orzo, per le parotiti. Si mischia anche agli impiastri
e ai cataplasmi emollienti, come indica anche Galeno, ed è utile anche
in docce ripetute. Si beve pure, benché non senza danni per lo stomaco, per purgare il corpo ed evacuare l’atrabile o grumi di sangue per
l’una o per l’altra via. Alcuni l’hanno anche data da bere nelle quartane,
nei tenesmi e nelle artriti, avendola conservata per questo, poiché col
tempo essa perde il cattivo sapore, altri l’hanno data bollita. Tutti comunque la attingono al largo, incontaminata da mistura con sostanze
dolci. Anche nei clisteri si mette l’acqua di mare intiepidita. Per fare
impacchi caldi sui gonfiori dei testicoli è il rimedio perfetto, come pure
per il problema dei geloni, prima che si ulcerino, e ancora per il prurito,
la psora, un eczema pruriginoso, ed altri tipi di dermatosi. Con lavaggi
con acqua di mare si debellano i parassiti della testa ed è sempre l’acqua di mare a riportare i lividi al colore naturale. Si riconosce persino
che giova ai morsi velenosi, come quelli degli scorpioni e per le persone raggiunte dalla bava dell’aspide: in questi casi però si prende calda.
Nei dolori di testa se ne fanno fumigazioni mescolandola ad aceto. Si
calmano le coliche e le diarree violente con l’acqua di mare iniettata
per clistere. Le piscine d’acqua di mare migliorano le condizioni delle
mammelle in fase di sviluppo, dell’epigrastrio e la macilenza fisica; il
vapore dell’acqua marina bollente, con aceto cura la sordità e i dolori
di testa (Naturalis historia, XXXI, 33).
In questa pagina si riassumono i precetti dei grandi medici della classicità, da Aclepiade ad Areteo di Cappadocia, da Ateneo di Attaleia a
Dioscoride, a Galeno, a Celso, ad Aezio, a Sereno Samonico. Medico e
poeta, vissuto al tempo di Caracalla, quest’ultimo, che ci ha tramandato in versi le sue cognizioni sanitarie, fu il primo a riconoscere i benefici
del mare nel trattamento delle malattie articolari croniche:
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Prosunt et pelagi latices, quond pondere justo
Dulcibus associas Lymphis, nellique liquenti …
Si vero articulos tabes inimica per omnes
Haeserit ex ficu betas ac melle ligabis
Vel pelagi latices simul et Baccheia dona
Sumere curabis …
L’acqua di mare, considerata al pari delle acque minerali, giovava insomma sia in uso esterno, esternamente per bagni, docce e inalazioni,
sia in uso interno come bevanda a scopo purgativo, specialmente per
curare malattie biliari, dell’intestino e la febbre quartana. Per uso interno si raccomandava di attingere l’acqua del mare molto lontano dalla riva. Bagni e sciacquature con acqua marina erano poi prescritti nei
dolori reumatici, nei postumi di ferite e di fratture, nei tumori ai testicoli, nelle malattie della pelle e come disinfettante nelle morsicature di
piccoli animali. Plinio, così come Dioscoride, Galeno e Celso, dimostra
di conoscere anche le qualità terapeutiche di alghe e sabbia. Consiglia
infatti, per curare idropisia, gotta ed altre affezioni reumatiche, impacchi caldi fatti con alghe marine e arena raccolta sul lido del mare e di
ricoprire le parti doloranti di sabbia finissima dopo averla fatta ben
scaldare al sole. La grande considerazione che la medicina romana
ebbe per la balneoterapia comprendeva anche quella marina, che Celio Aureliano e Galeno ritenevano particolarmente efficace oltreché
per combattere le forme asmatiche e le malattie dei bronchi in genere,
ma anche come metodo per mantenere la salute. Marco Minucio Felice (II-III sec. d.C.) narra che Ottavio praticava la cura dei bagni di mare
a Ostia, la spiaggia frequentata dai patrizi romani (Octavius, 2, 3), mentre Properzio e Seneca (I sec. a.C.) fanno cenno alla consuetudine dei
giovani e delle fanciulle romane di alternare i bagni marini con liete
passeggiate in piccole barche e con bagni di sole (Properzio, I, 11; Seneca, Epist. 51). L’uso dei bagni dunque non era raccomandato solo ai
malati, tutt’altro. Era per gli antichi un mezzo per assicurare uno stato
di benessere, per migliorare il proprio stato di salute e rinfrancare lo
spirito. Gli antichi distinguevano la salus dalla valetudo. Quest’ultima
esprimeva lo stato fisico ideale con il sentirsi bene in forza e si manife-7-
stava esteriormente anche nella vivacità del colorito, con la tonicità dei
muscoli e l’elasticità della pelle. La vita, ribadiva Marziale, non consiste
nel vivere, ma nello star bene (non est vivere, sed valere vita est) ed il
bagno contribuiva a dare questa sensazione di stare in salute (valere).
Nell’antichità classica erano stati ben individuati anche gli apporti salutari del clima marino. Le regioni costiere godevano infatti la fama di
luoghi saluberrimi proprio in virtù dell’aria marina. “Le esalazioni marittime – afferma Celio Aureliano (V. sec. d.C.) – con gradazione impercettibile aprono i pori, tonificano con la salsedine l’epidermide e trasformano beneficamente le condizioni normali dell’organismo”. E
ancora: “Mare facit aerem tenuitate et puritate commodum” scrive
Plutarco (I sec. d.C.), in sintonia con l’aforisma ippocratico (maritimus
locus ad sanitatem saluberrimus). Concetti che del resto erano stati
ben espressi già da Aristotele (IV sec. a.C.) quando, nel trattato De
aere, locis et aquis, a proposito del mare aveva a dire che “in virtù delle sue sottili esalazioni influisce notevolmente sulla salubrità dell’ambiente, come è provato dal fatto che chi vive sul mare ha generalmente
un colorito più sano”. Dello stesso avviso risulta anche Ateneo di Cappadocia (III sec. a.C.) che, descrivendo il trattamento igienico climatico
della tubercolosi, preconizzava per curarla il soggiorno al mare, specialmente nella stagione primaverile. È sempre Aristotele poi, valutando i vantaggi e le controindicazioni del bagno freddo, a fissarne le regole generali per un uso appropriato, indicando come bisogna entrare in
acqua, come uscirne, dando il tempo massimo di permanenza e il numero delle bagnature da farsi giornalmente. Sono queste teorie che,
alimentando fin dall’antichità osservazioni sui benefici del mare anche
nella cura degli stati di deperimento fisico e della scrofola, daranno
materia, a partire dalla fine del secolo XVII, anche per una serie di fortuite combinazioni di carattere sociale ed economico, ad una riscoperta della medicina naturistica ed alla conseguente riaffermazione della
talassoterapia e della villeggiatura marina. Il connubio mare e sole si
riconosce come medicina miracolosa. In relazione ai quattro elementi
naturali, terra, acqua, fuoco, aria, gli antichi distinguevano quattro stati del corpo umano: caldo, freddo, umido, secco. La salute dipendeva
dall’equilibrio di questi quattro elementi. Considerare ciascun uomo
come un microcosmo, cioè quale sistema di forze in equilibrio, induceva il medico antico a studiare più il malato che la malattia. Per curare
un’infermità si teneva d’occhio tutto l’organismo, nel quale occorreva
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ristabilire l’equilibrio compromesso, vuoi per problemi riconducibili
all’età anagrafica, vuoi a cause morbose. Nei precetti igienici che i medici davano per mantenere questo equilibrio nell’organismo umano,
l’acqua assunta come bevanda e al contempo utilizzata con la pratica
dei bagni ricopriva una grande importanza. Il bagno era generalmente
prescritto proprio per rinforzare l’organismo e per curare varie malattie
debilitanti che si raggruppavano sotto il nome di tabe, vocabolo latino
che non a caso, nel 1750, verrà scelto come titolo del suo trattato sulla
balneazione marina (De tabe glandulari sive de usu aquae marinae) da
Richard Russel, il medico inglese indicato da Jules Michelet come “l’inventore del mare”. A Russel si deve la riproposizione di questa specifica
medicina naturistica non solo sulla base di un dibattitto accademico e
teorico, ma sotto un profilo prettamente pratico, con la riscoperta delle spiagge e la moda della villeggiatura marina. Durante il medioevo
nelle sfere della medicina ufficiale, imbrigliate in un dogmatismo che
frenava la speculazione scientifica, la balneoterapia, come ogni altra
pratica volta alla cura fisica, era stata relegata agli usi di una medicina
empirica propria della cultura popolare. Il messaggio cristiano infatti,
che predicava la santificazione dello spirito attraverso la mortificazione
della carne, aveva decretato il tramonto di quell’ideale di bellezza e di
prestanza fisica propri dell’antichità classica. Le sorgenti e le acque con
proprietà curative continuarono comunque ad essere utilizzate al di
fuori dei precetti dei medici autorizzati ed anche, contravvenendo ai
divieti di ordine religioso, in quei sostrati culturali in cui la sopravvivenza di credenze pagane non era stata mai del tutto cancellata dalla nuova dottrina. L’incontro tra la scienza medica greca e quella araba aveva
contribuito a ridestare l’interesse per le acque ed invogliato gli studiosi
a cercare la loro origine e a conoscerne le proprietà curative. A partire
dal XIII secolo si riprende a scrivere sui bagni e si rilancia l’idroterapia.
L’interpretazione dell’efficacia terapeutica delle acque rimane sostanzialmente legata alle teorie dei medici della classicità e l’attenzione
maggiore è rivolta al termalismo. Le opere che trattano dei bagni si
dimostrano infatti più che dissertazione di carattere medico, vere guide per il viaggiatore indirizzato a raggiungere i luoghi di cura e le sorgenti termali che vengono descritti e segnalati in base alle specifiche e
collaudate virtù curative. Da questo tipo di trattatistica parrebbe ignorata l’acqua marina, verosimilmente omessa per il facile reperimento
della medesima, dal momento che in realtà il mare rimane sempre
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considerato per la validità delle proprietà terapeutiche, peraltro corroborate dalla assodata esperienza della medicina popolare. La conferma del resto si ha nello stesso proemio del De Balneis Puteolanis et
Regulae Sanitatis, il famoso codice attribuito a Pietro da Eboli, probabile medico della scuola salernitana vissuto tra 1150 e 1221 che, prima
di entrare nel vivo della descrizione dei bagni di Pozzuoli, soffermandosi a decantare la medicina della natura, rimarca che “solo l’acque sanano, per sua virtù lavando: ad alma e corpo la summa vertude, per acqua ne conduce omne salute”. L’acqua è presentata come una panacea
alla quale tutti possono ricorrere per liberarsi dalle proprie afflizioni e
si rivela un rimedio sicuro anche per chi non può permettersi le spese
di una medicina: “adunque chi è povero in dinari, venga a sti bagni che
non sono avari”. Le acque salmastre vengono prescritte nelle congestioni di petto, nella cura dell’idropisia, per risolvere problemi pituitari
e le affezioni dell’apparato genitale. La risaputa efficacia dell’acqua marina nel rimuovere gli impedimenti della procreazione riecheggia del
resto nello stesso mito di Venere, dea dell’amore e della fecondità,
nata dalle onde e dalla simbolica testimonianze della potenza guaritrice e rigenerante del mare. In questi secoli notizie sulla frequentazione
del mare a scopo terapeutico vengono restituite anche dalle fonti letterarie. Il Boccaccio, per esempio, descrive le vacanze marine di madonna Fiammetta che, tormentata dal mal d’amore, cerca rimedio in
un salutare soggiorno sui lidi napoletani, meta di una gioventù che,
specie per l’effetto afrodisiaco prodotto dai bagni di mare, ritrova benessere del corpo e gioia di vivere. A parte queste convinzioni popolari
l’idroterapia si fondava comunque ancora sui concetti della teoria
umorale, secondo cui l’uso dell’acqua, interno ed esterno, aveva la funzione di facilitare l’espulsione degli umori e degli elementi nocivi presenti nell’organismo. E non mancano anche in quest’epoca le prime
codificazioni dettate prevalentemente dal buon senso e dall’esperienza e che, peraltro, come vedremo, si ripeteranno pressoché identiche
nei regolamenti dei bagni di mare dei medici del secolo XIX. Oltre
all’acqua di mare era ritenuta valida anche la navigazione, raccomandata come medicina fisica per curare gravi patologie, in quanto “il mare
è indicatissimo per l’eliminazione e il disseccamento degli umori putridi e nocivi, sia che ciò avvenga mediante il vomito (che il mare provoca
frequentissimamente specie in chi non è avvezzo a navigare), sia mediante l’influenza dei venti e delle esalazioni secche”. Queste ultime
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affermazioni, riprese da Antillo, Aezio e Avicenna vengono riproposte
da Girolamo Mercuriale, autore del De arte gymnastica (Venezia 1569)
nei capitoli dedicati alla navigazione e al nuoto, in cui inserisce anche
motivate raccomandazioni in merito all’opportunità, specie per i giovani, dell’esercizio natatorio, ribadendo che “la ginnastica medica ne
estese e approvò l’uso per la conservazione della buona salute e per la
cura di certe malattie”. Secondo il Mercuriale i bagni di mare, sulla
scorta della lezione del medico arabo Avicenna, erano consigliati per
guarire da disturbi nervosi, malattie di petto, ipocondria e malinconia,
mentre la navigazione poteva ritenersi valida per curare lebbra, idropisia, apoplessia, raffreddamenti e gonfiori dello stomaco. Fra quanti fra
Tre e Quattrocento si interessarono dei bagni va ricordato Michele Savonarola (1385-1468), autore del De balneis et thermis naturalibus
omnibus Italiae sique totius orbis proprietatibus eorum, che riserva
un’apposita trattazione anche al bagno di mare (De balneo aquae maris). Ne ribadisce l’utilità l’impiego nelle disfunzioni dell’apparato genitale femminile, nella cura delle malattie della pelle e delle articolazioni,
non tralasciando di ricordare il sollievo che nel bagno di mare ritrovano
i malati di gotta. Anche solamente da quanto sin qui riportato risultano
assai pertinenti le considerazioni espresse da Piero Camporesi, sulla
scorta di un’ampia documentazione letteraria, riguardo alla frequentazione continua delle rive del mare per fini salutistici e ludici nel tempo
lungo della storia, tese a ribaltare quanto attesta Alain Corbin, che insiste invece su un ‘disgusto del mare e delle rive’ andato a modificarsi
solo a partire dalla fine del Settecento con la riscoperta/invenzione del
mare e la colonizzazione delle spiagge a scopo balneare. Scrive Camporesi: “Non si capisce dove Alain Corbin attinga i materiali per ricostruire
il senso di una ‘episteme’ classica in cui, a suo avviso, regnerebbero
sovrani ‘la crainte de la mar et la répugnance pour le sejour de ses rivages’, nella quale confluirebbero la tradizione giudeo-cristiana, la filosofia ellenistica e la letteratura latina. Orazio, Plinio, Marziale (che preferiva il litorale di Formia non solo alle colline del Lazio ma perfino a
Baia) non sembra provassero ripugnanza per la spiaggia infida, per la
‘linea indecisa’ dove la terra inizia ad essere inghiottita dal mare. Ma
anche lontano da questi classici luoghi di delizie marittime, altre coste,
altre spiagge sembravano a navigatori e viaggiatori fortunati recessi
nei cui solari giardini non strisciava l’ombra nera della malinconia, plaghe amabili alla vista, angoli confortevoli agli altri sensi”. La riscoperta
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dell’acqua e della sabbia avrebbe cancellato solo verso la fine del Settecento le immagini repulsive del mare e delle coste, la “pestilence de
la plage énigmatique, ligne indècise, soumise à toutes les incursiones,
où viennent se dèposer les excréments de l’abime” (A. Corbin, L’invenzione del mare, Venezia 1990). Alla nuova armonia instauratasi fra il
corpo e il mare, fra l’uomo e il paesaggio marino Corbin vorrebbe ricondurre infatti un complesso sistema di rivalutazione e di rappresentazione e insieme una mappa di nuove certezze e d’intese affettive
sbriciolando tabù culturali di lunga durata insieme ai “systèmes populaires d’appreciacion de la nature”. Il passaggio dalla minaccia all’idillio,
il mutamento fra il vecchio e il nuovo modo di vedere e di percepire la
costa e l’acqua salata sarebbe stato preparato insomma dall’affermarsi
fra il 1690 e il 1730 della “théologie naturelle” francese e dalla “physico-thèologie”. In verità, così come nelle fonti letterarie della classicità,
anche successivamente “grotte marine, spiagge, scogli offrono i recessi
o gli spazi più adatti ad eccitare la focosa Venere” che di acqua, di caldo, di umido, di carnose “nascoste delizie” necessita (P. Camporesi, Le
belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano 1992). “Il litorale
- precisa ancora Camporesi - viene annesso ai giochi d’amore, sensualmente goduto, sentito come luogo di abbandono e di mollezze erotiche, umido paradisus voluptatis riservato a più libere e naturali forme
di vita”. Si può portare ad esempio quanto Giovanni Boccaccio descrive
nell’Elegia di Madonna Fiammetta (1343), dove può avvertirsi addirittura “un presentimento della balneazione di massa, un larvato accenno all’annessione contemporanea della spiaggia, con tutto il kitsch balnear-turistico più grossolano dell’edonismo postmoderno”. “Un
edonismo - continua Camporesi - per la verità grigio, ansimante e
straccione rinfrescato da acque gassate e bibite industriali, mentre la
jeunesse dorée del Trecento non gradiva “vivande se non dilicate, e vini
per antichità nobilissimi, possenti non che ad eccitare la dormiente
Venere, ma a risuscitare la morta. I giovani delle allegre brigate napoletane conoscevano quella che una volta si chiamava la gioia di vivere.
Il litorale, anziché immagini repulsive e crisi digestive, favoriva l’insorgere di solidi appetiti […] Ospitalità, cortesia, convivialità: forme di vita
sepolte dai tetri rituali della balneazione contemporanea sia nella versione popolare sia in quella (ancora più scostante) protetta ed ‘esclusiva’ dei ricchi. La volgarità dell’abbronzatura veniva riservata ai servi e
alla gente di fatica. La ricerca dell’ombra e il biancore della pelle erano
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inscindibili dalle delizie dei pic-nic marini”. Passando alla cultura medica cinquecentesca si incontrano altre interessanti memorie e testimonianze sugli effetti positivi del mare. Come gli antichi avevano chiamato l’Oceano “padre e principio di tutte le cose”, così filosofi, naturalisti
e medici del XVI secolo continuavano a credere nei suoi benefici influssi, osservando fra l’altro che gli abitanti delle coste vivevano più a lungo
e riproponendo le antiche riflessioni di Aristotele e di Plinio sopra i salutari effetti del mare e della sua aria sulla vita di tutti gli organismi,
umani, animali, vegetali. Anche i trattatisti d’architettura del Quattro e
del Cinquecento, proseguendo il dibattito che nell’antichità aveva conosciuto gli autorevoli interventi di Platone, Aristotele, Vitruvio, non
sconsigliavano affatto l’edificazione di città sulla riva del mare. Leon
Battista Alberti (1404-1472) per esempio, afferma che niente era preferibile a una città costruita sul litorale, perché “una posizione che dalla spiaggia è in vista del mare, è quanto mai piacevole, oltreché di solito allietata da salubrità di clima” (De re aedificatoria, 1482). Spicca poi
la figura di Andrea Bacci (1524-1600), marchigiano nativo di Sant’Elpidio e archiatra di papa Sisto V, da ritenersi la massima autorità italiana
del Cinquecento nel campo degli studi idrologici e conoscitore perfetto
del paesaggio viticolo peninsulare. Bacci concordava con le spiegazioni
di Aristotele intorno alla longevità dei marinai e delle popolazioni rivierasche, celebrando il mare “fecondissimo e saluberrimo, incubatoio di
meraviglie, purissima l’aria esalante dalle sue acque, temperate le sue
brezze”. Di qui la spiegazione della maggiore fertilità dei territori litoranei, dove “campi e vigneti producevano sceltissimi e doviziosi raccolti”.
Dunque il mare restituiva “uno spettacolo seducente e ammirevole sia
per l’occhio sia sotto il profilo della salute e della raccolta dei frutti
della terra”. L’aria che spira dal mare, a detta del Bacci era da ritenersi
“vivificante e purissima” oltreché “apportatrice generosissima di fecondità per ogni prodotto della natura”, benefica per gli orti, i giardini,
i campi d’Italia, belli a vedersi, fertilissimi come e forse più degli orti di
Alcinoo e dei Feaci celebrati da Omero” (De naturali vinorum historia,
1595, libro V). Agli elogi del mare suggeriti dal Bacci si aggiungono
quelli di altri medici sull’aria marina. Andrea Marini (1523-1570) nel
Discorso sopra l’aere di Venetia ne esalta l’apporto salutare e Leonardi
Fioravanti (1517- 1584) la considera adattissima a guarire le ferite. Anche a giudizio di Torquato Tasso, il “mondo immondo”, la “gravissima e
vasta e rozza terra”, solo nelle acque marine, nell’ “umido nutrimento”
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trovava ogni principio di vita: “In prima ‘l mare e l’ampia terra intorno/
É d’ogni umor di lei perpetuo fonte” (T. Tasso, Le sette giornate del
mondo creato, Milano 1608). Nel Rinascimento il desiderio di scoprire
i segreti legami che intercorrono tra l’uomo e l’universo avvia una rinnovata sperimentazione delle medicine naturali e degli apporti benefici dell’aria e dei bagni di mare. Si individuano similitudini tra l’uomo e
il cosmo, si ipotizzano influssi planetari e zodiacali sulle diverse parti
anatomiche e si analizzano particolari connessioni sull’uso dell’acqua
di mare. Le prescrizioni mediche risultano di conseguenza fortemente
influenzate dall’osservazione degli astri ed anche per i bagni si codificano le congiunzioni più favorevoli seguendo le fasi e le posizioni della
Luna e delle costellazioni. Giovanni Angelo (1453-1512), nel suo Astrolabium planum, stampato nel 1488, detta tutte le regole astrologiche
per un corretto uso dei bagni, segnalando quali siano le condizioni cosmiche ottimali per immergersi in acqua e per contro quando si debba
assolutamente evitare di bagnarsi. Si raccomandava di rinunciare alle
bagnature negli anni bisestili, dominati da Saturno, pianeta freddo e
ritenuto estremamente negativo per la salute; durante la permanenza
nel cielo della costellazione dell’Ariete, che, in rapporto all’anatomia
umana si riteneva collegato alla testa, risultavano giovevoli alla salute
le docce; sotto il segno del Cancro aumentava la potenzialità curativa
dell’acqua nella risoluzione delle malattie polmonari, dal momento che
questa costellazione dello zodiaco era messa in relazione con il torace;
l’influsso di Venere invece risultava efficace nella cura delle malattie
dell’apparato genitale. L’opinione riguardo ai rapporti fra astrologia e
medicina e più in particolare circa l’influenza della disposizione delle
stelle sull’effetto delle cure era comunque controversa. Gabriele Falloppio (1523-1562) era del parere che una tale superstizione non meritasse neanche una seria confutazione, mentre Michele Savonarola e
Andrea Bacci credevano a queste correlazioni. Giulio Iasolino (15381622) che si dedicò a studiare l’applicazione terapeutica dei bagni e dei
fanghi dell’isola di Ischia, condivideva a questo proposito le convinzioni
del Bacci che, come si è già accennato, era universalmente riconosciuto anche ai suoi tempi come una vera autorità in fatto di idrologia.
Andrea Bacci, ben noto anche come esperto conoscitore del paesaggio
viti-vinicolo italiano, viene infatti considerato il fondatore della balneologia nel senso moderno del termine, dal momento che fece dell’idrologia il fulcro della propria attività scientifica e letteraria. Nella podero- 14 -
sa opera De thermis libri septem … in quo agitur de universa aquarum
natura … de balneis totius orbis et methodo medendi per balneis …,
data alle stampe nel 1571, Bacci prende infatti in esame le acque medicamentose di tutto l’occidente, fornendo precise indicazioni sul metodo di curarsi con i bagni senza dimenticare regole cautelative sull’uso
delle bagnature, come quella di rimanere rigorosamente digiuni primi
di bagnarsi, di entrare in acqua preferibilmente la mattina dopo il sorgere del sole o la sera circa tre ore prima del tramonto, di non entrare
in acqua con il corpo riscaldato, precauzione, quest’ultima, già citata
da Plutarco (ne quis dum calet, frigida lavetur). Iasolino, sulla scia della
lezione del Bacci ribadiva di “osservare diligentemente le congiontioni
ed oppositioni della Luna, e guardarsi di quelle, e massimamente se la
Luna si incontrarà e sarà opposita con lo Scorpione, tra i segni, o veramente con Saturno, tra i pianeti, ne’quali si suol fare una mescolanza o
perturbatione delle acque, degna senza dubbio di essere osservata e
predicata”. Iasolino concorda con Savonarola e con Bacci anche in merito all’effetto nocivo degli anni bisestili sulle cure termali, pur ammettendo in certi casi, in virtù del clima e del fatto che si è circondati dal
mare, che le cure balneari non possono avere conseguenze pericolose
per la salute, come nel caso di Ischia. La scuola araba, per bocca di
Avicenna, aveva battuto molto sulla grande importanza dell’azione medicamentosa di certi climi, indicando fra i migliori per la salute quello
di Creta, perché, oltre ad essere ricca di cipressi e di piante resinose,
era appunto immersa nel mare. In generale comunque bagni nei fiumi,
nei laghi e nel mare erano da praticarsi soprattutto nel tempo della
costellazione del Cancro, specie nel periodo del solstizio d’estate,
quando, grazie alla congiunzione di Sole e Luna, si riteneva che anche
le acque potenziassero le proprie virtù terapeutiche. I bagni della notte
di San Giovanni (23-24 giugno) rispecchiavano appunto queste credenze, peraltro tramandate da una ritualità pagana ben radicata nella
mentalità popolare e che la Chiesa non era riuscita a debellare neanche con mezzi coercitivi. Del resto in riflesso alle credenze religiose,
originate al fine di soppiantare antichi culti, alcune acque erano ritenute particolarmente efficaci in coincidenza con determinate festività e
usate nonostante i divieti per queste pratiche emanati delle autorità
ecclesiastiche. Basti ricordare la frequentazione popolare delle rive del
mare nella ricorrenza della Pasqua, dell’Ascensione, della festa di San
Lorenzo. Al superamento delle concezioni classiche dell’azione dell’ac- 15 -
qua sul corpo e delle credenze magico-superstiziose, contribuirono
senza dubbio anche le nuove teorie che si fecero strada nel Cinquecento a cominciare da quelle di Teofrasto Bombasto da Hohenheim, meglio conosciuto con il nome di Paracelso (1493-1541), secondo il quale
l’elemento acqueo presente sul globo trovava analogie con quello racchiuso all’interno dell’organismo umano e conseguentemente il contatto con l’acqua permetteva di colmare deficienze che potevano risultare dal confronto del microcosmo con il macrocosmo. La prima
importante pubblicazione di carattere esclusivamente idrologico compare nel 1553. Sotto il titolo De Balneis omnia quae extant apud graecos,
latinos, arabas tam medicos quam quoscumque ceterarum artium … risultano raggruppati sistematicamente gli scritti di ben 70 autori e vengono proposti in un’unica sede tutti gli studi sui bagni effettuati dall’antichità sino a quel momento. Grazie allo studio dei testi classici, l’uomo
del Rinascimento costruisce un nuovo rapporto con il proprio corpo,
visto non più come immondo contenitore dell’anima, ma come mezzo
per contrastare la morte perseguendo nobili scopi e come strumento
per godere ineffabili sensazioni fisiche. Si riscopre il corpo e con esso il
piacere ed il benessere fisico. Nel Seicento le cognizioni di carattere
empirico assorbite dai testi antichi e le lezioni di medicina naturale degli archiatri del Cinquecento, corroborate dall’osservazione scientifica
e dallo studio statistico dei casi morbosi trattati con successo con l’uso
di acqua di mare, trovano finalmente una sistematizzazione che porterà al riconoscimento ufficiale della talassoterapia da parte delle autorità sanitarie. La diffusione della cura marina si deve principalmente
ad una “riforma morale” nel campo dell’arte medica. Il rinnovamento
proponeva infatti l’abbandono dei farmaci ed un sostanziale ritorno
alla natura che si sintetizza in un’affermazione di Fredrich Hoffmann
(1660-1742), medico personale di Federico I di Prussia: “Fuggite i medici, siate sobri e bevete acqua”. Era soprattutto l’acqua la panacea da
recuperare, quell’acqua che, come sottolinea Jules Michelet (17981874) nel quarto libro dell’opera La mer, intitolato La rinascita attraverso il mare, “ben si presta ai processi dell’universale metamorfosi:
avvolge, penetra, muta e trasforma la natura”, e ancor più l’acqua congiunta all’aria del mare, quel “soffio che basta da solo a purificare”.
Un’aria in continuo movimento, quella marina, che “il mare fa disfa e
rifa … battuta e ribattuta dal vento, portata dai turbini, concentrata per
esplodere nelle trombe elettriche … in costante rivoluzione”. “Il mare
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– scrive ancora Michelet – possiede ciò che a te manca, la sovrabbondanza, l’eccesso di forza. Il suo soffio esprime un non so che di gaio, di
attivo, di creatore: quel che potremmo definire un eroismo fisico. Con
tutta la sua violenza, il grande generatore riversa nondimeno l’aspra
gioia, l’alacrità viva e feconda, la fiamma del selvaggio amore di cui
esso stesso palpita”. La prova della grande forza vitale profusa dal mare
agli uomini viene presentata per la prima volta concretamente da Richard Russel (1687-1759) in uno studio sull’impiego dell’acqua marina
nella cura della scrofola. Questa malattia era nota già nell’antichità ed
è ben descritta nel De re medica di Celso, che spiega le scrofole con la
manifestazione di vescicole, lividi e gonfiori, come “tumori sottocutanei formati di un miscuglio di marcia e di sangue, che si localizzano di
preferenza alle ghiandole del collo, ascelle, inguini e alle costole, dando febbre e recidive, suppurando difficoltosamente e traendo beneficio dall’elleboro bianco, dai cataplasmi suppurativi e risolventi, dai caustici ecc.”. “La scrofola – precisa Alessandro Simili in un suo testo sugli
ospizi marini – falcidiava nell’Ottocento i bimbi poveri e malnutriti, le
sue manifestazioni più comuni erano: ghiandole iperplastiche, indurite, suppuranti, etc., dermatiti, osteiti, periostiti, ulcere scrofolose, piaghe, tumor bianco, cheratiti, peritoniti lente, spina ventosa; l’eziologia
tubercolare (riconosciuta più tardi) completava il quadro, aggiungendo
spesso quel tanto che mancava a produrre la morte. In tali condizioni e
soprattutto in mancanza di mezzi terapeutici adeguati, fu gran ventura
che si riconoscesse essere il soggiorno marino, come stato eliobalneare, provvidenziale per la scrofola e per il rachitismo”. Per curare queste
patologie diversi esponenti dell’arte medica, fra Sei e Settecento si erano rivolti alla sperimentazione terapeutica dei bagni freddi e su questo
argomento alcuni avevano fatto riferimento anche al mare, ma sempre
con riflessioni generiche. Che il bagno di mare non fosse solo da reputarsi un bagno freddo, ma un bagno curativo lo avevano specificato in
molti, ma si trattava sempre di cognizioni recuperate dalla lezione degli
antichi. Alla metà del Cinquecento Ambroise Paré (1510-1590), un’eclettica personalità del campo medico, aveva già ben sintetizzato le
proprietà dell’acqua marina, preconizzando in poche righe tutte quelle
potenzialità che due secoli più tardi Richard Russel avrebbe messo in
pratica applicandola alla cura dei bambini scrofolosi. “Le acque marine
e nitrose - scriveva Paré - manifestano la loro efficacia: esse scaldano,
asciugano, sono astringenti, detergono, risolvono, spossano, resistono
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alla putrefazione, tolgono le ecchimosi. Esse sono giovevoli alle dermatiti ulcerose e alle ulcere maligne e a tutti i tumori induriti: tutto ciò dà
l’acqua di mare”. Alla fine del Seicento aveva pubblicato i positivi risultati della cura dei bagni di mare nella risoluzione di gravi forme di dermatiti anche Giuseppe Lanzoni (1663-1730), ma, per quanto importante, la sua era rimasta un’esperienza isolata. Nel 1697 infatti era riuscito
a guarire da una severa forma virulenta di èrpete un giovane di Ferrara
che, accettando di sottoporsi ad una serie di bagni nel mare Adriatico,
con tre o quattro immersioni giornaliere, era riuscito a liberarsi completamente di tutte le croste, vescicole e macchie diffuse che gli coprivano il volto e il corpo (Opera omnia, t. II, Obs. CXLVII). Poco più tardi,
Il merito di Richard Russel fu quello di mettere a frutto tutte le cognizioni di studio raccolte e di fare del mare l’ingrediente unico per ottenere guarigioni su larga scala e debellare con una medicina naturale
quello che era ritenuto un male sociale. Russel, notando l’ottimo stato
di salute delle popolazioni costiere inglesi in Cornovaglia e la pressoché totale assenza di manifestazioni patologiche assimilabili alla scrofola, considerata ai suoi tempi una plaga diffusa, specie nelle città, che
colpiva soprattutto i bambini dei ceti indigenti, fisicamente deperiti
che vivevano in condizioni di grave degrado igienico, ne aveva attribuito la ragione al tenor di vita, alle abitudini alimentari e soprattutto al
clima marino. Rientrava nelle consuetudini di un’esperienza secolare
della gente rivierasca l’utilizzo dell’acqua di mare per uso esterno ed
interno, sia come purgativo che come vermifugo nell’età infantile. Russel aveva peraltro rilevato nell’alimentazione dei marittimi il consumo
abituale di alghe e di una particolare specie di polpo (Halcyonia), caratterizzato da una forte presenza di iodio, a cui ragionevolmente poteva
ricondursi la tonicità del tessuto muscolare, l’elasticità della pelle ed il
bel colorito. Queste osservazioni portarono il medico inglese a formulare un metodo terapeutico improntato su queste regole di vita ed indirizzato in special modo alla cura della scrofolosi, una tubercolosi delle linfoglandole superficiali che, come s’è detto, si manifestava nei
bambini rachitici con eczemi, dermatosi, piaghe, osteiti ecc., che portava alla morte. L’intenzione era quella di proporre una cura sperimentale, “un miracolo possibile”, a detta di Michelet: “costruire delle carni,
creare dei tessuti” con l’aiuto della natura, o più precisamente, del
mare. Le prescrizioni erano molto semplici: “1. Bisogna bere l’acqua di
mare, bagnarvisi e mangiare ogni frutto del mare in cui sono concen- 18 -
trate le sue virtù; 2. Occorre vestire pochissimo il bambino, tenendolo
sempre a contatto dell’aria. Aria e acqua, niente di più”. I positivi risultati raggiunti attraverso questa semplicissima medicina decretarono
nel volgere di pochi anni l’organizzazione su vasta scala di una nuova
scienza terapeutica scoperta nel mare. L’enorme eco prodotta dal metodo adottato da Russel anche al di fuori dell’ambiente propriamente
medico è probabilmente da imputare anche alla diffusione del libro in
cui Russel spiegava la sua esperienza. Scritto in lingua latina ed uscito
nella prima edizione nel 1750 per i tipi di Jacobus Flecther e J.&J. Rivington , il trattato De tabe glandulari sive de usu aquae marinae in morbis glandularum era stato immediatamente tradotto in lingua inglese
(A dissertation concerning the use of sea water in diseases of the
glands) e ristampato ad Oxford nello stesso anno, pone le basi alla pratica, in Inghilterra, della villeggiatura marina, dei bagni di mare, influenzando anche il riconoscimento di Russel quale “inventore del
mare”. L’acqua marina, grazie alla sua salinità e agli altri componenti
naturali, secondo il medico inglese contribuiva a rallentare la progressione della putrefazione di un corpo, potendo sciogliere i “tumori induriti” e “pulire e difendere l’intero sistema ghiandolare dalle viscosità
impure”, grazie alla proprietà, se usata fredda, di “tonificare tutte le
parti e conferire forza e vigore al corpo tutt’intero”. Oltre alla descrizione dei casi seguiti personalmente (ne vengono spiegati 39), Russel aveva inserito a conclusione del suo testo, pubblicandole integralmente, le
relazioni di guarigioni ottenute grazie all’uso di acqua di mare inviategli
tra il 1748 e il 1749 da suoi colleghi: William Lewis (1708-1781), Eduard
Wilmont (1693-1786) e Richard Frewin (1681-1761). Specie con il
Frewin aveva continuato anche in seguito a coltivare un interscambio
di esperienze che si era tradotto in un ulteriore arricchimento dell’opera prima e che prese corpo in una nuova pubblicazione apparsa nel
1755 con il titolo Oeconomia naturae in morbis acutis chronici glandularum in cui figura, in appendice, la Dissertatio epistolaris ad virum
doctissimum R. Frewin. Le opere di Russel, oggetto di numerose ristampe, furono di ispirazione a vari medici e cultori della medicina naturistica e sulla sua scia in ogni parte d’Europa fiorirono innumerevoli
pubblicazioni di balneoterapia marina, sia di carattere scientifico, sia di
tenore squisitamente divulgativo. Già Russel aveva fornito suggerimenti alla scelta della spiaggia ideale per la cura, le norme a cui attenersi riguardo alla temperatura dell’acqua e alla durata delle bagnatu- 19 -
re, mettendo in guardia su un uso improprio. I fattori fondamentali
risultavano il clima e la qualità dell’acqua. La zona costiera ideale per
immergersi doveva presentare acque chiare, pulite, non contaminate
da vicini sbocchi fluviali che potessero abbassare il grado di salinità del
mare e, preferibilmente, un fondale piano e sabbioso. Le tesi di Russel
vengono universalmente accettate fin da subito. Nel 1760 all’uscita a
Londra di una nuova edizione intitolata A dissertation on the use of sea
water in the diseases of gland seguirono altre pubblicazioni ispirate ai
medesimi concetti, fra cui lo studio di Johann Friedrich Cartheuser
(1704-1777): De viribus aquae marinae medicis, Francoforte 1763. Al
contempo si affiancano altri studi che raccomandano i bagni e la frequentazione delle rive anche per la cura delle affezioni articolari. Nel
1793 l’opuscolo di Thomas Reid (1710-1796) intitolato Direction of
warm and cold sea bathing si rivela, più che un trattato di medicina,
una vera e propria guida per il bagnante, così come L’introduction
préliminaire à l’art des bains de mer di F. Anderson (Londra 1795). J.F.
Goldhagen (1745-1788) è invece il primo a porre attenzione al clima.
Nella Dissertatio de aere marino ejusque efficacia (1787) traccia la strada a Lichtemberg e a Vogel che promuoveranno poi la creazione di
stabilimenti balneari sul Baltico. La massima divulgazione del rinnovato interesse per la medicina del mare si avrà con la pubblicazione
dell’importante studio di Alexander Peter Buchan (1764-1824) che, oltre ad esaminare le qualità fisiche dell’acqua di mare e del suo modo di
agire sull’organismo, dà conto dei grandi risultati ottenuti nella cura
della scrofola grazie alla talassoterapia. Dato alle stampe a Londra nel
1804, il volume di Buchan, tradotto poi in diverse lingue, uscì per la
prima volta nella versione italiana nel 1817 (Trattato sopra i bagni d’acqua di mare), rivelandosi un modello per quanti si cimenteranno in
seguito nella stesura di manuali di talassoterapia. Alcune di queste guide all’uso più appropriato dei bagni di mare dedicano ampio spazio
anche al nuoto, che viene valutato come coadiuvante della cura. Valga
per tutti quanto riportato in un Manualetto de’bagnanti e de’nuotatori, di autore anonimo, dato alle stampe a Venezia (Tipografia Grimaldo)
nel 1854:
Il bagno preso in mare è il bagno igienico per eccellenza. Diremo
ora che se all’uso di questo bagno fatto a cielo scoperto e ad acqua
sbattuta si unisce l’esercizio del nuoto, se ne conseguono risultati di
giovamento felicissimi, incalcolabili e spesso quasi insperati. Questa
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maniera di bagno combinato, riunendo infatti in sé tutti i risultati utili
all’azione chimica dell’acqua dolce o marina, e di quella meccanica
pel suo naturale sbattimento e pella conseguente sua percussione,
nonché di quella ginnastica pell’esercizio del corpo, non può che influire potentemente sul ben essere fisico di chi se ne giova, né abbastanza perciò raccomandasi precipuamente a tutti que’ soggetti
ne’quali predomina la robustezza e forse un eccesso di vitalità. Questo salutarissimo esercizio abbandonato, non si saprebbe giustificare il perché, da anni molti alla sola classe più inferiore del popolo,
pare si condannasse quasi dalla classe elevata come cosa indegna
di lei tanto se ne trascurava generalmente la pratica. Se non che richiamato avventurosamente a’ dì nostri dalla medicina a nuova vita,
come ausiliario efficacissimo del bagno, il nuoto, rimesso in onore,
torna poco per volta di moda, e lo sarebbe ancora di più se un puerile
timore di pericoli, più esagerati che reali, non ponesse ostacolo a
renderlo a tutti famigliare.
Queste raccomandazioni portano di conseguenza a fornire le regole
base per riuscire a muoversi nell’acqua con sicurezza e senza timore,
segnalando i principali e più semplici stili di nuoto, al fine di ottenere
i massimi vantaggi dalle bagnature. I bassi fondali dell’Adriatico, leggermente degradanti, vengono indicati ideali sia per esperti nuotatori
che per neofiti, dal momento che danno la possibilità di “immergersi
in pieno mare, dove l’onda è più ricca che altrove di elementi salini e
l’onda viene a rompersi direttamente contro i corpi, urtandoli e premendoli da ogni parte, nel tempo stesso che la spiaggia, declinando
dalla terra al mare, consente anche ai più inesperti di poter scegliere
quell’altezza di acqua che più si confà colla propria esperienza e con
proprio coraggio, escludendo ogni idea di pericolo pel troppo affondare”. Nel corso dell’Ottocento si afferma con forza la moda della villeggiatura al mare che, partita dalle coste inglesi e del nord Europa, si era
spostata poi sulle più miti riviere del Mediterraneo. La medicina della
natura validamente propugnata per riportare alla vita turbe di piccoli
malati, stava alimentando anche una nuova economia della salute e
delle vacanze, prospettando per tutti, specie per i sani, anche un “elisir
di lunga vita” da richiedere al mare. Guglielmo Hufeland (1762-1836),
alla fine del Settecento, scriveva:
Io non posso fare a meno di ricordare il bagno marino, che occupa
il primo rango fra i mezzi della coltura della pelle, per la sua forza
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stuzzicante e penetrativa, e che compensa sicuramente uno de’ primi requisiti della generazione per aprire la pelle, e ravvivare nuovamente tutta l’organizzazione, e in conseguenza anche tutto il sistema
nervoso. Questo bagno ha due grandi vantaggi. Il primo si è ch’egli
(oltre di sanar le malattie) può sempre usarsi anche dai sani, come il
rimedio più naturale per la conservazione, e robustezza della salute,
cosa che non è sempre comune ad ogni altro bagno, poiché alcuni riescono piuttosto nocivi, anzi che utili ad un corpo sano. Il bagno marino può paragonarsi al moto del corpo, il quale può esser adoperato
talvolta nelle malattie incurabili, ed anche servire alla conservazione
della salute. L’altro vantaggio, che vi è congiunto, si è l’inesplicabile,
maestoso e superbo prospetto del mare, il quale fa un ottimo effetto
in chi non vi è avvezzo, il che può produrre una benefica esaltazione
del sistema nervoso, ed anche dell’animo. Io sono persuaso che gli
effetti fisici del rimedio debbono essere straordinariamente sostenuti da questa impressione intellettuale, e che per es. una persona
ipocondriaca, o soggetta alle irritazioni troppo veementi del sistema
nervoso, possa guarire dal solo abitare vicino al mare, e dalla magnifica e spettacolosa vista del levare e tramontare del sole, delle
tempeste, burrasche ecc. A tale oggetto io consiglierei un abitatore
del continente di fare il viaggio al mare per prendervi i bagni, ed il
viaggio alle alpi per chi abita le coste marittime; perché questi due
oggetti sono i maggiori punti stabili della natura (L’arte di prolungare
la vita umana, Venezia 1790).
Per concludere, riprendendo un’affermazione di Augusto Guastalla
(1810-1876) in merito alle collaudate proprietà dell’acqua di mare,
“non vi ha malattia cronica in cui non si abbia preconizzato da qualche autore il bagno marino come rimedio sovrano. S’incominciò dalla
scrofola e non se ne escluse nessuna, purché imbarazzante, ribelle a
trattamenti ordinari”. I bagni di mare insomma, anche secondo Giuseppe Barellai (1813-1884), sono “quel tal mezzo di cura che sventuratamente tutti che ne abbiano bisogno possono approfittarne” (Gli ospizi
marini d’Italia, Firenze 1867). L’individuazione delle località più adatte
per la cura balneare aveva incentivato fin dai primi anni dell’Ottocento
la frequentazione delle spiagge anche lungo il litorale Adriatico. Anche se non ancora pienamente affermata, la talassoterapia parrebbe
ben praticata da larghe fasce di utenti fin dagli inizi dell’Ottocento se si
presta fede a quanto riportato da Alessandro Belmonti nella sua ricognizione della costiera adriatica pontificia datata al 1820. Riferendosi
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a Porto San Giorgio scrive: “per la temperatura dell’aria per il comodo
della vicina spiaggia, nel tempo estivo vengono da Roma e dai circonvicini paesi molte famiglie ed individui a prendervi bagni d’acqua di
mare”. Si trattava all’epoca di persone appartenenti per lo più al ceto
medio-alto, che, calandosi come pionieri nell’esplorazione dei siti rivieraschi ancora deserti da ritenersi più adatti per una villeggiatura alternativa a quella di campagna, lanciavano inconsciamente anche una
nuova “economia delle rive”, la moda dei bagni di mare e al contempo
l’uso vacanziero delle spiagge.
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ISBN: 9788899249502