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Pensare l'evenienza

Del che è & che non è Pensare l’evenienza di Paolo-Ugo Brusa Copyright 2013 by Paolo-Ugo Brusa Smashwords Edition This book is available in print at most online retailers. Also by P.-U.Brusa at Smashwords.com: Essere al mondo. Elementi di biografia generale *** Indice generale 0. 1. 1.1. 1.2. 2. 2.1. 2.2. 2.3. 3. 3.1. 3.2. 3.3. 3.4. 4. 4.1. 4.2. 5. Premessa. Sullo stesso argomento La consolazione della filosofia Ideazione La tripolarità SOM Sembianze del pre-paradigma Erotiche ideali Il pre-paradigma Essere al mondo Modi del darsi originario Darsi Radicalità Implicazione radicale Pro-schematica Divagazioni prosofiche Riepilogo Casi della vita Essere e ab-essere 6. 6.1. 6.2. 6.3. 6.4. 7. Appendici Tavola dei termini SOM e DOT Per continuare. Un indice ipotetico Note lessicali Sommario completo Colophon *** Premessa. Sullo stesso argomento “PRIMA ch’i’ parle bisogna ch’i’ m’iscuse”, così Giordano Bruno nel proemio a Candelaio. Meglio non nasconderselo, Del che è & che non è offrirà al lettore, se vi esigerà eleganza e tendenza, scarso diletto. Quanto ai contenuti, come svolgere un tale argomento senza irritare i più? Bruno consiglia bene, meglio scusarsi subito per non doversi discolpare poi. Queste laboriose annotazioni sono state per l’autore anzitutto uno strumento di studio, uno scavo avviato per cercare di capire e per provare a dire ciò che giorno per giorno si vive, ciò che precede l’essere logico-ontologico e ogni altro costruito che è (o che non è). In un’epoca che dà tutto scontatamente per culturale e relativo, o se no per tecnico e scientifico, trattare di ciò che tutto precede originando i differenti saperi, inclusi i loro limiti, sembrava a lui stesso per primo un’impresa non solo in controtendenza e perfino spericolata ma facilmente contestabile, legata a un programma di ricerca obsoleto. Eppure c’era non solo l’intera storia del pensiero a testimoniare un bisogno inesauribile di conoscere l’origine dell’essere al mondo, ma anche un effettivo, urgente e contemporaneo chiederselo, in modi certo nuovi e talvolta inaspettati ma affini a quelli di sempre. Così la visione d’insieme ha preso corpo lentamente, scrivendo e riscrivendo, esitante tra convincimenti e dubbi. La prima redazione, terminata nel febbraio 2009, portava chiari segni di quella fatica e non soddisfece i pochi che la lessero; tra questi il più scontento fu l’autore che la tenne per sé e si mise a riscrivere tutto daccapo. I motivi di insoddisfazione erano diversi, ma tra gli altri soprattutto i seguenti: debole la introduzione del concetto-chiave di triseminalità; tortuoso il procedere della riflessione; incerta la coerenza di alcuni termini; discontinuo lo stile. Il secondo tentativo ha ragionevolmente beneficiato delle lezioni apprese grazie al primo; ne è sortito un testo alquanto diverso, più coeso e meglio impostato, meno indocile. Pubblicato a stampa nel 2012 col titolo Essere al mondo [ISBN 9788866189978] esso è ora disponibile anche nei formati ebook [ISBN: 9781301571178, download gratuito su http://www.smashwords.com]. Perché allora tornare a occuparsi della prima versione? Perché il pensare qui detto prosofico che, in quanto riflesso spontaneo dell’essere al mondo, si mostra nativamente intuitivo in ogni essere umano, necessita invece in quanto proposta concettuale di introduzione, anzi di varie e sempre nuove introduzioni, dato che per la sua neutrale onnilateralità non si conforma ad alcuno schema preconcetto, comprendendoli tutti. Esso non appaga bisogni di comprensione localmente urgenti, anzi delude tutte le esigenze di afferramento e di conseguenza è destinato a rimanere nell’ombra di un’apparente futilità se non ci si fa carico di esporre in molti modi differenti il suo minuto contessersi a ogni aspetto e caso dell’esistenza. L’espressione che è & che non è indica qui, per i motivi che diremo, non il dialettico o il contraddittorio o l’assurdo, ma l’universale condiviso, ossia ciò che unisce tutti gli esseri umani al di là di ogni separazione ideologica o distanza culturale o diversità di esperienza e di visione. Li accomuna inoltre con ogni altro vivente e in particolare con tutte le forme di intelligenza dell’universo, quali che siano e da qualsiasi mondo provengano. Ciò che per un essere vivente è al mondo possiede immediatamente una sua realtà. Ma questa realtà o verità, spesso momentanea e puntiforme, normalmente viene contraddetta da altre realtà appartenenti ad altre esperienze. Ciò genera il che è & che non è delle cose. Esso include tutti i vissuti esperienziali in qualsiasi modo vengano interiorizzati o esteriorizzati, dati per dati o criticamente confrontati. Include anche il che è (o che non è), ovvero quanto si replica in parte o del tutto uguale da un caso all’altro e da un individuo all’altro, quanto è localmente concordato. Il che è & che non è sconcerta in quanto responsabile dell’infinità delle opinioni, ma sembra al tempo stesso comodamente aggirabile concordando o imponendo convenzioni, comportamenti, procedure, norme, simboli che in effetti permettono di gestirlo, benché sempre localmente e per il momento e finché la convenzione regge o le forze che l’hanno imposta prevalgono su quelle che puntano a indebolirla. L’illustrazione dell’universale condiviso, cioè del meta-orizzonte comune a tutte le verità locali, è il più impegnativo obbligo morale di ogni libera intelligenza, il dovere che la filosofia ha sentito come peculiarmente suo. Ma com’è evidente dalla sua storia lo ha di buon grado frainteso. Le scuole lo hanno interpretato come un includere/escludere, un dar torto e aver ragione, un avanzare la propria visione del mondo in opposizione alle altre. In definitiva, bisogna ammettere che la filosofia – pur con tutti gli immensi meriti esplorativi che volentieri le si concedono – ha rinunciato al suo scopo ultimo mettendo avanti tutto le ragioni della ragione (o di qualsiasi altro nume vicario) come se quest’ultima potesse davvero porsi fuori dell’essere al mondo e studiarlo con i suoi strumenti. Questo testo è stato dunque recuperato perché fornisse anch’esso il suo contributo per quanto modesto alla riflessione prosofica. Non mancava infatti anche di qualche pregio: l’immediatezza di alcune intuizioni, il coraggio della sperimentazione, il laboratorio dei termini, la citazione del vissuto, la stessa franchezza un po’ molesta di certi passi. Naturalmente la stesura del 2009 è stata riveduta estesamente, nella speranza di attenuarvi i difetti sopra elencati. La revisione non ha fatto miracoli, ma permette intanto la circolazione di un’opera che testimonia della fatica di pensare prosoficamente e che proprio per questo potrà forse apparire meno ostica del successivo e più strutturato Essere al mondo. Alcune inusuali caratteristiche stilistiche e grafiche, strettamente connesse alla trattazione, sono da segnalare. Introdurre al pensare prosofico senza un linguaggio adeguato (il più vicino, ma spesso in controcanto, essendo quello della filosofia) ha comportato una quantità di adattamenti. Tra l’altro ha richiesto un certo dispendio di elencazioni precisazioni opposizioni limitazioni spesso riunite di necessità nello stesso periodo sintattico. Ne sarebbe derivato un eccesso di punteggiatura fastidioso. La scelta è stata di lasciare spesso senza virgole le mere enumerazioni, ritenendo che il lettore possa farci l’occhio. Un’altra esigenza connessa all’introduzione di termini nuovi e accezioni inconsuete è quella di riservare il corsivo nel testo quasi soltanto all’evidenziazione, rinunciando ad adoperarlo come è consuetudine per parole e locuzioni in altre lingue. Conseguenza del tema trattato, il più generale che possa darsi, era anche il rischio che le parole sconfinassero, trascinate dalla loro storia passata, verso una particolare visione del mondo a scapito delle altre. Per evitare fraintendimenti v’è un lessico ragionato in appendice, ma l’espediente più largamente usato allo scopo è stata la ripetizione frequente degli stessi vocaboli- o espressioni-chiave in contesti esplicativi ed esemplificativi differenti. Questa replicazione assidua di sicuro non giova alla piacevolezza della lettura, ma garantisce in cambio al lettore l’opportunità di esaminare con attenzione la coerenza dei significati e la tenuta degli assunti. Una difficoltà più di contenuto che di forma potrà risultare dalla presupposizione che la storia della filosofia occidentale sia sufficientemente nota al lettore tanto da consentire accenni rapidi e riferimenti volanti utili alla discussione, ma per il resto di scarso aiuto a recuperare autori e argomenti. Lo specialista troverà però anch’egli molto da ridire. Egli scorge qui ben poco di quanto si attende: non discreti aggiustamenti relativi a un paradigma condiviso, introdotti con larghezza di erudizione e sostenuti da un vasto apparato bibliografico e abbondanti citazioni, ma un sovvertimento dell’intera discussione che gli parrà a tratti irriverente nei modi e dal suo punto di vista oppugnabile nella sostanza. In effetti questo lavoro, anche prescindendo dai suoi difetti, non ha e non può avere un lettore ideale (oppure chiunque lo è) a motivo dell’argomento stesso che svolge: il darsi originario considerato astrattamente prima che una tradizione qualsiasi lo scomponga e ricomponga per soddisfare esigenze locali, ovvero concretamente esaminato dopo che tutte le tradizioni sono venute equiparandosi nella globalizzazione che al tempo stesso provvede ad estinguerle lasciando un vuoto di concezione avvincente ma pericoloso. Sulla condizione alquanto insolita in cui viene a trovarsi rispetto al suo tema, condizione che non va persa di vista se si vuole inquadrare correttamente il suo stesso procedere, lo scritto procedendo torna spesso a riflettere. Quanto agli assunti, sono sei in tutto quelli distintivi della posizione prosofica: 1. il pre-paradigma come limite della filosofia; 2. la triplice radicalità del darsi originario; 3. l’insussistenza separata delle radicalità (mondo mente medio); 4. l’opposizione senso/significato; 5. l’irriducibilità & trasducibilità radicale; 6. l’ulteriorità del giusto. Non serve aggiungere che si tratta di assunti molto impegnativi. Lo sono però meno di quanto sembra, dato che in prosofia non si dimostra ad excludendum, per negare l’altro e il diverso, ma ci si interroga su come comprendere insieme tutte le versioni del mondo, formulate o no, in quanto espressioni di un unico essere al mondo condiviso da tutti i viventi e consapevolizzabile nell’essere umano. Come ogni altra attività umana il filosofare subisce le opposte tensioni proprie di ogni essere al mondo, basilarmente l’adattarsi a e l’assimilare a sé [cfr. Piaget, L’épistémologie génétique, 1970]. Non c’è di che stupirsi quindi se nella storia del pensiero si scoprono due contrarie tendenze, quella della scoperta e della disponibilità, da un lato, e quella dell’afferramento e dell’appropriazione dall’altro. La filosofia non ha ben distinto il comprendere, inteso come afferramento, a cui si è soprattutto dedicata, dal comprendere il comprendere che decisamente è rimasto marginale nella sua storia perché non permette l’appropriazione, l’asservimento del concetto a un qualsiasi scopo, tantomeno quello (consolatorio per il filosofo che con esso si giustifica) della razionalizzazione dell’intero. Il pensare prosofico non è che una ripresa del filosofare ascettico a partire dal suo aspetto più trascurato. Una ripresa vigorosa. Non sono da confondere l’evitamento della appropriazione e la debolezza del pensare: il pensiero ha il dovere di essere forte, altrimenti prevalgono altre forze molto meno governabili, ma l’appropriazione va lasciata alle logiche e alle tecniche. All’origine del pensare prosofico v’è un’osservazione che vale in ogni caso (per qualsiasi cosa possa esser detta, fatta, tentata, immaginata ecc.), una triplice constatazione riguardante in generale il rapporto tra vivente e ambiente: non si dà organismo senza ambiente, né ambiente senza organismo, né ambiente e organismo senza modalità di comunicazione dall’uno all’altro. Nello specifico dell’essere umano l’interdipendenza si applica eminentemente alla relazione tra psichico, fisico e linguistico. Separatamente questi fondamentali del vivere non possono darsi. Il loro apparente sussistere è un prodotto illusorio della riflessione. Niente di tutto ciò che accade prescinde dal concorso della terna radicale mente mondo linguaggio. Questo vale per ciò che appare logico naturale esatto sbagliato piacevole doloroso desiderabile ingannevole ecc. Affinché qualcosa si dia è indispensabile il concorso obbligato di quelle tre reciproche radicalità la cui interazione o concorso o concerto genera ogni cosa, inclusa la loro apparente separata cosalità. Consapevolmente o meno le dottrine sofiche (postulatrici di saperi risolutivi) hanno sempre cercato di aggirare questa evidenza, sentita come ingestibile e quindi insoffribile; hanno inteso porvi riparo introducendo soluzioni che inevitabilmente diventano però anche costrizioni. Il pensare prosofico si compone pertanto di due momenti principali: la riscoperta razionale dell’essere al mondo come triradicalità originaria e l’esplorazione dei modi del sapere e dell’agire connessi con il riconoscimento e la libera accettazione di quella condizione universale che accomuna tutti gli esseri umani e i viventi sulla Terra e altrove. Questo scritto, come il gemello Essere al mondo, si occupa essenzialmente del primo momento, se si eccettua l’ultimo capitolo che riguarda la manifestazione del giusto come conseguenza di tale accettazione. Una facile obiezione è la seguente: com’è possibile che di prosofia – improbabile apparizione lessicale che pretenderebbe indicare un risoluto riorientamento del pensare – non si sia discusso prima, se è vero che i suoi assunti di base, pur relativizzando ogni prospettiva localmente impiantata, abbracciano ogni comprensione e valgono in ogni caso del vivere? Anticipando questa perplessità il saggio inizia proprio occupandosi dell’evitamento o confinamento del prosofico a vantaggio di una configurazione dell’essere al mondo più sicura affidabile gestibile. Di una qualche stabilità non si può fare a meno. L’opposizione senso/significato si occupa di sostenere concettualmente la compossibilità di un sapere localmente affidabile e una cognizione onnicomprensiva dell’essere al mondo. Un’opposizione (di fatto non si danno né puri sensi né puri significati, ma una sempre varia commistione di entrambi) indispensabile non solo a capire le contraddizioni del sapere esistenziale, o sapere-agire, ma anche a inquadrare correttamente il sapere non-esistenziale o positivo (logico-matematico, tecnico-scientifico) usandolo quanto serve senza concedergli di sopraffare l’altro. Le questioni più difficili toccano invece come praticare e come amministrare la riflessione prosofica. Naturalmente si ha da fare qui con un pensiero che non è gestibile alla maniera del pensiero logico, il quale lo è di suo, presuppostamente, per stretta aderenza al mero significare. Il pensare prosofico riguarda i sensi e la sensatezza dell’essere al mondo, si presenta pertanto sempre sfuggente, non però assurdo. Il libro non affronta direttamente le due questioni, per le quali occorrono ancora molte e differenti indagini, condotte a partire dalla gamma più ampia possibile di punti di vista. Il che è & che non è elude la presa ma si presta ad esser sfiorato in infiniti modi, dato che l’essere al mondo può solo accadere a sua immagine. La ricerca prosofica indaga anzitutto i tratti generalissimi di quell’immagine e li riassume nel concetto di darsi originario triradicale. Chi non fosse d’accordo non avrebbe da far altro che mostrare, con un detto o un gesto qualsiasi, che il dato originario è diverso – ma non potrà farlo: quali che siano il suo mondo, il suo io e il suo linguaggio, approderà al medesimo dato di fatto. Non esibisco dunque la triradicalità – secondo l’usanza debitamente invalsa tra studiosi allorché si discute di ogni altra cosa – come un’ipotesi di lavoro o una proposta di riflessione, ma appunto quale dato di fatto, più precisamente come l’additamento del fatto inevitabile che sorregge ogni atto. “È impossibile in effetti che l’animale esista – scriveva già Aristotele [Parva Naturalia, 458a 30-31] – senza le condizioni che lo costituiscono”. Ovvietà circolare tanto imprescindibile quanto apparentemente inutilizzabile, ciò che sempre ha disturbato il piacere ingenuo di sapere. Negli ultimi decenni però quella stessa globalizzazione o meglio creolizzazione delle culture che ha spaesato tutte le visioni locali (inducendo peraltro anche a quel riflusso o rifiuto istintivo-isterico di cui narra per esempio Tom Wolfe nel suo ultimo romanzo, Back To Blood [2012]) ha spinto la ricerca, specialmente l’indagine mirabilmente sfaccettata dei migliori narratori contemporanei, verso quello stesso orizzonte multiprospettico del pensare che qui chiamo prosofico. Perché dunque non star buono ancora un po’ aspettando che qualcuno più addetto di me stenda un consuntivo migliore del mio? Ammetto allora che, se parecchi lavori sono dati alle stampe similmente orientati, nessuno mi ha convinto a gettare questo abbozzo, per quanto imperfetto. L’orientamento della saggistica post-filosofica mi pare tuttora legato a un qualche costitutivo o regolativo che è (o che non è). Vi si sente un residuo aroma di dottrina (anche se in forma di antidottrina o complessità o smarrimento o allegra ironia) e un’opacità enfatica verso quella che un tempo si diceva ipostatizzando la sostanza delle cose, come se rifuggendo da tutto ciò che subodora di essenziale si fosse obbligati a un pensiero dell’essere al mondo incapacitato e inconcludente. Più grave, l’impressione di felice prossimità a un nuovo e più comprensivo vero prodotta dalla straordinaria proliferazione di visioni del mondo si scontra ancora una volta con un sentimento amaro di sfiducia quando si osserva come l’umanità resti un’accolita di fazioni e gli ee.uu. non si intendano neppure su questioni assolutamente prioritarie. Eppure una simile impressione di prossimità al vero quale totalità comprensiva di ogni esperienza ci sarebbe sembrata palpabile anche in tanti altri momenti della vicenda umana, qualora fossimo stati là a scrutarli sotto quel profilo. Dell’intera bibliotheca occidentale e orientale quasi non si scorre pagina che non adombri il che è & che non è, perlomeno come utopia del giudizio. Il buddismo zen pare non conosca altro, anche se tende a mistificarlo come illuminazione circolarità assurdo. L’India vedica sosta nei paraggi della triradicalità originaria si può dire da sempre. A momenti, nelle ultime stazioni del pellegrinaggio del giovane Sudhana [Gandavyūha-sūtra] sembra svolgersi, per linee poetiche, quel che qui ci siam posti a investigare ben più prosaicamente. L’Occidente in particolare ha subito il fascino dell’illimite triradicale almeno tanto quanto ha provato con ogni mezzo a sopprimerlo. O forse non può darsi alcuna storia della filosofia se non tentando di sopprimere il darsi originario. Perciò potrei limitarmi a ripetere, per scusare i difetti di queste pagine, che l’argomento, se tocca ciò che tutti approssimano, pur risultando alla fin fine per tutti inabbordabile, non può che essere per diverso concorso di molti interminabilmente trattato e ritrattato. Quand’anche una bacchetta magica espungesse dal testo tutti i difetti imputabili all’autore, non sarebbe comunque possibile conseguire l’ottimo. E ciò non tanto per motivi estrinseci, i quali pur non mancano (ché in effetti, per le molte dimensioni del tema, un confronto esteso con la storia, un’esemplificazione esistenziale ampiamente convincente, un argomentare ovunque puntiglioso avrebbero riempito migliaia di pagine destinate ad apparire in ogni caso inconclusive), quanto per una singolare motivazione intrinseca: se quel che sostengo si potesse dimostrare, l’assunto stesso ne uscirebbe falsificato. È paradossale ma adamantino infatti che, qualora sul che è & che non è delle cose si giunga a proiettare un pensare corrispondente, questo debba risultare il più forte e, nel medesimo tempo, il più debole prodotto di ogni possibile riflettere. Il più forte, se dovrà scovare e darci il fatto originario, la prima scaturigine di tutto il poter essere e non-essere, ciò da cui promana ogni eventualità di pensiero e di azione, ciò da cui ogni caso procede; il più debole, perché tutti gli accadimenti anche i più minuti ed effimeri dispongono di un quid proprium, mentre quel pensare dovrà privarsi di ogni possibile determinazione e dimostrazione per risalire, vuoto di quiddità, all’interità ineffabile benché immanente dell’onnino-anodino. Insomma a dispetto di tutte le epistemologie esso resterà vero fino a che nessun essere al mondo potrà conclusivamente dimostrarlo, e dare con ciò al senso della vita un mero significato. Roma, 28 febbraio 2013 Parte Prima. La consolazione della filosofia Ideazione [↑] TEMO che il cominciamento della filosofia non vada visto così santamente aureolato come per solito si celebra nei manuali scolastici e nei programmi educational. Anche in quei tempi remoti non meno che ai giorni nostri, a chi cercasse con bella intelligenza la via del sapere doveva parere evidente, anzitutto, un imbarazzante paradosso: se non sono gli altri (la vox populi, per esempio) a chiamarci sapienti, cosa su cui è da sciocchi contare, noi da noi stessi non possiamo farlo, pena non tanto il ridicolo, ma l’autoriferimento, cioè l’immediato logico, che è sempre fin troppo vero in quanto afferma se stesso. Bisognò dunque trovare abbastanza presto un nome che, pur connettendo la sapienza a chi a lei si consacrava, non sembrasse gratuitamente presupporre l’automatico aderire dell’una all’altro. Di qui la sagace invenzione del termine filo-sofia che consente non solo l’aggiramento della difficoltà psicologica, ma soprattutto, lasciando credere che in effetti la sapienza sussista per conto suo, indipendentemente da chi la ricerca, apre la strada, o piuttosto lastrica un gran viale di sfingi, aperto alle più diverse processioni di idee. Si dovrà attendere l’autocentricità dichiaratamente onnimolitoria del Nietzsche di Ecce Homo per sentire un intellettuale annunciare: Warum ich so weise bin. Warum ich überhaupt so klug bin. Warum ich Einiges mehr weiss. Warum ich so gute Bücher schreibe... [Perché sono così saggio. Perché sono così particolarmente accorto. Perché ne so qualcosa di più. Perché scrivo libri così buoni]. È illuminante come il filo-sofo, colui che (eminentemente) idea, trovi sempre il modo di contentarsi delle sue costruzioni, del suo proprio ideato. Qualunque cosa creda (o non creda o asserisca doversi dubitare o criticare), egli prima di tutto si crede. Eppure dovrebbe saper bene come funziona l’ideazione, capirlo meglio di chiunque: averne esperienza, oltre che diretta, riflessa e meditata. L’orologiaio non ignora il limite d’accuratezza dei suoi cronometri e da che dipenda; il contadino sa fino a quale profondità dissoda la sua vanga. Soddisfatto dei prodotti della riflessione giudicante, in particolare della sua, a cui non può non prestar fede, l’ideatore non si lascia altrettanto affascinare da manifestazioni altre dell’umano, quelle in particolare ch’egli reputa infra- o preter-ideative, umane accidentalmente. Non le considera abbastanza speciespecifiche per l’animale razionale. Ma l’esperienza comune sa che, se il raziocinio è una risorsa preziosa e la poïesis ciò in cui l’e.u. eccelle, c’è tuttavia molto altro nel vivere che ci appartiene e designa. Gli atti di vita riverberano piacere e desiderio, sofferenza e dignità, entusiasmo e riluttanza, gioia e amarezza, impetuosità e tenacia, curiosità e divertimento, simpatia fiducia pietà… Per tacer delle speranze, della vocazione, delle angosce, dell’amore. E gl’incostanti registri delle appercezioni, gli specchiamenti e i tagli della memoria, il fondo inesauribile dei linguaggi appresi, le destrezze e le tranquille andature dei comportamenti acquisiti, i ritmi e le aritmie dell’in fieri individuale… Tutto quel che la persona ha di suo proprio non è ideabile, né potrebbe esserlo, sebbene sia proprio l’unico – ben oltre l’Einzige stirneriano e tutte le altre unicità messe insieme – ciò che a ciascuno più importa. Non è né la ragione né la passione quella che nel vivere si riflette, bensì l’essere umano. Perfino la mente (l’ubiqua mind del secondo Novecento) pare già per tanti versi un’estrapolazione. Il pensare è organato nel vivente, e le diverse modalità d’intelligenza sensibilità comprensione compassione ecc. compartecipano all’atto di vita. Nella classifica dei sofismi la scissione della mente dal corpo merita senz’altro una menzione speciale. Per comoda consuetudine se ne addossa la colpa a Cartesio, ma a ben guardare egli ha gettato luce su quel che molti altri Occidentali, prima e dopo di lui, hanno più o meno genialmente oscurato, dico la triste solitudine della cosa pensante. Kant ritenne proponibile una ragione critica, giudice naturale di se stessa. Fece largo così, inavvertitamente, a una nuova idea della ragione, la trans-razionalità o assoluto trascendentale. Per tacere della virtus theoretica apparentemente illimitata che l’ideazione possiede in pensatori ancora vicini, sui quali s’è spesa senza sospetto parte della nostra giovinezza (tipo Marx, Nietzsche e Freud). La serietà del filosofo dipende da quella delle sue idee; ma la serietà delle idee a sua volta? O vogliamo ritenere, con Antistene ed altri, ben più recenti, che non si diano in alcun caso idee serie, tutt’al più provocatorie ironiche ciniche? Anche questa è un’idea. L’ideazione ama le opposizioni. E quindi predilige ogni sorta di dialettica, dalle più grezze, che sono tante, alle poche davvero elaboranti. Le ama perché in quanto partizioni del tipo tesi/antitesi può gestirle a piacimento, restituendo alla mente l’illusione di controllare l’intero. Ma l’intelligenza, fuori dei libri è facile notarlo, si dà genuinamente solo nella corrente promiscua del sapere & agire eventuale. La variegata molteplicità delle intelligenze modulantisi nella fisiologia stessa del vissuto individuale è un’acquisizione epistemologica, benché recente, ormai irrinunciabile [Fodor, J. A., The Modularity of Mind. An Essay on Faculty Psychology. Cambridge: The MIT Press]. Pertanto, per cominciare, non intendo adottare un unico ingannevole termine (computations cognitions constructions) per tutto quel che agli ee.uu. s’agita in testa. Certo, niente impedisce di adottare una convenzione semiotica del genere ⊇ : ‘treno’ (per cui «il ⊇ è in orario» significherà che ‘il treno è in orario’), convenzione in base alla quale denominare convenzionalmente ‘ideas’, come fece Locke, o in qualche altro modo, tutto ciò di cui l’e.u. risulta mentalmente capace; tuttavia, una tale operazione si svolgerebbe nell’ordine estrinseco del significare e non cambierebbe affatto i termini della questione. Appunto i treni, p.es., sono denotabili e connotabili perché la mente elabora sotto tale nome una molteplicità di raffigurazioni esperienziali e esistenziali: averne visti passare o sentiti fischiare in lontananza, esserci saliti una volta o mille, averne atteso il passaggio, averne letto e sentito dire e fantasticato su… Un tempo il 4 novembre in Italia gli scolari visitavano le caserme e salivano sui carri armati: se ne facevano, erano indotti a farsene, intanto, un’idea giocosa. La costruzione o piuttosto collage di una cosa avviene scontornandone e al tempo stesso aggregandone la rappresentazione complessa, in un confronto (intimo interpersonale storico-culturale) aperto al paragone con tutte le altre cose e in particolare con quelle associabili per forma uso scopo contesto analogia antilogia e via dicendo. Ne risulta un concetto, l’opposto di un’idea, una provvisoria confezione di aspetti, costrutto plastico e mobile nel tempo. Un luogo dell’intero intreccio, nodo di un tappeto doppiamente fatato: già vola da tempo immemorabile e ancora giace teso sul telaio, in continua lavorazione. Kant, nella Dialettica trascendentale, dimostra come certe vecchie idee cosmo- psico- teo-logiche implichino totalità inesperibili. L’incondizionato non si abbraccia. Nel minuto del vivere ci si rende conto che, come non lo è la totalità dell’intellegibile, in nessun caso sono propriamente rappresentabili concezioni a tutto tondo, a meno che non si decidano con un atto di costrizione le condizioni di cui tener conto e quelle da ignorare. Ciononostante, di idealità rotonde e di totalità, più o meno ingenuamente proclamate o negate, più o meno astutamente mascherate, ridondano le sophíai della storia (Aristofane [Rane, 676] usa ironicamente il plurale raro di sophía per dire “ingegni profondi”). Chi s’è provato a dare un nome e con ciò una denotazione a una qualsiasi totalità ideale è caduto o nella semplice semiosi, scambiata per nozione (lo strumento per il fine), o nella costruzione autoreferenziale, quale che fosse la sua idea di idea. Dio della luce per il pesce degli abissi è la lanterna che gli penzola davanti, propaggine della sua testa. La storia delle idee ha messo a nudo questa difficoltà e però anche la ripugnanza estrema del pensiero ad accettarla. L’apprensione dell’intero, anelito dei dogmatici, è anche il dogma occulto di scettici e sensisti, pragmatisti e strutturalisti, ermeneuti e analitici. Ciascuno offre una via, quale che sia, al suo intero o para-intero d’elezione. Hegel ci perdonerà: per quanto articolata, qualsiasi idea (un nodo stabile di cognizioni e, nel migliore dei casi, dei relativi modi del conoscere) è necessariamente ideotica. Necessariamente, perché dall’olos dentro cui si muove, la mente può solo farsi ospitare, confinata nei suoi limiti. L’opposto (abbracciare l’olos) è un pio desiderio intellettuale, che si scontra con la condizione di invaso dalla vita, propria di ogni stare al mondo. Il vero demone, di cui tra i primi Socrate sviandosi tentò la vestizione (e Nietzsche tra gli ultimi), è la nuda vita. Se l’ideazione dell’olos ci è preclusa, non va troppo bene neppure quando il pensiero si sofferma su qualcosa di circoscritto. Infatti l’idea di qual-cosa implica un’adeguatezza (rei et intellectus), diversamente non potremmo servircene come idea di quel quid, pur con tutte le limitazioni del caso (per quel che ne sappiamo, per quanto ci compete, per quel che ci interessa ecc.). Certo possiamo sospendere il giudizio. Abbiamo un’idea di ‘kazako’ ma in partenza per il nostro primo viaggio in Kazakistan saggiamente decidiamo di sospendere quell’idea pre-venuta e di ricostruirne daccapo il concetto. Nondimeno, non appena gettiamo un nuovo sguardo su questa che ufficialmente si denomina Qazaqstan Respublikasy i nostri sensori linguistici, mediamente approssimativi, registreranno sia quelle q senza u al seguito, che allontanano la cosa verso un incerto Oriente, sia l’evidente imprestito dal latino, che pone la questione dell’inaspettatamente vicino. Que sais-je? Nel giorno per giorno di un’esistenza non asservita, il gioco del prendere e lasciare le cose, del tendere e lascare i concetti, è una manovra ininterrotta, come accade su una vela ben governata. Quando cerchiamo di afferrare ciò che succede, per esprimerlo spiegarlo controllarlo servircene, non abbiamo altra scelta, dobbiamo, come si dice, fissare le idee. Eppure tanta ideazione non è affatto indispensabile a una vita felice, costituisce anzi a quello scopo o un triste ostacolo o uno scadente rimedio. La felicità del vivere è nella combinazione fortunata degli eventi e nell’accortezza degli atti, tra i quali ovviamente anche gli atti di pensiero (o concetti), ossia il pensare in quanto modalità dell’agire. I modi proprî dell’ideare riflettono invece altre esigenze, tra cui in particolare quelle che consentono l’evento ideativo stesso. Niente può accadere se non nelle regole del proprio attuarsi: la verticalità condiziona la poesia, né può esservi musica fuori del tempo. È un punto, questo, così ovvio che si può oltrepassarlo senza farvi caso. Occorre invece coglierne tutte le implicazioni. La prima esigenza intimamente connessa alla natura stessa dell’ideazione è la netta distinzione. Ideare è infatti delimitare, circoscrivere. L’ideare è radicato in un vedere, e di ogni visione è presupposto un certo mettere a fuoco. Il termine più interessante in quest’ottica è contemplare. Contemplazione [↑] Con la drastica contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa, corrispondente in filosofia alla reciproca alterità tra razionalità pratica e teoretica, si oscura la prima origine del termine ‘contemplare’, ove si allude propriamente a un atto, a un gesto creativo. Prima di significare tempio, edificio destinato al culto, o semplicemente luogo sacro, templum indicava nella latinità remota lo spazio circoscritto dal gesto dell’augure: “Quelle regioni del cielo che disegnavano gli àuguri per prendere gli augùri”, come ben dice il Vico. Munito del lituum o bastone da cerimonia, l’augure tracciava in aria una sorta di partizione o limite invisibile dentro cui sarebbe avvenuto il fatto sacro e accertato l’auspicio. Tale recinto consentiva al sacerdote di distinguere tra gli eventi quelli che comportavano signum da quelli irrilevanti. L’indovino comincia il rito con un atto costitutivo, una prima distinzione non tra ciò che è, o ha da essere, e ciò che non è e non può essere, ma tra l’ambito dove la predizione potrà aver luogo, dove il divino potrà manifestarsi, e il rimanente del campo, l’area dell’insignificante. Il templum era pertanto di volta in volta deciso dall’officiante, come voleva il cerimoniale, quasi ritagliato (το τέμενος) in aria con un gesto de-terminante: la predizione prima riguarda così il quadro stesso dentro cui situare il predire. Inoltre templum ha un’affinità radicale con tempus. La cognizione del tempo era sorta dalla segmentazione del continuo sulla base dei cicli naturali (giorni lune stagioni ecc.), ma l’augure se ne appropria: il suo contemplare è un decidere che pre-determina l’abside spazio-temporale dentro cui il che è accadrà o verrà a mostrarsi… qualcosa di molto vicino all’idea di contemplazione di cui s’è spesso avvalso il filosofo. Pare di avvertire nei modi del pensiero un fondo occulto giunto a noi dagli antichi sortilegi. L’idea di tempio ha subìto una sua necessaria vicissitudine interessante da esaminare. Se pensiamo alla contemplazione dell’augure, alla cerimonia mediante cui descrivendo un cerchio in aria egli circoscriveva il luogo e il tempo dell’apparizione del segno, dobbiamo ammettere che il suo atto sacro comportava un’altra circolarità ai nostri occhi problematica. L’indovino infatti attende il segno dagli dèi e al tempo stesso ne predetermina il cerchio d’apparizione, e con ciò la validità, in base a un limite di inclusione/esclusione che proprio lui stabilisce. Come dire che l’evento sorge, secondo una dia-logica molto fuzzy, da un’interrelazione di cui sono all’origine sia l’antecedente (il divino che si esprime) sia il conseguente (l’umano interprete che pre-dispone l’interpretazione). Un doppio legame, questo, che la coscienza religiosa non ha mai troncato, per il fatto che è tecnicamente impossibile rinunciarvi. Di fatto, ogni contemplare è comunque pre-concetto per via dell’incastro ermeneutico di testo interprete tradizione ecc. Ma tale ulteriore pre-giudiziale, che potremmo dire gadameriana, di cui qui e oltre queste pagine poco si occupano, conta in un secondo momento, una volta che il segno è apparso e la tavola incisa. Inoltre l’indovino si confronta talora con monstrua, segni mirabili che s’impongono per la loro eccezionalità agli occhi di tutti. In tali occasioni l’evento-segno non dipende da lui se non per l’interpretazione. Ma questo è il caso-limite, quando l’ignoranza delle cause efficienti genera spettri che rompono l’incerto equilibrio tra apparire e determinare. Di regola l’augure si confronta con un bisogno di sapere che non può attendere a lungo l’evento mirabile, vuole anzi disporne al momento del rito. Tocca dunque all’uomo invocarlo, al sacerdote. Egli si trova di fronte lo spazio indescritto e il tempo indefinito, ove niente e tutto può accadere (mille voli di corvi, nell’arco intero del cielo, ogni giorno, ogni ora). Ma dove tutto concomita, niente coincide. Deve dunque provvedere lui un ricettacolo al segno, un ospizio (una crêche) al divino. Questo accogliere non è piuttosto un generare, un far sorgere, un assegnare? È il dilemma in cui incappò l’evangelista (o chi per lui) quando s’indusse a sovrapporre una cometa al racconto della nascita affinché divenisse una Natività. L’antico sacerdos, come vuole l’etimo, dà il sacro. Questo dare è pieno: coi suoi atti corresponsabili egli compartecipa alla costituzione del fatto sacro. Non è dunque un farsi tramite o medium, come se le sfere del divino e dell’umano pre-esistessero e mancasse loro soltanto un canale comunicativo. Vero è tuttavia che molto presto il ruolo del sacerdote è venuto confondendosi, prevalendovi le funzioni profetica trasmissiva comunicativa su quella costitutiva. In effetti, quest’ultima lo collocava in una posizione molto scomoda, perché troppo vera e rivelatrice. Dobbiamo esaminarla più da vicino. La contemplazione augurale, così come qualsiasi altro contemplare, poteva essere giustificata in due maniere: l’una tecnica, l’altra mistica. Tecnicamente si poteva (come ancora si può e si deve) dir questo: se ci abbisogna un senso quando nient’altro (in relazione a ciò che ci occupa) pare turbare il non-senso (l’equi-senso) degli eventi intorno a noi, siamo anzitutto costretti a cerchiare un luogo (da [st-] locus, ‘recinto’, ‘stalla’) che sia destinato ad accogliere quel che sarà il contenuto, perché diversamente il senso che ci interessa stabilire o dovrà risultare dall’intero, ove però tutto è & non è, o in nessun modo potrà apparire perché non saprà in che consistere. Conta allora che l’atto del cerchiare (circolettare evidenziare staccare scontornare definire inquadrare mettere a fuoco o porre in primo piano ecc.) lo premettiamo noi stessi al nostro capire – come se appunto indovinassimo prima di sapere – incorrendo in una circolarità che marca di infondatezza l’atto preliminare stesso con cui predisponiamo il campo al comprendere. Tutto quanto verrà poi in qualsiasi modo saputo (spiegato dimostrato compreso rivelato interpretato o che altro), ed anche quanto si riterrà ignorato, in breve il che è (o che non è) delle cose, risulterà preceduto e pre-fissato da quell’atto primo della determinazione. E siccome quello è inficiato da autoriferimento o, più esattamente, autoctisi, tutto quel che vi s’inscrive non ha alcuna possibilità di verità, a meno che non si resti contenti di una verità sedicente e sefacente, proprio come pretendevano certi manifesti sommari della propaganda di regime (“UN CUORE SOLO, UNA VOLONTÀ SOLA, UNA DECISIONE SOLA”). Hitler disse (cit. in Raul Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa): “Non è il caso di avere pietà per delle persone destinate a morire”. Parafrasando: “Non è possibile aver dubbi circa un’idea destinata ad imporsi”. Le dittature, che sono terribilmente ingenue, generano verità autoctiche in gran copia. “Il partito – aveva scritto Stalin fin dal ’24, con involontaria ironia – è necessario al proletariato per conquistare e mantenere la dittatura”. Lo rilevò Nikita Chruščёv al XX congresso del PCUS (febbraio 1956): “Fu Stalin a formulare il concetto di ‘nemico del popolo’. Questo termine rese automaticamente inutile il fornire la prova degli errori ideologici dell’uomo o degli uomini impegnati in una controversia; questo termine rese possibile l’uso della repressione più crudele, violando tutte le norme della legalità rivoluzionaria, contro chiunque fosse in qualche modo in disaccordo con Stalin, contro chi fosse anche solo sospetto di intenzioni ostili, contro chi avesse una cattiva reputazione. Il concetto di ‘nemico del popolo’ eliminava di fatto la possibilità di qualsivoglia lotta ideologica o di qualunque presa di posizione su questo o quel problema, persino di carattere pratico.” Ipocritamente il segretario del PCUS ignorava che gran parte dell’apparato ideologico su cui si reggevano il regime e la dominazione sovietica era autoctico, più o meno come l’etichetta di ‘nemico del popolo’. Mao, papale come sempre, aveva proclamato nel 1940 [Sulla nuova democrazia]: “Diverso da ogni altra ideologia e da ogni altro sistema sociale, il comunismo è il più perfetto, il più progredito, il più rivoluzionario e il più razionale sistema di tutta la storia dell'uomo.” Ma non dobbiamo illuderci, non è questione di cattiva coscienza. “C’è mai stato un dominio, si chiedeva John Stuart Mill, che non apparisse naturale a chi lo esercitava?” La sedicenza ideotica o, si può dire, supponenza (sub pono, ‘colloco alla base’) non è un’aberrazione peculiare dei tiranni. Essa è ubiqua e, ad esempio, nelle due immagini sotto riportate, la si ritrova tanto a destra come a sinistra. La differenza sta in questo, che la sedicenza/supponenza essendo congrua all’effetto di sé, diventa nefasta nelle dittature. Esse aggravano l’immediata pericolosità dell’autoctisi perché se ne servono per scopi liberticidi. Ciò non toglie che l’autoctisi possa persino dirsi atto tipico di ogni riflettere – atto primo di un organo che ha il pensiero in potenza. Si chiama sapere ciò – qualsiasi cosa sia – che colma un vuoto cognitivo-affettivo (o pretende evacuare un pieno: “L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi” ). Scrive il Cusano: “L’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza, ricercata da tutti i filosofi, ma da nessuno scoperta nella sua realtà in sé” [De docta ignorantia, I-3]. Un’ignoranza, vien di dire, un po’ troppo docta, se comunque dà per assodato che nelle cose siano allogate pure essenze, negli enti verità, e che la realtà s’annidi imperscrutabilmente in se stessa. Non troppo differentemente Baudrillard, sostituito l’attrattore (l’invasivo universo della comunicazione, invece del pervasivo Comunicatore dell’Universo): “E se la realtà, sotto i nostri occhi, si dissolvesse? Non nel nulla, ma nel più reale del reale (il trionfo dei simulacri)? Se l’universo moderno della comunicazione, dell’ipercomunicazione, ci avesse sprofondato, non nell’insensato, ma in un’enorme saturazione di senso, che si consuma del suo successo – senza gioco, senza segreto, senza distanza? […] Se non ci fossero più fratture, linee di fuga e rotture, ma una superficie piena e continua, senza profondità, ininterrotta? E se tutto questo non fosse entusiasmante, né sconfortante, ma fatale?” [L’altro visto da Sé, Genova, 1992, pp.60-61]. Dei maestri del Novecento diversi – Gadamer e Foucault, tra gli altri – hanno fittamente riflettuto sulla conformità delle cose. Su come tutto ciò di cui in qualche senso diciamo che è derivi il suo apparir essere dallo stare dentro qualcos’altro nei cui ristretti spazi è stato confezionato, per ridurre al minimo l’ingombro. Come lo spedizioniere, così l’ideazione in genere aborrisce i fuori-sagoma e li elimina. Mentre il bambino predilige immaginare il suo giocattolo occupare una gran varietà di spazi della stanza e della fantasia, lo getta nella propria storia e con ciò lo fa vivere, il magazziniere ama la conformità dell’oggetto alla scatola e di questa allo scaffale. Ma il bambino vede bene: il che cos’è delle cose si manifesta soprattutto nel loro scomodo ingombro, nell’attrito col resto del mondo. Costretta negli spazi angusti della confezione, la cosa non è più quel che potrebbe essere, finché non venga liberata (reinterpretata dis-ordinata de-costruita ri-edita e simili). Da quelle posizioni magistrali, divenute intanto vulgata, questo libro che pur le ha assimilate si distacca. Non ritengo infatti che la circolarità originaria sia da imputare alla società, che predisporrebbe l’ordine del discorso, o ai pre-giudizi della tradizione, che condizionerebbero l’interpretazione dandole comunque con ciò la sola opportunità d’essere in qualche modo vera. Credo infatti (e spero provarlo) l’autoctisi una condizione assolutamente ineludibile del vivere umano. Ad essa siamo legati come individui società civiltà. In nessun modo è dato sottrarsi. Non esiste possibilità, per una forma di vita intelligente, di svincolarsi del tutto dai lacci della contemplazione, per quanto sottili brillanti profonde siano le riflessioni di cui si rende capace. L’intellettuale è sempre dentro, mai sopra, sempre durante, mai dopo. Hegel ammise questa condizione, la acquisì, ma non la accettò. Scommise anzi sulla realtà del rovesciamento. Perciò fu costretto a confinare il porre intellettuale in una sub-dimensione della razionalità, ovvero a porre una razionalità ulteriore. Rilanciò in tal modo la metafisica sul piano dell’immanenza. Finì per costringere l’idea (la realtà, lo spirito, la storia) in una confezione così soffocante che si vide l’intera intellighenzia europea dopo di lui precipitarsi a liberarla. L’intelligenza è la convivente dell’esistere e di questa sua condizione irregolare deve trarre tutte le conseguenze, per quanto fastidiose sgradevoli avvilenti possano sembrarle. Questa è la vera passio philosophica, scoprire gli spazi di libertà del sapere perlustrando le contrazioni che drasticamente li riducono. Non bastano né l’ironico io-so-che-nessun-sa socratico, né il prospettivismo più radicale; bisogna che il percorso a ritroso dalla pre-assunzione del che è giunga alla sua destituzione nel che è & che non è. E bisogna giungervi senza misconoscere le suggestioni storiche del pensiero interpretante identificante argomentante esplicante, la cosiddetta conoscenza, la quale qualcosa pur è benché a questo punto non sappiamo bene cosa. Torniamo dunque all’augure antico. La sua posizione, dicevamo, è sovraesposta. Artefice del suo sapere, egli percepisce, non sappiamo quanto lucidamente, l’impasse tecnica. Il meccanismo non ha punto d’appoggio: per divinare deve indovinare il dove e il quando. Deve porre condizioni a quella rivelazione che non si è ancora manifestata. Alla premonizione-oggetto da cui trarrà l’auspicio egli è costretto a far precedere una pre-premonizione circa la collocazione di ciò che non è ancora apparso. Nutro il sospetto (non solo io, l’inglese dice “to laugh like the augurs behind the altars”) che se lo sia detto, ma l’abbia prudentemente taciuto, perché con l’esporre agli astanti la nuda sedicenza dell’oracolo avrebbe messo in scena la macchina che muoveva il dio. Era a rischio la sua figura e probabilmente la sua incolumità. La giustificazione mistica offriva diverse scappatoie. L’augure preferì imboccare l’una o l’altra di queste e divenne genitore di tutte le filo-sofie, incluse quelle che si reputeranno indenni dal Mistico. La scappatoia più nota è il ritiro (montagna o deserto) durante il quale avviene il contatto con il Che è, la fonte dell’Essere, e quindi della Verità, dell’Avvenire e del Destino. Oltre a ciò, o in alternativa, un’investitura personale dall’alto accredita il proto-intellettuale come profeta. Come intellettuale dovrebbe confessare d’esser lui il costruttore dei significati e delle connesse norme, ammettendo la soggettività della scelta proprio là dove più tesa è la richiesta collettiva di oggettività. Eracle a modo suo si mostra filo-sofo, quando per ripulire le stalle di Augia cambia corso ai fiumi Alfeo e Peneo: il testo del problema si risolve stravolgendo il contesto; la sesta fatica pare un’allegoria dell’autoctisi disvelata. Nell’incomoda posizione dell’augure al proto-intellettuale toccherebbe decidere il quadro della manifestazione del segno e quindi in qualche modo scoprirsi manipolatore del messaggio. Come profeta o messia non è più lui che parla, ma tramite lui si esprime Chi lo manda. Paradossalmente quindi la sua scappatoia consiste nel de-intellettualizzarsi, nel rinunciare al pensiero in prima persona, alla personalità singolare dell’intelligenza, per poter rispondere a chi gli domanda: – Chi te lo dice? – Non sono io, ma qualcuno più grande di me! La domanda stessa sollecita apertamente quella annunciazione rinunciante. La domanda è, come spesso accade, incline a ricevere quella risposta. La attende. Il chi te lo dice? implica che possa ed anzi debba esservi un’autorità superiore da cui origina la risposta. A questo proposito va osservato che la genesi del dio comunicativo (come, per fare un nome, il Dio di Abramo) a partire da un precedente imperscrutabile e fatato ordine naturale (o celeste o infero) è collegata alla scelta rinunciataria. Si può ben dire che se l’intellettuale non osa esporre nude le sue carni e le nasconde sotto il manto del profeta, allora ciò in nome di cui egli parla non può più essere un mero ordo rerum, un confuso ápeiron o caos primigenio, una cieca Fortuna, un divenire naturale, bensì un Dio-Persona, che tutto sa e in qualche modo ci parla, dunque un Logos o Verbum. Perché la carne diventi verbo occorre che il verbo si faccia carne. Contemporaneamente e senza contraddizione resta percorribile l’iter opposto, sociologico: nasce un popolo e per la sua coesione esso si dà un Nume tutelare, un Dio proprietario (patrono padrone padre) che gli parla e lo guida e gli fornisce di che sapere. Variante politica: nasce un potere e per ottenere sottomissione s’ammanta d’investiture trascendenti, dal mitico re Codro a Hirohito e ai Patti lateranensi. A proposito, può venire in mente di contrapporre (oppure comporre o porre in parallelo) i due itinera: la descrizione sociologica (o una sua emula: politica, psicologica, antropologica) a quella gnoseogenetica che stiamo qui perlustrando. Contrapporle come fossero letture, ossia posizioni interpretative, sassi che gettati nello stagno generano ciascuno il proprio orizzonte di onde. Questo accomodamento però non mi convince. Ritengo infatti possibile mostrare (dimostrarlo non lo è e il perché lo vedremo) come la descrizione gnoseogenetica preceda e precondizioni ogni altra comprensione. Per ciò stesso, per il fatto che com-prende ogni possibile situazione, non costituisce spiegazione, non afferra niente. E non afferrando niente è rimasta negletta, impercorsa. Anzi rifuggita, in quanto non offre all’intelligenza esplicante un approdo, ma ne segnala la deriva storica, l’inconsistenza ideologica. Meglio, segnala all’intelligenza – la quale necessariamente punta alla fondazione forte o debole, immanente o trascendente ecc., pur che sia, o della propria stessa fondatezza o di qualcos’altro (un mondo, un oltremondo, un metodo, un linguaggio) che includa la propria credibilità o un succedaneo di essa – che ogni suo sforzo sarà vano. Sarà vano peraltro anche lo sforzo opposto, teso alla dimostrazione o spiegazione o comprensione dell’infondatezza e di ogni grado intermedio tra i due estremi scettico e dogmatico. L’intelligenza insomma arretra di fronte all’evidenza offuscante che l’autoctisi intride ogni suo ipotizzabile comprendere, irride alle sue minute astuzie e la confina nella precarietà intellettuale di quella prassi che, entro i limiti specifici, solo l’esperienza imbevuta di vita sa guidare (il meglio-almomento del da-sapere congiunto al meglio-sul-momento del da-agire). Tutto questo è gnoseogeneticamente prevedibile. Ma potrà mai l’intelligenza esplicante farsi da parte? Certamente lo può, dal momento che tutta quell’altra intelligenza che si spende nel sapere-agire non si prefigge alcuna ecdotica (dell’essere, dell’esistere, del mondo, del dovere ecc.) ma vuol solo, per così dire, comportarsi al meglio. Tuttavia la dismissione dell’intelligenza esplicante è impensabile perché l’uomo è faber, animale tecnico. Egli sa costruire miriadi di ambienti artificiali nei quali, come ben sappiamo, le esplicazioni valgono incontestabilmente (l’apparato motore muove l’automobile). In quei contesti l’intelligenza logico-metodica che punta alla spiegazione ha una funzione, benché limitata, inappuntabile: descrivere i rapporti (ad esempio meccanici o statistici) che intercorrono tra le parti. Tali ambienti sono creati per funzionare in un certo modo, costruirli coincide col materializzare la loro spiegazione. Rispetto al gioco degli scacchi, la scacchiera 8x8 e i vari pezzi previsti sono perfettamente referenziali. Non meraviglierà che in relazione ad essi l’intelligenza esplicante si dimostri esauriente. Perché stupirsi del fatto che un bicchiere contenga del liquido visto che è fatto per? Ma l’e.u. non è né uno strumento né un gioco. O lo si in-clude in un ambiente artificiale e così facendo lo si com-prende, cioè lo si costringe entro certi parametri privandolo di quella libertà che di gran lunga preferiamo lasciargli, o resta in buona parte fuori quindi inesplicabile. L’augure diviene dunque profeta. Oppure filosofo. L’atto contemplativo obbliga a decidere un locus (quando e dentro cosa osservare, da dove partire). Se non oso attribuire il locus del pensato al mio stesso atto pensante, aracne che secerne da sé la tela su cui poi si colloca per afferrare il mondo (prospettiva poco confortante: sarà afferrato soltanto ciò che potrà incappare ed esser trattenuto in siffatta trappola); se altresì non intendo rinunciare del tutto alla facoltà di comprendere col porla fuori di me e fuori del mondo, nel seno di un dio oscuro, uno ineffabile, abissale maestà imperscrutabile, sono allora costretto a stabilire – adducendo una qualche ragione – un fondamento o principio di conoscenza. Circa la ragione però vale quanto sopra detto della convenzione ⊇ : treno. Il termine ratio indica confronto nesso comparazione e simili. Non può pertanto far altro che giungere per passi a darsi un principio, senza mai poterlo contornare se non vuole farlo apparire per quel che è, un artefatto. D’altronde se lo potesse abbracciare non sarebbe più un principio. Qui incontriamo la genesi dell’ideotica. Si è soliti ritenere che la linearità (ad es. nella concezione della storia) sia un’acquisizione concettuale moderna, evoluzione laica del peregrinare cristiano, e che gli antichi prediligessero visioni cicliche, mondi replicanti, metempsicosi, ricorsi di varia invenzione. Ma se si guarda non tanto alle diverse ideazioni risultanti, quanto piuttosto alla strategia ideativa che permea l’intero corpus dottrinario occidentale e orientale, pulsando in ogni progetto teso al sapĕre aude, si nota che fin dalle origini la filosofia attende alla rottura del circolo o, ciò che è lo stesso, al suo inserimento in una più comprensiva logica sequenziale tramite cui sia consentito asserire giudicare predicare, evitando almeno in apparenza l’odiosa autoctisi. Evitando cioè di confessarla non di sottostarle, poiché questo come s’è detto non è concesso. Il segreto in quest’arte è lo stesso scoperto dal profeta: muovere da un’origine esterna/eterna, da un caput primum impenetrabile, arché che l’intelligenza esplicante appena lambisce. A quest’ultima resta, in ruolo subalterno, il compito suo proprio: dedurre indurre abdurre supporre ecc., tutto questo sì, ma in presenza di princìpi. Grazie a quella fondazione potrà procedere in sicurezza, con deduzioni logiche, sensate esperienze, o anche seduzioni retoriche o scettiche: tutto insomma l’armamentario retoideotico, più o meno persuasivo, più o meno ‘scientifico’. Questo diventa legittimo proprio perché l’autoriferimento sembra finalmente aggirato. Certo, se a fissare un qualsiasi principio basta l’intelligenza determinante, a cogliere il principio primo è appositamente convocata l’intuizione intellettuale, la quale si presenta come non compos sui, carente di padronanza dei suoi stessi processi e strumenti. Nell’intuizione infatti la comprensione accade, per presupposto, in assenza di spiegazione. Per evitare di confessare l’autoctisi dell’atto contemplativo l’intelligenza identificante ha necessità di porre un logos o un eidos nel profondo di sé e/o fuori di sé, nel mondo, o addirittura per maggior sicurezza in un altro mondo, dove non sia concesso indagare. Ciò getta luce sull’epocale ritorno della filosofia alla teologia, circa venti secoli fa, con le gnosi il neopitagorismo il neoplatonismo – se mai l’aveva lasciata. Vedremo fra poco qualche caso riferito sia all’antica età dominata dal che è, sia all’epoca moderna dell’io penso, sia alla recente stagione tutta presa dal ciò significa. Già s’intuisce però una conseguenza di quanto detto: la disputa tra doxa ed episteme (tra esperienza e ragione, induzione e deduzione) si rivela infine secondaria, in quanto preceduta dalla presa di posizione primaria (una vera im-posizione) per la linearità, piuttosto che per la circolarità. Erotica [↑] Dicevamo che il contemplare – abito dell’intelligenza che circoscrive al fine di categorizzare ipotizzare interrogare ecc. – è consentito solo grazie all’autoctisi, alla pre-determinazione di un templum o locus, al confinamento della risposta nel terrario della domanda. Abbiamo ipotizzato nell’augure come nelle figure a lui simili (sciamano aruspice pontefice ecc.) una qualche consapevolezza della sua corresponsabilità nella generazione del senso. Ciò nella supposizione che la prossimità in lui ancora stretta tra la richiesta pressante di una risposta da dare coram populo, la produzione di propria mano del gesto generatore e la sempre precaria soddisfazione della genuina domanda di scienza lo inducessero a riflettere, in assenza di alti castelli teologici, sulle dubbie cambiali del suo sapere. Certo è comunque che nelle più diverse culture le varie figure pontificali hanno nascosto l’autoctisi dietro numerosi veli, come il sudario della consacrazione personale (il celebrante è in contatto con la fonte sovrumana del senso delle cose) o il sipario della sacralità dei gesti e dei testi (il sacrificio e la parola rituale riflettono l’ordine del mondo al punto di condizionarlo). Ritualizzando congiuntamente persona e atto il pontifex si risparmia la corresponsabilità della generazione del significato, pur mantenendo più o meno salda nelle sue mani l’autorità che gli compete per esserne il tramite. Nell’India vedica (cfr. Mahānārāyana Up.), il samnyasin è l’asceta che pur rinunciando al mondano (l’illusorio) conserva tra le pratiche di rito il nutrirsi delle sacre offerte, giacché nell’atto stesso di consumare il suo pasto giornaliero egli compirebbe un’oblazione al suo soffio vitale in cui coinciderebbe lo spirito universale. Cibandosi egli sacrifica al proprio (divino) fuoco interiore. Come santa copula tra compiuta individualità (ātman) e perfetta totalità (brahman), egli sa di ambrosia, nutrimento degli dèi; pertanto ogni sua cena sustanzia il divino e comporta ipso facto un consustanziarsi in esso. Quanto al sapiente-competente di tradizione greca (σοφός), in età arcaica si differenzia ben poco ancora dal mago e dal vate, ma in seguito viene identificandosi con la capacità di districare e stabilire da sé, speculativamente, l’ordine delle cose e il connesso mondo delle parole. Eccezione eroica, il sapiente delle origini gode però di un’autorità attribuita alla sua persona, più che in base a un confronto di idee e costruzioni teoretiche. Conta piuttosto il risultato della sua azione sapiente (per Solone, ad es., la legislazione posta in essere). Lentamente intanto cresce la convinzione che sia possibile ragionando dimostrare la rispondenza tra giustezza della parola (logos) e giustizia o verità cosmica (Logos). Viene così modellandosi parallelamente la figura del filosofo come la conosciamo. Da questi c’è da attendersi scarsa consapevolezza residua dell’atto autoctico che vizia ogni contemplazione e origina ogni idea. Infatti se combatte i ritualismi mitico-magici della religione fondando il sapere (o il sapere di non sapere), evidentemente egli non ha colta la contraddizione radicale e originaria in cui versa ogni essere e quindi ogni pensare e dire. La filosofia sorse quando a qualcuno parve possibile in qualche misura stabilire un vedere autonomo e un ordine del discorso al riparo dalle oscurità oracolari, un dire che stesse su da sé, a cui la ragione bastasse, senza ricorso a dubbie garanzie ad essa estranee. Ci fu chi si domandò da quale principio avesse origine l’armonia del mondo e in tale questione intese racchiudere la più logica e rispondente delle domande. Quale fu la risposta? Furono molte, quali non ha molta importanza. Qualsiasi risposta poté sembrare, in quanto rispondente, rivelatrice. Il mito della filosofia è il disvelamento (e λήθεια): ciò ch’è sorto come rispondente viene prima occultato onde essere poi disvelato. Le risposte hanno cambiato, per vie lente e traverse, i destini della scienza, ma non della filosofia. Quest’ultima, nata come colei che può rispondere, si è lasciata pre-scrivere le domande obbedendo a urgenze storiche (il dominio, il mercato) o psicologiche (il timore, l’onore, la meraviglia) non genuinamente sue. La favola della responsabilità, su cui riposano la didattica e la retorica della disciplina, è da rivedere. La filosofia è una forma controintuitiva di evasione: arte di escogitare precisamente quelle domande a cui sia dato rispondere come desiderato. L’atto contemplativo secerne enti eventi categorie processi mondi intenzioni volizioni. Per una fenomenologia della contemplazione non c’è spazio in questo libro; mille pagine non basterebbero e neppure mille libri, perché ogni atto contemplativo è singolare e aspecifico. Puoi mostrare una flora locale di contemplazioni, ma non puoi trarne una botanica esaustiva. Se lo cataloghiamo lo trattiamo come se fosse non l’atto predisponente, ma uno dei suoi risultati, uno dei qualcosa che esso produce col previo pre-disporre loro intorno un contesto, un’accoglienza. Nostro compito qui ed ora è proseguire nel tentativo di mostrare – quasiché tutta questa parte formasse un’unica deissi – con quali effetti le singole contemplazioni si aggregano in più vasti conglomerati. Le cose, che nell’adoperarsi quotidiano dell’intelligenza son prodotte a miriadi, se lasciate a se stesse finirebbero per collidere e distruggersi reciprocamente in un turbinio di contraddizioni insolubili. Intorno alle singole contemplazioni l’intelletto dispone pertanto un recinto di permissione, una staccionata, un chiuso ovile o talvolta usando maggior flessibilità sguinzaglia a badarle un border collie che le raduna al bisogno entro l’orizzonte del pascolo. L’atto contemplativo in sé è libero rispetto alla cosa prodotta, visto che la predetermina. Rispetto però agli altri atti di quel tipo non può isolarsi. La mente si prefigge di vedere non nebbie ma panorami. Produce appunto orizzonti visioni mondi. È come se l’augure inscrivesse tutti i suoi loci in un locus maximus e tutti i suoi gesti raccogliesse sotto un’unica obbligata gestione. L’ultima risultante è quindi qualcosa di prestabilito dall’insieme degli atti contemplativi e questi sono a loro volta generati entro i confini di un certo tempio o mondo ideale. Ci serve allora un termine per indicare questo confinamento. Nell’alto medioevo banno (o bano) è il signore del luogo, il referente e legiferario locale. Esercita la sua autorità a discrezione. Circoscrive a sé il territorio dicendolo suo e lo incastella. Da lui dipende chi è ivi amico o nemico. Com’egli infierisce, tale è la giustizia; com’egli condona, tale è la pietà; com’egli guarda, tale è il mondo, perché è lui che per tutto decreta il che cos’è e il come dev’essere. L’uomo è bano del suo mondo, il suo mondo è banale. Vi domina una sorta di economia curtense in base a cui il raccolto si consuma, il seme si spaglia, l’attrezzo è messo a punto e debitamente adoperato e riparato. La banalità di un mondo è il risultato della configurazione pre-imposta all’insieme delle contemplazioni che lo generano. L’uomo è creatore. Egli non può semplicemente osservare. Le mere osservazioni in se stesse non hanno senso, come non ha senso in sé la sonorità dell’arpa eolica. Ma quel creare necessario non può sfuggire al banale. La stessa razionalità concretante di cui l’e.u. si vanta s’inscrive tutta nella banalità predisponente. La sua concretezza è prigioniera di un astratto: nessun vero è tale se non in merito alla verità (“nec ullum verum nisi veritate verum est”, dice Agostino [De vera religione, §73]). Ma la verità è banale. Una razionalità banale offre una verità sedicente e questa non può non bastare perché per ipotesi, in quel suo ambiente su misura, niente può smentirla. La signoria di banno fu tipica dell’età altomedievale. Perché ricorrere a una metafora tratta da un evo così distante da noi, caratterizzato dalla più stagnante delle economie, dalla più frazionata delle compagini? Perché dire che l’universo umano è banale, quando con oliata e classica allusione potrei dire (e denoterei la stessa cosa solo connotandola diversamente) che eros lo percorre e lo fa tendere? Effettivamente si tratta di punti di vista. Chi nell’e.u. vede incarnata l’estrema e più alta spinta erotica, quel sublime desiderio che anela a placarsi afferrando noeticamente l’oggetto d’amore, sembra suggestionato ad oltranza da quel ch’è il lato soggettivo o psicoattivo della costruzione del mondo. In tale prospettiva il mondo è ciò che ci manca, l’intero con cui aneliamo reintegrarci, l’orbe dentro cui ci piacerebbe gravitare. L’amante, eroe capace di eros e pieno d’ardore, è attratto da qualsiasi cosa nel cui ventre senta l’urgenza di spingersi per sedare il proprio empito e spegnersi. Questa cosa desiderabile non può ridursi al razionale, poiché nel mero razionale non v’è niente da desiderare. Dunque qualsiasi cosa sia se è suscitatrice d’eros essa travalica l’intellezione sfuggendo al suo controllo. Diviene motore immobile e inconsapevole di emotività, tal quale una Venere di marmo o una Vergine di gesso su cui esteti e oranti fissano lo sguardo, appagati da ciò di cui caso per caso si compiacciono. L’erotica tipica del dio del Genesi – per cui esso si palesa modellato a immagine dell’uomo – appare nella riflessione conclusiva di autocompiacimento: “Viditque Deus cuncta, quae fecit, et ecce erant valde bona”[Liber Genesis I,31]. La banalità non è una colpa dell’intelletto ma una sua impellenza. Di essa non c’è dunque chi possa, dall’alto stallo di una saggezza ulteriore, accusare altrui. Tutti banalizziamo (o erotizziamo) perché questo è il risultato primo, perdurante e (forse, vedremo) ultimo di ogni pensare. Se c’è tra i due termini una differenza che merita sottolineatura è questa: il banale intorpidisce, mentre l’eros notoriamente urge. Ciò comporta una notevole diversità di comportamento tra chi assonnato nel suo banale rivolve lentamente, assuefatto a quell’ordine che reputa vigente, e chi assetato di eros vorrebbe volare verso mondi sempre più lontani con la speranza di trovarvi la fonte inesauribile di tutte le soddisfazioni. Ma al di là di questo? Mondi reciprocamente ipovedenti sorgono a ogni passo, al fondo però la genetica è la medesima: l’intelligenza deve pur darsi un ordine – comprensivo esplicativo interrogativo – per orizzontarsi nell’agire. Data l’infinita disponibilità di senso e di combinazioni di sensi, l’ordine prescelto, nonostante l’esibizione di principi logiche metodi imperativi ecc., non sarà portatore che di una razionalità tra tante. Vale a dire che quell’ordine tra tanti è scelto a piacere (quando va bene), altrimenti è imposto. Ora, il piacimento è soddisfazione soggettiva: ci si compiace di un ordine ed ecco nascere un mondo. Anche nell’approccio ideo-erotico il possesso è abbraccio banale che prende circonda stringe. La banalità più ottusa si compiace illimitatamente della sua confinatezza, come un travet perfettamente appagato nei suoi ronds-de-cuir. Eros invece pare allontanarsi dalla banalità per rispondere a bisogni d’intelligenza ben più arditi; ma presto il desiderio s’impunta su agglomerati di appercezioni o di sensi per costituirli come integrità desiderabili. L’intelligenza è spronata a possederle, il possesso compiaciuto le rende intelligibili. Agostino ha visto bene: l’intelligo ut credam non può far senza il credo ut intelligam. Eros è quindi inflazionario: genera un cosmo per ospitare il proprio abbraccio. Ma potrebbe forse confessare a se stesso questo narcisismo, questa deprimente partenogenesi? Insaziabile, egli cerca l’altro da sé, l’amato. Drammatica impasse: se l’amante è una costruzione di eros, non può certo mancare al suo abbraccio, ma l’intelletto dovrà contentarsi di baciare il suo riflesso, stringere la propria ombra. Se al contrario l’oggetto del desiderio è un quid di in sé vero o di in sé bello, l’ombra prende corpo tanto quanto le braccia perdono presa. Come fare? Sedare l’amore? Ricadere dunque nella banalità inerte. Riconoscere l’in sé della cosa? Non sarà più afferrabile e il desiderio si tramuterà in sofferenza, l’infelicità abbisognerà di una sua coscienza, questa di appagamenti, questi di miti… Il catalogo delle invenzioni che gli ee.uu. hanno messo a punto per districarsi da tale alternativa impossibile ricorda quello celeberrimo di Leporello. Una gonnella vale l’altra, purché la brama sia soddisfatta, l’oggetto (Zerlina) nella sua ignota alterità sia negato, e la sua immagine predata dalla mente offra diletto e riscontro alla pulsione generativocostitutiva. Figli dell’amor di sé e della paura, prole di menti assetate, i puri mondi intellegibili nascono da stupri mascherati. Ideotica [↑] Dunque ideare è obliare. Scordare che ogni atto della mente origina nel e dal banale. All’autoctisi che, contemplata a sua volta, ritorcendosi contro se stessa imbarazzerebbe il pensare e paralizzerebbe il creare, sostituire un mondo vero – qualsiasi, purché risulti vero o sappia di vero. Tale è il passo falso di cui Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli accusò Platone (“Io, Platone, sono la verità”). Il quale si decise a compierlo in un lasso di tempo, a quanto pare, molto breve, tra Carmide e Convivio. Un mondo dicesi vero quando, agli occhi di chi lo dà per tale, 1. asseconda l’intenzione e 2. soddisfa il desiderio; inoltre 3. l’autoctisi (l’intenzione e il desiderio hanno essi stessi generato quel mondo ‘vero’) è mascherata e 4. la consapevolezza della mascheratura soppressa. Delitto perfetto: fatto compiuto, tracce sparite. È di grande interesse osservare come nell’elenco dei requisiti per la costituzione di un mondo vero non sia strettamente necessario inserire la logicità. Ciò può sembrare paradossale e perfino errato, patentemente contraddittorio: un mondo vero non è forse un mondo passato al vaglio della ragione? Idealmente è proprio così. Ma appunto è così idealmente, poiché nel concepire sia la domanda sia la risposta ci si confina entro i termini di un dato schema formale, di una certa configurazione a cui si riconosce validità. Dunque quel che conta è la direzione prescelta, cioè l’intenzione spesa, se irriflessa o consapevole non importa. Quando non eccediamo in ingenuità, di quest’ultima non ci sfugge che precede la formulazione della risposta e della domanda, pre-orientandole entrambe verso una data soluzione. Più esattamente, è possibile rendersi conto di come si dia sempre, sotto l’interesse esplicito, una tensione condizionante, una parenklisis che anticipa e indirizza il moto psichico e la lettura delle cose. Se così non fosse non saremmo operativi. Un pensare del tutto scevro d’intenzione ha spessore nullo: la stessa meraviglia, che Aristotele colloca all’origine della ricerca come la più ingenua e genuina delle disposizioni intellettuali, non si presenta certo vuota di intenzioni. L’unità la molteplicità la natura lo spirito l’infimo l’immenso la vita la morte la libertà la legge l’universale il singolare l’occhio la mano… che cosa non è mirabile? I mondi veri sono insomma mondi pre-concetti, mondi ad hoc. Un mondo ad hoc è pieno di sé ed autosufficiente, una sorta di canone o modo musicale. È sempre vero, va sempre bene e funziona senza problemi purché siano riconosciute le norme che in esso regolamentano i sensi degli eventi e degli sviluppi. Un mondo ad hoc è o una soluzione onnicomprensiva che taglia fuori tutte le altre o, nel caso migliore, un ambiente predisposto ad accogliere preferibilmente una certa gamma di soluzioni, quelle desiderate e preventivate. Se per razionalità intendiamo non il calcolo, più o meno consapevole, dei mezzi in rapporto ai fini del progetto o del desiderio, cosa che non può mancare qualunque sia il mondo, ma la riflessione circa la validità di un certo agire in rapporto alla libertà del fine, ebbene di quest’ultima razionalità un mondo ad hoc può benissimo far senza. Essenziale resta quel che si dice la soluzione del caso, o che i conti tornino. La causa finale di una prospettiva sul mondo, il suo essere ideata in funzione della risposta da dare, il suo esser costruita così com’è, configura un mondo ad hoc. Mondi ad hoc possono dirsi le cause finali delle nostre “versioni del mondo” (la locuzione è di Nelson Goodman [in Ways of Worldmaking, 1978 - ISBN 0915144-51-4.]). Mondo ad hoc sarà altresì la causa finale di un’interpretazione nostra riguardante visioni altrui o idee ricevute. Spesso invero per giungere alla soluzione gradita ci serviamo di prodotti d’altri, elaborati in ambienti consentanei o estranei, vicini o esotici. Quel che conta è che il prodotto, fatto in casa o acquistato o regalatoci, sappia comunicare un senso di risposta, cioè a dire sappia colmare la coppa del desiderio, sappia terminare la domanda chiudendo il cerchio della soddisfazione del bisogno ideotico. Jane Austen colse precisamente questo quando scrisse: “A un giovane ricco e celibe deve mancare (“must be in want of”) una moglie”. Avremmo qui un perfetto caso di razionalità sociale, se la quarta clausola per un mondo vero (la soppressione della consapevolezza) non fosse sconfitta dall’ironia. La variante intellettuale dice: “A una mente sana e vigorosa deve mancare una teoresi” – un’epigrafe per tutti i sistemi. Mme de Staël, nelle Considerazioni sui principali avvenimenti della Rivoluzione francese, descritta la psiche arci- e archi-egoica del generale Bonaparte, confinata per intero nella propria autocitazione (“non è soltanto un uomo ma un sistema e s’egli avesse ragione la specie umana non sarebbe più ciò che Iddio l’ha fatta”), finisce col dire di lui qualcosa che vale per l’ideotica in genere, in quanto concetto di un certo tipico affossamento dell’umano: “Bisogna esaminarlo dunque come un grande problema, la cui soluzione interessa il pensiero di tutti i secoli.” Il raggio o reach di certi mondi adibiti può estendersi all’infinito e coincidere con l’intero arco d’esistenza del singolo o della collettività o di intere epoche e lunghi evi culturali. Di altri può ridursi a pochi ångstrom ed aver vita brevissima. Tanto ridotta che esiterei a usare un termine così ampio qual è ‘mondo’, se non servisse perfettamente a sottolineare il fatto, paradossale ma logico, che ogni ad hoc, grande o piccolo, genera una sua totalità. Si osservi il contro-caso seguente, ch’è davvero minimale: (Ctr+() Molto probabilmente a colpo d’occhio la cosa ha generato un sentimento misto di completezza e incompletezza. “Ctr+()” è apparso completo; mancante invece la quarta “)”. Come se, tenuto conto di come vanno le cose in questi casi, l’intero previsto non potesse che presentarsi così: (Ctr+()) Infatti non sembra darsi alcun possibile significato nell’aprire una parentesi senza chiuderla, come nel chiuderla senza averla aperta. Lo stesso vale per altri segni binati, come le virgolette. Di ciò che è costituito duplice (pantaloni forbici narici) l’uno è un falso intero, il tre (la terza gamba, il trinariciuto) una completezza triviale. Come lanciare un’interrogazione a metà frase («Dove ¿vai?»). Interrogativa o no può infatti esser solo l’intera proposizione. Sono possibili errori, ma non sono previste eccezioni, perché appunto v’è un certo stato di cose, un mondo, fissato in precedenza, relativamente al quale il dato acquista interpretabilità. Altrimenti cadrebbe fuori di quel suo mondo, dato come unico possibile contesto. Analogamente, per dar significato a una sequenza di tasti pigiati bisogna riferirsi, ben al di là della tastiera, a un codice, ovvero a un’intelligenza prescrittiva. Per una tastiera QWERTY tutte le sequenze di lettere sono equivalenti, mentre una lingua ne ammette solo alcune. Per interpretare una singola parentesi aperta occorre uscire dall’attribuzione prestabilita, forzare il micromondo che regola l’appercezione del parentetico o abbandonarlo del tutto. Alcune possibilità: trasporre un accento comico nella grafica del racconto ( «La marchesa scese lamentandosi “Che donna impossibile, rimuginava Concetta» dove le due donne pensano lo stesso l’una dell’altra: la prima sfogandosi ad alta voce contro la cameriera, la seconda lagnandosi in cuor suo della padrona); la tematizzazione dell’infrazione alla regola, come nel caso che (Ctr+() fosse inventato a questo scopo; altre implicature di senso dovute a giochi di sospensione traslazione trasgressione ecc. O può essere, infine, che il segno di parentesi aperta (tra le due aperta e chiusa) sia preso in prestito per qualcos’altro, in particolare come etichetta del tasto, senza l’annesso valore, una sorta di suppositio materialis trasposta. In tal caso equivarrebbe formalmente a (Ctr+]), o a (Ctr++) ecc. In effetti (Ctr+() si trova nella guida al sistema di scrittura Microsoft Office®Word 2003 come alternativa al clic del mouse, suggerita tra parentesi, per visualizzare in un testo i segni diacritici (a capo, paragrafo, spazio, sillabazione opzionale ecc.). A causa della norma concorrenziale che regola l’interpretazione più comune del medesimo segno ‘(’, ci si mette un po’ per uscire da quel contesto dov’essa non aveva significato. Intuitivamente basta un attimo, purché sia colto il nuovo contesto. Fatto ciò, (Ctr+()) sembrerà più incongruo di (Ctr+(). Se però non avessimo trovato, ampliando lo sguardo, una spiegazione bastante a cambiare mondo, come ci saremmo regolati? Le alternative non sono poi tante: supporre una svista, un errore materiale, e lasciar perdere; considerare l’evento irrilevante e il soffermarvisi uno spreco di tempo; indagare più a fondo per pignoleria o per dovere d’ufficio o per una nobile causa; immaginare che un significato vi sia, ma recondito magico malefico. In ogni caso, com’è evidente, si ricade in un altro mondo ad hoc: anche ipotizzare un errore costituisce attribuzione di significato, dato che viene implicata la conferma di ciò che per contrapposto si ritiene non erroneo. Insomma, non c’è verso di sfuggire alla costruzione di mondi. La sola differenza sta nell’essere talora il pensiero incline a rifluire nei mondi noti (consentire), talaltra propenso a liberarsene (dissentire) per accostarne di nuovi che ritiene più rispondenti. Consenso e dissenso servono allo stesso scopo: coniugare la mente al mondo e il mondo alla mente. Stando così le cose, che ne è della verità? Una sua autonomia è da escludersi, non avendosi mente senza mondo e in qualsiasi mondo essendo il risultare ad hoc quel che conferisce valore di verità. Conta che, congruente o meno, un mondo risponda alle esigenze per cui è sorto intercontestualizzando tutto quel che si porta dentro. In quanto rispondenza la verità è un utensile, ma a che lavora l’officina? Quel che sto proponendo è di distinguere gli opposti estremi di un discontinuum imprescindibile: da un lato ciò che è dato come dato, e lo è al punto che si presenta all’atto pratico come semplicemente vero, benché si tratti di una datità non originaria e di una semplicità solo apparente. Chiamo significato questo estremo, a cui si contrappone ciò di cui al momento non è ben chiaro se e come si dia, ciò che è in questione, ciò che nell’evento viene interrogato. Questo altro estremo si presenta come senso. In ogni occasione significato e senso risultano irrinunciabili, né mai può darsi l’uno senza che l’altro interferisca. Tuttavia, ben lungi dall’essere due facce della stessa medaglia, si può dire che l’uno neghi l’altro tentando di assorbirlo, non potendo sopprimerlo. Infatti il pieno significato si avrebbe soltanto con l’abolizione del senso (la Natura è perfettamente significativa perché manca del tutto di senso), così come l’infinita pienezza del senso si avrebbe solo qualora fossero discussi tutti i significati o, ciò che è lo stesso, tutti fossero ammessi (la Biblioteca di Babele). È uno dei motivi paralleli di questo scritto. Immagino il semiologo inalberarsi alla mia innocente descrizione del caso (Ctr+(), che per lui è una semplice menzione non segnalata. La sua disciplina ha messo a punto una quantità di attrezzi con cui è possibile smontare e descrivere qualsivoglia complessità semiotica… e io di queste delicate apparecchiature sto facendo un uso hobbistico! Ebbene, per ciò che riguarda il significare gli do ragione, non ho quasi niente da dire. Il senso – ciò su cui m’interrogo – è però altra cosa e di esso, se non erro, la semiologia ha da dir poco: il senso non dipende dal segno, anche se può certamente esser posta caso per caso e mantenersi – per qualche attimo o per un lasso di tempo anche lungo – una qualche correlazione intenzionale tra i due. Ciò però prevede che vi sia chi la pone (impone propone predispone), chi la intende (fraintende pretende), un codice di intesa, tempi e contesti operativi, convenzioni di validità, ma soprattutto una rete di interessi valori scopi, insomma un mondo d’essere-in-relazione, col suo proprio orizzonte tra i tanti altri, separati contigui intersecantesi… Concordo dunque su quanto sia diventato easy, con gli strumenti dell’indagine semiotica, illustrare le tecniche che sottostanno alla produzione codificazione trasmissione traduzione e ricezione dei segni. Pur restando tecnicamente difficile escindere il significato dal senso (questione che già in Frege appariva arduo risolvere, benché il suo significato di senso fosse assai più ristretto del nostro), il semiologo ne ha perlustrato in lungo e in largo l’intero dominio. Ma quando anche fosse possibile condurre in porto l’intera navigazione dalla materialità del segno alla complessità inesauribile del significato, non saremmo giunti che alla prima spiaggia del senso. Benché generi da sé e per sé le sue certezze, l’atto contemplativo si costruisce su un dispositivo naturale come la messa a fuoco per l’occhio. L’orecchio non mette a fuoco, e la discriminazione del rumore dai suoni che destano interesse spetta interamente al cervello, cioè all’attenzione. L’apparato uditivo maschera il processo intenzionale (l’udire e il sentire sembrano fondersi l’uno nell’altro); lo sguardo per vedere deve invece fisicamente appuntarsi e ciò richiede un atto preliminare di tipo contemplativo: se l’occhio vede, chi guarda è la mente. Tuttavia il sistema naturale occhio-cervello sa bene che l’appercezione si costruisce soltanto prendendo e lasciando, spostando di continuo il fuoco, altrimenti il mondo di fronte si ferma, diventa vitreo, troppo vero, cioè falso. Una falsità estremamente pericolosa perché mette a rischio la vita. L’essere vivente (il grillo, il gatto) non può non sapere che il mondo è in movimento e che va quindi appercepito mutevole. Ne va della sua vita. In lui fisiologia istinto psicologia sono fatti per affrontare all’istante le variabili ambientali, entro la gamma di condizioni ecosistemiche note alla specie. L’e.u. ha ereditato il buon sapere agire animale, perlustrativo adattativo suspiciente. Nel quotidiano – se non l’affardellano pressanti ipoteche ideotiche – il pensare spontaneo si comporta alla stregua dell’occhio; si sposta con movimenti saccadici di fuoco in fuoco, ben sapendo che nessuna singola nitidezza, presa a sé, distingue la totalità della scena. Il tutt’uno risulta piuttosto dall’integrazione continuamente rinnovata di focalizzazione e spostamento. Ciò non ovvia alla difficoltà di fondo, al contrario la illustra: il vero non si dà mai se non provvisoriamente. È sempre un vero-per-ilmomento. Ma mentre l’animale alla mobile incostanza del che è & che non è fa corrispondere (entro le condizioni interessanti la specie) la momentaneità del suo peculiare sapere, l’e.u. costruisce una miriade di conoscenze che tendono a durare, a determinare il che è delle cose, dato che la speciazione l’ha condotto a far di ogni aspetto un interrogativo, di ogni sospetto un’ipotesi, di ogni rappresentazione un idolo (εe δωλον), lasciandolo pertanto sospeso tra due abissi: da una parte l’infinità degli asseribili, dall’altra la controvertibilità di ogni lettura. Il pensiero amerebbe le solidità confortevoli (i conforti della fede, la consolazione della filosofia, le certezze della scienza ecc.), mentre il vivere e il pensare naturali impongono una provvisorietà affatto incomoda. Alla nascita l’uomo è razionale in potenza. Per Aristotele le razionalità potenziali sono tre, una delle quali è la teoretica. L’entelechia umana tende a perseguire nel teoretico una forma di razionalità sua propria ed unitaria. Venti secoli dopo la razionalità moderna (cartesiana, spinoziana, lockeana, humeana, kantiana, hegeliana, schopenhaueriana ecc.) è ancora unica e una. E la ragione contemporanea? Per quanto sia descritta come instabile, un sapere ulteriore su cui poggiarla o a cui riferirla di rado è negato. Anzi, quante più s’affollano razionalità-oggetto, tanto più è ricercato ed esaltato lo sfondo unificatore, la meta-razionalità critica, erede dell’antica sophrosyne (‘sanità di mente’). In riferimento ad essa si disegnano, p.es., le etiche desistenti (del consentire, del riconoscere, del cogliersi nel e con l’Altro). Ancora una volta le idealità di cui si sente acuto il bisogno nel qui e ora della storia si materializzano al solo invocarle. La tenuta della ragione è sempre sospetta, per solito nasconde un utilizzo: dato che per un certo pensare consistente occorre una ragione indivisa, allora la ragione deve essere una; ma la nostra ragione è una, ergo il nostro pensare è solido. Questo interessato malinteso è prodotto da una razionalità che di esso ha bisogno per giustificarsi. Alla base di tale auto-autorizzazione v’è l’inganno dell’identità posta a principio e del principio posto come rispondenza logico-epistemologica tra mente e mondo. Nel vivo segreto del vivere l’identità esistenziale e fenomenica è sempre approssimativa, l’uguale e il diverso s’intersecano confondendosi a ogni passo. La ragione, a cui preme d’esser astrattamente una, non sopportando di abitare un io penso così precario, sussume le pro-identità esistenziali nell’identità logica, della quale si può fare un ben più saldo principio primo. Il passo successivo e inverso consiste nel considerare la fondazione su princìpi (la sistematicità euclidea, assiomatico-deduttiva, o una sua mascheratura induttivistica) come scientifica. Così il mondo perduto dei fenomeni ricompare consolidato come sapere dato. In altre parole, l’intelligenza pone tra i princìpi che la fondano quell’identità che, se non l’erigi a principio, sembra sempre prossima a perdersi. Ma la razionalità profonda, antropologica, com’è davvero? Può veramente essere una? V’è un profondo anche nell’intelligibilità delle cose, l’accesso al quale le culture, per i loro scopi (definire assodare sistemare se medesime), hanno spesso attivamente contribuito ad ostruire. Con mondi ad hoc (o mondi adibiti) non alludo dunque a fabbricazioni colpevoli o furbesche. Intendo anzi qualcosa che tutti frequentiamo e ci tocca da vicino. La varietà dei mondi è inesauribile, ne incontriamo ogni giorno di nuovi. Alcuni stanno in una mano. Narratori registi drammaturghi ecc. sono spesso attratti da questi ultimi appunto perché paiono universi conclusi, attraenti come nature morte o quadretti di genere: totalità in sé compiute, ma così circoscritte che l’autore e il lettore trovano come ricrearle nello spazio di un film, un atto unico, un racconto. I grandi creatori sentono il bisogno di trascendere l’apparente compiutezza delle loro opere, che sentono giustamente anche come finitezza, e producono instancabilmente, come volessero moltiplicare i mondi fino a esaurire l’ordine (o modernamente il disordine) delle cose umane. Le civiltà stesse producono mondi ad hoc di straordinaria complessità, affreschi a milioni di mani, scenografie così vaste che non solo non si sa come rappresentarle ma neppure è dato accorgersi di cadervi. Si finisce per abitarli come fossero il che è delle cose. Ma pur ammettendo nutazioni e precessioni, i mondi ad hoc ruotano intorno a un asse. Molti raffinati costrutti della tradizione filosofica – che so, quello (marx-engelsiano in origine) a cui ci si riferisce comunemente col termine ideologia – sono divenuti in seguito assi di rotazione di mondi adibiti. Sorgono come tentativi di disserrare le impalcature culturali, di mostrare criticamente come queste condizionino la libertà dei concetti e degli atti; tuttavia essi per asseverare quel che sostengono devono illuderci con la possibilità di una ragione liberata, allo stato puro, esente da costrizioni, grazie alla quale appunto sia consentito vedere più in là, oltre l’orizzonte. Non v’è critica della ragione che non cerchi d’ancorarsi a una razionalità ulteriore. Ma oltre l’orizzonte compare un altro orizzonte. L’occhio della mente che non s’avvede d’averlo tracciato lo crede dato, dato di fatto, benché consista nella curva imperfetta collegante idealmente i punti estremi del suo stesso vedere da lì dov’è. L’ingenuità però è una condizione a rischio, come la felicità del giovane Siddharta. Basta gettare lo sguardo oltre il muro, o la siepe, per scoprire la cruda negazione di tutto ciò in cui crediamo. Data una qualsiasi realtà limitata, presto anche l’intelligenza più esitante si sentirà libera solo oltrepassando quel limite. L’orizzonte più sereno diventa allora un’irta recinzione che ci separa dall’esterno, cioè dal vero, doloroso che sia. Tale è la condizione umana. Ma si offre una via d’uscita: voltare le spalle alle lontananze imperscrutabili dentro cui lo spirito si perde e fabbricare un qualsiasi reclusorio da cui sentirsi (e poter dire d’esser) fuori. Di qui l’illusione del superamento, i surrogati del Vero – moderno (la Ragione), post-moderno (il Dialogo) e post-postmoderno (l’Ironia) – che mantengono tuttora viva l’illusione di cogliere una sorta, quale che sia, di Intero. I mondi in cui ci muoviamo sono invece invariabilmente ad hoc: la loro pre-disposizione a colmare un certo vuoto e ad esaudire un dato desiderio dipende semplicemente dall’averli noi costruiti a quello scopo. Poiché il reale si mostra, nell’abisso dell’apparenza, straordinariamente molteplice, ben più di quanto la mente sia in grado di fronteggiare, i mondi ad hoc si trovano spesso in conflitto tra loro e incompatibili. Nondimeno l’e.u. è fiducioso: egli inclina a sanare in qualche modo i conflitti, nell’ipotesi di raggiungere il mondo vero. Esso gratificherà, fatte le debite concessioni, il sommo Eros che, come abbiam detto, consiste nella massima soddisfazione possibile della più ampia gamma di desideri. L’assunto marxiano, che condivido, secondo cui i desideri o bisogni risultano storicamente determinati, grosso modo, dalla distribuzione del potere tra le classi sociali, non riguarda la fisiologia dell’essere, bensì la sintomatologia del malessere. Le armi della critica dovrebbero anzitutto combattere la falsa coscienza di una teoresi che, erroneamente convinta del suo capacitarsi del fisiologico, crede di saper operare sul patologico. Se a qualcosa deve adoperarsi il filosofo, quest’è non solo smontare gl’inganni altrui o rifuggire dall’ingannare, ma disarmare chi si provasse a montarne di nuovi. Tale è il suo compito storico e attuale. Il sapere di cui la filosofia si vuole strumento dev’essere per principio non illusorio. Come ricorda Schelling all’inizio del Sistema (1800), il sapere o è vero o non è sapere. D’altro canto le illusioni hanno bisogno di sophía, perché – anche qui per presupposto – non è vera illusione ciò che non convince a tutti gli effetti. Di aver trascurato questo punto non è responsabile certo il solo Schelling. Il tentativo di liberarsi dalle illusioni (miti apparenze opinioni), che fu già uno dei primissimi obiettivi del pensiero teoretico, ha condotto piuttosto spesso verso altre e non meno fallaci favole. Talvolta, quanto più focosa la ribellione, tanto più dubbia la liberazione. Tant’è che la libertà è rimasta fino ad oggi la fantasia più ingenua della ragione. Nell’illusorio v’è un bisogno estremo di filosofia: di logica dialettica retorica e invero d’ogni convinto sapere. Perché l’illusorio per restare quel che è deve continuare a credere fermamente di non esserlo, sovrastare il dubbio e per quanto possibile neppure porsi il problema. Di qui il suo addossarsi a filosofie robuste. L’illusorio più ardito va in cerca della più acuta razionalità. Ma dal canto suo anche la filosofia ha un’impellente necessità d’illudersi. Non può vedersi velleitaria: costretta entro una sfera di verità di raggio irrisorio si sentirebbe penosamente sconfitta. Perfino Hume resterebbe deluso dall’indeterminazione in cui resta apparentemente insabbiato chi, escludendo tutte le erotiche, tornando all’origine, all’asciutto fonte battesimale della sapienza, si trova a dover rinunciare ogni certezza. Le dimensioni dell’irrisorio sono soggettive. Le certezze humeane, che pur si contavano sulle dita, si son rivelate esse pure falsamente credute (l’io non è un fascio di percezioni; i principi delle matematiche non si sa se siano intuitivi o no). Filosofia e illusione sono tra loro legate in un eccentrico rapporto di coazione a cercarsi. È d’altro canto palese che gli ee.uu. non sono affatto insipienti: sanno cogliere in ogni campo rapporti anche molto complessi tra gli eventi, costruire strutture complesse di cui essi stessi si sorprendono, farsi “legislatori della natura” ecc. L’intelletto sa raffigurare e prefigurare gli accadimenti tramite una straordinaria strumentazione, in passato soprattutto figurativa, ora sempre più computativa. Anche nell’operativo s’insinua però, come nel contemplativo, un’ironia grave, dico il rovesciamento del rapporto tra mezzi e fini, quando gli eventi della vita finiscono per subservire alla strumentazione che li manipola e condiziona. Dopo tutto, nello strumento è fine il mezzo, cioè il fine è il mezzo dello strumento per affermarsi. In ogni occasione del pensare e dell’operare ci si ritrova collocati a una latitudine incognita tra la vibrazione del concetto e la costrizione dell’idea. Il concetto sta all’idea come la webcam alla cartolina: l’idea tenta di concludere qualcosa mentre il concetto vorrebbe continuare a indagare la cosa. Ma che è ciò che può distendersi tra idea e concetto? Non il mero significato. L’incerto eppur decisivo discrimine tra ideale e concettuale non concerne affatto i meri significati. Un’espressione come 3 > 2 è sempre-vera, poiché come sempre-vera è costruita fin da principio; ma questa sua verità artificiale e fattizia, che Hobbes a torto reputava più che bastante, è per ciò stesso invece extra-mondana. Finché non sia impiegata in un qualsiasi modo e mondo essa non può dirsi né ideale né concettuale né di fatto sensata. Nei due casi citati appresso si può cogliere la netta distanza tra senso e significato. A sinistra e a destra tutto (o quasi) ciò che è in mostra suppone per se stesso, come proprio o traslato, e tende ad essere quindi, quanto a ciò, incontrovertibile: da un lato, l’emblema sul frontespizio dei libri pubblicati da Yale University Press di New Haven porta scritto “Yale University Press – New Haven”; i libri editi sono rappresentati dai Libri (Biblia), a cui si riferiscono i caratteri ebraici con cui la Scrittura fu in effetti (si riteneva) redatta; la Rivelazione ivi contenuta è per comune presupposto quanto di più illuminante (LVX) e rispondente (VERITAS); dall’altro, ancor meglio, il quadernone formato A4 dalla copertina monocromatica è denominato per ciò stesso ‘monocromo’; la P cerchiata sta per ‘[Cartiere] P[igna]’ così come il rametto di pino (con pigna) sollevato dall’aquila, simbolo di eccellenza. Anche se l’immediata identità significato-significante-referente non risulta mai totalmente disponibile – per scriverci sopra ‘monocromo’ la monocromia diventa, necessariamente, bicromia (l’oggetto non può mediare compiutamente se stesso senza scivolare in qualcos’altro), ancorché la percezione mantenga presso che vera l’uniformità del colore (rosso, per esempio) e ‘monocromo’ sia in effetti monocromo (ma bianco), – non è difficile vedere come sia dato sulla base di abbinamenti ovvii o convenzionali fissare una qualsiasi significatività forte. Niente impedisce al commesso del reparto cartoleria di dire al responsabile del reparto “Sono finiti i monocromi”, assumendo la scritta come etichetta, come nient’altro che nome. Concesso questo, ci ritroviamo comunque, come dicevamo, al grado zero del senso. Tutto il senso è ancora da sapere: l’acquirente potrebbe trovare astutamente ironico il minimalismo del quaderno, in contrasto con le altre copertine sullo scaffale del market, zeppe di frivolezze fumetti fatine foto ecc., oppure annoiarsi alla monotonia di quell’unica campitura e sospettare mancanza di fantasia dietro una così povera scelta, o anche sentirsi vecchio target riconoscente di questo prodotto pre-frivolo e sorridere di sé. Quanto all’altra figura, si potrebbe considerare veneranda la casa editrice che si fregia di tal secentesco emblema, o ritenerlo vieto e incongruo in rapporto alla laica libertà odierna in fatto di stampa. Si coglie per questa via l’elemento paradossale, l’etere rarefatto dentro cui il pensiero e i suoi prodotti aleggiano limpidi, purché l’e.u. per un attimo li lasci stare e, come dire, se ne astragga. Indubbiamente, dato un qualsiasi significato, l’e.u. lo precede come suo produttore e riproduttore; questa presenza, tuttavia, perché quel significato possa darsi, deve ammutolire, volatilizzarsi come il solvente dilegua perché la vernice aderisca. Invece, finché alla vista del quaderno o dello stemma noi siamo presenti con tutto il (o anche solo un pizzico del) nostro potenziale di senso, nulla è e insieme tutto può essere. Voglio dire – contro Wittgenstein I – che il vero mistico (il fuori dal mondo) è l’analitico. Col suo Doppelgänger tecnologico, l’automatico. In WALL·E (2008) è descritto il non-essere-al-mondo come soddisfacente totalità automatica. Gli ee.uu. in fuga dalla Terra soffocata dai rifiuti trovano il loro habitat ideale su Axiom, nave interstellare ove ogni loro bisogno è accudito da androidi. La miglior vita è garantita, quasi ortaggio in coltura idroponica. “Because the ship is totally automated”, commenta Stanton, ideatore e regista del film, “the inhabitants have lost their need to know anything” [TIME Magazine, July 14, 2008, p.59, corsivo mio]. Invero non sta in ciò l’ultima eclisse della ragione. Sembra infatti piuttosto coerente non voler sapere altro di ciò che perfettamente risponde al bisogno. Se quella porta, lì dov’è e così com’è, rappresenta per me un non-problema, la cosa giusta al posto giusto, che mi serve sapere? L’ideotica si disvela allorché l’automatismo sostituisce non l’esplicare dichiarativo (to know), ma l’aver senso (to imply, to portend). La tensione tra ideale e concettuale, con tutto il peso della sua doppiezza, riflesso del vivere, investe non un mondo dato, ma gl’infiniti mondi i quali sono costituiti di sensi possibili tutti da vedere. La perfezione è nella possibilità. L’assoluto è sempre vero: dandosi solo come atto astratto dall’evenienza, l’assoluto non è che l’epitome del banale. Pensiamo a un tipico quaderno di scuola sovietico. D’aspetto quasi uguale al monocromo Pigna, la scritta di copertina diceva solo ТЕТРАДЬ, quaderno, ma nel 1950 il fondo rosso e la stella non erano innocuamente decorativi e perfino gioiosi come ora appaiono a chi non sa o non ricorda. Sapevano anch’essi di stalinismo. L’umano è relativo assoluto. Resta da comprendere cosa sia, per un essere che è al mondo, un senso e come possa egli salvare il senso del senso in un ambiente stracarico di micro- e macro-assoluti, sotto forma di significati idealizzati. Può l’e.u. affrontare l’ideale-concettuale così come esso si dà, cioè come essere & non-essere? C’è in noi un naturale bisogno di stabilità, di ossatura: di fissare le domande per provvedere con urgenza alle soluzioni. Ma, si noti, in un mondo immutabile, in un Nirvana o Ade o Eden, non c’è bisogno di stabilità, dato che lì essa è già data; nel mondo mutevole dell’esperienza e dell’esistenza terrene quel bisogno è invece cronico, intriso al tempo che permea a sua volta la vita. L’e.u. rincorre l’impossibile durata del sapere e dell’agire, ma nella corsa tutt’al più genera come scintille quelle sue visioni che rispondono alle domande ch’egli sente più urgenti. In tal modo la stabilità viene in apparenza garantita, ma per un effetto autoctico, come l’inflazione cosmica genera lo spazio dentro cui apparentemente essa ha luogo. La successiva proposta dello stesso Wittgenstein, di considerare ogni mondo-visione un gioco a sé, self-contained, ovvero ligio alle proprie norme e quindi autocertificante, imparentato con tutte le altre gioco-visioni, sistemi di regole compensi infrazioni penalità – recepisce un’indicazione che si coglie accennata già in diverse altre posizioni tra Otto- e Novecento e sembra concludere un lungo dibattito durato tre millenni: una filosofia è un mondo adibito, come un biliardo. La partita può essere giocata: palle buche stecche panno si integrano perfettamente, essendo progettati allo scopo. Quando nessun sospetto insorge sulla dirittura della stecca, sulla livellatura del piano, sulla scorrevolezza uniforme del tappeto verde, sulla sfericità immacolata delle biglie, sulla conoscenza e il rispetto delle regole da parte dei giocatori ecc., la partita può svolgersi perfettamente immersa in se stessa. Più ogni aspetto è curato conformemente alle esigenze del gioco, più il giocatore può entrare nel gioco e perfino confluire nel gioco, dimenticandosi di quanto artificio quell’ambiente necessiti per sembrare così naturale, di quanta cura e quante pre-disposizioni quel mondo esiga per risultare così ad hoc. Tale essendo il paragone, la filosofia tocca con mano il fondo della propria pseudo-necessità, e può quindi terminare. In quanto fabbrica di giochi a sé, è stata protagonista di una fase storica del pensare, di una tradizione la cui nobiltà, come tutte le nobiltà, è destinata a declinare con il progressivo esaurirsi della sua funzione. Quando la storia universale era blando nesso o addirittura accozzo di molte storie di fatto distinte, e nel sentire di chi ne viveva ancor più nettamente distanti, la funzione primaria della filosofia era religiosa: rappresentare le ragioni dell’adesione e della differenza, della comunanza e dell’avversione. Di qui il suo paradossale ruolo fondativo, la sua intima premura profetica, la sua corsa a quell’assurdo che è l’idea ossia il concetto assoluto. Ora quella funzione, su una Terra ch’è diventata il tutt’uno di tutti, sussiste solo come reazione ovvero rigurgito frazionistico. Abbiamo osservato che, tra i due estremi dell’approssimazione concettuale e dell’afferramento ideale, tutt’al più è concesso congetturare, nel qui e ora, la collocazione di un accadere. Spessissimo si coglie e sembra darsi in effetti qualche costanza tra parole e cose, ma a ben vedere vi è implicato solo questo o quel fenomeno tra gl’innumerevoli che concorrono al momento di vita, fenomeno riguardante il che è per me, così come lo contemplo in uno dei miei mondi adibiti. In alcuni di questi posso giacere immerso dall’infanzia senza rendermene conto, oppure sentirmici dentro da un certo momento in poi, vedermici con rassegnazione distacco disgusto o con orgoglio soddisfazione, viverci insomma ideoticamente. O considerarli invece flash esistenziali e citazioni di vita: non alla maniera dell’esteta decadente, ma allo scopo di tenermi alla larga dall’ideotico, puntando all’accortezza e rinunciando a quella facile deframmentazione dell’esperienza grazie a cui sa rendersi così seducente l’ideotico. Questo – abbiamo detto – afferisce primamente non al sociologico, bensì allo gnoseogenetico. Assimilazione e adattamento, queste due predisposizioni, in ambienti naturali stabili su tempi lunghi concrescono intrecciati. Onde ad es. la vita del corallo prolifera, se indisturbata, sulla barriera corallina, cioè sulle concrezioni formate da corallo morto che concorrono a formare l’ambiente ideale su cui la barriera vive. Questo vale anche per gli ee.uu., ma non ne costituisce il tratto caratteristico, che sta invece nel non poter giacere ingenuamente come l’animale dentro un mondo naturale proprio e stabile, bensì nel costruire mondi adibiti all’esaudimento del volere, grevi/lievi di artefatti e artifici, dove nondimeno, proprio per quella facilità di costruire, l’assimilazione e l’adattamento sono sempre in forse: sapere e non sapere, solidità e mancamento, soluzione e studio, tecnica e fantasia, conservazione e rivoluzione, desolazione e speranza. Tale inarrestabile che è & che non è, che le ideotiche cercano di arginare, è implicato – ben al di là del raggio di afferramento di ciascuna di quelle – in ogni caso del vivere. Ne sono esenti soltanto, appunto, i mondi ad hoc, cioè le soluzioni predisposte e tutte le tecniche, ma soltanto in apparenza, finché ci s’accontenta dei loro costrutti e ci si assoggetta alle loro prescrizioni. Se però consideriamo l’insieme sterminato e indefinitamente aperto di tutti gli eventi o casi del vivere non disponiamo evidentemente (e fortunatamente) né di una ideotica né di una tecnica in grado di assoggettarli e rinchiuderli in un unico ad hoc. Non di un’ideotica, perché tutte le costruzioni intellettuali finora hanno avuto impatto esclusivamente locale e quindi, col relativizzarsi delle esperienze e delle visioni connesso al crollo delle barriere storiche, hanno perso la loro forza consolatoria; non di una tecnica, perché le tecniche (allo scopo di funzionare) già nascono come soluzioni circoscritte. Così almeno è stato finora. Il timore più grande è che, in mancanza di una nuova cultura dell’universale libera dal bisogno di idiotismi autogratificanti, possa imporsi una nuova e stavolta globale ideotica pseudo-universale, perdipiù sorretta da una tecnotica in apparenza liberatoria, di fatto irreggimentante l’umanità intera. Non vorremmo che il futuro riservasse agli umani, come ai prussiani del XVIII secolo, il destino di vivere in una caserma globale. Ora, per venire infine al punto che qui interessa, su che basi potrà mai costruirsi una nuova cultura dell’universale? Come evitare di ricadere ancora una volta in autoctisi illusorie? In fondo tutte le passate dottrine, che oggi paiono autoconsolazioni localizzate in un determinato spazio-tempo socio-culturale, si sono credute universali. Come garantirci dal ricadere in un’illusione che sembra così difficile da perdere? Senza dire che lo stesso nostro porci a questa indagine parrà agli occhi di psicologi, sociologi, semiologi, cognitivisti, storicisti ecc. un modo estremo e terminale dell’illusione ideotica! La sfida insomma presenta rischi che vanno affrontati immediatamente. Infatti le dottrine localmente solutorio-consolatorie erravano non nel loro concludere, che era per solito molto serrato e convincente, ma nel loro cominciamento, nell’individuazione dei principi primi. Non ci si accorgeva che questi erano pre-visti dal bisogno di soluzione oppure, in età romantica per esempio, addirittura si sosteneva dovessero esserlo, come proiezione dell’eros-ethos dell’Io. E invece la sola universalità reale, poiché di fantastiche se ne fabbricano a piacere, è quella che si presenta in ogni caso, ossia si dà in tutti gli eventi senza eccezione, senza differenze dovute a ciò che è transiente (occasione epoca cultura società strutture tecniche ideologie psicologie esperienze abitudini ecc.). Inoltre non sarebbe universalità reale se di quell’evento trascurasse o mancasse di comprendere qualcosa, fosse anche solo un aspetto minore, un dettaglio minimo. L’universale reale non può permettersi di considerare alcunché come accidentale; deve anzi ospitare ogni evento senza pre-attribuirgli questo o quel grado valore pertinenza, addirittura senza conoscerlo. Dovrà accogliere pertanto anche tutte le rappresentazioni e le spiegazioni, tutte le opinioni e ogni presunto ente o essente, intero o frammentario, vero o falso. Vedo quindi una sola possibilità per proseguire: (in termini popperiani) dichiarare come congetturo questo universale reale in modo che sia falsificabile sulla base di un qualsivoglia evento, vissuto non importa come da non importa chi, e lasciare la congettura in balìa di ogni tipo di critica, per vedere se riesce non solo a sopravvivere integra, ma a valere in ogni caso. Una sola confutazione la stroncherebbe. Se dunque, proseguendo su questa linea, mi chiedo cosa non manca mai alla formazione di un qualsiasi evento, trovo che devo anzitutto dichiarare cosa comporterebbe nel concetto di evento quell’esser qualsiasi e con ciò non escludere, nel pro-determinarlo, nessuna delle determinazioni precedenti che nella storia del vivere umano rappresentano il capitale accumulato. L’evento qualsiasi non potrebbe configurarsi come un questo o un così, né come illustrazione o caso, tantomeno come spiegazione più o meno soddisfacente. E tuttavia dovrebbe darsi in concomitanza con ogni questo e così, condizionare ogni esperienza e accadimento pur senza potersi dire un qualcosa. Infatti un qualcosa, nel suo costituirsi, è subito di più di un esser qualsiasi. In più ha il suo concreto darsi, di cui l’esser qualsiasi non dispone e proprio per questo non può né accadere né essere, bensì solo può, per così dire, precipitare l’evento e in esso dileguare; mentre se lo si porta in primo piano e lo si addita, inevitabilmente lo si qualcosizza dequalsiasizzandolo. Ciò premesso dico che nella costruzione di un qualsivoglia evento concorrono – nella ipotesi su cui lavoreremo – tre dimensioni, le quali non possono mai darsi se non in quel comune concorrere. Di esse non possiamo né dobbiamo dire cosa siano (entificarle), ma solo cosa comportano al momento di combinarsi insieme nell’evento. Sarà l’evento a configurarle e a dar loro quell’apparenza che assumeranno sul momento. La prima dimensione potremmo dirla tentativamente (poiché il nostro stesso dire nell’eventuarsi le comporta tutte tre) dell’insorgere (o risaltare o comparire o imporsi) di un che. Questa insorgenza, perché l’evento si dia, dev’essere riconosciuta, attrarre un decidere, un accorgersene, un considerare, un reagire e rapportarsi ad essa, un intenzionarla, un volere o uno sperare che sia o non sia. Tra insorgere e decidere si dà pertanto una relazione, per la quale serve un riferire, un esprimere, un’intermediazione simbolica che la rappresenti. Il concreto si darà dunque non prima che la concomitanza di insorgere, decidere e riferire abbia generato l’evento. Questa immancabile trilateralità dell’evenienza comporta una relativizzazione originaria dell’esperienza d’essere che possiamo considerare il paradossale assoluto di ogni modalità di coscienza. Il senso dell’essere al mondo si forma a partire dall’intreccio tra 1. tutto ciò che si fa luce, nel momento di vita, come un esser per sé; 2. tutto ciò che si erge, nel momento di vita, come un esser in sé; 3. tutto ciò che si presta, nel momento di vita, ad esser per altro. Può apparire di primo acchito piuttosto semplice distinguere in un determinato evento i suoi tre lati. Questo foglio posato sul tavolo sembra insorgere da sé per la sua bianchezza; ma quella bianchezza si sta dando come evento solo in quanto vi reagisco e ne prendo nota, la formulo in simboli e interpretandola ne dispongo. O meglio ne dispone quell’atto di vita tramite cui anch’io sono qui e ora al mondo. Diversamente nulla accade, la bianchezza stessa scompare in un reticolo di lunghezze d’onda e anche queste si confondono in un flusso di materia/energia, nell’essere & non-essere del tutto (o nulla). Quell’apparente semplicità dipende dal fatto che la nostra mente primitiva s’è addestrata per evoluzione a distinguere anzitutto quello che l’organismo poteva aggredire o desiderare o doveva fuggire come un che di esterno a lui, come qualcosa che si presentava ai cinque sensi con una sua naturale leggibilità (fiutabilità gustabilità visibilità ecc.); mentre ciò che avvertiva come impulso, istinto e col tempo come consapevolezza pareva un che di contrapposto, di interno e di proprio. Quanto al necessario tramite comunicativo-simbolico (odori sapori colori ecc.) esso sembrava tanto più scomparire quanto più efficace e diretto ne era il rappresentare. Ma dopo l’accelerazione culturale degli ultimi diecimila anni le cose per gli ee.uu. stanno ormai ben diversamente. L’ insorgere|decidere|riferire di cui parliamo può ben riguardare non la bianchezza, ma la sua scurità rispetto ad altre più nivee bianchezze, o il mio lasciarmene distrarre, o il mio pensarla come traducibile in valori RGB, o il mio valutarla come possibile esempio per questo paragrafo. Nondimeno, poiché questa infinita diversificabilità del presentarsi non è dominabile, potendo qualsiasi cosa sempre sfociare in qualcos’altro, viene di gran lunga più facile e anzi impellente schematizzare. Così ci si può indurre a considerare come aspetti dell’insorgere tutti quelli che nell’evento si danno come accadimenti inintenzionali, stati o moti di cose non dipendenti da stati o moti di coscienza, non attribuiti a scelte o volontà, non fatti risalire a propositi progetti finalità, responsabilità meriti colpe ecc. Di qui è normale passare a costituire (entificare) un mondo a se stante fatto di materia elementi accadimenti, un universo naturale retto da leggi, una fisica delle cause e degli effetti e via dicendo. Analogamente per il decidere (metafisicizzato in un qualche mondo dello spirito o dell’autocoscienza) e il riferire (arginato in una sua preordinata doverosità logica o dialettica o retorica). All’estremo della semplificazione confinatrice si ottengono dal lato dell’insorgere la cosiddetta realtà o oggettività; dal lato del decidere il pensiero o soggettività; dal lato del riferire, il logos o medium. Abbiamo così di fronte due possibilità entrambe straordinariamente impegnative: o la ricostruzione daccapo di un originario che eviti l’autoctisi consolatoria e comprenda in germe tutte le possibilità dell’eventuarsi; o il ripercorrimento dell’intera storia della consolazione filosofica (per tacere di ogni altra tipologia di soluzione) per mostrare come, pur non avendo mai compreso l’intero nella sua nuda verità non-risolutiva, lo abbia esplorato senza poterne mai uscire, proprio perché l’instabile triassialità di insorgere|decidere|riferire è costitutiva di ogni possibile eventuarsi. Ma impegnative è dir poco. Né l’una né l’altra via potrebbe mai esser percorsa in un libro. Cosa possiamo fare qui? Al massimo, direi, simulare un’escursione durante la quale imbattersi in differenti eventi e, accontentandoci di un linguaggio necessariamente invalido a causa di ciò per cui le parole già stanno (e non vorremmo) e quello per cui vorremmo stessero (ma a fatica stanno), esplorare più approfonditamente quanto abbiamo ipotizzato. E proprio perché non avremmo parole, se non come s’è visto piuttosto elucubrate e fuori dalla storia, per esprimerci riguardo quanto di più storico c’è, ossia il mondo della vita, ritengo preferibile adoperare, per indicare i suddetti lati dell’eventuarsi, un paio di vecchi termini ormai generici che, messi a riposo dopo lunga diatriba storica, son diventati semplici memento di inclinazioni ideotiche passate e precisamente per questo smascherano – meglio di altri più recenti e meno usurati – l’idiogenesi che determina l’apparenza dei mondi. Diremo quindi soggettivo (S) l’aspetto del decidere, quello dell’insorgere oggettivo (O). Quanto al riferire verrebbe fatto di usare, come da tradizione, logico. Ma poiché gli ultimi decenni ci hanno già imposto un vistoso slittamento dal logico al mediatico, ne approfittiamo e adottiamo come terzo termine mediante (M). Gli eventi e i mondi umani sono dunque, in questa nostra prima ipotesi, in un modo o nell’altro, eventi e mondi prodotti da combinazioni SOM; l’indagine da fare riguarda come si formano, dispongono e regolano. La tripolarità SOM [↑] Nell’essere umano e fra gli ee.uu. le evenienze scaturenti dalle combinazioni di insorgere|decidere| riferire sono naturalmente instabili: distinguibili caratterizzabili rapportabili rappresentabili, per l’essere che ne vive, in innumerevoli modi e moduli. Egli ha però facoltà di fermare il flusso del che è & che non è, di individuarvi quantità qualità relazioni, oggetti intenzioni azioni, agenti e pazienti, somiglianze contiguità causazioni, segni simboli significati sensi ecc. cosicché nella riflessione il dato esistenziale tende a presentarglisi orientato secondo l’uno o l’altro dei tre assi: l’asse S dell’io sento; l’asse O del ciò è (o non è); l’asse M del questo vuol dire. L’assialità soggettiva, ad es., nella storia del pensiero interviene in maniera preponderante a formare le idee di anima, cogito, demiurgo, io, coscienza, inconscio, mente, ragione, spirito, persona, famiglia, popolo, amico, nemico ecc.; la oggettiva sostiene idee come ente, fatto, dato, natura, libido, significante, sostanza, legge, scienza; la polarità mediante sorregge, tra tante altre, le idee di logos, verbo, scrittura, messaggio, parola, segno, sogno, testo, significato, intesa, comunicazione, lezione, interpretazione. Di fatto, fuori dai contesti dottrinari non v’è né termine né concetto a cui nell’uso (cioè in un evento) non sia dato assumere su di sé una qualsiasi delle tre polarità. Ciò mobilizza l’evenienza permettendo le più radicali trasformazioni. Allorché invece la mobile contemperanza di insorgere|decidere|riferire si scompensa fino all’egemonia di una polarità sulle rimanenti, l’in-umanità è in agguato sotto forma o di sopraffazione tecnica o di fissazione ideotica. Ciascuna delle tre assialità, soggettiva oggettiva mediante, ammette diversi gradi di insistenza, ma sempre in presenza delle altre due. Il loro distinto costituirsi in un evento risalta grazie al reciproco darsi trilaterale. Alcune considerazioni al riguardo. L’asse soggettivo si manifesta al grado più basso come percezione: dolore e piacere, bisogno e sazietà. Al più alto come libertà, intesa nel teoretico come ragione autocritica, nel pratico come donazione di sé. Ma postulare la libertà come essenza pura della soggettità sarebbe ideotico. È possibile costruire mondi ad hoc nei quali al soggetto sia rivendicata la più smodata autodeterminazione; in altri mondi tuttavia si considera quella libertà inessenziale o addirittura un impedimento alla piena valorizzazione del sé. La storia ha conosciuto una pletora di libertà oggettivate (alienate) fino al sacrificio coatto dei soggetti che le proclamavano. Il concetto non-consolatorio di soggetto che vogliamo costruire dovrà riconoscere le soggettità implicate in tutti i mondi possibili. D’altronde, un soggetto illimitatamente inflazionario finisce per fagocitare se medesimo, perché alla figura stessa della soggettità inerisce il rapportarsi con l’altro da sé. In solitudine il sé non può che consumar se stesso come fosse altro. Plausibile esito evolutivo di un qualsiasi percorso verso la coscienza e la libertà sembra tutt’al più una ragione critica dubbiosa di sé, una donazione di sé meditata, una libertà condizionata. Certo è che la libertà è una percezione introspettiva (in termini kantiani necessita di una ratio cognoscendi). Tanto più essa è quanto più si fa sentire e si riempie di sensi. Ma lo stesso vale per riconoscimento e umiliazione, virtù e vizio, beatitudine e sconforto, voglia di vivere e paura di morire (o viceversa). La soggettità è pertanto configurabile sulla base dei gradi di senso che essa stessa si dà o dà per dati o si vede riconosciuti. Non è perciò incompatibile con la soggettità il sentirsi pienamente libera nella più rigida delle servitù. Tutto dipende dalle condizioni di vita nelle quali essa versa e a cui soggiace nel manifestarsi. È bello immaginare che l’autocoscienza del servitore dialetticamente superi quella del padrone, ma spesso il servitore si riconosce nel suo servire. L’eunuco si sente realizzato nell’harem dove la sua menomazione trova l’unica possibile ragion d’essere e quindi una certa dignità. Analogamente il border collie esplica al massimo grado la sua individualità facendosi recinto invisibile e mobile intorno al gregge. Egli è tanto poco libero quanto lo sono le pecore: prone a terra esse obbediscono al proprio ventre, il cane al pastore e all’istinto di condurle, ma il custodirle esalta la sua individualità, il suo esser fuori dal gregge. L’eunuco tuttavia come essere umano può invertire il senso (soggettivo) del suo (oggettivo) esser-così, odiare la sua condizione e detestarsi in quanto ingranaggio di un sistema: se non esistessero harem, non vi sarebbero eunuchi; se l’istituzione dell’harem dà ora un senso alla sua condizione, resta che per servirsi di lui e con ciò assegnargli un senso essa lo ha privato di molti altri possibili sensi. Per non soffrire conviene anche a lui, come a tutti, sentirsi non quel che poteva essere ma quel che è diventato. Così il terrorista può uccidere perché nelle sue vittime non vede più persone vive, ma ingranaggi di un sistema, bersagli della lotta armata. Per rivendicare la sua libertà ha bisogno di eliminare chi gliela riduce. Tale assializzazione furiosa però gli si ritorce contro trasformandolo da rivoluzionario in criminale. Morire come Prospero Gallinari, uno degli assassini di Aldo Moro, 35 anni dopo il delitto, senza aver ammesso la necessità di questo rovesciamento, nonostante tutta la dialettica marxista-leninista di cui si è nutrito, ci conferma l’incredibile tenuta della assializzazione SOM in cui un’ideotica può irretirci. In generale una forte identità S, che in un modo o nell’altro faccia guadagnar senso a chi quell’S sente di impersonare, genera un profilo SOMario che, avvertito come coerente, tende a imporsi come l’unico accettabile, come una visione del mondo irrinunciabile. Hitler stesso fu anch’egli vittima dell’assolutizzazione identitaria, la sua violenza genocida effetto di un senso assurdamente imperativo dell’io, individuale e collettivo. L’identità del III Reich, come quella dell’impero azteco, era vincolata a una liturgia espiatoria di purificazione. In un primo tempo il futuro Führer si era servito degli ebrei per proclamarsi, in contrapposizione ad essi, ariano e quindi puro, puro e quindi ariano. Quella dipendenza, conquistato il potere, lo tormentava. Il delirio di onnipotenza gli imponeva di sentirsi puro ariano senza di loro, ego absolutus. La soluzione finale sembrava promettere, con l’annichilimento del nemico ideale, una libertà sconfinata all’idea di popolo tedesco che egli coltivava (e molti altri con lui). Non vide che il temerario über alles e lo stesso Führerprinzip facevano di lui una soggettità assoggettata, costretta a rendersi a sua volta schiava, in quanto vincolo e ceppo di ogni altra soggettità, amica e nemica, castigo di ogni senso illecito. Lo stesso sarebbe valso ben presto per il popolo tedesco nel micidiale confronto con gli altri popoli di cui pretendeva la sottomissione al proprio supremo volere. L’illecito, infatti, quando non si misura in base a una legge condivisa, ma insorge come affronto a una volontà, non è più un atto compiuto su cui emettere un giudizio calcolato, di colpevolezza o innocenza, ma un’intenzione contrapposta, un ostacolo, un’ostilità inammissibile (il nemico di Schmitt), un contro-senso personificato che costringe la volontà a sterminarlo perché appunto non sia e non osi più essere. La libertà assoluta, o volontà di volontà, tradisce il soggetto che pensa ingenuamente di attribuirsela e abbrutitolo l’abbandona a se stesso, nel suo bunker. Ugualmente può dirsi di tutti gli altri assoluti, dai più esaltanti ai più deprimenti, di cui la soggettità ama paludarsi. Della virtù incorrotta, per esempio, venerata dagli incorruttibili. Con la sua integrità oltranzista e tetragona Robespierre inconsapevolmente riconobbe ai timorosi e tiepidi Convenzionali che lo eliminarono, e proprio perché seppero eliminarlo, il merito storico di essere più liberi e in questo più virtuosi di lui. Più liberi di sondare l’umore della Repubblica, di identificarsi col mutare degli equilibri e degli interessi di parte, di soppesare le parole e contenere la retorica. Robespierre non sopravvisse al suo ultimo discorso, al peso che ebbero le sue perifrasi, a come il suo messaggio prese corpo e divenne quasi universalmente minaccioso, rivoltandoglisi contro, trasformando lui stesso, l’Incorruttibile, in una minaccia per la Repubblica. Ma anche intesa più riflessivamente come cogito o fallor, la soggettità auto-assolutizzante va incontro ad immediate ritorsioni. Per sua natura infatti il pensare non potendo replicare pari pari il che è delle cose (altrimenti genererebbe non le husserliane cose stesse, ma addirittura le kantiane cose in sé) lo ricostruisce. Lo rifà coi suoi mezzi. Così l’oggettità a cui S accede risulta da de-strutturazioni e ri-strutturazioni operate con gli strumenti di cui S dispone. Pensiero è il termine generico con cui si indicano tali strumenti. Questo pensiero come si definisce in rapporto a se stesso? Non basta convincersi, con Feuerbach, in questo non meno idealista di Fichte e di Platone, che “l’oggetto di un essere, inteso come ciò cui esso giunge, rivela l’essenza e la natura dell’essere” (come riassumeva il Dal Pra). Il suo senso ultimo si ritroverà nell’ampiezza e finezza del rispecchiamento di cui si mostrerà capace: in un’oggettivazione la quale, perché risulti credibile, dovrà includere come oggetto la soggettità medesima, quale responsabile di ogni messa in scena. Ad S toccherà rispecchiarsi diversamente in O e in M e rinnovatamente ritrovarvisi. La dialettica degli opposti e il puro negativo sono limitazioni pensate per soddisfare l’impazienza del sapere. L’uscir da sé non può mai completarsi. Se nel rispecchiamento S uscisse del tutto da sé, pensare il mondo e cessare di essere al mondo coinciderebbero. Per sopravvivere il pensiero dev’essere imperfetto, indeciso. Tale imperfezione si manifesta sia nel fatto che può pensare l’oggetto e il messaggio in infiniti modi, sia nel poter ripensare incessantemente se stesso. E se per evitare d’irretirci in giochi di senso identificassimo la soggettità anzitutto nelle funzioni vitali, nella mera libido vivendi, noteremmo subito che anche per gli istinti vale quanto osservato in relazione alla libertà. Ciò può apparir curioso, giacché istinto e libertà si collocano su poli opposti. Ma il motivo è che non si dà pulsione senza desiderio dell’oggetto, di conseguenza più essa preme per aggredire la cosa e impossessarsene, più il soggetto si frantuma. La pulsione lasciata a se stessa blocca la libera molteplicità tripolare di insorgere|decidere| riferire. Uno stupro avviene quando il vestito e la persona stessa della vittima sono percepiti come impedimenti violenti alla fagocitazione soggettiva. Alla fragile consistenza dell’asse del soggetto – quando lo si voglia estrapolare dall’interrelazione SOMaria, unico contesto reale di ogni accadere – corrispondono incertezze del tutto simili nell’oggetto. Per molto tempo in filosofia si è sperato di poter parlare, con conoscenza di causa, di enti sostanze realtà: di affondare la soggettività nell’Oggettività, il discorso nel Logos, la ragione nello Pneuma, l’anima nell’Aldilà. Allora non si parlava di oggettità, ma di apparenze. Il fenomeno come velo dell’essenza, come implicita conferma, come manifestazione impropria dell’essenza nascosta delle cose. Gli estremismi opposti delle filosofie dell’apparenza e della sostanza si equivalevano. L’oggetto è altro: ci si leva contro, ci si getta davanti. Esso comparirebbe anzitutto, nella sua immediatezza, come ostacolo inciampo fortuità, se potesse insorgere senza indurre a riflessioni e a spiegazioni. Ma poiché è in queste soltanto che concretamente si costituisce, precipita subito nell’impasto dell’atto di vita e viene oltrepassato. Divenuto oggetto il fenomeno evita l’allusione alla verità nascosta, perde l’ingannevolezza pregiudiziale, assume una neutralità intermedia, attende il suo divenire. Termini come fenomeno e sostanza accontentano chi accentua, rispettivamente, l’apparire e l’essere; ma poiché la cosiddetta realtà è precisamente sindrome incontornabile di apparire e essere, percepire e giudicare, leggere e descrivere, né l’uno né l’altro estremo può soddisfare. L’oggetto, nel suo concetto, è duro da sopportare; anche se proprio così sarebbe da prendere, al meglio della sua opacità relazionale. Modernamente esso rappresenta l’indeterminazione del che è & che non è, ciò di cui non si sa cosa sia finché l’atto di vita non lo porta allo scoperto. Caratterizzato in prima approssimazione l’essere umano non in quanto detentore di una soggettità o di un’oggettità qualsivoglia, ma quale versatile attore sull’intricata scena di rapporti SOM entro cui sempre anche il suo pensiero s’organizza, oggettivo dovrebbe dirsi, non-paradossalmente, l’asse naturale della riflessione. Così il rumine aborre dal vuoto e si modella pienamente a contatto col trito che ne stimola la peristalsi. Contro tale capovolgimento di rapporti, apparentemente ingestibile, agisce la deriva ideotica dell’oggetto, accolto come un che è minore, un che è per quel che è, perfino uno scettico che non è, ma pur sempre delimitato e maneggevole. L’oggetto ideale diventa un non importa che cosa purché venga incontro alle determinazioni che pratico-pragmaticamente interessano. Un’idea si rende utile non solo per ciò che ricorda, ma specialmente per ciò che trascura, per ciò intorno a cui ricava a forza un vuoto. Questa idea di oggetto come fissazione insieme del che è e del che non è, non risolve affatto l’impasse pre-giudiziale. Costituisce essa anzi un chiaro caso di eros del banale. Crea però un utile vuoto e rivela il lato attivo/fattivo del sapere. Il sapere non serve (non ha senso) se non collocato nell’evenienza. Perché si dia sapere concreto occorre ch’esso si orienti a un uso sensato. Ma da solo può forse farlo? Come può il sapere conoscere il senso del suo darsi nell’evenienza? Soltanto ricorrendo a un sapere ulteriore e diverso. L’orientamento del sapere dipende anch’esso dall’effettivo presentarsi delle correlazioni SOM. Mancando una meta- riflessione sugli effetti della triassialità originaria non resta che dirigere il sapere, imporgli un senso, compromettendo in tal modo la sua efficacia liberatoria. Un bel caso di come il desiderio crei l’oggetto offre Karl Marx con la sua teoria del valore. Seguendo Ricardo, egli dimostra con un’argomentazione in apparenza soverchiante che il valore di scambio delle merci è correlato alla quantità di lavoro necessario a produrle. Una tale dimostrazione gli era necessaria. Se voleva preservare la dignità del lavoratore, era indispensabile che il valore dell’opera fosse legato all’impegno umano prestato. Il prodotto, quando fosse sfuggito di mano al produttore (l’operaio) e avesse assunto valore in sé, avrebbe tradito l’ideale rivoluzionario. Era importante che il prodotto, ridotto a merce sovraccarica di alienazione (il famoso feticcio), uscisse di scena. Marx lo sostituì con il suo uso, sul mercato del capitale, come mezzo di scambio di danaro, mascherante la sottrazione del plus-lavoro. E su questo aveva fin troppo ragione. Sennonché l’uso del danaro e qualsiasi altro uso, se ben indagato, mi riporta diritto all’oggetto-prodotto, per quel che soggettivamente mi vale, a prescindere da chi come quando ci abbia messo mano. Il valore d’uso infatti dipende esclusivamente dall’utilità di fatto che l’utilizzatore ne trae o crede trarne (come poi rilevarono sia il Bernstein sia i marginalisti). Ma l’uso marxiano non era reale, bensì astratto ed ideale. L’operaio non poteva pretendere di liberarsi dalle catene dell’oppressione e, al tempo stesso, permettersi di scegliere a piacimento tra prodotto e prodotto (tra pane e vino o tra colletto e camicia) inseguendo l’utile (o il dilettevole il desiderabile ecc.) soggettivo e privato. Evidentemente un lavoratore siffatto non era un vero proletario, non mostrava bastante coscienza di classe. Purtroppo, l’uso di un corsetto o di una festività sfugge alla presa ideotica non meno del senso di ‘corsetto’ o ‘festività’, e per lo stesso motivo di fondo: la risposta si troverebbe solo se si potessero percorrere contemporaneamente due strade opposte, verso il soggetto che usa o intenziona e verso l’oggetto che serve costa richiede significa s’impiega per ecc. Per una sorta di principio di indeterminazione le due cose insieme non possono pre-vedersi, dato che la verità, locale e momentanea, dell’una emerge solo dopo l’incontro con l’altra. A Marx, questo senso sospeso, questo valore vuoto in attesa di concretarsi pareva inaccettabile. Avrebbe comportato la disgregazione dell’idea di classe e dell’uso ch’egli intendeva farne. Non può postularsi un proletariato in lotta là dove azioni e scelte devono prima esser compiute perché sia dato poi stabilire il senso e il valore che hanno avuto. Ironicamente, l’emancipazione del proletariato impone a Marx la soppressione della libertà del proletario, cosa di cui s’accorsero a loro spese prima gli anarchici e di seguito i comunisti medesimi. Ciò accade, come si vede, non perché le armi della critica fossero ancora scadenti, bensì per necessità intrinseca al pensiero SOMario, nel quale i rapporti tra i poli SOM acquistano significato solo abdicando alla loro incerta apertura esistenziale. Tutti i mondi adibiti sottostanno a questi stessi limiti, ed anzi in ciò precisamente consiste il loro essere ad hoc, nell’offuscare per quanto possibile quei limiti. Terzo asse SOMario, il riferire, il mezzo. Come parlarne senza restarne implicati, visto che per trattarlo occorre servirsene? Nelle ideotiche quel che conta è l’ad hoc: calmare l’eros del banale, colmare il desiderio di un certo mondo tramite un’esclusiva convergenza di soggetto oggetto medio. Se un mondo è imperniato sull’asse M la difficoltà a mediarlo s’aggrava. Quando il referente è il mezzo si genera un doppio autoriferimento. Quella stessa mente che abbraccia con immediata convinzione ogni sorta di ad hoc tende a rifiutare con altrettanta determinazione la doppia autoctisi perché in essa non trova più soluzioni (cose o scene da contemplare) bensì intricati rinvii a precari fenomeni linguistici. Allora si fa ricorso da un lato alla regolazione della prassi comunicativa, dall’altro a formule e definizioni, a letture e interpretazioni prestabilite. Oggettità e soggettità anch’esse si sdoppiano nell’uso: se penso la soggettità ecco sorgerne due (la pensata e la pensante), se guardo l’oggetto eccolo spaiarsi (il suo insorgere e il mio rilevarlo). Far sì che gli orizzonti O e S di un certo accadere s’accordino quietando il desiderio di soluzione – già questa pare un’impresa difficile, a meno che non sia fatto ricorso all’imposizione socioideologica di una certa ottica contemplativa. In queste condizioni la soppressione del mezzo come assialità terza e alternativa è quasi una regola. Nella storia culturale di ogni popolo e paese l’eliminazione del terzo asse è stata tentata in centinaia di modi differenti. Da un tale archivio secolare si evince che l’ideologia e il dominio sociale sono tanto più efficienti quanto più governano non solo il mezzo, con tutte le sue giocabili doppiezze, ma anche lo sdoppiamento dell’oggettità (O è allora solo quel che S decide debba essere) e della soggettità (un solo S è ammesso, quello che pensa quel preciso O). S e O dovrebbero insomma idealmente corrispondersi e farlo parlando lo stesso linguaggio. Il sogno s’avvera di rado, per fortuna. Quando succede si rivela per quel che è, il peggiore degli incubi. Per aderire perfettamente, infatti, S e O devono por termine ad ogni reciproca dialettica, congelarsi in una relazione al tempo stesso senza vita e assassina. In questi casi estremi che fine fa il mezzo? Esso apparentemente dilaga e trionfa. Niente di più reboante della retoideotica fascista comunista jihadista ecc. La macrologia gonfia di sé diventa pilastro dell’apparato di stato, di partito, di piazza. Ci vuol poco però a capire che tutto quello pseudocomunicare mille volte insistito non c’entra affatto con le vere funzioni del medio, anzi tende a sopprimerle. Una siffatta propaganda usa le strutture della medialità precisamente per coartare la comunicazione genuina, quella che costituendo il terzo polo della triade aggiunge un’ulteriore indispensabile dimensione di complessità al vivere umano. Sarebbe però un errore critico considerare il balcone di Piazza Venezia, con la sottostante folla acclamante e i paroloni echeggianti via radio, una aberrazione. Il ducismo mussoliniano e, con altri mezzi, berlusconiano approfitta a man bassa di un’inclinazione che va considerata normale e perfino inevitabile per gli ee.uu., al di là delle differenze di cultura e formazione. Essi non possono permettersi troppa complessità, mentre la combinazione di SOM è potenzialmente esplosiva. Uno dei compiti più urgenti della mente diventa allora ordinare costituire costringere: implodere l’impossibile indeterminazione che deriverebbe dall’effusione di tutte le libertà SOMarie. Un solo caso, per esemplificare. Dove collocare il polo M in Schelling, visto che l’arte è per lui congiunzione di subiettivo e obiettivo? Nel Sistema dell’idealismo trascendentale ciò che importa, l’eros a cui tende, consiste nella pre-ordinata aspirazione a partecipare dello Spirito così com’è, alla sua sublime Integrità. A tale scopo Schelling modella le assialità SOM in modo da dominare intuitivamente l’Indomabile. Egli sostiene che nell’arte (M) si rivela la costruzione originaria, ciò che equivale ad assorbire nel mezzo soggettità e oggettità, ma anche, viceversa, fondare e fondere la significazione ed ogni dar senso (M) nella congiunzione di Intelletto (S) e Natura (O). Cosicché, sospeso l’in(de)finito a vantaggio di un certo Infinito, egli può dire il che cos’è delle cose o almeno mostrarne l’intuìto (la crasi di S e O in M offerta dall’opera d’arte) e presupporne vibrante nel genio l’intùito. Prima della svolta linguistica, di cui il Novecento può menar vanto, la sorte del medio era spesso o I. la soppressione tout court o II. la sussunzione nel tutto/Tutto, quale che fosse. I. La vocazione della parola a farsi da parte è fortissima. La sua funzione di tramite infatti nello scomparire s’esalta. Dileguando, il linguaggio lascia campo libero alla ‘realtà/verità’, realizza il sogno. Dona all’oggettità la parvenza di sostanza, alla soggettità la divina illusione di conoscere. Quando non può farle un tal regalo è invitato a tacere, onde non sia sorpreso nel guado della sua insufficienza. Per questo la parola è naturalmente retorica, prima che ideotica: l’idea si sviluppa grazie al mezzo che retorizzandosi si fa da parte, per così dire, rispetto al che è & che non è, addossandosi l’umile ruolo intermedio del comunicare, proprio o figurato. M diviene l’interpretante che permette al sapere di trapassare di mente in mente, di luogo in luogo, di età in età. Dobbiamo riconoscere che ciò può avvenire pulitamente, e che in un’infinità di occasioni è di grande soddisfazione sentire scomparire il linguaggio nell’esercizio della sua funzione significante. Come quando ci fermiamo al semaforo e ripartiamo quasi del tutto soprappensiero: i messaggi (rosso, verde) sono giunti pari pari al conducente, il quale ha agito di conseguenza, ma di essi tutto s’è poi volatilizzato senza lasciar traccia. Così potesse il filosofo tranquillamente procedere! Vivrebbe il suo pensiero come l’esperienza più felice dato che l’immediato coinciderebbe con il vero (il sogno di Schelling). Ma il mezzo è assialità dell’evenienza, non mero strumento: non è fatto né per scomparire, né per assecondare supinamente la fusione di soggettità e oggettità; al contrario è inevitabile (a prescindere dal problema della manutenzione, quando M diventa l’oggetto stesso) che la medialità ponga condizioni e restrizioni. Vi sono ottime ragioni perché sia così. La principale di queste è connessa alla prima azione del conoscere che è la contemplazione. Questa può essere o eterodiretta, come avviene allorché un boato improvviso costringe l’attenzione a volgersi verso la direzione da cui il rumore è giunto, o più spesso autodiretta, intenzionale. In questo caso – come s’è visto – S per decidere deve aver già in mente uno scenario dei luoghi dentro cui va a tracciare il confine del templum cognitivo, si è quindi già fornito di un’interpretazione, ha pre-disposto l’ambito della sua lettura (ciò che Gadamer chiama pregiudizio e qui diciamo più in generale autoctisi). Nel processo ha utilizzato un qualche linguaggio e con ciò stesso ha generato il terzo asse tanto quanto il terzo asse ha occasionato gli altri due. Il mezzo va visto così, come quell’asse che al tempo stesso genera l’atto contemplativo e ne è generato. Lo produce e ne è il prodotto. II. I mondi banali sono partoriti dalla mente umana, quindi da una soggettità, la quale tuttavia niente concepirebbe e pertanto in nulla consisterebbe se non incontrasse l’altro da sé (O). Per esplorare accostare far suo l’altro da sé ha bisogno di rappresentarselo, quindi di mediazioni, di un terzo altro. I mondi contemplativi sorgono coassialmente dalle tre alterità SOM, le quali nell’adeguarsi al progetto si co-vincolano. Ciascuno dei tre assi lasciato libero tenderebbe forse a sottrarsi alla subordinazione e a manifestarsi come pura e sorda alterità o se si vuole come vortice assoluto; ma poiché nessuno dei tre può davvero essere eliminato, non sembra percorribile altra strada che quella della sottomissione a uno schema comune che li gerarchizzi costringendoli a istituire rapporti reciproci prevedibili. Insomma, per necessità intrinseche alla finalità ultima del pensare, che è pur sempre un com-prendere, gli assi SOM devono coordinarsi e, se non proprio procedere di pari passo, almeno condizionarsi reciprocamente in modo tale che l’una istanza non obliteri l’altra, ma al contrario la presuma o sussuma. La preminenza di un’assialità non può mai tradursi in eliminazione delle rimanenti. Le tre assialità sono l’una all’altra imprescindibili. Non può né darsi né dirsi una soggettità qualsivoglia senza le sue correlate oggettità referenziali e modalità espressivo-comunicative. Analogamente ciò vale per ogni oggettità ed ogni mezzo. L’evenienza sembra allora lo spazio in cui le assialità SOMarie si relazionano senza poter rinunciare l’una all’altra, necessitate a convivere contessendo mondi banali nei quali un qualsiasi ordine relazionale vien preferito alle altre possibili configurazioni d’ordine. La storia del pensiero umano è un museo di tali schemi. Il fatto è che in quanto discutibili, cioè non-ingenui, i rapporti mente|corpo|linguaggio devono essere in qualche modo compresi e regolati. È la facoltà riflessiva stessa a imporre una mozione d’ordine: da che parte si comincia, dove si vuol arrivare, chi o cosa fonda il discorso, in che rapporti stanno le cose tra loro e noi con esse. Insomma i temi eterni della filosofia. Un’assializzazione qualsiasi, che sia tragicamente lineare o sapientemente articolata, è richiesta dalla condizione umana. O, per meglio dire, da un certo modo di vivere quella condizione, la quale in se stessa è sì originariamente vincolata, ma all’apertura. Parte Seconda. Sembianze del pre-paradigma Erotiche ideali [↑] MIA madre udendo certe mie uscite da ragazzino era solita esclamare: - Ma cosa vai a pensare? Effettivamente ogni pensare, per quanto lo si voglia dipingere come ragionato motivato coerente ecc., è un andare a. E quando di volta in volta si va a pensare questo o quello è opportuno chiedersi cosa succeda, se si estenda il concetto o ci si chiuda in un’idea. Analogamente, presa una decisione pratica, scelto di agire in una maniera piuttosto che in un’altra, in omaggio a un imperativo o a una massima o a un’abitudine o condizione qualsiasi, l’e.u. si ritroverà, nel suo rapporto col mondo del vivere, più libero o più vincolato. E se di fronte a un dipinto, d’impulso o dopo colta disamina, ci determiniamo a considerarlo bello o brutto, sotto qualche rispetto o universalmente, ci scopriremo più ricchi o più poveri di giudizio? Per solito si è propensi ad accogliere tali aut aut (concetto/idea, libertà/costrizione, arricchimento/impoverimento del giudizio) e si è per lo più ottimisti nel ritenere che l’esperienza, retta da adeguata preparazione, favorisca gli esiti migliori. Quale visione del mondo ammetterebbe mai che il praticarla inducesse all’ideologia, alla costrizione e all’impoverimento vitale? Tutt’al più si ammettono fallimenti individuali, incidenti di percorso, ingenui o colpevoli malintesi, ma sull’intero culturale in cui ci si riconosce non si sollevano dubbi. Per converso, opinioni e comportamenti in cui non ci si identifica appaiono poveri e costrittivi. Il che è anche logico, se si assume un punto di vista qualunque. Ma supponiamo di passare in rassegna l’intero svolgersi dei giudizi teoretici e pratici senza aderire ad alcuna preferenziale visione o versione del mondo. Vedremmo allora la somma algebrica di tutti gli esiti tendere allo zero. Anche se l’intelligenza discriminante, di cui è strumento la (e che è strumento della) noncontraddizione, ci ha abituati alla disgiunzione degli opposti, e una certa dialettica fiduciosa ci ha illusi con un superamento ch’è però poi a sua volta disgiuntivo, io credo si debba dire che quelle antitesi (idea/concetto, libertà/costrizione, arricchimento/impoverimento) non possono che darsi insieme, poiché sono riferite ad atti cognitivi i quali tutti sottostanno alle stesse condizioni, preliminari a ogni sorta di pensare: non solo proferire giudizi, anche esclamare inneggiare fischiettare lamentarsi sospettare, tutto lo strumentario che abbiamo a disposizione, può essere impiegato solo a patto che di quanto ci forma e informa di tanto ci catturi. La comprensione (o qualsiasi altro nome illusionistico vogliamo dare all’attività mentale) non è solo un atto del soggetto diretto al fenomeno o al segno, come il termine è costruito per far credere. V’è anche una preliminare pressione a cui l’oggetto sottopone il soggetto e il segno, nonché una sorta di presa del segno in relazione al soggetto e al fenomeno (lo stile è l’uomo, il medio è il messaggio). La cosiddetta comprensione va dunque immaginata come scambio implicazione trilaterale di istanze intercorrenti tra riflessione, fenomeno e linguaggio. Scambio più o meno fluido, più o meno stabile. Gli ee.uu., come rane nel fango della sponda, vivono là dove s’incontrano tre elementi. La via moderna, che parte dallo stesso soggetto pensante o da uno qualsiasi dei suoi orizzonti – storicistico esistenziale sociopolitico intenzionale psicanalitico fenomenologico epistemologico analitico ermeneutico ecc. – per approdare a una qualche apprensione del mondo, non vale più della via antica, per la quale l’ente è e il soggetto, a seconda della sua nobiltà o levatura, se lo rappresenta (ne è com-preso) più o meno conformemente, o della novissima dove tutto è funzione (o struttura segno testo nota figura ironia interpretazione). Abbiamo chiamato assializzazioni queste schematiche perché indirizzano secondo determinati costrutti preferenziali la relazione intelletto-mondo-mezzo. Non potendo sfuggire a questa tri- primalità del vivere, tendiamo come ee.uu. a negare l’indeterminazione che ad essa consegue, perché ci esaspera non avere a disposizione strumenti abbastanza raffinati o resistenti per gestirla così com’è. Temiamo che, in tali condizioni di sprovvedutezza, se l’ammettessimo e l’affrontassimo per quel che è, cioè come un che è & che non è, saremmo costretti allo sconcerto e all’afasia. La meta-domanda che qualifica il filosofare rispetto ad altri saperi più immediati suona più o meno così: Quando’è che posso dire di sapere quel che dico? Forse quando le idee paiono distinte e chiare, le parole precise, gli enti e le essenze definibili, i calcoli esatti, e noi stessi identificabili come agenti intenzionali in ordine a una determinata funzione o fruizione? O quando riemergendo da una purissima illuminazione (ad es. dionisiaca o zen) si nega di sapere quel che si reputa di aver comunque colto? Oppure quando la mente e tutte le altre cose scompaiono per lasciare campo libero a tutte le declinazioni ed inflessioni dell’in(de)finito orizzonte linguistico? O la soluzione recentissima, mistico-ironica, per cui les jeux sont toujours à faire? Qualificante è il chiederselo, ma le risposte sopravvenute nel corso dei secoli sono state sempre, grosso modo, le stesse. Il fatto è che puoi connotare il sapere circa il sapere in molti modi, ma l’esito non cambia, perché non consegue alla tua posizione, bensì la precede. Ogni comprensione trova i suoi spazi liberi e i suoi vicoli ciechi nella medesima sfera di costrizione, la cui fenomenologia varia incessantemente, volta a volta condizionata dai rapporti di forza in atto tra le assialità SOM: un vicendevole com-prendersi (abbracciarsi, colluttare), un indefesso rapporto a tre, un wrestling combattuto dentro e fuori del ring, nelle più forbite accademie come nei cortili disselciati delle periferie. Le assialità dell’evenienza si vincolano & liberano l’una con l’altra e vanno prese insieme, come potenze equivalenti, né progressive né regressive. Formare anche un solo pensiero è fermarlo in un medium espressivo, secondo un intento, in relazione a un che è o a un che non è. Dove è la presa, l’arresto, là sorgono le parole, le cose e chi le pensa, le idee e i concetti. In mancanza di una forma linguistica i pensieri sfuggono alla presa della mente stessa che pur si protende a pensarli. Essa non saprebbe dire cosa intendono e quelli rimarrebbero intrattabili. Al tempo stesso la langue senza la parole, cioè senza chi la adoperi per dir qualcosa, non ha alcun senso. Degli enti oggi non sappiamo più bene che fare, ma abbiamo ben chiaro perché un Aristotele ne avesse bisogno. Egli cercava di fermare l’oggettità di sensi e significati, come se il pensiero potesse semplicemente riflettere gli enti e gli eventi, e il linguaggio descriverli. Ma non si dà significato fuori della vita e nel vivere anche il più piccolo significato appare inestricabilmente triradicato alla confluenza di soggetto, oggetto e medio. Qualsiasi quid (che non sia una mera assegnazione prestabilita) da che deriva? O da una contemplazione (l’eros del banale), o dal verum/factum (lo faccio, ergo è e so cos’è), o da una simpatia, sia essa estetica intellettuale etica, acquisita per immedesimazione frequentazione sodalizio ecc. Così la libertà o s’assesta troppo risolutamente decisa nell’affermazione di se stessa, o libra irrisolta inafferrabile momentanea, ambigua in quel non esser proprio così, nel cogliere quasi come fosse, nell’opacità del chissà se. L’e.u. si muove più o meno accortamente di momento in momento tra i due estremi del definito e dell’incontornabile, tra logiche e lessici che lo stringono da presso ed esperienze indecifrabili che lo lasciano errabondo. Qui stanno la saggezza e lo smarrimento del vivere. Nell’evento le assialità del che è & che non è co-intervengono e circoscrivono l’indeterminatezza del risultante accadere, ma non possono eliminarla se non per imposizione. Se si astrae dal fluire dell’evenienza e dal molteplice intersecarsi di insorgere|decidere|riferire non è difficile congegnare sistemi di risposte ad ogni sorta di questione. Per chi mira alla sapienza mille metodi, tutti in qualche modo riduttivi, sono a disposizione. La sola cosa importante entro il perimetro di un dato metodo è che niente di quanto si ammette sembri contraddire quanto si conclude. In questo precisamente consiste la rispettabilità delle scienze, nel voler esse chiaramente significare, delimitare l’ambito del loro asserire. Ma all’esistenza, nella sua variante o mutazione umana, non possiamo imporre significati, confinamenti d’ambito, se non a patto di perdere quote di libertà. Certo, nulla vieta che un senso per me ora si scontri con un significato posto da altri con autorevolezza sufficiente a destituire, col mio assenso, il mio senso. Il medico attribuisce un significato preciso al sintomo; riconoscendo la sua autorità il paziente s’induce ad abbandonare il senso ingenuamente costruito su significati erronei. Posso volentieri gioire dei cerchi nel grano, ritenendoli testimonianza di presenze aliene, per cui non sarei solo nell’universo. Ma se un compaesano burlone mi prova che ne è lui l’autore evidentemente il significato di quella cosa va cambiato. Ciò non impedisce che il mio senso dell’alieno come presenza amica possa rafforzarsi imperturbato. Lo scienziato odierno tende a intervenire nella dimensione del senso esibendo le sue tabelle zeppe di (presunti) significati; quando si comporta così non si distingue dal sacerdote che sfoggia un determinato sacro come origine o fine del senso delle cose (cfr. l’ultimo Comte, il suo Catéchisme positiviste). Il discorso a questo proposito è troppo ampio e per la continuazione di questo scritto non indispensabile. Diciamo solo che se da un lato si ammettono innumerevoli e strette relazioni tra significato e senso, dall’altro s’evidenzia un opposto tendere: del significato verso la definizione, la struttura, l’ordine costituito, l’artificio; del senso verso la libertà, l’individualità, la creatività. Del predominio del significato sarebbe peraltro eccessivo accusare (come è stato fatto) le “scienze europee”. Infatti non è colpa loro se ciò che è scientifico è anche – quanto al suo senso – drasticamente limitato. La vita sfugge nella sua singolare e inafferrabile trilateralità (chi, cosa, tramite che). Un atto di pensiero può essere costruito e profferito, riferito e confrontato, adibito a qualche scopo, connesso ad altri atti ecc. solo se viene rappresentato sotto una qualsiasi forma o figura in cui il chi, il che cosa e il con che coagulano. Questa è un’ineludibile condizione dell’intelligenza. Come vide Rousseau, l’unica vera libertà di vivere sarebbe quella garantita dal massimo rischio di morire, lo stato solitario e selvatico. Le paure esistenziali: d’essere uccisi, di soffrire nel fisico, di patire oltraggio, di non godere abbastanza, di restare soli ecc. ci convincono a sacrificare molta parte di libertà in cambio di condizioni garantite e pattuite. La libertà però non si concede se non per determinatezze astratte, visto che in concreto, vivendo, si dà solo l’indeterminazione del caso per caso. La vicenda del pensiero, pertanto, benché solitamente insegnata (nella nostra tradizione pervicacemente storico-idealista) come una lunga sequenza ragionata di prove di significazione integrata e integrale, è fatta di storie o, per usare il termine di Lyotard, narrazioni. Ma come mostrò Propp per le fiabe, le storie del pensiero giocano con un numero esiguo di funzioni narrative di base. Le fiabe del pensiero presentano un’ampia casistica di come ci si può piegare alla determinatezza astratta della libertà, pur sempre a partire dalle tre assialità SOM opportunamente risistemate. Esporrò qui di seguito qualche caso indicativo di cosa intendo. Non presumo con essi di convincere. Se lo presumessi mi contraddirei. Il mio dire infatti s’inscrive, come ogni altro dire, nella trispecularità SOMaria. In essa siamo tutti sempre immersi. Non posso parlare da un altro luogo, da fuori, da sopra, da via. Vedremo in seguito se e come sia possibile dire/adire il vivere in termini non-SOMarî. Per il momento andiamoci cauti. La posta in gioco è alta. Quel che stiamo ipotizzando è l’equivalenza di tutte le soluzioni, in quanto dipendenti tutte da uno stesso insolubile triplo vincolo prescritto al vivere, ossia trascendentale all’esistere. AUM [↑] L’estate dell’anno in cui poi crollò l’URSS (1991) frequentai un corso di lingua russa a Vladìmir, grosso capoluogo a 300 km da Mosca, verso gli Urali. Si alloggiava confortevolmente in un edificio del sindacato provinciale, che nascondeva pudicamente nei piani interrati diversivi e agi – una sauna a cinque ambienti con piscina, salette per massaggi, sala biliardo ecc. – difficilmente disponibili al comune tovarišc. Eravamo un gruppo eterogeneo e in molti modi stralunato. Includeva vecchi compagni emiliani (con scarse simpatie per Gorbacëv), giovani pasionarie propense al bere, qualche intellettuale alla deriva e diverse studentesse slavofile. L’indomani dell’arrivo, sull’alba grigia, senza un raggio del sol dell’avvenire, mi sveglia un’improbabile nenia, un soave vocalizzo che mi giunge dalla stanza opposta dove so già che il sorteggio ha destinato una ventenne di Venezia Lido, una piccola rossa Hayworth di preoccupante avvenenza. Come da un attiguo aldilà la voce cadenza una sorta di pulsazione: “OOOMMM… OOOMMM…” A colazione Nicoletta si dichiarò neo-adepta della contemplazione buddista. Ai miei occhi, da tempo ridotti allo stato laicale, questo connotato, inatteso particolarmente là dov’eravamo, aggiunse al personaggio un pizzico di seduzione in più, già non ve n’era bisogno. Pensavo nondimeno che per i fondi di tè teistici, legati alla tradizione da cui proveniamo, abbiamo scusanti; ma che dire dell’alloteismo adulto all’epoca tanto in voga? Non nego però d’aver in seguito rimpolpato le mie nozioni di mistica orientale, incoraggiato da quella sua chioma anna-livia-plurabellica. Ma che cosa è Ôm? Non solo una comune giaculatoria. È anzitutto proprio quel monosillabo, il suo suono, crasi di A-U-M, un vocalizzo uno e trino, un sacro acrostico che incorpora e comunica, quasi un’ostia lessicale, la terna esaustiva dell’essere (l’originarsi il divenire il compiersi). Di origine vedica, al buddista è pervenuto dall’induismo antico. Ripeterlo perdutamente induce all’abbandono più completo nel nulla-tutto, ovvero al ritorno dell’ingannevole per sé fenomenico nell’in sé universale. L’Ôm (la sillaba in cui tutto è risolto) e l’ātman-brahman (l’intero in cui ogni singolarità si realizza spegnendosi) si confondono e si co-fondano in una mistica equivalenza. Prima della sua volgarizzazione tardiva come formula magica (mantra), l’Ôm è l’ove virtuale in cui verbo e voce, verità e vanità delle cose congiuntamente fluiscono. Come si legge nella Prasna-Upanishad (Quinto quesito, §5): “Colui che medita sull’essere supremo per mezzo delle tre lettere (A U M), ossia con l’intera sillaba Ôm, giunge allo splendore del sole. Come il serpente si libera dalla pelle, così egli pure è libero dal male. Dalle melodie [del Samaveda] vien sollevato nel mondo del Brahman e da questo, che è il sommo ricettacolo dei viventi, contempla lo Spirito Supremo che abita nel cuore [d’ognuno].” [Upanishad, a c. di C Della Casa, Torino Utet, 1976, p.393]. Tale contessersi di tre fili essenziali – individualità pensante, totalità fondante, interrelazione esplicante e agente – si ritrova continuamente nella meditazione induista, specie nel Vedanta. Nella già ricordata Mahānārāyana-Upanishad, i poetici epiteti di Nārāyana (sorta di progenitore di ogni essere) ordiscono un mondo ad hoc con ogni evidenza unitario proprio in quanto SOMario. Nārāyana vi è detto… In ogni singolo soffio vitale sarebbe sopito il medesimo segreto Tutto che la melodia sacra e la luce universale trasporterebbero nascosto; l’io fenomenico capace di intendere e volere dovrebbe per ciò stesso disarmare, disattivarsi, ché altrimenti un frammento del soggetto-oggetto universale diverrebbe a sua volta demiurgico: creerebbe mondi ulteriori, avviando in tal modo una produzione inarrestabile o di indiscernibili o di alterità non compossibili. Infatti, la libertà del pensiero svela la libertà della parola e questa di quello; entrambe conducono alla ‘libertà’ del mondo la quale a sua volta sorregge quelle e le stimola a proliferare. Così le possibilità di verità si moltiplicherebbero indefinitamente se le tre libertà non s’inchinassero l’una all’altra in una visione unitaria. Il potenziale insieme costruttivo e distruttivo, liberatorio e smembrante della costitutiva tripolarità SOM balza invero all’occhio in tutta la sua problematicità in qualsiasi momento s’inizi a riflettere sul riflettere; ma, rispetto all’India, l’Occidente ha diversamente affrontato la questione: per limitare al massimo l’incertezza tra formulazioni idealconcettuali viscose, reciprocamente anamorfiche, come vigore e valore, onore e giustizia, essere e apparire, parola e cosa, opinione e certezza, lo spirito greco ha introdotto la definizione rispondente, la distinzione metafisica, l’idea di ente e l’entità ideale. Nondimeno all’origine delle due vicende, l’orientale e l’occidentale, la domanda è la stessa (come arginare la libertà in cambio di una visione dominante?) e le risposte, spogliate delle loro maschere storiche, localmente esaudienti, si assomigliano tutte per quel bisogno primario di istituire una solida interdipendenza tra le polarità SOM che si agitano in ogni eventuarsi. Per questo, mentre gli studiosi delle maschere locali continuano a scoprire differenze che sembrano decisive, uno sguardo senza dubbio meno introdotto, più sommario ma proprio per questo più disponibile a cogliere l’omogeneità d’insieme, scorge nell’apparenza dialettica del divenire storico un lungo perplesso aggirarsi intorno alle stesse posizioni. Oggi non è raro trovare – vedasi The Reluctant Messenger of Science and Religion [reluctant-messenger.com], donde è tratta la seguente epigrafe: “In the Beginning was the Sacred Sound Aum. The Aum was with God, and the Aum was God. Through the Sacred Sound Aum all things were made; without the Sacred Sound nothing was made that was made…” – chi sostiene l’esistenza di profonde concordanze meta-storiche, in questo caso vedico-evangeliche. Fantasie sincretiste, ma a modo loro non infondate, se intendono evidenziare un medesimo atavico impulso mirante all’unità di mondo, parola e volontà. Se ne trova una nitida eco in J. R. R. Tolkien, nel Silmarillion, il suo Genesi-Fantasy: “There was Eru, the One, who in Arda is called Ilúvatar; and he made first the Ainur, the Holy Ones, that were the offspring of his thought…” [Incipit di Ainulindalë, in The Silmarillion, ed. Chr.Tolkien, Allen & Unwin, 1977] Peculiare nel saghista britannico è la sequenza delle ipostasi: “In the beginning Eru, the One, who in the Elvish tongue is named Ilúvatar, made the Ainur of his thought; and they made a great Music before him. In this Music the World was begun; for Ilúvatar made visible the song of the Ainur, and they beheld it as a light in the darkness.” [Incipit di Valaquenta, in The Silmarillion, op.cit.] Anzitutto l’Uno. Da cui il pensiero ideatore. Onde sorgono gli Spiriti Eletti, ai quali egli profonde la Musica. Essi la eseguono in sua presenza, deliziandolo. Dalla sublime letizia così suscitata comincia il Mondo. Quindi – a parte la solita unità a tutto premessa – prima il soggetto, poi il medio, infine l’oggetto. Una lunga parabola collega il Sacro Suono AUM, per il tramite di Orfeo, al fantastico inteso come genere letterario (ma v’è anche chi lo prende come verbo). Logos [↑] Tra i primi a tematizzare l’intera trilogia SOM (adombrando in qualche modo la questione SOMaria) fu Eraclito. La sua riflessione punta con forza al reperimento di un’unità sotto- o sovra-stante la terna di λóγοι intorno a cui venticinque secoli fa le acque del pensiero occidentale cominciavano a fremere. Logos è infatti, secondo Eraclito, al tempo stesso 1. l’interiore sapienza di chi, come lui, si è reso consapevole dell’unità del tutto (S), 2. l’ordinata armonia del mondo nascosta dietro l’incessante rumore del divenire (O) e 3. l’alto linguaggio che distingue e penetra la ragione profonda di ogni cosa, la segreta parola disvelatrice (M). Per quanto ci è dato vedere nei celebri frammenti, Eraclito ammette una sola spiegazione anzi la pre-mette. Chi non la vede intorno a sé e in sé, la stessa nelle cose nel pensiero nelle parole, pare sveglio ma pigramente dorme. Dixit insipiens in corde suo: - Non c’è alcun logos. Principia con Eraclito la non proprio fine consuetudine del pensatore che tende ad accusare chi non vede come lui d’essere cieco. Tra gl’insipienti v’è in realtà chi si rende conto, benché con-fusamente (trattandosi di cose non com-prensibili), di quanto problematica sia l’assimilazione reciproca di pensiero linguaggio realtà. Questi, tendenzialmente prudente, non concede alcuna garanzia di sufficienza al pensare. L’esperienza quotidiana lo allarma. Il più delle volte ciò che ha in mente non collima con ciò che riesce a dire, tantomeno con ciò che gli altri ne capiscono; spesso il mondo contraddice i suoi pensieri rovesciandogli addosso intere sequenze di smentite, talora così cattive che si direbbero volute. Ecco perché l’insipiente diventa in effetti credulone, frequenta cartomanti guaritori indovini (tra cui il nostro augure). Il sapiente fa lo stesso che l’insipiente, i suoi tarocchi sono le idee. C’è in questo un enorme vantaggio: le idee non decadono, restano dove le metti, nel medesimo ordine relativo. Non sorprendono, non deludono, basta darle per vere ed ecco che vere sono (“è saggio convenire che tutto è uno”). Il problema reale è un altro: non prendi il sole due volte sulla stessa sabbia. Il mondo è attore, va in scena ogni giorno con un trucco diverso, la sua filmografia è sterminata. Come posso stargli dietro con i miei taccuini? Ma il filosofo è ottimista, ama rischiare di sapere perché è un bel rischio. Il sapere (incluso il sapere di non sapere) sa animarti, rasserenarti, addolcirti la vita, alleviarti le pene; soprattutto ti fa sentire migliore (àristos), innamorato, beniamino degli dei, signore del mondo, microcosmo, spirito carico di luminoso destino (ti fa legislatore del mondo e ti lascia sperare in un regno dei fini). Eraclito non usa tutte queste espressioni, come ognun sa posteriori, ma è evidente che la pensa più o meno così. Deve però risolvere la questione dell’effettiva congruenza tra sapere (uomo, soggetto), divenire (mondo, oggetto) e dirne (medio, segno), altrimenti il suo diventa davvero un sogno ad occhi aperti. Avrebbe potuto aprire il discorso proprio su questo orizzonte nebuloso? Sì, ma in tal caso il suo dire sarebbe diventato ‘critico’ e non sarebbe potuto mai più uscirne con una soluzione. A che scopo allora filosofare? Non è ancora giunto il momento in cui il dubbio la critica la criptica saranno in vario modo spendibili e quindi a modo loro risolutivi. Eraclito cerca invece un vero integrale da contrapporre alle risposte naturalistiche (oggettivistiche) messe a punto dai fisiologi a Mileto, che egli giudica non a torto riduttive. E lo trova nel Logos. Non possiamo che ammirare la sagacia di tale soluzione: è una perfetta autoctisi, l’autoriferimento assoluto conseguito in un sol balzo. Cos’è la Verità? Sei tu stesso se sai pensarla per quel che è, è il mondo se lo conosci com’è, è il discorso filosofico quando la coglie come va colta. Se tento di pensare la Verità come origine (l’arché ionica) o come giustizia del mondo (la Dike parmenidea) o come descrizione empirica (le scuole ippocratiche) ecc., mi perdo nell’immensità dell’insondabile, perché devo distinguere nel fluido del che è & che non è ciò che confà o meno a quella peculiare verità di cui sono in cerca. Se invece pre-postulo l’unità incondizionata del vero in essere col vero pensato e col vero detto, il problema della congruenza non si pone neppure, se non come errore di coloro che si credono svegli nei loro saperi relativi ma dormono quanto al sapere assoluto. I dormienti o insipienti sono in realtà coloro i quali non sono disposti ad ignorare le innumerevoli incongruenze tra le sfere dell’essere del pensare e del dire, ma Eraclito non esita: tra pensare e dire le difficoltà nascono perché i dormienti parlano ma non adoperano la mente; tra essere e pensare sorgono perché essi non vedono l’armonia dei contrari e non ascoltano il logos. Ma a che vale ascoltare un logos se è per prima cosa un nostro parlare banale? Di qui la necessità di separare il logos dal singolo soggetto pensante/parlante, di trasporlo sul piano dell’ordine cosmico ed assolutizzarlo (“tutte le cose accadono secondo questo logos”). Resta tuttavia da spiegare al dormiente perché a chiunque il mondo appaia così poco logico e i rapporti tra essere pensare dire così poco felici. Di qui per Eraclito l’importanza del tema del divenire. Non potendo negare l’evidenza, egli la esaspera con un’ulteriore autoctisi: tutto diviene perché tutto è in guerra con tutto, il conflitto permea l’essere e nello scontro l’ordine del mondo s’origina e rigenerandosi si perpetua. Il vero sapere non sta nella descrizione del disordine, ch’è mera apparenza, ma nel riconoscere l’unità di fondo soggiacente. La quale evidentemente non può mancare dal momento ch’è pre-postulata. I lògoi eraclitei risultano dunque riflessi l’uno nell’altro. E semplici riflessi resterebbero, e sarebbe stato un bell’inizio per la losoa, se non fosse appunto contestualmente postulata una superessenza logico-oggettiva nel mondo. Tale superessenza, il Logos, che a questo punto esiste, garantisce ormai per la logicità del pensiero, se ben pensato, e del discorso, se ben fatto. “Di questo Logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza”, così pare avesse inizio il “sacro discorso”, riservato ai migliori e incomprensibile ai molti, legato da Eraclito quale dono votivo al tempio di Artemide in Efeso. Ex abrupto. Viene in mente Manon Lescaut. A pagina cento o giù di lì ti cominci a preoccupare dell’astenia prostrante in cui sembra irrimediabilmente precipitato il cavaliere de Grieux, succubo inerme delle velleitarie fantasie di lei. Ti chiedi allora cos’abbia questa Manon di superlativo, quale mai fascino sprigioni dalla sua figura, quali sue arti possano aver stregato il pover’uomo. Poiché le risposte non vengono, pensi che qualcosa ti sia sfuggito. Forse hai letto le prime pagine un po’ in fretta. Torni dunque indietro, vuoi ritrovare come quando perché scocca la scintilla fatale. E cosa scopri? Che l’abbé Prevost è stato più furbo di te. Invece di introdurre quell’amore in pagine e pagine sospette, l’ha semplicemente fatto essere in poche righe, senza spiegazioni di sorta, come un dio che macchina quel che gli pare. Un attimo fa non era, ora è. E così dev’essere. Se de Grieux non fosse stato fulminato da Manon, ma fosse entrato riflessivamente e quasi ponderatamente in quel legame, avrebbe potuto altrettanto bene svincolarsene ed uscirne. Non ci sarebbe stato spazio per la sua sindrome, per quell’inerzia supina che lo vede ora avviticchiato alla ragazza, unito a lei come quincaillerie o vettovaglia. Prevost fornisce solo un caso tra tanti. Charles Bovary è tontolone dal primo momento. La ragione partorisce divenire fin dalla prefazione alla Fenomenologia. Ma va colta una differenza. Un’opera d’arte deve cominciare creando di punto in bianco le premesse del suo divenire. “There was Eru, the One, who in Arda is called Ilúvatar”. L’artista che si sofferma a dar ragioni non crede nella sua opera. “Mi ritrovai per una selva oscura”: il fatto d’arte è semplicemente tal quale dev’essere, dato che la sensatezza che lo concerne gli è tutta interna. Il filosofo ha sotto sotto anch’egli la vocazione del romanziere, geloso della sua libertà d’artefice. Lui pure è un creativo, desidera lanciarsi nell’opera e detesta esser trattenuto sulla soglia del dire da insolubili questioni preliminari. Purtroppo, per quanto criticamente fondata si presenti una ricerca losoca, si può star certi che di questioni preliminari in sospeso ne restano a dozzine. Il mondo è anche ciò che non accade. Non sarebbe il caso che il filosofo riflettesse molto più a lungo su come iniziare? Forse sì, ma allora dovrebbe non aver fretta di rispondere. Può egli rinunciare alle sue soluzioni? alle urgenze teoretiche estetiche etico-politiche che lo hanno primamente mosso e lo tengono sveglio? Difficile. Da un Eraclito meno altero poteva nascere una religione tenue, inoffensiva, pressoché trasparente. I testi sacri delle fedi fondamentaliste principiano tutti come il suo: dall’oscurità alla luce, dal sonno al risveglio, istantaneamente, ciò che non era è, quel che dev’essere appare, ciò ch’è giusto sia viene ad essere. Ancor meglio se il Che è c’è da sempre. “In principio Dio creò il cielo e la terra”. “In principio era il Logos”. “In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso”. Le parole? Non fanno altro che dire. Propagano un Vero preesistente. Divulgano un Che è sorto prima e altrove, fuori della storia. Sono parole di sapienza o di furbizia? Noi sappiamo che all’origine di quelle parole non v’è una verità sacrosanta. Esse nascono da contesti etnici o socio-politici che necessitano di fondamenta massicce, di parole di pietra, di un big bang ideotico. La loro funzione è quindi sempre duplice: come per ogni fondazione c’è bisogno che il suolo sia raso, o perlomeno che le rovine degli edifici preesistenti giacciano livellate. Cartesio fu forse il primo a esplicitare la questione. Poiché – egli disse – è imprudente demolire prima di aver edificato, si lascino in piedi i vecchi alloggi intanto che se ne erigono di nuovi. Egli però applica questo criterio di provvisoria coesistenza del vecchio e del nuovo alla sola morale, in quanto sarebbe avventato, sostiene, abbandonare le norme consolidate dall’uso quando ancora si è alla ricerca di come stabilirne di diverse. Il Larvatus prodeo di Cartesio non concerne invece l’indagine teoretica dove per rifondare interamente il sapere occorre ripartire, anche secondo lui, dalle profondità del dubbio, cioè da zero. Il dubbio metodico in Cartesio si dissolve invero molto in fretta, come neve d’aprile, destando il sospetto di un’estrema astuzia dogmatica cucita insieme a una prima seria istanza critica. Ad ogni modo le religioni non possono permettersi neppur questo e le loro fondazioni oscurano completamente sia le verità sostituite, sia le incertezze che marcano ogni inizio, sia l’origine umana d’ogni ideotica, sia infine la volatilità d’ogni parola. Che risulti patentemente essere l’uomo a concepire da solo le idee e a scegliere le parole per dirle, questa bruta costatazione è inammissibile allorché ci preme affermare una qualsiasi Verità o verità. Abbiamo un mondo ad hoc da proteggere? Le sue premesse diventano allora assolute, premesse ad ogni essere pensare dire. Se così non procedessimo, dovremmo metterci a discuterle. Inoltre, importantissimo, tutta l’operazione, come in chirurgia estetica, deve scomparire. Verlaine dice bene: a parte la musica, “tout le reste est littérature”. Ma la questione resta: cos’è ‘musica’ per il tuo orecchio? È ciò che ti consente di sprezzare tutto il resto come littérature. E cos’è per converso spazzatura (le littéraire)? È ciò da cui rifuggo mandando in cuffia la mia musica. Eccoci di nuovo alla contemplazione del banale. Lyotard ci ha assicurato ne La condizione post-moderna (1979) che le “grandi narrazioni” sono finite. È una novità decisiva? Non ne sono affatto sicuro. Restano tantissimi raccontini, quindi resta il racconto, la forma-racconto, inteso come soluzione, magari solo personale marginale occasionale gruppuscolare, sempre meno interessante, sempre più interessata. È questo ciò che volevamo? Non si può aver di meglio? Pon Sin Mor [↑] Due uomini di speranza, a distanza di tre secoli, perseguitati. Ma con logica stringente, visto che le dottrine contestate potrebbero specchiarsi l’una nell’altra. Tommaso Campanella scelse per il suo paradigma la via più diritta: riprendendo il trinitarismo teologico e antropologico come si trova fondato anticamente in Origene Plotino Agostino ecc., egli individuò le sue primalità nella terna a noi nota: Pon Sin Mor sono gli alti reggitori della Città del Sole, ossia Potenza (o dominio del realizzabile), Sapienza (o capacità di costruire intellettualmente), Amore (o volontà di rapportarsi e congregare) – subordinati però al supremo Hoh, il gran Metafisico. Dal canto suo, in una lettera da Pechino del 21 marzo 1941, Pierre Teilhard de Chardin scriveva: “Per quanto possa rendermene conto, la soluzione del problema esige una nuova e chiara definizione di ‘spirito’ e ‘spiritualizzazione’, a partire dai tre principi seguenti: sublimazione della Materia, sintesi della massa umana, riconoscimento di un Centro supremo di Amore e di Personalità.” A quale problema si riferisce? “che l'Uomo cioè si trova attualmente di fronte alla necessità evolutiva di scoprire (di sviluppare) uno stadio di coscienza più elevato” [da Realizzare l'uomo. Lettere inedite (1926-1952), Milano, il Saggiatore, 1974, pp.237-8]. Padre Teilhard ci mette in più quella sua caratteristica nota di darwinismo bergsoniano. Prevale in lui, cristiano fedele alla terra (come lo dice il Grénet), l’aspettazione nicciano-gioachimita di un terzo evo, di un’età pentecostale, governata dallo spirito d’amore e dall’amore dello spirito, cui l’umanità giungerebbe amalgamando progressivamente materia e memoria, Penía e Póros. Pertanto non avrebbe scelto l’emblema chiuso adottato dal buon frate di Stilo [v. sopra, part. dal rame di B.Moncornet, Parigi, ca. 1640]. Mostrando tre faci diversamente orientate nelle tre dimensioni, questo logo parrebbe adatto a rappresentare la terna SOM, se non sapessimo ch’esse son da vedere invece come incrociate e nell’intersecarsi rappresentative dell’unità originaria, di cui non sarebbero, l’una per l’altra, che ortofanìe. Campanella trovò conveniente appoggiarsi al dogma unitario, si dirà, per addolcire le asprezze dell’Inquisizione romana. Certo, ma soprattutto per evitare alla sua città solare la rovina del buio, l’inagibilità che s’annunciava nel caso avesse tratto dirittamente le conseguenze di quella triprimalità irriconducibile all’uno. Egli ha ceduto anzitempo, premettendo ai trascendentali l’Uno trascendente (che per definizione non può non esser premesso), benché tolto il dogma nulla dimostri a una libera intelligenza come possa in tutto ricondursi il potere al sapere e all’amare o il sapere all’amare e al potere o l’amare al potere e al sapere. La notte logica in cui sembra sprofondare, se ben condotta, ogni ipotesi tricipite, contrapposta al Logos affabilmente disponibile a chi occulta l’insoluto, dissuade dal proseguire lungo quello che pare un vicolo cieco. Campanella ne offre una biografia esemplare. Egli non dubita affatto dell’unità (Hoh) del trino (Pon Sin Mor), cosa che condivide con l’Inquisitore da cui è tenuto in carcere per ventisett’anni. Così può dirsi, per restare in quell’epoca, di Cartesio e Galilei, e persino di Bruno e Spinoza. Quanto a Teilhard de Chardin, sul suo capo non grandinarono le ire tridentine: sotto Pio XII gli fu impedito di tenere un corso biennale al Collège de France; lo raggiunse poi un Monitum del S.Uffizio (30 giugno 1962, essendo papa Giovanni XXIII). Egli non pagò con la prigione o la morte. Eppure si trova nelle sue opere una ancor più convinta speranza (piuttosto che fede), per la legge della "complessità-coscienza", nella sublime Unità ultima (invece che prima), "punto Omega" dell’intero arco cosmo-antropologico. Singolare pervicacia di un'idea, se si pensa che tra l'uno e l'altro scorrono la ragione sistematica, la ragione critica, la ragione dialettica, la secolarizzazione, il materialismo storico, il crepuscolo degli idoli, l’interpretazione dei sogni. Tutte false rotture col passato che continua. Gli uomini di speranza ci sono indispensabili, a saperli ascoltare, poiché molto più dei miscredenti essi sanno scavare dove s'annida il vecchio Eros, onde comunicarsene; e lo scovano, per quanto abilmente esso si mascheri, in molta parte di ciò che gli uomini che si proclamano indifferenti continuano a sostenere. A proposito di Cartesio. Il rifondare l’edificio del sapere su solide fondamenta, la metafora dell’albero della conoscenza, le scienze come robuste diramazioni di un sapere unitario, l’esprit de géométrie, la méthode pour bien conduire sa raison, la chiarezza e distinzione delle idee, il rimontare (sintesi), dopo avere smontato (analisi), il pensare che si fa chiaramente e distintamente cosa pensante immanente immateriale, la materia che pervia all’intuizione del pensare si fa chiaramente e distintamente idea... tutto ciò rientrava in una diligente strategia volta a ricomprendere radicalmente quello che potrebbe dirsi il complesso comprendente-compreso. A chiunque l’osservi dal di dentro, com’è inevitabile non avendo esso un di fuori, e precisamente affidandosi a quel bon sens da cui prende avvio il Discours de la méthode, tale complesso si presenta come inafferrabile o almeno, anche ai primi sguardi di un adolescente, come dileguante lungo le calli ilaro-tragiche del vivere, quasi una strana coppia di maschere all’alba delle Ceneri, non si sa se sciupate doloranti divertite o esangui. In opposizione a questa percezione aspra dell’essere al mondo l’inventario cartesiano evidenzia al centro del progetto di ricomprensione daccapo dell’intero complesso la ferma convinzione di un’unità-verità pre-esistente, con la quale il pensiero ritiene non altro dover fare che allinearsi. Fin da ragazzino, brillante di limpida intelligenza, nulla Réné appetisce che non sia in vista di una solida unità-verità, dapprima tutta diligentemente da acquisire, in seguito tutta da rifondare, dopo la delusione causatagli dalla ratio studiorum dei tempi suoi. Quella solidità unitaria egli se la prefigge, la presume e preventiva, perciò gli diventa fattibile. Il dubbio è fin troppo metodico. In men che non si dica (un paio di pagine) eccolo estinto, sostituito da un’incrollabile evidenza. Chi altri ha dubitato così rapido? Eppure spunti non ne mancavano per attardarsi. Un solo caso, il genio maligno di Réné è uno solo e non legione. Perché uno soltanto? Se il Bene non può essere che Uno, il Maligno non dev’essere forse molti? Se solo Descartes avesse pensato, alternativamente, ad una moltitudine di genietti malignanti, avrebbe potuto ipotizzare che il loro effetto complessivo sulla facoltà di comprendere non risultasse poi così perverso (sarebbe l’ipotesi di Mandeville trasferita dalla politica alla gnoseologia). Ma il genio doveva essere uno e il suo effetto univocamente maligno. Era in breve l’idea prevista e incombente di Dio, ma rovesciata. Il rovescio speculare del dubbio cartesiano è una metodica univoca episteme: dubbio|falso mondo|falso dio|falso io| cogito| io vero| dio vero|mondo vero|certezza L’unità non risulta dunque da una conquistata certezza, ma al contrario è la certezza a risultare da una pre-meditata unità intenzionale. La directio ingenii sembra (a Cartesio) lineare, ma è in effetti circolare: l’unità sola mi dà certezza, la certezza sola mi dà unità, dunque l’una rincorre l’altra, ma questo non me lo posso dire. Anzi per onestà intellettuale devo ignorarlo. Perciò il reciproco rincorrersi di comprendente e compreso semplicemente avviene, come in ogni altro sistema precedente e posteriore. Nessuno se ne accorge davvero, benché su singole ricorsività patentemente viziose insorgano obiezioni (p.es. Gassendi e Hobbes contro Descartes in ordine alla posizione dell’io e alla ‘prova’ ontologica). Non ci s’accorge della ricorsività di fondo di ogni losoa, perché al pensatore ricorsivo risponde da altra posizione altrettanto ricorsiva un collega il quale, per quanto critico, non potrà mai togliere all’altro quella stessa maschera ch’egli pure indossa come espressione del suo vero volto e unica sua presentabile fisonomia. Primæ veritates [↑] “Le verità prime sono quelle che affermano l’Identico dell’Identico, o negano l’Opposto dell’Opposto. Come per esempio: […] – ‘Ogni cosa è quale è’” È consuetudine provare un brivido freddo di fronte a un simile cominciamento [J.G.Leibniz, Primæ veritates, ca.1685, §1]. Quel che vi si coglie sembra apparire dal nulla, gelido, con l’immediatezza di ciò che non può che essere. Se l’avevi già chiaro in mente, bene; se te ne avvedi solo ora, d’ora in poi non potrai più non vederlo. E prima? Era così anche se tu non lo sapevi: A = A. Sono le verità di ragione, i giudizi analitici. Non importa che tu esista o no. Esse giacciono fuori del tempo, regnano sulla conoscenza dall’eternità. Una ragione dunque esterna a noi. Non sanno dirci niente di ciò ch’è stato o di quel che sarà, ma ci assicurano che indubitabilmente, ci piaccia o meno, ciò che è è. Il brivido è freddo per quella sorta di traversata siderale che le verità di ragione hanno appena compiuto quando ci raggiungono. Ma dura un attimo. Esse infatti non intimoriscono, sembrano al contrario confortanti. Come forze sovraumane, aliene sì, ma positive e indefettibili. Garantiscono che almeno la logica non faccia scherzi, che una cosa sia sempre quel che è, che esista un ordine di precedenza e di coerenza indipendente da facoltà conoscenze intenzioni individuali. Dice ancora Agostino con la vivacità della convinzione: “Numquid ista ex aliqua parte corrumpi possunt, etiamsi omnis ratiocinator intereat, aut apud carnales inferos veterascat? Non enim ratiocinatio talia facit, sed invenit.” Il ragionamento non costruisce l’incontrovertibile, ma se lo ritrova bell’e pronto. Grazie alle verità di ragione, precisamente perché provengono da un’esternità su cui non possiamo metter mano, ci sentiamo coi piedi per terra, rassicurati quanto meno circa la tenuta logica dei termini, se inequivoci, e dei ragionamenti, se sillogizzati a puntino. La sicurezza che tali verità trasmettono allunga robuste radici sotto il villaggio dei pensieri. Ben presto l’intelletto non vorrà più muoversi fuori dell’ombra di una ragione limpida che promette verità persistenti e con sigillo di garanzia. Se il vissuto, benché contaminato dalla con-fusione dell’esperienza, si muove sotto un’ombra di razionalità, quali non saranno la bellezza la giustizia la perfezione del mondo vero sovrastante, di cui qui si coglie appena la frescura? Certo, nel vissuto ciò che conta sono i dati di fatto, le nozioni acquisite per il tramite sempre provvisorio dell’esperienza. Così avviene che per le persone di buon senso la razionalità delle verità di ragione non costituisca problema all’atto pratico, ma neppure comporti soluzioni. Esse sono semmai significative e utilizzabili. Una sophía, però, di questa significatività caso per caso non è soddisfatta. Chi spremette il succo inebriante ma torbido delle origini, misto di esperienze problematizzate, bella letteratura e nobili verità di ragione? Platone per aver ideato il paradiso delle Idee è stato denigrato oltre misura. Egli infatti giunse all’iperuranio, dopo lungo navigare, perché non intendeva ammettere che le pure e somme istanze (l’essere l’uno il molteplice l’uguale il diverso) si producessero da sé in questo mondo umiliato. Colse la loro presenza apparentemente a priori nell’intelletto umano; ma che fosse quest’ultimo a produrle di sua iniziativa, ingenuamente e del tutto gratuitamente, gli sembrava altrettanto inconcepibile. Per eccesso di zelo s’avviò verso ciò che rispondeva e abbracciò quel che risolveva. Tecnicamente il suo ‘errore’ è lo stesso di tutte le filosofie, dalla più dogmatica alla più scettica, dalla meno critica alla più dialettica, per il fatto che ogni pre-porre è viziante. Nietzsche si rese conto, con la sua oscura astuzia, che solo nella modalità poietica, cioè nell’intendere il pensiero puro come un puro agire, come potenza che si esprime, si è salvi dall’autoctisi. Che scopo ha la filosofia, se non può consolarci con un mondo vero? Vuotate le tasche del pensiero tristemente fallito, abbandonato il saio contemplativo, si procede nudi danzando controluce, sospinti verso un’opposta estasi dalla speranza gioioso-giocosa di un’aurora oltre-umana. La questione che il Novecento, nonostante tutto, non ha chiarito è se vi sia o no alternativa tra le due sedicenti soluzioni: Platone (o Marx) e ZarathustraNietzsche – tra il porre ideoticamente una ragione che nasconde a se stessa d’esser prona alle inquietudini della volontà e il fantasticare della volontà sulla propria autonomia dall’idea, come se a un coagulo di metafore possa darsi di liberare il mondo. Basta tornare al citato incipit leibniziano per rendersi conto, anzitutto, ch’esso è non tanto un principio, quanto piuttosto un balzo in medias res (come in Eraclito). Di impatto estetico senza dubbio molto differente, ma del tutto analogo alla danza nietzscheana della volontà che posa di essere. Dobbiamo qui rivedere alcuni passaggi. Prima di tutto, la scena pre-allestita, quella che il testo, annunciando di principiare da zero, vuole oscurare; poi c’interessa esaminare perché il filosofo desideri tanto cancellare le sue orme. Infine dovremo dire se sia dato non seguire né Leibniz né Nietzsche (e se ci si guadagna qualcosa). Quanto all’allestimento, il palco non è così spoglio come la messinscena pretende. Per meglio inquadrare l’idea di verità che Leibniz ha in mente, è opportuno rifarsi all’antecedente dell’Aquinate, che la intende come verità in re, in quanto un ente è quel che è; come verità post rem, in quanto una mente può cogliere un ente per quel ch’esso è (adaequatio, adsimilatio); come verità discorsiva, in quanto la parola può riferire quel che la mente ha colto e insieme rappresentare quel che l’ente è. È tuttavia evidente che gli ee.uu. non possono garantire per se stessi. Non v’è alcuna certezza di una corrispondenza felice tra i luoghi della verità che implicano la partecipazione umana (pensiero e parola) e il luogo presunto dove la verità fa da sé. I tre luoghi potrebbero essere tre mondi reciprocamente estranei. Serve una garanzia esterna ad essi, globale, un garante della comunicazione, la cui presenza certifichi almeno la possibilità dell’intesa. La soluzione tomista è ovviamente Dio. Anzitutto i tre modi sono perfettamente compresenti e connessi in mente Dei ed anzi ne riflettono la trinità costitutiva, fissata a suo tempo nel Simbolo niceno e in Agostino, più di recente in Abelardo. La pur insufficiente intuizione creaturale se ne convince facilmente, dato che in Lui, somma di ogni perfezione, tutto è insieme uno, tutto è vero, tutto è buono. Ora, poiché l’onninità divina include anche il creato e l’umano, è conseguente sostenere che gli enti naturali, esistendo ciascuno secondo la sua propria essenza, riflettano le verità costitutive, e che gli ee.uu., dallo stesso Dio dotati a sua immagine di ragione e di espressione, possano adeguare pensieri e parole all’ordine delle cose, salvo la debolezza della carne introdotta dalla disobbedienza di Adamo. La soluzione aquinate sarebbe impeccabile se la fede sussumesse e concludesse la ragione; ma pochi decenni dopo Guglielmo da Ockham già contestava quell’avviso. Quattro secoli più tardi, fede e ragione si ritrovano, benché in Leibniz ancora parallele, ormai reciprocamente distanti. Più la fede vorrebbe farsi, con l’avvento della modernità, razionalistica, e più la ragione resta sovraccarica di tutte le some. Per ciò il Seicento si presenta sistematico ad oltranza. Ecco quindi il filosofo tedesco esplorare, sulla scia di Cartesio, una razionalità più forte, costituentesi per via del tutto naturale. Ma appunto da dove iniziare? Dovendo far da sé, la ragione comincia a coltivar l’idea di porre se stessa assolutamente. Tra Sei- e Settecento non osa però ancora farlo in pubblico, con l’orgogliosa determinazione che i lumi francesi suggeriranno un secolo dopo alla Germania. Nel qual caso la colomba sarebbe volata prima di Kant direttamente dentro la cattedrale dell’idealismo trascendentale. La ragione leibniziana non pone se stessa se non – una volta di più – cercando di scomparire dietro una solida verità assoluta, intesa come inoppugnabile constatazione del che è (o che non è). Se questa è l’urgenza, niente di più logico che cominciare da quel che è che sempre è, cioè dall’assoluto in sé. Interroghiamo dunque il testo sulla seguente questione: se l’in sé razionale di cui afferma l’auto-affermazione sia davvero un in sé assoluto o non implichi la surrettizia presenza di altro. “Primæ veritates quae idem se ipso enuntiant…” Sette parole, le primissime del nostro testo, e già è nato un altro mondo (ad hoc). Vediamo meglio. Siamo intesi, noi e lui, che non vogliamo se non vagliare cosa sia la verità in sé. Dunque ogni riferimento al pensiero e alla parola sarà accuratamente espunto. Certo procediamo pensando e parlando, quindi ci avvarremo, onde intenderci, di strumenti linguistici; ma niente da essi deve traboccare sull’in sé di cui ci occupiamo. Ora, di quelle sette parole solo idem risponde, nel contesto, al requisito. Infatti veritates e quae indicano non l’esser in sé di qualcosa, ma l’effetto di quell’esser in sé, che invero dovremmo ancora dimostrare; o ancor peggio significano l’identità come risulta al pensarla, cioè quel che dobbiamo accuratamente evitare. Primæ, oltre ad essere aggettivo di veritates, fa riferimento a una gerarchia logico-ontologica, una preminenza o precedenza; tuttavia è abbastanza ovvio che occorre, affinché si diano un prima e un dopo di qualsiasi genere, la presenza di una mente osservatrice. L’in sé non contempla infatti né un prima né un dopo. Enuntiant implica o un’azione verbale intenzionale, o una mente che si raffiguri un accadimento qualsiasi come se fosse un’azione verbale. Se ipso, al caso ablativo, indica la limitazione dell’azione del verbo. In breve, per alludere alla primissima verità di ragione sarebbe più chiaro e più vero contentarsi di un semplice ‘idem’ o ‘A’. Intendendo con ciò che un non-importa-che-cosa (non posso né intender cosa, né intuirla, né indicarla, altrimenti diventa un per me, fenomeno o intenzione, un m’importa che cosa) è quel che è. Quest’estrema riduzione epistemologica mi deve lasciare dunque senza parole e perfino concettualmente vuoto, più ancora dell’intelletto puro kantiano. Infatti anche la categoria d’identità, la quale in quanto categoria appartiene al pensato-parlato, dovrebbe dileguare se volessi garantire a quell’idem la più autosufficiente inseità. Ma a quel punto evaporerei del tutto anch’io come io penso e dell’in sé senza il mio pensarlo nulla risulterebbe. Questa rilettura dell’inizio leibniziano risponde anche a chi eventualmente ritenga che scrivere A = A, oppure ~A ≠ A, sia più inattaccabile che asserire “Primæ veritates quae idem se ipso enuntiant…” in quanto eviterebbe l’imprecisione del linguaggio ordinario. L’identità e la non contraddizione si danno soltanto in una mente, per l’ottima ragione che fuori di essa non v’è alcun A, se si esclude il che è per quel che è, ossia l’onnino-anodino uni-molteplice. Qualsiasi A o idem implica un identificatore di identità, cioè un pensante, non necessariamente umano. Per la zanzarina tigre che vuol pungermi, qualcosa di (secondo me) mio costituisce senza dubbio un A identificabile, ineccepibilmente diverso (la sua mente è ben più disciplinata della nostra) da ogni non-A del suo catalogo. Come il fotografo che d’inverno sceglie con cura i suoi passi di modo che la distesa bianca sembri intatta nell’immagine che vuol catturare, così il pensatore, dicevamo, ai tempi di Leibniz ancora detestava lasciare tracce del suo passaggio (oggi invece marca accuratamente il territorio). Perché dunque ci è parso così semplice trovarne in abbondanza proprio là dove avrebbe dovuto esser sua estrema cura evitarle? Risposte accettabili sono quella socio-culturale: il sogno di Leibniz era una comunità europea di studiosi tra i quali le inutili dispute fossero impedite e gli steccati ideologici abbattuti dall’adozione di un linguaggio operativo comune logico-oggettivo o characteristica universalis, il quale “tamquam filum ariadneum” guidasse la ragione fuori dal labirinto della soggettività pensante; quella metafisicosistematica: per Leibniz (come per l’Aquinate) v’è cointeressenza di verità di ragione e verità di fatto, quindi anche corrispondenza possibile di intellezioni e accadimenti, termini ed enti. La sua filosofia puntava a recuperare tra pensiero e realtà quella sintonia, in cui doveva riflettersi l’ottimistica armonia prestabilita nel migliore dei mondi possibili. In un tale contesto metafisico non c’era dunque alcuno spazio per accogliere l’opposizione tra pensiero, parola e mondo. V’è poi la risposta storicistica: per Leibniz la metafisica è ancora la regina delle scienze e il suo campo d’indagine sono le forme dell’essere in quanto essere. Che l’essere sia è certezza immediata. Al contrario, reputare l’essere (la cosa in sé) inconoscibile e i nostri oggetti teoretici meri fasci o fenomeni foggiati dall’abitudine (custom, instinct) o da strutture trascendentali della sensibilità e dell’intelletto sarebbe stato, per l’autore della Monadologia, inammissibile. Non è ancora avvenuta con Hume e Kant quella radicale rivoluzione gnoseologica che rovescerà il rapporto gravitazionale tra i mondi e l’io penso. Ebbene, queste ed altre analoghe risposte sono sensate, ma a mio avviso non giungono al cuore della questione. Restano in superficie, al livello di ciò che può interessare, a partire da un punto di vista pre-determinato, che sia dell’autore o dei posteri. V’è però un’ultima risposta da menzionare, quella che chiamerò di nuovo, per quel che serve, gnoseogenetica. Essa invero non merita d’esser chiamata una risposta, in quanto non soddisfa alcun interesse particolare, non assume un punto di vista preferito e direttamente non risolve alcunché. Oltre a ciò, chi voglia comunque mettercisi, più che trovarsi servito di un chiarimento si trova invischiato in una scoraggiante complessità di trame. Pare quindi un investimento costoso per una sosta del tutto inutile, e pertanto di rado si trova chi la prenda seriamente in esame: Leibniz non può isolare l’in sé, né può mancare di lasciarsi dietro tracce indelebili sia del suo parlarne, sia della sua soggettità che ne parla, semplicemente perché non è dato evitare di lasciarne. Questo non esser dato l’intendo come assoluto: il triplice nesso, che è anche triplice alterità, tra pensiero e oggetto, pensiero e parola, oggetto e parola è ineluttabile, un fatto fondamentale dell’essere al mondo. In altre parole, Leibniz ci avrebbe solo offerto un comodo caso: di chiunque mettessimo al suo posto, dal più remoto gnostico al più post-postmoderno tra i neo-nicciani, potremmo dire esattamente lo stesso; lo stesso intorno a qualsiasi testo o contesto sia preso in esame. Il contenuto non ha affatto importanza, la sola forma è già sufficiente, come s’è visto, ad implicare l’intrinseca connessione delle alterità, ovvero l’impasse primitiva, la quale fonda l’infondatezza costitutiva del pensare. È questa trama l’inevitabile oggetto primo di una teoria della verità; è da questa trama che il soggetto pensa; è per il tramite di questa trama che un pensare può e insieme non può darsi libero. Il linguaggio per interporsi ha bisogno d’imprigionare nei segni oggettità & soggettità; quest’ultima per imporsi cerca di dominare l’oggettità con e nei diversi linguaggi; l’oggetto a sua volta è la cosa pensata o espressa, l’inerte che pur insorge, il nulla che viene ad essere quando e come una vita ne è colpita o ne risente. Deriva da ciò una sorta di vincolo fluttuante che pre-determina ogni essere pensare comunicare: invischia senza scampo mondo mente medio, in quanto ciascuna delle tre polarità trova o piuttosto tenta senza posa la propria nutricazione addentando le altre due. La relativa libertà d’agire di ciascuna di esse è ricavata per sottrazione surrettizia di alterità dalle rimanenti. In origine era una questione di tempistica della sopravvivenza, che per ogni vita ha un netto significato evolutivo: è concesso salvarsi solo nella continua alternanza tra essere & non essere, ovvero nel che è & che non è evenemenziale, nel porre e negare senza sosta. L’attimo deve essere fuggente: tra due riflessioni c’è il tempo di morire. Le culture e le civiltà sorgono da un drastico rallentamento delle dinamiche tra vita e morte, tra minaccia e sicurezza, quindi tra sopravvivenza e conoscenza. L’e.u. può cominciare a pensare in deroga all’agire solo quando l’agire può essere almeno temporaneamente sospeso. Ben presto egli può immaginare e desiderare di estendere all’infinito questa sua quinta dimensione largamente riflessiva, meta-spaziotemporale. Nascono i miti superiori, le epiche eroiche e infine le filosofie del principio e dell’essere. Inizialmente queste nutrono una passione ingenua per l’assoluto che per la prima volta si configura come idea prima, prima verità. Pitagora e Parmenide si comportano con l’Idea come fanciulli pazzi di gioia al loro primo giorno di mare: il primo scopre il granello di sabbia (l’Uno) e l’armonia/disarmonia delle forme (de)finite/in(de)finite che il granello replicandosi compone; il secondo si getta nell’immensa liquidità dell’Essere (cioè dell’Idea medesima) e ne percepisce l’indifferenza interpretandola come equorea Istessità. Entrambi insomma contemplano auto-eroticamente nel Tutto la loro stessa ragione; ma non possono concederselo se non immediatamente e ingenuamente. Altrimenti dovrebbero confessarselo, rompendo l’incantesimo. Oppure, come poi nel Fedone, dovrebbero elaborare una mito-sofia della soggettità capace di cancellare le orme dell’artificio. In effetti la connessione storica tra orfismo, pitagorismo e platonismo tende a rinsaldare fino alla certezza l’illusione metafisica della concomitanza tra l’assoluto soggettivo (l’anima) e l’assoluto oggettivo (il mondo ideale). A tale scopo l’ostacolo principale da eliminare è il medium, la parola, quella stessa che ai detestati sofisti serve invece per disgregare ogni ουσία (in nome di un’antropologia avventurosa se non pericolosa). Contro le due tradizioni, orfico-pitagorica e parmenidea, che sospendono il medio in formule o mistiche o logiche, un vero impiccio tra le vie dell’anima e la via del che è, la novità introdotta da Platone consiste nello sferrare un attacco frontale alla differenza della parola dall’interno stesso della parola. La dialogicità pseudosocratica degli scritti platonici maturi tende strenuamente a sopprimere, assumendo la libertà di parola, la libertà della parola, ossia ad assializzarla come mero mezzo in ordine all’Oggetto, onde la soggettità, la quale ne dispone a questo solo scopo, che è poi l’eros del supremo Banale, vi si sublimi anch’essa interamente. Rimproverare rispettosamente a Platone di non aver badato al medio? Proprio a lui, che tra oralità e scrittura, dialettica e matematica, dottrine scritte e non, se n’è fatto un impegno e un dilemma costante? Invero l’appunto è d’averlo badato e accudito fin troppo. D’essersi adoperato, spendendo i preziosi talenti di cui disponeva, a controllare con ogni mezzo quello stesso mezzo che, lasciato a se stesso, avrebbe intralciato la libera costruzione di quel gran mondo ad hoc che all’illustre ateniese doveva guadagnare fama imperitura. In ciò, indubbiamente, egli “s’è mostrato come il grande spirito ch’egli fu”, purché condividiamo con Hegel una certa idea della Storia. Se quest’ultima è davvero guidata dal razionale che si realizza, cioè dalla fissazione empirica delle soluzioni (intendendo per esperienza ciò che l’eros del banale induce a percepire e configura), allora l’Ateniese ne ha intuito lo Spirito molto in anticipo sui tempi; anche se precisamente a causa di quella sua precocità non ha trovato dove collocare il realerazionale in questo mondo, e ne ha dovuto pensare uno altrove, al di là del cielo, utopico. Sofie [↑] Le sofie ideotiche sorgono per offrire assializzazioni in cui mente, mondo e medio sono obbligati a contenersi a vicenda entro un sistema opportunamente pre-configurato, una struttura predisposta in base alle attese di verità del momento. Le filosofie – per quel che qui interessa – esibiscono esempi particolarmente ben congegnati e articolati di risposta alle attese. Così per noi esse risultano preziose per lo studio delle possibilità del gioco esistenziale. Possibilità non però di svolgimento effettivo, sul campo della vita, ma della sua astratta iconografia. Lo svolgimento dell’esistere infatti non segue mai una filosofia, ma la precede. Scorrendone il lungo catalogo vediamo in effetti tutte le sofie della storia farsi avanti come sistemazioni, prefiggersi di dare risposte radicali, anzi assicurare di averne (o, altrettanto radicalmente, di non potersene dare). Se ne desume che nessuna abbia ritenuto opportuno fermarsi prima di scendere nel suo mondo ad hoc d’elezione. Questa supposizione evidentemente non possiamo dimostrarla perché il dimostrare molitorio esige a sua volta, non meno del dimostrare costruttivo, un suo mondo ad hoc, ossia la pre-determinazione di un complesso comprendente-compreso. Non resta quindi altro da fare che proporla come finzione e vedere a cosa conduce. Bisogna riconoscere, d’altra parte, che paradossalmente la straordinaria abbondanza delle visioni del mondo passate e presenti getta la nostra hypothesis ficta alla mercé di chiunque voglia provarsi a confutarla. In ogni caso, se è vero che ogni esperienza e visione del mondo gioca con gli stessi tre elementi di base, in vario modo allestiti e combinati, allora tutte le sofie devono confluire in poche schematiche e queste confluire in un unico pre-paradigma. Le schematiche di base sarebbero evidentemente tre, a seconda dell’asse lungo cui il sistema è costruito. E in effetti le filosofie antiche si mostrano grosso modo imperniate sull’asse O; le moderne lungo l’asse S e le contemporanee sull’asse M. Così, ad es., nonostante le profonde divergenze determinate dal bisogno a cui cercano di rispondere, gli schemi eleate e pluralista, platonico ed epicureo, pitagorico e stoico si assomigliano in quanto tutti tendono a costruire per prima cosa la certezza metafisica di un qualche Mondo, poiché in antico le risposte, qualsiasi strada prendessero, dovevano pervenire, per sentirsi effettivamente rispondenti, a una dogmatica della oggettività come Realtà (solo lo scetticismo romano elabora una dogmatica della soggettività). Intorno a questo totem della ragione antica danzano le varie soluzioni. L’oggetto vero e proprio compare piuttosto tardi, quando il soggetto comincia a sentirsene responsabile e si fa strada lentamente il sospetto che i due si co-generino. La grande migrazione verso la dogmatica della soggettività procede con Agostino e prosegue in età scolastica. Non che ancora si sia disposti a rinunciare alla prescrizione di una Realtà; ma al contrario affinché l’interiorità del cristiano non si sottragga al prescritto ordo rerum. Nelle Divisiones naturae dell’Eriugena e nei gradi dell’Itinerarium mentis di fra’ Bonaventura, l’anima elevandosi aderisce pienamente all’Assoluto, al Creato e tramite questo al Creatore. Unicamente il peccato, solo vero male, s-comunicava il soggetto dall’Essere, ed è per questo che la soggettività libera risultava inammissibile come fondamento dell’essere e protagonista del divenire. Prima di tutto doveva venire sconfitto nuovamente il peccato. La storia del peccato è di grande interesse, quella dell’idea di peccato lo sarebbe ancor più. Ma mentre della prima s’è scritto in abbondanza, sulla seconda abbiamo poche indagini sulla lunga durata. La prima sconfitta del peccato, per iniziativa di un dio fatto uomo (redemptio), aveva gettato l’e.u. nelle braccia misericordiose dell’Eterno, quindi in una schematica complessa centrata su un’Oggettità ultramondana (Dio) che si faceva sentire e servire per il tramite di una Soggettità (Padre) e di un Mezzo (la Parola, il Verbo incarnato) fittizi perché assializzati sull’assoluto Essente, superessenzialmente uno vero buono. E infatti la dignità dell’uomo coincideva con la sua sussunzione nel Tutto alla fine dei tempi. Ma i tempi non finirono, ringiovanirono. Agli esordi del moderno, la seconda sconfitta del peccato, ad opera di un uomo nuovo che si vede all’altezza di Dio (copula artefice principe eroe), proietterà l’e.u. di fronte a se stesso in quella sfera d’autonomia attiva che tra l’Alberti e Albrecht Dürer, tra Erasmo e Montaigne, tra Lutero e Bruno, tra Machiavelli e Grozio farà di lui per la prima volta una coscienza apparentemente libera, pronta ad accogliere l’ipostasi del cogito, sebbene appoggiata ancora a spazialità e temporalità assolute, a una Realtà universale o Sostanza divina. Invece la schematica centrata sul mezzo è in grande auge dall’epoca di Nietzsche (e del telefono) in qua. La contemporaneità vive immersa in un sovrafflusso comunicativo che fuoriesce e dilaga per generazione spontanea dalla stessa riproducibilità tecnica. Il cervello cerca il sonno per scaricare l’eccesso di esperienza e dimenticare, ma il genere umano che in passato dormiva e dimenticava ora veglia ininterrottamente grazie ai media, depositari materiali di una nuova e ben diversa memoria d’uomo. I media – precisamente a motivo della loro riportabilità che li rende indefinitamente citabili ripubblicabili riproponibili nei più diversi contesti (leggere Ulysses a New York nel 1932, o i Versetti satanici (o Lolita) a Teheran nel 1982, o I protocolli dei savi di Sion a Lagos nel 2002) – sono tipicamente instancabili e insensibili-insensati, cioè sfuggono ai processi di decantazione e riassorbimento in cui ogni comunicare dovrebbe dissolversi (pur tenuto conto delle differenze di durata dipendenti dal genere di mediazione, per cui una pattuizione perdurerà probabilmente più a lungo di un convenevole), e insieme mostrano una quasi cinica mancanza di riguardo alle condizioni di sensatezza che provvederebbero, se fossero tenute in conto, a una negoziazione tra i soggetti circa i referenti. La replicabilità sempre ed ovunque, cronica e clinica, del messaggio lo strappa dal qui e ora da cui e per cui è sorto. Il risultato complessivo è una molteplicità indiscriminata di sensi sconnessi la quale può così dirsi insensibile-insensata. Le nuove tecnologie rafforzano il potere del medio e quindi la sua signoria sull’oggetto e sul soggetto, diventata da ultimo un vero dispotismo. Un tempo l’insonnia della memoria, essendo fondata (a parte le tradizioni orali) su manoscritti prima, e poi quasi soltanto sulla stampa, riguardava la sparuta élite intellettuale, la quale doveva confrontarsi socialmente con una realtà comunicativa da cui i media non erano esclusi, ma certo vi rivestivano un ruolo il più delle volte subalterno, da cancelleria o segreteria, o come rifugio dell’immaginazione. Ma con l’evoluzione dei media la sfrenata insensatezza dello pseudo-comunicare globale, ovunque scontestuato, tende a prevaricare su ogni tentativo di mantenere la comunicazione in rapporto con l’intenzionalità fine dei soggetti e con i campi del loro agire sensato. Poiché dunque il medio produce un’infinità di metempsicosi del senso, dovremmo aspettarci in filosofia la teorizzazione della frantumazione di ogni schematica. Ciò in effetti gratifica l’intellettuale post-moderno, il quale fa dell’insensatezza ultima la cifra di un suo nuovo comprendere. Egli tende a negare la brutalità del mezzo, che deve apparire non per quello che è diventato, ma per quel che (secondo l’intellettuale) dovrebbe essere, cioè una sorta di bene strumentale e insieme di ente benefico. A partire da questa esigenza precondizionante, non è difficile elaborare, in sostituzione delle schematiche centrate sul soggetto, una qualsiasi schematica mediocentrica, dove le autonomie rispettive di S e O non sembrino, come in realtà sono, sconfessate da M. Esse vi saranno viste semmai come giustamente eliminate, per ragioni o etiche o logiche o semiologiche o strutturali, oppure come debitamente assimilate in M, o perfino come rilanciate dal superattivismo di questo nuovo Leviathan, il mediatico, opportunamente camuffato da Grande Ermeneuta. Il pre-paradigma [↑] Una contemplazione si prefigge di accogliere un annuncio in arrivo. Chi contempla è in attesa interessata, anzi ha prescritto un ambito e una gamma d’esiti alla sua attesa. Pre-tensione (eros), predeterminazione (templum), pre-interpretazione (inventario dei signa): demarcazioni che delimitano l’intreccio delle relazioni mente-mondo-linguaggio. In cultura come in natura il soggetto apre all’oggetto e al linguaggio quel tanto che gli basta a giustificare la soluzione che ha predisposto e a chiudersi sulla stessa. Ogni contemplazione è quindi viziata da circolarità, comporta autoctisi, s’illude di libertà. Apertura e chiusura, apprensione e afferramento, bisogno e soddisfazione s’interlacciano stretti in una contestualità senza fine e senza origine. Libertà e costrizione finiscono così per risultare indistricabili. Giunto a idealizzarsi come identità pensante, l’e.u. si è identificato col suo pensare, visto come riflesso in lui di quel divino che veniva contemporaneamente trasformandosi per rispecchiare non più solo i suoi terrori ma anche e soprattutto il suo ethos, la sua dignità interiore, il suo stesso ragionare. Si è allora adoperato in tutti i modi perché la ragione, questo suo dato identitario estrapolato e parziale, producesse una forma soddisfacente di unità intrinseca abbracciante mondo, mente e linguaggio. “Infatti, che cosa potrebbe esserci se non fosse unità?” [Plotino, Enneadi VI.9.I]. Con ciò l’uomo s’aliena in un falso sé che ospita nella sua interiorità sempre più diverticolare, piccolo dio nella sua cella, ciò in cui crede di riconoscere il culmine del proprio essere. Lo fa però senza dirselo, saperlo è tabù. Non può rendersene conto, altrimenti non giungerebbe allo scopo, non potrebbe pensare idealmente se stesso come identità pensante. Nel vivere naturale l’agire tipico (umano e animale) è prudenziale: evita di lasciarsi sorprendere e continuamente aggiorna il registro del che è & che non è in base al da farsi, alla situazione in corso e ai valori vitali (sicurezza riposo nutrizione approvvigionamento accoppiamento gestazione cure parentali comunicazione convivenza confronto trasmissione tradizione ecc.). L’agire tipico del pensare era in origine analogo, armonizzato con le richieste immediate della prudenza. Col tempo, divenuti artefici, gli ee.uu. hanno imparato ad applicare ai costrutti mentali quelle stesse abilità configurative (eidetiche) e costruttive (poietiche) che consentivano loro di scolpire piroghe, erigere ricoveri, organizzare battute di caccia. Del suo laccio (di come è fatto, come e dove collocato ecc.) il cacciatore controlla la rispondenza se esso cattura la preda per cui è predisposto; allo stesso modo l’atto pensante sembra effettivamente rispondente quando afferra quel che vuol cogliere. Tuttavia, mentre il laccio si confronta con un mondo che non dipende da lui e a cui deve necessariamente adeguarsi, ciò non vale per il lacciatore di idee, il quale sa foggiare anche l’ambiente all’interno del quale la cattura (l’ideazione) non fallisce. Lo stesso capita con qualsiasi artefatto qualora gli si costruisca attorno un apparato destinato ad accoglierlo. L’artefatto funziona ineccepibilmente grazie all’apparato, l’apparato si giustifica per il fatto incontestabile che grazie ad esso l’artefatto funziona ineccepibilmente. Da cui tra l’altro problemi attualissimi, connessi alla proliferazione tecnologica che tende a costituire le proprie giustificazioni così come sa costruire l’uno per l’altro il funzionale e il funzionante. Le schematiche somarie (o paradigmi) si equivalgono, a grandi linee, in quanto strutture ideotiche razionalmente o fideisticamente credibili (comunque sia, credute), finalizzate a garantire al loro interno un certo gioco più o meno rigidamente regolato sulle stesse assialità, articolate tra loro in modo tale che la committenza, se possiamo chiamarla così, ne sia soddisfatta. Comprenderanno quindi un’oggettità fungente, a seconda dei casi, da realtà mondo essere divenire ordine bellezza totalità struttura e via dicendo; una soggettità che definisca, a seconda dei casi, il sensore dei fenomeni, l’agente della storia, la fonte dell’ethos, il responsabile dei comportamenti, l’ego e l’alter, il creatore delle forme simboliche ecc.; infine la funzione mediante, nella quale sono riuniti e riconosciuti i linguaggi, i canali di comunicazione, l’aspetto poetico, le strategie retoriche, l’interpretazione ammessa e così via. Oltre a ciò le schematiche si equivalgono perché solo orientativamente è decidibile intorno a quale assialità sono costruite. È sempre il senso quel che decide, e il senso di una schematica non le appartiene. Può sempre avvicinarsi qualcuno con un senso diverso da attribuirle, almeno finché questa storia continuerà il suo corso. Ciò è tanto più vero quanto più la costruzione è complessa. Prendiamo ad esempio Aristotele. Egli è sembrato eminentemente – quand’era sensato vederlo in quei panni – il filosofo della fisica e della metafisica, degli enti e dell’essere in quanto essere, quindi dell’oggettità prima, conosciuta scientificamente sulla base di un naturale rispecchiamento tra i piani ontologico e logico-linguistico. Nel disegno aristotelico la soggettità pareva allora desunta dalle altre premesse di sistema (l’anima, p.es., è prima di tutto vegetativa) e non certo fondarle. Dio stesso non compare forse, in cima alla serie delle cause fisiche, come causa incausata e motore immobile di ogni movimento? Eppure per Hegel è più vero il contrario: L’Idea platonica è in generale l’Oggettivo, ma Platone non mette ancora in rilievo il principio della Vitalità, il principio della Soggettività. E questo principio della Vitalità, della Soggettività – non nel senso di una Soggettività accidentale, solo particolare, ma della Soggettività pura – è appunto il principio peculiare di Aristotele. [G.W.F.Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. V.Cicero, v.ed. Michelet 68911-16] “Das Platonische – ist im allgemeinen das Objektive; das Aristotelische – das Subjektive”. Vorremmo quasi consentire. In fondo colui che fu soprannominato egli stesso Nous portò alla perfezione, proseguendo a suo modo il progetto platonico, un acuminato disegno della soggettità pensante consapevole di sé (pensiero di pensiero) e costruttrice del sapere. L’intero sistema aristotelico non è forse de-costruibile a partire dalla forma mentis, in opposizione alla materia che è dei corpi? La mente sustanzia le cose; padroneggia con le categorie e la deduzione sillogistica la conoscenza teoretica del mondo in ogni sua sfera; ingloba di etere eterno e di moti perfetti il mondo inferiore della corruzione materiale; si trasmette da ogni appetizione e scelta alla felicità ultima che coincide, nella sua massima elevazione, appunto col pensare medesimo. Visto così, Aristotele diviene il filosofo dell’anima riflessiva, ovvero della soggettività, quanto più possibile espansa intorno a sé fin oltre il limite dell’Illimite. Per un altro caso di indecidibilità dell’orientamento SOMario si consideri l’esistenzialismo. I filosofi-letterati di tale corrente sembravano parlare esclusivamente della/dalla singolarità soggettiva, sull’orlo del Nonsenso, alla quale non solo l’Assoluto manca, ma perfino un ubi consistam tollerabile. Tuttavia, facendone argomento di pena rabbia rancore rammarico o di speranza dialogo scambio (e di profusa elaborazione letteraria), l’esistenzialista dimostra contestualmente che il suo credo tende all’ipostasi ultima e deteriore dell’individuo come autoriferimento assoluto, cioè come oggetto di culto di se stesso. Ma più in generale, dall’antichità al presente quante visioni del mondo sono state vissute, quante in qualche modo formulate, diversamente interpretate e riviste? Migliaia solo quelle descritte. Più tutte le altre rimaste indescritte, disegni mentali; oppure messe avanti, invece che per iscritto, in progetti artefatti azioni conformi. Ognuna di esse è costruita in funzione di un mondo da rappresentare e su cui riflettere comunicare operare. Poiché molte visioni del mondo si assomigliano per conformazione è possibile raggrupparle in base a tali somiglianze strutturali. Chiameremo ancora paradigma la verità localizzabile di un insieme di visioni del mondo su impianto comune. In quest’ultimo senso i paradigmi che la storia del pensiero (fatta di miti religioni filosofie ideologie correnti letterarie ed artistiche ecc.) ci ha tramandato si contano ancora a dozzine, ammesso sia possibile accordarsi su una lista e tralasciando il fatto che molte visioni presumono inglobarne altre in più radicale unità di pensiero. Comunque sia, quale catalogazione finiremo per preferire non ha importanza in questo momento, giacché vogliamo sottolineare che tutte le schematiche o paradigmi, per quanto sembrino diversi e non di rado tra loro in superficiale opposizione, rimandano in ultima istanza a un unico schema di base. Questo pre-paradigma in che consiste? Anzitutto in una struttura, quale che sia, di comprensione ordinata e gestibile che riduca alla ragione l’inafferrabilità (il che è vs-& che non è) dell’onnino. Questo è il primo e comune movente del pensiero: ci occupiamo di stabilire la nostra visione del mondo perché presumiamo che, alfine assestatala, essa in effetti veda il mondo. Anche l’esito più scettico sarà l’esito di un aver visto il che è (o il che non è) del mondo. Perché il mondo sia radicalmente inafferrabile abbiamo già detto alcune cose, e vi torneremo su fra poco esplorando il darsi originario . Però è già evidente che se il mondo fosse pacificamente afferrabile dal pensiero, se il pensiero potesse immergervisi con perfetta adeguatezza, neppure ci accorgeremmo di pensare. Il mondo non sarebbe più fuori di noi, ma l’avremmo tutto dentro (oppure non avremmo più un dentro, ma saremmo del tutto fuori di noi, in estasi naturale). Il sogno erotico di ogni pensare è appunto questo, aver dentro il mondo, o esser dentro al mondo, comprenderlo o esser compresi, meglio di tutto possederlo & esser posseduti. L’esperienza insegna quanto quel possesso sia precario, quanto sia sfuggente il fenomeno, insufficiente la rappresentazione che se ne ha, la descrizione che se ne dà. In breve, quanto appaia ineludibile un rimedio all’indeterminazione, una soluzione. Il pre-paradigma, configurazione comune a tutte le soluzioni, include l’indispensabile per formulare una visione del mondo, quindi un kit completo per contemplare il mondo secondo una presupposta verità. L’esito del pensare, la risposta, è gettato indietro come sua premessa, come rispondenza. Il pensare ha capacità creative tanto devastanti che la cosa avvertita oscuramente come la più sensata è dare uno scopo all’invenzione, onde non debordi diventando pericolosa. Il più ricercato degli scopi è stato, per molto tempo, rivelare l’essere, distinguendo il che è delle cose dal che non è; mettervi ordine stabilendo rapporti di inclusione ed esclusione, così che la visione corrispondesse al mondo o perlomeno ad uno dei mondi credibili. Imboccata questa strada, chi vuol dar vita al suo sogno e chiamarlo Intero o Mondo può farlo senza difficoltà ed anzi gustarne la processione con gioia profonda. “Cosa c’è di più gaio della fede in un dio domestico!”, esclama Kafka. Ironicamente, il solo ostacolo che incontra è l’eccesso di libertà. Non c’è limite alla produttività gratificante. Parrebbe che, se non nel rispecchiare la verità delle cose, almeno nell’ideare mondi l’e.u. potesse sbizzarrirsi illimitatamente. Se parliamo di preparadigma stabiliamo dunque una condizione forte. Non è un vago nihil sub sole novi. Il pre-paradigma è, nella nostra ipotesi, il solo modello di tutti i mondi prodotti. Non è dimostrabile né per induzione (è unico ed equivoco), né per deduzione (sarebbe a sua volta paradigma tra gli altri). Un’ipotesi quindi tanto sospettosa quanto sospetta; nondimeno, tutto concorre a ritenere che – “generato, non creato” – esso aleggi su ogni mondo. Perché nessuno sembra essersi preoccupato, e pochi essersi accorti, della sua incombente presenza? Torno sulla stessa spiegazione perché non ne trovo altre (chi ne reperisse una diversa potrebbe immediatamente confutarmi, ma controlli che la sua non presupponga un’assializzazione qualsiasi, nel qual caso essa non potrà fungere da pre-paradigma): ogni teoresi abbisogna, per potersi muovere, di predisporre un mondo ad hoc rispondente, ciò che solo può darsi ricorrendo a una polarizzazione qualsiasi dei tre fattori fondamentali (mente mondo linguaggio) di ogni eventuarsi. Allo stesso modo, un’azione fisica qualsiasi, come correre o nutrirsi, non potrebbe neppure iniziare se il corpo non pre-conoscesse, per il tramite dei suoi geni e dell’esperienza acquisita, le condizioni ambientali in cui è nato e cresciuto, dalla gravità alla composizione dell’atmosfera, a ciò che è ‘cibo’ o ‘minaccia’. Diversamente dovrebbe avanzare nel vuoto (non nell’abisso metafisico, nella noche oscura del alma o simili, ma nel mero e insulso nil). Il pre-paradigma è il modello di tutte le possibili schematiche rispondenti. Nudo e crudo esso non fornisce alcuna risposta, non regala alcuna soluzione, e quindi nessuno gli ha mai chiesto niente. Al grado zero del pre-paradigma non esistono mondi adibiti, perché lì freme la matrice di tutti i mondi possibili. Intorno alla vasta fattoria dei significati e sopra un cielo aperto a tutti i sensi v’è una stanza di com-prensione o pre-compressione. Il pre-paradigma è quella stanza. Essere al mondo [↑] Qual è la condizione inaggirabile anteposta a tutte le aperture e chiusure dell’esistere? quale l’ipotesi obbligata, antecedente ogni cosa – esperienza espressione emozione individuo ente fenomeno senso significato idea concetto legge calcolo relazione principio ecc.? quale il dato da cui necessariamente comincia e a cui perviene ogni riflessione? Questa è la domanda a cui più spesso si risponde, consapevolmente o no. Qualsiasi cosa pensiamo diciamo compiamo implica che di fatto noi affrontiamo tale questione, contessuta in ogni atto di vita. Vedendo ondeggiare la cima del cipresso, la bimba dice alla sua bambola “Che vento, Sissi!” Con ciò assume ingenuamente un mondo fisico di fatti, un io sensibile e reattivo, un pensiero in grado di corrispondere alla situazione e di tradursi in linguaggio significativo, la comunicabilità delle conoscenze e delle emozioni tra soggetti, la finzione come analogo della realtà ecc. Il filosofo non è soddisfatto di questa congerie di assunti. Egli sottolinea la problematicità di ciascuna ammissione ingenua, separatamente considerata. Al tempo stesso quegli assunti, a considerarli tutti insieme, riversano sull’osservatore un magma di presupposizioni incrociate da cui non pare potersi trarre né una sequenza logica né un ordine essenziale coerenti. Soprattutto, in un contesto magmatico l’intellettuale non trova come spendersi. L’indefinito coincide, secondo lui, con l’indicibile e quindi con l’irrazionale (Caso) o l’iperrazionale (Dio). Il suo ruolo inizia quando, e solo quando, si può cominciare a differenziare l’antecedente dal conseguente, il divenire dall’essere, l’apparenza dall’essenza, la materia dallo spirito, il razionale dall’assurdo, l’universale dal particolare, la necessità dalla libertà, il testo dal contesto e via dicendo. All’intellettuale per sussistere serve un’interità strutturabile, che egli stesso possa configurare, mettere a punto e descrivere. Non ci pensa nemmeno a evitare la scelta, considera suo dovere rispondere e una mancanza non aggredire le problematiche dell’umano del mondano del transumano ecc. Rispondendo individua implicitamente il suo paradigma d’elezione al quale altrimenti non saprebbe come accedere. Allontanandosi dalla domanda, egli non vede che, precisamente a motivo del paradigma su cui è foggiata la sua risposta, sta circoscrivendo e localizzando l’eventuarsi dell’essere al mondo. E non basta che quella domanda prima se la lasci alle spalle, deve dimenticare del tutto che esista (oblio dell’essere al mondo), altrimenti la sua Weltanschauung non conseguirà quella solidità per cui è costruita. Sarà buona tutt’al più come letteratura amena o relazione di viaggio o esercizio. Il pre-paradigma SOMario è da obliare in quanto modulo sempre uguale di tutte le risposte, che tutte quindi le apparenta ed uguaglia. Se restasse in vista toglierebbe loro precisamente quell’aura (se non altro) di verità assoluta, di cui una risposta sofica non può far senza, pena l’auto-dismissione. Se il pre-paradigma si rivela, a ben guardare, onni-sotteso, la cosa non va attribuita ad ultrabimillenarie erranze del pensiero occidentale. Prima di tutto il pre-paradigma è alla base di qualsiasi versione del mondo, occidentale ed orientale, colta o ingenua. Inoltre, anche chi con intelligenza oltremodo flessibile giocasse di momento in momento, come fosse la briscola giusta, una Anshauung differente e pertinente, non farebbe che calare, in successione, altrettante varianti di paradigma. In ogni caso infatti occorrerebbe decidere circa quali oggettità, per conto di quali soggettità e tramite quali linguaggi quel mondo momentaneo si configuri e acquisti senso. Torniamo dunque, acquisiti questi riferimenti, alla domanda: Perché nessuna contemplazione sfugge al pre-paradigma? Ripeto la mia risposta: Non può sfuggire perché la SOMarità, onnipresente nei paradigmi apparentemente più diversi, è un riflesso obbligato dell’essere al mondo, cioè del darsi originario a cui ogni vivente è sottoposto. Poiché abbiamo richiamato, poco fa, il principio di identità o non-contraddizione, che meglio potrebbe dirsi, più che un principio primo, un’immancabile conseguenza, ci si può domandare quale altro principio, se ve n’è uno, potrebbe sostituirlo. Secondo me, una sorta di soddisfazione a chi di sani principi sente il bisogno la si può dare. Asserire che assolutamente non si danno principi, che si può ben farne a meno, che tutto è sempre da concordare ecc. mi pare come uno scivolare inavvertito in metafisiche lutee che non sanno neppure di se stesse. In effetti un solo principio si dà in ogni caso, anche se di cosa sia principio non è dato pre-dire ma solo costatare. Per assonanza con l’altro lo chiamerei principio di contrazione: quel che appare come che è (o che non è) sorge necessariamente dalla concorrenza di tre reciprocità essenziali che all’incontrarsi si individuano e al tempo stesso si contraggono più o meno durevolmente in uno. Senza quella triplice contrazione non sarebbe possibile alcun incontro, quindi alcun effettivo darsi. Quando ci poniamo in animo di affrontare una questione di ordine concettuale, siamo soliti procedere distinguendo. In tal modo escludiamo ciò che non interessa e gettiamo luce su ciò che riteniamo pertinente. Per fare ciò siamo portati ad adottare un lessico preciso, una grammatica e una sintassi rigorose. Ci doteremo di una certa logica, affineremo i concetti, determineremo categorie e fisseremo assiomi. Con questi che potremmo chiamare, per amor di brevità, strumenti greci è dato significare tutto quel che si vuole senza incorrere in oscurità o contraddizione. Questa asserzione sembra negata dalla storia stessa della filosofia greca e posteriore dove tutto è sempre stato in discussione, ma occorre intendersi. Gli strumenti greci non ci danno la Verità, ma ci aprono a tutte le possibili verità, in quanto ci consentono ogni possibile significato, purché espresso in termini non contraddittori (sillogistici o logicoformali) o discorsivamente convincenti (dialettici, retorici) o riferiti a precise esperienze ed esperimenti (scientifici, tecnologici) o corrispondenti a scopi dichiarati ecc. Se possiamo parlare e intenderci sulle nane bianche e i segni zodiacali, disquisire di vitigni e mostarde, girare l’Umbria affidandoci alle guide del TCI o al navigatore GPS, insomma destreggiarci senza troppi problemi tra riferimenti culturali straordinariamente diversi e complessi, lo dobbiamo in buona misura agli strumenti greci. Dico in buona misura e non esclusivamente, perché senza il controllo a cui il buon senso li sottopone, quegli strumenti da soli ci soffocherebbero. La totalità dei chiarimenti si rivela confusionaria: indagare il perché di questo paradosso ci porterebbe a destinazione (la meta è, lo ricordo, l’onnipresenza sottesa a ogni vivere, o darsi originario). Ma sarebbe un’indagine lunga e tortuosa. Per nostra fortuna c’è una via breve e diritta, e non può che essere così se quel che cerchiamo si trova ovunque. Lasciamo dunque gli strumenti greci e torniamo a quel che la bimba implica bisbigliando alla sua bambola, o scegliamo qualsivoglia altra espressione, anche minima, o non importa che altro momento di vita munito di senso. Ad esempio, cosa comporta uno sguardo? Vivere uno sguardo implica necessariamente e quanto meno un chi guardante (S), un che guardato (O), nonché una griglia (M) di traduzione del percetto/appercepito in qualcosa di significativo/sensato all’interno di uno o più orizzonti esistenziali (istintuale emotivo ideale concettuale valoriale). Ciò vale pressappoco anche per il guardare di un bove, salvo il fatto che per esso l’orizzonte è, per quel che ne sappiamo, uno solo (per ciò il suo guardare pare così pio). Rispetto all’animale, nell’e.u. c’è, di più, che sugli sguardi suoi e specialmente su quelli altrui egli sa riflettere, riesce a parlarne, può intenzionare quel suo vedere e anche l’esser visto, può adoperarlo di proposito a qualche scopo, come scrutare un dettaglio o confortare un infermo o simulare interessamento. Ne consegue forse un superamento del modulo originario guardante/guardato/griglia? No, ne deriva però una possibilità straordinaria di proliferazione delle varianti di modulo. Quello schema SOM che nel bove si ripete sempre uguale o con una gamma di variazioni ridottissima, nell’e.u. può differenziarsi all’infinito. Nel vivere lo sguardo, egli gioca le tre carte come gli pare e piace. Il chi può diventare un tu (guardo coi tuoi occhi), un noi (ci guardiamo negli occhi) un lui o una lei (ti guardo come lei ti guarderebbe). Talora un robot ci guarda – un morto, una montagna, perfino una statua acefala, uno schermo bianco, la luna e le stelle. Similmente dicasi circa che cosa guardiamo (O) e quali filtri linguistici adottiamo (M). Lungo questa via l’e.u. perviene a creare un’infinità di significati e di sensi e di mondi e di modi d’esserci. Una tale illimitata creatività finisce per inorgoglirlo e, quando l’umore epocale (Zeigeist) è su di giri, l’uomo si sente Microcosmo o Spirito (quando è giù si proclama Nulla o Occidente). Tende insomma a vedersi come un’entità proliferante – un Proteo, un Prometeo – tralasciando di considerare l’umile universale ovunque sotteso, il darsi originario che è sempre semplicemente necessariamente il medesimo. E se il vissuto non fosse uno sguardo, ma un grido o un sospiro? Cos’hanno in comune, nel viverli, il respirare, il sospirare e lo spirare? Gli strumenti greci ci condurrebbero alla distinzione inequivoca dei termini, all’uso di categorie, alla concatenazione dei giudizi, all’osservazione empirica, all’ipotizzazione causale, alla verificazione e per questa strada piano piano giungeremmo alle leggi della scienza e alle conquiste della tecnica. Va tutto bene, ma quando ci chiediamo qual sia il senso di tutto ciò restiamo prudentemente in silenzio. L’e.u., non sapendo indicare una sicura congruenza nel mare di sensi disponibili, s’illude talora di poter vivere di soli significati. O viceversa perora un Senso ultimo (una Causa, direbbe Stirner), o proclama un’impacciata e piuttosto ipocrita relatività di tutti i sensi, o al peggio impone, con l’uno o l’altro dei tanti modi di violenza, alcuni cortesissimi, quel senso irrigidito che solo gli aggrada. Lo spirare (esalare l’ultimo respiro) è collocabile, sulla sfera ermeneutica, al polo opposto del respirare, sia perché del respiro addita la cessazione, sia perché quanto quest’ultimo passa di regola inosservato, tanto l’altro dà da pensare. Nondimeno, chiunque s’accosti allo spirare, comunque progetti di condursi in quello tra i passi della vita che è forse il più greve & leggero di sensi in ogni cultura, a costui sarà in ogni caso necessario rappresentarsi un’individualità (organicità psichicità anima) spirante, un soma che resta (che morto cade nella mera oggettualità o che sopravvive in quanto corruttibile in altro), e un estremo disfarsi dell’élan comunicativo(M) tra materia(O) e memoria(S). Circa il respirare (inteso come riflesso fisiologico spontaneo) sembra che neppur esso sia esentato dal sottostare al darsi originario. Comporta infatti un organismo individuabile(S), il quale si pone in un rapporto continuo di assimilazione/adattamento con l’ambiente(O) e un ‘traduttore’ biochimico(M) che permette a S di entrare in contatto con O per acquisire ciò che serve alle funzioni vitali (l’ossigeno). Lo stesso vale per altre funzioni fisiologiche come il nutrirsi e il riprodursi. Questo riscontro biologico è un indizio di come il modulo tripartito – soggettualità/oggettualità/mediazione – rappresenti l’universale e necessario anzitutto. Il nostro peculiare essere al mondo non può che rientrarvi. Ma se in effetti il medesimo modulo si ritrovasse ben oltre i confini dell’umanità, il discorso riguardante l’e.u. non ne sarebbe toccato: il migma di necessità e libertà dentro cui gli ee.uu. vivono, il loro specifico che è & che non è non muterebbe. Il darsi originario da cui accediamo al vivere può solo essere nostro. Non è quindi scopo di questo studio intrecciare, alla maniera di un Capra o di un Morin, il cosmo psichico col cosmo fisico, benché anche qui si tratti alla fin fine di come affrontare la cosiddetta complessità. Quindi la nozione di un pre-paradigma costruito sulla triade soggettualità/oggettualità/medialità non cerca di ricalcare, per amor di Tao, la terna relativistica energia/massa/informazione (l’informazione manca di significato, come quest’ultimo manca di senso). Diciamo ora del sospirare. Se il respirare e lo spirare si collocano ai confini estremi dell’umano, il sospirare va a porsi invece bene al centro del campo. Il giovane sconosciuto che sul treno siede di fianco a noi ragazze, semiappisolato, emette a un tratto un sospiro che attira la nostra attenzione. Lo guardiamo. Non ha aperto gli occhi, non s’è mosso. Niente compare sul suo viso che ci permetta di dare un senso a quel sospiro. Ne possiamo dunque immaginare innumerevoli. Incluso questo, che il ragazzo abbia intenzionalmente finto un sospiro dal senso imprecisabile per destare la nostra attenzione senza ‘esprimere’ alcunché; cosicché egli avrebbe ottenuto precisamente quel che voleva, dato che quel senso, anche se lo congetturassimo, si perderebbe tra tante altre supposizioni. Comunque sia, importa che, qualsiasi senso aggiudicheremo a quel sospiro, lo dovremo imbastire sulla medesima triade inderogabile SOM, oppure il sospiro non aveva alcun senso, e parleremo allora di un significato fisiologico, per concepire il quale necessiteremo comunque di un’altra triade dello stesso tipo. Anche nel sospirare, dunque, così come nello spirare di chi passa incosciente dal coma alla morte, il sapere di o il dar senso a questa cosa richiedono indubbiamente la combinazione di mente, mondo e medio. Infatti, la condizione umana – come quella di ogni altro essere al mondo – è tale che per pensare(S) occorre riferirsi, in un linguaggio(M), a un ambiente o mondo di cose(O); perché si diano cose e mondi(O) occorre che essi siano rappresentati sotto qualche forma(M) da un apparato psichico(S); per aprire la mente(S) al mondo(O) occorre un linguaggio(M). Prima di ogni mossa appercettiva o abduttiva, di ogni passo induttivo o deduttivo, di ogni logica fisica metafisica etica o retorica, vige una norma di fatto, un difatto, incombente su qualsiasi interrelazione vitale e quindi anche sulle produzioni intellettuali. Se questo è quanto, si osserverà facilmente che quel che s’è detto circa il guardare e il sospirare si applica invero a qualsivoglia movimento di pensiero o contenuto di azione. Ovunque vi sia un senso, lì v’è prima di tutto un essere(S) al(M) mondo(O) da cui quel senso proviene. Questa espressione trilobata non si colloca in uno spazio intellettuale astratto, con la pretesa di dire (o negare) il che cos’è empiriocritico delle cose, o i modi del pensiero, o il significato del significato; essa tocca, al contrario, l’alveo di ogni atto, a partire da così com’è vissuto da chiunque, qualunque atteggiamento assuma, pigramente naturale o (alla maniera di Husserl) sospeso – tanto che, come dicevamo, l’animale stesso in ogni vissuto suo proprio non può che essere(S) al(M) mondo(O). Qui dunque non è in tema qual-cosa, né si fa questione di metodo, ma si soppesa l’imprescindibile premessa ad ogni tema e rema. Alla statua di marmo si schiude il primissimo spiraglio percettivo, a partire dal quale costruirà l’intero suo mondo. Avverte un odore. Per il Condillac, tale è l’inizio dell’esperimento mentale, che dovrebbe mostrare la validità del sensismo come sufficiente ipotesi gnoseologica. Ma si tratta di un vero inizio? Chi può odorare deve già disporre di un apparato recettore che traduca il flusso molecolare (la fonte del segnale, un mondo di cose ‘odorose’(O)) in odore, ovvero in segnale nervoso(M), e di un intelletto reattivo(S) a quel segnale: reazione di riflesso (come nel caso dello stercorario o di un sensore elettrochimico artificiale) o creativa, produttrice di significati e sensi aperti ad ulteriore sviluppo, come nell’e.u. Questo essere al mondo, d’altra parte, non è pensabile – né così com’è, né in altre formulazioni analoghe – senza che sia già in effetto, perché il pensarvi implica la triade a cui l’espressione allude prima ancora che si abbia il tempo di decidere cosa voglia dire: una sorta di proto-enunciato che, per il fatto di esser asserito, conduce a se stesso, assevera se medesimo. L’espressione linguistica in cui l’asserzione si concreta, fatta di termini sintattizzati grazie agli strumenti greci, viene dopo: per parlare di questa datità preliminarissima non posso che far ricorso a strumenti ideal-concettuali messi a punto in seguito, ma nati da quella stessa matrice. Essere al mondo si presenta come un’asserzione circolare, una curiosa petitio principii che in realtà non esibisce alcun principio greco, ma antepone a ogni intendere l’additamento di una com-prensione prolusiva, la quale null’altro addita se non il modo necessario e quindi inevitabile di ogni possibile intenzione impressione pronunciamento; né potrebbe essere diversamente, dato che prima di essa nulla è asserito ma tutto deve poter esserlo. Rappresenta, potremmo dire, il vizio (o la virtù) circolare delle origini: perché vi sia chi lo pensi, un mondo deve pur darsi; perché da quel darsi sorga un mondo, un essere deve rappresentarselo; per esplicarsi, foss’anche solamente a se stesso, un essere al mondo deve de-terminarsi, racchiudersi in segni e significati, sensazioni e sensi; la significazione, a sua volta, sottostà a vincoli fisici e psichici (necessita di spazio-temporalità, di neuro-apparati, di canali, di supporti ecc.). Il darsi originario triseminale (DOT) non determina alcunché. Né vi è prescritta una gerarchia o una struttura. Né vi si sviluppa una dialettica prevedibile o un’ermeneutica indirizzabile. Né ivi può predeterminarsi una qualsiasi scienza, tantomeno una tecnica. Una conoscenza è provocata da un osservatore, per un ordine c’è bisogno di un pre-giudizio, di un’assunzione di orizzonte. Quindi quale posizione occupi e in quale rapporto ciascuna delle tre componenti la triade si ponga rispetto alle due restanti è impossibile pre-dirlo, dato che ogni eventuarsi modifica posizioni e rapporti. Il darsi originario rappresenta nella modalità più vuota ed informe ciò che può assumere qualsivoglia forma e contenuto. Approssima paradossalmente il vero ben più di qualsiasi altro principio che s’avventuri a preferire una determinatezza qualsiasi. Prima di ciò che da esso sorge (eventi sensi significati paradigmi) nulla è dato; tutto ciò che può darsi ne deriva. Quando di fatto pensiamo e ci esprimiamo su questo o su quello, il DOT è sempre già operativo. Esso è il pro-principio, il canone assoluto dell’essere al mondo in tutte le sue manifestazioni e peregrinazioni. Tutto quanto nei millenni è stato pensato detto scritto cantato ballato o altrimenti rappresentato ha risentito delle pre-condizioni fissate da tale canone. In particolare le visioni del mondo, le interpretazioni e le teorie comunque espresse, miti scienze filosofie narrazioni ecc., per quanto divergenti e diversamente coinvolgenti, rinviano a questo comune sfondo umilissimo e obbligato del quale, per esistere e sussistere in apparenza di libertà, si sono rese dimentiche. Per quanto l’e.u. s’applichi a comprendere e a costruire (a “generare nel bello”), tutto ciò ch’egli produce è legato a quel darsi originario triseminale, argilla della vita. Il canone è operativo anche quando ne parliamo: ciò ci costringe a trattarne, per così dire, di traverso. Non potremo mai afferrarlo appieno con l’intelletto o la razionalità, con l’intuizione sensibile o intellettuale. Neppure dio, a meno che non sia inteso come un mero ka (‘quello’) onni-referenziale, plenitudine indifferenziata, può sottrarsi al DOT. Questo, poiché domina e impregna ogni nostra apprensione, si sottrae, benché onnipresente, alla nostra presa. Lo acquisiamo solo come risultato complessivo di ogni nostro riflettere. Così, mentre le scienze ben poco possono dirci, trattandosi di una questione meta-scientifica che le precede, siamo costretti a parlarne ‘soficamente’, come se si trattasse di un’entità metafisica. Ma il darsi originario non può dirsi invero né fisico né metafisico, e neanche soggettivo oggettivo razionale intuitivo essenziale trascendentale esistenziale linguistico… in quanto è tutte queste cose assieme e nessuna di esse prima delle altre. Nel rappresentarci qualsiasi cosa del mondo – un baco o un amore, le previsioni del tempo o Amleto, un filo d’erba o l’umanità, il buio o il cosmo – noi risentiamo delle condizioni a priori nascoste nella triseminalità del darsi originario, dentro cui solo è consentito relazionarsi ed esprimersi. Pertanto siamo sempre a un passo dall’averlo presente. Nel vivere quotidiano sentiamo in effetti questo darsi come presentario. Tuttavia quando ci proponiamo di afferrarlo, noi lo facciamo come siamo abituati coi qual-cosa che presumiamo disponibili, vediamo di impadronircene al pari di un qualsiasi utilizzabile: cerchiamo la lama (cosa farne) e il manico (come servirsene). Il darsi originario non è qual-cosa di utilizzabile, ma il limite di ogni possibile utilizzo; non un atto, ma il confine stesso di ogni agire. L’e.u. cerca di sottrarsi in vari modi all’incombente diversità del DOT da cui egli dipende senza mai poterla completamente governare. Quei modi, nel succedersi delle epoche, costituiscono la processione delle contemplazioni. Perciò in principio era l’augure. Per esaminare ora più da presso l’essere al mondo proviamo a formularlo in linguaggio ideotico. Così dovremo combattere per evitare di cedere al pre-paradigma. La triseminalità del darsi viene spesso colta semplicemente come un avere in mente cose. In base a questa espressione non possono mai reciprocamente mancarsi, nella nostra ipotesi un mondo di non importa che cose, distinguibili e denotabili; una non importa che mente, che ad esse individuandole si rapporti; un qualche modo o mezzo dell’avere in mente. Cerchiamo di precisare ulteriormente questi tre aspetti prima separatamente, poi presi insieme. I. Un ‘mondo’ come che sia è innegabile, quand’anche consistesse nella sola entità che lo pensa (penserebbe quindi se stessa, o un suo processo o prodotto o progetto, come nell’immaterialismo di Berkeley), o nell’entità di cui ciò che lo pensa è un modus o aspetto di uno tra gli infiniti attributi (come nel panenteismo di Spinoza). E un tale mondo dev’essere di cose (un mondo senza cose è impossibile). Di quali cose si tratti per ora non diciamo niente, se non che nessuna cosalità peculiare ci interessa di preferenza, di costituzione fisica (Lamettrie) o psichica (Leibniz) o che altro. Se è dato un avere in mente, sarà altrettanto data una attività pensante; bisognerà che una realtà, quale che sia, venga da essa o gradatamente percorsa (Platone, Aristotele) o emanata (Plotino) o geometricamente rappresentata (Cartesio) o avvertita come oscuro attrattore della volontà (Schopenhauer) ecc. Ammesso un mondo, il pensarlo impone che vi si distinguano cose, perché come interezza indifferenziata – quindi come puro plasma di energia (puro futuribile) o come entropia infinita (puro accaduto) – non potrebbe né sussistere né essere pensato, dal momento che assolutamente niente vi avrebbe il benché minimo spazio tempo rilievo, niente offrirebbe informazione apparenza struttura storia ordine senso. Dire che un ‘mondo’ come che sia è innegabile equivale a sostenere che il darsi originario include un germe ontologico oggettuale. Escludendolo non può originarsi alcun essere al. Nel pre-paradigma quel germe produce un mondo reale, quale che sia, tendenzialmente esaudiente, mentre nella nostra ipotesi resta una polarità del darsi la quale, senza le altre due, non è che figmento del pensare. II. Una non importa che ‘mente’ è altrettanto inderogabile, altrimenti non si darebbe essere, ma nulla. Consideriamo il pensare in quanto esperienza, come l’aver freddo o paura. Esso o è prodotto da un reale omologo, quindi da una res cogitans, qualsiasi cosa sia, o accade come fenomeno di una datità più vasta ed apparentemente eterologa, quella che solitamente dicesi materia vivente. Nel primo caso, abbiamo già sopra accennato alla inevitabilità, anche in un’ontologia immaterialista, di un non importa che mondo di cose. In esso la datità originaria includerebbe un germe ontologico soggettuale alla pari con altri (col germe oggettual-immateriale, quanto meno). Nel secondo caso, invece, non c’è bisogno di forzare l’evidenza negando il seme oggettualmateriale in tutta la sua contingenza rispetto al pensiero, né di deprimere l’alterità del seme soggettualimmateriale (lo si preferisca spirituale storico sociale psichico esistenziale ermeneutico o che altro): le due germinalità, insieme & distintamente, compongono l’essere [al] mondo, in quanto dev’esserci al mondo un che caratterizzabile come ‘montuoso’ o ‘sexy’ o ‘chimerico’, qualunque cosa sia, perché quella cosa sia pensata esistente (penso ad esempio che la chimera esista come fantasia di una mente o connnessione di neuroni in un cervello) e al tempo stesso (vs-&) dev’esserci il pensiero del monte perché un quid sia, in qualche senso, ‘montuoso’. Analogamente, deve supporsi qualcosa del mondo che consenta e al tempo stesso impedisca di pensare la ‘chimera’ o ‘i sette nani’ come reali. La congiunzione vs-& indica l’interseco pro-logico di opposizione e coniugio, poiché realtà e pensiero, oggettualità e soggettualità, mondo e mente sono entrambi innegabili, quindi irriducibili, legati indissolubilmente e reciprocamente necessari. III. Aggiungiamo ora tra essere e mondo, non meno insopprimibile, l’al, tra cose e mente l’avere in, cioè la relazione comunicativa, effettuantesi per il tramite del rappresentare (sapere) e dell’intervenire (agire). La comunicazione, universalmente e necessariamente, è data anch’essa come radice dell’essere al mondo. Non quindi come agire comunicativo alla Austin o alla Apel, nei quali la parola ricade nella sua tradizionale funzione strumentale, rispettivamente pragmatica ed etica. Al contrario, il comunicare si rivela come terzo agente originario (o secondo o primo, non v’è infatti nell’originario alcuna preordinata gerarchia). E non v’è sforzo che valga a sopprimerlo, benché la spinta a ridurre tutto anticamente all’ente/Ente (oggettivismo), modernamente all’io/Io (soggettivismo) abbia prodotto una varietà inesausta di tentativi. Platone, il grande Onturgo, si provò in tutti i modi, dicevamo, di sopprimere il mediale come germe originario. Da un lato, del linguaggio amplificò quanto più poté l’apparenza, il suo essere strumento, così da sminuire il suo radicale frapporsi tra pensiero e realtà come, per contrappasso, ineffabilmente terzo; dall’altro, tradusse a forza nei registri o dell’oggettivo o del soggettivo (quest’ultimo peraltro oggettivato come anima repubblica eros ecc.) molto di quanto appartiene alla mediazione comunicativa. Anche per lui però il terzo seme genetico dell’essere al mondo risultò da ultimo non negoziabile. Onde l’invenzione del demiurgo, il quale trasmette al bullicame le forme ideali, e di codesto magma che freme bramoso di accoglier forme, e della reminiscenza, che mantiene il contatto dell’anima con il mondo delle idee: espedienti immaginosi che negano un’evidenza tanto pervasiva quanto – Protagora aveva insegnato – onnirelativizzante. Ben più preoccupato della riottosità del linguaggio che delle irregolarità apparenti nei moti celesti, Platone s’applicò di persona a “salvare i fenomeni” linguistici. Di qui anche il suo conflitto privato coi modi del medio, con la scrittura e con l’oralità. La profonda divergenza tra le due (la différance derridiana) costituisce già una conferma dell’ironica intraducibilità che colpisce persino il più articolato tra i medianti, la parola, la quale spostandosi da un canale all’altro agisce imprevedibilmente, e si mostra del tutto ribelle a subire il giogo di un’unisona armonia del mondo. Controllare la parola umana al fine ch’essa non s’opponga al dialogo noetico tra l’anima e le forme iperuraniche, ecco per il filosofo ateniese, e in genere per la filosofia lungo tutta la sua storia, la prima urgenza. Se la figura di Socrate diventa, nei Dialoghi, metafora della ricerca desiderante dell’Assoluto, la parola socratica dev’essere neutralizzata perché tende all’alterità radicale. Platone la vuole invece al servizio del più sublime eros, prima come strumento diairetico, al confine tra sensibile e intellegibile, poi, con l’approdo alla via noetica, come supporto del mythos sofico. Così il problema oralità/scrittura in Platone concerne in superficie la dialogicità socratica, come trasporla e tramandarla senza perderne l’intima erotica; ma in profondità la trama del discepolo è ben altra. Egli punta a desocratizzare il dialogo fermando la parola, che attraverso Socrate minacciava di imporsi con una sua alterità definitiva, ben oltre la calcolata provocazione retorica dei sofisti. Nell’età dei media e dei mille diversi linguaggi sembra ovvio ammettere ed anzi sottolineare come non si dia vivere senza agire comunicativo. Vi si nota però una certa propensione ad eccedere, serpeggia un platonismo rovesciato. Sembra che i fenomeni da salvare, nel senso di ‘come spiegarne la presenza benché il paradigma non li ammetta’, siano oggi l’oggetto e il soggetto. Questa metafisica di ripiego che subisce ideoticamente l’impatto delle tecnologie della comunicazione, non convince affatto. Il mediale come seminalità originaria compare sempre in rapporto di opposizione e connubio con l’oggettuale e la soggettuale. In un universo inorganico, costituito di sola materia-energia, assenti del tutto le relazioni comunicative, sussisterebbe comunque l’informazione, cioè il grado fisico della comunicazione, la comunicazione senza quella rappresentazione, fatta di sensi e significati, che solo grazie a una soggettualità può formarsi. Noto incidentalmente che l’equiparare informazione e comunicazione è alquanto grossolano, perché alla prima non serve alcuna intelligenza per operare, mentre le operazioni della seconda le sfuggono completamente; è vero però che, ovunque compaia la terna SOM, può essere recuperata informazione pregressa dandole significati e sensi così da trasformarla in una sorta di comunicazione dilazionata. Ciò spiega perché è così facile scambiare questa per quella. All’opposto, in un universo di ‘realtà’ esclusivamente cognitive il pensare sarebbe pura noesi e produrrebbe meri significati, perfette idee, non atti di senso. La qual cosa ridurrebbe il gioco aleatorio delle tre irrinunciabili radici datitarie ad un povero solipsismo ontico; nell’unicità indistinta non vi sarebbe più gioco alcuno e, come concluse Aristotele, la perfezione di quella pienezza solitaria non potrebbe consistere che nell’immobile contemplazione di se medesima. L’atto puro aristotelico non può mettere in moto il mondo se non per via aurale, innamorandolo, stuzzicandone l’improprio desiderio di perfezione. In sé esso è perfettamente inerte e quindi non è di questo mondo. Oppure, come chiarì Spinoza, la causa sui, o sostanza una, non permetterebbe altro che rigorosa necessità, il pensiero essendo pensabile solamente come un suo attributo tra infiniti altri, alienato ed insulso qualora non aderisca pienamente alla predeterminatezza preter-razionale del Tutto, rinunciando alla sua differenza costitutiva e costituente. Il darsi originario, radicalmente triplice, emerge dunque dal reciproco impatto delle seminalità soggettuale, oggettuale e mediale, ciascuna delle quali per essere al mondo necessita delle altre due tanto quanto le contrasta. Non si tratta dunque di un porre su cui irrompa preordinatamente un contrapporre, a cui segua un superare, ma di una stratificata dialettica del vivente, non-superabile aboriginaria filogenetica; dialettica non di distinti, ma di con-fusi; non di un movimento evolutivo spiraliforme, ma di continui rinvii. Invero, Hegel ideò il superamento (Aufhebung) proprio per controllare il DOT, e adire così la spirale dello Spirito. Similmente, ogni altro paradigma è ideabile solo cercando di controllare il darsi originario, non essendo possibile sopprimerlo, giacché tutto quel che è umano è cosa di questo mondo triradicale. Tutti i paradigmi sono razionali, nessuno è reale, ciascuno altrettanto falso quanto vero: falso (ossia riduttivo incompleto escogitato) è ciò che essi danno per vero; vero è ciò che, per sostenere quel falso (quale che sia, cioè in quanto attività come un’altra dell’essere al mondo) e per farlo quadrare, e in ogni caso filosofando, sono costretti ad ammettere. È tale costrizione fondamentale quel che rende ogni costruzione sofica interessante, in quanto variazione sul tema, benché la speranza del costruttore punti a sottrarla al DOT. Pensare il darsi originario si rivela insomma tanto complicato per l’e.u. da indurlo alla riduzione paradigmica come pratica corrente del comportamento teoretico. L’impasse profonda della ragione filo-sofica è da ricercarsi nei labirinti della triseminalità: l’essere al mondo è in tutto triplice (nei modi che vedremo meglio seguitando). La ragione, che di quello è una manifestazione tra le tante, impossibilitata a com-prendere l’intero, cerca di ridurlo al duplice e al semplice, traendo da queste riduzioni l’impressione illusoria e gratificante di consistenza e tenuta (rispondenza verosimiglianza affidabilità sistemazione). Se le seminalità riconosciute, ridotte a polarità, sono soltanto una o due, diventa senz’altro più facile trarne principi primi. Un famoso caso del genere è il Tao (). La tradizione occidentale, sensibilizzata dalla vasta ricerca dei greci, che culmina in Plotino, e sull’onda della teologia cristiana uno-trinitaria, ha talora ideato assoluti triadici, peraltro al fondo risolutamente unitari. Chi più antitrinitario di Jean Cauvin (il suo dio imperscrutabile – rex tremendae majestatis – è un monolite iper-logico, non-dialogante, da odissea nello spazio), il quale pur ordinò di bruciare Serveto in quanto antitrinitario? Nell’Istituzione si legge [I.xiii.6]: In primo luogo chiamo Persona una realtà presente nell’essenza di Dio, in relazione con le altre ma distinta per una proprietà incomunicabile. Incomunicabile, cioè non traducibile in altro: tre Intraducibilità che, proprio perché tali, suppongono personalmente per il Medesimo. Se incomunicabili non fossero, genererebbero nell’unità teocratica dialettica disparità diatriba. Serveto aveva colto non diversamente le implicazioni etico-politiche delle teologie unitariane e trinitariane. Soppesatele aveva ritenuto la pace interreligiosa molto meglio favorita dalle prime che non dalle seconde. La differenza tra i due concerne dunque soltanto quale unum (“Ut omnes unum sint”) stava loro a cuore: a Calvino (e poi a Cromwell) l’unità elitaria degli eletti (meglio ricordarselo, ora che si sente parlare di New Calvinism); a Serveto quella universale di tutti i credenti in spirito di verità, esclusi politeisti e atei. La cosmofilia, la sollecitudine dell’intero, la brama dell’unum sanctum, quale che fosse, era condivisa appieno da entrambi. La morte toccò al secondo perché al tempo il suo uno mediterraneo, transfedista piuttosto che sanfedista, era troppo astratto per proteggerlo. Ginevra era ben più concreta. Poco dopo, Bruno in Candelaio vuol darci, più o meno copertamente, una farsa antitrinitaria. Nel suo furore per l’infinito Tutt’uno egli considera il pensiero trinario (oltre che trinitario), di cui sono intrisi ebraismo e cristianesimo, nient’altro che un deprimente orpello scolastico: Son tre materie principali intessute insieme ne la presente comedia: l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedantaria di Manfurio. Però, per la cognizion distinta de' suggetti, raggion dell'ordine ed evidenza dell'artificiosa testura, rapportiamo prima, da per lui, l'insipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante: de' quali l'insipido non è senza goffaria e sordidezza, il sordido è parimente insipido e goffo, ed il goffo non è men sordido ed insipido che goffo. [‘Argumento ed ordine della comedia’]. Insofferente al gioco triseminale, il Nolano disprezza l’invalidante indecidibilità dell’essere al mondo. A lui, ispirato dall’unità ideale dell’Infinito & Diverso, il tricipite sembra riduttivo, ridicolizzabile. Gli sfugge l’originaria intuizione gnoseogenetica che, occultata in seno alla dogmatica delle tre persone, pur sostiene le istanze trinarie – per quanto molta parte del trinitarismo renda omaggio all’esigenza antropocentrica, quindi anzitutto soggettiva, di vedere nel microcosmo umano la figura dell’Intero. Nondimeno si avvale anch’egli, Bruno, del trino, scorgendone le dinamiche, ma per ludibrio. Il tutto, a suo modo di vedere, non potevasi che riferire all’unità. Erano comunque sfumature, divergenze di sottolineatura, anche se si pagavano con anni di prigionia o con la vita stessa. L’unità/interezza/integrità parmenidea restava salda al sommo dell’ideotica (Credo in unum Deum…, De la Causa, Principio et Uno) e regnava nei più vari sistemi, dove l’oggettualità si perdeva nell’oggettità preferita, da cui si presupponeva assorbita la soggettualità, a sua volta pre-ridotta a soggettità. Analogamente nell’età romantica la soggettualità andò a chiudersi in soggettità preferenziali, in cui si intese includere l’oggettualità, ridotta a una lista di oggettità tabulate. Costretta a un ruolo ancillare, la radice M in tali casi era utilizzata come armatura retoideotica o fungeva da immagine-replica della natura dell’oggettivo e del subiettivo. Recentemente invece – con l’analitica l’ermeneutica lo strutturalismo la stilistica la semiotica la pragmatica della comunicazione ecc. – la riflessione occidentale, attraverso la cosiddetta svolta linguistica, si è in parte avvicinata alla percezione diretta del DOT; contemporaneamente si è però perduta nella significazione, a cui ha tentato di ridurre la sensatezza. Quanto a noi, diciamo che i tre aspetti dell’essere al mondo or ora postulati sono da ri-unire (essendo stati separati solo per esigenze di esposizione, ossia perché di fatto per significare occorre polarizzare) e da considerare come una sola proposizione ‘circolare’, una triarchia acefala, un relativo assoluto, l’ossimoro iniziale. Di per sé, all’origine di ogni vita si agitano solo fattori senza volto: interferenze oscillazioni campi moti combinazioni aggregazioni rarefazioni catalizzazioni stimoli reazioni informazioni strutture organi ecc., ovvero interrelazioni dell’accadere, dell’agire/reagire e del recepire. L’accadere (dominio dell’oggettualità o [essere al] mondo) include il capitare, il succedere, l’avvicendarsi, l’aumentare o diminuire, il generarsi, il crescere o deperire, il mutar forma ecc. L’agire/reagire (dominio della soggettualità o ‘essere [al mondo]’) diventa esperire sentire fissare riflettere patire gioire giudicare ideare simpatizzare creare. E inoltre l’aver con sé, l’avere (o l’essere) dentro, l’avere (o l’essere) a disposizione. Il comunicare (dominio della medialità o [essere] al [mondo]) in genere implica cose come manifestare gesticolare indicare segnare insegnare dire tacere alludere ironizzare formulare e così via. Ancorché scarna, questa elencazione ci permette di vedere la reciproca intrisione delle tre datità sorgive. Se confrontiamo, che so, il capitare, il segnalare e il gioire, vi troviamo ovunque mescolati aspetti oggettuali, soggettuali e mediali. Tutt’al più si può riconoscere che, nel medesimo orizzonte trilobato dell’essere al mondo, al capitare compete un orientamento oggettuale, al gioire un orientamento soggettuale, al segnalare un orientamento mediale. Se dico “Mi è capitato di incontrare zia P. due volte”, alludo probabilmente a un ultimo orizzonte oggettuale (“Il caso ha voluto che…”) dentro cui colloco l’intera cosa. Se invece dico “Ho chiamato zia P. due volte”, l’orizzonte ultimo diventa forse mediale. Tuttavia non è difficile trovare una persona, o un’intera cultura, convinta che ogni accadimento, quanto più appare casuale, tanto più sia segretamente voluto da spiriti ben- o mal- intenzionati, e ne riveli le mire. In queste scelte di senso è questione soprattutto, come sappiamo, di paradigmi. Al di là di ciò, sta il fatto che l’e.u., comunque si orizzonti, non può che ricadere nell’alveo del darsi originario. Ciò può non piacere affatto alla ragione, la quale vorrebbe spendere con maggior soddisfazione la sua astratta libido, utilizzare affidabilmente i significati che elabora, costruire liberamente sensi che restino per sempre. Quando abbandoniamo le polarizzazioni usuali per visitare l’essere al mondo nella sua integrità, ci troviamo come nel fitto di una vegetazione sovrabbondante dove per muoverci dobbiamo usare la ronca. Il sentiero che percorriamo può essere solo quello che procede nella direzione del nostro districare che distrugge. Parte Terza. Modi del darsi originario Darsi [↑] L’ESSERE al mondo o darsi originario non può pensarsi altrimenti che come pro-concetto puro a posteriori, ricavato dalla distillazione di tutti i concetti le esperienze i significati i sensi le interrogazioni le ipotizzazioni le stesse idee e i paradigmi adottati e poi respinti. Include perfino lo stupor o thauma, l’atto stesso spontaneo e primitivo del meravigliarsi. Corrisponde insomma al rovescio del preparadigma. Mentre quest’ultimo è il modello tetico di tutte le filosofie, il DOT è l’antitesi (ma non il caos) da cui provengono. In effetti, essere al mondo può dirsi l’unica e vuota essentia, l’indecidibile arché da cui sempre in filosofia si è rifuggiti temendo a torto ch’essa non consentisse di aprir bocca altro che per un moto afasico di sorpresa. Essere al mondo congloba in un tutt’uno non forma e materia, sinolo utilissimo a descrivere quel che si vuole in termini di che è (o che non è), ma tre seminalità mutuamente rinviantisi, tramite cui sembra evidente non potersi concepire altro che rimandi o rispecchiamenti. Cosa possono farsene, del concetto di darsi triseminale, l’intelletto e la ragione, la teoretica e la pratica, l’etica e la politica? Perfino la retorica e l’ermeneutica, per quanto esse stesse agili a travestirsi, sembrano aver bisogno di ben più salda stabilità di riferimenti e conducimenti. In breve, con il sentimento, se vogliamo dir così, dell’essere al mondo o, in termini riflessivi, con il pro-postulato di un darsi originario triseminale siamo finalmente usciti da tutte le contemplazioni, non abbiamo più da fare con paradigmi, né con mondi ad hoc. L’eros del banale è spento… a tal punto che sembrerebbe – in questa nuova dimensione del che è & che non è – non esserci più nessuna risposta da dare, più niente da dire. E in effetti se, per evitare l’eros del banale, il sapere si obbligasse a un ossessivo tacere prudenziale, in una sorta di feroce Tractatus ridotto alla sola 7a proposizione; se l’unico radicale senso disponibile si limitasse a un pro-senso imprecisabile, allora a che scopo rimuginare intorno a questo che è & che non è? Che farsene di questo darsi se conduce a un pensare imbelle, se arresta lo stupor in una sorta di permanente stupiditas? Non avranno per caso fatto meglio coloro i quali dai primordi al presente hanno preferito, come Socrate in articulo mortis, il “bel rischio” di un’erotica più o meno banale, se non altro al passo coi tempi? A tali domande potremmo rispondere che è precisamente lo zeitgeist a pretendere oggi un ri-volgimento dal pre-paradigma SOMario al darsi triradicale. Il confluire in rete di tutte le contemplazioni e di tutte le banalità, il rimessaggio di tutti i mondi ad hoc nello stesso garage telematico non può che condurre entro breve i contemplativi, anche i più riottosi, al discoprimento del pre-paradigma e al disincanto del pensiero. In breve volger d’anni la frequentazione della Rete, lo strauso del telefonino, l’on line continuativo ecc. potrebbero far sorgere ad Arusha come ad Avila, in Kerala come in Irlanda, una generazione blasée, tendenzialmente de-ideotizzata ed a-contemplativa, sospettosa di ogni banalità (inclusa la banalità del sospetto), trasversale rispetto alle vecchie nazioni, nozioni e tradizioni: una gioventù sveglia e colorita ma non colorata, per la quale anche il post-moderno sarà fabula… La prospettiva può convincere, non lo nego. Peccato che potrebbe altrettanto bene accadere l’opposto e l’essere in rete favorire la proliferazione di innumerevoli mondi ad hoc, contenti dei proprî link, fondati su ideotiche estreme e bislacche, neanche più obbligate a rispondere di sé in contesti reali, anzi totalitarie nella loro immoderata licenza di costruire banalità virtuali autovalidanti. Questa seconda evoluzione è meno probabile? Si spera di sì, ma chissà… Comunque sia, una risposta accettabile (alla questione circa che fare del DOT) è preferibile non evochi scenari futuri, pessima scelta già per chi vuol seriamente ragionare. Al contrario, poiché l’essere al mondo precede ogni riflessione e ideazione, meglio sarà perlustrare i diversi aspetti del concetto del darsi triseminale, che come pro-paradigma indifferente sottostà alla storia e l’accompagna, che gli ee.uu. se ne rendano conto o no. Da tale posizione – per un verso estranea al sapere com’è solitamente inteso, ma per altro assolutamente elementale in relazione a ogni possibile vissuto – sarà dato riscontrare, io credo, come il darsi originario non sia un argomento inane, bensì un’immersione dell’esserci nella più degna di tutte le possibili vicende del pensare. Prima di tutto, del DOT (in quanto concetto dell’essere al mondo) vien da chiedersi quanto possiamo avvalerci; quali differenze nel vissuto eventualmente conseguano a un approccio dotale, rispetto al contemplare e fare somarî; se questo approccio che veniamo delineando non costituisca anch’esso altro che banalità (una alternativa di pensiero anch’essa alla fin fine ideotica o peggio un surrogato imbelle) o se non conduca invece al che è & che non è delle cose, al senso del senso. Un doppio elenco di termini riprende ciò che fin qui abbiamo contrapposto (circa l’interrogativo in apice vedasi la prima voce delle Note lessicali). Prima di procedere, interporrei però alcune considerazioni sull’opposizione ultima (filosofia/prosofia) che, mio malgrado, ho dovuto introdurre e che di tutte parrà certo la meno sobria. Filosofia e prosofia [↑] Non sarebbe possibile dare di questa pro-sofia che contrappongo a filo-sofia – ovviamente non con la pretesa di scalzare il vocabolo avito, ma per le opportunità di chiarimento che qui e ora ne traggo – non sarebbe possibile, dico, approntare una descrizione, tantomeno fornire una definizione, qualora volessimo farlo a partire da essa. Le definizioni infatti riguardano i significati su cui è concesso linearmente convenire, mentre la prosofia guarda alle due globalità virtuali del senso, cioè a quelli che, con termini para-peripatetici, potremmo chiamare sensi primi, in quanto e per come si colgono nell’esperienza diretta individuale, e sensi secondi, per ciò che i primi si postulano come confluenti in rappresentazioni collettive linguistiche culturali sociali ecc. Queste peraltro sfuggono a qualsivoglia presa o mira intellettuale, poiché su ognuna di esse – così come su ogni singolo senso primo (ammesso siano individuabili e si possano distinguere sensi singoli) – incombono sensi anteriori e ulteriori che la ricomprendono chissà come. E s’intende che lo sfuggire nel chissà come include anche il restare apparentemente a disposizione – per cui se una cosa sembra disponibile tratterò questa apparenza come uno dei tanti modi di cui essa dispone per sfuggirmi. La prosofia è dunque anche l‘ultima (o ennesima) filosofia. Nel mondo del vivere si ritrova imprevedibile e macroscopico quello scompenso, o asimmetria, che in epistemologia si usa compendiare nell’antitesi verificazione/falsificazione. La verificazione è sempre possibile, basta includere la nozione in un mondo accogliente. La falsificazione invece non dispone di un suo mondo; nei mondi adibiti essa è condannata al ruolo di ospite ingrata. Per ciò Popper non poté mancare di trapassare dalla logica della scoperta scientifica alla miseria dello storicismo e alla società aperta. Infatti, di fronte alla fugace consistenza di ogni senso, gli ee.uu. hanno messo a punto varie strategie di contenimento (codici modelli autorità metodi…) e di contentamento (le retoideotiche del fato o del progresso o dell’utilità, della divina provvidenza o della razionalità calcolante). Ogni agente di intendimenti, che sia una società una collettività una congregazione una mafia un’accademia e via dicendo, lastrica le sue strade sui detriti degli intendimenti altrui. Il presupposto evolutivo (adattativo) potrebbe esser questo: se la mente umana, che produce sensi incontrollabili, ha superato la selezione, non è deleterio per la specie costruire sensi, ossia pensare liberamente. Non è quindi interesse generale di nessuno imprigionare la produzione di senso, sarà semmai opportuno stimolarla. Sennonché i sensi moltiplicandosi s’affollano e s’intricano gli uni negli altri, tanto che costituire un senso primo comporta non di rado, più essi s’assiepano, scalzarne un altro o diversi altri; insomma, anche nel caso apparentemente più favorevole, che è forse quello dell’intesa emotiva spontanea, se abbracci qualcuno convinto di comunicargli una certa qual cosa, costui, pur animato dalle migliori intenzioni e convinto di coglierti, non potrà far a meno di sostituire il tuo senso primo col suo. La speranza, tutt’al più, è che i due sensi si accolgano reciprocamente e si ritrovino accomunati in un senso secondo. Indichiamo momentaneamente la sconfinata proliferazione dei sensi (includendovi le accennate sovrapposte controimplicazioni) con il simbolo ╬. Ora, è evidente che il doppio movimento caratteristico dell’intera storia del pensiero (da un lato produzione e accumulo, dall’altro interdizione e internamento di sensi e significati) ha sempre avuto come scopo la costruzione di un ordine costituito (un ordine del discorso, direbbe Michel Foucault) da contrapporre a ╬. Quale tipo di ordine? Politico sì, ma non solo. Se limito questo orizzonte, che di tutti è il più comprensivo, alla sola categoria del politico (anzi alla “governamentalizzazione”, per dirla con lo stesso Foucault), ricado nell’ideotica e, per quanto industre sia la mia ricostruzione archeologica, non potrò che insistere a ricadervi. L’alternativa è riuscire, se mai possibile, ad avvicinare da un punto di vista puramente gnoseogenetico sia ╬ sia l’intera enciclopedia storica dei contenimenti che ╬ ha suscitato. Dello gnoseogenetico, ancora piuttosto vago, dovremmo dire più distesamente. Ma – vorrei già precisare – ha poco in comune con la deduzione trascendentale delle categorie (Kant) e con la fenomenologia trascendentale (Husserl), dove prevale l’idea della soggettità psichica come trascendentale (K.) o intenzionale (H.); c’entra altrettanto poco con l’epistemologia genetica, con la mente modulare e programmi analoghi che si reggono sull’ideotica dell’oggettità psichica. Anzitutto, credo occorra riprendere il discorso intorno ai sensi e ai significati, riprenderlo a partire da Aristotele, dove per la prima volta questi si separano nettamente da quelli. La gestione separata in sé è ineccepibile, decisamente una delle discriminanti del pensare, pur risolvendosi in un artificio: per porre l’identità come principio occorre disporre dell’ente, ovvero di un τόδε τι distinto, sostanziato; per porre l’essere a sé come ente, ovvero per sostanziarlo, occorre il principio di identità (un τόδε τι logico). Quella separazione del significato dal senso aprì il campo ai dissodamenti dell’analitica e della computazione razionale. Però nello stesso Aristotele si compie, contestualmente alla fondazione della scientificità, la quale lavora appunto su significati, un abbattimento del senso, relegato nel mondo dell’impressione e della persuasione, quindi nel singolare e paradossalmente nell’artificiale, invece che connesso a quello della vita. In questo Epicuro e gli Stoici, nonostante il trapasso epocale, proseguono aristotelicissimi, e non meno di loro lo sono, molto dopo, i Bacon e i Descartes. Se domina il bisogno razionalistico di significati, diventa prioritario distinguere il che è (o che non è), sussumere un paradigma dell’oggettità che culmini nel principio di identità, o in altra equivalente sistemazione SOMaria. Con ciò l’essere al mondo, radicalmente incomprensibile, sfuma nel mero esistenziale (individuale deficiente creaturale temporale peccatore particulare eroico-furente ecc.) e per più di due millenni non vien recuperato che occasionalmente, quando l’esistenza preme, e inquadrato a forza in un debito significare (etico estetico logico mistico e via dicendo). Nei termini con cui qui lavoriamo, Aristotele è l’ideatore della più straordinaria e fortunata autoctisi della storia del pensiero occidentale, rispetto alla quale tutto il resto è davvero letteratura. In breve, l’uomo è razionale, la felicità della ragione è nel sapere, il sapere si disseta nella verità, la verità nella scienza, la scienza nella definizione rispondente e nella corretta deduzione; è quindi fondamentale che l’inquietudine filtrante tra felicità e scienza a causa della duplice indeterminatezza dei linguaggi naturali (medialità) e delle differenze individuali (soggettualità) sia, per quanto è possibile, soppressa. Insomma, il sapere risiederebbe nella sua stessa oggettiva felicità (eudaimonia, felicitas). Tra filosofia e senso i rapporti sono sempre stati tesi per le opposte esigenze del filosofare: il significare (lo spiegare/erklären o il comprendere/verstehen affidabili) da un lato e dall’altro il rinvio ad un’intuita ma inafferrabile complessità ulteriore e anteriore, intorno a cui nessun chiarimento basta, anzi il concetto stesso di chiarimento non trova applicazione. Aristotele, a dir il vero, fu consapevole della difficoltà e, quanto meno nella sfera pratica, introdusse categorie alternative, tra cui celebre la saggezza (φρόνησις) in luogo della sapienza. Dove sta allora propriamente il problema? Sta in ciò che la significatività scientifica (aristotelica o galileiana non importa) producendo certezze (sapere di cause, certe dimostrazioni) in sé prive di senso, aduggia col suo sapere apposito la sensatezza, quasi questa possa dipendere da quella e debba attendere che quella la istruisca sul come e il perché del vivere, anche se il vivere umano, come s’è detto, pur trovando da utilizzare significati in quantità, si regge da ultimo su sensi. Onde questa perdurante estraneazione del pensiero che nei secoli ha cercato pervicacemente di abbattere il senso – prima con le varie schematiche della trascendenza, poi con l’illusione di una razionalità immanente, poi con la celebrazione di un voler volere perdutamente cinetico che vede la dimensione del fare dominante sull’etica e sulla teoretica. La necessaria separazione dalla filosofia delle scienze logico-matematiche, fisico-chimiche, biologiche e umane (occupandosi queste, in quanto moderne scienze, di significati, a quella rimanendo addosso infine l’immensa mole dei sensi), unitamente al tramonto della metafisica e della religione, della natura e della storia, del progresso e della scienza (non solo dio è morto) come contenitori totali di spiegazioni e valori, ha lasciato il pensiero del senso in uno stato o di sovraeccitazione o di frustrato abbandono. Intorno a questo che venne detto nichilismo s’impegnò Nietzsche, il quale è così divenuto il pastore errante delle filosofie della desolazione, tristemente tipiche del Novecento. La solitudine inerme che queste accollano all’esserci non è che la loro proiettata. V’è un chiasmo di idee interessante da annotare: nell’epoca dei paradigmi dell’oggetto (l’antichità) è la filosofia a consolare il filosofo che dispera, mostrandogli le sue (di lui) ragioni di sopravvivenza spirituale; modernamente, allorché dominano i paradigmi del soggetto, è il filosofo a consolare una filosofia soccombente, additandole la sua (di lei) virtù (la potenza del pensiero). Ciò si riscontra con maggior evidenza da Hegel in poi, ma è già avvertibile nelle teodicee della fine del Seicento. In questo acerrimi antagonisti – come, nella prima metà dell’Ottocento, Hegel appunto, Schopenhauer, Kierkegaard, Marx, Stirner – si ritrovano a giocare lo stesso gioco: cercano di attribuire all’esserci umano una responsabilità risolutiva del senso dell’essere. Da ultimo, di fronte alla costitutiva in?certezza del senso (e quindi dei valori, incessantemente trasvalutabili), l’evidente insufficienza dei più diversi tentativi ha posto termine alla lunga teoria delle escogitazioni mirate a regimentarlo. A mio parere, l’esito più apprezzabile a cui si è giunti nel secondo Novecento è proprio il dibattito sull’in?determinazione del senso, posto che non si ricada in nuove divinizzazioni (della interpretazione, forse, o della stessa dialogica, o della differenza, o del dissidio) o demonizzazioni. Il vezzo di accusare la tecnica di colpe che è l’ultima a meritare (dato che non v’è responsabililità in ciò che è, per presupposto, strumento), mostra che a dispetto di tutte le dialettiche critiche il sapere sofico tende a favorire i suoi traffici. La missione del dotto è ancora una volta identificare un che qualsiasi in relazione a cui identificarsi con soddisfazione. Come vuole Fichte, scegliere in base a ciò che si è. Con questo siamo di nuovo alla contrapposizione tra filo-sofia e pro-sofia. A quest’ultima, quand’anche restasse, come per ora ci si mostra, affatto inservibile, dovremmo riconoscere il merito di rilanciare la bella questione: in che relazione stanno la volontà di scienza e l’amore per la vita (ammesso che quest’ultima espressione possa sostituire la sublime in? certezza di essere al mondo)? Pare allora interessante tornare, per contrappunto, a chiederci Q1. Cosa dovrebbe essere una filosofia, qualora pur conservandone, se così ci piace, l’augusto nome ci lasciassimo consigliare dalla prudenza prosofica? Abbiamo già riflettuto sulla contraddizione costitutiva del filosofare, che è quella stessa insita in ogni conatus psichico o dilectio o eros. Il prediligere implica infatti un appetire, un immergersi nell’immagine costruita di ciò che si ama, quindi un fissare – “oculis ardentibus” dice Boezio – l’oggetto del desiderio. Pre-fissare non solo il godimento finale, ma anche quel che serve a raggiungerlo: orizzonti metodi mezzi e mete intermedie. Fino al facile limite della circolarità compiaciuta, di una tensione che sa soddisfarsi da sé e che è sempre la stessa, anche se la formula cambia: intuizione intellettuale, pensiero di pensiero, sistema della scienza, ragione della storia e così via. Chi filo-sofa s’inganna quando, avvinto da ciò che ardentemente desidera, si getta a procurarselo, dimenticando quanto sia prudente, prima di muoversi in una direzione qualsiasi, esaminare il campo di tutti i fenomeni e per così dire l’apparenza di ogni apparire. Se manca questo freddo sguardo preliminare, succede che non ci s’avveda di quanto inesauribile sia il catalogo dei tipi di soggettità oggettità medietà a disposizione dell’invenzione desiderante, per tacere delle loro combinazioni, cosicché si finisce ben presto per lasciarsi ingenuamente attrarre da quella schematica che, accantonate le altre, sembri sul momento l’ultima e più matura soluzione, quella che pare innovativa (o pristina), rivoluzionaria (o restauratrice), più utile (o buona bella vera) in relazione allo scopo da ottenere, all’urgenza che ci si prefigge di affrontare, all’affresco da dipingere. Insomma, abbiamo chiaro cosa una filosofia non dovrebbe essere: non dovrebbe essere né filo-filosofica, suo primo compito essendo sottrarsi al proprio abbraccio, se mai possibile, né scienza, poiché questa lavora sui soli significati. Ora, da questo punto di vista, Q1 non è una questione ben posta, in quanto fu la stessa filosofia, nel suo ardore contemplativo, a generare quella storica domanda sull’essere, da cui per filiazione è discesa quella sull’essere della filosofia. Pertanto la risposta a Q1 non può che riuscire autoreferenziale, ciò che non ci porta da nessuna parte. Se ora assumiamo il punto di vista pro-sofico vediamo la questione assumere tutt’altro aspetto. Dato l’essere al mondo come triradicalità inestirpabile, l’essere della tradizione (l’in sé) sparisce del tutto (ne appare l’aseità); resta giusto la funzione grammaticale di assegnazione (copula), quella stessa che all’origine fu miscompresa nell’ontico. Scompare allo stesso modo il divenire, altrettanto ontico. Quiete e movimento, identico e diverso restano come fenomeni della diffrazione triseminale. Circa poi l’essere ontologico heideggeriano, che dire se non ch’è un compromesso irrisolto tra essere al mondo e essere ontico? Heidegger, scambiato l’essere al mondo sempre contemporaneamente triseminale con l’esserci ch’è anzitutto soggetto e problema, di quest’ultimo privilegia la temporalità come dimensione ontologica. Ma il tempo è una conseguenza e un aspetto del DOT, uno dei tanti, attinente tutte tre le radici. V’è una temporalità del soggetto, una dell’oggetto e una del medio, le quali comunque non si danno se non in diffrazione reciproca. Le schematiche somarie sistemano la temporalità nell’ambito dei tre poli, e tipicamente o la oggettivano (Platone), o la soggettivano (Agostino), o la collocano nel medio (Gadamer). Le varianti più sofisticate, come appunto quella che troviamo incompiuta in Heidegger, pretendono di usare il tempo (o un qualsiasi altro aspetto della triradicalità) non solo allo scopo di giustificare una schematica qualsiasi, ma in modo tale che quest’ultima risulti soddisfacente rispetto a ogni domanda di senso – operazione talvolta eroico-furente, come p.es. in Bruno e in Nietzsche (ambedue decapitano il tempo), più spesso professorale, come in Hegel e Heidegger (entrambi trovano modo di gestirlo pei loro scopi). Ma torniamo alla domanda. Se nell’orizzonte del darsi originario Q1 non è proponibile, proviamo a sostituirla con Q2.Che cosa dovrebbe fare una filosofia? Il fare ha connotazioni tra loro molto differenti. Il fare operazionista, p.es., ha un intento paraepistemologico, essendo pensato per ottenere dall’indagine scientifica un’affidabilità alternativa a quella così precaria che si basa sulle parole. Suo primo scopo è quindi non solo emarginare il senso, ma disfarsi di quel polo S, che il convenzionalismo di fine Ottocento aveva riesumato in seguito alla crisi del positivismo. Ciò di cui l’operazionista è più soddisfatto è che nella sua prospettiva scompare col soggetto anche il medio. Non può trattarsi, come sappiamo, di una soppressione radicale, giacché le tre radici sono inestirpabili: come nel positivismo volgare – quello memorabilmente dickensiano dei Facts, facts, facts! – la soggettità sciente resta più che mai al suo posto, capo e coda dell’universo scienziato e didattico; ma l’operazionista ritiene che il fare possa incollarsi all’oggetto molto più saldamente del rappresentare. Quest’ultimo, tramontato l’ambizioso programma ideografico di Frege, sembrava di nuovo aderire troppo scopertamente al soggetto. Il fare operazionista si presenta pertanto come una variante di ciò che abbiamo indicato in generale come il significare delle scienze: di qualcosa si dice che di fatto equivale a, o comporta, qualcos’altro. Solo, l’accento è spostato dalla corrispondenza semantica linguaggio/mondo alla descrizione delle operazioni che lo scienziato compie per determinare un concetto: secondo Bridgman, …the true meaning of a term is to be found by observing what a man does with it, not by what he says about it. [P.W.Bridgman, The logic of modern physics, 1927]. L’epistemologo, si sa, è SOMario nel midollo. Che la trovi abbordabile o che la consideri impervia, egli pre-suppone una verità O (oppure una verisimiglianza una probabilità un protocollabilità ecc.), che un osservatore imparziale S (a sua volta sottoposto all’osservazione dei suoi pari) accerta o accredita o falsifica, grazie ad un sistema M di traduzione il più possibile trasparente. Ma a dispetto di tutti i controlli la cosa rimane lo stesso poco chiara, e la polarizzazione voluta dall’epistemologo non garantisce neppure quella distinguibilità tra i poli che pur si prefigge di stabilire. Esaminiamo un momento la stessa riga di Bridgman sopra riportata. Vi si contrappongono due modalità di stabilire “the true meaning of a term” (qualsiasi cosa intenda, non importa): Entrambe intrecciano diversi SOM, più di quanti ne esplicitino. In “is to be found”, p.es., v’è implicata un’ascosa soggettità impersonale che non può scopertamente dichiararsi per non danneggiare l’ipotesi a seguire. Ma quel che ci interessa è notare come “observing” introduca tra le operazioni (“what a man does”), cioè il fare(I), e il loro afferramento in qualche modo epistemico (“the true meaning of a term”) una triangolazione ulteriore. Infatti ogni osservare implica un SOM, quindi o un mero dire da parte di qualcuno circa quel fare(I) o, alternativamente, un altro improbabile fare(II) relativo a quel fare(I). Poi questo fare(II), che dovrebbe determinare operativamente il fare(I), richiede a sua volta un’osservazione, quindi un’altra triade SOMaria, un fare(III)… Nondimeno – Bridgman non ha torto – quell’“observing” è indispensabile – in nessun caso un fare si spiega da sé. In breve, una filosofia del fare deve ricorrere a una filosofia dell’osservare, ricadendo nelle stesse carenze epistemologiche da cui era suo intento sollevarsi. Oltre al fare operazionista, molti altri fare costellano la storia del pensiero, dal platonico generare nel bello alla fabericità demiurgica degli umanisti fiorentini, dal verum/factum hobbesiano all’altro e diverso verum/factum vichiano. A parte la fissione peripatetica del poietico dal teoretico, gli sviluppi delle filosofie del fare o tendono alla produttività calcolata, quindi a qualche tipo di efficienza, o affermano un dominio sulle cose (sul mondo la natura la storia l’avvenire ecc.). Nel primo caso hanno libero campo i meri significati (le convenzioni di ogni genere, gli operatori logici, i nessi sintattici… è l’utile magazzino dei contenitori, dove trovi il quadrato logico A.E.I.O., gli Elementi di Euclide, la logica di Boole, la macchina di Turing, la tastiera QWERTY, i segnali stradali, l’altezza standard dei tavoli da cucina ecc.), quando il senso o è fuori discussione in quanto si presume (erroneamente) scontato, o è atteso (ma il suo posto ancora vuoto è designato, come su una busta uno spazio è lasciato per il MITTENTE o in una email una casella per l’OGGETTO). Nel secondo caso il fare rinvia a qualcos’altro e si dice un agire – in vista di scelte che si allacciano a motivazioni valori scopi. In ciò il fare è intermediario, strumentale al risultato. In Vico, le civiltà umane s’adoperano al disegno provvidenziale del divino architetto, responsabile del senso ultimo della storia. Ma appunto a cosa corrisponde, alla fin fine, ogni qualcos’altro, quando si tratta non di significati pre-concordati ma di sensi da conferire, se non all’irruzione in campo di un nuovo darsi triseminale con tutta l’indeterminatezza delle sue tre componenti radicali? Pare perciò che Q2 sia altrettanto SOMaria quanto Q1. Sotto esame le filosofie del fare paiono anch’esse astrazioni ideotiche, contemplazioni tipiche dell’età della scienza e della tecnica. Il fare è baconiano e in genere moderno: implica l’opposizione soggetto/oggetto, l’asservimento del medio, l’irrigidimento del darsi originario. Quanto al puro e semplice sapere di significati, se ne occupano scienze e tecniche. Ma mentre la filosofia e la pro-sofia non sanno, la scienza non sa altro che sapere di sé: lavora sui significati, nulla potendo dirci circa i sensi. Prosofia, il vocabolo, vuol attirare l’attenzione su queste difficoltà, sulla questione del senso del senso. L’essere il fare il significare il sapere non hanno senso, bensì vien loro dato nella contingenza del sapere-agire di un essere al mondo. Non v’è quindi alcuna distante sophia verso cui tendere, quanto piuttosto una falsa sophia da cui prendere le distanze. Così questo pro- vale, come da etimo, ‘in luogo di…’, ‘in mancanza di…’. Nondimeno, la filosofia è (o perlomeno è stata) un desiderio insoppiantabile e a lei dobbiamo una lunga, infaticabile età di esplorazioni. Con quanto sopra non nego (occorre forse dirlo?) la profondità di stimoli e l’acutezza irrinunciabile di tante pagine di letteratura filosofica che i paradigmatici ci hanno lasciato. Se allo sguardo retrospettivo il desiderio di essere sapere fare volere sembra esser scivolato troppo spesso, narcisisticamente, nelle ideotiche in cui di volta in volta si specchiava, altrettanto poco senso hanno possibilità di attingere, in sé, il non-sapere il non-essere il non-fare il non-volere ecc. Definizione e indefinitezza assolute si collocano oltre il limite dell’essere al mondo: esse, nell’al di qua in?definito che attende il minuto del vivere, non esistono se non come posticce astrazioni. Radicalità [↑] Torno a dire che sarebbe molto interessante esaminare subito quel che promette questa prosofia – se pur qualcosa di promettente ha da offrire – che si prefigge l’improbabile: inoltrarsi nel fitto sottobosco delle interrelazioni tra le seminalità dell’essere al mondo e non sfrondare quasi niente; percorrerlo anzi in ogni direzione senza ridurlo a una sorta di mappa della sua stessa perlustrazione. Ma questo scritto non propone che una ricognizione sul limitare, uno sguardo dal margine. La sua funzione è saggiare concetti. Per ciò le tortuose questioni d’approccio vi si trovano più toccate di quelle direttamente a contatto col mondo del vivere, di cui peraltro ciascuno s’occupa a modo suo. Certo che a questo punto un critico potrebbe commentare ironico: “Bene, ora mi sento più tranquillo. Se mi iberneranno per 100 secoli e al risveglio mi troverò faccia a faccia con una équipe medica di extraterrestri simbionti (come in Final Diagnosis di James White), questa tua prosofia mi sarà di grandissimo aiuto. È il solo sistema di pensiero che mi garantisca fin d’ora la comprensibilità virtuale di quel che vedrò o si tenterà di dirmi, qualunque cosa sia, dato che senza alcun dubbio il DOT regolerà la vita di quegli esseri come ora la nostra, e i paradigmi in voga saranno inevitabilmente SOMarî. Potrò quindi pro-comprendere qualsiasi loro concezione dell’essere al mondo e anzi fin d’ora so come si reggeranno i loro mondi ad hoc. Ma molto probabilmente vivrò tutti i miei giorni nel futuro immediato e tra gli umani, e comunque – continuerebbe – non ho chiaro a cosa la tua pro-scienza possa servire, se è vero che nel suo intendere tutti i modi d’essere al mondo si con-fondono e co-fondano e da quanto ho capito si equivalgono”. Come replicare? Al punto in cui siamo giunti la funzione della pro-sofia si direbbe tutt’al più apofatica. Apofatica (ma più esatto sarebbe aponoetica) al modo della teologia negativa. Solo che mentre questa si occupa dell’ineffabilità del divino, quella si dedicherebbe all’inafferrabilità dell’umano. Le due prospettive in effetti s’assomigliano: se la teologia del silenzio intende lasciarsi alle spalle qualsiasi idea di Dio, onde vederLo meglio, cioè apprezzarNe l’illimite concettuale, questa antropologia del vissuto vorrebbe esplorare un sapere-agire tale per cui ogni essere si veda e sia visto al mondo senza forzare alcuna visione (senza mondi ad hoc obbligati). E così forse anche vivere meglio. Una antropologia negativa, dunque, se proprio occorre un’etichetta provvisoria, che si occupi dell’illimite concettuale del vivere. Nel capitolo II ho introdotto un triplice distinguo lessicale (vedi tabella seguente). Questo apparato minimo ci permette di far riferimento alle tre massime istanze dell’essere al mondo, quelle che, in esso coincidendo, di fatto lo costituiscono come sue radicalità, e che tuttavia, prese a sé, dis-traendosi in sé medesime, servono come assi portanti alle più diverse ideotiche. Ciò non toglie che, rispetto al vissuto reale, dove essere al mondo e mondi ad hoc si mischiano, non sia dato distinguere preventivamente tra DOTale e SOMario, precisamente come, nel minuto del vivere, di un leggerissimo significato (A=A) può farsi un senso molto grave (“L’Io assoluto pone se stesso assolutamente”), o al contrario di un nodo di sensi complesso a piacere un significato scontato e ripetitivo (“la festa della donna”, “l’offerta formativa”, “la ditta”). Ammesso l’intrico fitto di fili che stringe insieme, nel momento di vita, SOMario e DOTale, serve ora procedere osservando come si contrappongono e relazionano assialità e radicalità. Per semplificare provo a dire del soggettivo/soggettuale – noto però che, opportunamente compensate, considerazioni analoghe valgono anche per le altre due istanze. Del soggettivo [↑] Diciamo dunque soggettivo tutto ciò in cui gli ee.uu. si identificano o in cui pongono un qualsiasi saper di sé (anche in semplici espressioni come “Sono vegetariano”, “Ci piace la campagna”, “Vorrebbe fare la commessa”, “Si sentiva un genio”, “Ha una buona manualità”, “Sto bene a casa mia”, “Oziare stanca”, “Fatti coraggio!”, “Dio vi benedica!”). Soggettivo è altresì tutto quanto vien raccolto e composto nel polo S di una filosofia o paradigma SOMario: l’uomo interiore di Agostino e il microcosmo di Ugo di San Vittore, ma anche l’insipiens di Anselmo; il fascio di percezioni humeano, insieme al moi commun di cui parla Rousseau; in Kant sia l’Ich denke sia l’ignoto noumeno che lo deduce; e poi il proletario e il capitalista marxiani, la triade psichica descritta dalla IIa topica freudiana, il Dasein heideggeriano, l’Io e il Tu di Buber, il Sisifo camusiano, la “vita tra altre vite” di Schweitzer ecc. È da sottolineare che il soggetto ha la più ampia facoltà di identificarsi con non importa che cosa, dall’orsacchiotto alle adunate oceaniche, e che il grado di consapevolezza dell’identificazione può ritenersi, quanto a questo, irrilevante. Alla caleidoscopica gamma delle soggettità la riflessione non offre alcun alveo di contenimento: lo hippy e lo yuppie, la terrorista e la maestra, il gigolò e il volontario ONG, la viaggiatrice incantata, la cinefila accanita, lo zelota e il satanista, il menefreghista blasé sono configurazioni tutte alquanto pensate, eppure dilaganti in ogni direzione del senso. Le moi s’amuse. Caratteristica eminente del soggettivo è piuttosto l’inclusione/esclusione: il chi sono, il come son fatto, il che ci faccio e il come devo o voglio essere da una parte, e il non-me dall’altra. Infatti dall’abisso sconfinato delle interiorità, dalle centomila fisonomie o maschere possibili la psiche arretra; di fronte al potenziale illimitato del soggettuale essa reagisce con la fissazione di un io dato per vero, o almeno tollerabile plausibile negoziabile. O di una consimile formazione in cui potersi riconoscere, un noi o un tu o un Tu. Lo fa in modi diversissimi, tendenti comunque al confinamento, alla quadratura del sé (proprio od altrui, personale o collettivo) rispetto al non-sé. Per quanto il tutto, ‘io’ incluso, sfugga alla comprensione, l’io come concetto o come idea si immedesima in una definitezza. Gli ee.uu. temono quel sé che può esser tutto e il contrario di tutto, una disorientata ambiguità pensante; definendosi essi si difendono dalla moltiplicazione dei riflessi ingenui o sofisticati dell’autocoscienza, dalla libertà del pensiero e soprattutto dalla costitutiva indeterminazione dell’essere al mondo. Di fatto poi cambia poco se il piano di difesa si configura nella complessa logistica hegeliana o in un quotidiano efflusso lirico o figurativo (come, che so, in Emily Dickinson e in Max Ernst), o se si esprime immediatamente in una qualsiasi dedizione o in una filiazione o in un mestiere. Purtroppo da questo punto di vista la passione per le maratone o i balli di gruppo e quella per la lotta armata si equivalgono. Di fronte agli spazi sconfinati della soggettualità il soggetto manifesta anzitutto un’invincibile agorafobia che lo obbliga a ripararsi sotto un esser qualcosa qualunque. Questa serie di mosse per cui l’io si personalizza produce solitamente gratificazione e un rapporto stabile quanto meno col suo mondo. Non è rarissimo tuttavia l’esito opposto: identificazione insoddisfacente, visione nihilista. Nel Novecento, campione di questo sguardo cattivo su di sé (e sugli altri) fu per alcuni anni Jean-Paul Sartre, del quale sospetto che ne L'Être et le Néant (1943) abbia approfittato del generale avvilimento indotto dal secondo conflitto mondiale per macerare la propria privata vendetta contro una soggettità, la sua propria, profondamente malvissuta. Certo un caso estremo, questo, da cui emerge tuttavia ancor più nettamente come la sovrabbondanza di credibili ego nel cielo della soggettualità scoraggi quanto la più fitta e oscura selva. Così l’e.u. s’affretta a costruire una cupola protettiva per la sua anima bisognosa di cure e curazie, farmaci e Sorgen. Per Heidegger e (d’altro lato) Nabokov, come per noi, l’esistenzialismo nihilista non fa che ripetere con profusione di mezzi il disturbato soggettivismo della metafisica moderna. Su La nausea il creatore di Humbert Humbert scrisse [New York Times Book Review, 24 aprile 1949]: “Quando un autore infligge le sue oziose e arbitrarie fantasie filosofiche a una persona inerme che ha inventato a questo scopo, occorre una buona dose d’ingegno perchè il giochetto funzioni.” In Heidegger, disingenuandosi rispetto alla linea Kierkegaard Nietzsche Jaspers Sartre, il soggetto contemporaneo supera l’angoscia dell’inessenziale (io, da cui tutto origina, sono o malato o niente) smettendola di insistere sull’esibizione di una singolarità-martire, l’Ecce Über- und Untermensch! E si dilata piuttosto nelle infinite modulazioni storico-ontologiche dell’essere-che-vien-s-coprendosi nel tempo (nel linguaggio, nell’arte, nella tecnica, nel nazionalsocialismo ecc.). Se e come le soggettità riescano efficaci nel loro sforzo di definire e confinare la radicalità soggettuale, è cosa da vedere. Le evidenze di massima sono due e in apparenza contraddittorie. Da un lato, l’assegnazione al sé di lineamenti che permettono la costruzione dell’identità nella continuità: qualcosa deve permanere per cui io resto questo io; dall’altro, la sensazione che l’io appassisca stagionalmente nel cambiamento, vicenda che a sua volta può essere vissuta come decadenza desolazione corrompimento (“Non sum qui fueram: periit pars maxima nostri” [Maximiani, Elegiarum liber]), oppure come rinnovamento rinascenza ribellione (“And what is else not to be overcome?” [J.Milton, Paradise Lost]). La continuità dell’io, in grande misura illusoria, è un riflesso dell’essere al: le vicende del vivere, per esser com-prese, devono trovare nell’io un contenitore flessibile. Peraltro l’io spesso demanda la funzione di contenimento a sue appendici esterne (la famiglia i figli la casa la chiesa il partner il partito il patrimonio l’attività l’azienda gli amici del bar la squadra del cuore ecc.), al punto ch’esso diviene piuttosto contenuto. Così la soggettità, quella che l’individuo congettura e si attribuisce, vale tutt’al più come ipostasi pratica, che tende a conservarsi come coerenza imperfetta di memorie ragioni sentimenti scelte gusti e via dicendo. Tende però anche ad adeguarsi alle mutate circostanze, e ciò proprio per salvaguardarsi. Perciò essere & non-essere vi si trovano amalgamati e antitetici, discontinui e sovrapposti. In breve le soggettità sono formate da immagini dell’io al tempo stesso precise e confuse, ritagliate e sfumate, dove ciò che conta è la sottostante gestione dell’intenzione, nella quale l’individuo si pre-suppone (o pre-suppone l’altro) comprensibile e sensato. Di solito l’intenzionalità vede il sé stabile integro valido; ma vi sono intenzionalità che lo esigono infermo inconcluso labile provvisorio. Penso agli ebrei ultraortodossi, al millenarismo shi’ita, ai cristiani pentecostali, ma anche a chi fortissimamente vuole far fortuna o vincere al gioco, persone che si sentono in attesa di un evento realizzatore o di un avvento redentore in mancanza del quale la vita non è risolta, non ha senso compiuto. O ne ha proprio per quell’attendere insoluto. Infatti l’intenzionalità ha spesso come scopo il senso inteso riduttivamente come significato; mira quindi a se stessa, ed è contenta quando trova una soluzione qualsiasi in cui acquietarsi. Sennonché il riposo del concetto è la sua fine nell’idea. Dunque un’intenzionalità che, come un palcoscenico allestito per un determinato melodramma, per il resto si mostra indifferente a quali siano gli attori ed in che veste recitino. Lo stesso si applica alle soggettità attribuite agli altri, tramite cui gli altri figurano a nostra dis-posizione. Dico dunque soggettità tutto quanto – ingenuamente o studiatamente – l’e.u. stabilisce e determina esser cosa che includa o investa un qualsiasi esser sé (esser se-stesso o esser sé-altro). Del soggettuale [↑] Dico soggettualità, invece, lo strabocchevole pro-insieme ŦS di tutte le possibili identità psichiche o volti attribuiti dagli ee.uu. a se stessi o ad altri, individui o collettivi. Dunque, che so, non il cogito cartesiano o il cameriere, ma quella disparatissima totalità virtuale di cui il cogito e il cameriere non sono che due casi, anzi nomi convenzionali di due serie aperte di casi essi pure innumerevoli. Aperte, in quanto illimitate sia nell’estendersi all’interno della soggettualità, sia nell’affacciarsi al di fuori di essa. Basta infatti un appena percettibile slittamento per passare da un qualsiasi cogitoS (istanza di soggetto) a un cogitoM (istanza anche di medio, p.es. se m’interrogo sull’etimo del termine), o da un cameriereS (il nostro bravo Nando) a un cameriereO (l’ombra indaffarata che sfiora il nostro tavolo). Allo stesso modo, dico oggettualità e medialità i pro-insiemi, rispettivamente, ŦO (tutte le possibili apparenze o configurazioni che si presentano come cose del mondo e i rispettivi co-efficienti) e ŦM (tutte le possibili espressioni, più o meno propriamente linguistiche, date o prese come comunicative). Si osserverà: ‘possibili… attribuiti’, ‘possibili… date’ sono formulazioni scorrette perché confondono attendersi o supporsi e darsi. Paiono però qui le sole ammissibili in quanto evitano di porre molte infinità inscatolate (il problema di Platone Frege Russell…) e al tempo stesso non confinano l’insieme tra le pareti della natura, o della storia, o della cultura, o della semiosi. ŦS (come ŦO e ŦM) sta per cosa non delineabile per inclusione/esclusione, poiché corrisponde al patrimonio universale – incontornabile mobile labile – delle figure ritrovate per rappresentare a se stessi e agli altri il sé proprio e il sé altrui, per individuarsi riconoscersi amarsi respingersi. L’insieme aperto ŦS presenta aspetti inconsueti. Quantitativamente, si può considerare che, secondo un calcolo prudente dal quale siano escluse le occorrenze peregrine, la soggettualità comprenda ai giorni nostri, contando solo le figure in mente alicuius, almeno mille miliardi di casi, nessuno dei quali congetturabile come identico a un qualsiasi altro. Ogni figura assume infatti significato solo nel contesto olistico determinato da tutte le altre che l’individuo ospita. Anzi, nel tentativo di pensarne due come identiche se ne genera un’altra ancora diversa. Chi cercasse, ad esempio, quale figura di autorità avessero in mente, intorno al 1950, due cittadini di Brescello (Peppone e don Camillo) dovrebbe inglobarvi un po’, e forse un bel po’, di Stalin; ma quale Stalin per il sindaco e quale per il parroco? Il nostro chi si troverebbe ben presto con in mente un terzo e quarto Stalin, quelli a cui egli vorrebbe assegnare le etichette di ‘Stalin di Peppone’ e di ‘Stalin di don Camillo’, concorrenti a formare l’idea-concetto di autorità secondo costoro secondo lui. Il mondo è piccolo soltanto finché il suo confine è il banale; ma se si bada alla proliferazione dei sensi possibili ogni momento di vita è un’occasione di mondi. V’è poi, ancor più sfuggente, la categoria dei soggetti traslati: la Gioconda (il dipinto) oltre che di medio e di oggetto, è istanza di soggetto. Lo stesso può dirsi, benché a diverso titolo, di un’immaginetta di Padre Pio o di Ganesh, di un colosso di Kim Il Jong, di un poster del Che, di un puzzle di Bloom delle Winx. Qualcosa diventa istanza di soggetto (o di medio o di oggetto) tramite un interprete che è tale e tale resta finché l’esito del suo interpretare è imprevedibile; tuttavia pare evidente che Monna Lisa Gherardini (o Pacifica Brandani, la dama del dipinto) si imponga come questa o quella istanza di soggetto anche per forza propria oggettiva, come un cubo di metallo difficilmente parrà, che so, liquido o sbilenco. Voglio dire che non si è portati a pensare Lisa come baffuta, né il profilo del Che come ornamentale… finché eventualmente qualcuno non li proponga proprio in quel modo – per gioco, per sfida, pour épater le bourgeois, per guadagnarci qualcosa – e così il nuovo nesso entra nel novero. Quanto alla sua consistenza, questo insieme congetturale ŦS, benché indisponibile e incomunicabile, sarà più vero, a modo suo, di ogni altro catalogo o enumerazione finiti. Il finito e l’infinito, le due totalità illusorie, son sempre falsi quando, come spesso fanno, cercano di sostituire l’incontornabile. Oltre a ciò, nella soggettualità, il trascendentale e il temporale si ritrovano cooriginari, come nell’individuo la specie e questa in quello. Ogni minuto la dissoluzione e l’oblio si portano via milioni di soggetti, ma altri ne generano la vitalità e la creatività, le speranze e le illusioni di tutti, donne e uomini, grandi e piccoli. L’insieme ŦS sta dunque semplicemente per tutto quanto – in modi ingenui o studiati – sia ritenuto (visto sentito giudicato) istanza della radice soggettuale del darsi originario, in contrapposizione alle soggettità le quali colgono figure escisse dall’insieme ŦS. Una soggettità nasce quando una figura del soggetto si distacca dall’insieme ŦS e lasciatolo lo dimentica; oppure quando una tal figura sorge e s’impone in assenza di riferimenti all’insieme ŦS, incosciente quindi della radice stessa e dell’albero di cui è foglia. Come se una determinata cartella colori potesse sostituire l’intero continuum delle sfumature. L’umanità concepisce non meno di 1012 istanze soggettuali, eppure individui, gruppi o intere società si regolano ed orientano – perlomeno nella sfera pubblica politica religiosa – come se ne fossero ammesse in tutto poche dozzine. Ne consegue l’impoverimento dei valori macrocomunitari e la scomparsa di gran parte dei mondi l’uno dall’orizzonte dell’altro. Ciò nondimeno, una generica soggettualità indefinitamente aperta non ci aiuterebbe ad affrontare la vita caso per caso. Per cavarcela tra le difficoltà e per goderci le opportunità dell’esistenza facciamo riferimento nella maggior parte dei casi a un insieme ridotto di soggettità. Questo comporta – tornando al punto – che intervenga, tra DOTale e SOMario, una pro-dialettica complessa e indescritta che questo saggio sfiora ma non affronta. Essa contraddice le varie dialettiche della tradizione su due piani: non porta necessariamente da nessuna parte (non ha un verso); non si colloca come strumento logico fuori della vita (sopra sotto prima dopo): non analizza, non determina – a ciò provvedono le varie diairetiche antropologiche sociologiche psicologiche ecc. Analisi sintesi porre negare ecc. non sono che movimenti sub-dialettici di volta in volta più o meno sensati e sempre interni alla sperimentalità pro-dialettica del sapere-agire. Quando per amor di costrutto si astrae da questa, tra le due contro-figure del soggetto, il soggettuale e il soggettivo, intorno a cui per semplicità espositiva restringiamo in questo passo il discorso, a. si può instaurare una sterile dialettica positiva, in quanto il SOMario, non vedendo il darsi originario se non attraverso le sue categorie, la riduce a gioco di opposti o a compatibilità/incompatibilità di visioni, quindi di fatto in un modo o nell’altro riesce a negarla; oppure b. può prodursi un’opposta dialettica meramente denegativa, allorché il DOTale sussume il SOMario come un qualsiasi suo caso, alla pari con tutti gli altri casi possibili, mentre è evidente che se un paradigma (o un mondo ad hoc) è posto, quali che siano le sue motivazioni e i suoi termini, quell’esser posto di fatto lo colloca in uno spazio dialettico ben diverso da quello che ospita il puro possibile. Se infatti un e.u. o una costruzione di pensiero identificano come propria (cioè personale e peculiare, pertinente e rispondente) una data figura del soggetto e la associano al paradigma, tutte le restanti figure bene o male dileguano. E questo è pur un dato di fatto, il quale incide anche sull’essere al mondo in genere. D’altra parte, se il pensiero si abbandonasse (ammesso lo potesse fare) alla considerazione indifferente e passeggera di tutte le istanze del soggettuale, nessuna esclusione sarebbe posta e pertanto nessuna inclusione acquisterebbe senso; solo si darebbero configurazioni del tutto transitorie provvisorie ipotetiche, in relazione alle quali il primo postulato sarebbe quello d’inadeguatezza rispetto all’insieme ŦS, cioè rispetto a quell’unico pro-vero e pro-intero soggettuale con cui l’esserci ha da confrontarsi. Un tale insieme come abbordarlo? È evidente che quella configurazione che a un dato momento si sceglie dipende anzitutto da quel che si è, da ciò che si vuole, dai mezzi che si hanno, da come le urgenze sospingono, dalle illusioni che si nutrono. Scelta quindi legata al contesto del suo eventuarsi. Il rifiuto di scegliere in base a un paradigma soggettivo (SOMario), a favore di un’apertura senza distinzioni al soggettuale (DOTale), decide per un’etica generosa ma precaria, che spera e teme. Da un lato infatti la speranza di progredire, tramite l’apertura alla soggettualità, verso una visione impregiudicata dell’essere [al mondo] è minata dalla certezza di non riuscire, perché l’insieme ŦS resta incontornabile (e ciò anche grazie al contributo aggiuntivo che ciascuno dà con lo sforzo stesso di comprenderlo); dall’altro, quella medesima visione quanto più possibile impregiudicata dell’esserci rivela che nessun essere, per quanti sforzi compia, sfugge alle sue soggettità. Questa pro-dialettica complessa o, potremmo dire, perennemente sperimentale non soffre analisi esibibili proprio perché avviene nei contesti dell’eventuarsi i quali sono sempre unici e irripetibili. Volendo rischiare ugualmente al riguardo, si può forse ammettere che vi s’intreccino variamente diverse sub-dialettiche, e che di queste quella tra soggettivo e soggettuale (come, nei loro termini, le parallele oggettivo/oggettuale, mediante/mediale) sia occasionata da due opposte attensioni: verso il soggettuale (attensione concettuale) e verso il soggettivo (attensione ideale). Nel primo caso esco dallo stato d’essere in cui fino a un momento fa mi trovavo annidato e che mi confinava, in cui forse mi compiacevo assuefatto, e mi ri-volgo alla continua domanda, su cui la vita insiste, di altro senso d’essere – nonostante le difficoltà, il disorientamento o la dispersiva curiosità, la dubbia euforia in cui potrei cacciarmi; nel secondo rifuggo dall’alterità che mi mette alla prova, continuo ad abitare una fissazione qualsiasi che mi basta, che mi convince, mi fa comodo, mi gratifica o rassicura e non ultimo mi permette di passare ad altro, di evitare che sorga un evento indesiderato. Il vivere quotidiano in ciò che ha di ripetitivo (escluso quanto è mero strumento ad altro) può ridursi a una sequenza di evitamenti, quando ritornano le stesse soggettità abituali, mentre le aperture all’alterità soggettuale si diradano fin quasi ad azzerarsi. Oppure una soggettità ideale, un suo modello predisposto ma che ci è estraneo, finisce per sembrare risolutiva quando viene a mancare il coraggio della libertà. Un caso apparente di questo genere di attensione ideale, fittizio ma efficace perché comicamente esasperato, lo tratteggia Woody Allen in Play it again, Sam (1972). Linda (Diane Keaton), soave amica prodiga di consigli, ha promesso a Sam (Allen) – cinecritico nevrotico e sessualmente inibito, di lei innamorato – di fargli visita. Mentre la aspetta, preso dal panico egli s’arrabatta per sostituire al suo solito sé, in cui non crede, e all’ordine consueto di casa sua, in cui vede riflessa la sua complessata inadeguatezza, un’idea antitetica e artefatta, rispondente al suo io ideale, e tale in ogni caso da esonerarlo dal terrificante impegno di esser semplicemente se stesso, vada come vada. Poiché il modello trendy da imitare impone disordine creativo, Sam ricorre ai più spiantati artifici, come gettare qua e là per la stanza, simulando caos interessante, una quantità di 33 giri di vinile nudi, nel vano tentativo di mostrarsi artiste. Sul versante opposto, di attensione concettuale ci è testimone in prima persona nelle sue memorie Martin L. King a proposito del suo celebre discorso sul Mall di Washington, DC, il 28 agosto 1963: I started out reading the speech, and read it down to a point. The audience’s response was wonderful that day, and all of a sudden this thing came to me […] "I have a dream". I had used it many times before, and I just felt that I wanted to use it here. I don’t know why. I hadn’t thought about it before the speech. I used the phrase, and at that point I just turned aside from the manuscript altogether and didn’t come back to it. [The Autobiography of Martin Luther King, Jr., ed. Cl. Carson, Warner Books, 1998, p.223]. L’oratore non continua a leggere il testo che aveva preparato; sente di doverne produrre uno reale, sul momento, in rapporto immediato con lo spirito di quella folla coesa e severa, centinaia di migliaia di persone che individualmente e collettivamente si riconoscono e si impegnano nella lotta per i diritti civili. Egli si rende conto di non poter essere più, in quel momento, l’oratore ufficiale che ha un suo discorso da fare, pena la mortificazione del soggetto collettivo, e si presta quindi a personificare la folla radunata, a raccontare la sua anima. Ora, l’occasione era eccezionale e tale era l’uomo, ma l’attensione concettuale non è così rara. Sembra al contrario piuttosto frequente e, appunto, in costante tensione pro-dialettica con le altre istanze SOM-DOT. È la stessa accorta attenzione al momento di vita di cui danno prova sovente il vigile in strada, il cameriere in sala, l’infermiera in reparto e l’insegnante allorché fa che la lezione si produca sul momento dal dialogo vivo. Venendo quindi a casi quotidiani, pensiamo a un’esclamazione del tipo: Che mestiere fare il genitore! Questa (ripresa qui non in quanto frase, ma come finestra aperta su un atto di vita) cosa può rappresentarci del soggetto? Può forse esprimere attensione ideale: il confinarsi di S (il genitore) nel come si deve (il mestiere), nei comportamenti previsti, cioè in una determinata soggettità confacente, contrapposta alla complessità sovradeterminata e preoccupante dell’interrelazione genitori/figli. O forse al contrario vuol dire (attensione concettuale): non c’è niente di sicuro e ben poco di sacrosanto nel far il papà, occorre maturare sul campo, giorno dopo giorno, pazientemente, le debite abilità, con tutta la buona volontà. Ora, che una medesima espressione, oltretutto esclamativa, possa essere citata per esemplificare una determinazione (la soggettità) e insieme il suo contrario (la soggettualità) può apparire di incerto auspicio quanto al chiarimento che i due termini promettono. E, se vogliamo peggiorare la situazione, entrambi i casi sopra riportati (Allen e King) potrebbero rovesciarsi: Sam non vorrà forse davvero uscire dal suo solito timido self? E imitare disperatamente standard altrui, per quanto corrivi, copiandoli anche solo esteriormente, non può essere una prima via di fuga dalla paura di cambiare? Sarebbe sbagliato aspettarsi che l’attensione concettuale abbia sempre a farsi avanti nella forma di una mossa acculturata, radical-chic. Spesso abbandoniamo l’ideotico e abbracciamo il diverso per moto spontaneo, come spinti da un’esigenza naturale, senza che la riflessione ragionata trovi neppure il tempo per esprimersi chiaramente. Quanto all’altro caso, a meno che non vogliamo ridurci del tutto santimoniosi di fronte all’icona M. L. King, non è proibito supporre che l’oratore abbia distolto lo sguardo dai suoi fogli – dov’era forse svolta una più elaborata analisi sulla lotta in corso per i diritti civili – per dispiegare una dose più generosa di quella retorica un po’ ridondante che si riserva per le grandi occasioni. Egli stesso non sa dirci se il moto che lo guidò in quell’evento possa esser caratterizzato di attensione concettuale (“and I just felt … I don’t know why. I hadn’t thought about it before…”). Ma col darsi triseminale non può che andar così, come si vedrà più avanti distesamente. Per ora quel che qui importa è osservare come le due opposte letture dei tre casi (Allen, King e il genitore) riflettano – estremizzandoli intenzionalmente per amor di discussione – due contrapposti movimenti, tipici di stati d’essere ben diversi. Nell’attensione ideale si accolgono o consolidano soggettità escludenti, mentre nell’attensione concettuale gli spazi di presenza del soggettuale si aprono alla genialità dell’intendere, senza preclusioni. D’altronde, nell’uso ogni parola della lingua, così come ogni simbolo e gesto, può trovarsi implicata nella tensione ideal-concettuale riguardante il soggetto. A proposito di mestiere è stato Marc Bloch a mostrare il termine sotto una luce soggettuale nuova con la sua celebre Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, 1941, tre anni prima di finire ucciso da mestieranti di un potere mortifero, individui che della loro libertà di protensione soggettuale si erano disfatti per servire come automi una soggettità monocorde, totalmente soggiogata al proprio involuto ideale. E poiché siamo a parlare di illustri storici, ho sotto mano più che a proposito un altro caso utile qui ai nostri fini esplorativi. Nel suo saggio Noi e i Greci, Marcel Detienne lamenta l’aderire ideotico – circoscritto parassitario invalidante – del soggetto contemporaneo occidentale (e in prima fila “gli scrivani della storia… suoi vigili guardiani”) alla tavolozza di identità politiche che si vuol credere giunta fino a noi da Solone e Pericle, col risultato di nobilitare anche l’opera di certi nostri deprecabili imbrattatori della vita pubblica, e di trascurare o squalificare altre usanze diversamente civiche, a vantaggio di un sentire politico incessantemente autoreferenziale. Per “sfuggire alle porte chiuse di un miracolo greco che non finisce mai e di una civiltà occidentale inguaribilmente obesa”, Detienne lancia dunque un approccio soggettuale apertissimo: studiare il “volersi riunire per dibattere degli affari comuni” ovunque si sia praticato e si pratichi (“comparativismo sperimentale”). In breve, lo studioso belga chiede un’impegnativa inversione radicale: riflettere non su che cosa siamo convinti sia giunto a noi dai Greci (oggettità, estensione ideale), rispetto a ciò che ci ha davvero raggiunti e che non abbiamo prima d’ora considerato (oggettualità, estensione concettuale); ma su chi (soggettità, attensione ideale) siamo convinti impersoni il politico onde appunto i soliti rinvii all’antichità greca, rispetto a chi (soggettualità, attensione concettuale) potrebbe rappresentarci con freschezza tutta nuova la più ampia varietà del sapere-agire politico degli ee.uu. Commenta A.Gresh: Misère des corporatismes, des disciplines rangées dans des bocaux. Misère de la pensée qui réduit à la Grèce antique les origines de la civilisation. Dénonçant les fausses évidences apprises par des générations d’écoliers, Marcel Detienne… produit un essai stimulant d’une brûlante actualité. […] En rejetant ces simplifications, l’auteur nous entraîne dans l’anthropologie comparative, nous guide à travers les communes italiennes du Moyen Age européen et les monastères bouddhistes du Japon, nous reparle des constituants français, des Cosaques, des Ochollo d’Ethiopie, etc., pour nous permettre de comprendre comment les communautés humaines en arrivent à débattre des « affaires communes » et à inventer le politique. [Le Monde diplomatique, 9/2005] Da un quotidiano italiano che recensisce il saggio arguiremmo invece trattarsi, tutt’altrimenti, di una correzione d’oggetto, contestazione di oggettità preconcette, tendenti a non vedere la diversità tra antichità greca e contemporaneità: …l’Occidente ha spesso fatto risalire la propria identità alle idee di democrazia e libertà elaborate nell’antica Atene. Ma in che misura siamo debitori verso quel mondo? Un grande studioso mostra le differenze tra passato e presente. Il redattore ha stilato il suo sunto, a quanto pare, condizionato da quella fattizia diacronia ideotica contro cui nel suo saggio lo storico-antropologo si batte in favore di una sincronia concettuale di situazioni, lontanissime tra loro e precisamente per ciò interessanti a compararsi. Per non dover mettersi a dieta, l’occidentale dalla soggettità obesa tende volentieri a vedere ogni questione costruita sulla polarità oggettiva (scientificamente, come si suol dire): sono tante le cose di cui discutere, cerchiamo almeno di non discutere del chi discute e del mediante che. Il pro-insieme ŦS – ovvero l’estensione amplissima della soggettualità verso cui l’e.u. può, se vuole, protendersi, in quanto sensibile all’essere al mondo, cioè alla triseminalità originaria – non va confuso con la proliferazione delle più disparate soggettità in cui gli ee.uu. tendono e perfino anelano a chiudersi allo scopo di de-finirsi e com-prendersi nei termini prescritti dall’ideotica di riferimento, cioè da una qualsiasi ipostasi del pre-paradigma. Poco interessa, a questo proposito, se le ipostasi del signor Rossi sono state assemblate artigianalmente nello scantinato di casa, o se invece sono griffate da famose botteghe del pensiero. Conta piuttosto se, nella stessa persona, le ipostasi della soggettità, si sgancino (o no) dalla soggettualità e, inconsapevoli di costituire una porzione davvero minuta dell’insieme ŦS, reciprocamente si dominino e si subiscano, si coartino e si combinino, insomma si dispongano in strutture o gerarchie localmente soddisfacenti. Una soggettità è una visione dell’io (proprio o altrui) che si forma perché la mente inclina alla costruzione ideotica come espediente (la facile specularità tra Poros e Penìa): rimedio alle difficoltà che incontra nell’integrazione complessa e sempre provvisoria dei diversi indicatori esistenziali quali, ad es., ipseità e alterità, memoria e fantasia, concretezza e astrazione, azione e scena, percezione e giudizio, messaggio e intenzione, strumenti e scopi, utilità e costo, criteri e valori ecc. La costruzione di una soggettità ideotica, quale che sia, serve a semplificare coordinare uniformare, in obbedienza a uno schema che all’io sembra approssimativamente risolutivo. Lo schema, di cui è spina l’idea, sostituisce la complessità reale-vitale, sovrapponendole un costrutto dell’intuizione e della ragione. Niente impedisce, è bene aggiungere, che a una soggettità così costruita il suo artefice apporti aggiustamenti continui e perfino ristrutturazioni profonde – purché il risultato si mantenga rispondente, garantisca più coerenza cognitiva (meno dissonanza), faciliti l’uso delle risorse psichiche, normalizzi i rapporti con l’ambiente e con gli altri, eviti il conflitto, o lo susciti, a seconda dei casi e dei moventi… insomma, cosa sia rispondente è veramente impossibile a prevedersi, ma qualcosa nel soggetto funge da direzione esigenza tendenza: un timone che manovra obbedendo a una cibernetica talora decifrabile, ma solitamente abbastanza opaca. Del fornire esempi [↑] A chi chiedesse a questo punto altri e più chiari esempi, ammetterei la mia riluttanza a fornirne, benché se ne trovino in quantità illimitata, visto che in tema di essere al mondo si può proprio dire che tutto fa al caso. Infatti su queste nostre bizzarre tematiche triseminali mal si confà darne. Mi spiego... con un esempio. Allevatore marchigiano, Fermo ha un’immagine di sé (la sua soggettualità privata) che non include alcuna apprezzabile connessione o riferimento al Congo. Sa di uno stato così chiamato, di un fiume, di un film che non ha visto, ma nel suo essere al mondo queste figurano come lontane oggettità a lui personalmente estranee. Fermo conosce, così vuole la sorte, Lucia, laurea in zoologia, che ha lavorato qualche tempo per una ONG a Bumba sullo Zaïre. Ora gestisce un’oasi faunistica nei dintorni di Osimo. I due fanno conoscenza, allacciano un’amicizia, una storia di qualche genere. Si frequentano, si raccontano, s’innamorano. A questo punto, ci domandiamo, quale rispondenza troverà Fermo, nella sua nuova vita affettiva, tra l’affezione per Lucia e i ricordi africani che di lei sono parte? In quali mutazioni incorreranno, mutuamente intersecandosi, le attensioni diciamo congocentriche di entrambi? Impossibile prevederlo. L’amore, finché non diventa eros del banale, sa compiere miracoli seminali. L’immaginazione può, se vuole, sbizzarrirsi. È il campo della letteratura. Nella fiera letteraria c’è spazio per tutte le storie, perché è la costruzione narrativa stessa a dar loro una ragion d’essere. Un bel racconto attrae perché in esso una vicenda si dipana o s’intrica secondo uno schema unitario; ciò rinvia il lettore al suo disegno e alla rispondenza ch’egli stesso s’industria d’ottenere, giorno dopo giorno, tra atti fatti oggetti persone da un lato e i loro corrispondenti sensi per lui dall’altro. Precisamente per questo la letteratura, che procede sul filo dell’analogia o della mimesi auto-istituentisi, sembra aprirsi nelle sue pagine migliori al senso della vita. Ciò che ha giustamente preoccupato Beckett: che sensatezza può mai risiedere nella più totale libertà di senso? Dunque recitiamo l’assenza, il silenzio. Tuttavia la simulazione letteraria non cerca la corrispondenza tra res e intellectus, anzi la pone a suo piacimento. Per restare in Africa, la lenta risalita del fiume Congo come metafora della discesa nelle tenebre del cuore umano parrebbe una grottesca forzatura se tentassi di accreditarla qui per la prima volta, saggisticamente, laddove il racconto di Conrad ne ha saputo porre la rispondenza quasi fosse un dato metafisico. Su questa intrinseca doppiezza della grande arte, che può riflettere nella tensione mediante/mediale tutte le vibrazioni della pro-dialettica sperimentale, ha scritto benissimo Julien Gracq: Ainsi va la « vérité » que dispense l’art, non pas opposable à l’erreur, mais plutôt à l’indistinct, au labile, à l’informe — condensation précaire, aux contours inflexibles (comme l’est le cristal) d’un élément dont l’état le plus habituel, et le seul réellement fréquentable, est la fusion, l’amalgame, l’oxydation, l’entrée en combinaison et la mixité. L’art n’est pas réellement menteur, il est plutôt le garant — paradoxalement fixé, et magnifié — de la nature à la fois authentique et perpétuellement transitive de la réalité. [Le Monde des Livres, 5.II.2000] Ma, occorre aggiungere, il narrativo (il drammatico, l’artistico), come vide Aristotele, convince in quanto si conclude (catastrofe): si spegne lasciando nell’animo la traccia di un vissuto trasposto (catarsi) che via via illanguidisce. L’immedesimazione si estingue in citazione e mimica, in commento e critica. Altre esperienze premono, nelle quali il soggetto si autoproduce, come l’opera letteraria. Anch’egli deve porre se stesso e da come si pone deriva in buona misura quel ch’egli è. Perciò l’opera letteraria alla fin fine ci parla solo di sé, così come ogni e.u. trova solo in sé le sue ragioni. Ammesso come difficile, pressoché impossibile, fornire esempi convincenti di cosa sia soggettivo rispetto a cosa soggettuale, ciò parrà una debolezza grave dell’argomentazione. I canoni della saggistica a tesi m’imporrebbero di descrivere, adducendo casi significativi, il che è (o che non è) della cosa di cui ci occupiamo. Ciò che qui però non può farsi e non è da farsi perché non circoscriviamo significati, attività che si può praticare ad libitum e che, come già detto, si giustifica non appena convince funziona serve piace e simili, ma cerchiamo come renderci conto complessivamente di che senso abbia, nel suo sempre diverso ripresentarsi, il difatto esistenziale dell’essere al mondo. Sul caso I have a dream, come su ogni altro, si potrebbe continuare a lungo, pur sempre e solo nei termini che qui interessano, ulteriormente interrogando la pro-dialettica di quel momento di vita. Immedesimare l’uditorio, concentrare su di sé (in quanto portatore di una soggettualità condivisa) le tensioni dell’assemblea, ché di questo si tratta – figura elocutiva non certo inconsueta nei sermoni di un pastore della Chiesa battista qual era il Rev.do King. Questi tuttavia, stendendo il discorso, dove non solo si rivolgeva anche ai bianchi, ma in molti passi parlava anche per loro, in loro nome, non aveva ritenuto di poterla impiegare. Impersonare la propria congregazione, o le poche migliaia di presenze solidali in un’assemblea di quartiere, era tutt’altra cosa, soggettualmente, che non assumere su di sé la rappresentanza dell’anima dell’intera nazione americana. Pre-scrivere a tavolino un tale atto di vita, in base a un’estetica premeditata, sarebbe stato il colmo del non-senso, una sorta di dannunzianesimo estremamente fuori luogo. Occorreva attendere che, dai tanti sensi e sfumature di senso che la grande adunata, come nuovo soggetto, avrebbe potuto esprimere sul momento, emergesse quel senso dei sensi, quell’ultima e ultimativa rimostranza, quell’unitario cahier de doléances, a cui contestualmente l’oratore avrebbe dato voce di fronte alla nazione intera e al mondo. Nei momenti decisivi il sapere-agire degli spiriti magni sa mantenersi aperto al soggettuale e lo perlustra di attimo in attimo costantemente attento alle sue emergenze. Lo stesso vale per l’oggettuale. Una delle preoccupazioni degli organizzatori era che l’imponente manifestazione degenerasse, che un episodio violento, per quanto marginale, offrisse alla reazione il pretesto per accusare il movimento di patrocinare lo scontro. Pertanto l’oratore sente di dover sussumere non solo il soggetto collettivo, ma anche l’oggetto, mettendolo per così dire al riparo da incidenti funesti. Il diritto offeso, la giustizia negata, l’uguaglianza irrisa, la rivendicazione esasperata, l’emergenza sociale che attanaglia l’America, insieme alla pazienza logorata, alla speranza in un futuro prossimo di pari dignità per tutti i figli di Dio, tutto questo in quel frangente trova uno spazio di realtà, paradossalmente, nel topos del sogno, quasi una non-cosa che diventa la sola in grado di lenire il dolore, rasserenare gli animi, restituire fiducia. Sogno, peraltro nitidissimo, di tutte le attese riparazioni, e delle connesse riconciliazioni, come fossero in via di avverarsi. Infine, il medio soprattutto. L’eloquenza, nutrita di interi passi scritturali (il sogno stesso è un riferimento biblico), fa degli Stati Uniti la nuova Terra Promessa; così il messaggio aleggia sulla folla con l’autorevolezza di una parola profetica e universalistica, opportunamente ben lontana dall’echeggiare, in quell’America prevenuta, irosi toni giacobini o, peggio, cripto-comunisti: I have a dream that one day every valley shall be exalted, every hill and mountain shall be made low… and the glory of the Lord shall be revealed and all flesh shall see it together. […] we will be able to speed up that day when all of God’s children, black men and white men, Jews and Gentiles, Protestants and Catholics… [Ib., p.226-27] Il religioso fraseggio incornicia l’evento per gli astanti e racchiude i manifestanti nella cornice dell’evento; rassicura il benpensante che segue con apprensione alla televisione la “March on Washington”; sigilla l’immagine, così cara all’oratore, di irrinunciabile dignità: il nero vuol mostrare di esser assolutamente meritevole di quei diritti che rivendica, al razzista più ottuso non resta alcun presentabile appiglio per negarglieli. Ora, la posizione di chi sosteneva ‘lo esigiamo in quanto ce lo meritiamo’ non poteva dirsi invero esente da critiche. Già i movimenti femminili, dopo il primo conflitto mondiale, avevano contestato il riconoscimento dei diritti politici per meriti di guerra, come se i diritti senza quei sacrifici restassero opinabili. Fosse anche sembrata un’accolita di fannulloni o farabutti, l’uguaglianza en droits, come questione di principio, non cambiava. E tuttavia il convinto rigorismo, l’evangelica non-violenza del leader (“Continue to work with the faith that unearned suffering is redemptive” [Ib., p.225]), si rivela in quel momento storico un efficace strumento di convinzione. Infine, l’ornato sermone in cui Abraham Lincoln, la cui immagine giganteggia bianca alle spalle del palco, traspare sia per ciò che vi è detto, sia per l’aulica tensione di come lo si dice, funge dopotutto non più che da colonna sonora di quelle riprese televisive che convinceranno la stampa e l’opinione meglio di qualsiasi discorso ufficiale. Lo scriverà lo stesso King, molto attento alla dimensione mediatica (sono quelli gli anni in cui M.McLuhan pubblica The Gutenberg Galaxy, 1962 e Understanding Media, 1964): The stereotype of the Negro suffered a heavy blow. This was evident in some of the comments, which reflected surprise at the dignity, the organization, and even the wearing apparel and friendly spirit of the participants. If the press had expected something akin to a minstrel show, or a brawl, or a comic display of odd clothes and bad manners, they were disappointed. […] As television beamed the image of this extraordinary gathering across the border oceans, everyone who believed in man’s capacity to better himself had a moment of inspiration and confidence in the future of the human race. And every dedicated American could be proud that a dynamic experience of democracy in the nation’s capital had been made visible to the world. [Ib., pp.227-28] Il supplemento di righe dedicate ai sensi del sogno d M. L. King scalfisce appena la superficie del tema. Quel che solo interessa, per il nostro discorso, è l’evidenza della triradicalità: i sensi, quali che siano, salgono dall’interrelazione delle tre radici, così come da questa discendono le alternative di senso che non cessano di insidiare qualunque dato. Pertanto la discutibilità degli esempi è, ironicamente, prevista dalla teoria; la difficoltà ad esemplificare la mostra più robusta. Con esempio (ex amplo) si intende infatti un elemento (la tromba), descritto il quale anche gli altri dell’insieme a cui quello appartiene (gli strumenti a fiato) risulteranno illustrati relativamente alle caratteristiche per le quali l’insieme è costituito (suoni prodotti dal soffio per cui vibra una colonna d’aria in un tubo). Chi offre l’esempio estrae solo quei caratteri dell’elemento che sono riferibili all’insieme, astraendo da ciò che l’elemento comporta di unico e irripetibile, da ciò che riguarda un sottoinsieme (gli ottoni, i legni) ma non l’insieme, e inoltre da ciò che non è da ritenersi strettamente pertinente all’intensione dell’insieme (il timbro, il costruttore, il costo, il proprietario ecc.). Similmente succede quando da noi stessi ci poniamo di fronte ad un evento con l’intenzione di estrapolarne i caratteri esemplari in ordine a ciò che abbiamo in mente di chiarire o esplorare. Il compito di chi esemplifica può essere banale (un esempio di ritmo) o richiedere precise competenze (una novella delle Mille e una notte non spuria). Talora si offrono o chiedono esempi impossibili perché relativi ad insiemi mal definiti (una tipica famiglia italiana dei giorni nostri). Càpita poi di non essere in grado di distinguere il consueto dall’eccezionale, il determinante dall’irrilevante ecc. Comunque queste difficoltà si risolvono precisando i termini ed accumulando esperienza. Lo stesso non accade quando affrontiamo sia il pre-paradigma sia il darsi originario, perché qui si ha da fare, in entrambi i casi, benché per motivi opposti, con insiemi sconfinati, che includono ogni pensabile. La sola differenza che è dato evidenziare ed esemplificare riguarda il taglio (soggettivo oggettivo mediante nel pre-paradigma, soggettuale oggettuale mediale nel DOT). Per il resto, sia le tre seminalità dell’essere al mondo, sia i vertici SOM del pre-paradigma possono presentarsi sotto le più mentite spoglie e i più stravaganti o allettanti travestimenti. Anzi, per dir bene, siamo noi, dai nostri mondi adibiti, che tendiamo a considerare tali configurazioni ed istanze come menzogne stravaganze allettamenti conquiste dell’intelligenza ecc., secondo l’inclinazione che ci guida. O a non riconoscerle, quando non le scorgiamo affatto o quando le giudichiamo non diverse da ciò che è incluso nella nostra visione del mondo. In particolare, le soggettità o si configurano come estrapolazioni intellettuali (l’uomo è un animale razionale), religiose (siamo figli di Dio), scientifiche (Homo sapiens sapiens è evoluto dalla scimmia) ecc., quindi citazioni di concezioni, che rinviano al contesto culturale che le ha prodotte. Oppure si tratta di quelle soluzioni private che i singoli si costruiscono in risposta alle loro emergenze e che pertanto non sono descrivibili se non in riferimento all’olos singolare della persona che così ha risolto. Essendo visioni particolari, le soggettità sussistono nell’ignoranza o nel diniego; si escludono reciprocamente rifiutando di concedere l’una all’altra lo status di soggetto. Oppure si inseguono controllano catturano fagocitano a vicenda. In ogni caso perché una soggettità s’imponga altre devono cedere (decadere integrarsi confluire subiacere). Per questo da una soggettità non è dato esemplificare per tutte le soggettità, ma solo per quelle ammesse. Equivarrebbe a chiedere un esempio di ‘animale razionale’ a un e.u. che ritiene la razionalità animale esclusiva dell’uomo. Circa la soggettualità (il pro-insieme ŦS), essa non è esemplificabile sia per le motivazioni già accennate (la sua apertura ad ogni sorta di visione, il suo divenire imprevedibile, la sua storicità, anzi cronicità), sia per quanto è ancora da dire circa l’irriducibilità vs-& trasducibilità delle radici dell’essere al mondo, di cui ci occuperemo tra poco. In quanto seminalità originaria la soggettualità può assumere tutte le sembianze, implicare una indeterminabile rete di nessi e quindi l’esemplificare diventa, più che un impoverire, un negare. Infatti se non so cosa sia un cane e qualcuno mi indica un border collie, evidentemente arricchisco il mio concetto di ‘cane’ (potendolo ora contrapporre a ciò che cane non è) di gran lunga più di quanto un border collie non ne restringa l’estensione (non tutti i cani sono bianchi e neri, custodiscono il gregge ecc.). Se al contrario ciò di cui devo fornire esempio è qualcosa di ubiquo e presentario sotto ogni possibile forma e spoglia, qualsiasi esempio restringerà il concetto senza arricchirlo in nessun modo. Ciò spiega sia la mia esitazione a fornire esempi, sia la spontanea ritrosia che chi legge prova ad accogliere quei pochi che adduco. Ma proprio questa impasse è illuminante perché evidenzia come i configuratori o istanziatori (di soggettità oggettità medietà) – pensatori profeti politici ecc. – sono imbrigliatori che vogliono ridurre l’irriducibile, illusi che la ragione o la rivelazione afferrino o addirittura istituiscano la realtà dell’essere al mondo. Le filosofie vanno dunque bene come letteratura, come costrutti euclidei in un ambiente posteuclideo, come simulazioni se… allora…, come minuscoli interi più o meno metaforici. Ma c’è anche spazio per proseguire la ricerca nella direzione mancata dalle varie sofiche: la pro-sofia non vuole configurare niente, cerca solo di aprire un affaccio sul darsi originario. Creare Bloom [↑] Mentre le varie sapienze tendono come sonde al cielo o al soffitto di un paradigma d’elezione, il buon narratore s’abbassa a fiutare il terreno dei proprî e degli altrui vissuti, e ce li vuol raccontare. Questo modo di andar proni, il viso e le mani giù come gli ortolani, a scrutare la varietà del particolare, mal si concilia con la contemplazione ideotica, della quale pertanto il narratore tende a disfarsi o quanto meno a confinarla sullo sfondo per lungo tratto. Se il contemplare sofico procede, come abbiam detto, escludendo, il narrare è votato all’inclusione. Ciò resta vero anche se in entrambi i casi è giocoforza operare delle scelte: il filosofo si trova costretto a contemplare cose di cui potendo farebbe volentieri a meno (p.es., deve salvare i fenomeni); il narratore deve ordire una vicenda, aggiustare ad essa i suoi personaggi (o viceversa) ecc., se non vuole che il suo prodotto mostri un andamento sconclusionato. Benché lo troviamo, in quanto intellettuale, agganciato ai suoi paradigmi, chi sceglie di narrare prova diletto soprattutto nel produrre spaccati di vita, ricreazioni d’ambiente, tipi scene moti storie… questo fa di lui il più diretto coltivatore dell’essere al mondo. Ovviamente l’opposizione narratore/pensatore è qui vista in astratto. All’atto pratico le due figure si trovano di frequente incorniciate l’una nell’altra: l’una ritenendo d’alleviare il filosofare raccontando, l’altra d’ispessire il raccontare filosofando. Tuttavia, per come le loro rispettive specialità sono configurate, quanto più il narratore si avvicina allo scopo eminentemente rappresentativo che gli è congeniale, tanto meno il filosofo riesce a stargli dietro. In Leopardi, caso celebre, l’amaro pensiero non riesce a contrastare quello splendido sentimento della vita che dai suoi canti sprigiona, onde i primi versi (“Dolce e chiara è la notte, e senza vento...”) già bastano a confutare, per così dire, di fatto, quel pessimismo cosmico che i successivi lamentano. Già il De Sanctis: Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. [Schopenhauer e Leopardi, 1858]. Nei più neri anfratti la ginestra fiorisce. In tutti i grandi racconti, dall’Iliade a Moby Dick, dall’Odissea a Ulysses, la raffigurazione si sottrae all’assunto, benché quest’ultimo sia talora scopertamente dichiarato. Non l’idra funesta (la Balena), ma lo spargimento di vita ch’essa si trascina dietro: questo è ciò che fa dell’opera di Melville una lettura straordinaria del reale come immaginario. Spesso il recensore cerca l’assunto, ma nei casi migliori questo è poco più di un pretesto, utile a distrarre il lettore dalla contraddizione di fondo di ogni narrazione: raccontare i casi della vita (piuttosto che disegnare idee) impone un dar senso (dare, più esattamente, un’offerta di sensi) a ciò che potrebbe assumere qualsiasi senso. Ma mentre il pensatore (o il narratore che lo imita) presenta l’idea con l’intenzione, istituendola, di demolire le concorrenti, il narratore assoluto aggancia sì i casi narrati a uno svolgimento, il quale non può mancar d’essere in qualche misura collegato a una visione delle cose, tuttavia, poiché ciò che gli sta a cuore non è che l’opera, ben intesa come riflesso incondizionato dell’essere al mondo, lo scopo che si prefigge è di oltrepassare la sua stessa idea del mondo, adibendola alla funzione primaria del narrare, a quel disegnar ri-creativo che volge lo sguardo simpatetico agli infiniti così com’è dell’esistenza. In breve, dove il filosofo punta a un esito SOMario, il vero narratore attende al DOTale. Il segreto di Joyce, sfuggito a maîtres à penser quali Lacan e Derrida, è tutto qua. Pensare ch’egli abbia voluto far risonare nella sacra nave della letteratura una sorta di inno estetico surdoppiato da cachinno etico è quasi una volgarità. Certo, se si cerca l’assunto, da qualche parte si finirà per trovarlo, benché il Dublinese abbia fatto di tutto per sfuggire alle grinfie ideotiche. In effetti, l’intera opera da Dubliners a Finnegans Wake, costituisce uno studio sulla rappresentabilità del darsi originario. Animato da un’attensione concettuale di vigore e determinazione eccezionali, l’artista si sottrae a tutto quanto odora di ideotico, cercando la raffigurazione, necessariamente analogica, del che è & che non è delle cose da cui origina il cosmicomico intreccio di mondi più o meno ad hoc che si ritrova nel quotidiano. Benché non fossero tali i termini, questo fu di fatto l’obiettivo, forgiare un’opera onninclusiva, nella quale si dessero: un creato d’artista, specola di tutto l’oggettuale; un doppio protagonista, Everyman/Everywoman, marito e moglie, fratello e sorella universali, congiunti di ogni altro essere nell’apertura interrogativo-esclamativa del soggettuale; un linguaggio indecostruibile, caldaio di tutti gli stili, medialità naturalistica e simbolica, pan-metafora di tutto l’esprimibile. Un siffatto obiettivo richiese un austero disciplinamento. Sfuggire agli assunti non è cosa facile – e non dico di quelli che t’appioppano gli altri, ma di quelli che s’appiccicano addosso fin dal grembo materno. Non a caso, il Portrait comincia dai ricordi fisiologici della prima infanzia, all’origine di sensazione e memoria. Imprevedibilmente, la visione tomista dell’ordine del mondo, acquisita alla scuola dei Gesuiti, gli venne in aiuto. Il che è delle cose si replica coerente nell’oggetto, nel soggetto e nel concetto, una coerenza paradigmica di cui l’Essere supremo è il soprannaturale garante. Com’è noto, il giovane James esplicitamente paragona l’artista al Creatore, prima di passare a considerarlo, con maggiore discrezion critica, un Dedalo nel suo labirinto. E non può che andar così, se trascorrendo dal SOMario al DOTale si abolisce l’Essere supremo e lo si sostituisce con l’essere dell’essere al mondo, cioè con la soggettualità naturale. Questa può tendere a stabilire un dato ordine, in tal caso ricade nel soggettivo, auto-alienandosi da quell’essere al mondo in cui solo trova comprensione (e dal di fuori, per non vedersi fuori, deve paradigmizzare, fissando un’oggettità e un mediante). Oppure può convocare sulla scena, senza darne ragione, una folla variegata di ordini possibili, consonanti e dissonanti, scomparendo a sua volta tra gl’infiniti specchi del dedalo. Ora, l’unica vera rappresentazione dell’essere al mondo ce la fornisce l’intero mosaico dei mondi più o meno adibiti che gli ee.uu. producono. La mappatura 1:1 essendo impensabile, il problema è come non cadere nel riduttivo, allorché si vuole al contrario raffigurare l’irriducibile. Strategiche per Joyce erano state le Epiphanies, intese come frammenti dell’ologramma in cui purtuttavia l’intero non è perduto e riappare. Ma l’epifania è troppo esile per garantirsi da sopraffazioni ideotiche – chiunque può approfittarne e spremerle perché manifestino precisamente piuttosto questo che quello, o l’assurdo, o niente del tutto. Si profila perciò la necessità di erigere un intero mimetico dell’Intero. Ma mentre del secondo sappiamo come sia un falso intero, il primo dev’esser vero senz’altro; infatti anche il Disordine, quando è rappresentato, acquisisce senso ordinato dalla forma, dall’intenzione e dall’interpretazione. La questione resterebbe insoluta, se non fosse per la correzione seguente: il che è & che non è propriamente non nega il che è, bensì lo vincola all’essere al mondo inteso come difatto originario. Nel vivere fronteggiamo non un Disordine (o un Ordine) essenziale, ma l’ordinario dis?ordine prodotto dall’interseco delle tre radicalità. In altri termini, le cose né sono assolutamente, né assolutamente non sono, ma ciascuna nella sua vicissitudine è & non è. Per questo esse sono originariamente narrative. Di non trovar cura alcuna nel mondo a cui egli era, paradigmizzato alla maniera degli antichi come Natura, il giovane Leopardi (per tornare a lui) aveva tutte le ragioni. Ma perché lamentarsene col Mondo stesso (“O natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti…?”). Coincidendo esso col tutto in quanto tutto, qualsiasi propensione (cura patrocinio provvidenza) o avversione per una parte di sé, in luogo dell’immediata identità dell’intero, sarebbe innaturale. Se l’acciaio della spada si dolesse o s’esaltasse del suo scintillare corrusco forse che il guerriero potrebbe ascoltarlo? Il poeta di Recanati recentemente è stato restituito alla filosofia. Contemporaneo di Hegel e Schopenhauer, della vastità del reale ir?razionale ha colto un nucleo intensamente vissuto di contraddizioni; ma non ha cercato di fondarci sopra una metafisica né ottimista né pessimista. Non è così che ha voluto spendere e non è qui, a me sembra, il suo genio. “Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell’uomo”, scriverà di lì a poco il giovane Marx nei Manoscritti economico-filosofici. Il poeta cerca tutt’altro, punta alla congiunzione di più felicità: sentirsi vivere in altri e vivere l’altro in sé, attendere al simile e al diverso, farsi carico del senso dell’essere. Ed è proprio in questo modo che anche il Leopardi pensatore, io credo, vuol essere compreso. Su questa molteplice passione di vivere egli non può e non vuole esprimersi dal di fuori, en philosophe, altrimenti produrrebbe giudizi più o meno concludenti. Per adottare una versione del mondo dovrebbe abbandonare l’esistenza. Oppure rilanciare daccapo, meta-letterariamente (alla Gadda, per es., o alla Calvino), la complessa investigazione di quella eterogenea felicitas. Il lamento leopardiano (e poetico in genere) è anzitutto poietico, strumentale alla poïesis. Un fare che mira all’esposizione non-intellettualistica del proprio essere al mondo. In Leopardi, come presso i poeti massimi, avviene una sorta di libera circolazione di visioni che supera l’inquadrare schematizzante e ne libera. Tra io e non-io [↑] Quando non sta, come in Hobbes, per calcolo (cioè mero significato), ragione è il nome comune che riserviamo alle strategie di fuga dalla insostenibile con-fusione triseminale verso il rifugio dei paradigmi d’elezione. Perché mai tanto indaffararsi? Perché rifuggire l’apertura del soggettuale? Consta infatti che alle sue origini onto- e filo-genetiche, prima che intervenga una cultura a svilupparlo & conformarlo, il soggetto sorge molteplice, a partire da un indistinto io/non-io direttamente in presa con il darsi originario. Né può essere diversamente. Invero, nei primi anni di vita di un e.u. si assiste a una straordinaria inflazione della soggettualità, così come della oggettualità e della medialità. L’evoluzione prevede che s’intersechi il movimento dalla singolarità alla pluralità (io mi riconosco anche in te, in questo ambiente; mi ritrovo in questi discorsi) con quello dalla molteplicità all’unità (tu sei o non sei dalla mia parte; questo è mio o suo, fatto per me o per altri, detto come lo o non lo direi io ecc.). Il soggetto si ritrova ben presto spostato e riflesso in una miriade di cose altre, di cui non può far senza se vuol esser se stesso, sebbene disperdendosi in esse rischi di perire. Contro la frammentazione disgregatrice, il dispositivo animale è l’istinto (conservazione sopravvivenza soddisfazione piacere aggressione evitamento fuga ecc.) che protegge la specie e in una certa misura l’individuo; ma per gli ee.uu. le cose si complicano esponenzialmente, perché la potenza della riflessione interviene in più modi a generare un intricato gioco speculativo, di cui la dialettica più raffinata fornisce tutt’al più una rozza mimica, mentre l’intera prodialettica non è neppur pensabile. In particolare la mente deve occuparsi di regimentare le sue stesse manipolazioni. Essa tiene dunque unite nel soggetto le varie figure in cui sempre più ampiamente si riconosce per simiglianza o s’individua per opposizione, prossime o antitetiche al sé (in quanto dialoganti o sorde, cooperanti o inimiche); nel medesimo tempo le mantiene distinte da sé per evitare che s’affollino in una totalità psicotica. Tra gli estremi dell’io e del non-io pullulano insomma innumerevoli meno che io e non del tutto non-io: il soggetto è un S per cui {io > S > non-io} , i due limiti da intendersi quali poli opposti teoretici (soggettivo e oggettivo/medio). Fichte – primo ad assumere la dialettica tra Io e non-Io a fondamento della intera dottrina della scienza e a concepire correttamente quei limiti come trascendentali, cioè come deduzioni (nel significato kantiano) logico-ontologiche e, contestualmente, come induzioni etiche – non si accorge ancora dell’onnipresenza di una terza radicalità altrettanto assoluta (la medialità). Ciononostante, la sua vocazione morale, quel partire dall’io/non-io divisibile, cioè dai contrasti della vita vissuta, avrebbe potuto lanciare una genuina esplorazione del darsi originario, se non fosse intervenuto appunto quel bisogno di trovar sostegno in un’ipostasi trascendentale, ovvero para-trascendente: l’Io fichtiano esibisce, precisamente in quanto assoluto ideale, la più comune forzatura ideotica a danno della soggettualità, quella che la riduce alla soggettità desiderata; mentre col non-Io “altrettanto assoluto” l’Io contrappone a sé stesso un’oggettualità altrettanto distorta a ideotismo. Volere un sistema che comprenda la vita, diventa un volere che la vita sia soprappresa nel sistema. Ma la difficoltà del filosofo che s’addentri nei labirinti del DOT non è certo fittizia. Soggettivo e soggettuale materialmente parrebbero coincidere, la miriade di dati è la stessa. Dov’è dunque, ancora una volta, la differenza? Ci può aiutare una breve annotazione di Franz Kafka che riporto integralmente nell’originale e in due traduzioni: Nach Selbstbeherrschung strebe ich nicht. Selbstbeherrschung heißt: an einer zufälligen Stelle der Unendlichen Ausstrahlungen meiner geistigen Existenz wirken wollen. Muß ich aber solche Kreise um mich ziehen, dann tue ich es besser untätig im bloßen Anstaunen des ungeheurlichen Komplexes uns nehme nur die Stärkung, die e contrario dieser Anblick gibt, mit nach Hause. Non aspiro all’autocontrollo. Autocontrollo significa: voler influire su un punto fortuito nell’infinito irraggiamento della mia esistenza spirituale. Ma se devo tracciare un cerchio del genere attorno a me, allora preferisco farlo passivamente, nella mera, stupefatta contemplazione di quella straordinaria complessità, e mi porto a casa solo il senso di forza che, e contrario, tale spettacolo ispira. [F.Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera vita, XXXI, a c. di S.Mori Carmignani, Passigli Editori, 2001, p.47]. “Non aspiro a dominarmi. Dominarsi significa: voler intervenire in un punto casuale delle infinite irradiazioni della mia esistenza spirituale. Ma se devo tracciare intorno a me tali cerchi, allora lo faccio meglio se non agisco e semplicemente contemplo ammirato l’immane complesso, portandomi via soltanto il rafforzamento che questa visione dà e contrario.” [F.Kafka, Aforismi di Zürau, 31, a c. di R.Calasso, Adelphi, 2004, p.45]. Autocontrollo [Selbstbeherrschung] e irradiazioni [Ausstrahlungen] richiamano percezioni, rispettivamente, della soggettità e della soggettualità. Con l’autocontrollo o signoria di sé – sembra dire Kafka – si stabilisce un punto di forza (o di violenza) esistenziale (una volontà di potenza) da cui agire sul sé e regimentarlo. Questo far forza del sé su di sé, tramontata la belle époque e annebbiatosi lo strenuo ottimismo di cui era stato araldo Nietzsche, non può che risultar casuale [zufällig], dato che un punto vale l’altro: tutti i punti di forza, interscambiabili in quanto auto-generati, finiscono per apparire intrinsecamente sospesi metafisici magrittiani; al tempo stesso il soggetto è costretto a negare il suo essere-a-caso, a prendere posizione, se vuole aggirare l’insensatezza immediata di ciò che è posto senza ragione. Nei termini che qui adopero si tratta insomma di soggettità autoctiche. È perfetto trovare in questo testo l’immagine del cerchio tracciato intorno a sé, che ci ricorda il templum tracciato dall’augure e l’atto contemplativo. Kafka ha colto l’impasse logica della contemplazione, di quel far di sé perno onde prospettare un qualsiasi mondo ad hoc. Se il cerchio intorno a me sono io stesso a tracciarlo, dovunque io mi metta sarò il centro del cerchio. Nella seconda parte il testo cerca un’alternativa a tale impasse, ma è evidente la debolezza del tentativo, dovuta all’assenza in Kafka della soggettualità come difatto originario. Se per ogni attiva determinazione si richiede una costruzione/costrizione meglio allora cedere all’obsoleta meraviglia, la stupefazione muta ad angolo giro, passiva di fronte al tutto interrelato. Il soggetto per non identificarsi con un frammento irrisorio del sé possibile si adagia nell’inazione, nella mera ricezione dell’infinito sé esistenziale, ch’è invece a dir il vero un in?definito. Così facendo il soggetto fa di sé un sublime dinamico auto-tonico, generatore di un “senso di forza” [Stärkung] di cui è fin troppo facile sospettare: perché non è senso di debolezza, o nonsenso affatto? Rafforza il nostro dubbio quel portare “a casa” [nach Hause] che evidentemente vuol recuperare la sicurezza appena perduta nel rinunciare alla signoria di sé. La casa non è forse un eufemismo per l’involucro vuoto? È il guscio dell’insetto. Nonostante questo ritorno, per una sorta di attrazione masochista, alla casa del padre, cioè a quel banale che lo opprimeva, Kafka rivela qui un suo coglimento profondo della diffrazione triradicale. Per confronto osserviamo due aforismi di Nietzsche, in cui è facile individuare una ben più accentuata soggezione alle schematiche SOMarie tradizionali – indipendentemente dal fatto ch’egli le viva, intellettualmente, con un moto di contento [La gaia scienza, 45. Epicuro] o di pena [Ib., 298. Sospiro]. In Epicuro su tutto domina la contentezza della contemplazione gratificante. La radice mediale è ridotta a canale perfettamente chiaro; l’intesa tra la soggettità di Friedrich e quella dell’ (attribuita all’) antico maestro è totale. Epicuro, a sua volta, sta per l’intera “antichità”, e questa soggettità sovrimposta si rovescia d’un tratto in incanto gioioso del mondo, ovvero in un’oggettità ad hoc. Il diaframma ermeneutico è perforato da una consonanza di sensi che vien data per onnicomprensiva attraverso immagini assolute per ampiezza (l’occhio, il sole, il mare, la luce), rinforzate da un’aggettivazione magnificante. Queste rappresentano il tutto soggettivo che si placa senza residui nel tutto oggettivo. L’incerto che è & che non è militante nel mondo cede, come in un tardo discepolo di Pelagio, ad un che è neo-edenico da cui ogni sofferenza fisica e psichica va espunta, mentre le stesse belve giocano tra loro serene. Tutto lo spazio è occupato da un mondo ad hoc che esclude la debolezza di chi pena, il grigiore di chi dubita, il fremito di chi lotta. Ma il DOT non scompare del tutto, ne sopravvive un vago ricordo in quel velo di brivido che intenerisce il mare: 45. Epikur.— Ja, ich bin stolz darauf, den Charakter Epikur's anders zu empfinden, als irgend Jemand vielleicht, und bei Allem, was ich von ihm höre und lese, das Glück des Nachmittags des Alterthums zu geniessen:—ich sehe sein Auge auf ein weites weissliches Meer blicken, über Uferfelsen hin, auf denen die Sonne liegt, während grosses und kleines Gethier in ihrem Lichte spielt, sicher und ruhig wie diess Licht und jenes Auge selber. Solch ein Glück hat nur ein fortwährend Leidender erfinden können, das Glück eines Auges, vor dem das Meer des Daseins stille geworden ist, und das nun an seiner Oberfläche und an dieser bunten, zarten, schaudernden Meeres-Haut sich nicht mehr satt sehen kann: es gab nie zuvor eine solche Bescheidenheit der Wollust. “45. Epicuro. Sì, sono fiero di sentire il carattere di Epicuro diversamente, forse, da chiunque altro, e soprattutto di gustare ciò che ascolto e leggo in lui, la gioia meridiana dell’antichità: vedo il suo occhio che guarda un vasto, albicante mare, oltre gli scogli delle rive sui quali si posa il sole, mentre grandi e piccole fiere giuocano nella sua luce, sicure e placide come questa luce e quell’occhio stesso. Una tale gioia l’ha potuta inventare solo un uomo che non trova pace nel dolore, la gioia d’un occhio davanti al quale il mare dell’esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, abbrividente velo di mare: non era mai esistita – prima di allora – una tale compostezza nella voluttà.” Similmente in Sospiro. Anche se il sentimento dell’autore precipita per un attimo dalla fierezza di sé alla delusione, il quadro paradigmico non muta. Qui il medio – sempre insospettata la medialità seminale – irrita il panurgo perché non si dimostra abbastanza mezzo, ossia strumento adeguato all’afferramento felice, da parte di un io predatore, di un qualcosa che è là da catturare: 298. Seufzer.— Ich erhaschte diese Einsicht unterwegs und nahm rasch die nächsten schlechten Worte, sie festzumachen, damit sie mir nicht wieder davonfliege. Und nun ist sie mir an diesen dürren Worten gestorben und hängt und schlottert in ihnen—und ich weiss kaum mehr, wenn ich sie ansehe, wie ich ein solches Glück haben konnte, als ich diesen Vogel fieng. 298. Sospiro. Colsi a mezz’aria quest’intuizione, e afferrai subito le misere parole che avevo più a portata di mano, per fissarla affinché non mi prendesse di nuovo il volo. Ed ora essa mi è morta in queste aride parole, e ciondola penzoloni da esse: e, quando l’osservo, non so quasi più come fu che potei godere una tale felicità, allorché catturai quest’uccello. Le parole sono colpevoli (aride e misere) perché indegne dell’intuizione, la quale da sé saprebbe unirsi al mondo senza residui, causando con ciò il più liberato dei godimenti. Ma si direbbe trattarsi di una colpa occasionale, una distrazione, tale da suscitare tutt’al più un sospiro. Ulteriorità del Mondo [↑] Quanto s’è detto della diametrale opposizione tra soggettuale e soggettivo vale anche per l’oggettuale e l’oggettivo, il mediale e il mediante. Nei mondi ad hoc si danno solo oggettità congruenti con i presupposti del loro mondo. Ivi è l’oggettivo, ciò che è atteso, ciò che il soggettivo pre-vede di comprendere (o esclude dal comprensibile), il suo paradigmico che è (o che non è). L’aspetto oggettuale, quando è confinato nel cerchio di un qualsiasi paradigma, scade ad oggettivo. In cambio acquista una rispondenza che soddisfa il desiderio, a patto che sembri – entro i confini invisibili del paradigma – esauriente. A questo fine occorre che l’oggettivo, ottenuto bloccando l’in?definita relatività dell’oggettuale, si tramuti in oggetto assoluto, in un che c’è (o che non c’è). La radice oggettuale perde allora la sua più intima natura. Per sussistere l’oggettivo ha da lasciar perdere la sua origine: non è più ciò che ci balza davanti, ciò che si erge sui nostri passi, a partire da una sua insondabile differenza; esso è piuttosto l’atteso: il pre-visto il pre-detto il pre-concetto, ciò a cui si tende, ciò che si pretende. Ma nel mondo a cui l’essere non esistono oggettità, semmai oggettualità – un’in?definita apertura delle cose a presentarsi come oggetti per un soggetto tramite un linguaggio. Nel mondo, ma all’insaputa del Mondo, tutto può esser cosa, ed ogni cosa diviene tale nella triradicalità inevitabile che tutto esprime & opprime. V’è un unico tutto non metafisico, è la totalità potenziale delle cose. Purché queste non siano intese come enti, e neppure come apparenze, ma come emergenze della triradicalità. Quanto alla potenzialità, essa è da intendersi come advenienza: non un astratto poter essere, non un’implicitezza che attende d’esplicitarsi, ma un effettivo sfuggente pullulare al mondo di ora in ora uguale & diverso. Prima delle cose è dato soltanto ciò che dev’esserlo perché anche una sola cosa sia. Quindi un migma tutt’altro che caotico, e tuttavia una sorta di nil (o Mondo) fino a che grazie all’incontro tra le seminalità non sorgano da quel nulla cose a cui l’essere. A causa della precedenza evenemenziale di questo nil rispetto alla triradicalità, il dis-play delle interdipendenze tra le radici appare sghembo. Il nonnulla, o Mondo, infatti, si regge da sé, senza il soccorso di idee o demiurghi, del tutto indifferente al fatto che, sorto dalle sue viscere, vi sia ospite o no chi cerchi in qualche modo di conoscerlo servirsene parlarne. Protagora di Abdera, ideatore del SOMparadigma sofista, insegnava che “tutto ciò che appare agli uomini, anche è; e ciò che non appare a nessun uomo, neppure è”. In tal modo istituiva, primo di tanti, il darsi originario come soggettivo e culturale. Ma il Mondo non contempla: indefinitamente aperto al che è & che non è, esso sconcerta tutte le visioni ed è insostenibile, così com’è, a chi come noi abbisogna di significati e sensi. Le nostre ragioni, trascendenti o immanenti, etichettano il Mondo come significativo o assurdo, spiegabile o misterioso. Il Mondo permette invece, alla pari, innumerevoli modi d’essere al mondo ossia un’infinità di mondi a cui essere, ma non ne ha provvidenza alcuna. Possiamo starne certi: l’aver cura implica dar senso, quindi assumere una soggettità per la quale quel senso possa darsi desiderarsi comprendersi. Sennonché il Mondo (materia/energia/informazione) è estraneo e ignoto, oltre che a qualsiasi paradigma, allo stesso darsi originario: l’essere al mondo non è a sua volta al Mondo, bensì nell’ulteriorità del Mondo, accolto come in muto abisso (no signal, no noise). La triradicalità viene dopo (dopo l’Inizio, se piace postulare un Inizio, o dopo tout court). Nondimeno essa è, per tutto quanto ci riguarda, l’iniziamento di tutto (prima c’è il nonnulla, e non è una contraddizione). Con l’e.u. il vivente sa trarre dalle informazioni significati e sensi (primi e secondi). Ciò non toglie ch’egli sia inquilino di un nil o Mondo che può ben restare ignaro del comunicare degli esseri, dato che, anche in totale assenza di vita, l’informazione, cioè il grado fisico della comunicazione (questa essendo del tutto contingente e convenzionale rispetto a quella), è sempre e comunque efficiente ineccepibile inevitabile. In effetti, vita e Mondo son separati da una quasi totale sordità reciproca: ogni vivente è un dispositivo di sufficienza entro certi limiti. Esso interpreta iperselettivamente quel che lo circonda, interessato solo a quel che lo nutre, minaccia e riproduce: vede alcune frequenze d’onda, ode certe altezze sonore, identifica poche forme ecc. Perché un vivente sia al mondo, basta gli si rivelino pochi dati pertinenti, mentre il resto del flusso d’informazione deve scomparire inosservato. Al vivente basta non più che un’usta, quella che serve alla sopravvivenza della specie. Anche l’essere al mondo degli umani è un essere al proprio mondo. Ma circa cento o più mila anni fa (per quel che ne sappiamo e in dipendenza di numerosi fattori la cui effettiva sinergia possiamo solo vagamente ipotizzare) gli ee.uu. accelerarono l’esplorazione dell’oggetto. Somiglianze continuità contiguità, luoghi beni strumenti, usi relazioni appartenenze… con le tecnologie esplorative, quindi la manipolazione e il linguaggio prima di tutto, e successivamente con la domesticazione l’agricoltura la metallurgia, la guerra, la divisione minuta del lavoro e l’economia di scambio, le leggi i contratti i trattati, le scritture sacre e profane, e molto dopo con le innumerevoli macchine e i vari mezzi di comunicazione elaborazione trasmissione, l’umanità ha oltrepassato il confine del suo ambiente d’origine. Risultato, una smisurata inflazione del suo cosmo con gl’infiniti suoi mondi. Invaghiti da una tale abbondanza, alcuni tra gli ee.uu. hanno creduto e fatto credere che, per l’essere, il Mondo fosse penetrabile nella totalità del suo significato, laddove per un essere al mondo il Mondo è il nulla-tutto del tutto impervio, quel che è pervio essendo triseminale o, in seguito a riduzione ideotica, SOMario. Di conseguenza l’e.u., microcosmo (o macrocefalo) autoctico, è davvero Dedalo/Minotauro nel suo labirinto, Bloom nella sua Dublino, sovranimale abitante un suo ipo-uranio, piccolo grande uomo estenuato dal flusso di intenzionabili che fuoriesce dalle sue mani, dalla sua bocca, dalla sua testa, in sé sprovvisti eppur sovraccaricabili di senso. In particolare, quel sapere-fare che si dice meramente tecnico, di limpidi significati, dove ogni bullone ha il suo dado e ogni vite la sua sede, è scevro di quella sensatezza che l’ermeneutica naturale pone ogni momento per il momento, cogliendola nella sua costitutiva in?definitezza. I sensi primi dunque o si danno da sé come riflesso del nudo bisogno fisiologico (questo mio dormire trova il suo senso primo in questa mia stanchezza di stasera) o s’aggiungono al di fuori del momento, non offrendosi più spontaneamente in quell’al di qua vitale compromesso dall’irrompere nelle culture d’una profusione di artifici, ciascuno dei quali apre le porte ad un’altra infinità di sensi. Separando l’essere dall’immediatezza del suo mondo, l’artificio (cose fatti parole) produce l’artefice e, in lui e per lui, genera altresì la diffrazione senso/significato. Onde la proliferazione di simboli e miti, interpretazioni e metodi tendenti a confinare l’oggetto in una figura e a ragionarlo. Così immediatamente l’oggetto, da quell’incognito che era un attimo prima, diventa d’un tratto locus, luogo retorico, cioè l’esatto opposto: era ciò che s’oppone ed è divenuto ciò che è posto. Può sublimare a piacimento dando adito a qualsiasi altra soggettità, oggettità e medietà, confondendole all’atto stesso. Come senza il soggettuale può darsi ogni oggettità, per quel che vale, così senza l’oggettuale può darsi ogni soggettità ideale. Sensati costrutti [↑] L’oggetto scivola via proprio perché, per quanto ci sembri sotto mano, disponibile ai nostri costumi consumi usi, resta libero di andarsene per suo conto, rioggettivarsi senza badare a quel che decidiamo sia o vorremmo fosse. Ciascuno ha da raccontare casi tragici o comici di fuga e rincorsa dell’oggetto. Da giovane, post-sessantottino della primissima ora, tra liceo e università, per qualche tempo lavorai in un’officina, la S.L.O. di Casalecchio di Reno (BO), che produceva semilavorati ortopedici – gambe busti gorgiere tutori plantari ecc. Mi assegnavano incombenze da magazziniere fattorino portiere e via, ma il libretto di lavoro diceva “apprendista aggiustatore meccanico”, cosa che m’inorgogliva per quel sapore di sale proletario che ne suggevo. Non contento, mi recai all’Anagrafe allo scopo di far sostituire sui documenti alla dicitura “studente” la dicitura “operaio”. L’ufficiale di stato civile volle vedermi. Mi spiegò che la cancellazione dal rango di studente poteva anche non rivelarsi un vantaggio. Fui irremovibile. Che l’istituzione ignorasse la mia scelta di campo e continuasse ad allinearmi nei ranghi parassiti dei figli di papà mi riusciva insopportabile. Quando lasciai l’ufficio con il mio nuovo certificato di residenza da “operaio” mi sentii per un attimo a posto, integro. Tutto quadrava: l’immagine ideale di me stesso si specchiava nella scheda burocratica. Avevo obbligato lo Stato dei padroni a riconoscermi come loro antagonista. Santa soddisfazione! Tre o quattr’anni passarono, durante i quali divenni di fatto studente-operaio e poi di nuovo studente e basta. L’immagine che di me stesso avevo nutrita si sfrangiò e ne maturò una nuova che era probabilmente più completa ma anche, come si diceva allora con sprezzo, più integrata. A quel punto mi ritrovai neo-laureato nello stesso ufficio di stato civile a richiedere vari certificati, onde iscrivermi nelle locali graduatorie per aspiranti ad incarichi e supplenze nella scuola. E in ciascuno di essi campeggiava beffarda la dicitura “operaio”, oggettiva quanto una tuta blu. In base a questa nota anagrafica ci fu chi fece ricorso, argomentando non senza un’apparenza di logica che se ero effettivamente un operaio non potevo, per via di norme locali che sarebbe qui lungo dire, neppure essere iscritto in quella lista, men che meno risultare primo. Col mio ingenuo contributo l’istituzione mi aveva intrappolato di nuovo. Dovetti allora convincere il burocrate – il quale mi ascoltava incolpevole – che quella modifica da “studente” a “operaio”, da me stesso tempo prima richiesta in quanto oggettivamente rappresentativa dello stato di cose reale, non era da considerarsi altro, guardando indietro, che una parentesi, un momentaneo vagheggiar soggettivo, per l’esigenza di far corrispondere i significati sui documenti anagrafici al senso di me così come di stagione in stagione venivo vivendolo. In fin dei conti che diritto aveva l’anagrafe d’interporsi fra me e il senso della vita? A cui l’ufficiale poteva replicare: Che pretesa è questa di intromettersi retrospettivamente tra i significati pubblici e le parole che legalmente li gestiscono? Ma non lo fece. Non invocò l’oggettità del diritto, né il diritto all’oggettità. Inaspettatamente mi capì. Cosicché il ricorso non fu accolto. Visto che il mio io ideale aveva inteso oggettivare il soggettivo, l’Ufficio accettò benignamente, una volta tanto, di soggettivare l’oggettivo. Di quest’ultimo s’impara dunque pian piano che può anch’egli darsi diverso a suo piacere. Che aspetto avrà domani? Qualunque, dal medesimo al tutt’altro. E per questo tutti li marca, i momenti di vita, col suo previsto o imprevisto persistere o mutare. Le radicalità originarie, con la loro totale apertura ad ogni soluzione, minano la stabilità di qualsivoglia ad hoc: non appena la contemplazione, onde conseguire il suo disegno, fissa i suoi che è, la datità, dal seno della quale tali riduzioni ad hoc hanno necessariamente origine, ne mostra innumerevoli altre, nella cui massa le prescelte perdono quel peso che pretendevano assumere. Ma se un bisogno di ideazione comunque ci sospinge, un facile rimedio lo troveremo in quella rispondenza al bisogno che sa circoscrivere e chiudere su se stesso l’orizzonte della domanda, così che il paradigma preferito risulti altresì il solo ammissibile o l’unico di fatto ammesso. Questa classica soluzione tuttavia non può funzionare quando lo scenario ideologico si presenta, come nella post-modernità, frammentario e l’esistere pare costantemente trafitto da urgenze contrastanti. Come rispondere, quando contrapposte esigenze non trovano in un qualsiasi paradigma una soddisfazione unica? Il rimedio, in questi casi, ha preso talora il nome di libertà. Invece che a partire dall’essere ontologico, il paradigma fissa la sua rispondenza a partire dall’essere esistenziale. Quel che conta è asserire con vigore che in ciò sta appunto l’eroico (o assurdo) destino dell’e.u., nell’affermare qualcosa che solo in lui e per lui si dà, nello scegliersi un’intelligenza del mondo come suo destino proprio. Questa negazione dell’essere al mondo al fine di accontentare una certa idea dell’essere – cosa che la manipolazione discrezionale delle tre polarità SOMarie facilmente consente – è interpretata come libertà soprattutto dall’io moderno (dall’io antico tendenzialmente come licenza). Pro-logicamente una tale libertà è incontestabile, l’e.u. costruisce tutti i sensi che vuole. Ma, mentre il DOT è indifferente all’essere esistenziale, quest’ultimo s’illude di poterlo addomesticare ai suoi scopi. Due individui si guardano. Entrambi possono costruire il loro vissuto come un guardare l’altro o un guardarsi reciproco; un guardar qualcosa o un sentirsi cosa guardata da altri; un comunicare quale che sia: tre in?definità investono nello stesso momento di vita i due chi, i due che e quel che passa tra i due chi e che. Queste tre infinità potenziali rapportandosi danno luogo all’in?finità reale delle combinazioni uniche di senso su cui l’essere al mondo può soffermarsi. Pro-logicamente, un costrutto di sensi vale solo per quell’attimo di tempo vitale che lo separa dal costrutto successivo. In una schematica invece si esigono determinazioni (ad es., lo sguardo per Sartre è un fallimentare tentativo d’ekstasis). La libertà DOTale si manifesta nella ir?resoluzione, nella disposizione a risolvere il che è di momento in momento, al fine di mantenere un’apertura incondizionata a tutti i sensati costrutti trirelativi, onde indursi a superare ogni pre-convinzione SOMaria, pur nella consapevolezza che nel singolo momento di vita un costrutto prevarrà. Nel pro-logico la libertà è, per così dire, un aspetto tecnico: se di momento in momento l’essere al mondo ci consente tutti i sensi che vogliamo, ciò che possiamo chiamare libertà, è vero anche l’inverso, ossia che ogni senso attende il suo essere al mondo per sollevarsi dal magma di tutte le sensatezze possibili. Questo doppio legame tra senso e vita si applica anche al senso di libertà, del quale solo la vita ci permette di misurare di volta in volta il vero spessore. Invece, la libertà in nome della quale si sente agonista l’io moderno non è pro-logica, bensì etica, basata sulla presupposta preminenza del soggetto. Col tempo questa libertà si è rivelata anch’essa ideotica, una contemplazione localmente soddisfacente della libertà pro-logica, ma non senza prima aver causato disastri. Se una competenza prosofica pazientemente appresa non ci assiste nell’indeterminata vastità delle prospettive che il vivere apre all’essere, la libertà diventa anch’essa un fardello ideotico, così come può diventarlo la felicità. Come una certa idea di libertà comporta insieme la riduzione della soggettualità in determinate soggettità (in Bruno, ad es., l’uomo eroico-furente), dell’oggettualità in certe oggettità (la santa asinità cristiana e, contrapposta, l’antica sapienza egizia) e del mediale in certi medianti (la corrispondenza micro-macro cosmica tipica del naturalismo neoplatonico, o l’antichità pagana come universo di metafore), tutte pre-stabilite a comporre il paradigma di elezione, così si può dire di ogni altro costrutto. Un caporeparto può riferirsi ai suoi dipendenti pensandoli come: i miei sottoposti; la squadra; i miei uomini; quei ragazzi; Pietro, Giovanni, Giacomo… Certo, siamo schematicamente propensi a ritenerlo più bonario o meno boss, quando usa i nomi propri e più autoritario o meno solidale quando dice “la squadra”. Ma chi può dire a quale senso si presterà, nella verità dell’evento, l’una o l’altra dicitura? Un paradigma può servirsi di tutti gli strumenti retoideotici che vuole per imporre il suo schema riduttivo; altrettanto bene un concetto può farsi strada con tutti i mezzi, incluso, se si dà il caso, il più riduttivo degli strumenti. Ad es., riprendere in mano Minima moralia nel 2009 snerva, spiace dirlo, nonostante l’effusione dialettica di Adorno, per quella coazione a ripetere una manciata di categorie presunte reali (non quindi pro-categorie) come alienazione borghesia classe conformismo consumo coscienza massa negativo reazione reificazione ecc.; nel 1969 però le sue lezioni post-belliche scompigliavano ben bene la chioma a noi ingenui capelloni. Ora si apprezzano piuttosto numeri come il 51, che offre auree regole di prudenza a chiunque scriva; ma se tornando indietro risalissimo all’origine di tante mormorate simpatie per le BR ci troveremmo più spesso, io credo, a Francoforte che non a Mosca o a Pechino. Anche solo avviare l’analisi comparativa tra vissuti polari e vissuti seminali risulta, voglio dire, oltremodo arduo. La differenza che forse più s’impone è l’indecidibilità dei ruoli seminali nel DOT versus la precisazione dei ruoli assiali nelle schematiche SOMarie, cosa quest’ultima che ci ha condotti al concetto di pre-paradigma. Quando Galilei imposta il suo metodo liberatorio sulle “sensate esperienze” e “necessarie dimostrazioni”, il quadro paradigmico che egli pre-suppone è dei più assializzati: assegna il soggettivo a Dio e all’uomo; l’oggettivo naturale alla creazione, l’oggettivo morale alla volontà divina; il mediante naturale al gran libro del mondo, su cui la divina Sapienza ha impresso le leggi di governo e che l’uomo scruta servendosi appunto di un metodo fatto di esperienze e dimostrazioni; il mediante morale alla Bibbia, parola di Dio imperscrutabile alla scienza, e al magistero ecclesiastico. La soggettità divina è superiore, creatrice; la umana inferiore, creata; perciò in ogni caso l’appreso (l’osservazione della natura ricondotta a legge di natura) abita l’incomprensibile. L’uomo può apprendere le dimensioni del cosmo, ma non comprenderle. La celebre liberazione dal perché aristotelico, su cui s’innalza la scienza moderna, richiese come contropartita un irrigidimento della razionalità SOMaria – fino all’opposizione, negli stessi anni, tra le cartesiane sostanze pensante e estesa, a cui s’aggiunse la riformalizzazione rigorosa del mezzo (la méthode pour bien conduire sa raison, la geometria analitica, l’esprit de système in genere). I sensati costrutti pro-logici, invece, si oppongono ad una rigida assegnazione di funzioni, dato che nel vissuto le sensatezze, sempre aleatorie, sono da ricomprendere e talora rinegoziare istante dopo istante. Tra i significati galileiani (il “munito di senso” wittgensteiniano), definibile accertabile falsificabile, e i sensi eventuali di cui ci occupiamo qui si estendono le dune su cui si muovono tutte le razionalità, irreparabilmente relative. Oggettivo/oggettuale [↑] Al punto in cui siamo, il prospetto delle relazioni seminali, il più generale che sia dato concepire senza ricorrere a elementi ideotici pre-stabiliti, il corredo minimo indispensabile perché si dia un evento, mi pare delinearsi come segue. Il soggettuale è il proprio dell’essere [al mondo]. E lo è su tre piani intersecantisi: 1.{SS} lo è per se stesso, in quanto apparato psichico immediato (io) o mediato (tu lui lei noi voi loro); 2.{SO} lo è verso l’oggetto che fenomenizza (le mie scarpe [quelle scarpe in quanto son mie], la sua andatura [quell’andatura in quanto è tipica sua]) e da cui è fenomenizzato (come mi stanno questi occhiali?); 3.{SM} lo è tramite l’eterogeneo strumentario comunicativo (“Ben detto!”, “Non mi sono espresso bene”) . Corrispondentemente, il mediale è il proprio dell’[essere] al [mondo], ossia dell’entrare in rapporto, nelle tre dimensioni: 1.{MM} della struttura del messaggio (il medio in relazione a se stesso), 2.{MS} dell’intendimento (il medio per una mente, emittente o ricevente), 3. {MO} dell’interpretazione (il medio come risultato di fatto, come nesso oggettivo tra atti semiotici e altri stati o accadimenti). Allo stesso modo l’oggettuale, nell’essere al mondo, è il proprio del mondo, e lo è secondo tre prospettive: 1.{OO} lo è assolutamente (la neve scende, s’accumula ecc.); 2.{OS} può esserlo in relazione a un vivente (la neve imbianca nasconde riduce la mobilità ecc.); 3.{OM} può esserlo simbolicamente, secondo un qualsiasi comprendimento intenzionale (la neve è nordica, natalizia e via dicendo). Pertanto, quando dico anche soltanto “Nevica!”, muovo contemporaneamente fino a nove pezzi su una scacchiera illimitata. Se non sono pattuite restrizioni, la configurazione risultante è praticamente impossibile a prevedersi. Gli stessi patti restrittivi non è detto che, giunto il momento, siano di fatto rispettati. Il comune intendersi si regge su una quantità di presupposizioni di intesa, regole di convenienza reciproca che tendono a ridurre il più possibile l’indeterminazione, benché questa sia costitutiva, ineliminabile e, entro certi limiti, anch’essi da decidere, irrinunciabile. Occupiamoci ora in particolare della radice oggettuale. Lo psichico è preceduto dal fisico, da cui è sorto (lo psichico è un aspetto evolutivo-contingente dell’organico, che lo è del fisico, cioè del nonnulla o Mondo); psichico e logico-linguistico sono invece evoluti insieme e in questo crescere hanno generato i mondi [a cui l’essere]. Per quella sua antegenitura, l’oggettuale assoluto {OO} pare a portata di mano. Per afferrarlo basta bloccare le altre due indeterminazioni originarie, la soggettualità e la medialità. Se ne ottiene subito qualcosa di oggettivo. Ciò accade nel comportamento comune così come nella scienza ingenua. ‘FRAGILE’, stampato su un pacco, o ancor meglio l’emblema della fragilità, il calice. Ossia, [il mondo è tale per cui facilmente quel ch’è qui dentro si rompe come fosse] un calice [se, non badando a questo avviso, non ci vai piano]. Grazie all’icona convenzionale l’incerto comunicativo è ridotto all’osso e così pure la valutazione soggettiva, nella speranza che l’intesa si crei, la raccomandazione ottenga di fatto il suo scopo e il contenuto sia recapitato intatto. Celebri progetti poggiano su queste stesse premesse: l’Organon aristotelico, l’analitica cartesiana e il meccanicismo, la ragione politica come calcolo nel De cive di Hobbes, la Characteristica universalis di Leibniz, l’Ideographia di Frege e l’atomismo logico di Russell, il formalismo metamatematico di Hilbert ecc. Ma lo stesso si applica allo scetticismo dogmatico, dove la riduzione all’assoluto oggettuale (per esempio nella formula ingannevolmente rovesciata del che nulla è gorgiano) è pagata dalla soppressione delle neutre in?certezze soggettuale e mediale, in luogo delle quali vengono proclamate – fondate su una dialettica posticcia – le certezze del nulla è dato sapere e del nulla è dato comunicare. Cosicché si può ben dire che il neutro in?certo comunicativo sia in tal modo paradossalmente ridotto al suo massimo. Più in generale, tutti gli assoluti, comunque congegnati, sono necessariamente tripolari, quindi a rigore relativi; ma per sembrare assoluti devono camuffare quella relatività sottendendo un ordine gerarchico. Anche le prospettive dell’oggettuale (assoluta/relazionale/simbolica, vedi sopra) pre-stabiliscono una configurazione, un ordine relativo, là dove nel vivere è solo promiscuità e interferenza seminale. Si consideri la seguente descrizione che vorrebbe essere oggettiva: D1. Una pesante nevicata autunnale spezza i rami ancora densi di fogliame e abbatte quegli alberi che l’edera ha già quasi soffocato o i rodilegno hanno leso alla base. Se la assumiamo come indicazione di accadimenti del mondo (sebbene necessariamente approssimativa e riferita in un linguaggio convenuto) essa contiene rispetto allo scopo evidenti eccedenze e carenze. Da ogni termine della frase occorrerebbe anzitutto espungere (e assicurarsi che il ricevente espunga) le connotazioni in odor di soggetto. Il fogliame non sarà detto “denso” perché qualcuno tale lo percepisce, ma perché ha in effetti trattenuto sui rami uno spesso strato di neve. A sua volta lo strato di neve è “alto” non per l’impressione di un osservatore, ma perché in autunno in questi luoghi raramente ne cade tanta. Semplicemente, se rami vivi sono stati rotti, il fogliame era fitto e la neve tanta da spezzarli. Dunque un evento significabile: qualcosa ha meccanicamente premuto su qualcos’altro fino a romperlo. Saremmo così approdati al sussistere di stati di cose. Ma è davvero possibile bloccare la soggettualità e la medialità fino a isolare completamente l’oggettualità? Invero ogni singolo ramo o giunco spezzato è già un multi-evento, risultato di un complesso gioco di forze resistenze tensioni torsioni lesioni pregresse (senza contare le aggravanti di altra origine come i parassiti e la natura del suolo, o la sua fertilità che ha permesso ad esemplari diversi della stessa specie di crescere qui più robusti là più fragili) che solo grazie a una sintesi SOM del tutto estranea a quegli stati di cose può apparentemente oggettivarsi. V’è poi accanto al poco che la frase esplicita tutto ciò ch’essa implicita perché quell’esplicito possa reggersi. E dovrebbe entrare in conto anche il vento che non soffiò quella notte e non scrollò la neve dai rami lasciandola accumulare (non è forse parte dell’oggettivo assoluto anche il mancare fortuito?). Intanto, per guadagnare il presunto oggetto immediato, è messo in disparte il guasto ingente al patrimonio boschivo, benché nella notizia, se la prendiamo come tale, sia questo ciò che più è implicato e più implica. Ma appunto l’oggetto immediato non ne sembra in alcun modo partecipe; esso non fa notizia. Perché vi sia interesse si richiede un S che veda in una certa sintesi di eventi un meta-evento, sensato in ordine a un intento etico economico estetico conoscitivo affettivo, insomma orientato a uno scopo o valore qualsiasi. Mille anni fa una strage di alberi nei boschi della pars dominica sarebbe parsa una benedizione del cielo ai servi cui era concessa la raccolta di parte della legna a terra. L’oggetto a sé somiglia dunque un po’ troppo alla pietra filosofale. Chi lo cerca ingenuamente resta beffato. L’esempio D1, si potrebbe pensare, è difettoso: esso fornisce indicazioni troppo generiche circa la congerie di accadimenti a cui allude perché sia consentito grazie ad esse espungere ogni riferimento al soggetto e al medio onde toccare col dito l’oggetto. Ma riflettiamo, se avessimo aggiunto precisazioni e addirittura quantificato micrometricamente ogni più minuto accadimento, cosa avremmo ottenuto? Ogni aggiunta, ogni silloge di dati si porterebbe appresso, esposta o nascosta, la sua configurazione SOM/DOT che andrebbe ad aggiungersi a quelle già presenti amplificando esponenzialmente la discordanza dei sensi possibili. Oppure – ed è ciò di cui la scienza s’incarica – tutte le indicazioni verrebbero pre-uniformate come carte dello stesso mazzo, sovrapponibili in quanto condividerebbero fin dall’origine il mediante (il linguaggio scientifico) e la soggettità (l’approccio scientifico, quale che sia: positivista neo-positivista convenzionalista pragmatista congetturalista e via dicendo). Il che conferma il nostro assunto: l’oggetto cessa di sottrarsi solo se S e M sono polarizzati. Non appena S e M riaffiorano liberi (un diverso concetto di scientificità, un nuovo linguaggio ecc.), O riprende il suo gioco. Di D1 altri potrebbe pensare, all’opposto, che fornisca troppo numerose indicazioni; che separandole e trattandole come fossero l’una ignota all’altra si guadagni una sorta di essenzialità. Ma rinunciare alla quasi totalità di D1 mantenendo soltanto, che so, “una pesante nevicata” non comporta raggiungere l’oggettivo, anzi più si toglie più si va verso il triseminale. Con solo “una pesante nevicata” davvero non sappiamo neppure più se trattasi di impressione, espressione o accaduto. A meno che la cosa non scorra via come meramente significativa, pre-ordinata a un senso ulteriore. Rispetto al significato il senso è sempre ulteriore. Col confondere senso e significato, allo scopo di ridurre alla ragione le radicalità, si accantona la vita. Questa ha tanto più spazio per esibirsi, quanto più senso e significato restano antagonisti. Ciò non impedisce che, nel momento di vita, proprio perché in tutto e per tutto liberi (il significato di rappresentare il suo che è (o che non è), il senso di rifarsi al che è & che non è), i due si trovino apparentemente a combaciare. In realtà, perché il significato risulti del tutto rispondente, sono da sospendere le fluttuazioni dovute alle interferenze del medio e del soggetto, e sperare inoltre che dall’oggetto non vengano sorprese: solo così esso è fermo, afferrabile, benché fuori del tempo, soppressa la durée bergsoniana. Per ottenere un significato è d’obbligo uscire dalla vita, rifugiarsi nell’inattuale, in un’oggettività convenzionale; ma se lo si scorpora dal mondo dei sensi primi o secondi, il significato non possiede in sé alcun valore. D’altra parte, senza significati non ci resta appunto che il più volatile prodotto del vivere stesso, il senso del momento. Il quale nella sua integrità ci è del tutto ignoto dato che l’integrità del senso è un’utopia del giudizio. In pro-logica dunque non interessano, separatamente, né i significati (⊇ : treno) poiché sono posti, convenuti; né i sensi primi (questa pipa per me ora) in quanto evanescenti; né i sensi secondi (la Cina oggi per gli Europei) in quanto incontornabili. Quando presentiamo un’oggettità (un masso un’edera un ragazzino), noi confiniamo l’[essere al] mondo ad apparire (a passare per) quella cosa nella quale l’oggettualità momentaneamente ci si manifesta e al tempo stesso come radice seminale si annulla: se ci serve malta è inevitabile che acqua sabbia cemento spariscano nel miscuglio. Oppostamente, se intendiamo cogliere l’oggettualità radicale, ossia il mondo come trascendentale dell’essere al mondo, siamo costretti, paradossalmente, a rinunciare a qualsivoglia rappresentazione ed impiego di essa. Pertanto, se nel vissuto cogliamo l’oggettuale tutt’al più come presenza incontornabile, per via della triseminalità in cui solamente di fatto esso sussiste, soltanto nel concetto ne possiamo distinguere, momentaneamente separati, i due aspetti immancabili: il relativo (mai si dà oggettualità a sé, senza un in che termini e un per chi, da cui la sterminata produzione di oggettità) e l’assoluto (nulla è fuori dell’oggettualità). Così preparata, la fissazione momentanea dell’oggettuale assoluto conduce all’appercezione non di precise oggettità a se stanti, ma di quel quid objectum di cui espressioni e pensieri, in qualsiasi modo siano intesi, non possono esser privi. Messo nel conto quanto sopra, si può aggiungere, mi pare, che nel proprio dell’oggettuale sia comunque da includere anche il rispecchiamento di come va il mondo secondo esperienza. Non tutti gli {OO}sono equipossibili. P.es., se leggiamo da qualche parte, anche fuori contesto, questa frase: “Ai tropici il ragazzino prese colore” concediamo subito ad essa una possibilità di senso (bona fide, a prescindere da quale senso) perché l’esperienza ce ne conferma almeno un significato. Se trovassimo invece “Ai tropici il ragazzino perse colore”, non concederemmo senso per patente incongruenza tra quanto l’esperienza concede e quel che le parole significano. Qui non interessa quali contenuti peregrini o lapsus potremmo congetturare per salvare l’espressione, se non al fine di ribadire che col salvarla si viene a ricomporre, in qualche modo, l’accordo tra esperienza (la nostra personale casistica dell’[essere al] mondo) e l’[essere al] mondo trans-empirico, ritrovando un fondamento anche oggettuale alla cosa, fosse pur solo nel gioco di parole o nel famoso errore del proto. Peraltro, l’oggettuale incombe non solo sui termini, esso scrutina ogni più minuta struttura. Consideriamo: D2. Un masso si sgretola in sassi minuti che restano sul posto formando col tempo un mucchio sempre più disunito. Se trovassimo scritto Un masso sgretola sassi minuti…, una dissonanza sintattica rintoccherebbe (o suonerebbe poetico), poiché non ammetteremmo senza disagio (o straniamento) che una struttura attiva, la quale assegna al soggetto grammaticale un’intenzione o almeno un’effettualità di qualche tipo (come in Gutta cavat lapidem), fosse applicata al masso che l’esperienza del mondo ci mostra nel suo frammentarsi del tutto inefficiente (non frammenta attivamente se stesso). Si sa che senza almeno un essere [al mondo] non ci sarebbero massi, solo azioni e reazioni, torsioni e ripercussioni entro un’indistinta frattalità. L’oggettuale comprende quindi l’insieme universale (trans-empirico) delle attese di rispondenza tra esperienza e mondo? Si può forse dir così, purché non si dimentichi che l’empirico non coincide con la sua rappresentazione. Precisamente, infatti, non è mai l’esperienza, ma la sua immagine (più o meno icastica iconica formale eidetica linguistica matematica ideotica concettuale) a fungere da paragone per ciò che ci attendiamo di trovare nel mondo. Se girando l’angolo un raggio di sole improvvisamente ci abbaglia, ecco che il nostro principale veicolo d’informazione (la luce) ci colpisce per quel che è, fascio di percepibili. Nondimeno, non potremo farne esperienza altrimenti che rappresentandoci quel che ci è successo, cioè disimmediatizzando l’informazione proveniente dal mondo, e mettendola in circolo con l’essere e l’al. L’oggettuale pare quindi uno strano sostrato – esso sottostà al materiale e al formale, al rappresentativo e all’esistenziale, all’empirico e all’ideale. Non solo, ma esso preme anche le altre due seminalità: nessuna medialità sarebbe possibile senza quegli appoggi oggettuali che pur la vincolano (il messaggio è anzitutto cosa). E la soggettualità privata dell’oggetto a che s’aggrapperebbe? Gli angeli stessi hanno bisogno di spilli su cui sedersi. Il fatto è che questa stessa descrizione, opportunamente differenziata, vale anche per le altre due seminalità. Se ci si dimentica della correlazione triseminale diventa facile paradigmizzare, costruire visioni del mondo, risolvere e consolare; se invece la si mantiene bene in vista (è questo l’intento prosofico) ci si obbliga a configurare una meta-visione che virtualmente ospiti tutti gli essere al mondo possibili, nella certezza poco incoraggiante che, quand’anche si riuscisse nell’intento, tale meta-visione, il suo risolvere spiegare comprendere gratificare e consolare, non potrebbero mai essere tali quali gli ee.uu. hanno sempre desiderato. Un’ultima annotazione. Se l’oggettualità assoluta coincidesse con la cosalità fisica, alla maniera del mondo I di Eccles e Popper [L’io e il suo cervello, 1977], non dovremmo concedere alcuna differenza nei tre casi della neve, del ragazzino e del masso, quando fossimo giunti a sospendere ogni riferimento alla sfera del medio (com’è espressa trasmessa recepita la cosa) e del soggetto (com’è considerata valutata sentita): il masso i rami il ragazzino avrebbero subìto l’azione di certe forze (intemperie neve raggi solari) e ciò avrebbe prodotto modificazioni in certi stati di cose: lo sgretolarsi del masso, il rompersi del ramo, lo scurirsi della pelle… tutto qua. O no? Ripetiamo: da un lato è facile concludere che l’oggettuale assoluto sia contraddittorio e da espungere, infatti l’oggetto si dà solo per un soggetto. Il masso che si sgretola, così come qui lo dico e lo penso, in natura non esiste. L’oggetto disimmediatizzato così e così per questo soggetto e tramite questo medio sarà solo uno degli infiniti possibili modi di apparire della cosa. Cosa sia questa cosa non è determinabile per certo (è un che è & che non è). Eppure di sicuro, qualsiasi cosa sia, non mancherà di un’oggettualità assolutamente sua (supponiamo, lo sgretolarsi, o qualcos’altro che ha determinato l’apparenza dello sgretolarsi). L’in?determinazione radicale colloca il dato di fatto, come dire, al crocicchio di tre fenomenologie: quella sollecitata dal soggetto, quella che il medio traduce, e quella proveniente dall’oggettualità trascendentale dentro cui è allocato ciò a cui alludiamo col nome di masso. Sembra bastare e avanzarne per consigliare il più radicale scetticismo; ma contro la posizione scettica si rileva che sospendere il medio e il soggetto culturali (quelli che fanno di ogni essere umano un essere [al mondo] al tempo stesso singolare e plurale) significa pur sempre, soltanto, togliere non la vita e gli eventi vitali, ma il saperne più o meno contentante e il riferirne più o meno efficacemente, per cui l’oggettuale assoluto (pur in quella sua immediatezza indistinta) ne è anzi confermato. Se, come il neonato, ignorassimo la funzione del battito cardiaco, nondimeno ogni attimo della nostra vita dipenderebbe da quel pulsare. Il realista, da una posizione solo in astratto opposta a quella scettica, sostiene invece che “il masso si sgretola” non è che una verbalizzazione sintetica di microaccadimenti, non meno reali per il fatto di esser colti macroscopicamente e in un linguaggio non formalizzato. Quindi avremmo sottomano, separatamente, anzitutto il mondo I (fisico), su cui poggerebbero i mondi II (psichico) e III (socioculturale). Ma, sebbene nel che è & che non è pullulino accadimenti, non v’è accadere che possegga in sé significato o senso: significati e sensi non dipendono da ciò che accade così come non le cose a cui diamo senso per ciò stesso accadono. L’accadere non è che un aspetto dell’oggettuale. Pragma e olos [↑] Dal lato opposto, la posizione utilitarian (oggettivo è il sapere che risolve) non penetra neppur essa la complessità del DOT, al contrario lo evita col volgere l’interesse a un guadagno. L’utilitarista coglie che l’oggetto è contornabile, quindi potenzialmente scientifico. Ma è senza senso, perciò indifferente, finché non entri in gioco uno scopo e quindi un interesse. Una dottrina del fine pragmatico però non è semplice da gestire come sembra: essa guarda naturalmente a valle, al risultato e al suo ottenimento, mentre dovrebbe volgersi preliminarmente a monte, e farlo non per individuare la sorgente di questo o quello scopo, ma per collocare se stessa come scopo, insieme ad ogni altro tendere, nel sistema dell’essere al mondo. È interessante notare come i tre maestri del pragmatismo americano – Peirce, James, Dewey – pur avendo messo in conto anche l’esigenza di volgersi a monte, s’indirizzino non verso il DOT, ma verso un’assialità delle tre preferenziale (rispettivamente, il mediante in quanto semiotico, il soggettivo psichico, l’oggettivo/obiettivo sociale). Prendendo Peirce, come colui dei tre che in quanto fondatore della semiotica contemporanea gode della più alta riputazione, si ricorderà la sua preoccupazione circa una deriva opportunistica del pragmatismo: se la verità di una cosa stesse tutta nel suo impiego, allora il guadagno non sarebbe controllabile, non lo si potrebbe preventivare, se non da parte di chi soggettivamente ritenesse una data azione vantaggiosa nel circolo dei suoi proprî scopi. Il vero si vedrebbe ridotto all’efficace al risolutivo al desiderabile, all’opportuno appunto e da ultimo al proprio comodo. E il pragmatismo radicale di James sembrava consentire, al limite, ogni oltraggio: sostenere che la logica verità dello psicotico sia data dalla sua psicosi, purché questa funzioni, ne realizzi le esigenze pratico-operative preminenti (se per sentirmi oltremisura affascinante mi serve credere di essere Cleopatra, allora sono Cleopatra). Per salvare la razionalità Peirce ritiene allora che la mente pensante, alla cui discrezionalità sembrava far capo la proposta pragmatista, dovesse farsi da parte: agente operativo è il segno, o meglio il risultato della triangolazione referente/segno/interpretante. Pensiero e azione, individuali e sociali, non forniscono altro che sequenze di atti interpretanti, ciascuno di questi essendo a sua volta segno (espressione redatta in un dato linguaggio) rinviante a triangolazioni ulteriori. Come Fichte aveva ricondotto l’intero produttivo alla subiettività etica, così Peirce tenta lo stesso colpo con la strumentalità semantica; come Fichte fu ascoltato perché il momento chiedeva un Ich eroico, così Peirce finì per ottenere, benché postumo, un bel succès d’estime, allorquando l’età dei tecno-media abbisognò di una teoria che la giustificasse. Al pari di ogni altro filosofo, anche il pragmatista ha le sue buone ragioni per non adire il DOT. Egli ignora la triseminalità per il fatto che, potremmo giustamente dire, non vede a che scopo coglierla; essa gli pare, dato l’intrico delle tre radici, del tutto unpractical, come strumento e come fine del sapere. Tuttavia, nel pragmatismo analitico troviamo un interessante aggancio al nostro discorso. In Come fare cose con le parole (1955), J. L. Austin ha insegnato a riflettere diversamente sull’impiego del linguaggio, introducendo nozioni come atto linguistico e performativo. Abbiamo quindi appreso a considerare le parole anche in quanto strumenti d’azione. La riflessione austiniana va presa, io credo, ancora più sul serio. Dovremmo chiederci: come non fare cose con le parole? Infatti non è quasi pensabile un’espressione che non faccia qualcosa, a partire dalla lallazione dell’infante fino al più frettoloso degli arrivederci, incluse tutte le proposizioni che si dicono constative e che si suppone a torto siano formulate solo per esibire se stesse – cosa che non è mai vera. Nessuno dice “La finestra è chiusa” al solo scopo di asserire che la finestra è chiusa, perché questo solo scopo non avrebbe alcun rapporto con l’essere al mondo, mentre quel rapporto è indispensabile al concetto stesso di scopo. Quanto meno l’espressione avrà un significato pre-convenuto, adibito alla messa a punto di un senso ulteriore, pena il giacere irrisorio. L’inganno in cui si cade a tal proposito è dovuto alla frammentazione del discorso complessivo in parti che, sebbene grammaticalmente e lessicalmente sembrino autoreggersi, pragmaticamente non risultano esser altro che spezzoni di continuità, come un fotogramma il quale, pur visionabile a sé ed apparentemente concluso nel suo riquadro, si compie solo nella sequenza e questa nell’intera pellicola. Ogni film, a sua volta, si proietta sullo sfondo dell’intera cinematografia e questa sul panorama delle arti e delle culture. Dunque, come spiega Austin, “La finestra è chiusa” può voler dire “Per favore aprila!”, oppure “Come mai anche oggi è rimasta chiusa?”, o chissà cos’altro; ma quand’anche intendesse niente più di quel che dice, sarebbe senza dubbio un intendere volto a un effetto e mai gratuito, un significare inerente un aver senso, la perfetta gratuità coincidendo con la mera stupefazione o l’idiozia. Naturalmente, se qualsiasi dire pende da un dar/aver senso, si ricade nell’indeterminazione di fondo che ha origine nella triplice seminalità di ogni vivere. L’inafferrabilità mediale e quella oggettuale si specchiano in tal modo l’una nell’altra, cosicché la stessa soggettualità, per quanto si dia da fare a trovare in se medesima o in quelle un approdo sicuro, non può che fluttuare in?decisa e in?determinata, e in quel fluttuare dovrà reggersi (Gli interrogativi apicali servono a sospendere l’affermazione rispetto alla negazione e la negazione rispetto all’affermazione, riportando così lo sguardo sul che è & che non è delle cose). Medialità [↑] In campo psicopedagogico sono state condotte, in questi nostri anni, doverose (e generose) esperienze. Accompagnate, lungo l’intero arco, da una sorta di pressing linguistico, da una costante riconfigurazione lessicale, di cui si sono incaricati in special modo i pubblici funzionari del cosiddetto aggiornamento. Illuminante tra gli altri il caso dell'attenzione ai bisogni speciali. Se un settore v’è, in Italia, in cui ogni cura si sia presa, nell’ultimo quarto del secolo XX, per cambiare di male in bene i connotati del costume, è proprio questo. Che ruolo vi ha assunto la parola? In quali termini se ne è discusso? In origine, nel sedimento del parlare indifferente, a parte gli invalidi di guerra, ingessati dalla retorica di regime, erano i ciechi gli zoppi i matti ecc. Di contro vennero anzitutto declinate le rispettose litoti, le attenuazioni – come subnormale, che intorno al 1975 era ancora normalmente in uso anche tra gli addetti ai lavori, o non-udente. In seguito si passò a preferire handicap. La voce straniera stemperava e mascherava. Onesto intento: non si stigmatizzi, ci si concentri sul problema. Per un momento prevalse poi l’opzione positivista, il lessico scientifico. Onde i discinetici, i discalculici, i Down. Finché anche i bambini cominciarono a usare quelle stesse parole offensivamente. Allora si cercarono locuzioni neutre che non solo non implicassero bias nella comunicazione dotta, ma inducessero a togliere lo stigma dal linguaggio e dal pensare ordinari. Sorsero così i portatori di handicap e le persone Down: la condizione fisica o genetica è portata da un soggetto che per il resto ha da vivere la sua vita con e come gli altri. Buone che fossero le intenzioni, si vide ben presto come il linguaggio sia per sua natura ironico. Non aspetta noi per diventarlo. Ogni termine o locuzione s’ironizza da sé, di uso in uso. In fondo, la retorica classica non faceva che contrapporsi, con le sue regole di contenimento, a ciò che l’esprimere naturale manipola approssimativamente. Ben presto portatore di handicap diventa lungo e pesante, un vero fardello, e della persona Down si finisce per chiedere che bisogno ci sia di sottolineare ogni volta che in effetti si tratta di una persona. Giacché la ripetizione dell’intenzione diviene malgrado tutto un’intenzione differente, l’espressione essendo divenuta nel frattempo oggettità, cosa del mondo, partecipe anche per questa via del gioco SOM/DOT. Ben presto, come miglior cosa, ci si accostuma dunque al turn-over lessicale e si prova a non farci più caso, se non per lo stretto necessario. Per riscuotere una nuova attenzione l’aggiornatore ricorre allora a termini suggestivi, che al primo momento sembrano plausibili solo perché nuovi di zecca e copiosamente illustrati in circostanze chiuse (riviste convegni corsi). Ma s’indovina che, per quanto ufficialmente incoraggiati, avranno vita breve. Il termine disagio, quando cominciò a circolare (come in disagio giovanile ecc.), sembrò a prima vista un giocare con le parole. Applicare un ritrovato di evidente derivazione retorica cambia qualcosa della sofferenza che si infligge a se stessi e al prossimo? L’escogitato verbale pareva perfino insolente. Come si ricorderà, esso andava a sostituire quei coloriti epiteti, come delinquente lazzarone mascalzone, che colpivano i devianti e distoglieva l’attenzione dalle conseguenze degli atti compiuti per portarla sulle infelici condizioni psichiche degli autori, qualcosa che neppure il perdono cristiano aveva mai preteso. La litote attenuativa tuttavia attecchì, fino a toccare col tempo anche il dire comune, spinta e tenuta premuta da una porzione via via più ampia di utenti qualificati (assistenti sociali, operatori psicopedagogici ecc.). Un tal insistere a parole può ben dirsi imprescindibile se il mutamento di prospettiva e le azioni ad esso conseguenti poggiano primamente (cioè si ritiene, in un dato contesto socio-culturale, che essi poggino) sulla conversione linguistica. In effetti, succede che la sostituzione sistematica di una figura qualsiasi al proprium finisce per sradicarlo del tutto come proprium, quanto meno nei contesti presi di mira. Con ciò ci si propone di raggiungere la separazione semantica, in questo caso, del non star bene soggettivo (con se stessi e con gli altri) dal tralignare oggettivo dei comportamenti (la delinquenza) e, sulla scia di tale separazione, di ottenere una sorta di sospensione del giudizio, poiché sul mascalzone s’addensano le minacce del codice penale, mentre del disagiato e del suo deviare s’implica che c’interessa la comprensione e il recupero. Ora, concesso che questa conversione d’orizzonte si verifichi, come spesso in effetti succede, siamo sicuri che sia la parola a produrla? Cioè che la parola convertita, quasi possa librarsi come messaggio coerente a se stesso per un tempo sufficiente, sappia generare consapevolezza (conversione mentale) e questa indurre i comportamenti desiderati (conversione dell’agire)? L’esperto, l’aggiornatore, tende a crederlo perché una tal credenza ne giustifica il ruolo. Ma non appena entra nell’uso la parola diventa fattore di eventi e di senso e in tali condizioni, mentre le si fa carico di un certo significare (che pur può darsi), in realtà è già divenuta ingrediente di altri impasti seminali di cui non ci è dato saper molto prima che si formino e poco anche dopo. Mediando, infatti, la parola si oggettua a sua volta, tende a fondersi con altri fatti, molecola adibita a chimiche che la trascendono. E si soggettua, perde in parte gli attributi propriamente medial-linguistici (p.es. la sua pregnanza etimologica) sacrificati ai bisogni e agli intenti dell’io. In breve, la conversione linguistica, pur mentre in qualche misura avviene, muta rapidamente la parola in qualcos’altro. Nell’alterarsi è possibile che trascini sensi e fatti nella direzione desiderata dall’originaria intenzione comunicativa, così come può accadere che l’inevitabile corrompimento di quest’ultima conduca ad esiti imprevisti. Pertanto, sottolineo, non metto affatto in dubbio la qualità e la quantità di conversioni d’ogni tipo che a partire dal medio possono darsi, ma esse avvengono per il fatto che tutto nell’essere al mondo è continuamente riconfigurabile. La questione interessante mi pare dunque questa: a quali conseguenze dovrebbe condurre il nostro sapere-agire (e il nostro comunicare in quanto modo del sapere-agire, comunicare quindi non di idee ma di concetti) questa incontenibile vicenda di varie cose (cose mediali, cose oggettuali, cose soggettuali) che è tanto ardua da compendiare quanto immediatamente facile da intuire, dato che la viviamo e ne viviamo continuamente? Uno svolgimento particolarmente denso ha toccato le parole che vorrebbero significare il coinvolgersi dell’intera struttura socio-educativa nell’accoglimento dei bisogni peculiari di chi è diverso/differente dai più. Interessa perché questi termini vorrebbero raccogliere l’intero intorno al problematico e contestualmente far come se, accolto il problematico, l’intero non fosse altro che più intero. Si cominciò molti anni fa con l’inserimento. Quando questo si rivelò nei fatti una più blanda forma di istituzionalizzazione, si passò a invocare l’integrazione. Che venne a significare abbraccio totale del diverso nell’uguale. Questa soluzione, tanto caritatevole quanto vaga, sarebbe forse riuscita ad imporsi, se solo si fosse potuto chiudere così la questione. Sennonché l’uguaglianza soffoca e la differenza protesta: sentirmi escluso no, ma differente in qualche modo sì, specie se ho bisogno di ascolto. È stato allora il momento dei diversamente abili. Che ben presto viene a sembrare una pietosa bugia. Si torna così a preferire persone con disabilità. Intanto all’integrazione è subentrata negli ultimi tempi l’inclusione. Sarebbe a dire: Non solo questo sia accolto in tutto e per tutto in quello, ma quello e questo siano costantemente all’erta, pronti a ricollocarsi in sempre nuove disposizioni dell’insieme delle istanze/esigenze compresenti. Molto bello, starei per dire, e pro-sofico; ma anche qui, ed ancor più a proposito, vale quanto sopra s’è detto del disagio: nessun senso è convogliabile se non ri-prodotto dal medio, che non è però solo parola, giacché per ri-prodursi M richiama in gioco S e O: nessuna riproduzione mediale si dà senza allertare altra oggettualità e altra soggettualità. Nei soliti casi, più circoscritti, ci si abitua a credere il senso (quel grumo di esso che ci può provvisoriamente bastare) imbrigliato nella parola; ma qui è diverso, questo olos che con la parola inclusione si vorrebbe direttamente rappresentare non potrà esser esposto se non retoricamente o significativamente, dato che una tale ampiezza di senso non è proprio abbordabile. Certo, l’impegno speso negli ultimi quarant’anni per sovvenire alla diversità dei bisogni ha conseguito risultati straordinari, se solo penso che ancora nel 1969 nella civile Bologna un ‘mongoloide’ (com’era consueto esprimersi allora), il quale aveva preso l’autobus da solo per raggiungere l’atelier, potè destare un tale sconcerto da indurre una benpensante a sollecitare l’intervento dei carabinieri, cosa che lo sconvolse, poiché i carabinieri intervennero. La crescita comunitaria nella direzione dell’accoglimento dell’altro di cui siamo stati partecipi in questi anni è il risultato di un’infinità di piccoli atti giusti maturati anche grazie alla contestuale innovazione linguistica, nonché al costante superamento di essa nella prassi; ma altrettanto bene si ha l’impressione che la manovra dei vocaboli-guida, il management cattedratico di termini-pilota mediante cui si vuol dirigere l’apprensione del cambiamento, quasi un’accademia del mot juste, produca piuttosto una sorta di continuo slittamento dal senso (ciò che è eminentemente inseguito) al significato (un certo interpretare prestabilito). Ciò, se non erro, favorisce uno spostamento dall’interesse vivo per la compartecipazione universale ai diritti, all’astratta prescrizione di un certo doversi fare. C’è insomma di che riflettere più a fondo proprio sull’alterità, anzitutto, del medio, che non è primamente strumento obbediente ma seme anch’esso onniproduttivo e onnidispersivo del darsi originario. La questione è ancora quella che Machiavelli – di sicuro non un campione dei diritti dei deboli – riassunse famosamente col dire esser più conveniente “andare drieto la verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa”. Il linguaggio è il terzo cespite dell’evenienza; è impensabile che non svolga appieno la sua parte nella dinamica triradicale. Esso svolge questo suo compito in ogni caso, agendo senza posa ben oltre le nostre più calcolate intenzioni. Ho avuto il piacere di ascoltare, nel corso di un convegno, l’ideatore di inclusione. Si celebrava la comprensione della differenza. Comprensione è una nobile parola: va dal ‘cogliere insieme’ al ‘non lasciar nulla fuori’. Ma differenza è precisamente ciò che non si lascia prendere, ciò che porta altrove, che oltrepassa gli schemi. Comprendere la differenza, dunque, rende in due parole la più ardua sfida etico-intellettuale. È una specie di ossimoro vacante, come appagare il desiderio, qualcosa che torna sempre daccapo, che può compiersi solo per il momento, nei limiti delle coordinate culturali emotive socio-economiche fattispecifiche ecc. attualmente operanti e in qualche modo, pur diversamente, sentite apprezzate messe in conto. Il nostro mondo produce differenza a un ritmo implacabile, proprio per ciò sembra e si sforza d’essere così tanto uniformante assuefacente ingannevolmente inclusivo. L’uniformare però non è un comprendere, né lo sono, semplicemente posti, il tollerare l’accogliere l’inserire l’integrare. Questi sembrano piuttosto prove più o meno spinte di inchiodare allo stesso legno due inconciliabili: includere la differenza e obbligare il comprendere. Dicendo ‘inclusione’ dovremmo appunto persuaderci che l’aggiungi un posto a tavola non basta, che può esser necessario apparecchiare un’altra e diversa cena. Vorrebbe dire non-esclusione, non-preclusione, apertura a tutto campo, fusione di tutti gli orizzonti. Inclusione non suscita ansie, suona più suadente, ma questo è. E infatti, preoccupato di quanto il concetto sia grave, sapendo che può affondare in breve tempo nell’oblio a causa del suo stesso peso, il relatore (A.Canevaro) l’ha esplorato con glosse sorprendenti: per conseguire inclusione occorrono “il funzionare invece del funzionante”, il “bricolage” più della strutturazione, “le identità plurali contro l’ossessività identitaria”, la “de-generazione” in luogo della ripetizione. Bisogna “adattarsi ad adattare gli strumenti ai progetti”, pensare “famiglia alunno scuola come tre dissimili conflittualità progettuali”, aver presente l’“intero ecosistema di riferimenti, anche ciò che non sappiamo che ci sia”. Inclusione vorrebbe includere tutto questo. Gli intellettuali generosi che s’impegnano per un mondo migliore non di rado nutrono una fiducia prioritaria nelle parole. Ad esse s’appellano. Tengono per certo che se si conviene di comune accordo su un significante, il quale designi virtuosamente quel che si vuol conseguire, non si potrà non capire e non intendersi; non solo ma il discorso, posto in tal modo sotto controllo, risponderà alle intenzioni cosicché, da questo lato almeno, non andrà fallito lo scopo. Importante è che, grazie a una sorta di word-storming, la parola-chiave sussuma l’intero intendimento voluto e diventi parola-visione, Wortanschauung. Ma potrà essa farlo, se non ideoticamente? L’inclusione forzata può suscitare preoccupazione, o tristezza, in chi non teme la propria diversità. Ha detto Evgen Bavčar [fotografo creativo, non-vedente, intervistato da E.Audisio]: A un cieco viene data la musica, perché? Già ce l’ho e ne posso godere, non sono mica sordo. Il mondo ci vuole omologare invece di accettare la nostra diversità e capire che siamo tutti ciechi davanti all’universo. Florence Nightingale non credeva che le disquisizioni condotte a partire da categorizzazioni prefissate e frasi fatte (jargon, vocabolo humeano) risolvessero situazioni di vita. Nelle sue Notes On Nursing (1898) così commenta gli opposti asserti nella diatriba sull’appropriatezza o decoro di ruoli e mansioni assunti dalle infermiere volontarie (sisters): I would earnestly ask my sisters to keep clear of both the jargons now current every where (for they are equally jargons); of the jargon, namely, about the "rights" of women, which urges women to do all that men do, including the medical and other professions, merely because men do it, and without regard to whether this is the best that women can do; and of the jargon which urges women to do nothing that men do, merely because they are women, and should be "recalled to a sense of their duty as women," and because "this is women's work," and "that is men's," and "these are things which women should not do," which is all assertion, and nothing more. Surely a woman should bring the best she has, whatever that is, to the work of God's world, without attending to either of these cries.[…] Oh, leave these jargons, and go your way straight to God's work, in simplicity and singleness of heart. “…which is all assertion, and nothing more”: non basta un’espressione precisa o recisa, sostiene Florence, a far sì che una posizione qualsiasi acquisti valore nei fatti. Al contrario sono i fatti di valore a convalidare le espressioni, le quali senza quelli sono gergo ideotico. Contro la sua posizione è fin troppo facile ribattere che “to bring the best she has… in simplicity and singleness of heart” è pur essa un’espressione, che volendo dir tutto (la genuinità dell’intuizione, le coeur a ses raisons…) non aiuta gran che; che sembra anzi scartare il medio come fosse un improvvido intoppo tra il meglio interiore della persona e l’agire più confacente. E tuttavia molto di quel dire è spesso proprio un vociare (cries), fraseologia costruita, rotonda o tagliente, per asserire o controasserire. Nella convinzione che il mondo obbligato esegua, che l’essere si lasci disciplinare dal verbo e che il linguaggio non sia, al pari delle altre radicalità, inserviente e commensale, re e buffone. Ritengo il medio, inteso come dominante culturale, una fissazione superabile dell’età presente, un’imperversante declinazione dell’appercepire esistenziale, di cui sono corresponsabili il compiacimento interessato dei litterati, l’eccesso di scolarizzazione libresca, il debordante flusso di prodotti mediatici sempre più autoreferenziali. Ne sono circolarmente influenzati il vasto pubblico la cittadinanza l’intellighenzia e i media stessi. Ne risentono peculiarmente le giovani generazioni che subiscono l’esasperazione mediatica e a loro modo l’affossano con vari espedienti di sordità individuale e collettiva. In sé il medio esprime il come: il com’è, il come vorrei che fosse, il come penso che sarebbe se ecc. Gli si richiede e sa offrire un’adeguatezza sia strutturale sia situazionale. Il medio anzitutto fluisce, lambendo l’essere e il mondo: convoglia accomoda riordina, in una parola funziona. Adeguato sarà tutto ciò che di volta in volta necessita all’efficacia pragmatica, anche quando si parla per parlare, o per sedurre ingannare aggredire far colpo. Il medio ha da render conto, deve far fede. Ma di cosa? Non dipende da lui giacché oscilla, connettendole, fra due pluralità illimitate, la soggettualità e l’oggettualità, due tensioni reciprocamente antagoniste eppur imprescindibili l’una all’altra; al medio, senza del quale non potrebbero darsi, entrambe s’affidano per rispondere sia al bisogno di vicendevole com-prensione che le avvicina, sia all’esigenza di individuazione che le respinge. Se guardo con intenzione una foglia, io desidero raggiungere, tramite quel vedere, la cosa stessa (in quanto forma funzione simbolo strumento indicazione d’altro ecc., comunque io la intenda) e, al contempo, m’aspetto che dall’atto intenzionale emergano separatamente rafforzati, entrambi più riconoscibili e consistenti, e il vedere e il vedente. In termini simili si può descrivere l’appetire del baco da seta che si volge alla foglia del gelso per divorarla: nel vivente il percetto (un certo colore odore gusto) media l’interazione vitale per cui in natura il tutt’uno è contemporaneamente una giustapposizione di specie e la specie una collezione pressappoco unitaria di varietà individuali. Tuttavia nell’e.u. grazie al linguaggio la dialettica dell’intenzione, in origine molto costretta sul piano biologico, si è progressivamente liberata dai vincoli naturali e culturalizzata. Il medium linguistico si dirige a piacere su S o su O o su se stesso. Accentua così l’uno o l’altro aspetto del suo prestar servizio: portandosi su S raccoglie, formalizzandoli in qualche modo, financo i sensi più reconditi; spostandosi su O rappresenta nitidamente, in seguito a convenzione, qualsiasi questo (significato). Col tempo la dialettica dell’intenzione, lentamente liberata grazie alla radicalità nativa del medio, lo ha a sua volta di fatto liberato. Il medio è in sé servo, funzionale all’essere; ma il servire lo rende libero, il rendersi utile lo fa autonomo, lo radicalizza. Pensato come mero mediante, sembra logico (in verità è tautologico) distinguerne gli usi proprî e traslati, prestabilirne l’impiego ad usum fabricae, in breve legare il mezzo al suo servizio, come il lacché alla livrea. Tuttavia, attestandosi con una sua grammatica e un suo lessico, il mezzo è in grado di rovesciare l’asservimento in dominio, di servire a sé, di servirsi da sé dell’altro, così come la coda sovrasta il pavone, come la Parola assorbe il fedele e la fede, come lo stile spesso insacca l’artista, come il denaro da mezzo di scambio trapassa in oggetto fine a se stesso dell’accumulazione. Naturalmente sto pensando anche agli idola fori baconiani. Ma la riflessione pro-logica trova l’immortale cancelliere confinato nel suo utilitarismo proto-positivista: il suo limite è già nel vocabolo idola, il termine presuppone di potersene disfare; quindi è un invito all’oggettivismo e all’utopistico asservimento del mediale come mero significativo. Al medio radicale non è permesso sfuggire; frainteso, esso può passare, come vuol la parola, per quel che non è mai stato, un mero tramite. La radicalità del medio è originaria anche in questo: quanto più la si riconosce, tanto più la si rafforza. A mano a mano che per suo tramite venivano differenziandosi illimitatamente le altre due radici, l’esteso proliferante radicamento delle seminalità dell’essere e del mondo ha portato all’illimitata differenziazione dell’al, cioè di tutto ciò che esprime la ricca complessità delle loro interazioni. Una risposta anomala [↑] Ciò che merita il nome di libertà è l’instancabile dis-play di quelle tre illimitate differenziazioni; ma presa a parte ciascuna di esse resta un vagheggiamento. W.Benjamin idoleggiava la lingua come immediato spirituale: Il mediale, cioè l'immediatezza di ogni comunicazione spirituale, è il problema fondamentale della teoria linguistica, e se si vuol chiamare magica questa immediatezza, il problema originario della lingua è la sua magia. [‘Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo’ in Angelus Novus, Torino 1992, p.55]). Un atto linguistico in quanto tale non dà necessariamente luogo a fenomeni di libertà, non più di quanto possa viceversa obbligare a un qualsiasi scontato ad hoc. Due romiti russoiani, buoni selvaggi, si scorgono per la prima volta dalle sponde opposte di un torrente. Si sogguardano per qualche istante, poi abbassano gli occhi e si ritirano nel folto della vegetazione. Hanno comunicato, si sono intesi. Poiché l’atto remissivo ha accontentato entrambi, in seguito, se capita che si trovino di nuovo in vista l’uno dell’altro, si condurranno forse in modo ripetitivo, cosicché un solo gesto d’intesa esaurirà il loro comune linguaggio. In tali condizioni, segno significato contesto effetto intendimento interpretazione immobilizzati risolvono la comunicazione. Univocamente? Non lo sappiamo. Forse per l’uno la tacita ‘intesa’ significa “nessuna volontà di sopraffarsi”; per l’altra invece vuol dire “tenersi d’occhio è prudente”. La cosa non interessa finché non interviene qualcosa di diverso, un travolgimento della comunicazione che si presenterà anzitutto come una falla radicale. Infatti i due potrebbero amplificare indefinitamente la loro presunta intesa, ritualizzare l’atto remissivo aggiungendovi ogni sorta di cerimonia e orpello, senza con ciò liberare il medio dal suo pseudo-univoco significare e senza ottenere ch’esso liberi l’oggetto e il soggetto. Lo scioglimento del primo scambio comunicativo richiede invece la sua messa in discussione dal di fuori: Cosa intendi davvero? Questa mossa è inevitabile non appena alla coscienza il significato e il senso dell’atto comunicativo si rivelano disgiunti (Hegel parlerebbe di autocoscienza). Uno si rende conto che è lui stesso ad attribuire quel senso al comportamento dell’altro e si chiede: Sarà poi precisamente questo che quegli intende? Cosa è davvero ciò che ci diciamo? Cosa c’è dietro ciò che significhiamo? Possiamo controllare/concordare il senso da dare alla cosa? E inoltre, c’è altro da dirsi? come posso azzardare un discorso mio, se è poi l’altro a doverlo interpretare? In breve il medio si scopre sia tramite sia ben altro che tramite. Come radice co-originaria esso si oppone senza remissione a quella strumentalità per la quale pur continua ad adoperarsi. V’è quindi un andare e tornare di libertà condizionate: il medio è una seminalità a servizio, che libera le altre seminalità. Queste servono ulteriormente all’essere per esprimersi, al mondo per essere, e all’espressione per [essere] al [mondo]. Non solo dietro una parola può nascondersi qualsiasi cosa, ma una cosa può stare dietro qualsiasi parola. Questa conclusione può sembrare un’obiezione contro il DOT, dato che in tal caso tutte le distinzioni, anche le primigenie, sembrano cadere di fronte all’imperscrutabilità ermeneutica. In realtà avviene il contrario: di fronte all’essere al mondo cade la priorità ermeneutica. Quest’ultima non è che quell’universale astratto (o kantianamente idea) del medio come condizione incondizionata (se non da se stessa) che viene a formarsi in opposizione al concetto radicale di medialità. Analogamente per tutte le semiotiche e gli strutturalismi a vocazione olistica. Questi e quelle disegnano astrazioni del medio (medietà assolute), passabili solo quando si rinunci idealisticamente alle altre radici dell’essere al mondo. Il limite dell’olismo e del sistematismo è tutto in quel costituirsi come risposta, nell’evitare l’ampiezza incontornabile della domanda presumibilmente nel timore, tipico del sapiente, che vi sia altro da dire al di là del paradigma d’elezione, quando invece sarebbe il dire a doversi orientare verso l’altro da sé. La ragione, come s’è visto, può stendere innumerevoli varianti del pre-paradigma sulla base della relazione autogratificante tra eros ed escogitazione, tra sospiro e soluzione. Per muoversi (porre contrapporre risolvere) la ragione ha bisogno di soggettizzarsi (foss’anche come complesso dileguare logico di soggettità divenienti), di oggettizzare e di costruire medietà distinguibili, il tutto funzionale e operativo in ordine all’erotica di riferimento. Per una sua nativa inclinazione il pensiero strutturato ha sempre scambiato la risposta (il concetto pro-sofico di darsi triseminale) per il problema e, rovesciata la prospettiva, è andato in cerca di ideotiche rispondenti, dottrine dello scioglimento. L’essere al mondo è non solo il luogo di tutti i problemi, ma anche la risposta: l’unica pro-posizione assoluta in cui l’essere possa sicuramente riconoscersi, poiché essa è la sola a non evadere dall’interrelatività/interrogatività originaria. Pro-risposta, perché essa non consegue alle domande, come nella storia del pensiero le ideotiche solutorio-consolatorie seguono alle pre-occupazioni endogene, ma le anticipa tutte come difatto originario, esogeno e ineludibile. Il vero problema (l’ostacolo) il pensiero lo genera quando, inclinando a un ordine positivo, s’estranea dalla datità sempre irrisolta dell’essere al mondo nel nome di una soluzione localmente soddisfacente senza la trasparenza di offrirla come tale. Ogni rispondere è un alienarsi elettivo e il pre-paradigma la schematica di tutte le alienazioni. Il darsi originario comprende invece l’esser dato & non-dato. Esso fornisce l’unica risposta non-solutoria e non-consolatoria. Implicazione radicale [↑] La triseminalità, pro-generando il che è & che non è (quel ch'è agire e sapere, sentire e immaginare, coscienza e linguaggio, significato e senso), non può esser colta integralmente se non come assolutorelativo. In tali vesti appare impervia e disabilitante: il dis-play delle cose, cangiando di momento in momento imprevedibilmente, non sembra in alcun modo gestibile. Alla triseminalità ci si sottrae solo astraendo da essa: l’immaginazione sofica la addomestica così da darle un’apparenza razionale, un ordine qualunque (geometrico fisico psichico metafisico strutturale ecc.), un’incastellatura costituita, un disegno tanto vero quanto il bisogno che se ne ha. Come s’è visto, l’essere quando cerca ordine ne trova a piacere, giacché egli stesso lo pre-dispone. Ben da prima che la scienza disponesse di perspicilli, e questi di occhi in grado di vedere significati in qualche misura indipendenti dallo sfondo socio-culturale, ogni società s’era data ordinamenti comprendenti, di quelli convincendosi appunto perché le dipingevano la realtà come ordinata a. Gli stessi antichissimi metri (aedici vedici psalmodici ecc.) trattenevano e trasmettevano, inclusa nel mezzo, l’immagine formale di quella cosmologia che il soggetto collettivo imponeva al mondo. Quanto a questo, dunque, meglio del Galilei – al quale pareva di apportare soltanto aggiustamenti migliorativi – vedeva il Bellarmino, suo inquisitore, allorché temeva che la rielaborazione galileiana fosse tale da demolire l’intero castello SOMario costruito sulla Parola-Realtà. Per generare un ordine d’insieme la mente ordinatrice deve discontinuare il che è & che non è delle cose in omaggio a un pre-supposto che è. Fatto ciò, qualsiasi ordine può passare per verità, incluso sentirsi progrediti al punto di poter far a meno di ogni verità (anche questo un facile manierismo intellettuale). Sul piano dei paradigmi, ove le ideotiche rispondono a visioni di verità, abbiamo schematiche descrittive narrative figurative strutturali dialettiche logiche ecc.: tutte rinviano a quell’unico pre-paradigma dove è sempre posta in gioco, in un modo o nell’altro, la stessa terna onto-psico-logica, nella quale ricompare irreggimentata (e ai più irriconoscibile) la triseminalità originaria. Il catalogo delle assializzazioni o varianti d’ordine (o moduli di monduli, se così posso dire) può dedursi per analisi, sviluppando a tavolino la gamma delle versioni possibili, oppure la si può esumare dalle storie del pensiero nelle diverse culture. Il risultato non cambierà di molto. Prima e dopo la svolta antropologica feuerbachiana, il filosofare ingenuo e fidente o sospettoso è sempre stato strumento di qualcos’altro, contrariamente a quanto la favola retoideotica della sua libertà ultima ci racconta (dove esso è ricerca della verità, genuina risposta alle domande-chiave della vita ecc.). Lasciamo allora il pre-paradigma, con la sua coorte di varianti rispondenti al bisogno, e risaliamo alla datità triseminale come pro-soluzione, cioè all’essere al mondo come unica sensatezza coerente che mondo linguaggio essere reciprocamente si consegnano. Quella sensatezza così mal rappresentabile, impossibile da rendicontare, eppure quotidianamente vissuta e in tutti indubbia. Appena fuori dai contesti ideotici l’apertura dell’essere si manifesta senza posa – sia negli affari quotidiani e minuti, sia nella conduzione esistenziale di lunga durata. L’e.u. sa accogliere non solo modifiche marginali, ma anche mutazioni di enorme impatto esistenziale. Queste a loro volta possono essere trattate paradigmicamente o triradicalmente. Nel primo caso sopravvengono in breve tempo nuove contemplazioni nuove soluzioni un nuovo mondo ad hoc. Tutto ricade nel pre-paradigma anche se il paradigma d’elezione è mutato. Nel secondo caso la mutazione, anche se traumatica, amplia la gamma dei mondi a cui l’essere e apporta effettiva libertà. Riconosciuta la costitutiva in?determinatezza triradicale, si discerne meglio come ogni momento di vita trascorra immerso nell’interferenza reciproca di due contrapposte condizioni: il coglimento della relatività cooriginaria delle radici vs-& il ricorso a un ordine SOMario sovrimposto. Con ciò siamo altresì giunti là dove si sanno già tutte le domande (ma non il loro senso), giacché la risposta è sempre la stessa. Tocca all’evenienza triseminale determinare il senso delle diverse domande; ma il senso, quella evenienza essendo imprevedibile, si presenta sempre in discussione. È questo tutto quel che abbiamo da dire? Se così fosse, saremmo arenati in una sorta di scetticismo trascendentale. Cosa ce ne faremmo? Praticamente niente. Dovremmo rifiutarlo, se non vi fosse nient’altro, ma così ricadremmo nella storia, dove incontreremmo il paradigma che le “sorti progressive” ci riservano (tra cui, non a caso, quello secondo cui alla Storia non si sfugge). Per fortuna però c’è dell’altro. Dobbiamo infatti ancora esaminare se il darsi originario, da cui le ideotiche rifuggono perché intrattabile, e la prosofia, che invece cerca di accostarvisi, possano assisterci nella gestione dei sensi che assegniamo alle cose, assisterci però in modo tale da non eludere l’integrità dell’essere al mondo. A tale scopo occorre che esaminiamo la triradicalità più da presso. Perché essa è sempre ir?risolta? È la prima questione che punta dritto al sapere pro-logico. A cui s’allaccia la seconda: questo pro-sapere, che evidentemente non può dirci nulla di simile a ciò che si ricava dai consueti saperi quidditativi, come consapevolizzarlo? si può trarne una pro-visione? come renderlo fruttifero? La risposta alla questione dell’ir?risolubilità è già quasi esplicitata in quanto siamo venuti dicendo, ma presenta un difetto: non è una soluzione, non accontenta l’eros accovacciato in grembo alla filo-sofia. Anzi non è neppur pensabile se non, per così dire, di sbieco: non contempla nulla perché non delimita. Non permette deduzioni perché fa trasparire l’illazione che marca ogni pensiero e visione. Sottolinea l’escogitazione in ogni filosofare, mostrando in filigrana il pre-paradigma. La triradicalità resta ir?risolta (o diffratta) perché ciascuna delle tre radici manifesta in ogni caso i caratteri insieme dell’irriducibilità e (vs-&) della trasducibilità. Irriducibilità [↑] Nel darsi originario ciascuna delle tre seminalità presenta in piena evidenza alle altre due una sorta di doppia natura, in se stessa perfettamente antitetica eppur congruente, l’irriducibilità-trasducibilità. Quanto segue è un’esplicitazione di ciò che fin qui ho lasciato intendere con l’interrogativo in apice; non scrivo dunque ir?riducibilità perché ne sviluppo la sua costitutiva doppiezza come trasducibilità e viceversa. Irriducibilità è quanto dire insopprimibile attività delle radici. Per quanto l’intelletto s’adoperi ad aggirare questo che considera un ostacolo alla conoscenza fondata, non si dà essere al mondo e non si dà quindi alcun vero senza la collusione cooriginaria di tutte tre le radici. Nulla è al mondo senza che ciascuna radice vi giochi – comunque lo giochi – quel ruolo ineliminabile che è solo suo. Un ruolo al quale non può sottrarsi perché solo chiamando in causa le altre due ciascuna delle tre co-istituisce l’essere al mondo, mentre da sola non è che un figmento del bisogno di comprendere. Di questo il pensiero costituito non ha mai tenuto debitamente conto, perché l’irriducibilità triseminale getta luce sull’ad hoc (o præ-sumptio) di qualsiasi sophia; evidenzia l’analogia pervicace che ripete di epoca in epoca gli stessi moduli, variandone non più che l’apparenza; impedisce la messa a punto di una visione del mondo in quanto le consente e dismette tutte. Nell’essere al mondo non può sussistere né un essere (soggettualità), né un mondo (oggettualità), né un al (medialità) collocabile prima o a parte rispetto all’intera triade, dato che solo le tre radici cooriginarie, distinte ma immancabilmente insieme, consentono al vivente di essere al mondo. Dico in generale vivente piuttosto che essere umano perché l’irriducibilità precede la riflessività consapevole o coscienza umana o sentimento dell’esistenza, che è solo un’evenienza della soggettualità del vivente, un caso particolare per il quale nella vita ne va di sé non-immediatamente. La triade seminale peraltro non è mai integrata in unità, né logica né ontologica, perché appunto co-essendo alla vita ogni radice agisce sempre con l’inestirpabile singolarità che la distingue. L’irriducibilità si configura dunque come una sorta di trascendentale neutro (né ontologico, né appercettivo, né fenomenologico): non dipende da fattori come necessità caso volontà evoluzione tempo ecc. Sono questi, al contrario, che subiscono la determinazione originaria per cui lo spazio e il tempo, la volontà e la libertà si presentano irriducibilmente triseminali. Ed è per ciò che non si sa cosa siano lo spazio la volontà ecc. Nonostante questa caratterizzazione risulti a parole tortuosa – a causa dell’anteriorità del che è & che non è rispetto a qualsiasi assializzazione tesa a stabilirne qualcosa – l’irriducibilità mi pare schiettamente facile da intuire. Non perché si possa spiegarla o comprenderla per le solite vie, bensì perché la si vive continuamente. Difficile invece è accettarla e tenerne conto nelle operazioni dell’intelligenza esplicativa. Riprendiamo, per prova, il discorso sulla medialità. Leggo un sms giuntomi da una persona cara e credo scontatamente di coglierne il senso, ma evidentemente sono io a costruirlo. Dico p e reputo sapere cosa dico, ma già non so quanto come e a chi lo sto dicendo influisca di fatto sui sensi che questo dire sta avendo o avrà, perfino su me medesimo, pur essendo da me che quella proposizione è or ora partita. Dunque non so cosa dico; ne solo so il qual-cosa, il ciò che ho detto in quanto lo identifico presuppostamente con quel che ho preteso dire. Si dice comunicazione e si presuppone un fluire da persona a persona, ma un communicatum non ha un’intimità vera, è sfuggente, paradossalmente ineffabile. I grandi comunicatori e gli artisti di calibro lo sanno e si comportano di conseguenza. Non contano tanto su ciò che di volta in volta dicono o espongono, quanto sull’esser conosciuti e apprezzati per dire un certo genere di cose, per porle e porsi in un certo modo, per il loro stile. L’arginamento del senso, in tal maniera, precede la sua materializzazione in messaggio, dipende dall’aura che l’avvolge. Colui che passa per essere un tipo faceto finisce per far ridere non appena apre bocca. Nel giugno 1940, il trionfalistico “…vincere, e vinceremo!” di Mussolini non aveva bisogno di pezze d’appoggio: poteva contare su un preventivo con-vincere che le sue parole, quali che fossero, prima ancora d’esser trasmesse alle piazze, suscitavano nella massa assuefatta. Ognuno ha in mente una quantità di casi. La commedia umana, nella storia e nel quotidiano, nel familiare e nell’inconsueto, si svolge in gran parte all’ombra di malintesi, spesso per fortuna soltanto comici, dovuti ad accrediti gratuiti di senso (o addebiti di nonsenso). I sensi tendono a intrupparsi per abitudine: tale loro vischiosa aggregazione, benché a ciascuno di noi risulti non di rado tutt’altro che soddisfacente, sembra all’atto pratico un accomodamento accettabile rispetto all’alea triradicale. Quest’ultima viene per contro sofferta come assurdo, quasi fosse un’immeritata ingiustizia dell’esistenza. In effetti nella sua ottica diffratta nulla è accreditabile, su tutto tutt’al più è consentito appena soffermarsi. Ma che farci? L’essere al mondo non può che presentarsi così. Chi ritiene che una teoria della comunicazione sufficientemente complessa possa in qualche modo neutralizzare l’irriducibilità, s’impegna in una metafisica del confinamento delle cose nel mezzo, in tutto assimilabile alle trascorse metafisiche che confinavano le cose nell’ente (come oggettità: la natura il numero il bene il creato l’uno e simili) o nella mente (come soggettità: l’anima il cogito lo spirito ecc.). Il concetto di irriducibilità mantiene che nessuna riduzione radicale sia operabile – se non sotto forma di un’ennesima erotica, sovrimposta alla sola realtà primamente data (l’essere al mondo). Insisto su questo: il primato del linguaggio, oggi preteso, non ha fondamento, tranne quella cosiddetta ragione, nudamente storica, che necessariamente si ritrova in un dato culturale dominante. Da un secolo si fa largo spazio al linguaggio, si tenta di costituirlo costruirlo decostruirlo come fulcro della razionalità vigente, in luogo del pensiero e del fatto – oggi più che mai, dal momento che l’oggetto (il fatto) sembra perso nella sterminata fiera del gadget e il soggetto (il pensiero) si è frammentato in milioni di facies o chat-soggettità virtuali. Si ammette che il soggetto, come i resti di un affresco crollato, si presenti frammentato in una miriade confusa di minuscoli reperti, il vecchio duo cogito-cogitatum cartesian-husserliano irrimediabilmente perduto, tra essere e nulla, tra ragione negativa e irrazionalità dei voleri e dei valori, nella babele multiculturale dei saperi e dei sapori. Ancor peggio, se possibile, se la passa l’oggetto, dacché prolifera la produzione delle merci e va diffondendosi la commistione astrusa di innumerevoli ‘realtà’ artificiali. Queste presunte realities, sorgendo e bruciando in tempi brevissimi, non sanno neppure con chi hanno da fare. Interagiscono alla cieca con le diverse culture, le disorientano, le bistrattano. Il sistema umano è un ammasso globulare traboccante alienità. L’opinabilità del fenomeno, che tanto preoccupò gli antichi maestri, pare ai nostri occhi un’incertezza tollerabile, un dubbio pressoché rassicurante, se paragonata all’indeterminazione profonda dei nostri prodotti. Ora, nelle idee di soggetto e di oggetto è connaturata e desiderata una saldezza che nelle condizioni attuali non trova alcun riscontro; mentre non ci s’attende lo stesso dal linguaggio. Alla natura del medio è riconosciuta una spontanea pluralità di funzioni (esplicativa dialettica analogica dialogica interrogativa ipotizzante declamativa esclamativa interlocutoria ecc.), tutte legittime ed anzi indispensabili. Questa cosa fa della medialità la radice delle tre la più adatta a fronteggiare l’esperienza della contemporaneità ultima: il medio pare poter in qualche modo gestire la complessità tardo-moderna e post-moderna. Su di esso si riversano le superstiti speranze, quasi che una sorta di neo-agostiniano si fatus, sum o un neo-kantiano Ich spreche trascendentale valesse a costituire l’ultimo fondamento del comprendere. Nulla di più improbabile. E non primamente per l’ingovernabilità del mezzo stesso, bensì per ciò che la produce, ovvero l’irriducibilità triradicale. Il mezzo invero è governabile tanto quanto lo sono S e O, purché lo si assoggetti a un qualsiasi paradigma (come sacra scrittura, orationis ratio, codice, calcolo, algoritmo ecc.). L’irriducibilità delle radici non può invece essere aggirata. Si può mostrarlo, rispetto alla medialità, a partire dalla più elementare delle espressioni, la quale è indubbiamente: [dico che]. Essa (o una sua vicaria) si ritrova ovunque, sottintesa, in quanto premessa di ogni atto linguistico, e costituisce il communicatum 0, inaggirabile, insufficiente ma necessario. Il [dico che], così come regge le più complesse esposizioni o narrazioni, è preposto ad ogni più casuale esprimere (p.es.: [dico che] Piove; [dico che] L’hanno promesso; [indico] < là >; [pongo] p ≠ q; [domando] Ti chiami Mario?). La sua onnipresenza sembra avvalorare la tesi della precedenza del linguaggio, giacché sicuramente non v’è impressione, per quanto minutamente descritta, né dato di fatto, per quanto scrupolosamente riferito, che non sia annunciato da un tacito [dico che] ovvero da un pro-posito mediale o comunicativo. La varietà di questi pro-positi è straordinaria, ma poniamo che alla fin fine tutti siano effettivamente riconducibili al solo [dico che]: forse che la triradicalità non è anche qui, nel pro-positum stesso, operativa appieno? Certo che sì. Ma non perché [dico che] sottintenda un precisabile S (io) e ancor meno perché ad esso segua un qualsiasi O (quel che è detto). Se così fosse avremmo raggiunto lo scopo di ridurre la gamma delle sensatezze possibili, per quanto ampia, dentro una gabbia SOMaria (una sorta di formalismo hilbertiano applicato al comunicare in genere, com’era d’altronde nelle intenzioni di vari formalisti e strutturalisti). Al contrario, quell’ipotetico io con funzione di contenimento, sottinteso al più anonimo [dico che], qualora lo si disamini attentamente lo si scopre tutt’altro che attestabile. Chi ne sarebbe il garante? Chi custodisce questo custode ultimo del senso? Nella maggior parte dei casi (nel mondo del vivere) quell’io è incerto. Può essere, p.es., posticipato ([dico che] Ci tenevo a te!), o anticipato ([ora dico che] Saprò riferirtene stasera), o sostituirsi a un noi ([dico che] Ce la metteremo tutta!), insomma stare per qualsiasi soggetto anteriore o ulteriore. Né può cambiar le cose la consapevolezza. Se Gio ci assicura: [dico che] Te lo dico io che stasera darò il massimo! non per questo il primo io (il soggetto di [dico che]) è risolto. Il secondo lo conosciamo, si tratta dell’io psichico, e il terzo di un io linguistico; ma quanto al primo (l’io radicale), esso resta opaco finché l’atto di vita (una risoluzione interpretante, data per buona, presa per fiducia stanchezza disinteresse o che altro) non lo risolva. Il primato del linguaggio non ha alcuna ragion d’essere, più di quanta non ne avessero le obsolete primazìe dell’essenza, del cogito e del factum. L’errore di principio è identico. L’irriducibilità viene ascritta a una mancata comprensione o a un’insufficiente spiegazione di ciò che co-condiziona il vivere. È invece vero l’opposto: essa pro-voca (chiama alla ribalta) senza posa le tre istanze dell’essere al mondo, rimettendo in discussione ogni presunto risultato. Quel che la storia fa (e che fa la storia) è selezionare alcune tra le innumerevoli versioni costruibili e orientare su quelle le rappresentazioni individuali e sociali, cosicché il divenire sembri il comprensibile procedere di un certo essere. L’irriducibilità implica una conseguenza catastrofica per il filosofo, la cruda impossibilità di filosofare, l’impasse. Dovunque vada a parare, foss’anche nello scetticismo più sospeso (o più inquisitivo), il pensiero fatica a non porre se stesso, o qualcos’altro al posto di sé, assolutamente. Non farlo equivarrebbe a un tacere altrettanto assoluto, anche con se stesso, anche circa quello stesso tacere. Resterebbe solo l’inconsapevole ebetudine, la vegetalità. Aristotele fondò su questa impasse il principio fondamentale, logico-ontologico, di non contraddizione. Che è tanto poco un tal principio da implicare, perché sia possibile porlo, sia un mondo, circa un qualcosa del quale si predica che è & non non è, sia un datore di significato/senso che sappia distinguere se il predicato affermativo è da intendersi sotto il medesimo riguardo del predicato negativo negato, sia un linguaggio mediante cui il giudizio possa essere espresso non-contraddittoriamente e valutato per quel che significa. Dietro il principio s’estende dunque l’intrico delle combinazioni seminali, l’ápeiron da cui per triplice contrapposto ogni distinzione deriva, per cui come è posta in essere così è anche messa in forse. Assolutizzare serve a evitare l’irriducibilità che rende provvisoria qualsiasi soluzione. Disponiamo di due modi: il mistico e il tecnico. Dimensioni apparentemente antitetiche, strettamente alleate nel combattere la radicale in?determinatezza del reale: il tecnico (il quale include il razionale) commensurando; il mistico riducendo all’incommensurabile. Finché l’intelligenza manovra nel bacino chiuso delle sue attitudini tecniche e finché la ragione, una qualsiasi modalità di ragione, non rinuncia all’artificio di porsi anzitutto e prima rispetto all’essere al mondo, l’irriducibilità sembra controllabile. Prima attitudine della mente è la rappresentazione, da cui proviene lo pseudo-aspetto oggettivo, o reale, di tutte le idee; la seconda è la riflessione, da cui lo pseudo-aspetto soggettivo, o ideale (modernamente inteso), di tutte le cose. La terza attitudine si lega al multiforme ingegno degli ee.uu., alla produttività strumentale funzionale simbolica (saper costruire un obelisco o un occhiale, una mappa o un alfabeto, un rito o una Rivelazione), da cui tutto ciò che sta per, le innumerevoli emanazioni spontanee artificiali convenzionali, di cui l’umanità si serve per diversificare e al tempo stesso regimentare il suo stare al mondo. Questa produttività è responsabile della visione dell’essere al mondo come di qualcosa di costruibile, visione che cova in ogni artefatto e finisce per sostituirsi al che è & che non è. L’artefatto (le tenaglie, il telefonino) presenta il gran vantaggio di sembrare inequivocabile giacché include per presupposto lo scopo l’utile il servigio a cui è destinato. Ben diversamente dalla mano, la quale è DOTale non meno dell’essere che l’adopera. Essa si volge all’oggetto, nel far ciò comunica un’intenzione e la realizza; tuttavia la mano precede l’azione, la interroga, ed è aperta a una molteplicità di mondi possibili. I sensi di una mano sono continuamente in divenire. Le tenaglie invece occupano uno spazio preciso all’interno di un dato mondo di oggettità e mezzi; più esattamente esse, come ogni altro utensile, predispongono uno spazio funzionale e lo curvano tendendo a chiuderlo. Subissato da una quantità di artefatti, l’e.u. è indotto a ritenere che tutto il vivere si confermi, al pari di quelli, maneggiabile e prevedibile (sotto mano, direbbe Husserl); egli s’illude circa la reciproca disponibilità delle tre radici a desistere dalla loro differenza, per adeguarsi l’una all’altra in vista di un ad hoc durevole. I nomi stessi si adeguano e si addicono: le tenaglie, p.es., tengono. Un fabbro primamente se le forgiò per tenere più saldamente il metallo rovente; era un brav’uomo e non ne previde l’utilizzo come strumento giustiziere per troncare la lingua agli eretici. Che ci piaccia o meno, nessun ad hoc potrà mai sopprimere l’originaria triplice radicalità sempre pronta a rimettere in discussione o a destabilizzare le determinatezze vigenti. Nel famoso topos sofico (pitagorico, platonico, neoplatonico, cristiano ecc.) del ritorno dell’anima al suo mondo natio, il paradigma prescrive prima di tutto che, al compimento dell’ascesi, sia ridotta ad estasi muta la radice mediale. Con ciò ad essa non resta più nulla da dire (deve contentarsi di cantare) e nell’indiarsi, al colmo della beatitudine, viene bruscamente soppressa. La comunicazione tra l’anima e il divino avviene ormai senza il mediale, per grazia mistica o assorbimento (una spugna nel mare, secondo l’immagine agostiniana). È allora il turno del mondo: la radice oggettuale (ciò che è terreno) dev’esser ridotta alla Ragione (il divino). Ammetterla definitivamente nella sua irriducibilità comporterebbe infatti accettare anche alea disordine entropia brutalità insensatezza ecc. Il mondo perciò deve finire, la sua radicalità annichilirsi, dileguare nel Soggetto (come in Hegel). Là dove si perde infine l’anima stessa, perché se mantenesse una sua soggettità non nulla risorgerebbero immediatamente le altre due radici, ponendosi ciascuna soggettità come oggetto per l’altra, e tra le due inevitabilmente o l’estraneità più completa (l’inferno) o una comunicazione. Così in Dio l’anima non può che dantescamente annegare in un paradiso di luce. Ma se l’anima, data la sua peculiare natura ideotica, non può non far quella fine, diverso è il discorso sull’essere. L’essere non ritorna mai ad altro che non sia l’essere al mondo; lo stesso accade ad ogni mondo e a tutti gli al. Il destino del che è (o che non è) si compie nella caduta o nell’ascesa verticale del senso. Nella caduta: la cosa scompare, lasciando dietro di sé tutt’al più un mero significato, un eventuale poter riemergere in riferimento a nuovi sensi. Come un qualsiasi numero sicuramente mai da alcuno prima d’ora utilizzato, un numero a caso, p.es. di cento cifre, può certo dirsi investito di un suo precisissimo significato, benché mai sia entrato in gioco con riferimento ad un qualche senso; e nondimeno, se ora lo scegliessimo, esplicitandolo, come caso di quel che andiamo dicendo, lo investiremmo di un senso fino a un attimo prima del tutto imprevedibile. Quanto all’ascesa verticale, l’assolutizzazione del senso conduce alla fissità dell’Uno (il senso totale appunto) nell’imperscrutabile distanza del cosiddetto sacro – velo del tempio, tabernacolo, iconostasi, nero drappo che esclude l’altro da sé. Oppostamente, implicato nella triangolazione interradicale, il che è & che non è risorge ogni momento perché le radici sono irriducibili, ma questo risorgere vitale costituisce per l’intelletto un’agonia, mancandogli l’apparenza abusivamente appagante di un che è. Trasducibilità [↑] Che intendere invece con trasducibilità? Anzitutto, come vuole l’etimo, poter portarsi oltre. Le singole seminalità, proprio perché tutte tre effettivamente l’una all’altra irriducibili, sono ubiquamente riconfigurabili, tanto da voltarsi indifferentemente l’una nell’altra. Ciascuna radice può metonimizzare pienamente le altre due, subentrando ad esse (ad una o a entrambe) in qualsiasi contesto. La soggettualità umana, p.es., sembra davvero di volta in volta io uomo soggetto coscienza persona sostanza anima spirito identità esistenza esserci ecc., ma anche cervello corpo società storia prassi bisogno, oppure linguaggio convenzione usanza forma simbolica; l’oggettualità delle cose del mondo sembra davvero materializzarsi nelle costellazioni, nelle foschie di certe albe nordiche, nello scorrere d’acque dal torrente al lago, nel guizzare verde di un ramarro ed ancor più nel profumo di un’albicocca matura, nella musicalità di un verso. Ma l’oggettualità non è altro che l’effetto di fruizione delle cose così come vuole il nostro sentire, codificate come soggettivamente siamo usi fare. Quanto al mediale, esso sembra assorbire o farsi carico di tutto: se quel che è è sempre anche rimando a qualcos’altro, allora quel che è rimando a sua volta è. Non sai più se veneri la Theotokos o la sua icona, se invochi Allah o se è la tua invocazione a iterare se stessa, se sei tu a metterti in gioco o la partita (o la tua gatta) a giocarti. La trasducibilità reciproca delle radici non sembri contraddittoria. Infatti è lo scambio di posto ciò che lega il mondo al linguaggio, il linguaggio all’essere e l’essere al mondo. Diversamente qualsiasi essere al mondo si sfascerebbe in un abisso irrelazionale. Perché il soggetto possa pensarsi deve tradursi in cosa del mondo; perché possa aver senso, di fronte a se stesso e agli altri, deve diventare tipo segno emblema rappresentante, deve stare per qualcosa. La trasducibilità è difficile da trattare, benché sia anch’essa sotto gli occhi. Ne è motivo la sua stessa natura fluida e trasparente. Tutto tra-passa (secondo un intendere opposto al fluir via eracliteo). Una cosa del ‘mondo’ assume così bene la funzione di segno che nulla di essa sembra restare e in quanto cosa scompare, come l’inchiostro o i pixel spariscono quando leggiamo. E se siamo davvero presi svanisce anche l’io che legge. Oppostamente, il fanatico brucia la carta e l’inchiostro dei libri per estirparne i segni e i significati che loro attribuisce, arde i corpi per eliminarne i pensieri intollerabili. Nell’essere al mondo le tre seminalità si offrono l’una all’altra promiscue, reciprocamente del tutto pervie. Una radice, a un dato momento e per qualcuno, s’esprime con più vigore delle altre. Ciò ch’è crudo macigno per lo schiavo il quale a stento lo smuove, per l’architetto che l’esamina è forse già capitello o acroterio, vocabolo del suo linguaggio. Tuttavia le radicalità di volta in volta trascurate non inaridiscono affatto, bensì resistono tenaci sotto terra e, agendo irriducibilmente, continuano a intrecciarsi senza posa in combinazioni già viste o inattese. Perfino la distruzione fisica, la calcinazione di un marmo, la combustione di un eretico, la coventrizzazione di un mondo non valgono a sopprimere la vitalità radicale. Hiroshima non è mai stata così presente all’umanità come dopo l’atomica. La trasducibilità ingenera tanta più insofferenza, quanto è più forte l’ingerenza di un sapere affidabile o di un fare sicuro. Nel quotidiano la trasducibilità pare quindi il più delle volte un travalicare che altera, perché ancor prima che una cosa sia interamente data, già ne offre altre sostitutive che ne sfrangiano in qualche modo la ricezione e così di seguito, in un’ibrida processione di metamorfosi. V’è insomma nella condizione di trasducibilità reciproca delle radici un trans-formare, un morphing che può condurre inopinatamente ovunque, alla maniera in cui due individui qualsiasi nel mondo globalizzato non distano più di cinque contatti. Nel trasdursi in altro l’identità originaria delle radici si rimescola ma non va perduta o distrutta. Benché latitante, continua a insinuarsi e si apre varchi, precisamente a motivo della complementare condizione di irriducibilità. Irriducibilità vs-& trasducibilità [↑] Separate, irriducibilità e trasducibilità sono mere astrazioni, che adottiamo qui e ora per alludere a caratteri delle seminalità originarie la cui natura è trascendentale a qualsiasi distinzione SOMaria, quindi a rigore intrattabile. Concreta è l’irriducibilità vs-& trasducibilità, ma solo se si accetta che, in quanto intrinsecamente antitetica, questa espressione allude all’inintelligibilità dell’essere al mondo o, ciò che è lo stesso, alla sua poli-intelligibilità. Maneggeremo dunque con prudenza allusioni di questo tipo, che poco hanno in comune con l’universo categoriale. È chiaro che se ne facciamo uso devono essere, per questa occasione, anche intensioni, ovvero cose ideal-concettuali. Ora, quel che rileva è la seguente intuizione: se la soggettualità (ŦS) è rappresentata di fatto dal novero di tutte le soggettivazioni possibili, l’oggettualità (ŦO) dalla totalità delle oggettivazioni possibili, la medialità (ŦM) dal catalogo di tutte le significazioni possibili, allora soggettualità, oggettualità e medialità come da un lato corroborano e inglobano, così dall’altro contestano e impugnano ogni soggettità, oggettità e mezzo, separatamente presi, contrapponendo ogni volta, contestualmente, alternative a non finire. La forza di queste alternative potenzialmente innumerevoli non può in alcun modo predirsi perché dipenderà dallo stato che in quel momento e per quel momento assumeranno le relazioni mente|mondo|medio. In altre parole, la soggettualità finisce per negare la singola soggettità, benché quest’ultima solo in quella ritrovi la sua originaria datità. Così dall’oggettualità è impugnata la singola oggettità, benché solo in quella questa ritrovi la sua origine. Lo stesso può dirsi della medialità nei confronti di ogni significazione. Il che equivale appunto a dire: che le seminalità si presentano come irriducibili-trasducibili, perfettamente coerenti e pienamente contraddittorie sia in se stesse sia in relazione ai casi del vivere così come sono di fatto vissuti; e che i casi vissuti nella fissazione di una soggettità, un’oggettità e un mediante precisi trascurano necessariamente la massima parte, rispettivamente, del concetto, della realtà e del gioco dei sensi. Di più, quando le assialità SOMarie s’irrigidiscono nel loro conato riduttivo e non consentono alternative la vita stessa si fa ideotica. La riduzione del soggetto entro una soggettità dominante, ad esempio, rifiuta tutta l’altra soggettualità, quella che aleggia intorno a qualsiasi essere, onde dar pieno risalto alla figura pre-costituita. Una giovane scopre d’essere incinta e – supponiamo – ai suoi stessi occhi per il momento non è che la ragazza che era, con la differenza che farà un bambino, o avrà un figlio, o lo metterà al mondo. Contemporaneamente però comincia a pensare: “Diventerò mamma!”, ed entro un tempo che può variare da pochi istanti a qualche mese, è tutta presa dalla prospettiva della maternità. Se forze maggiori non interverranno a turbare il nuovo quadro esistenziale, ella forse rimarrà d’ora in poi anzitutto-mamma per il resto della vita. Le soggettità diverse in cui si era riconosciuta s’indeboliranno e alcune forse s’estingueranno o resteranno in ombra alla periferia del sentimento e del comportamento materni. Ora, la maternità può comportare un grande arricchimento della gamma soggettuale. Il figlio è la seconda persona – quando non la prima – nel sentimento materno del soggetto. La neo-mamma continua ad essere, benché non più al modo di prima, moglie figlia sorella zia nipote commessa conoscente cliente ecc., e alcune delle vecchie soggettità collaterali sono incise appena dall’arrivo della nuova. È possibile però che l’esser madre, soggettità tra le più forti, tramuti radicalmente tutte le altre e le assoggetti o addirittura le elimini drasticamente, perfino fisicamente. Così la donna, divenuta madre, cessa talora di esistere come lavoratrice, o viaggiatrice, o amica, o amante. Si legge così di casi in cui la donna non ce la fa ad abbandonare le sue precedenti soggettità. Insorgono spaventosi conflitti che le cronache raccontano. Un bimbo di pochi mesi annega in casa. Un incidente? No, sua madre lo ha affogato con le sue stesse mani. L’ha ammesso di fronte al giudice, ma non ricorda di aver voluto uccidere suo figlio. Le cronache riferiscono che la donna in passato aveva dato grande importanza alla sua immagine, contava sulla propria avvenenza, sognava un futuro come modella valletta velina… La gravidanza l’aveva un po’ sformata, come accade. Evidentemente il materno non era entrato in lei se non come deformazione e brutalità. Esso era rimasto, nel fondo dell’animo di lei, bruscamente destatasi dal sogno irrealizzato d’essere-per-apparire, un qualcosa d’intruso, un grumo alieno, un coso di cui disfarsi. Brutale per lei non è stato quell’usar violenza, ma l’oscuro sentimento di averla subita. L’oggettività di un infante, a pesarla per quel che è, rispetto ad altre del vivere quotidiano, è certo una delle più gravose. Chiunque l’abbia provata lo sa. Tuttavia essa (gravidanza, allattamento, pappe pianti pannolini ecc.) scompare quasi del tutto nella soggettità a cui l’amore parentale rivolge le sue attenzioni. Si aggiunge anzi un effetto aurale, per cui atti ed oggetti pertinenti o appartenenti al piccolo (stirare le sue camicine, cercare i suoi biscottini preferiti sullo scaffale del supermercato ecc.) al genitore felice sembrano vivi della vita stessa del piccolo e partecipi del suo essere. Ecco uno dei benefìci della trasducibilità interradicale. Per un soggetto un’oggettità quale che sia può trasdursi in soggettità e godere di molti dei ‘diritti’ cognitivi ed emotivi che il soggetto riconosce alla soggettività in genere e in particolare a quella che essa sente e riconosce come sua congenere. Si danno però altrettanto bene anche le altre trasduzioni, dato che l’irriducibilitàtrasducibilità vale sempre e ovunque, nonostante i vincoli applicati allo scopo di trattenere per quanto possibile nelle previste gamme di oscillazione i pre-concetti e i pre-oggetti a cui si è avvezzi. Nell’assecondare le esigenze e le evenienze le radicalità, ridotte e trasdotte, inclinano a disporsi secondo un modello coerente, un compromesso accettabile, costruito per fornire una soluzione rispondente. Si potrebbe obiettare che se c’è compromesso e rispondenza v’è implicato un agente intenzionale e che pertanto non siamo fuori dal presupposto, tipico della modernità, per il quale l’identità pensante e non altro sia all’origine del senso. In realtà l’obiezione focalizza l’errore della modernità (circa 1600-1900). Se con intenzionalità ci si riferisce alla dinamica mondo|mente|medio, cioè a quanto in questo libro chiamiamo essere al mondo e triradicalità, il termine sembra affatto obnubilante, in quanto pare attribuire alla mente retrostante l’intenzione una collocazione, per così dire, metafisica. Come se, sospesa a piacimento la continuità dell’essere al mondo, potesse prodursi, a partire dal solo soggetto intenzionante, la configurazione del che è e & che non è delle cose. Ciò equivale a confondere vita e pensiero. Se invece per intenzionalità s’intende non altri che il soggetto, che di volta in volta giudica desidera sceglie, qui essa è detta soggettità/soggettualità a seconda di come si manifesta nelle chiusure e aperture del sapereagire. Ma non è da intendersi con ciò ch’essa sola sia responsabile del ridurre e trasdurre: queste sono piuttosto evenienze, le quali presuppongono altrettanto bene oltre a un’inesauribile gamma di intenzionalità (attensione), un indeterminato ma correlato catalogo di presenze oggettuali (estensione) e un vastissimo repertorio mediale (intensione). Tali evenienze sorgono dall’intreccio delle tre radici e possono benissimo sottrarsi all’intenzionalità diretta (l’intelletto che fissa questo o quello). Sottrarsi per es. a causa di un imprevisto estremo, un incidente mortale. Le modalità stesse di una simile morte, benché sopra-evenienti da un non-c’entra, a partire da un’oggettità quanto mai irriducibile, entreranno a forza nell’io-fantasma dello scomparso, sopravvivente presso parenti e conoscenti. L’originario detentore di tale soggettività di tutto ciò non saprà nulla. Sopravvivrà in assenza e come ciò avverrà dipenderà anche dal fatto che l’interessato non potrà più intervenire, cosicché altri o altro (qualcosa che parrà o pretenderà rappresentarlo) avrà cura, a modo suo, di quel che sarà di lui. Occorre forse evocare Elisabeth, sorella maneggiona, tra le carte di Friedrich ormai demente? La trasfigurazione discrezionale di quel che siamo avviene anche in prossimità, all’ombra della più fresca e fraterna pietas, come sembra dirci Kafka chiudendo la Metamorfosi. Oppure potrebbe l’incidente, in questo caso una folgorazione, risparmiandoci poco più della nuda vita, tramutarci in tutt’altro soggetto, alieno al sé di prima, in un caso clinico emblematico: la memoria scompare e gran parte di noi con lei, sopraffatta da un’incolmabile musicofilia come riferisce O.Sachs [Musicophilia: Tales of Music and the Brain, 2007]. Naturalmente, la prima reazione a questi scenari è quella di considerarli estremi; ma a ben vedere quel che accade per l’irruzione di un incidente mortale può verificarsi anche in conseguenza di evenienze minori e perfino minime. Tutto dipende dall’intensità dell’interferire SOM/DOT. Nel labirinto triseminale le intenzioni sono pur esse cose, come tutto il resto, e disseminandosi mutuano aspetti dell’una o dell’altra radice. Appunto per ciò si può parlare di pre-paradigma universale, quando consideriamo non la disposizione relativa dei poli SOM nei singoli casi, ma la semplice assunzione della loro determinatezza. Nel pre-paradigma le seminalità si presumono determinabili, diventano poli dell’intendere; esse sono ridotte e tradotte perché corrispondano a un certo che è, computabile riferibile trasferibile. Quale che sia la sistemazione, il paradigma pre-stabilito è sempre SOMario, anche se soluzioni differenti comportano un diverso giostrare dei rapporti tra i poli. Indubbiamente, proprio a motivo di ciò che proviamo a dire, la maternità e il destino postumo di un individuo sono evenienze della vita troppo intimamente incerte per costruirci su un’esemplificazione districabile dell’essere al mondo. Consideriamo invece un caso apparentemente molto facile. Arthur possiede un album di foto di famiglia, cartaceo. Ma è un patito della digitalizzazione. Ultimamente ha scansionato tutti i negativi di quelle istantanee e li ha ristampati in digitale. Ad opera compiuta, realizzato un impeccabile DVD, l’album cartaceo non è più la stessa cosa di prima, è superato. Il DVD sostituisce in meglio le scolorite immagini su carta e consente dunque di eliminarle, salvando spazio sullo scaffale. Così l’album finisce in uno scatolone su in soffitta. Ora, è un’evenienza innegabile che l’album cartaceo, una volta realizzato il DVD, non sia più lo stesso di prima. Anzi, sappiamo con Benjamin che il cartaceo non è più lo stesso fin da quando si presenta la possibilità tecnica di digitalizzare le foto. Eppure, resta un bel numero di buone ragioni per non disfarsi del vecchio raccoglitore. Esso incarna una quantità di cose delle quali solo alcune (o forse nessuna, tranne il mero análogon) sono trapassate nel DVD. Secondo una prospettiva SOMaria (e banalmente significativa, o se si vuole scientifica) accade questo: il polo S (Arthur) resta il medesimo; M (lo specifico dei due media) confluisce in O e rimane in ombra, praticamente ignorato; O viene sostituito – prima l’album, poi il DVD – quest’ultimo ritenuto qualcosa di ‘meglio’. In complesso nulla del paradigma è posto in discussione. Esso prevede che le tecniche siano disponibili, che una persona se ne serva ai suoi scopi ecc. All’estremo opposto, nella visione DOTale, O (il supporto) viene sostituito con qualcos’altro, un’alterità tutt’altro che indifferente (una diversa sfogliabilità portabilità replicabilità), già essa pronuba di nuovi sensi molto distanti e imprevedibili; M (l’insieme delle modalità espressivo-comunicative consentite dal mezzo) è mutato drasticamente. Di come le foto dell’album raffiguravano nulla è conservato: la leggibilità la presentabilità la manipolabilità il dettaglio dell’informazione caratterizzano il DVD come qualcosa di assolutamente diverso che rende non si può che dire DVDiano tutto quel che incorpora. Quanto a S (Arthur), senza forse rendersene conto è già cambiato anch’egli già prima di terminare il DVD. L’osservatore tendenzialmente passivo delle foto incollate all’album s’è tramutato in ri-vivificatore di quelle-non-più-quelle immagini: digitalizzandole ha potuto osservarne i minimi dettagli, le ha vissute come tutt’altro rispetto a quel che credeva fossero e nel ricrearle si è profondamente ricreato. Nell’esperienza triradicale basta un niente perché pressoché tutto l’essere al mondo ne esca sovvertito. Ovvio che questo succeda piuttosto di rado nell’esistenza degli individui. Si parla in tali casi di conversione o rinascita, con intonazione mistico-religiosa, tanto rilutta l’e.u. a considerare normalmente accettabile il sovvertimento dell’ordine seminale, contro cui accampa le rigide difese dei suoi mondi adibiti. Ma va ridetto anche questo, che altrettanto rara è la definitiva accettazione del tutto supina di un paradigma di comodo. Qualcosa è sempre sul punto di sottrarsi allo schema, la vita è comunque energia, esige un’escursione termica. Quel che risultano di fatto i non so cosa nell’essere al mondo così com’è vissuto – se nel loro prodursi diventano quasi-definitamente S oppure O oppure M, aspetti pressoché rigidi e pre-fissati di un determinato che è, o se invece possono rimanere seminalità irriducibili-trasducibili di comprensione del che è & che non è delle cose, fluidamente vissuti – ebbene questo è precisamente il punto sempre in discussione nella partita dell’esistenza. Pro-schematica [↑] Da dove parli? Più diventa impegnativo accoglierla, più mi si chiede dove ho trovato questo anzitutto che indico con DOT. Da dove parli? Torniamo a questa ch’è la domanda del Novecento. Sua tipica non perché l’abbia esaurita, ma perché da essa più che da ogni altra è rifuggito, fino all’estromissione del soggetto, affinché smettesse di porla. Da dove mi chiedi da dove parlo? Da quali presunte ubiquità ci parliamo? Una sola risposta passabile: Da uno qualsiasi degli infiniti luoghi (banni) dell’universo SOMario, tutti equivalenti. L’altra risposta (Ti parlo dal darsi originario stesso) sarebbe una balla, per il fatto che dal relativo assoluto non si può parlare con pretesa di stabilire alcunché non essendovi là, per presupposto, alcun ubi consistam… a meno che quel parlare da non si dichiari subito triradicalmente irriducibile-trasducibile, nel qual caso dice senza dubbio il vero, ma solo in quanto cita il luogo di ogni possibile vero & non-vero. Quanto ai banni SOM, essi si equivalgono perché pre-determinano un ordine del reale che funge da puszta per le scorribande di un sapere che si auto-postula assoluto. Occorre aggiungere che la forma dell’assoluto varia: può includere senz’altro zone anche ampie di relativo, come quando si pre-determina da un lato ciò che è fuori discussione e dall’altro, con altrettanta convinzione, ciò che è da rivedere, ciò per cui è urgente battersi, ciò che è prospettivo o prospiciente o suspicabile ecc. Questo però ci conferma che l’unico assoluto disponibile è di tipo contemplativo-ideale, una lizza per le giostre locali. Pertanto il DOT, benché in gioco ovunque, non si dimostra: in ogni nostro pensare fare dire procediamo discostandocene; e quand’anche ci proponessimo a partire dalle distinzioni di ricostruire l’intero, il risultato non potrebbe che essere com-prensivo in relazione a un afferrabile, e pertanto succedaneo rispetto al darsi originario. Paradossalmente, per comprendere la sindrome dell’essere al mondo dovremmo perderci totalmente come soggettità e scomparire nel composito originario, nell’ápeiron immanente da cui proveniamo, in cui viviamo e siamo. Ci è già stato chiarito però, per es. dalla logica matematica del primo Novecento, che un elemento non può trattenere l’insieme a cui appartiene. Quando tenta di farlo incorre in contraddizioni rivelatrici. Questa impasse, che riguarda i sistemi logico-simbolici, pre-condiziona l’origine di tutti i sistemi possibili. Se non è dato comprenderlo, il darsi triseminale si può perlomeno intuire o abdurre. Questi procedimenti (abduzione, intuizione) offrono poche garanzie epistemologiche. Ma ragioniamo all’inverso e diciamo: una verità definita non è qui quello che cerchiamo. Quand’anche per incanto sparissero le note difficoltà (percorse in lungo e in largo dall’epistemologia recente) ad acquisire un qualsiasi vero, il vero che acquisiremmo non potrebbe che essere interno alla sindrome. Un vero qualsiasi è un rappresentarsi rapporti tra cose (analisi interne a una logica, sintesi concernenti un mondo, quidditates di un olos quineano… non fa gran differenza), un definirli, un esprimerli ecc. Dunque, perché vi sia la possibilità del vero (così come del falso e del dubbio, del semplice e del complesso, della libertà e della necessità, ecc.), la sindrome dev’essere già data (un chi, un cosa, un mediante che). Chiamo allora ‘darsi’ questa sindrome, stando attento a dire col nome quello solo, il suo ‘esser data’, che di essa so indubitabilmente. Se noi possiamo essere al mondo, questo poter essere è dato fin dall’origine non solo di noi come individui, ma anche, a maggior ragione, del noi, di ogni noi io tu. Ossia, come già sappiamo, non c’è alcun noi, alcun mondo, alcun senso prima che tutto co-sussista insieme e sia già attivo il vivere. Il darsi triseminale è originario per il fatto che, prima che esso sia appunto dato, nulla è al mondo. Del darsi originario, irriducibile-trasducibile, non ci possiamo dunque occupare direttamente se non di fatto vivendolo. Come dire che, non che noi occuparci di lui, esso piuttosto ci pre-occupa. Nel DOT l’apertura onnilaterale, l’intreccio mobile delle relazioni tra esistenza volontà intelligenza attensione, energia materia corpo estensione, senso segno intensione ecc. contrasta e contraddice fin dall’inizio qualsiasi comprendere integro. Ci troviamo pertanto nel che è & che non è, in una pienezza in- & onnidifferenziata, satura di ogni possibilità di pensiero, evento, messaggio. Dati & non-dati [↑] Di fatto, chi|cosa|mediante che si co-istruiranno in un qualsiasi atto di vita le funzioni soggettuale oggettuale mediale è praticamente indeterminabile. Montaigne si chiedeva se fosse davvero lui a trastullarsi con la sua gatta o non piuttosto lei a darsi bel tempo con lui. Naturalmente potremmo decidere, per stabilire fuor d’ogni dubbio uno stato di cose, di far noi da trastullo alla nostra gatta. Pare un ripiego poco dignitoso, ma funziona. Se non so bene chi sono, mi metto in costume, uno qualsiasi, ed eccomi Pulcinella o Pantalone, come mi pare. Analogamente, nelle disposizioni di sicurezza, proprio per non restar vittime di soggettità vicariate da oggetti, si pre-determina, con simulazioni apposite, che in caso di evacuazione dell’edificio non sia contemplato il salvataggio di alcuna identità traslata – i documenti il cellulare il portatile le foto dei nostri cari – cose altrimenti sentite come parte di noi, ma sia posto in salvo l’essenziale, la cosa-io in carne e ossa. Si ritiene opportuno sospendere la triseminalità per dare spazio alla conservazione dell’oggettità corporea dell’essere. Questo è ciò che la normativa pre-dispone. Ma come andrà poi davvero in caso di allarme? Reggerò allo strazio di veder le fiamme lambire il mio palmare? Tornerò indietro, rischiando la vita, per recuperarlo? La perderò per mettere in salvo Del che è & che non è? Diverranno questo saggio e il suo autore fugace argomento di cronaca solo in grazia di quell’incauto sacrificio? Chi può prevederlo? Non solo è difficilmente prevedibile il chi/cosa sarà, ma anche il chi/cosa è stato è inconoscibile, a meno che non si circoscriva l’orizzonte, determinando (prescrivendo ammettendo escludendo ignorando) quale chi, quale gamma di che e quali linguaggi. Va gettata via al tempo stesso, l’abbiamo già notato, l’ultima consapevolezza di quel determinare, poiché essa impedirebbe la circoscrizione d’orizzonte (nessuno può prendere la sua gabbia per il ‘mondo’ finché vede le sbarre e qualcosa al di là). L’io non sa di sé se di qui a un giorno sarà lo stesso io che era ieri, nel poli-sistema di relazioni vigente. E tanto peggio se il suo sentimento d’identità non registrerà alcuna incrinatura, delle quali solitamente s’accorge tempo dopo o addirittura mai. Va detto però che gli ee.uu. nel loro vivere spontaneo ed usuale mostrano con ogni evidenza di sapersi muovere nella maggior parte delle attività in costante ed attenta dialettica tra il fattuale e il congetturale, tra gli estremi delle relazioni consolidate e del mutamento improvviso, tra la varietà dei mondi ad hoc e l’unica datità originaria. Il buon senso – “la chose du monde la mieux partagée” – consiste giusto in questo, nel saper intrecciare opportunamente gli approcci SOMario e DOTale, evitando sia d’inchiodarsi sul primo, sia di perdersi nel secondo. Le cose, per chi sappia condursi secondo il comune metro di saggezza, sono in parte e in una certa misura fatti, in parte e in una certa misura supposizioni (potremmo dire congetture popperiane) continuamente riesaminate alla luce delle esperienze e delle molte razionalità concomitanti. In effetti – come dicevamo – ciò che non è affatto in discussione non è più neppure una cosa. Il puro dato è il limite infimo della cosa. Confuso nello sfondo indifferente, ciò che è del tutto dato scompare di fatto alla percezione e in qualche modo, pur continuando a darsi, cessa d’essere al mondo. Per gran parte della nostra vita reni retine neuroni, se funzionano a dovere, mancano all’esistere; ciò precisamente perché non è in discussione che siano al loro posto e funzionino. Ce ne scordiamo o ne ignoriamo addirittura il darsi di fatto come organi del nostro corpo connessi a certe funzioni. Lo stesso accade al livello dell’olio nel motore della nostra auto. L’officina se ne occupa al momento del tagliando. Chi cambia l’auto di frequente può perfino ignorare che vi sia dell’olio nel motore, benché senza di esso il veicolo non possa muoversi. Qualcun altro dovrà pur saperlo, evidentemente, ed è la ragione per cui le cose sono sempre in attesa: sono sempre tali per qualcuno, in relazione ad altre e in qualche senso. Un effetto analogo si ha nella comunicazione, come abbiamo visto con Austin. Una constatazione (o giudizio) non ha ragion d’essere, se niente è in discussione di ciò che ad essa è ritenuto contestualmente connesso o collegabile. Una constatazione pura e semplice è un’allucinazione dell’intelligenza, desta sorpresa tra gli astanti. È di gran lunga meno frequente di un errore di sintassi. Invero, se dessimo spazio a constatazioni pure di tal genere, pensare e comunicare diventerebbero immediatamente così intrisi di inezie da rischiare la più completa ottusità. Ciò che caratterizza le cose (il mondo a cui l’essere) è sempre il loro essere in sospeso, date & non-date, sia in se stesse sia in relazione al complesso per cui nel vivere son poste in essere. Le cose non esistono se non come che è & che non è. Si ri-presentano ogni volta che s’accende una qualsiasi domanda inquietudine esigenza pretesa velleità ecc. implicante il loro essere (o non esser) date come oggettità soggettità medianti, o meglio come intrico dei tre. Per questo le cose difficilmente si spengono del tutto. Senza alcun dubbio, per reggere la nostra stessa complessità noi d’abitudine ne poniamo molte temporaneamente fuori discussione. A questo risultato è pervenuto, nell’ambizioso distretto dell’epistemologia (da P. Duhem a I. Làkatos), anche il dibattito intorno alla logica della ricerca: gli scienziati cooperano e si confrontano necessariamente sulla base di un fondo comune di credenze provvisoriamente e per comune accordo fuori discussione. L’e.u. si configura a partire da una accumulazione primaria di esperienze, le più stabili delle quali divengono dati di fatto, su cui egli conta per liberare quote d’attenzione e di intenzione. Potrà così volgersi all’area dell’impreciso e dell’indeciso, prestandosi ad ulteriori attenzioni che si presentano più incerte e problematiche. Idoleggiare il mutamento, dimenticando quanto della vita dipenda dalla continuità e dalla conservazione, o viceversa attenersi supinamente al pre-stabilito, trascurando la funzione continua della riconsiderazione e della congettura progettuale, sono due opposti reati contro l’essere al mondo. A questo punto, se di materia tanto intricata, che ben poco si presta a schematizzazioni, mi si consente, per ricapitolare, di delineare una pro-schematica provvisoria, presenterei la tabella in appendice. Per quanto di fatto diversamente articolata, appunto, da persona a persona, una pro-schematica dell’essere al mondo non può mancare di cogliere, se davvero realizza una buona contemperanza tra datità originaria e pre-paradigma, un primo elementare intreccio di pro-categorie DOT/SOM, spendibili all’intersezione delle sfere dell’esistere. All’origine e alla fine di tutto non c’è altro che essere al mondo. Non si dà né essere (esistere) separato, né mondo a sé, né mediante alcuno al di fuori di tale sindrome (secondo l’etimo, ‘con-correnza’, aspetti concomitanti). Il resto, in particolare gli ee.uu. con le loro costruzioni e i loro comportamenti, ne deriva & ne devìa. Ogni via è deviazione, ogni metodo dirotta fin dal principio. L’intero non è resultato, ma premessa; un risultato porta sempre con sé una devianza. L’essere al mondo potrebbe paragonarsi a un concepimento a tre sessi X Y Z. Ma in un’ipotetica riproduzione trigamica ogni individuo X, Y o Z sarebbe preceduto dal suo concepimento parimenti trisessuato. La loro complementarità biologica dunque implicherebbe non-indifferenza non-ostilità non-negazione reciproca. Nell’e.u. invece le tre seminalità danno luogo, del tutto naturalmente, sia alla concordia discorde del che è & che non è, sia alla dis-integrazione (fenomenica mentale linguistica operativa ecc.) del che è dal che non è. Per questo dalla seconda riga lo schema procede bipartito. La rottura dell’unità è peraltro inevitabile: quando in una relazione s’introduce l’interesse (la singolarità pensante, il punto di vista) l’integrità del rapporto s’incrina nel momento stesso in cui un tal rapporto si configura (prima non v’era rapporto, ma poco più che azione/reazione ed inerzia). L’e.u. introduce appunto l’inter-esse di parte nel sistema della vita. S’appropria non di una sola radice, quella soggettiva, come invero ama credere, ma di tutte tre, perché come coscienza è in grado di farsi il mondo che più gli piace, costruendo e demolendo oggettità, soggettità e medianti a discrezione. Immediatamente l’essere al mondo presenta dunque nell’e.u. un aspetto bifronte. È un poter-vivere o un trovarsi-a-vivere sia secondo il darsi originario, sia secondo l’una o l’altra variante di un medesimo pre-paradigma. Nelle piccole cose solitamente le due modalità competono più o meno alla pari. Sono infatti entrambe indispensabili alla sopravvivenza fisica e psichica dell’essere [al mondo], il quale possedendo coscienza riflessivo-distintiva e autocoscienza non può semplicemente stare al mondo. E poiché egli può distinguere, categorizza in più modi: secondo quantità qualità relazione causa ecc., secondo uso legge dovere appartenenza felicità ecc., secondo piacere utilità bellezza e via dicendo. L’essere ama forgiare/foggiare a piacimento categorie utili solide definitive, onde allontanarsi dalla condizione in cui è venuto al mondo, sostituendola con una condizione artificiale, manufatta: questo sognano gli ee.uu. che tuttavia non possono sopravvivere al di fuori della loro ‘patologia’ e nel categorizzare riproducono costantemente, più o meno separate strappate travestite ricucite, le seminalità originarie. La triseminalità pertanto deve intendersi necessariamente accompagnata, nell’esperienza dell’essere, dalla sua antitesi, il pre-paradigma; insieme forniscono l’unica pro-risposta, non-solutiva e non-contemplativa, la prima e generale risposta a qualsivoglia domanda. In seguito alla quale, uno dei vantaggi, invero non da poco, è la pro-comprensione di tutte le domande costruite su impianto SOMario, tra cui le famose questioni metafisiche. Passioni millenarie come l’essere e l’esistere, dio e io, anima e mondo, logica e linguaggio, metodo e scienza, semplicità e complessità ecc. cedono i loro significati forti, pre-assunti nei vari paradigmi, la loro impellenza esclusiva. Infine, dal tutto-e-nulla dei tanti mondi possibili, dal che è & che non è delle cose, l’essere al mondo emerge (per il momento) come il rapportarsi di tre sub-totalità indecidibili (ŦS&ŦO&ŦM, cioè soggettualità oggettualità medialità) tanto vicendevolmente equivoche quanto indubitabili, e nondimeno a modo loro, nella relatività trireciproca, assolutamente vere. In quali figure tale verità caso per caso si presenti non è dato sapere, finché l’evenienza non stabilisce in che consiste il loro esser sapute. Ora, precisamente questo ‘stabilire in che consiste’ cambia le carte in tavola. Le tre sub-totalità, indeterminate e quindi ingestibili nel loro essere & non-essere, sono scambiate, non appena possibile, con le rispettive controfigure stabili SOM. L’angoscia esistenziale [↑] Si tratta quindi di vedere se, in come siamo al mondo (pensando facendo comunicando ecc.), teniamo in debito conto questa datità tri-funzionale aperta, o se invece, prescrivendo un po’ troppo precisi confini SOMarî, non la riduciamo drasticamente a qualcos’altro. Certamente la dinamica DOT/SOM (ovvero, nella sua resa migliore, senso/significato) esige quotidianamente un’impegnativa concertazione di contrari concorrenti. D’altra parte pare difficile negare che intorno a tale composizione gli ee.uu. si sappiano destreggiare, per solito, alquanto abilmente – tranne quando si lasciano condizionare dal bisogno di stabilire mondi ad hoc rispondenti. Come dire che la condizione esistenziale dell’e.u. non si presenta, in se stessa, né comica né tragica, né tranquillizzante né angosciosa, bensì solo e semplicemente aperta ad ogni possibile soffermarsi. Intesa non-nichilisticamente come possibilità (Abbagnano), l’esistenza è disponibile, come un lenzuolo, a ogni piegatura. Le implicazioni del vivere sono tante quante le combinazioni di ŦS ŦO ŦM. Potenzialmente infinite, se non intervengono atti d’imposizione ideotica. Lo schema da un lato colloca pertanto il che è & che non è da cui sorgono insieme la totalità delle determinatezze possibili e l’indeterminatezza globale che non consente di fissare stabilmente alcunché, ma interroga instancabilmente; dal lato opposto pone il che è (o il suo equivalente negativo), che permette di fissare qualsiasi cosa come pare e piace, purché le seminalità originarie siano sostituite da polarità fisse, maschere e copioni del teatro dell’ordine. Le seminalità si danno invece ovunque e comunque, pronte a legarsi nell’attimo vissuto. Così l’irriducibile darsi oggettuale carica l’essere al mondo di innumerevoli possibilità ed altrettanti limiti, che non sono i limiti e le possibilità caratteristici del darsi soggettuale. Lo stesso vale per le altre reciprocità, talché le tre irriducibilità generano, rapportandosi, campi di forze indeterminati e interferenze mobilissime di cui non può essere esibito né il pensiero (il puro soggettuale) né l’accaduto (il puro oggettuale) né il messaggio (il puro mediale). Per ciò il pensiero che pretende comprendere, costretto a ripiegare, si volge alla contemplazione soddisfacente. È pur vero, d’altra parte, che delle tre irriducibilità non v’è impiego possibile, se non come mera corrente vitale, dato che tutto ciò con cui gli ee.uu. ragionano è per forza frammento, ridotto e fissato in cosa dei loro mondi significativa. Il che – mi si passi la digressione – risolve la pseudo-angoscia dell’esistenzialista. Il quale sembra ribellarsi, in fin dei conti, al che è & che non è delle cose, quasi esso fosse tenuto a sottostare ai nostri patemi. O forse il discorso da farsi è diverso. Gli esistenzialismi novecenteschi sono stati filosofia di chi, tra gli epigoni della modernità, sentendo oscuramente quanto fosse minaccioso per la sopravvivenza del soggetto, inteso ormai come me preoccupante, come moi défaillant, ammettere l’in?definitezza triradicale, ha giocato l’angoscia come ultima carta del mascheramento metafisico del darsi originario. Rileggiamo qualche pagina di Cioran (prescindendo del tutto da quanto si è poi saputo della sua fascinazione giovanile per Spengler, Nietzsche, Heidegger, Hitler, Codreanu... e dalla sua incredibile auto- sconfessione in mezza riga: “le bonheur n'est pas fait pour les livres” [Cfr. «Cioran», Cahier de l’Herne, dirigé Esaminiamo il procedimento magistrale che egli mette in atto al fine di voltare il nihilismo come fosse un’architettura di culto, una cattedrale cieca dedicata alla Disfatta. La lettera del testo ripete più o meno che (sintetizzo): questo esistere è peggio che niente, è la beffa di ogni speranza, il mondo è incongruenza, la vita vanitas, calamitas! Ma l’orrore è apparente, la geremiade è surrettizia, una ghirlanda di margherite plumbee infilate per accontentare chi se ne compiace, l’autore per primo. Lo spirito dice nel profondo: La cosa mi diverte! Dire lo sconforto mi soddisfa, disperarmi mi realizza. Ed è questo orrido budello il mio bello, il mio buono, il mio vero! Ora, ci chiediamo, come riesce il celebre pessimista a trar fuori dal suo nero cilindro la soddisfazione? Quali i passi di un siffatto rovesciamento: dal male di vivere alla degustazione del disgusto? Cosa fa sì che un précis de décomposition diventi la camera oscura dove un précieux de la composition sviluppa i suoi colori? Lascio stare le interpretazioni psicanalitiche: che la sublimazione non è mai definitiva, ma un va et vient alla e dalla libido; ciò potrebbe riguardare soltanto la fisiologia dell’autore senza intridere il testo – esattamente come Balzac beve litri di caffè nelle sue lunghe notti, senza che i suoi romanzi ne sappiano particolarmente. Vediamo invece sotto l’aspetto formale come in Cioran l’orazione sulla vanità della soggettualità, si traduce in una prosopopea della soggettità. La strategia preferita di V.Hugo, l’antitesi drammatica, è ancora l’arma preferita: “Philosophie et prostitution” [Précis de décomposition, 1949, Gallimard nrf-idées n.94, p.110], “L’arrogance de la prière” [p.121]. Cioran ne fa un uso sistematico. Perché si dia una catastrofe è indipensabile che il magma delle forze agenti si scombini in opposti estremi, in polarità, l’una abisso all’altra. Ma questo è solo l’inizio, le braccia tese hanno allontanato i due piatti, nessun fragore è stato prodotto. L’annichilimento sopravviene quando i due dischi s’abbattono l’uno contro l’altro, quando l’antitesi crolla su se stessa: La fille publique… académie ambulante de lucidité… elle propose a l’esprit un modèle de comportement qui rivalise avec celui de sages. [p.110] Et comment la modestie serait-elle une vertu des temples, alors qu’une vieille décrépite qui s’imagine l’Infini à sa portée, s’élève par la prière à un niveau d’audace auquel nul tyran n’a jamais prétendu. [p.111] Cioran, in breve, ultimo della fila nel lungo decadimento del cartesianesimo. Il perno è sempre l’ego, il suo smarrimento. Anche Descartes ha perso fiducia nel suo primo ego intellettuale, scolastico, è deluso non di ciò che gli era stato promesso, quella cultura solidamente fondata che anzi egli esige, ma di quanta sostanza non ha ricevuto. Cerca res. Con movimento opposto ma analogo, il nihilo-esistenzialista si crogiola di fronte all’evidenza che nulla è promesso. Del che è & che non è egli evita accuratamente le placide ragioni che gli impedirebbero l’antitesi e il corrusco sfavillìo della sconfitta e del connesso furore. Spera che non vi sia speranza, per dissolutamente disperarsi. Perciò la decomposizione deve precisarsi. L’aleatorietà dell’esito non è consentita. Cioran commette Précis de décomposition (quasi fosse un crimine dovuto) all’intersezione di quattro moventi di cui tre consci: il movente nihilo-esistenziale (la conscience du malheur, la vie sans objet), il movente retoideotico (suprématie de l’adjectif, la pensée interjective), il movente negativo-metafisico (la gamme du vide, le mensonge immanent). Un quarto movente rimane in ombra per troppa luce: sostituire al vuoto post-kierkegaardiano, all’estetico impuro della soggettità che ha risucchiato in un vacuum di angoscia anche l’etico e il religioso, onde la vita è ora senza stadî, l’estetico puro della poïesis letteraria: Qu’à jamais soit maudite l’étoile sous laquelle je suis né, qu’aucun ciel ne veuille la protéger, qu’elle s’effrite dans l’espace comme une poussière sans honneur! [p.245] In fuga dall’oggetto e dal soggetto, all’autore ch’è ormai di stanza su un cornicione rococò in pose suicide non resta che ostentare il mezzo. Metastasio dell’abdicazione e dello scacco, Cioran vuol persuaderci della cupa sincerità del suo dramma. Noi però sentiamo che il mezzo, occupato lo scranno sgombrato dai vecchi assoluti, procede come quelli – nell’alveo del pre-paradigma – alla subordinazione delle altre seminalità. Se un tempo l’Oggetto (o il Soggetto) assoluto assorbiva in sé la libertà della parola, ora un Paroliere assoluto priva della libertà il soggetto e l’oggetto, pretende di plasmare e il mondo e l’essere. Lo scopo è il medesimo, preservare il pre-paradigma intatto perché i proprî mondi adibiti restino non solo possibili ma veri. E non è intenzionale. Il fine precede l’autore. Si pre-costituisce in lui come un entero-orizzonte. Fa parte del genoma storico che si serve di noi per riprodursi. Gli estimatori di Cioran dunque non me ne vogliano. Il Précis è un gran libro e non ha più colpe o meriti (dipende dalla visione del mondo del lettore) di quante ne possano avere Les aventures de Télémaque o Quatre-vingt-treize. Dico che, se il pre-paradigma SOMario fosse una buona volta squadernato, nessuno più potrebbe disconoscerlo, tantomeno continuare a scrivere dall’interno di esso, se non come par L.Tacou et V.Piednoir, 2009, ISBN: 9782851971616]). divertissement (come Queneau fa con gli stili) Al pari di una mitologia decaduta, esso diventerebbe metafora di qualcos’altro, o materiale per la cartoonistica post-disneyana (due o tre Shrek sulla storia delle idee farebbero al caso). Il pre-paradigma smontato sopravvivrebbe come suggestivo stimolante esilarante museo di tutte le antiche e recenti (di)versioni del mondo. Sentiremo la storia della filosofia come un canto, lascito di aedi; ce ne diletteremo, come dei Feaci e dei Proci, di “Dolon spedito e snello” e di Orlando innamorato. Sarà essa l’argomento del nostro thauma, anch’esso ormai metaforico. E invece il pre-paradigma è ancora solidissimo, avviluppa il nostro mondo intellettuale con la sua monotona varietà. Evenienza [↑] Un’ingannevole facilità riduttiva pre-giudica le relazioni tra le radicalità originarie: tutto nel DOT essendo fluido, la coscienza può stabilire rapporti come crede, gerarchizzando interpretando logicizzando dialettizzando ecc. a piacimento. L’acqua si presta così bene al bicchiere che diventa un bicchier d’acqua. L’essere, assurto alla consapevolezza di sé, è in grado di manifestare a se stesso bisogni d’intelligenza per soddisfare i quali non esiterà a manipolare ordinare vincolare entro schemi rigidi il DOT imprigionandolo. La parte sinistra della tabella tocca quindi gli effetti della riduzione forzata delle funzioni originarie. La forza riducente è applicata per costringere queste ultime a comporsi in questa o quella schematica. Osserviamo cosa succede quando si dà un evento. Noi, a cui l’oggetto si dà, cosalizzandosi così e così in base a una certa gamma di apprensioni o pre-giudizi o presunte esperienze schiette, siamo a nostra volta dati, a partire dalla cosa, come soggetti che ne sono occupati per qualche aspetto e sotto qualche riguardo. Noi foggiamo il mondo della cosa ed essa costituendosi per noi contribuisce a plasmare il nostro essere ad essa. Se l’equilibrio del rapporto non frangesse, come il flutto contro lo scoglio, sia a noi sia alla cosa toccherebbe l’indefinito ondeggiare, l’andamento “trouble et chancelant” di cui sa parlarci Montaigne [Essais, III.2], il rinvio reciproco senza scampo. Senza contare che questa relazione non è affatto bipolare, come solitamente per semplicità si è ritenuto (esemplarmente, ad es., in Kant e in Fichte, ma anche in Hegel, dove la triade dialettica è centrata sul negativo razionale, cioè sulla contraddizione tra in sé e per sé, e sul suo pre-ordinato superamento), ma appunto trigenetica (una dialettica a tre capi, enneadica, non superabile per il fatto che ogni sintesi sfocia in nove diverse contraddizioni, quindi nel per altro). Analogamente nel DOT tutto sta per tutto, poiché la radice mediale (lo stare per), sempre ed ovunque efficiente (irriducibile-trasducibile), concorre anch’essa senza sosta a costruire e distruggere possibilità infinite di senso. Il contenitore di tali possibilità sarebbe una sorta di ipergioco o dis-play in?determinato che si svolga, se così posso dire, con senza ogni regola alcuna. L’ipergioco triradicale si oppone dunque in tutto e per tutto al gioco ordinario (wittgensteiniano) che per svolgersi abbisogna di un campo assodato, ossia di un’intesa preliminare. Infatti non c’è gioco ordinario senza una preventiva fissazione di cosa è segno di che, di chi è soggetto di quali competenze ed obblighi e comportamenti attesi, di che cosa è parte del gioco e di cosa non lo è. L’ideazione come un gioco regolato tende a fornire anch’essa vie di fuga dall’in?determinatezza del che è & che non è, lungo le quali la triseminalità si riduce alle tre polarità del pre-paradigma, ipostasi funzionali inter-rapportantisi secondo una disposizione giudicata risolutiva. Di qui per esempio la convinzione, presso alcuni esperti di intelligenza artificiale (IA), della possibilità che un computer emuli la mente umana. Ma l’attività mentale che essi hanno in mente è quella che idea in base a fissazioni preordinate, non certo l’unica, né la più alta. All’IA, per ora, manca la triseminalità, entro la cui irriducibilità-trasducibilità onni-aperta la mente umana, pur inclinando nelle sue costruzioni (non esclusa la stessa IA) alla retoideotica, sa certamente muoversi. E lo sa fare, per solito, con notevole agilità. Computer cento volte più potenti di quelli odierni saranno disponibili, a quanto si dice, tra pochi anni. Conterranno (quindi, in qualche modo, capiranno) un intero cervello umano. Vedremo allora se si capaciteranno di/dell’essere al mondo. Certo è che per giungere a tanto tali macchine dovranno essere costruite non per veicolare una significatività prestabilita, ma per vivere: libere non solo di giocare significati entro i limiti di un paradigma predisposto dal costruttore dentro la loro (se loro può dirsi) plastica, ma anche e soprattutto di uscire dal paradigma pre-inciso nel software e scegliere quali sensi darsi. L’abissale distanza ontologica tra IA e darsi triseminale non ci impedisce di notare che quest’ultimo, considerato nella sua in?definitezza onni-inclusiva, resterebbe fuori dall’essere al mondo, confinato in una sorta di aldilà immanente e incombente, se non si facesse vivo ogni momento nelle cose stesse come soggetto oggetto medio. Su questo punto Hegel ha visto giusto: il che è sprigiona dal punto di frizione tra finito e infinito. Solo, il Che è hegeliano, lo Spirito, assorbe nell’in sé e per sé le altre seminalità onde sfuggire all’assoluto relativo anteposto dal DOT, nel quale non può darsi alcun in sé e per sé decifrabile, ma sempre e solo il per altro. Ne segue che le evenienze della triseminalità non conducono necessariamente all’oggettivazione (alla Storia). Questa tende all’ideologico (alienazione), quelle volgono all’ideal-concettuale, ovvero al nebuloso confine tra contrazione e dispiegamento dell’essere al mondo. Perché l’oggettivazione abbia corso, il soggetto deve aver già vissuto un’individuazione originaria. E il primo venir al mondo è un concretarsi anzitutto di funzioni che nei corpi nidificano perché soggetti oggetti segni possano reciprocamente rapportarsi. Resta che le tre seminalità cedono necessariamente, in ogni evenienza, una quota d’in?determinatezza, per acquisire una quota di esistenza. Ciò dipende da quale mondo l’essere incontra e da come gli si rivolge o ne parla. Dipende ugualmente da quale essere il mondo incontra. Si pensi al nostro mondo (Terra, Gaia) che ha incontrato, a suo tempo, i grandi sauri, i quali poi tanto terribili non risultarono, e molto tempo dopo Homo sapiens sapiens, che è quasi riuscito a distruggerlo. Dipende infine dall’alea di sensatezza che investe le cose, ma anche dall’area di cose disponibili al senso. Un ambiente dalla vegetazione tutta e solo flottante non consentirebbe metafore ‘radicali’ o vi assumerebbero un aspetto fantascientifico o paradossale. Separatamente presi, né il solo darsi originario, con tutta la sua implacabile in?determinatezza, né il solo pensare SOMario, che rappresenta finitamente mondo mente mediante, così da corrispondere alle esigenze dell’uno o dell’altro guardiano di turno (scriba bramino rabbino mandarino, aristocratico greco in declino, vir bonus dicendi peritus, epíscopos presbiter magister, accademico fiorentino o Royal, via via fino all’ubiquo Ph.D. dei tempi recenti – ma il baccelliere era topico già in Cervantes) rispondono al bisogno primario di concetti per il sapere-agire. L’e.u. tale è divenuto quando s’è posto come essere che comprende. Ma, quando per qualche via raggiunge un certo capire, egli diventa parte di ciò che ha compreso, quindi prodotto di sé. Producendosi si definisce, si riduce da sé a quel che ritiene di essere o dover essere. Nel vivere l’e.u. si confronta ogni momento con una duplice evidenza: da un lato, molte situazioni si ripetono stabilmente ed è quindi cosa buona averle inquadrate; dall’altro, c’è sempre qualcosa di nuovo, (non) bisogna lasciarsi sorprendere. La persona accorta miscela opportunamente risposte abitudinarie, curiosità indagatrice, ipotesi in prova, prudenti tentativi, qualche calcolato azzardo… In tutto ciò si muove tra definizione e indefinitezza, tra paradigma (anche più d’uno) e DOT. Spezzare lo schema predisposto per adottarne uno ben diverso, aprirsi con coraggio alla multiforme fortuna dell’essere al mondo è approccio tipico di chi nutre sensibilità per il che cos’è delle cose così com’è offerto nel darsi originario, sprovveduto di definizioni e di certezze. Al meglio della sua phrónesis naturale l’e.u. costruisce flessibilmente il suo comportamento e lo flette costruttivamente, così da tenerlo saldamente in forse, pronto alle evenienze vitali. Assumendo per immutabile uno schema generale di relazioni si disattende quell’esigenza di flessibilità che salva la vita. Un paradigma pre-costituito mi serve solo o in quanto un artificio lo giustifica (p.es. una certa architettura politica), o in quanto semplicemente mi piego ad esso. Se non mi piego lo sfascio. Devo quindi io attagliarmici, Procuste di me stesso. Ogni precostituire ignora il mondo com’è, giacché non c’è un mondo, ma un’in?definità, se così si può dire, di mondi. Non occorre uscire dal sistema solare per trovare infiniti mondi. Il nostro è già abbastanza in? finito. Poiché dell’Infinito non possiamo fruire, dell’in?finito invece tutti i momenti, quest’ultimo s’avvicina molto più dell’altro ai nostri veri interessi. Avviene nell’ideare, con grande facilità, un rovesciamento dei bisogni, perché l’Infinito con la sua gratuita inattingibilità permette i più diversi giochi della contemplazione, gratificando la razionalità immatura, laddove l’in?finito, che per la sua costitutiva incompletezza assilla la mente, diventa un tormento di cui quanto prima liberarsi. Cosa a cui appunto provvedono le escogitazioni dell’intelligenza ideotica. Il vantaggio è enorme: tutto o è interno all’orizzonte dato, alla definizione del che è prescelta, o non è. La soddisfazione è impostata su regole chiare: hai voglia di un mondo qualsiasi? Adottalo. Un ordine logico-ontologico (semiotico-semantico, formal-contenutistico) puoi configurarlo senza troppa fatica. Certo, non essendo un Creatore con la maiuscola, passerai il resto del tuo tempo a quadrarne i dettagli; ma l’ossatura è quel che conta e, se vuoi, anche tu puoi definirla in sei giorni. Il nodo DOT/SOM [↑] Quel che ora interessa è come il polarizzare SOMario e il darsi triseminale si possano incontrare in una configurazione dell’essere al mondo non restrittiva. Le tre seminalità, intese come assoluti-relativi, finirebbero per fissarsi come ennesime costellazioni nel solito cielo retoideotico, se non fosse per l’essere al mondo che pretende ogni momento dal pur libero gioco delle istanze il configurarsi di un senso in qualche modo spendibile, dato che il vivere non è uno scherzo del pensare. Questo configurarsi avviene in modi diversi da caso a caso, modalità imprevedibili che non è dato descrivere se non interferendo e quindi mutandone i connotati, producendo qualcos’altro. Sappiamo però con certezza questo, che rispetto alla triseminalità non esiste alcun altrove. Per ciò stesso i passaggi successivi nella direzione del senso, ovvero delle cose vissute, non possono compiersi che intrecciando relazioni fra le medesime istanze esistenziali. Le prime tra queste relazioni radicali saranno dunque quelle che permettono il concetto di cosa (o senso) il più ampio possibile, il più libero dalle costrizioni ideotiche e al tempo stesso concretamente relativizzato, al riparo da una polivalenza del tutto indecidibile, altrettanto assoluta quanto il più monolitico dei principi. Alla luce naturale ma incerta del DOT le cose paiono del tutto anodine, aperte a ogni evenienza di fatto, dal momento che le tre radici sono sempre pronte a contro-agire. Nell’evenienza però esse si presentano con un orientamento, dovuto al fatto che non sorgono isolatamente da un nil pre-esistenziale, ma conseguono, per quanto im?prevedibilmente, le une alle altre. Ciò che insorge come cosa possiede, si potrebbe dire, una sorta di spin in ordine al quale sono orizzontate, in quel caso e momento, l’una rispetto all’altra le seminalità. Al tempo stesso, se una cosa di fatto insorge, ciò significa che si sta presentando come qualcos’altro, ossia come discernibile, altrimenti nella perfetta continuità del che è scomparirebbe dal presente effettivo. Pertanto le radicalità nel loro concreto concorrere si mostrano sempre come transizioni o evenienze intra- e inter-seminali (come ŦS-S, ŦO-M, ŦM-S ecc.). Così ŦS-S sta per concetto di tutto ciò che qui e ora si presenta, nel multi-orizzonte triradicale, come evenienza o transizione interna alla soggettualità; ŦM-M equivale a concetto di tutto ciò che si presenta come evenienza interna alla medialità; ŦO-M sta per concetto di tutte le cose che a partire da uno spin oggettuale si ridispongono, ora e di fatto, come mediali, e così via. A questo punto, a ciascuna delle evenienze primarie, nel concreto difficilmente districabili l’una dall’altra, possiamo provare ad abbinare un termine approssimativamente esemplificativo che le etichetti in maniera più afferrabile, purché resti inteso che l’uso di un termine è anch’esso una cosa del nodo DOT/SOM. Riflettere indica tutto ciò che, in relazione a una qualsiasi cosa, muove la soggettualità entro se stessa (ŦS-S), come quando l’affetto per una persona cara ci conforta, o l’arroganza di un collega ci irrita, o uno sguardo sensuale ci ringalluzzisce. Sentimento che ci porta ad agire (ŦS-O), a sorridere protestare far l’occhiolino, atti a cui crediamo annettere un certo esprimere (ŦS-M), tenerezza rimprovero malizia. Quel riflettere, agire ed esprimere presi a sé terminerebbero però in un’astrazione; occorre fare i conti con le altre transizioni. Infatti ciò che nel soggettuale appare come un agire, nell’oggettuale è un fare che, rispetto all’agire si trova in un rapporto di irriducibilità-trasducibilità specularmente rovesciato. Che è quanto dire: quell’atto, una volta entrato nel dispendio o dispiego dell’essere al mondo, diventa altresì un fatto in cui l’atto può altrettanto bene riconoscersi e/o esser riconosciuto, quanto sconfessarsi e/o esser sconfessato. Lo stesso vale per l’esprimere rispetto al comunicare. Stando all’oggettualità, peraltro, l’atto si squaderna per i soggetti come dato (ŦO-S), nel mondo come evento (ŦO-O) e nel medio come possibile segno (ŦO-M). Al dato fa riflesso nella soggettualità il concetto, così come al segno nella medialità il simbolo. Stando infine alla medialità, l’atto si pone anzitutto soggettualmente come intendimento (ŦM-S), speculare alla comprensione; oggettualmente come interpretazione (ŦM-O) di cui è l’altra faccia il rilievo; mentre preso in se stesso, in quanto mera medialità, lo diremo messaggio (ŦM-M). Comportando tutte irriducibilità vs-& trasducibilità, ciascuna delle nove transizioni primarie può sia quasi del tutto fondersi con le altre, pur senza soccombere, sia assorbire quasi del tutto le altre, senza però estirparle. Questo difatto triseminale è inoppugnabile; il pensiero SOMario può astrarre da esso, ma non trarsi fuori del tutto da esso, certo non può sopprimerlo. Naturalmente, come tutte le armonie insieme danno in concreto cacofonia, in astratto un mero modello (cfr. l’orbifold di Tymoczko – l’universo di tutti i possibili accordi musicali in forma grafica [www.music.princeton.edu/~dmitri/scalesarrays.pdf]), così la totalità Ŧ del senso (ŦS&ŦO&ŦM) non è rappresentabile. Neppure l’articolazione di un singolo evento entro il suo senso primo è pienamente disponibile – ammesso si riesca a circoscrivere eventi singoli. Cose in apparenza elementarissime del tipo ‘questo tuo camminare per te in questo momento’ sono tali, talora, che a svilupparne l’intera configurazione triseminale ci sarebbe da perdersi. Al tempo stesso un siffatto sviluppo (se non analitico-descrittivo, almeno intuitivo) è proprio ciò che spontaneamente sussegue agli atti di vita. Ma l’analisi – compresa questa nostra analisi – smembra per reperire elementi fondanti un discorso. La composizione primaria di cui sopra vale niente più che come meta-concetto regolativo. Ogni possibile senso è contenuto in quell’alveo; ma come di fatto la goccia d’esperienza scorrerà dipenderà dall’irriducibilità-trasducibilità triradicale. Il divenire non sottostà ai limiti della contemplazione SOMaria, ma neppure all’illimite dell’intuizione DOTale. Dovremo vedercela con due contrapposti tipi di assoluto, entrambi altrettanto ottusi: l’assoluto in?definito e l’assoluto finito-definito. Il disvelamento del senso del senso, sola verità disponibile all’e.u., avviene quando accantoniamo gli opposti assoluti e accettiamo l’in?soluto, ciò che è & non è soluzione. Presentarsi [↑] Se voglio descrivere quel luogo ibrido in cui il che cos’è delle cose si trova incessantemente posto in gioco (dove posta azzardo scommessa finiscono per coincidere e il gioco stesso è in gioco), è chiaro che dovrò ricorrere alla solita risorsa del ridurre entro un ordine dato. Altrimenti non potrei che vagamente segnare col dito quel che intendo. Così sono costretto non solo a una pro-schematica (pro-posta, per quel che può valere, al posto di ciò che nell’essere al mondo esistenziale può realizzarsi solo come inventivo sapere-agire), ma anche a un pro-linguaggio. La lingua di questo saggio, lo ammetto, è alquanto obliqua. La tematica affrontata, la più generale che possa darsi, porterebbe per un verso alla deiezione di tutte le banalità, via impraticabile; per l’altro, all’attensione di ciò di cui non può aversi in nessun caso né intuizione semplice, né spiegazione comprensione interpretazione, dato che queste sono già e subito per altro. Per la logica, la via del significato, l’impresa è assurda, perché l’essere al mondo non può esser detto da fuori. Resta dunque solo l’analogica, la via del senso, dove però l’essere è preso in quello stesso assoluto-relativo che vorrebbe afferrare. La lingua in particolare è, in questo caso soprattutto, il cronista che gioca e arbitra la partita di cui manda in onda la diretta. La funzione metalinguistica non sfugge alla relatività assoluta (la metalinguistica è essa stessa intensione); lo ha spiegato Derrida, ogni testo potrebbe essere riscritto come variazione sul tema del proprio linguaggio. Quel che intendo con questo libro è in effetti compendiato nel suo Lessico (v. Appendice 3) ma il paradosso incombe perché servono termini in? determinati. E a costo di spazientire chi legge serve ancor più mantenerli tali – sulla corda di un discorso che, a rigore, se sa troppo cosa dire si sconfessa. Spero che voci come darsi, triradicalità, evenienza, difatto, senso, cosa, DOT, SOM ecc. stiano facendo dignitosamente, nei limiti del possibile, il loro dovere. Altro termine resosi ultimamente utile è presentarsi, nella connotazione etimologica che sottolinea l’insorgenza di una cosa qui e ora. In questo senso, presentarsi dice che le tre radici di fatto si danno nel qui e ora esistenziale. E riflettendo su come l’essere al mondo null’altro possa se non appunto farsi presente ora e qui, si può tentare una riflessione sul tempo. Qualche volta si fa tutt’un discorso sulla temporalità (una o al più due o tre gamme temporali) e gl’infiniti tempi dell’essere (le appercezioni di quel che dicesi passato presente futuro diacronico sincronico attuale fuggevole sospeso trascorso ecc.). Come è noto, Bergson – che sento così prossimo in certi passi, non a caso letterari, ma per il resto irrimediabilmente diverso – oppone tempo spazializzato e durata reale. Ma la sua giustamente celebre analisi del fluire interiore alla fin fine a che conduce? A una temporalità propria della coscienza e di conseguenza all’intuizione come principio di conoscenza alternativo all’intelligenza. Ma se neanche il tempo delle scienze contemporanee era più uno (v’erano già, oltre al meccanico, il termodinamico e il relativistico), come poteva quello della coscienza essere ricondotto ad una sola altra temporalità, sondabile delineabile caratterizzabile? Se medito anche di sfuggita sul mio senso del tempo noto una variegata molteplicità di modi, differentemente godibili indifferenti insofferenti ansiosi doloranti, dove interiorità ed estraneità, ritorno e dissipazione, scansione e flusso, dilatazione e contrazione, misura e confondimento, respiro e apnea, memoria e oblio sono di momento in momento diversamente compresenti. Posso vedermi immerso in questa meteorologia della temporalità, ma so che essa è generata dalle pulsazioni del mio essere al mondo. Invece il tempo che Bergson si sforza di riformare non è che una certa categoria della tradizione filosofica. Egli anela in ultima istanza a parlarci ancora una volta di assoluto: élan vital, évolution créatrice, metafisica rediviva. Il postulato agostiniano da cui trae slancio il suo pensare, la coscienza come principio di illuminazione (“in interiore homine…”), chiedeva, per non sembrare ammennicolo di una specie animale dal patetico destino (come poi in Sartre), la reintroduzione urgente di un’anima nel mondo; un’anima che, per non portar a spasso questo consunto nome, si presentasse un po’ rinnovata, per esempio come memoria evolventesi nella materia. La durée réelle interessa Bergson per quel tanto o poco che gli serve, come chiave psicologica per riaprire il varco verso gli spazi siderei dell’onturgia classica. Per noi, che non miriamo a tanto, la temporalità riguarda o l’inconoscibile nil o appunto l’essere al mondo. Nel primo caso, che interessa le scienze fisiche, può intendersi come una dimensione dello scambio energetico. La fisica odierna, benché relativistica, continua a ricercare significati assoluti del nonnulla (si può anche dire significati assoluti dell’informazione) – un curioso programma senza solido fondamento epistemologico perché un significato è sempre posto, quindi mai assoluto, e perché l’informazione e il nonnulla sono postulati da chi vuol sapere come apparirebbe il mondo senza essere e senza al: spezzare l’essere al mondo mantenendo la Conoscenza – cosa che non può darsi se non ideoticamente. Nel secondo caso (quello solo che qui interessa) la temporalità è un connotato dell’essere al mondo, una componente strutturale del presentarsi. Come pinne e zampe, udito e odorato, mano e utensili relazionano il corpo con gli altri corpi, costruendo nel processo la corporeità, così le reti sinaptiche relazionano impressioni e residui di impressioni costruendo nel processo il tempo. Mentre ogni forma di vita manipola una sua spazio-temporalità, nell’e.u. tali abilità strutturali hanno raggiunto una diversificazione così elevata da permettergli la costruzione di mondi, fiabeschi filosofici fantascientifici ecc. Ora, se la vita è all’origine di questo tempo, il DOT (come concetto) deve precedere la temporalità e risultare all’analisi matrice indifferente di tutti i tempi che le insorgono dentro. Nel solco dell’esperienza temporalità diverse concorrono accalcandosi scomponendosi affiancandosi ecc., tempi della memoria e della progettazione, della fisiologia e della natura, della comunicazione e della tradizione, tempi insomma come variabili dipendenti dell’esistenza. Ogni nodo DOT/SOM, anche il più occasionale, produce il fluido temporale di cui ha bisogno, per quanto ne ha bisogno. A tratti anche il tempo è superfluo. All’interno di ciascuna delle tre radicalità non vi son limiti all’impiego o al dispiego del tempo, così come di qualsiasi altro concetto o sentimento. Tempi, fluidi o scanditi, in successione o sovrapposti, i quali tutti convergono nel presente prosecutivo sì, ma continuo & discontinuo, del vissuto. Sola temporalità trascendentale è la dis?continuità dell’evenienza (discontinuità e continuità dell’evenienza, separate, si ritrovano nei tracciati severamente psicotici, oppure in opere d’arte precisamente costruite sull’assurdità di quella separatezza, p.es. in Lebensansichten des Katers Murr di E. T. A. Hoffmann). Gli spezzoni di passato e futuro sono evidentemente estrazioni del nostro rapportare tra loro esperienze il cui statuto inderogabile è o d’esser presenti come cose del momento, sempre diversamente, o non essere affatto. Così Proust nota che la perfetta gioia del ricordo si situa nell’attimo in cui presente e passato, con-fondendosi, reciprocamente si assorbono: nel rivivere estatico, dunque, non nel riandare scompartito. Il tempo è anche estraneità e questa, secondo Nietzsche, se si vuol essere talvolta felici, va estinta. Il pensare per distinti tende a esulare dal presente, a espellere il presentario in quanto liquido, inafferrabile. Passato e futuro si prestano fin troppo bene ad ospitare strutture ideali, ma come l’eternità essi si mostrano arrendevoli ai vari usi ad hoc. In Platone, come poi nel neoplatonismo rinascimentale, il passato serve a riammettere il mito: è il luogo inaccessibile delle arcane verità. Vedi nel Simposio la remotizzazione della rivelazione: Apollodoro maturo d’anni che riferisce ai conoscenti di quando da ragazzo aveva ascoltato Socrate anziano riportare nel corso del famoso banchetto la conversazione lustrale tra lui stesso, Socrate, all’inizio del suo cammino, e la veneranda sacerdotessa Diotima, che a lui aveva confidato i segreti della sua prima e vereconda iniziazione al dio. Qui la parola giusta sarebbe trismegistizzazione. Qualcosa di analogo vale a riguardo del futuro. Il marxismo (la giustizia sociale, la soluzione delle contraddizioni) e la psicanalisi (il transfert e la cura), la scienza (il sapere dell’avvenire, l’avvenire del sapere), la tecnologia (la risposta ai problemi), la fede (la salvezza nell’ulteriore) sono sofie del poi sì che. Certo, come ad es. in Epicuro, nel misticismo zen e in Nietzsche, anche il presente (l’atarassia, la visione del vuoto, l’eterno ritorno dell’uguale) è mitizzabile. Ma esso si presta meno alla manipolazione ideotica perché col suo immancabile transire non fornisce entità durature atte a edificare una solida visione delle cose. Il presente, inteso come l’ora e qui dell’evenienza, è da meditare come temporalità elettiva del pensare prosofico. È sotto casa, nel pieno del presente, che al termine nei Lehrlinge zu Saïs la rivelazione originaria rispedisce gli spasimanti della verità: In den Werkstätten der Handwerker und Künstler, und da, wo die Menschen in vielfältigem Umgang und Streit mit der Natur sind… Nelle botteghe degli artigiani e degli artisti e là dove gli uomini si trovano in rapporti diversi con la natura... [Novalis, I discepoli di Sais, a c. di A.Reale, Rusconi, 1998, p.212] La pro-schematica è solo un concetto, non è approntabile perché serva al singolo caso. Perciò aggirarla diventa una necessità. La razionalità analitica vorrebbe essere lo stratagemma migliore per eluderla. Forse qualsiasi razionalità necessariamente elude il darsi originario. Oppure siamo abituati a considerare razionale ciò che, aiutandoci a fissare paradigmi, ci permette di eludere il DOT. È difficile dire. Solo la storia, ma per ben più lungo lasso di quanto non abbia finora sorvolato la nottola di Minerva, saprà raccontare qualcosa di più sul sapere-agire nell’esistere. L’umanità è ancora giovane. Certo che una ragione (statica o dialettica) che si muova ancora nell’ambito del pre-paradigma senza riconoscere il darsi triseminale e senza pertanto addentrarsi nella pro-schematica dell’essere al mondo, quindi in qualche modo ben fuori di sé, è destinata a una fatale finitudine, cioè a non sapere-agire, come s’è troppo spesso visto. L’intreccio DOT/SOM non può che esser vissuto. La sola comprensione di esso di cui possiamo avvalerci è l’essere al mondo stesso. Poiché l’intreccio tutto ingloba, non si dà in vece sua un altrove virtualmente medesimo, uno spazio di prova. Una simulazione non è concessa, anche il virtuale sottostà all’evenienza. Quindi una descrizione della pro-schematica può servire soltanto se viene interpretata come allusione a cosa che è da vivere. Parte Quarta. Divagazioni prosofiche Riepilogo [↑] A cosa siamo giunti? Riassumiamo anzitutto ciò di cui ci siamo occupati. Poi qualche cenno su quel che ne può derivare. Finora abbiamo visto quanto segue: In ciò che a suo tempo a Elea fu detto che è, e altrove ha preso nome di Fuoco Cosmo Spirito Dio Uno Realtà Ragione Storia ecc., erano comprese e confuse due opposte istanze: da un lato ciò che solo s’involve in sé medesimo, quel nil di cui si postula soltanto il nudo sussistere, l’imperscrutabile in sé; dall’altro l’essere al mondo, ovvero il vivere, di cui il nil, da cui esso sorge, come non può impedirne l’esplicarsi così non può prendersi cura. Ove manchi una forma qualsiasi di essere al mondo, nulla è. Questo nil, o nulla & tutto o nonnulla cosmologico, pervaso di energia infinitamente differenziata e quindi di informazione, si oppone al Nulla positivo, come comunemente inteso, che è una fantasia metafisica, al pari del Tutto e d’ogni altro Assoluto. Il rapporto tra nil e essere al mondo, peraltro, si evince quanto mai sfuggente. Quale sia l’orizzonte dell’essere al mondo per un passero si può forse stimare. Ma quali sono le frontiere del nil in rapporto a un essere come l’uomo? Esse s’ergono in tutti i casi in cui l’e.u. non giunga a porsi come essere al, per cui solo si dà un mondo. Dunque il confine del nil può talora passare molto vicino (ignoriamo sempre qualcosa dei sentimenti reali di chi ci sta accanto) e altre volte raggiungere lidi incredibilmente lontani (l’astronomo legge le frequenze del cosmo profondo). L’essere al mondo non è mai uno se non in quanto trino: risulta ineluttabilmente dal triplice coniugio di insorgere|decidere|riferire. O più banalmente di oggettuale|soggettuale|mediale. V’è un darsi originario che è triseminale. Non v’è né unità né molteplicità prima della triradicalità originaria. Qualsivoglia unità procede dal DOT e ne è frutto contingente. Reciprocamente irriducibili vs-& trasducibili, le tre radicalità (o seminalità) sono principi di ragione insufficiente. Insieme costituirebbero un principio sufficiente se l’irriducibilità-trasducibilità reciproca delle seminalità non impedisse la sufficienza di qualsiasi ragione. L’essere al mondo comporta una semiosi o nient’altro che tautologica (significato) o costitutivamente inafferrabile (senso) perché il mediale (l’al) è intrinseco dell’essere e del mondo, così come questi lo sono di quello. Intrinseco, cioè legato dal contro-gioco dell’irriducibilità vs-& trasducibilità. Il darsi originario triseminale si manifesta coi caratteri dell’in?definito e dell’in?forme. Ovvero non ha alcuna fisonomia sua propria perché le accoglie tutte; per questo l’e.u. può costringerla, o meglio, non può che costringerla, nella riflessione, ad assumere una qualsiasi forma (mondi ad hoc paradigmi idee simboli ecc.). L’essere umano è un caso particolare di essere al mondo, in grado di riflettere consapevolmente. A partire da tale sua condizione, egli disegna e arreda ambienti peculiari di varia concezione, nei termini di uno o più linguaggi. Ama poi denominare quegli arredi fede realtà ragione sistema struttura, ma in effetti sono mondi adibiti. Sospendere il DOT è il più comune artificio della coscienza, quello che permette di stabilire significati pregiudiziali. Il significato si risolve come autoctisi (non “posto che…, allora…”, ma “lo pongo e quindi…”); altrimenti non v’è soluzione alla questione del significato altro che nell’insolubilità dei legami DOTali, cioè nell’evenienza del senso. La riflessione sofica, qualunque piega prenda, si rivela sempre troppo sapiente di fronte all’essere al mondo, poiché essa deve anzitutto credere in se stessa, sapere da che parte prendere, cosa e come costruire (o demolire), laddove a motivo dell’irriducibilità-trasducibilità una qualsiasi razionalità non può costituirsi che riduttivamente. Poiché nulla, neppure la riflessione più ardita, può sfuggire alla triradicalità originaria, ne consegue che dietro la laboriosa e litigiosa diversità dei paradigmi (non importa se religiosi o filosofici, positivi o narrativi), dietro la superficiale dialettica dei sistemi, siede un unico pre-paradigma. Un paradigma equivale a una peculiare sostruttura ipostatizzante, giacché stabilisce e fissa a modo suo i rapporti funzionali, le significazioni ammesse, le precedenze e le servitù intercorrenti tra le radicalità. Per ottenere questa fissazione dell’essere al mondo, l’originaria irriducibilità-trasducibilità dev’essere se non negata quantomeno limitata, e le radicalità (insorgere/decidere/riferire) ridotte a polarità distinte e figurabili (SOM). Il pre-paradigma, ordito di tutti i possibili SOM-paradigmi, sarà dunque a sua volta SOMario. All’origine del pre-paradigma è da porsi l’ingenua pretesa intellettuale, unita all’urgenza pragmatica, di pervenire a una stabilizzazione delle seminalità, tale da commetterle o concertarle tutte tre entro un solo dispositivo o spartito, quale che sia. Ivi confinate, le seminalità divenute polarità non si sottraggono alla produzione di soluzioni. Anzi, diventate maneggevoli, s’adattano servizievoli a ogni sorta di congegno esplicativo. Ma il darsi originario essendo insopprimibile, le radici sopravvivono per quanto irrigidite e camuffate nei poli SOM di tutti i paradigmi. Ciò permette il e induce al trapasso da un paradigma all’altro. Il DOT funge da brodo di coltura. Il termine paradigma si pone qui visibilmente in riferimento a Kuhn [Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962]. In certe epoche che si dicono rivoluzionarie le precedenti assializzazioni SOMarie cedono a un’urgenza di rinnovamento che trascina al più presto la storia dentro un nuovo paradigma. Le età quiete, soddisfatte di sé, non sentono alcun bisogno di porre in discussione il tessuto paradigmico su cui saldamente si reggono. In entrambi i casi il DOT, con la sua irriducibilità vs-& trasducibilità, sfuggente e imprecettabile, ha l’apparenza di un che è & che non è da cui è impellente proteggersi. Il paradigmizzare consente all’essere una quantità di costruzioni mentali (ideotiche). Queste sarebbero anche più liberamente accessibili senza assializzare le radici. Ma mentre in riferimento al DOT l’e.u. dovrebbe considerarle non più che divertimenti più o meno sofisticati del suo potere riflessivo o determinante, in ambiente SOMario la mente, separata dall’essere al mondo, può ipostatizzare le sue elaborazioni, reputarle credibili in base a un criterio qualsiasi (per fede o per logica, per intuizione o dimostrazione o esperienza, per utilità o funzionalità) e credervi di fatto (asserire di saperle). Il credere è alla base del decidere . La vita non può non contare su un habitat stabile, confacente al suo stare al mondo, giacché essa evolve proprio a partire dal dato abitativo/abituale. Il sole sta per sorgere, la stagione per terminare, le piogge o il predatore per raggiungerci: saperlo è utile. L’e.u. inoltre artificializza il suo habitat aumentandone la regolarità e la prevedibilità. Prevedere consente di risparmiare energie e specializzare le attività. Tuttavia, non fornendoci il pre-paradigma davvero di un altro mondo, ma nient’altro che dello stesso darsi triseminale ridotto a schema, l’irriducibilità-trasducibilità originaria è soppressa soltanto per quel credere, quindi apparentemente e strumentalmente. Qualsiasi vero – DOT a parte (ma non la sua rappresentazione) – è fenomenico e produttivo: pratico-pragmatico, solutorio-consolatorio. Le filosofie paradigmiche sembrano a vario titolo esaudienti, finché non ci s’accorge che in effetti tutte quante soggiacciono al pre-paradigma SOMario e che questo a sua volta è il rigor mortis della triseminalità originaria. Il darsi, originario e presentario, produce cose da cose, sensi da sensi, essere da essere senza posa. Consegue quindi ad esso necessariamente che ogni senso può darsi. Chiamo difatto di necessità questo pro-postulato che precede le verità di fatto leibniziane. Quanto alle verità di ragione esse si risolvono nei significati posti e concordati. Il DOT, in cui ogni vivente si muove, ospita indifferentemente e alla pari tutte le concezioni gli eventi i messaggi. La triseminalità originaria non ammette fondazioni precedenze gerarchie postulati assiomi, cioè li accoglie tutti; essa coincide con l’universo del che è & che non è, cioè con l’intero. Questo intero non risponde al vecchio Vero, che come ogni altro Intero (Buono Bello Utile ecc.) è un prodotto ideotico. Concezioni eventi messaggi: non entità differenti, ma aspetti correlati della medesima datità. Per l’irriducibilità vs-& trasducibilità reciproca essi sono sia irretiti/contessuti l’uno nell’altro, sia liberi di emergere nella rispettiva diversità radicale. Per ciò le cose si presentano, a piacere, sia solide sia liquide: non si dà alcun che è, bensì solo una mescolanza im?perscrutabile di che è & che non è. Prevedibile è che una cosa apparsa come modo della soggettualità possa assumere carattere di oggetto e di medio, che un comunicare si rifletta in un sentirsi ecc.: un sentimento d’odio o d’empatia chiede di tradursi in parole gesti fatti; un gesto d’ira o di solidarietà suscita in chi lo compie una certa percezione di sé. Ma imprevedibile è quel che di volta in volta emergerà, sul campo, dall’intreccio delle seminalità che si richiamano e respingono. Il DOT si vive. Non si spiega frontalmente, né s’intuisce se non di sbieco; non si calcola, né si esperimenta. Qualsiasi riflessione implica giudizi e quindi la sospensione del che è & che non è ovvero del relativo assoluto. In un giudizio, soggettità oggettità medietà devono apparire, dichiararsi. Assumere un certo che è e rigettare un certo che non è. Entrare in un certo gioco, nella logica dei discernibili. Lo stare al mondo impone determinazioni, l’essere è legato alla vita, senza la quale non sarebbe. Come ogni altro cervello, così anche la mente umana nasce pre-adattata al mondo che accoglie l’intero organismo. Cosciente, essa s’affretta ad orientarsi elaborando visioni ad hoc. Ciò è inevitabile e necessario alla sopravvivenza, ma rischia di diventare un suo limite: cosa fa sì che io contempli, come massima espressione del soggetto, il possedere beni o lo stare bene, l’avere o l’essere, la linea o l’anima, l’etichetta o l’interiorità, il privato o la nazione, l’unico o l’umanità, la Storia o Gaia, la vita bassa o la vita e basta? L’e.u. non può vivere della sola triseminalità. Egli può avvicinarsi tuttavia al che è & che non è originario e presentario rappresentandosi la triseminalità in una pro-schematica via via più ricca e complessa, dentro la quale relativizzare tutti i mondi adibiti e le connesse dottrine. Sull’essere al mondo non assumiamo dunque una posizione, giacché propriamente non poniamo nulla al di fuori d’una pro-schematica approssimata del concetto di vs-&, ovvero del che è & che non è delle cose, ma una pro-posizione, un intento costante a indagare il costituirsi del senso. Nella loro reciproca astrattezza i tre poli SOM sono disponibili a ogni combinazione, permettono la costruzione di significati e sistemi, ma sullo sfondo dei nove massimi orizzonti del darsi originario triseminale, entro cui ogni senso sorge e si spegne. Intorno s’estende l’ombra incerta del nil, la mera energia che genera la possibilità delle cose. Queste per sussistere debbono esser poste, ciò che genera una circolarità ineludibile. Una cultura sarà formata dunque dall’insieme di tutte le circolarità co-poste. Tra DOT e SOM si dispiega il vissuto, dove i significati non hanno mai senso, ma i sensi contano spesso, se non sempre, su blocchi di significati. Dunque nel presentario nulla è prescritto e al tempo stesso tutto può esserlo. Questa è la condizione originaria, che non privilegia alcuna ipostasi. Benché in ogni momento di vita s’avverino eventi, che cosa s’avvera resta in?contornabile. La visione prosofica non conduce a una risposta del tipo a cui le sofie abituano. Semmai a un oltrepassare, a quello strappo del fondale con cui termina The Truman Show [il film di Peter Weir, soggetto di Andrew Niccol, con Jim Carrey, USA 1998]. Con la differenza che qui, nel nostro scenario, non risuona la voce arcana di un regista, di uno Scenografo ultimo, di un Dio del 36° piano [H.D.Kastle, The God on the 36th Floor, 1963] a cui chiedere spiegazioni. Non ci sono spiegazioni da chiedere. Oltre il fondale s’estende il così com’è del vivere. Possiamo restarne amareggiati o entusiasmarcene, gradirne gli effetti liberatori o schivarli come dispersivi, assuefarci alla instancabile pluralità dei mondi o covare risentimento sotto forma di idee. Tentare ancora una volta di polarizzare le radicalità (scambiandole per quel che ne vien detto, p.es. in questo libro). Oppure esplorare la possibilità di percorsi prosofici, sebbene questa stessa espressione sembri già in partenza inadatta. Non può infatti risultare percorribile la triseminalità, se non in quanto spossante ispezione di tutti i percorsi. Anche quando il desiderio fosse puramente teso al sapere-agire, ogni atto adirà soltanto quei sensi che l’evenienza gli riserverà. Né può andare diversamente. Esulare dall’essere al mondo non è consentito. La prosofia filma la boscaglia delle origini, fitta di macchie e radure, e – proprio per quella triradicalità su cui trascorre il suo sguardo – essa non preclude non avversa non elimina questo o quello, ma tutt’al più ricava l’in?essenzialità di tutti i mondi adibiti e peculiarmente delle ideotiche che dirigono precludono avversano eliminano illuminano e con ciò presumono orizzontare (o verticalizzare) il vivere. Il semplice sapere, nell’urgenza di approdare ai suoi che è (o che non è), fugge dalle profondità per solcare fondali via via più bassi, finché s’insabbia. Interesse della prosofia è prevenire la deriva separata di agire e sapere, evitando di fatto che l’arenarsi ideotico sia scambiato per un fondare e che l’agire persuaso da una singola visione predominante passi per genuino sapere. Un tale impegno non può risolversi in un mero dire, e neppure in un darsi storicamente confinato. Il pro-sofico non può dirlo nessuno, né qualcuno darcelo. Esso tende, si spera, ad avvenire nelle lontananze del futuro. Questo scritto – come tanti altri che ne parlano in termini differenti – non fa che segnalarne la sottesa presenza, suggerirne il lento incedere. In quanto a ciò l’ufficio del libro è compiuto. Non c’è altro da fare che lasciare il testo alla sua difattuale evenienza. Come risulta evidente da questo riepilogo, fin qui non abbiamo fatto altro che riflettere su ipotesi e concetti generalissimi circa le condizioni operative dell’essere al mondo. Resta ora di procedere (ma non in questo libro) con una disamina più ampia del pre-paradigma, della cognizione prologica e della concezione prosofica. Un ipotetico indice di questa continuazione si trova in appendice. Le prime domande critiche a cui far fronte sono le seguenti: 1. se la prosofia sappia effettivamente evitare di cedere a quella contemplazione autoctica che essa imputa alla filosofia; 2. se la prologica consenta l’evitamento dell’esclusione, che è il moto proprio della logica, e sappia includere (comprendere senza vincolare) tutte le manifestazioni dell’umano; 3. se la prologica possa fungere da base valida per ulteriori indagini di biografia generale; 4. se la prosofia sia in grado di generare conoscenza e quale genere di conoscenza. Soprattutto, se nel DOT ogni versione del mondo è comprensibile e compatibile, occorre affrontare concettualmente quell’altrettanto originaria e radicale indeterminazione, quella stessa da cui in antico miti, filosofie e religioni presero le mosse, la fame e sete di giustizia, sola reale lacuna dell’essere al mondo. Casi della vita [↑] Quel che può derivare e ricavarsi da una approfondita frequentazione concettuale della triseminalità non è argomento di questo scritto. In termini e modi diversissimi lo è già stato di molte altre opere, specialmente narrative; potrà esserlo di innumerevoli altre. È certo peraltro che l’esposizione verbale dell’intreccio SOM/DOT non ha alcuna possibilità di riuscita; la descrizione a parole ne esce sconfitta. Infatti può dirsi solo ciò che è preventivamente ridotto a potersi dire. Al darsi originario si può solo alludere. E se si tenta di ricostituire il darsi originario di quanto esce compattato dalla pressa della comprensione si è costretti a fagocitare molto altro tempo e spazio. La dedizione assoluta alla verità della vita esigerebbe per comprenderne una singola giornata un’altra intera vita. Da questo black hole esistenziale fu attratto Kafka che lo rappresentò in un suo fulminante apologo del 1919, che riporto per intero [nella traduzione di G.Zampa]: Il paese vicino. Mio nonno era solito dire: "La vita è straordinariamente breve. Ora mi si stringe tanto nella memoria che non riesco a capire, per esempio, come un giovane può decidersi a cavalcare fino al paese vicino senza temere che, a non considerare le possibili disgrazie, il tempo di una vita ordinaria e felice sia infinitamente troppo breve per una simile cavalcata”. Come la dedizione alla musica sta nell’immergervisi, così la sola genuina dedizione alla vita sta, mozartianamente, nel viverla. La triseminalità si presenta originaria per un duplice fatto: costituisce questo nostro vivere fin dal suo sorgere, diciamo dalla preistoria della specie; origina ogni momento di vita e in esso le cose in sé come cose per altro. Essendo dunque vicenda di vissuti, il DOT occuperà la consapevolezza di ciascuno in proporzione alle sue virtù, se non l’opprime ingiustizia. Questa rivoluzione permanente, di cui è agone l’essere nostro, implica un rifletterci su, e un operare, e un discorrerne divenienti, che vanno ancor meglio ricercati là ove già si praticano o, dove invece se ne constata la pochezza, incentivati con appropriate sperimentazioni. Già più volte abbiamo notato come la drastica contrapposizione DOT vs. SOM non riguardi direttamente il sapere-agire ordinario, quell’abile ed agile condursi tra conoscenza, esperienza ed evenienza – tra assimilazione e adattamento, comprensione e interrogazione, abitudine e improvvisazione, ripetizione e creatività, adesione e ribellione – di cui l’e.u. è solitamente abbastanza capace nel quotidiano, in varia misura a seconda degli ambiti e dei casi. Giorno per giorno una persona avveduta gestisce oculatamente i suoi molteplici incontri col che è vs-& che non è. Sa avvalersi di entrambi gli approcci, aperto vs-& chiuso, conciliandoli, per quanto possibile, in vista di un fine (più spesso una composizione o mix di fini). Nelle faccende pratiche ciò riesce talora a meraviglia: salire una scala, passare all’edicola, conversare col vicino d’ombrellone… Cose del genere sappiamo farle bene perché ogni volta spontaneamente soppesiamo quanto può esser ripetuto tal quale e quanto va rivisto o cambiato, avendo presenti tempi e luoghi, mezzi e scopi, persone e relazioni, presenze occasioni ecc. Ovviamente, escludendo disparità di competenza e abilità individuali, tanto meglio un agire riesce (consegue un risultato alla fin fine soddisfacente) quanto più corto e chiaro è il raggio degli intenti, quindi tanto meglio quanto più circoscritto (fino al mero significare ) è il senso di tal riuscire. L’incessante anamorfosi, conseguenza dell’irriducibilità-trasducibilità, che è all’origine dell’innumerevole eventualità dell’essere al mondo, necessita di un accurato e costante editing. E quest’ultimo di un’educazione non asservita a quello épistémocentrisme scolastique contro cui, per motivi molto vicini ai nostri, argomentava Pierre Bourdieu nelle sue Méditations pascaliennes. La ricerca pro-agogica è un diritto della persona e, per chiunque non ne sia impedito da condizioni d’esistenza ingiuste, un dovere del sé. Dovere è anche far sì che nessuno al mondo ne sia escluso. Il caso della scala [↑] L’azione abitudinaria (S sale una scalinata), considerata relativamente ai suoi scopi immediati (dal livello stradale raggiungere l’atrio dell’edificio), sembra svolgersi in un quadro di mera significatività: le polarità SOM vi si trovano nettamente intra- ed inter-definite. Oggettivo, in questo frangente, è prima di tutto il corpo stesso, col suo peso e il suo tono, che S muove, ma anche la solidità della costruzione, così come la regolarità delle alzate (l’altezza dei gradini) e delle pedate (la profondità). M interviene nel dialogo sensomotorio, percettivo e propriocettivo, tra il piede la pietra l’occhio l’orecchio (il labirinto per l’equilibrio, il timpano per il rimando acustico che accompagna il passo). I parametri SOM appaiono definiti al punto che una macchina potrebbe essere costruita per replicarli ed ottenere il medesimo risultato. Poiché lo scopo immediato è raggiunto, l’azione può sembrare completa, dal volere al conseguire, mentre il suo senso sarà da reperire altrove, nel fine ulteriore di quell’andare. Per molto tempo S è salito così, dalla strada all’atrio dello stabile in cui lavorava, senza ulteriore riflessione. Per tutto quel tempo la configurazione SOMaria di quell’atto abitudinario è rimasta invariata. Ma le determinazioni SOM, se intese come dati di fatto, risultano drasticamente insufficienti, anche nei casi in apparenza più facili da delimitare. La riduttività di tutti i quadri SOM s’infrange in due direzioni: si scopre inidonea (erronea esagerata incompleta malintesa superata e simili) la tipizzazione di cui è investita nel caso l’una o l’altra polarità, onde sorgono altre soggettità oggettità medianti che si combinano o si sostituiscono ai precedenti; si oltrepassa il confine pre-fissato, per quel caso, tra le polarità, così da tramutare un aspetto di S in M o di O in S o di M in O ecc. Un giorno S nota che uno dei gradini della scalinata è smosso o sbrecciato. Risistema, supponiamo, il quadro del caso togliendo a quella scala la connotazione di ‘sicura’o di ‘nuova’ o di ‘ben costruita’. Prima per lui era un certo O, ora in qualche misura esso è diverso. Diversamente potrebbe mettere in discussione il suo far caso a. Forse il gradino è in quello stato da quando sale e scende quella scala, ma prima d’ora non l’ha notato. Dunque io sono un osservatore meno attento di quanto non mi credessi. Oppure S potrebbe dirsi che, gli scalini essendo in travertino, l’aspetto stesso fissurato del materiale tende a mascherare le sbrecciature. Perciò non avrebbe badato alla cosa essendo il dato poco leggibile. Nel frattempo capita che, interessandosi per motivi suoi di architettura, S apprenda a far caso non più solo all’uso ma anche all’immagine di una costruzione. Così quella serie di gradini che a lungo aveva considerato separatamente dall’intero complesso, a nient’altro funzionale che a raggiungere l’ingresso dell’edificio, gli si presenta come scalea, concepita con tutta evidenza allo scopo di conferire una certa monumentale solennità allo stabile e quindi all’istituzione di cui esso è sede. Da scalinata a scalea, ciò ch’era solo oggetto per un uso è diventato anche comunicazione d’immagine. Quanto a S, tale arricchimento delle sue capacità di lettura può contribuire insieme ad altri affinamenti analoghi a far sì che in progresso di tempo egli muti anche radicalmente il concetto che ha di sé e magari si attenda da amici e colleghi una considerazione diversa (per es., che lo ritengano piuttosto competente in fatto di soluzioni architettoniche). Ma se nel mondo della vita (o perlomeno in numerosi suoi ambiti) si manifesta per solito una naturale inclinazione ad aggiungere/sottrarre o combinare/scombinare aspetti delle polarità acquisite, ed anche, benché forse meno agilmente e con maggior prudenza, a trasferire concetti da una polarità all’altra, al tempo stesso s’evidenzia una controtendenza a delimitare conservare consolidare un certo quadro datitario di riferimento. È in base ad esso, per es., che l’io di un individuo includerà il suo lavoro, la religione, la famiglia, il quartiere ecc. O non li includerà, o solo in certe occasioni e sotto certi riguardi. Nel vivere ordinario la tendenza ad aggiornare e la controtendenza a stabilizzare il quadro paradigmico vanno solitamente di pari passo, pur con tutte le differenze dovute al clima culturale, al carattere della persona, alla condizione, all’età ecc. Evidentemente il doppio registro (apertura e chiusura all’essere al mondo) presenta vantaggi adattativi. La chiusura SOMaria nel che è contrapposto al che non è favorisce complessivamente un senso di stabilità e continuità nella comprensione; l’apertura al che è & che non è, la sensibilità al darsi triseminale permette di fronteggiare situazioni inattese, di concettualizzare soluzioni alternative, di vedere sotto luce diversa i casi della vita. Se, come abbiam visto, l’essere al mondo nello specifico umano si manifesta come in?definita triradicalità, la vita sarà tale da ammettere e negare insieme qualsiasi aspetto struttura configurazione ecc. Per questo nell’e.u. l’essere sta all’erta della vita. E nel medesimo tempo, tuttavia, postosi in grado di costruire intorno a sé e dentro di sé gusci artificiali sempre più robusti e rigidi (etnici etici tecnologici linguistici giuridici ecc.), egli può indursi a istituzionalizzare il suo essere al fine di proteggerlo reggerlo regimentarlo assoggettarlo a qualche scopo, senza troppo badare al fatto che, così costretto, l’essere decede dall’originaria irriducibilità vs-& trasducibilità dell’essere al mondo per assumere una figura definita e, per ciò che riguarda le aperture dell’in?definito, de-funta. Con questo non intendo affatto sostenere che quanto può esser detto consuetudinario sia da considerare come irrimediabilmente SOMario. Abbiamo detto che il senso effettivo delle cose non precede, ma sussegue all’esistere. Pertanto il destino esistenziale di un qualsiasi atto resta insondabile. Quel che sottolineo è l’estrema facilità con la quale una figura dell’essere al mondo può fissarsi divenendo paradigmatica. Le figure tendono alla definizione: la soggettualità, con la sua in?definitezza aperta ad ogni possibilità, non mi consente di impostare alcuna figura. Lo stesso vale per le altre due radici; nessun atto culturale (cioè di quelli che si è soliti catalogare come culturali) è producibile immediatamente a partire dalla triseminalità originaria. Per serbarsi in contatto vivo con questa, l’e.u. deve continuamente riguadagnarla a partire dalla finitezza delle vicende vissute. E proprio in questo v’è un rischio congenito, dato che il vissuto medesimo, come ben sappiamo, non è immune da infiltrazioni ideotiche in omaggio alle quali può ridursi a mera ripetizione di schemi. Certo anche il più incendiario dei fanatici (o il più assorbito dei ricercatori) quand’è alla guida del suo scooter sa adattarsi al che è & che non è del traffico, del fondo stradale, della segnaletica ecc. Se oltrepassa un cartello solidamente al suo posto al lato della strada non lo annota come oggetto fisico (O), bensì tutt’al più in quanto messaggio esibito (M). L’oggettità fisica del cartello non ha infatti motivo alcuno di costituirsi, tantomeno c’è ragione di chiedersi se esso sia fatto di metallo o plastica. Qualora però il segnale appaia pencolante e pericolosamente scosso dal vento la sua oggettità si costituisce immediatamente e balena forse la riflessione: ...se dovesse staccarsi in questo istante e colpirmi spero che almeno sia di plastica e non di lamiera! Ma osserviamo ora il fanatico in che rapporto si pone con la missione da compiere. Il suo essere ne è pervaso. Il rimanente del vivere ne è assorbito. È sempre possibile ch’egli sappia mostrare in altre faccende capacità di distacco, assumere punti di vista non condizionati dalla Causa. Ma più egli è preso dalla sua passione, più c’è il rischio che nei suoi mondi e al di sopra di essi (famiglia lavoro frequentazioni discorsi interessi letture valori ecc.) s’imponga una visione unideterminata che non lascerà quasi spazio ad alternative: egli sente vede legge ogni esperienza nell’ottica di. Opera un taglio netto tra ciò che rientra e ciò che esula, tra quel ch’è desiderabile e quel che non c’entra o si oppone. Accogliere nuove e impreviste instantiae seminales costituirebbe, per come la vede lui, una mossa rischiosa, folle modificare l’assetto paradigmico dato. Domina su ogni cosa un solo ad hoc, che fa piazza pulita di tutti i mondi non rispondenti, percepiti come offensivi lesivi indegni. Come scrisse Bakunin di Nečaev. Egli è uno di quei giovani fanatici che non conoscono dubbi, che nulla temono... giovani, fanatici, credenti senza dio, eroi senza frasi. La descrizione corrisponde: il fanatismo nichilista, come qualsiasi altra contemplazione assolutizzante, congela l’in?definito dis-play originario, costitutivo delle seminalità. Non solo, ma teme altresì quella residua libertà che i poli SOM mantengono all’interno del paradigma. Tende quindi a sopprimerla del tutto. A tale risultato perviene eliminando ogni agire che possa alimentarla: nulla temere comporta ridurre drasticamente S a quella sola soggettità che s’identifica totalmente con l’Idea, o per meglio dire che si suicida nell’Idea; così come l’eroismo senza frasi allude ad un accecato bisogno di compiere l’atto prefissato senza più né riflettere né discutere. Il mediale infatti, in quanto radicalità, non è mai solo mezzo. L’irriducibilità-trasducibilità del mediale fa sì che ogni discorso almeno in parte sfugga nel diverso e nell’originale, apportando al contesto esistenziale una continua eversione di certezze, inaccettabile agli occhi del fanatico, il quale pretende che la verità sia una e indivisibile, sola e intoccabile, quindi ripetibile identica, laddove due discorsi uguali non possono neppure essere pensati. Così il fanatico finisce per ammutolire gelido, lasciando parlare il fuoco degli sguardi accesi dalla Causa. La bomba, col suo boato, traduce perfettamente la sordità mortale dell’Idea. L’aver appaiato poco sopra il terrorista fanatico allo scienziato totalmente assorbito dalla sua ricerca è cosa, come si può immaginare, non casuale. Entrambi si dedicano anima e corpo a una causa, dandola per assolutamente significativa (e pertanto, secondo un tipico arguire, sensata). L’accostamento sottolinea che fin qui poco ancora ci siamo detti circa i risvolti etici, e ve ne sono, della presente indagine. I paradigmi susseguitisi nel corso della storia del pensiero includevano d’obbligo più o meno esplicite determinanti etiche; di queste, tuttavia, scoprendovi ovunque retrostante il medesimo pre-paradigma, abbiamo riscontrato l’intrinseca debolezza. Dovuta, quest’ultima, non ai discutibili raziocinî che le improntano (tipo quelli sulla benevolenza che armonizzerebbe gli esseri o su presunte masse di deboli risentiti), ma all’autoctisi SOMaria, riscontrata la quale gran parte delle idee circa il bene ed ogni altro valore si ricollocano – abbattute e indifferenti – sullo stesso piano. Se le filosofie sono moralità mascherate, la prosofia sarà forse portatrice di una moralità nuda? Vedremo i riflessi etico-formativi della posizione prosofica nel capitolo ultimo. È la più necessaria delle questioni ed è là che il discorso deve terminare. Intanto, se dove l’ideotica non penetra troppo a fondo gli ee.uu. sanno di regola contemperare con sufficiente accortezza il paradigmico col prosofico lungo entrambe le direzioni sopra accennate (intraseminale e interseminale), le cose non vanno altrettanto bene quando vengono toccati gli apparecchi culturali, sia individuali sia collettivi. Ci opponiamo a mutamenti di prospettiva o vi aderiamo in toto. Propendiamo (un impetus, una “gentle force” humeana) ad accreditare il prestabilito o il precorso dandolo per affidabile e duraturo, cosicché in effetti dura. Gravitiamo secondo una data fisica delle idee. Queste vi orbitano formando sistemi che ci sembra esoso discutere, insoffribile scardinare. All’estremista, per esempio, pare estremistico mettere in discussione il suo estremismo, al ribelle la sua ribellione, al violento la sua violenza, al bruto la sua brutalità. Accade qualcosa di molto vicino a quanto hanno trovato Kuhn e Làkatos nella storia della scienza: l’individuo è dominato da una manualistica virtuale che prescrive il sapere da sussumere e le interpretazioni da dare, una sorta di catechesi ambientale. Ed è particolarmente degno di nota che non faccia differenza, quanto a questo, se il brodo colturale presenti caratteri di conservazione o innovazione. Nelle comuni a regime hippy prevalse in breve tempo una paradigmica non meno rigida, nel suo genere, di quella preposta a reggere il sistema della vituperata famiglia borghese. Si trapassa da un sistema all’altro con relativa facilità, dandoli tutti, uno dopo l’altro, per rispondenti e risolutivi. Ammessa la risistemazione, accolto il sasso, lo stagno si richiude, riguadagnando la quiete. Il mutamento intervenuto non incide sull’ad hoc di quel mondo se non a riassettarne la rispondenza. Sull’altra sponda, nell’agire pro-sofico, va diversamente. L’apertura all’irriducibilità-trasducibilità triradicale invita alle revisioni senza soluzione annessa. Il che è sussume altro e altro ancora eppur si conserva com’era, dato che il da sussumere era atteso, prospettato. Ne deriva una dialettica di molte vicende, senza strette obbedienze storiche o linguistiche, densa di esiti non-resultativi. Ritornando all’esperienza della scalinata, era successo che per qualche mese da quando S aveva preso servizio non era piovuto, se non sporadicamente. I gradini irruviditi dalla stagione secca trattenevano il piede mantenendo la stabilità del passo. La scala era sicura e una. In seguito, con l’arrivo dell’autunno, ripresero le piogge e col persistere dell’umidità la scala divenne qua e là piuttosto scivolosa. S cominciò a scegliere dove posare i piedi, seguendo una serie di passaggi sicuri, cosicché non saliva più in linea retta ma, meglio si direbbe, attraversava la scalinata. Questo fatto sdoppiava l’oggetto: il visivo restituiva come in precedenza un’oggettità geometrica e precisa, lineare; mentre il tattile (sotto i piedi) seguiva un’oggettità irregolare, scontornata. Tra il piede e il gradino v’era poi una terza oggettità interferente, quella delle suole. Un paio di scarpe grosse, ottime in montagna, si mostrarono del tutto inadatte a tenere sul selciato e sulla pietra levigata. Cambiando calzatura, a seconda del tipo di suola il grado di scivolosità della scala passava da appena avvertibile a pericoloso. Se poi s’aggiungevano variabili come la cautela la stanchezza la fretta il trovarsi soli o in compagnia ecc. la doppia oggettità (scala sicura/insicura) sfumava in una quantità di evenienze ed occorrenze plurideterminate in relazione alle quali l’illusoria consistenza e l’apparente semplicità dell’oggetto si dissolvevano in un complesso dis-play di quasi-realtà. Ci si può chiedere se sia sempre tale l’iter: da un’iniziale grossolana indistinzione, per cui l’oggetto si pseudocostituisce come oggettità semplice e afferrabile, a una successiva articolazione che eventualmente lo decostruisce fino a dissolverlo (qualcosa del genere in effetti riguarda l’intera storia della filosofia). Perché accade, bisogna dire, anche questo: che una confusa molteplicità di aspetti presenze connessioni affezioni (la stanza dei giochi di un bimbo di due anni) venga progressivamente chiarendosi fino a costituire una nodalità complessa ma scomponibile (la stanza dei giochi per un bambino di sette). Nei mondi adibiti del sapere, i processi acculturanti operano separando e collegando, cosicché costringono l’individuo a sintesi e analisi, mediante le quali egli s’adatta a un prodotto nel modo in cui è prescritto ch’esso sia conosciuto. Vale peraltro anche l’opposto: l’analisi e la sintesi fissandosi in stereotipi generano assialità cartesiane che stringono la cultura negli artifici della compartimentazione e dell’accorpamento. Invece nel parallelo mondo DOTale del sapere-agire la risposta non precede la domanda: la genuina apertura di quest’ultima concede una provvisorietà senza soluzione. Similmente ogni lemma si offre gratuitamente a chi parla, veda questi se farne uso e quale. Paradossalmente il sapere più vivo pare il meno rispondente. Non sarà anche il meno responsabile? Certi spiriti cosiddetti forti chiedono, anzi esigono, il coraggio delle idee. In laboratorio mi guardo attorno e di primo acchito constato che una quantità di cose mie sono le stesse da anni: le pinze dai manici blu, la squadra rossa da un lato e gialla dall’altro, la pialla e il pialletto, la morsa il banco lo sgabello girevole… Ma se ci penso su m’accorgo che l’impressione di perduranza sfuma. Essa dipende da una semplificazione dei ricordi: come se un processore ontico nel background della mente stabilisse quali variazioni considerare incisive e quali no nello statuto delle cose. Faccio il caso dei due contenitori cilindrici che tengo a portata di mano, l’uno di coccio, l’altro di legno. Circa i quali il primo pensiero che affiora è il seguente: nell’uno matite penne pennarelli, nell’altro il resto (forbici taglierini sgarzini punteruoli…). Ma ancor prima di prenderli in considerazione sento confusamente, pur non avendoci pensato su da lungo tempo, che ora non troverei il loro contenuto rigorosamente ripartito e quel primo pensiero non sarà vero. Potrei trovare una stecca di metro tra le matite o una biro tra il resto. Tempo addietro, quando in laboratorio mi ritiravo soprattutto per disegnare, ciò non sarebbe successo. Usando di preferenza matite, le avrei trovate nel cilindro di coccio disposte senz’altro così: a punta in giù se adoperate, da temperare, a punta in su pronte da usare. Ciò rifletteva una mia maggior cura, all’epoca, per la razionalità dei gesti, la nettezza del tratto, rappresentava un bisogno d’ordine e d’efficienza, il timore dell’irregolarità e simili. Era un S diverso quello che allora ritrovavo allungando la mano per prendere o riporre una di quelle matite, vi predominava la fissazione dei compiti dei tempi dei modi. V’era anche l’intenzione, nel disporre in quel modo gli oggetti, di far sì ch’essi rilanciassero un messaggio forte e incoraggiante, del tipo Avanti così! o Non ti distrarre! Nei due cilindri l’oggettità si lasciava pertanto ridurre a soggettità e a mezzo. Se a questo punto esamino il contenuto attuale dei due cilindri resto sorpreso nel riscontrare che effettivamente quasi tutte le matite si trovano, come previsto, nel contenitore di coccio, ma alla rinfusa, punta su punta giù. Evidentemente non sentendo ormai più la stessa urgenza di quei riscontri S e M, il comportamento che determinava la configurazione di O è rimasto solo in parte, non senza in ciò un’implicita coerenza. Tuttavia, quale S e quale M ora il cilindro delle matite esibisca non potrei dirlo, perché è mancata in proposito una presa di posizione cosciente: una lenta deriva dei sensi ha spostato le cose, mantenendone pressoché intatta l’apparenza o per meglio dire l’astrazione. Alla fin dei conti, nel quadro di massima condiviso dall’ospite occasionale, e anche dal gatto di casa, il portapenne è, anzitutto e perlopiù, un mero O. All’estremo opposto, l’analisi dei giochi SOM, tutt’altro che esaurita, pretenderebbe ancora un’insostenibile quantità di descrizione. Tra l’altro le matite provenivano da ogni parte del mondo ed erano anche oggetti-ricordo, oltre che di consumo; erano quindi messaggere di altre oggettità e soggettità. Una portava da Miami, scolpito in coda, un colorato TE AMO, sopravvissuto integro e triste all’amore a cui intendeva felicemente alludere. Destinare al consumo un oggetto-ricordo (o al ricordo un oggetto di consumo) genera una dissonanza tra datità diverse che può essere trattata in tanti modi: o ignorata come irrilevante (consumato l’oggetto, bruciato l’annesso ricordo), o ricomposta (collezionando tante matite-ricordo e usandole a rotazione tutte quante, il consumo di ciascuna di esse risulterà minimo e alfine più lento della vita stessa), o tradotta ironicamente in messaggio sul senso o sul valore delle esperienze di vita (‘Mantieni appuntiti i tuoi ricordi!’). Se questo e tant’altro può esser detto di un mazzo di matite, altrettanto articolabile sarà la descrizione, tra il SOMario e il DOTale, di tante altre cose apparentemente ignude, tipo il cacciavite il calibro la falce. Nell’esperienza minuta di un solo individuo i travasi e le tracimazioni intra- ed interseminali non si contano. Nei mondi ad hoc si cade appunto per contrastare l’in?definitezza, per sopravvivere alla con-fusione di finito infinito indefinito ridefinito in cui siamo perennemente immersi. Ci si regola come se la vicenda dell’essere fosse discreta digitale computabile, piuttosto che continua traspositiva metaforetica. Si desidera non tanto questo o quello, bensì il questo o quello, l’aut aut. L’in? definito si tollera solo in ordine a, in vista di, purché ecc. Non possiamo permetterci la piena libertà di essere al mondo perché quell’affrancarci ci sposserebbe. L’estetico e l’etico [↑] Tornando al caso della scala, un paio d’anni dopo iniziò a frequentare l’Istituzione una ragazzina paralitica. Un accesso per disabili non era stato previsto sicché il nonno che l’accompagnava doveva raggiungere l’ingresso in auto per altra via e comunque restava l’ostacolo di quattro scalini. A quel punto, egli era costretto a prendere in braccio la nipote, esile per fortuna, su dalla sedia a rotelle, in attesa che un inserviente spostasse la carrozzella sul piano dell’atrio. Poi rimetteva giù la ragazza la quale proseguiva spingendosi da sé tra le compagne. Questa scena a cui S assisteva quasi ogni mattina introdusse inaspettatamente un elemento che abbatteva le strutture di comprensione precedenti. Nella fuga di gradini, là dove prima egli aveva visto una sorta di pieno estetico, ora lo colpiva un vuoto etico. Il senso della cosa si rovesciava. Non c’è magnificenza o solennità che resista alla compassione. S venne a sapere che l’architetto, a cui s’era chiesto di provvedere una rampa d’accesso, aveva negato l’autorizzazione, in quanto una simile variante al suo progetto avrebbe falsato l’immagine d’insieme. Allora ciò ch’era stato intelligente e creativo si oscurò, manifestandosi ad S come ottuso; la scalea generava un messaggio di pompa meschina. Questa fu forse la reazione di S. Ma – è opportuno chiedersi – la contrapposizione tra estetico ed etico, di cui viene spontaneo servirsi, regge all’esame prosofico? Tali categorie sono storiche, posteriori all’essere al mondo e diversamente impastate nei vari paradigmi: espressioni mal distinte del magicomisterico prima di tutto, in seguito aspetti concomitanti dell’Essere, e più tardi, in età moderna, modi dell’io pensante. Oggi sono per noi frutto di un rapporto, di un dialogo, un’intesa, quindi di interpretazione e condivisione e acculturazione consapevole. Ciascun e.u. può dar forma a un suo mondo in cui abbia senso o addirittura vi predomini, tra l’etico e l’estetico, una compunta armonia (come in Shaftesbury e in ogni altro platonico prima di lui) o un teso contrappunto (come nella scultura romanica o in Rousseau). In prosofia dunque siffatte categorie storiche non ci aiutano gran che, sono anzi da spiegare, da ricondurre alla laboriosità del dis-play pro-schematico, dove compaiono come figure procedenti da ciascuna delle radicalità e dalle loro interrelazioni. Ovunque le collochiamo fuori della datità originaria queste categorie diventano dogmatiche, non per quel che di volta in volta significano, ciò che è sempre interessante conoscere, ma semplicemente perché sono presupposte esserci, là e così. Cos’era quell’estetico da cui S sarebbe rifuggito, spinto dall’esperienza di vita, per approdare all’etico? Forse che quell’imponenza, quella torreggiante severità che la scalea suggeriva al visitatore potevano dirsi puramente estetiche? O non erano il risultato di un già intricato sovrapporsi di sensi sia etici sia estetici? Germinal non è forse denso di estetico (di rumori afrori fumi)? Nel nauseante eccesso degli esotismi À rebours non accentua forse più di ogni altra cosa una nevrosi etica? Cosa fa della Mort de Sardanapale un dipinto atrocemente estetico? Qui il senso della morte è sottratto al morente, che diviene anch’egli spettatore, perché di essa serve lo spettacolo. E a torto si sosterrebbe che l’etico s’incarni nelle figure discinte delle spose, anch’esse per barbara consuetudine destinate al tumulo, perché è proprio non della di lui ma della loro morte imminente, nel fiore degli anni e delle carni, che il quadro vuol farsi bello (la carne, la morte e il diavolo…). Il lacrimevole va in scena e con ciò stesso la commiserazione sublima, diviene orrore, e insieme precipita in brutalità, da cui il godimento intenso. Le arti non sono innocenti. In esse ha luogo però un’intensa commistione triseminale perché l’antico impegno ad emulare e insieme ad ingannare il vero le tiene al riparo, almeno finché quell’impegno è rispettato, dalle rigidità paradigmiche. Affrontando la naturalità l’arte insegue giocando la riduzione dell’irriducibile, sapendo che il vero naturale, perché essa consista, deve sfuggirle. Giacché cos’è poi davvero quel che si diceva a suo tempo (ad es. in Lucrezio) natura se non il resultato dell’essere al mondo, ovvero della irriconducibile triseminalità originaria? O natura è questo, e il suo vero è la vita eveniente, o si sta adducendo qualcosa di riduttivo (idea sofica, legge o dato scientifico, rappresentazione matematica, stereotipo, icona ecc.). Insomma, la solennità della scala era sembrata un dato dell’estetico a quell’S che alla cosa aveva attribuito quella particolare oggettità (l’imponenza nuda). Quest’ultima aveva di riflesso dato spazio, nel mondo ad hoc di S, all’affermazione sopra le altre di una soggettità formalista. Di pari passo il linguaggio (M) a cui quella soggettità prestava orecchio era quello in cui trovava conferma quel formalismo che avvalorava sia l’oggettità prevista sia la soggettità divenuta preminente. Ora un evento del mondo (la ragazzina con la sua pena) disintegra tale schema SOMario: basta questo a spiegare il rovesciamento di senso, la scalea non più augusta ma angustiante? Non credo. In qualche ansa del suo essere al mondo S aveva approntato un’apertura – forse alla pura giustizia o alla dignità, forse alla compassione o alla tenerezza o a un più generico interessamento – dalla quale s’è improvvisamente affacciato su un altro mondo. D’un tratto altre soggettità, altre oggettità, altri veicoli di senso s’impongono. Osservando come vanno le cose in genere, si può solo dire che le differenti soggettità oggettità medietà, finché agiscono in aggregazioni confinate nei rispettivi mondi adibiti, non comunicano da un mondo all’altro se non per combinazione di circostanze, forzate da evenienze inattese. Se sono le svolte casuali dell’esistenza (o le meschine astuzie della storia) ad erodere i nostri paradigmi, vivremo una sequela tutt’altro che logico-ideale di varie soluzioni, tutte altrettanto prossime al banale, un macinato di concezioni che facilmente s’insacca nel medesimo schema. Nel prosofico gli intermundia dovrebbero tendere invece alla trasparenza ed essere abitualmente navigati. Qui l’esplorazione è parte del dis-play della vita, di cui è premio a se stessa la pro-schematica dell’essere. Riflettendo sull’accesso per disabili che l’architetto ha trascurato, S può trarre le più diverse conseguenze. Abbiamo immaginato che egli si prenda a cuore la questione. Quindi non esiterà a spendersi perché quel tratto della costruzione, che gli appare ora ingiusto e indecoroso, sia modificato. Avanzerà forse una variante, tracciata di suo pugno, che invierà alla direzione o all’artefice. Se farà una cosa del genere, con tutta probabilità avrà già drasticamente modificato le sue idee?concetto intorno a questi soggetti ed anche l’idea?concetto di se stesso in relazione a quelli. Potrà giungere a fondare un’associazione per l’abbattimento delle barriere architettoniche nel suo paese, o divenirne membro pugnace, se ve n’è già una, dando del filo da torcere all’intera casta degli architetti; oppure estendere l’attacco contro ogni forma di sopraffazione delle istituzioni sugli individui. O al contrario farsi promotore di una diversa immagine dell’istituzione per cui lavora, ottenendo in prosieguo di tempo un reale cambiamento della qualità dell’utenza non solo per i diversamente abili ma per chiunque la frequenti. Una cosa specialmente non sappiamo dire: se S, a partire da ciò che in lui e per lui è mutato in altro, costruirà un nuovo mondo ad hoc, confinato ideoticamente più o meno come il precedente, o se sarà invece la sua pro-schematica dell’essere al mondo a farsi più sagace. Potremmo saperlo – ci conviene ipotizzarlo, ma non è neppur questo certo – solo se noi fossimo S e vivessimo quella particolare evenienza di vita. Certo è che questa può portare ovunque: da un giro del mondo su se stesso, così che lo stato di cose non muti affatto o ben poco, ad uno spostamento di visione tale per cui nulla è più come prima e ti ritrovi in tutt’altra configurazione di mondi. Poiché la pro-schematica è una disciplina personale e non una conoscenza generale, dei suoi effetti non possiamo dire se non che il sapere-agire pare correlato all’ampiezza del campo di attensione dell’essere al mondo. Ma qualcosa del genere vale anche per ogni paradigma, visto che, per l’irriducibilità-trasducibilità delle radici, qualsiasi esito riduttivo genera un’intonsa apparenza di vero (o dei suoi vicari ed analoghi, come il bello il santo o, più recenti, il trendy il cool e simili). Una differenza tuttavia c’è e sta in questo: la pro-schematica non genera né scienza (seria o gaia che sia) né dogmatici sospetti: tutto il vasto volume del che è & che non è rimane sospeso in una sorta di in?comprensibilità intenzionale. Di fronte alla spinta propulsivo-eversiva delle tre seminalità, che di momento in momento insidiano/insediano l’essere al mondo trasducendosi in ogni cosa e restando tuttavia irriducibili agenti di evenienze ulteriori, la più sofisticata teorizzazione (sociologica psicologica antropologica semiologica ecc.) non rappresenta che una lontana eco, una falsa risonanza della vita in azione e di quel sapere-agire eveniente che pure in qualche misura ci è consentito. Falsa risonanza almeno fintantoché l’interpretazione teorizzante vien presa come espressione di una qualche razionalità comprendente e sovra-intenditrice. Una lettura sociologica psicologica ecc. può esser presa invero come manifestazione anch’essa dell’essere al mondo; ma così non offrirà altro che la sua propria evenienza, al pari di ogni altra cosa. Le relazioni tra cose appaiono rispondenti (o non rispondenti) a certe attese, quindi come nessi pattuiti utili logici ecc. Da sempre il sapere sofico tende al logico (o tecnico) e riposa sull’analisi della ripetizione-come-previsto di certe concomitanze e sequenze. Con nostra grande soddisfazione questo sapere tecnico è finalmente esploso in una biblioteca non-babelica di computazioni. Ma il logico (come il meccanico) non ha in sé senso (ha solo significato). Il senso del logico dipende dall’utile, cioè dall’essere strumentale a qualcuno per qualcosa, per i suoi calcoli, e questi per un certo diletto o prodotto. Che due mezzi sommati diano un intero è logico (è linguistico), ma non ha alcun senso finché qualcuno non adopera questa forma come strumento per uno scopo che reputa congruente. Bisogna che si dia l’uso di quel logico perché esso sussista come logico. Infatti anche il piacere (o per alcuni il dovere) di mostrare il sussistere del logico non è che uno dei tanti impieghi del logico. Questo, il logico, sorge per astrazione da molti usi, e la sua stessa verità resta in bilico: da una parte, il singolo uso smentisce l’integrità o assolutezza della verità di un generico asserto logico, foss’anche il più ovvio; dall’altra, la sua verità permane integra solo se non viene usata, e non ha quindi acquisito alcun senso. Nella storia del pensiero l’insensibilità all’uso risulta evidente. Pare che l’uso esista solo se interessa, cosicché si fa un uso ideotico dell’uso, ch’è invece pratico. A mio parere ciò deriva in buona misura dall’assenza dell’oggetto, tipica del lavoro intellettuale, dov’esso, l’oggetto o referente, trascurandone il contesto triseminale, viene sostituito dai suoi presunti significati. Come l’espressione ½ + ½ = 1 non so che misura di verità comporti né che senso abbia finché non l’ho praticamente adoperata, così è per ogni altra espressione in qualsiasi linguaggio. Sennonché, mentre le matematiche si dichiarano fuori del mondo e disposte a rinunciare al senso pur di rimanere a tutto estranee fuor che a se stesse, nell’autoreferenzialità loro tipica, il linguaggio dell’intellettuale, benché giochi con le parole, presume maneggiare ogni genere di cose in loro assenza. Perfino l’espressione più semplice, “egli mi salutò”, non è comprensibile fuori dall’evenienza (quel particolare atto che a me risultò un saluto rivoltomi da lui e che riferisco in questi termini) o dall’autoreferenzialità (di fatto egli mi salutò perché sto asserendo, con sottintesa tautologia, che egli mi salutò). La riduzione di O ad M è impossibile all’atto pratico, ma nel discorso intellettuale ciò avviene di regola come niente fosse, grazie al fatto che, con la divisione del lavoro intellettuale, il sapere s’è fatto estraneo all’agire anche quando più che mai vorrebbe aderirvi. Le conoscenze tecniche garantiscono solo per se stesse. Nessun senso è loro congenito. Il senso, il significato del complessivo, è una chimera perché il complessivo non si dà, se non come idea della kantiana ragion dialettica. Di quale istituzione era sede il palazzo senza accesso per disabili? Di quale paese era organica quella istituzione? Non vigeva una legge per l’abbattimento delle barriere? In che anni si svolgono i fatti evocati? In quale contesto locale politico economico culturale? Rispondere a queste domande implica incontrare variazioni e forse mutamenti radicali di senso dell’intera vicenda. Per tornare alla questione del valore, quanto ho osservato non discute gli eventuali meriti (o demeriti) di tutte le separate inchieste che l’ingegno umano ha compiuto lungo decine di secoli, esplorando l’esperienza e l’idea, il possibile e il necessario, il fisico e lo psichico, l’umano e l’oltreumano. Solo ritengo che tutto quanto è stato costruito come giudizio circa i modi dell’essere nel mondo non abbia fatto i conti con il difatto dell’essere al mondo, perché altrimenti intorno a ogni costrutto sarebbe apparso all’istante l’alone opacizzante del pre-paradigma, cioè la meccanica di quel pensare che ignora non tanto l’una o l’altra condizionatezza – spesso al contrario sottolineata ad oltranza allo scopo precipuo appunto di paradigmizzare (quale ad es. in Protagora l’uomo metro, in Lutero il servo arbitrio, per Marx i bisogni materiali) – ma le condizioni ineludibili che radicano nell’in?fondatezza ogni atto d’intelligenza e ostano così all’intelligibilità piena del sapere come all’intera intelligenza dell’agire. Detto questo, se il vero è solo, inafferrabilmente, in quell’in?definita triseminalità che ospita tutti i possibili sensi fatti identità ecc., quali percorsi restano aperti alla riflessione di sfondo? Da un lato si ha infatti tutto quanto è estrapolato, il vero pre-stabilito, religioso e filosofico, grammaticale e logico, tecnico e scientifico. Per giungere a quel voluto vero almeno una radice delle tre dev’esser fissata, ridotta a strumento. Per lo scienziato, ad es., il linguaggio, rispetto al quid descritto, dev’essere rigoroso cristallino vitreo. Dall’altro lato si ha il vs-&, l’essere posto di fronte all’in?consistente. Qui la questione è come gestire l’a?logia, come affrontare la contestuale presenza e assenza di un vero naturaliter opaco. Se il mediale costruisce l’oggettuale, da cui sorge il soggettuale che produce il mediale ecc., su quali basi posso accedere al sapere-agire? E ammesso che questa trigenesi primaria sia anche la verità ultima, come farvi fronte? Non è forse insopportabile? O tale sembra per il solo fatto che, intellettualmente, non siamo avvezzi a conviverci? In contrasto con l’indubbio servigio storico – nel bene e nel male, come si è usi dire con una certa nonchalance – delle visioni fondate sull’uno o l’altro paradigma, pare che l’in?determinatezza costitutiva del sapere-agire triradicale non permetta ad alcun significato di resistere, ad alcun senso di valere. E dunque di nuovo la domanda: Non v’è spazio, nel DOT, per alcun valore? O ve n’è per tutti? E che differenza fa tra ammettere tutti i valori e nessuno? Da tempo il valore della processione storico-reale dei paradigmi non convince più; si tratta tutt’al più di un valore d’uso estemporaneo-locale. Quanto a questo, qualsiasi idea abbia salvato una vita è stata, in quel momento, una buona idea; qualsiasi idea abbia ucciso è stata una cattiva idea. La Instauratio baconiana è utile a quello squarcio di storia d’Inghilterra e d’Europa che vivamente la sollecita. I philosophes affilano le baionette della Grande Armée. Il positivismo scientista serve subito ai razzisti per discriminare e perseguitare. Se non c’è pensiero sistematico che non abbia percepito, più o meno di sbieco, l’intrico del darsi triseminale, non ce n’è uno che non abbia cercato ad ogni costo di districarsene. In discussione di volta in volta sono i vecchi valori, quelli che le forze della storia (il tribunale ecclesiastico, la reale accademia, il monarca assoluto, la nobiltà di toga, l’opinione pubblica, lo scienziato, il capitalista, la piazza, il mercato, il partito ecc.) trovano ormai inservibili. Ora, mentre le vicissitudini dell’umanità devono restare presso di noi, in continua presenza, accolte dal calore di tutta la compartecipazione di cui siamo capaci, al di là di ogni singolo senso vagante nello spazio-tempo di questa o quella cultura, fronteggiare i valori richiede una superiore distaccata freddezza. I valori sono per (tramite) noi, non noi per essi, come ad es. in Kant. Questa cosa può sconcertare. Sarebbe bello essere per senza uscire dal darsi originario. Ma la triseminalità costitutiva semplicemente non lo consente, se non in forma di idea superàddita. Cosa che si ottiene abbracciando un paradigma congeniale a quei valori-idea. Allora sì, otterremo una rispondenza tra storia, memoria e valore; ma sarà qualcosa di pregiudicato. Possiamo essere all'oscuro del DOT, starvi immersi nell’agire, starne fuori nel sapere. Ma una volta acquisito va tenuto debitamente in conto. Fuori del pre-paradigma, negli spazi aperti della triseminalità, i valori non si presentano come idee e quindi non hanno maschere. Vi si ritrova soltanto, per così dire, la loro anima. Quanto al concordato o pattuito esso o corrisponde del tutto alle attese, o pur non corrispondendovi viene accettato come buon compromesso o male minore. Nell’un caso e nell’altro anche la pattuizione acquista senso solo in relazione ad un determinato conveniente. Su una quantità di argomenti e comportamenti e regolamenti mettersi d’accordo è di straordinaria rilevanza sociale poiché disinnesca il conflitto, e si può dir quindi immediatamente conveniente. Pare solido che su quante più faccende ci troviamo in accordo, su tante meno ci troveremo in contrasto. Questo però sembra il contentarsi del perdente, che prima di tutto teme il conflitto in quanto tale (conflitto che è altro dalla violenza) e trema al solo pensiero. È comprensibile che, dopo le brutali infamie del Novecento, nelle quali hanno recitato in ruoli osceni contrapposte ideotiche al servizio di opposti utili, l’etica abbia mostrato una decisa propensione ad assolutizzare il valore del dialogo in quanto dialogo. Ma anch’esso cos’è se non strumento per lenire attriti, costruire intese e cooperazioni? Il pattuito rimanda al valoriale, se vuol guadagnare senso. Se così non fosse, qualsiasi patto, da quello di Mephisto col dottor Faust a quello di von Ribbentrop con Molotov, avrebbe valore per il solo fatto che produce un accordo. Un discorso del tutto analogo vale per l’eroico, l’astuto (nell’accezione o machiavellica o hegeliana), l’opportuno, il razionale ecc. Pertanto siamo sempre rinviati all’esame di cosa sia il conveniente, e questa parrebbe una bella semplificazione, capace di portarci presto da qualche parte. E invece l’utilità o convenienza di un atto, se si escludono gli effetti immediati, resta insondabile. Quanti gradi di fini riusciremo a contare prima di dover ammettere come ipotetico e dubbio quell’utile su cui riposa il nostro scegliere? Ho il sospetto che la certezza del conveniente non oltrepassi nel migliore dei casi più di sei-sette gradi di intenzione. Al di là dei quali il destino degli scopi dilegua. Per questo gli atti etici nell’ambito della misericordia e della gratuità evangeliche possono dirsi perfettamente convenienti, in quanto considerano solo l’immediatezza, né guardano ad altro che non sia compassione e dono. Ma al di là dell’agire immediato, può l’e.u. considerarsi abbastanza flessibile e libero per reggere il che è & che non è delle cose? E se non lo è ancora, potrà mai diventarlo? O non sarà che ogni nostro moto d’essere, costretto a subire senza scampo l’in?determinatezza triradicale, non possa accedere al sapere-agire se non occasionalmente, per combinazione di circostanze, grazie a una sorta di felicità sporadica e incespicante? L’opinione che ne ho è che un’educazione al darsi triseminale possa senz’altro darsi, benché ce ne manchino ancora perfino i termini, tanto s’è orientata l’umanità nella direzione opposta del conoscere tecnico. Che possa darsi ce lo conferma la vasta maggioranza delle persone di ogni estrazione culturale che nell’ordinario del vivere si regola per lo più in base a una spontanea accortezza, in cui è attiva l’inclinazione naturale a soppesare di momento in momento le relazioni triseminali, sempre mutevoli anche nel loro persistere. In molti casi, in effetti, mostriamo di esser preparati all’impreparazione, come se il vivere stesso ci abituasse a una sorta di ascesi a rovescio o anáskesis: non un predisporsi all’assoluto attraverso un lungo esercizio di rinuncia a tutto il resto, ma un esser pronti al diveniente tramite un esercizio di distacco dai singoli qualcosa. L’anaskesis naturale a cui siamo propensi si mostra tuttavia insufficiente a reggere l’impatto con gli artifici del pensare e del fare SOMarî, sempre funzionanti, dei quali pure abbiamo indubbiamente bisogno. Soggetti ogni momento al mutamento, l’immutabile ci seduce. Sbarazzandoci dell’originario prima ancora di giungere a figurarcelo, risulta immediatamente razionale trovare contentamento in ciò che sostituisce alla fatica sisifea del vs-& e del sapere-agire correlato la forza di un qualsiasi che è, enucleato compaginato condiviso avversato ecc. Perché della datità triseminale, valore primo della nostra vita che mai si dà a vedere intero, possiamo ben dire, estendendo quel che Henri de Lubac (in Paradoxe) riferiva all’intuizione creatrice, che …partout où l'on en découvre une manifestation, l'on est tenté, non seulement de la goûter, mais de l'approuver. Serve pertanto un progetto auto-educativo teso alla incentivazione dell’anaskesis naturale. Ma che evidentemente non dovrà sfociare in una regula, in una anaskesis standardizzata, in totale controsenso. Poiché tutto s’ideotizza in men che non si dica, bisogna starci attenti. L’anaskesis naturale non potrà che esser pazientemente coltivata come gusto del per sé & del per altro: non quel gusto abitudinario che Picasso condannò come “ennemi de la créativité” e di cui Degas aveva detto “c’est la mort de l’art”, ma il gusto esplorante, tentante-prudente, ricreativo-inventivo. Legno chiodo martello [↑] Per terminare. Immaginiamo di porgere a due volontari, un intellettuale (I) di scarse esperienze manuali e un falegname (F) che non sa di scuole di pensiero, un martello un chiodo e un pezzo di legno. Chiediamo loro per cortesia di “piantare il chiodo nel legno”. Entrambi i soggetti sapranno afferrare il martello per il manico e il chiodo per il lungo (piuttosto che in testa e punta) dimostrando di avere in comune un grado elementare di lettura della funzionalità degli oggetti. Fin da subito però le loro cognizioni-azioni differiranno. Il primo ridurrà quegli oggetti al suo livello d’imperizia e proprio per questo prenderà forse le tre cose messegli sottomano senza discuterle. Per lui esse saranno la materializzazione dell’astratto. Poiché l’astratto che ha in mente è uno, il concreto sarà altrettanto uno: quel chiodo è tendenzialmente il chiodo-tipo, non un peculiare chiodo tra tanti, diversi per forma funzione utilizzo. Quand’anche percepisse differenze tra il chiodo che ha in mente e quello che ha in mano non se le spiegherebbe. Lo stesso per le altre due cose la cui oggettità per I sarà dunque, per così dire, uniface: un pezzo di legno come un altro, un martello come un altro. Ne consegue che l’uso delle tre cose insieme sarà altrettanto unìmodo: mera attuazione dell’astratto piantare un chiodo. Al contrario in F la vista del martello susciterà l’identità peculiare di quella precisa forma tra le diverse che conosce; un primo sguardo al pezzo di legno ne identificherà l’essenza, ne valuterà a occhio la stagionatura, le tensioni, gli eventuali nodi, la squadratura ecc. Egli potrebbe rifiutarsi di piantare il chiodo, prevedendo che quel chiodo spaccherà quel legno o che quel legno storterà quel chiodo. Le oggettità compresenti alla mente di F sono tali e tante che si è tentati di concludere per l’esaustività: F detiene pratico-operativamente la quasioggettualità del pezzo di legno. Naturalmente ciò è vero soltanto per quanto riguarda l’aspetto ebanistico, mentre non saprebbe da che parte prendere se dovesse utilizzarlo, che so, per un’esperienza didattica di combustione. Inoltre occorrerebbe precisare all’interno di quale cultura F si è formato, dato che un ebanista ugandese e uno finlandese produrranno quasi-oggettualità certo alquanto diverse di quello stesso legno. Ma il vero limite di F sta nel confinamento dell’esperienza entro i significati e i sensi pre-stabiliti dalla sua visione pratico-operativa. Se infatti assumeremo un punto di vista diverso, ad es. quello immaginativo-creativo, ecco che forse la sua visione risulterà a sua volta uniface: a che può servire piantare un chiodo se non per fissare il pezzo a un altro pezzo? A che scopo piantarlo a metà, o storto, o a rischio di spaccare il legno? Ad I invece potrebbe presentarsi, reperibile a partire dalle tre cose, un’ampia gamma di sensi alternativi: poetico estetico etico esistenziale fenomenologico antropologico matematico dialettico logico paradossale ecc.: che so, adoperare il legno per conficcare il chiodo nel manico del martello tanto che la punta sporga dalla parte opposta in posizione tale da forare il palmo della mano che distrattamente afferrasse lo strumento… metafora dell’insidia autolesionista nascosta in ogni strumentalità o tecnica. Oppure, spingere il chiodo appena dentro il legno in corrispondenza di uno dei vertici dell’assicella, a significare la precarietà dell’esistenza. O percuotere il legno stesso producendovi bozzi e segni vagamente decorativi ed alloggiarvi da ultimo il chiodo disteso: l’uomo-omino consunto nella sua bara di dolori. Probabilmente F osserverà perplesso simili alternative d’uso, ma I le trova pregnanti. Egli concettualizza a partire dai medesimi oggetti diversi campi di eventualità, connessi ad un vasto catalogo di soggettità e linguaggi. Ciò non toglie che ciascuna delle sue costruzioni mentali possa incontrare ostacoli all’atto pratico, perché a I manca una sufficiente cognizione dei materiali e un’adeguata pratica degli strumenti. I discepoli di Sais scoprono l’irriducibile ricchezza del sapere-agire nelle botteghe degli artigiani sotto casa, ma chi li riporta a se stessi dopo la lunga erranza in cerca di una lontana verità astrusa è il poeta. Il sapere-agire è un animato intreccio di significati e sensi, una libera respirazione, una doppia circolazione del sangue dell’esserci, come in Objet di Miró [1931, legno dipinto, chiodo, corda, osso e perla, New York, The Museum of Modern Art], leggero gravitante nel cosmo ri-creativo dell’artista catalano. Dunque non si contrappongono, semplicisticamente, il tecnico-esecutivo al creativo-progettuale, lo scientifico all’umanistico, quanto piuttosto si interrogano reciprocamente il significativo e il sensato, il SOMario e il DOTale. Invero, sia I sia F possono giungere a intrecciare, nella tessitura di mondi che è loro propria, entrambi gli aspetti, rigenerando di continuo il sapere-agire che li muove; oppostamente, entrambi possono aderire a un’ideotica restrittiva, persuasi dalle contemplazioni e banalizzazioni, per quanto complesse, ch’essa implica. La stessa preoccupazione della complessità, così tipica della cultura recente, non affronta il grande nodo dell’essere al mondo. Non è infatti difficile cadere in un’ideotica della complessità, in una teorica dei sistemi, sperando ancora una volta di controllare mediante confinamento, quasi fosse nel circuito di un maxi-sincrotrone cognitivo, l’irrimediabile vicenda dell’essere. Insomma, come F può spendere la sua cognizione quasi-oggettuale dei materiali ecc. per fabbricare di anno in anno innumerevoli sedie pseudo-Biedermeyer o madie romagnole di altrettanto pseudo arte povera, così a I può succedere che tutta la sua creatività cognitiva si risolva in una bassa ideotica dell’ideazione, o in una assiomatica del dubbio. Poche o tante le cose che si hanno in mente, il rischio di inscatolarle non diminuisce. Anzi, più sono e più il bisogno di confezioni si fa sentire. Essenza e fenomeno, calcolo e intuizione, esperienza e ragione, materia e spirito, soggettivo e oggettivo, dimostrazione e interpretazione non sono che alcuni tra i tanti costrutti ideotici di un essere che non sa comprendersi senza rinchiudervisi. Imbarazzato dall’in?afferrabilità del suo essere al mondo, egli cerca appoggi per l’afferramento di quel senso che è destinato a sfuggirgli, giacché si dà soltanto nell’intrico seminale del vivere. Per il resto nulla di più corrivo che porre sensi alla stregua di significati: basta sospendere l’a?logia originaria. L’esistenza, pur coestensiva alla vita, implica un’intensione opposta: nella vita si è immersi o integrati (è un esser dentro), nell’esistenza si è gettati (è un esser fuori). Ora, mentre l’essere immersi riflette il darsi originario, l’esser gettati genera l’esigenza di una soluzione, grazie a cui quell’essere che si è sente sprovveduto sia fornito di un mondo suo che lo alloggi e ne lenisca la pena, o comunque di una ragione/regione che contenga la sua sofferenza. Però chi sarà il fornitore di mondi se non lui stesso? Per tutti i viventi la miglior cura è lasciarli al loro ambiente speciespecifico, ma l’ambiente degli umani non c’è più: essi sono divenuti tali disfacendolo. L’essere umano è il solo senza ambiente specifico, il suo sé è interrogativo, il suo habitat è l’ipotetico, il suo stato di natura la perplessità. Per rispondere si rifornisce di mondi. Tra questi se ne trovano di sfumati, dove il chi, il che e il come restano nel vago. Si pensi al giornalaio nel suo chiosco, che s’affaccia sulla ripida viuzza di una meta turistica. Chi sono i suoi clienti, cosa vogliono, come rivolgerglisi? Si pensi al viaggiatore consapevole, che quasi ogni momento si domanda chi ho vicino? cosa è la sua vita? come gli parlo? Alla nostra trepida affascinante fatica di pellegrini tra mondi nostri e altrui. In casi simili l’approssimazione è una gran virtù. Permette di affrontare l’in?definitezza con un sapere-agire flessibile. Ma per quanto aperto e attento e interrogante sia l’essere, bisogna pur che in buona misura s’adegui al dato e non lo discuta più di tanto, altrimenti la stessa quotidianità si sgrana in una foschia eternamente fluttuante ed equivoca. Così il giornalaio tenderà ad assumere una gentile espressione neutrale, ad usare forse frasi fatte, a non chiedersi chi sia il suo cliente, ma piuttosto cosa sia (locale o forestiero, loquace o impaziente ecc.). Questa riduzione dei comportamenti è conseguenza della standardizzazione tattica delle radicalità. La soggettualità? Chi sia l’essere dietro il braccio che allunga gli spiccioli poco conta chiederselo, se molto probabilmente chiunque sia non lo vedremo più. E come parlargli, se quasi ogni parola che diremo dovrà indovinare la sua interpretazione? Meglio una formula basic. Il cliente è già contento di sentirsi augurare una buona giornata, notificazione quasi impercettibile ma gradita della sua presenza lì in piedi, di passaggio, non solo come mano porgente, ma anche come essere umano. Bagnino e bagnante adottano anch’essi, nei rapporti reciproci, strategie indubbiamente riduttive: raramente s’indaga, non si vuol sapere altro che l’irrilevante, per qualche giorno il mondo gioca su quel rettangolo di arenile. Ciò che conta è il sole il mare il sapore di sale, e poi il cibo la partita la battuta. Sì, tutto è sottomano, ma non c’entrano l’autenticità e l’inautenticità professorali, né il si dice… o il si fa… Benché la dimensione temporale possa ridursi quasi del tutto alla minimalità dell’oggi ed anzi al più semplice hic et nunc, questo di per sé non impedisce all’incontaminata bellezza dell’essere al mondo di sprigionarsi tra persone parole cose. Quella bellezza non è così arcana come per solito si ritiene, se la lasciamo libera. Essa vibra senza posa, nella inafferrabile vicissitudine della vita. Parte Quinta. Essere e ab-essere Del giusto [↑] IN ultima analisi, dunque, il vero e l’utile restano sfuggenti o, ciò che è lo stesso, preferenziali, perfettamente disponibili se li precisiamo come esiti o compiti di mondi nostrani. Anche il buono (come aggettivo di bene) può facilmente ridursi all’utile con un’inflessione morale; inflessione di scarso peso, perché nel darsi originario il buono risulterà in?definibile, mentre in un mondo ad hoc ovunque l’avremo posto lì lo troveremo, come i casi della storia mostrano ampiamente. Come l’intera montagna dei significati non sa partorire un solo minuscolo senso, così nell’immensa congerie dei sensi non si scorge alcuna traccia di giustizia. Al tempo stesso – vi abbiamo già accennato in diverse occasioni del testo – in prosofia non è concepibile mancare la percezione del giusto. Proprio perché non v’è spazio per la giustizia assoluta nella sconfinata relatività dei sensi possibili, alla consapevolezza del darsi triseminale sussegue immediatamente una rinnovata cognizione del dolore metafisico. Si tratta di una conoscenza sui generis, di una sorta di settimo senso. Già nelle più antiche visioni del mondo il primo sapere (o nonsapere) riguardava la giustizia. Ma il bisogno di contemplazione induceva a plasmare una certa idea del giusto, solitamente in forma di divinità, tenebrosa o luminosa, cieca o provvidente. In seguito del giusto s’è impossessata la ragione che l’ha sistemato nelle sue schematiche localmente e temporaneamente esaudienti. Di giustizie paradigmiche se ne son viste tante, tutte interne a un ordine e quasi sempre destinate al mantenimento di quell’ordine entro il quale erano poste in essere. In tutti questi casi i loro meriti e demeriti sono indissolubilmente legati all’avvicendamento di visioni ed eventi interni a quei loro mondi adibiti. Questa disponibilità e aleatorietà del giusto corrisponde a quella rispettivamente dei significati e dei sensi. Al pari di qualsiasi altro significato il giusto è formulabile e gestibile, se una concertazione o una forza lo impongono; diversamente rimane in?definito alla stregua di un qualunque che è & che non è triseminale. Ma mentre per tutti gli altri sensi e significati la loro disponibilità/aleatorietà, l’assoluto/relativo del loro darsi risulta tollerabile, inclusa l’in?determinazione del vero, di cui comprendiamo e apprezziamo il perché, quando ci volgiamo invece alla in?determinatezza del giusto, di qualcosa che viene al mondo solo in quanto noi ne acquisiamo coscienza, qualcosa che dipende interamente da noi, unici tra i viventi, creatura unicamente nostra, presente al mondo solo per nostro tramite, ci pare allora inammissibile disattenderlo. Vada per un vero inverificabile, per un utile eccepibile, per un buono discutibile, vada per un regno dei giochi (o dei dis-play) piuttosto che un regno dei fini – ma il giusto non può essere giocato ai dadi e l’ingiusto un ghiribizzo del giudizio. Non è sopportabile per questo essere [al mondo] riconoscersi svincolato dalla stretta necessità, illimitatamente libero, se vuole, di chiamare diritto l’offesa, rivendicazione il tradimento, verdetto la vendetta, e al tempo stesso disconoscere che giustizia e ingiustizia dipendono da quel suo volere. Il destino logico del giusto è essenzialmente tragico: o non comparire affatto, luce ignorata dalle tenebre di un essere al mondo meramente efficiente di sé (in cui le tre datità sono ridotte ad organon l’una dell’altra e lo scopo è la bruta conservazione della specie), o invece, quando infine viene alla luce, doversi dare senz’altro, assolutamente. L’esatto opposto di ciò che Platone scrisse del bello, Agostino del fallor, Anselmo di Dio e Cartesio del cogito vale per il giusto: chiunque tra gli esseri giunga a pensarlo non può non voler che sia: poiché io sono, anche il giusto dev’essere. Infatti con un giusto-solo-pensato, concepito ma non compiuto, avvertito ma non saputo-agito, l’essere si riduce a un quasi niente; se ne resta qualcosa, potremmo chiamarlo ab-essere. Questo è il primo e ultimo assurdo che l’essere ha da temere, in quanto l’insensibilità al giusto lo esautora come essere che, in quanto è al mondo, è fatto consapevole del suo esserci come tridatità indigente, ricca di ogni altra cosa ma spoglia di giustizia. Il giusto incarna la sfida dell’essere perché gl’impone un’attensione ulteriore, lontana da un paradigma qualsiasi così come dalla stessa originaria datità. Pare fatato che la filosofia occidentale prenda avvio dall’intuizione di questo nodo (nel celebre frammento di Anassimandro), ma non è sorprendente: il nodo del giusto e dell’essere, benché si consapevolizzi in e per una coscienza, non è affatto posto da una coscienza, come fosse una contemplazione banale, ma si genera in lei e con lei quale quarta dimensione della riflessività compiuta. Vediamo la più spontanea delle domande della coscienza riflessiva, che è questa: Va bene? (nel senso in cui si dice anche Ce l’ho fatta? Oppure È ok?). Si danno tre orizzonti di risposta: l’orizzonte del computo (o del significato), dell’attensione estensione in-tensione (ovvero del senso), del giusto (o dell’assoluto). Dico orizzonte, al singolare, per semplicità, ma si tratta invero nei tre casi, l’abbiam visto, di una molteplicità di orizzonti intersecantisi, come nell’intuizione cartesiana lo spazio è il pieno di tutte le geometrizzazioni. Certo è che nel computo il raggio degli orizzonti è pre-definito: la soggettualità è ridotta a un progetto circoscritto (premo l’interruttore, infilo i guanti, chiudo il gas, mi siedo, cedo il passo ecc.), la medietà a uno strumento preciso (la definizione, la manualità, il gesto ed ogni altro linguaggio efficace) e l’oggettualità si risolve nella perfetta identità: rispettivamente l’interruttore è ciò che premo, il gas ciò che chiudo, il ‘mi’ è ciò che siedo ecc. L’àmbito tecnico-scientifico si risolve tutto all’interno di questo primo orizzonte. I suoi problemi si riducono a due: l’identità degli oggetti (cosa è cosa) e la corrispondenza delle relazioni (com’è il come). Scienza e tecnologia non sono che strumenti di computo, approcci computazionali fini; ma significativamente tra lanciare un satellite e riempire un bicchier d’acqua non c’è differenza se non in ordine alla complessità. Entrambi i risultati si ottengono grazie a calcoli e effettuazioni coerenti all’esito. È chiaro però che niente ha senso se non oltre l’orizzonte del computo. Perché lanciare un satellite? perché versare un bicchier d’acqua? La piena irruzione del senso avviene solo quando l’essere al mondo si apre alla molteplicità triseminale, quando al di là del catalogo dei soggetti ingenuamente contemplati scopre la ricchezza della soggettualità, al di là dell’oggettivo l’oggettualità, oltre il mediante la medialità. Tutte tre in?finite/in?definite. L’effetto babele, che ha così sconcertato gli antichi e i moderni da provocare una sorta di fuga preventiva dalla minaccia DOTale verso i paradigmi e ha generato la storia del pensiero umano fino all’Ottocento come iterazione del pre-paradigma, ha infine attratto nel Nocevento intere folle che hanno sentito la babelizzazione della cultura retoricamente, come godibile straniamento, o esistenzialmente, inquietante risorsa di un essere al mondo vissuto come esaltazione o perdizione, o altrimenti in modi che tendevano variamente a conservare tra l’e.u. e il mondo il tradizionale rapporto di consistenza (l’ubi consistam o l’ubi saltem) a cui la filosofia li aveva abituati. Se ora torniamo al giusto, vediamo meglio come esso, intuito nella sua drastica alterità ovvero come quarta dimensione dell’essere, come radicalità ulteriore, amaro nettare di quella vita che sa di sé, non rientri né nel SOMario né nel DOTale. Esso non è né calcolo, né senso. Non è né un’idea qualsiasi di ius, confinata all’interno di un paradigma, né la promiscuità irriducibile-trasducibile di tutte le giustizie. Ciò può andar bene per il vero, per il bello e forse perfino per il santo, ma non per il giusto. La difficoltà del giusto, considerata nei termini che ci sono ormai familiari, consiste nel configurarsi paradigmicamente per un essere al mondo che al tempo stesso, se è giunto a concepire il giusto come radicalità ulteriore, sarà anche approdato al concetto di darsi originario. In altre parole, il giusto deve darsi come assurdo (come concetto ideale): come idea SOMaria andrebbe riferito a un paradigma, ridotto a un che è, a una maschera tra tante egualmente possibili; come concetto DOTale, tradotto in?definitamente, genererebbe nient’altro che dis-play, cioè un’infinità inammissibile di che è & che non è giusto. Detto in altro modo, tornando al Da dove parli? si viene scoprendo una risposta inattesa, un luogo tutt’altro eppure inattaccabile donde qualcuno mi si rivolge: Ti parlo da dove patisco ingiustizia. Da là chiunque parli ha tutta l’autorità, può dire e fare quel che vuole nei limiti che l’ingiustizia di cui è vittima gli consente. L’ingiustizia infatti legittima qualsiasi verità, dato che ne stravolge la percezione. In breve, l’essere non può accedere al giusto se non in quanto giusto, puro e semplice, non v’è altro modo. Precisamente là dove più gli occorrerebbe comprendersi, l’essere che sa di essere patisce la sua sconfitta esistenziale. Infatti, come per Aristotele non il vegetativo, non il sensitivo, ma il razionale è denotativo dell’e.u., così per noi l’es-posizione specifica dell’essere, il suo esser gettato, non concerne eminentemente né il patire, né il sapere, ma il sapere-agire, la adæquatio di azione e cognizione. Tale rispondenza, facile nell’orizzonte del computo, aleatoria nella sfera dei fini, diventa un incubo nel campo del giusto. Se il vivente incontra la morte fisica nei limiti della specificità che gli appartiene, così l’e.u. incontra il suo solo vero limite nell’insoluto etico che lo contraddistingue. Oppure si può dire, altrettanto bene, che il giusto non può essere bensì solo mancare al mondo. Per ciò è stato sostituito, nelle varie culture, da istanze differenti che tentano di cancellarlo o di aggirarlo o di trasporlo in qualcos’altro. La soluzione protestante (paolinoluterana, calvinista-puritana) scusa l’irreperibilità del giusto, di cui non ha chiara la nozione, con la cecità della fede. Contro il pretore romano che aveva messo a punto il diritto come imposizione di stato, Machiavelli riformulò con fare toscano l’etica autocentrica dell’aristos greco e dello ksatrya vedico, la giustizia come pennacchio sull’elmo del più forte e astuto. Per molte delle religioni e per le sette di ogni sorta, la comunità dei credenti o aderenti è in quanto tale autoreferenzialmente giusta e insieme in attesa di giustizia, finale e definitiva. La compassione universale dei buddisti, l’amor fraterno dei cristiani, i diritti dell’uomo illuministi colgono tutti approssimativamente l’alterità radicale del giusto e pertanto lo configurano scontornandolo in un vago permeare il mondo; ma per ciò che ho sopra argomentato non riescono ad evitare che un attimo dopo il giusto sia ridotto o a qual-cosa di paradigmicamente definito o a un coacervo di possibilità tra le quali non è dato distinguere. L’essenziale o, per dir meglio, il trans-trascendentale del giusto è proprio qui, nella sua radicale ulteriorità rispetto allo stesso darsi originario triseminale con cui già tanto fatichiamo a rapportarci. L’ulteriorità del giusto lascia l’essere umano all’oscuro di tutto ciò che più direttamente lo riguarda. Il giusto si dà solo – impossibilmente – là dove non siedono inamovibili né idee né concetti. Infatti se questi occupano le partiture del vivere, ovunque e comunque lo facciano, nell’ambito riduttivo del preparadigma o in quello della triradicalità irriducibile-trasducibile, al giusto seminale non si accede, la sua ulteriorità aggiuntiva non ha spazio per consistere. Ne sopravvive, al più, il vuoto fantasma (la statua), la giustizia come idea o soluzione, come tecnica del diritto, come narrazione del dover essere, come ragionamento ecc. La storia del pensiero ha riempito gli scaffali di molte verità (di molte bellezze, unità ecc.). Anche se diversissime, in qualche modo esse sono tutte in effetti vere, belle, une. È sufficiente che come tali siano vissute, per autoctisi o convenzione, o lo diventino per imposizione, d’autorità. Altrettanto può dirsi del diritto, che infatti è stato spesso visto come contratto; ma non può dirsi del giusto, che non ammette succedanei. Il giusto convenzionale, ad es., è l’utile il legale il dovuto ecc.; ma appunto è solo per una doppia convenzione che uno o più soggetti stabiliscono una certa azione esser legale (o utile, o morale) e questa legalità (o utilità, o moralità) esser giusta. La fuga dall’asperità assoluta della giustizia, di cui è testimonianza l’intera storia della ragion pratica, non fa che risaltarne la radicale diversità. Perfino nel disegno kantiano, massima espressione della moralità illuminista, il giusto è compromesso: ne oscurano l’impervia alterità sia l’illazione circa il regno dei fini (la sensatezza della speranza: ciò che integra e completa il quadro noumenico può essere pratico-razionalmente sperato, benché all’intelletto risulti insostenibile), sia l’appello alla libertà come ragion d’essere della moralità. Invero, benché s’opponga a ogni visione asservita della ragion pratica, Kant finisce anch’egli per sottoporla ai valori in cui pregiudizialmente crede, alla soggettività prima di tutto. Il paradigma illuminista prevede che nell’uomo abbia sede la razionalità e la razionalità sia fonte di umanità. Per un illuminista nonmaterialista, la razionalità non si risolve in tecno-logia (computo di rapporti meccanici), ma vuol dimostrarsi senso ultimo di un essere al mondo che è ancora, piuttosto, un essere ai due vecchi mondi della natura e dello spirito. Per Kant deve quindi sussistere una corrispondenza tra razionalità e spiritualità, per cui la ragione è riversamento dello spirito (come poi sarà dispiegato in Hegel). Ed ecco dunque che, con la seconda Critica, dentro un mondo ad hoc caratterizzato da tali esigenze di sintonia SOMaria (un soggetto che sia anche anima, un oggetto che sia non solo fenomeno ma anche cosa in sé, un’entità assoluta garante di verità) Kant colloca una ragion pratica che ad esse perfettamente s’attaglia. Il desiderio di risolvere il conflitto tra autorità e libertà a favore di quest’ultima, senza con ciò attaccare l’ordine costituito, ha condotto Kant al disegno di un’etica della libertà come moralità. La domanda ha creato l’offerta. Del tutto analogo quanto si può osservare circa le varie etiche più recenti. Precipitata la fiducia moderna nella esteriore razionalità dei principi (la sola ragione si è dimostrata drammaticamente insufficiente e addirittura a momenti perniciosa), accantonata l’idea di un logos superiore a cui riferirsi (i logoi superiori essendosi rivelati – come attesta Lévinas – tutti totalitari), si esaspera ora la funzione solutiva dell’interpretazione. Il nostro mondo tracima, come l’antico, di miti consolatori. Dea macchinosa nel Walhalla post-nazista, l’ermeneutica allontana la paura della propaganda ed instaura una fede di ripiego nella narrazione, nella concertazione, nell’agire comunicativo e simili. Come se la confabulazione potesse reggere e correggere l’incessante morphing delle oggettità e delle soggettità, e addirittura costituire indipendentemente da esse il fondamento dei valori. Peggio ancora, come se non partecipasse anch’essa irriducibilmente, in quanto emanazione della terza radice, al gioco del che è & che non è. In realtà tutte le soluzioni post-traumatiche alla questione etica (traumatica essendo stata la caduta di quell’alto e falso concetto di sé che l’Occidente s’era costruito) suggeriscono la figura di un essere virtuale che di fatto non è al mondo poiché spera ancora che, per così dire, il mondo continui ad essere a lui (ciò già emerge chiaramente in Nietzsche). Visto da vicino questo lui non sarà però l’essere nella sua difattuale in?essenza bensì un manufatto, un Adamo/Eva plasmati su misura in base a un paradigma recondito i cui presupposti sono: 1. la continuità della (fede nella) razionalità o in altre virtutes/virtualities attribuite all’e.u.; 2. la subordinazione delle differenze a un ordine culturale da prestabilirsi; 3. la salvaguardia del ruolo dell’intellettuale nella determinazione del dover essere. John B. Rawls ha fornito con la sua teoria della giustizia [A Theory of Justice, 1971] un fine caso di tutto questo. Già nei cardini del neocontrattualismo da lui proposto – l’individualismo, l’uguaglianza morale, la razionalità – è evidente la pseudo-universalità [presupposto 2] da cui egli muove. Si consideri il cardine dello individualismo (la società concepita come insieme di individui universali). Ha senso un tale postulato per chi vive, profugo e oppresso, in una condizione il cui unico riscatto, pacifico o violento, dipende dalla coesione compatta del gruppo, chieda quel che chieda? Sarebbe forse più etico, per sopravvivere come individui universali, fuggire dal gruppo e gettarsi nelle braccia di una qualsiasi altra sorte? E in ogni caso anche in ambito morale le forze dei singoli non hanno rilevanza se non quando acquistano impatto sociale. A quel punto però si trasformano in poteri, apparentemente fondati su un’etica, di fatto fondanti l’etica. Quest’ultima finirà per vistare qualsiasi comportamento risulti congeniale al mantenimento dell’ordine imposto da tali forze prevalenti. Quanto al nobile cardine dell’uguaglianza morale (al momento del contratto gli ee.uu. non sono né buoni né cattivi), esso procede dall’individualismo di matrice liberale [presupp.2] e lo completa: perché il singolo possa esser chiamato ad agire responsabilmente, è astrattamente razionale [presupp.1] non presupporlo portatore di male. Così facendo il diritto liberale potrà punire il contraente inadempiente. Ma la dura concretezza della storia e della cronaca attestano clamorosamente il contrario: la malvagità sovrabbonda, sovente ammantata di virtù, ragione, bellezza e diritto; non occorre leggere Schmitt per sapere di cattivi (nemici) e di buoni (amici) fabbricati a proposito. I nostri due emisferi ne tracimano. Il principio dell’uguaglianza morale è bello, non di più. Ignora che il mondo umano è in corso; che nessuno può stabilire uno stacco, fissare un’origine o un ricominciamento senza ricorrere a un atto d’imposizione. Il mondo è abitato da umiliati e offesi. Perché mai costoro dovrebbero considerare senza pregiudizi i loro violentatori? Chi può arrogarsi l’autorità morale di anche soltanto suggerirglielo? Certo, sembra conveniente che un tal principio sia riconosciuto universalmente – specie quando siamo additati noi stessi come colpevoli. Poiché contro il dominio non s’erge che un’etica dello scontro, e l’intellettuale odierno non può più credere alla soluzione hegelo-marxiana (la dialettica ideal-materialista che si realizza e che le armi della critica aiutano a prodursi) falsificata dalla storia, diventa razionale [presupp.1] e corretto [presupp.3] secondo Rawls tornare – nei paraggi di Locke e Rousseau – alla sociabilité e all’uguaglianza originarie da un lato e alle garanzie istituzionali dall’altro. Ma l’uguaglianza morale universale, nel senso rawlsiano, non può esser posta finché domina la disuguaglianza sociale, perché l’offeso può giustamente fondare sull’ingiustizia subita il suo ordine etico peculiare (vendetta rivalsa riscatto ecc.). Se infatti è valido il principio lockeano per cui l’autorità è costituita come garante dell’imparzialità della giustizia contro il dilagare dello spirito d’odio e vendetta, dando per scontato che le properties di ciascheduno (vita sicurezza dignità affetti libertà lavoro mezzi ecc.) siano protette dalle leggi, quale etica potrà vincolare coloro ai quali ogni property non marginale vien di fatto negata? Pur non contestando la finezza di riproposizioni teoretiche come ne troviamo in Rawls o Habermas, penso che esse appartengano a quell’estetica dell’etica di cui il chierico contemporaneo largamente si compiace. Si torna ad Aristotele, ma questi, mentre fondava l’etica come scienza del comportamento finalizzato al conseguimento della più alta felicità collettiva e personale, restringeva il giusto, inteso come equilibrio o composizione, alla ristretta sfera politica (della polis), quindi al vantaggioso per tutti, tutti quelli che rientrano nelle soggettità contemplate (gli schiavi no, per esempio), in una parola al conveniente. Ora, i comportamenti individuali e collettivi, quali che siano, possono certo giovarsi delle virtù etiche (le buone pratiche acquisite) e dianoetiche (la capacità di soppesare mediare accordarsi decidere), ma il giusto è tutt’altra cosa… tra i capi mafiosi (basta leggere i pizzini di Provenzano) si riscontra sovente un’acuta percezione della mesótes, e si può ben asserire che la phrónesis o prudentia di tanti farabutti non abbia niente da invidiare a quella di molte tra le persone per bene. E intanto le news raccontano ogni giorno di presunta giustizia pretesa o imposta coi mezzi più violenti e assurdi. Alfine, bisogna ammettere che non v’è scampo all’alterità ulteriore del giusto. Quando il dover essere fosse senz’altro come deve (di necessità o per convenzione o sotto costrizione o per inveterata abitudine), l’etico cesserebbe; così come svanirebbe se non potesse in alcun modo essere come deve. L’etico non può oggettivarsi altrimenti che nel travaglio della storia: deve prima farsi umano, quindi soggettuarsi. Ma, paradossalmente, proprio nel processo in cui l’etico si costituisce, il giusto si perde. Per lungo tempo le idee di provvidenza e di peccato hanno trattenuto sovrapposti o almeno accostati l’etico e il giusto. Ma la contemporaneità ha sconfessato il peccato e non vede più alcuna Provvidenza. Ora la separatezza – l’intollerabile lontananza – del giusto è sotto gli occhi di tutti. Circa il dover essere si cade in questo sottile equivoco: il doversi richiede un soggetto responsabile ed un oggetto rispondente, ovvero una corrispondenza effettiva tra intenzione e conseguimento. Un dover essere che manchi degli esiti previsti non è solo passione insensata e smacco esistenziale, ma soprattutto, al di là delle lamentazioni esistenzialiste, tremenda privazione (se un energumeno uccide un’innocente l’ingiustizia subita da quest’ultima non è meno colma per il fatto che l’assassino era fuori di sé); d’altra parte, un essere-comedovuto che non dipenda dall’intenzione non è che natura o sorte, caso o necessità (un essere-comecàpita). In altri termini, il malinteso – storicamente e presentemente – è ancora e sempre triplice: 1. la riduzione oggettivistica (giusta è la legge/Legge, giusto è l’atto debito, la conformità esteriore, l’adesione all’ethos collettivo); 2. la riduzione soggettivistica (giusto è il senso del dovere, la devozione, la moralità interiore); 3. la proiezione narrativa (il dover essere dell’individuo e del singolo caso rientra in un essere che deve complessivamente realizzarsi, progettual-provvidenziale storico-evolutivo dialettico-dialogico pedagogico o simile). Il giusto brillerà dunque, come in un arcano corridoio di specchi, sia dall’essere le azioni tali quali è doveroso volerle, sia dal volerle come debbono essere, sia dall’interlocutorio divenire dell’essere al mondo. A queste condizioni non meraviglia che la Giustizia presso tutte le culture arcaiche sia pensata come massima eminenza metafisica. Ne è questa anzi la più corretta percezione. Trovo che sia Jonas, tra i contemporanei, colui col quale più volentieri concordare [Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, 2009]. Egli non estetizza l’etica, non trasforma la diversità radicale della giustizia in un’architettura di pre-concetti pseudo-risolutivi e comportamenti debiti connessi. In Jonas la responsabilità stessa, nuda e cruda, intesa come principio auto-apprensivo, senza appigli, evidenzia correttamente, in ciò che si dice il giusto, un difatto senza soluzione. Jonas vede l’e.u. di fronte a un assoluto del tutto anomalo rispetto alla tradizione metafisica, la quale si è spesso servita della ragione per nutrirsi di una fede qualsiasi e viceversa. Un assoluto che tace, da cui non provengono risposte garanzie rassicurazioni; esso è certamente là, non può non esserci, ma ci rimane – ben più della morte e della vita – imperscrutabile. Gli ee.uu. sono soli nel loro essere al mondo: da un lato l’attitudine fattrice permette loro di avvitare bulloni e collegare circuiti a non finire, costituendo domini tecnici; dall’altro, divenuti col tempo sempre più liberi giocatori di sensi, in grado di variare a piacere soggettità oggettità linguaggi, possono inventarsi i mondi che preferiscono e trattenerli, con avidità infantile, come fossero interi universi, oppure rinunciarvi per coltivare più saggiamente la consapevolezza dell’in? determinata pluralità dei mondi. In ogni caso, sensibile a qualcuno dei paradigmi o al DOT irriducibiletrasducibile, del giusto sfugge all’e.u. sia il significato (esso non si può montare tecnicamente come qualcosa-che-funziona-per-qualcuno), sia il senso (l’essere al mondo si dà nella corrente di vita, che trascina con sé il giusto e l’ingiusto, senza attendere che gli ee.uu. s’accordino, neppure seco medesimi, circa il valore che quella triplicità acefala di volta in volta viene ad assumere). La quarta radice ha questo di diverso, che la rende tutt’altra rispetto alle tre radicalità DOTali: essa è iperirriducibile e intrasducibile. Anzitutto infatti la sua irriducibilità non si manifesta nel permanere, sotto la maschera di diversissime apparenze, del medesimo volto, bensì s’evidenzia nel non potersi mai mascherare quell’unica icona sfingea che le appartiene. Mentre l’irriducibilità del soggettuale, dell’oggettuale e del mediale non impedisce ad essi di trapassare in altro, confondersi nascondersi rigenerarsi dialettizzarsi (per cui il mio S può al limite coincidere per qualcuno con l’insieme M delle mie espressioni ecc.), l’iperirriducibilità del giusto consente solo, come all’Edipo sofocleo, o l’oscurità dell’ignoranza o la visione netta di un irreparabile non poter essere. Il giusto è sempre qualcosa di mancato, di trasgredito: lo si vede (il concepirlo è distintivo dell’essere) ma si passa oltre, senza poterlo compiere, universale negato. Soprattutto, la quarta radice è diversa in quanto non si lascia trasdurre. Certo è possibile ridurla ad altro: in un dato mondo ad hoc qualsiasi cosa, come sappiamo, può sostituire qualsiasi altra. Il giusto (o quel po’ di percezione che se ne ha) può esser ridotto al pio o al cosmico o al simpatetico. Oggi di solito è ridotto al conveniente, privato o collettivo, e di questa utilità, a seconda dei tempi e dei casi, viene accentuato il valore della sicurezza o della forza o della norma o della contemperanza. Se però usciamo dalla banalità del pre-paradigma e contempliamo l’essere al mondo nell’integrità non-banale del DOT, ci accorgiamo che il giusto non si lascia collocare a piacere (non è culturale), non è mai disponibile sotto altra luce che non sia quella sua aura che possiamo ben dire, benché solo per analogia, metafisica. Ora, posto che l’essere al mondo si dà sia come naturalità inconsapevole, sia come intelligenza configurante mondi adibiti, sia da ultimo come consapevolezza del darsi originario quale difatto indissolubilmente triradicale, posta inoltre l’assoluta alterità della giustizia (la quale dev’essere senz’altro, perché non posso non vedere che manca, pena la mia esclusione dalla pienezza dell’esserci), l’ultima questione che resta da affrontare è se vi sia speranza. Due sono in pratica le prospettive su cui interrogarsi: la speranza di comprendere e la speranza di giustizia. Quanto alla prima abbiamo già detto a sufficienza e si può confidare che la saggezza, intesa come concertazione di significati e di sensi, sia il destino dell’umanità. Il percorso è irto di difficoltà. Il grosso del lavoro è ancora da svolgere. La nuova missione del dotto è di aprire la mente, anzitutto la sua, alle molteplici prospettive dell’essere al mondo. L’intellettuale ha infatti preteso finora di afferrare il che è, distinguendovi oggetti soggetti linguaggi, definiti e collegati secondo corrispondenze di significato. Abbiamo visto che tutto questo produce quel che si vuole. Il banale non è insapore, al contrario. Più facile che, avvezzi alle discriminanti forti dei mondi ad hoc, insulsa ci appaia la pro-schematica, nella quale tutte le contemplazioni in quanto tali s’avverano e s’azzerano. L’intellettuale ha sempre servito più padroni (il committente ideologico, il pubblico, se stesso, l’arte sua, la tradizione, la rivoluzione), tutti d’accordo nel chiedergli o imporgli sapori decisi, mondi nettamente disegnati. Nelle opere intellettualmente migliori, quelle riccamente creative, multiparadigmiche, più sapori, più mondi s’avvicendano; ivi l’artista s’accosta al che è & che non è delle cose, ma solo per via di metafora, errabondo. Perché la speranza di comprendere si realizzi occorre piuttosto che ogni e.u. acceda libero da costrizioni (dal bisogno, dalla paura e dall’ideotica) sia ai vari livelli del che è (o che non è) sia all’ultimo che è & che non è delle cose. A tale scopo egli deve poter contemplare (o erotizzare) a piacere, nella sua fanciullezza e oltre, immaginando molti mondi e giocando ad essere. Nel frattempo acquisirà praticamente e concettualmente la consapevolezza della distinzione tra dimensione del significato (prettamente tecnico-scientifica e sperimentale) e dimensione del senso (peculiarmente umanistica esperienziale vitale). In tal modo la cognizione della compresenza/concorrenza di un sapere strumentale (dai significati precisi ed astrattamente economici, ma senza senso aggiunto) e di un’ulteriore più alta conoscenza vitale, ricca di senso, ma costitutivamente mutevole e im?precisabile, in quanto dipendente da una congiunzione qualsiasi delle tre radici originarie, lo condurrà alla ricognizione dei paradigmi e alla consapevolezza del pre-paradigma che ad essi retrostà. A quel punto egli potrà ispezionare dall’esterno il perimetro dei mondi ad hoc in cui si è ritrovato, commisurarne l’ideotica sottesa e progressivamente disfarsene, includendoli in una sempre più complessa pro-schematica legata al progetto complessivo del sapere-agire. Certo, questa nuova ap-prensione, non scevra d’ansia, assumerà spesso i connotati della prudenza e perfino dell’esitazione intellettuale. L’evoluzione della saggezza, grazie alla consapevolezza del pre-paradigma e dell’irriducibilità-trasducibilità triradicale, compirà il destino dell’e.u., limitatamente alla sfera immanente del suo essere come essere al mondo. Resta in sospeso la speranza di giustizia. C’è una tragica contraddizione in questo: l’e.u. ha bisogno di comprendere il suo proprio essere se vuole abbracciare la giustizia nel suo concetto; al tempo stesso il concetto di giustizia non tollera attese. In altri termini, rovesciati, se l’essere al mondo di ogni e.u. si compisse da sé, spontaneamente, come giustizia, allora non avrebbe alcuna importanza il menù ideal-concettuale: l’umanità potrebbe senz’altro divertirsi con questo o quel paradigma, giocandoci per quanto tempo continuasse a piacerle. La più alta libertà del pensiero, il sapere del non sapere, potrebbe rimanere del tutto insondata, per l’essere al mondo andrebbe ugualmente bene, sarebbe non meno divertente emozionante ideativo ecc. Ma il vivente ignora del tutto la giustizia. Conosce soltanto la reazione, per cui spesso a un estremo corrisponde un rovesciamento altrettanto estremo, come all’eccesso di accumulo organico nel sottobosco segue il fuoco che lo distrugge completamente. Ma non appena colgo il giusto nel suo drammatico mancare, ecco che io stesso ne partecipo e manco al mondo, sia perché con tutta probabilità anch’io patisco e infliggo ingiustizia, sia perché quella mancanza affligge l’essere nella sua più esclusiva intimità. Per questo concordo con Jonas sul tema della responsabilità: urgente assoluta metafisica. Gli ee.uu. hanno modellato molte geniali versioni del mondo. In questi costrutti si ritrovano le più diverse istanze ideotiche, ma vi trova spazio anche il concetto profondo e universale dell’ingiustizia come non-senso che nega senz’altro la perfezione di ogni altro senso. Occorre che ogni e.u., se non vuole rinnegare la pienezza del suo essere, abbracci l’alterità assoluta della giustizia. Ne sarà ripagato anche in termini intellettuali. L’ingiustizia favorisce infatti la sopraffazione del banale perché non solo impedisce che sia chi la compie sia chi la subisce percepisca il giusto nella sua iper-irriducibilità, ma fomenta le più riduttive banalità a scopo aggressivo o difensivo e porta a proliferazione in tal modo la disparità conflittuale di tanti mondi ad hoc reciprocamente sordi. Con tutto ciò, cosa vuol poi dire, nel sapere-agire, questo ‘abbracciare l’alterità della giustizia’? Il giusto non è solo l’ultima evidenza radicale dell’essere; può anche diventare, come tutto, un’idea. E come tale può trasformarsi in un qualsiasi intreccio di oggettità soggettità e medianti, asservito a un ennesimo progetto ideotico, al di là e al di qua del bene e del male. Peggio ancora, la ricognizione compiuta ci fa ritenere che né le pseudo-certezze di un qualsiasi paradigma, né l’intrattabile in?definitezza del darsi originario, né le sempre precarie combinazioni di senso e significato abbiano riguardo all’alterità della giustizia. Questa troverebbe dunque riparo solo nei territori dell’utopia e dell’oltre? Una conclusione ripiegante che non soddisfa affatto. Velare di aloni mistici ciò che né riusciamo tecnicamente a gestire, né può esser risolto mediante un’assegnazione di senso qualsiasi, sarebbe ancora una volta pura ideotica, paradigmicità quintessenziale. L’e.u. ha già provato a costruirsi intere biblioteche di conforto, mitologiche religiose filosofiche, reazionarie e rivoluzionarie, allo scopo di circoscrivere la vastità dell’essere al mondo. Di consolazioni provvisorie potrebbe ormai fare a meno – lasciarle giacere sugli scaffali là dove riposano le teurgie egizie, gli eroi omerici, le macchine alessandrine, i cieli tolemaici, la candida rosa, la pentarchia le monadi i lumi la rivoluzione la ragione la nazione il progresso il metodo... Ma le pire dell’ingiustizia continuano senza sosta a bruciare sulle rive del grande fiume. *** Appendici *** Per continuare. Un indice ipotetico [↑] Il pre-paradigma in atto • Nel dato storico o Narrativa  Le molte maschere dell’unico pre-paradigma  Il DOT nascosto nei paradigmi  Di ideotica in ideotica: progresso o circolo? • o Dell’opposizione e di altri logismi  Io vs. Altro?  Reale vs. Virtuale?  Assoluto vs. Relativo? o Ultime ipostasi. Il reticolare, il ludico, l’ironico... Nel vissuto o Senso e significato nella razionalità privata o Senso e significato nella razionalità pubblica o Banalizzazioni dell’essere al mondo Cosa ricavare dalla proposta prosofica? • • • • • • Un’epistemologia dell’evenienza? o Porre il vs-& come principio? o L’agire del pensiero o Del difattuale come categoria o In?felicità naturale della conoscenza? Un’antropologia? o Il futuro è nelle nostre mani? o Quali navigazioni? Quali giroscopi? o Il giusto è alla portata dell’essere? Una filosofia della storia? o Senso e insensatezza. La storia è congerie? o Quale soluzione alle contraddizioni in seno al popolo della Terra? Un’estetica? o In?felicità dell’arte come alternativa o L’arte come esplorazione triradicale o Il bello come bene Un’etica? o L’etica come compensazione o La giustizia quale radicalità ulteriore o La giustizia come preliminare Quale educazione? o Informare sul pre-paradigma o Formare al sapere-agire Il pro-sofico tra idea e concetto o Illimite dell’opposizione SOMario/DOTale o Illimite della opposizione idea/concetto o Combinazioni e trasmissioni di senso & significato *** Note lessicali [↑] ? L’interrogativo in apice, interposto tra il termine e la sua negazione, come in a?logia, in?differenza ecc., manifesta la normale indecidibilità tra senso e non-senso (il senso è & non è decidibile). L’in? decidibilità riguarda tutto ciò che non è né informazione, la quale non ha senso, né significato, che è posto a prescindere dal senso. Quindi la si ritroverà ovunque sia (si senta) implicato l’essere al mondo. In particolare s’incontra sul limite tra polarità e seminalità (ad es., quanto una cosa si dia come oggettiva o come oggettuale è sempre in?certo). L’interrogativo in quella posizione potrebbe vedersi, se bene inteso, come emblema della pro-sofia perché dubitando e controdubitando suppone per il che è, il che non è, e il che è & che non è, sfuggendo in tal modo a tutte le soluzioni predisposte, a ciò che delimitatamente intuisce deduce pone nega supera interpreta ironizza ecc. a sé, aseità Prima categoria del SOMario, spesso implicita. Quel ch’è posto significativamente, un certo esser così o esser là. Il separatamente preso. Questa voce separatamente presa. Ogni dio, maestoso o meschino. L’Ich denke di Kant è un a sé. Le sue cose in sé sono a sé. Il moi commun di Rousseau e la liberty di Mill sono a sé; lo sono le primalità di Campanella sia separatamente sia congiuntamente intese, come la causa, principio et uno di Bruno. Lo sono l’Es di Freud e la falsificabilità di Popper. E naturalmente lo sono le idee e le loro ombre, la materia e la forma. L’Uno di Plotino è un a sé, al pari del ciò che coglie il monaco zen. Un a sé è anzitutto l’incapace che circuisce: banalità ritaglio fissazione illusione non perduta – categoria però inconfessabile in questi termini. Per aggirare lo sconcerto provocato dal coglimento dell’a sé (la sua comparsa sgretola ogni pensare costitutivo che non si ponga come mero significare), s’inventano l’in sé, il per sé e l’in sé e per sé, ovvero stabilità pre-concette, trascendenti o immanenti, statiche o dinamiche, sostanziali o formali. ab-essere Si riscontra in tutti i primordi del pensiero (il primo sentire religioso, i miti originari, il primo filosofare): l’essere proprio dell’e.u. non può scoprirsi al mondo senza aprirsi al tema della giustizia, perlomeno in quanto carenza radicale e quindi nemesi, fantasia di vendicazione. La giustizia è la sua quarta dimensione nativa. A tale questione dà la risposta che vuole, di solito pesantemente strumentalizzata dall’intervento di una schematica SOMaria. È legittimo il sospetto che le varie schematiche siano generate dal bisogno di neutralizzare la minaccia all’ordine costituito insita nella questione. Nondimeno, negli umani l’essere al mondo contempla in qualche modo la giustizia come sua dote. Ab-essere potrebbe dirsi quella condizione para-umana e artificiale, prodotto di ideotiche ciecamente aderite, in cui l’essere non coglie neppur più la questione della giustizia come una sua dimensione originaria. a?logìa A?logia è un termine di sfondo, che riassume la condizione del sussistere del senso. Nel vissuto, a meno di ricorrere a una qualsiasi fissazione paradigmica, il logos/Logos, emblema dell’ingegnosa ingenuità dell’Occidente, può sempre essere asserito o negato, rinvenuto o disconosciuto, ripetuto o ridisegnato in infiniti modi. A?logia è contingenza magmatica di essere e non-essere, di silenzio e parola, pensiero e realtà, mondo e immaginazione. Eraclito assumeva che dietro il fluire del diverso si nascondesse impervio ai più un Logos, fiamma di un Divenire razionale; ma il mistero del Logos è modesto: a?logia e nient’altro. Chi parla del Logos senza aver inteso il DOT, presume di accedere alla conoscenza di un ordine logicoontologico del Mondo (“In principio erat Verbum”). Ma un tale ordine riduce concettualmente le tre seminalità ad unità, assumendo la loro riducibilità reciproca come un dato di fatto. Così facendo si antepone l’essere ontologico all’essere al mondo, quasi si potesse chiarire che cosa sia l’essere prima di pensarlo, prima cioè di filtrarlo attraverso un caso d’essere. L’autoctisi, questo troppo facile escogitare, non è evitata. La pro-sofia sarà quindi ante-ontologica: per non cadere nella circolarità dell’idea, non è da ammettere alcuna ontologia se non dopo aver affrontato il darsi originario. apertura Termine molto in uso su cui è bene spiegarsi. V’è l’apertura che aggiunge integra annette ecc., pur mantenendo saldo il nucleo ideotico della cosa o, piuttosto, scivolandolo lentamente da una figurazione all’altra in modo tale che possa dirsi sempre la cosa desiderata. Di quest’apertura condizionata s’avvalgono le ideologie le istituzioni i partiti le chiese le sette, anche quando trovano più convincente mostrarsi chiuse. V’è all’opposto una apertura incondizionata che non presuppone un nucleo da difendere, fatta salva la giustizia, ma pro-pone concetti intesi come luoghi di convergenze provvisorie, di cui le cose sono al tempo stesso il referente e il segnaposto, l’ipotesi e il dato, l’interpretazione e il testo. attensione Attensione, estensione, intensione. Aspetti operativi delle tre radici, al pari di quelle sempre compresenti e concorrenti. Menzionarne uno implica richiamare gli altri, mutando solo l’accento concettuale. Attensione. Aspetto soggettuale dei concetti (e, loro malgrado, delle idee di realtà). A motivo del DOT, l’attensione, nella dinamica ideal-concettuale, è co-necessaria e concorrenziale all’estensione e all’intensione. Nel minuto del vivere l’equilibrio trascendentale di attensione estensione intensione si altera, predominando ora l’uno ora l’altro dei tre aspetti. Nel sapere-agire, di momento in momento va gestita con santa pazienza e tutta l’accortezza del caso l’attrazione verso l’uno o l’altro di essi, senza però rimuovere il fondo comune di co-appartenenza, il difatto triseminale. Attensione vs intellezione. Poniamo che intellezione stia per i diversi termini del lessico filosofico e ordinario che si riferiscono all’attività mentale come attrice, a vario titolo, di indagine e conoscenza: tutte quelle voci che implicano un sapere più o meno saldo, frutto di una mente che affronta il mondo (o i mondi), da sé sola o con l’aiuto di Dio (o della geometria, o della storia), servendosi di linguaggi diversi ecc. Posto ciò, diciamo allora che l’idea di intellezione presuppone, insita (innata?) nella mente umana, la capacità di fuoruscire – certo, non senza fatica studio dottrina, oppure esperienza intuito genio ecc. – dall’essere al mondo, di collocarsi da qualche parte, in una sua aseità noetica o poietica, tanto più misteriosa quanto più la si dà in un modo o nell’altro come effettiva, come un dato di fatto immediato, come bon sens, dotazione del genere umano. Da tale postazione esterna, o comunque situabile, l’intellezione manovrerebbe le sue chele. Per noi qui tale intellezione, nel significato appena detto, è una chimera. Mai si darà infatti all’essere opportunità alcuna di spartirsi dall’essere al mondo, unica realtà che gli è consentito abitare. Per contrastare intellezione è necessario dunque un termine (attensione) per riferirsi a quella che un tempo dicevasi “attività dell’anima”, il suo tendere a (rivolgersi al per altro), ma pur sempre all’interno della pro-sintesi triradicale. Attensione concettuale vs-& attensione ideale. Peraltro, la necessità stessa di contrastare quel che diciamo ‘intellezione’ ci conferma una volta di più che l’attensione pur collocandosi inderogabilmente nell’essere al mondo non sempre se ne rende conto. Anzi più spesso accade che, puntando a svincolarsene, finisca per illudersi del contrario, nutrendo nell’essere un falso concetto della sua libertà. Occorre dunque distinguere due opposti modi di attensione: l’una rincorre l’idea e tenderà a produrre appunto intellezione, l’altra segue le flessioni del concetto così come si presentano nel momento di vita. Non sarà mai dato catalogare questa o quella attensione, estratta dal momento vissuto, come innegabilmente o concettuale o ideale – per l’ottima ragione che nel far ciò si è già entrati in un’altra attensione; l’essere si accorge, nondimeno, che attimo dopo attimo nel vivere è in gioco il tradimento del vissuto. assialità, polarità Il pensiero promuove se stesso: fugge l’anodino, rifiuta il vacuo orrido del che è & che non è, la contraddittoria trasducibilità vs-& irriducibilità delle tre seminalità DOTali. Per toglier quel vuoto occorre produrre un pieno qualsiasi, predisporre un baldacchino (paradigma), all’ombra del quale siano attribuibili i sensi voluti, distribuiti nelle polarità o assialità SOM (soggettità oggettità mezzo). Rispetto all’a?logico, da cui l’essere ragionando non può che assentarsi, le pseudo-categorie SOM pretendono di attribuire alle cose una sorta di lateralizzazione o spin. L’essere al mondo si presenta nel momento di vita come crocicchio o trivio, luogo transitorio su cui convergono le seminalità. Ma un trivio non pare una meta. La scelta di una direzione comporta un andarsene, un divergere, un polarizzare. Le altre strade diventano viottoli che il bosco inghiotte e la vegetazione ricopre. Ben presto non si scorge più che un solo tracciato. In Heidegger nel bosco incontri non il crocicchio ma la radura (la Lichtung è neo-metafisica). autoctisi Partenogenesi di forme ideali. Presunto rispecchiamento tra pensiero e realtà, pensiero e linguaggio, linguaggio e realtà. Ingenue/ingegnose definizioni generano presunte realtà; stati di cose presupposti partoriscono termini. A ciò che si presenta si dà un nome, ciò che ha nome si appresenta. A cagione dell’irriducibilità triradicale non è mai possibile, tra lingua mente mondo, alcun vero rispecchiamento; tanto meno si dà un indipendente potere generatore della soggettività, ma solo un co-eterno ricombinarsi delle seminalità. Questa autoctisi non è dunque quella gentiliana, ne è anzi l’ironia. L’inclinazione all’autoctisi è comunque inevitabile; l’e.u. non può del tutto purgarsene. Le forme ideali restano poi interessanti come elementi del gioco del sapere. assoluto-relativo L’antica contrapposizione tra assoluto e relativo ha una sua ragion d’essere, almeno in apparenza. Entro un qualsiasi orizzonte chiuso, che sia la logica aristotelica o l’escatologia salafita, si danno in effetti cosalità assolute e relative, distinguibili le une dalle altre grazie al fatto che quell’orizzonte entro cui son collocate e sperimentate è predefinito da chi guarda come contornabile, cioè è contemplato (precompreso). Ma il comprendere relativizza inevitabilmente il compreso, per la presenza dell’agente. Quindi tutto è relativo? Le vie tentate per aggirare l’impasse sono tante e nell’insieme costituiscono la storia del pensiero umano. La più seguita in passato prevedeva il trasferimento dell’assoluto nella ragione trascendente (più tardi nell’immanente), per renderlo intangibile e superno. Ma quasi altrettanta fortuna ha incontrato la pseudo-soluzione onnirelativizzante (i cripto-assoluti degli scettici, degli irrazionalisti, dei pragmatisti ecc.). L’analitica dell’essere al mondo (o biografia elementare) porta invece ad ammettere che assoluto e relativo sono entrambi ovunque e sempre congiuntamente presentarî alla vita. banale L’uomo è signore o bano del suo mondo piccolo. Una signoria sempre dispotica, poiché non può darsi un senso, quale che sia, adespota. Banale è ogni determinazione, quindi ogni pensare interpretare intendere commisurare ecc. Banale è il rapportare a sé, quindi ogni sentire, assentire, consentire. Banale è il desiderio che fa suo l’altro, che fa proprio il diverso (o diverso il proprio). Erotica e banalità sono due aspetti della medesima condizione: eros è sempre eros del banale. Il banalizzare non va confuso col porre logico (significare). Quest’ultimo presuppone una preordinabile possibilità di separatezza tra pensante e pensato, che si regge per convenzione. Ma una tale separatezza può darsi solo nell’ambito di una più ampia e ulteriore banalità (o erotica), più o meno consapevole. Il banale contingente (la determinazione per il momento) è tanto immediatamente indispensabile quanto incontrovertibile in mille occasioni quotidiane (del tipo S’è spento il fuoco, oppure Ho una gomma a terra). L’abitudine all’indubbio nelle faccende da poco vorrebbe estendersi alle alte sfere. V’è uno scusabile fabbisogno, nell’e.u., di banale assoluto. che è vs-& che non è L’essere al mondo, non l’essere, è ciò in cui siamo immersi, anche se non possiamo dirlo se non supponendo di riuscire a fermarci un attimo, di sospendere per un momento il dis-play esistenziale. Nell’essere al mondo sono implicate tre radici indistricabili dall’intreccio delle quali trae linfa ogni vita, col relativo sapere-agire. Il pensiero quanto più è pieno di sé, del suo contemplare, tanto più ambisce bastare al compito. Secerne allo scopo categorie che come enzimi digeriscono l’essere al mondo: l’essere, se preso a sé, il divenire l’uno il moltepice il logos l’episteme la natura la storia il progresso il dionisiaco il fenomenologico l’ontologico ecc. sono digestioni del che è & che non è. Da non confondere con la concordantia oppositorum, che punta anch’essa a categorizzare l’intero perché sia disponibile ad un uso traverso (teologico logico retorico ermeneutico ecc.), mentre del che è & che non è non si può far uso, se non immediatamente vivendo (-lo, -ci, -ne). Il che è vs-& che non è visto come domanda in cerca di risposta è solo un caso del che è vs-& che non è in quanto risposta in cui cadono tutte le domande. che è (o che non è) Risultato del pensiero che idea. Il sapere-agire si muove necessariamente su idee-concetti, poiché il concetto puro è tanto labile, causa la triseminalità, da non poter essere com-preso o afferrato, bensì solo ed entro certi limiti vissuto. L’idea pura, che nel vissuto è un fantasma, prende facilmente corpo, invece, nella contemplazione, ove la mente, per condursi nei termini dell’artificio ch’essa stessa produce, è costretta a ridurre l’inafferrabile a comprensibile, il che è & che non è a misura di qualcosa che è (o che non è). concetto Quanto all’etimo, ‘concetto’ indica un aver colto mettendo insieme, dunque un’illusione e insieme un dato di fatto: la mente in effetti afferra qual-cosa, ma cosa afferri è lei stessa a dirselo e ciò autoalimenta l’illusione del giudizio. Per non scivolare nell’idea, più che sulla ‘conceptio’ il pensare dovrebbe regolarsi sull’aggiornamento continuativo della ‘deceptio’, alla maniera, diciamo, di un antivirus. Preferisco tuttavia ‘concetto’, perché riconosce l’infedeltà dell’afferramento come inevitabile, senza la pretesa di sfuggire alle implicazioni materiali dell’essere al mondo, perché la sospettosità programmatica genera a sua volta idee. L’essere al mondo, o DOT, non può pensarsi altrimenti che come pro-concetto puro a posteriori, ricavato dalla distillazione di tutti i concetti, qualora si sia disposti a rinunciare all’epidermide ideale che li tegumenta. Decisiva è la rinuncia all’essere: il darsi originario precede e pertanto esula ogni comprensione. contemplazione Scorgiamo solo ciò che contestualmente delimitiamo come munito di senso. È questo l’a priori di ogni pensare, a cui non è dato in nessun caso sfuggire, neppure quando si prova a pensarlo. Condizione avvertita come incapacitante e intollerabile, aggirata in molti modi messi a punto da profeti poeti pensatori ecc. Come il profeta così il filosofo sposta fuori del mondo (nell’aldilà, nel passato, nel futuro), o nelle sue occulte viscere naturali, l’ambita Sapienza, di modo che la funzione di demarcazione della verità risulti demandata ad Altro, intangibile. Solo lo scienziato puro si rifiuta di aggirare la questione; ma con ciò egli rinuncia al senso contentandosi del significato. Le categorie del pre-paradigma (aseità, soggettità, oggettità, mezzo) si sub-diversificano variamente interpolandosi nei paradigmi. Sono comunque finalizzate a pre-determinare la contemplazione entro un orizzonte pre-stabilito. L’escogitazione intellettuale, che produce aseità ed è tipica della contemplazione, non si distingue dal concettualizzare, che sorregge il sapere-agire, se non in astratto. Nel vivere c’è bisogno di categorizzare, ad es. di distinguere tra ‘me’ e ‘te’; ma il concetto, non appena lo si definisce precisamente, lo si rimuove dal sapere-agire. Tale estraneazione può risultare funzionale o disfunzionale al vivere. Se do il pianoforte per accordato (poiché l’accordatore è stato qui ieri) posso disfarmi del pensiero del se… a tal proposito. Così, dando per confacente un certo mio comportamento, eviterò di farmene un problema in altre occasioni. Di sicuro, quel che ne verrà non dipenderà però soltanto dalle mie pre-supposizioni. Sotto altro aspetto, la contemplazione può distinguersi in I. eros II. banalità III. pre-testo, in corrispondenza del predominare in essa di un’ideotica, rispettivamente, I. soggettiva II. oggettiva III. mediale. Pierre Bourdieu parla di “disposition constituante” [Meditations pascaliennes, Seuil, 1997, p.146], ma sembra attribuirla a una certa scolastica deteriore. Alla fin fine la tratta come una rogna dell’intelligenza, piuttosto che come un fondamento dell’erotica delle idee. contrazione (principio di) Un primissimo principio di contrazione potrebbe esser proposto, strumentalmente, in opposizione al principio di identità o non-contraddizione, non perché quest’ultimo non meriti un suo specifico privilegio nell’ambito del significare, ma per ricordare che perché questo sia posto occorre anteporgli l’altro. Infatti, solo dopo che si siano di fatto distinti (vicendevolmente contratti) una mente, un linguaggio e un A qualsiasi, sarà possibile porre A=A. cosa Ciò che succede, tutto quel che risalta dal confluire delle seminalità. Termine indecidibile e appunto per questo indispensabile. Nel testo ritorna spesso per additare ciò che precede ogni precisare. Cosa è tutto ciò di cui si vorrebbe sapere o dire cos’è – finché non lo si dice. Le cose sono sempre immediate e compiute ma il riferirle, il pensarle stesso, le escinde. Non intendo quindi le cose né primamente oggettive (res), né primamente soggettive (phainomena, ideas, perceptions), né come entità ermeneutiche circolarmente richiamantisi. Non ‘accadimenti’ o ‘interpretazioni’, meglio ‘cose’: un accaduto resta ambiguamente sospeso tra Mondo (l’imperscrutabile aldilà immanente) e essere al mondo, l’aldiquà fugace della vita. darsi originario triradicale o triseminale (DOT) Abilita di fatto la vita, ne è la condizione universale. Il DOT è l’incomprensibile. Apprensibile dirittamente per intuizione oppure obliquamente per riflessione negativa (come nella teologia negativa). Il darsi triseminale precede non solo la razionalità formale, ma anche l’intelligenza in genere, la sensibilità spontanea, la vita nelle sue espressioni più elementari. La razionalità quindi è quanto di più lontano da esso: l’intelligenza riflessiva vi irrompe e lo frantuma in spezzoni di comprensione. Il DOT è la sindrome universale, il con-corso indecidibile delle contingenze elementari del vivere. definizione L’astratta operazione del contornare presunti sensi più o meno precisi ecc. Poiché vera è soltanto l’in? definitezza risalente al DOT, ogni definire è – nel dominio del senso – uno sfalsare, un’appropriazione indebita. Come la convinzione è il fiore dell’eros, che teme solo di perderla, e il dominio lo è della banalità, così la definizione è frutto del pre-testo. A meno che non sia strumento di una libera risposta all’ingiustizia. Invece nel significare la definizione è per assunto vera, ossia semplicemente è quel che è, stanti le determinazioni del caso. È di scarso interesse, mi sembra, dimostrare che un vero definire non risulta mai possibile, perché esso implica comunque il riferimento a un olos entro cui valere, e nessun olos è (per definizione) definibile. L’inquietudine olistica oscura infatti il nodo SOM-DOT. Nell’essere al mondo, quale che sia il grado di complessità dei significati e dei vissuti, un che è dal lato SOMario è sempre decidibile, mentre quello stesso che è, dal lato DOTale, si presenterà in ogni caso sfuggente. difatto Un difatto è una variabile dell’equazione dell’essere al mondo così come si dà, effetto della irriducibilità-trasducibilità tra le radici. Difattuale implica pertanto preter-logico, pre-ontico. Il bisogno di consolazione si scontra col difatto di evenienza da cui sembra procedere l’in?felicità del senso, percepita come infelicità metafisica. diffrazione Effetto della triradicalità. Da questa per diffrazione sprigionano i sensi. Un senso sorge allorché un che è (o che non è) viene ad esser posto in gioco. Per la qual cosa ciò che nel SOMario passa precisamente per oggettivo soggettivo mediante e ricade nel mero significato (quindi paradossalmente nell’insignificante) viene ad esser rimesso in gioco come un che è & che non è, le cui seminalità si presentano in?definite per la reciproca trasducibilità. dis-play L’insieme illimitato delle combinazioni di senso. Pensiamo al gioco come l’intese Wittgenstein. I linguaggi sono campi di gioco, le logiche le scienze le religioni le arti le gastronomie ecc. sono giochi che si somigliano – in quanto un gioco è un contenitore di definizioni più o meno rigorose e di regole e procedure più o meno efficaci coerenti astute rispetto ad uno scopo. Un gioco inoltre richiede determinate abilità e comporta sempre una certa libertà (d’impostazione, d’azione, d’infrazione ecc.). Ora, se si parte da una qualsiasi schematica SOMaria, il gioco wittgensteiniano sembra un concetto rivoluzionario in quanto non solo si pone su un piano meta-schematico, ma azzera il criterio della dignità/degnità scalare di idee visioni valori. Quest’ultimo era sempre stato ammesso, dichiaratamente o tacitamente, ed era rimasto ben saldo alla base di contributi così diversi come quelli di Comte Marx Nietzsche Bergson Husserl. Dal punto di vista DOTale, invece, il gioco wittgensteiniano appare inadeguato e a un tratto antiquato. Wittgenstein II subisce ancora Wittgenstein I: invece di una rispondenza univoca tra linguaggio e mondo sono ora ammesse infinite possibili rispondenze, ciascuna delle quali tuttavia persegue/consegue una sua regolata/regolamentare definitezza e, come dire, assume le sembianze di un mondo, nel suo piccolo, vero. Indubbiamente, vero può risultare nella percezione della mente che lo pensa, ma sappiamo che un tale riflesso autoctico rientra nella categoria del banale. Nel DOTale sono compresi solo l’iper-gioco, come campo di tutti i giochi, e l’oltre-gioco, come campo del giusto. Il dis-play è ciò che appare tutt’intorno inverarsi alla luce del DOT. dis-senso Non c’è testo – questo non escluso – che non forzi più o meno scopertamente la credibilità del suo dire ponendo come correnti e generalmente consentite idee che tali non sono. Ciò è inevitabile, perché diversamente nessun discorso potrebbe essere avviato senza incappare immediatamente nel dis-senso della triplice irriducibilità radicale. Il solo discorso vero sarebbe pertanto quello che si riferisse al dissenso e desse adito a un vero concettuale, cioè pratico-utopico, ma nient’affatto ideale. Strano discorso, però, che condurrebbe al sapere-agire, al dato di vita felice, ma non sarebbe formulabile. È da notare infatti che il solo ‘vero’ formulabile è lo pseudo-dato ideale; mentre il vero concettuale, finché resta e affinché resti tale, non può essere afferrato né analiticamente né dialetticamente né altrimenti. Afferrarlo equivale a costringerlo dentro una schematica. Così ciò che dice questo scritto – in cui si tratta del vero concettuale appeso all’in?definitezza della triradicalità – sarebbe direttamente vero, solo se potesse esser detto, ma non si può, senza in qualche modo SOMarizzarlo. e.u., ee.uu. Essere umano, esseri umani. Uso quasi sempre questa abbreviazione dall’aspetto molto generico, proprio perché tutto quanto qui si dice intorno all’e.u. lo intendo riferito a tutti gli ee.uu. indistintamente, di ogni cultura e di ogni tempo, dagli albori al presente e in avvenire. Includo inoltre nel concetto, per sineddoche, anche ogni altra eventuale intelligenza capace di senso. eros Desiderare che si compiace del possedere. Eros è il nome di un verbo, anzi del Verbo: è il motore mobilissimo di ogni agire, il tratto fra volere e volare. Senza eros v’è solo informazione e significato, con eros il significato vacilla perché appare il senso. L’essere, che desidera intorno a sé e dentro di sé un mondo di sensi significativi, non ce la fa a sopportare la condizione esistenziale naturale, nella quale senso e significato si oppongono. Onde la tendenza erotica al banale, all’autosoddisfacimento contemplativo. esempi o casi? Ho quasi sempre inteso esempio nel significato di caso. Esempio implica di solito che una intera casistica sia rappresentabile attraverso una delle occorrenze in elenco; caso invece implica bensì un’adducibile casistica, ma non un’esemplarità. Quest’ultima non può reggere altro che negli ambiti del significare. L’intera biblioteca delle opere umane offre a ogni passo casi quanto mai evidenti di quel che in questo scritto m’affatico a delineare. Nell’universo DOTale l’esemplificazione dimostrativa si rivela impervia perché l’intera gamma delle combinazioni di senso è sempre disponibile a fornire una diversa prospettiva che all’ispezione soggettiva può apparire perfettamente contro-esplicativa. Ma ciò che è precisamente quanto si vuol esemplificare. esistere, esistenza Esistere può sostituire essere al mondo, se vale ‘vivere’, cioè appunto ‘provenire da’. Riguarda l’uomo in quanto pro-veniente, partecipe del che è & che non è: anche un oggetto e un messaggio (un fischio, un cinguettio) portano una loro esistenzialità, immersa nella triradicalità del vivente, in?definitamente fungibile. Il concetto kierkegaardiano di esistenza, nonostante l’amplissima elaborazione, si mostra in questo molto riduttivo, una mera idea, rispetto al concetto di esistenza tomista. Quest’ultimo è così ampio che c’è bisogno, nell’Aquinate, di un Dio che chiuda il cerchio innumerevole delle esistenze, perché diversamente l’Intero non avrebbe modo d’essere. In Kierkegaard, alla fine e nonostante tutto quel suo volgersi alla fede, non c’è bisogno di un Dio, perché l’esistenza come esasperazione della soggettualità colma l’invaso dell’essere. Il terrore di Sören nasce dal suo inconfessabile non aver bisogno di Dio. Nel Novecento l’esistenzialismo ateo o para-ateo (Jaspers Sartre Camus) ha colto bene quel sottinteso, inasprendo ancor più l’insofferenza della solitudine dell’uomo – di una certa umanità contemporanea, insieme presuntuosa e spaventata – per tutto ciò che non emana dal soggetto. essere In accezione pregnante, il termine non si riferisce né al sussistere di presunti enti, né a una vaga albedine aleggiante oltre l’esistere, bensì sempre a una quiddità exeunte, in nesso triseminale con una molteplicità di contesti più o meno suoi (anche il pesce fuor d’acqua vive un più o meno suo essere al mondo). Di solito l’infinito sostantivato (l’essere) indica la radice soggettuale, a meno che non si necessiti un riferimento storico all’essere ontico/ontologico della metafisica, cosa facilmente desumibile dal contesto. Componente sempre di un essere al mondo, l’essere è un’evenienza triseminale di cui per un attimo (un indugio, direbbe Gadda) si accentua concettualmente l’irriducibile radice soggettuale, anche se esso non potrebbe darsi altrimenti che nel co-apparire di un’oggettualità e di una medialità altrettanto indispensabili. Essere è da intendersi quindi doppiamente in contrapposizione a che è, in quanto espressione del soggettuale (vs. oggettuale e mediale) e dell’indeterminato esistenziale (contro le determinazioni ontiche). essere al mondo Se il pro-concetto generale intorno a cui si muove il lessico di questo libro è la triradicalità o darsi originario triseminale, ‘essere al mondo’ è l’espressione che indica il DOT come difatto sempre in effetto. I tre termini stanno per le tre radici, purché non s’intendano sciolti dalla terna: essere [al mondo] indica la soggettualità, [essere al] mondo l’oggettualità, [essere] al [mondo] la medialità. L’assegnazione è convenzionale: non farebbe differenza dire ‘mondo’ o ‘al’ il soggettuale, purché siano contestualmente implicati altri due termini che rinviino all’oggettuale e al mediale. Sciogliendo la terna si distrugge l’origine di ogni senso. In cambio, la riduzione delle radici a polarità SOMarie consente di erigere significati a piacere. È l’errore storico della filo-sofia, quello che le ha permesso di pensare l’essere a sé (cosmo, ousìa, cosa in sé, realtà prima/ultima, oppure mistero storia prassi volontà di potenza ecc.). estensione Aspetto o lobo oggettuale dei concetti (e loro malgrado delle idee). A motivo del darsi triseminale, l’estensione, nella dinamica ideal-concettuale, è co-necessaria e concorrenziale all’intensione e all’attensione (q.v.). evenienza Nulla è se non come evenienza triseminale di un molteplice esser-stato, altrettanto triseminale, e di un molteplice poter essere, anch’esso triseminale. E poiché l’esser-stato e il poter essere rinviano ad altri precorsi e percorsi indefinitamente, il che è di una cosa non è mai né del tutto dato, né del tutto da darsi, a meno di considerare tautologicamente quel che ora ne è (il suo checchessia) come il tutto di essa. Consegue a ciò l’infelicità del senso, tipica del sapere e dell’agire umani. Infelicità connaturata, ‘metafisica’ se si vuole, avventura di in?compiutezza. Essa non trova riscontro tra gli altri viventi, i quali sanno e agiscono in base a significati felici introdotti nella condizione speciespecifica dall’evoluzione. Gli ee.uu. lottano inutilmente contro l’infelicità del senso; vorrebbero negarla, o anche porla, pur d’esser loro a configurarla, piuttosto che semplicemente ammetterla. In quanto è impossibile ignorarla del tutto cercano d’inquadrarla all’interno delle loro erotiche/ideotiche. Dallo sciamano all’antropologo strutturale la funzione dell’intellettuale è lenire dicendo un che è (o che non è) che mascheri il difatto di evenienza. Negare l’infelicità del senso ha un vantaggio apparente e un costo reale. Il primo consiste nel rendere desiderabile ogni sorta di prodotto culturale, dal più imaginoso al più aridamente razionale, che in qualche modo la compensi riduca sposti ecc., disinnescandone la carica implosiva. Il primo prodotto culturale in questo senso siamo noi, ciascuno per se stesso. Io costruisco un me votato alla lenizione dell’infelicità (quella che avverto come infelicità) connessa al difatto di evenienza: questo me include e organizza le vere e false speranze, custodisce le chiavi del dimenticatoio, trasla deforma riplasma quanto resta in memoria, edulcora con abbellimenti e trilli la percezione dello sfondo e si finge immerso in un’ampia gamma di sensatezze teoretiche e pratiche. Questi compiti complessi e nient’affatto occasionali, assunti dal singolo ma anche, fin dagli albori, da individui specialmente vocati, si sono diversificati in una miriade di ruoli e impersonazioni. Accade allora che la primaria funzione lenitiva della cultura non traspaia più e che le attività culturali sembrino libere. Le risorse in mano agl’intellettuali verrebbero solo eccezionalmente adibite, p.es. in occasione di grandi tragedie collettive e sciagure immani, ad usi del tutto pratici, di emergenza consolatoria e pronto soccorso psicologico. Ma l’eccezione è la regola. Il costo reale della negazione dell’infelicità è naturalmente l’illusione, la falsa radice di ogni presunta verità, la maschera morta che accarezzi quando ti spingi a sfiorare il roseo volto della bellezza. La vita è sogno affinché non sia incubo. O questo almeno è il presupposto che sembra indirizzare la produzione culturale da millenni, come se altro modo di vincere la connaturata infelicità dell’essere al mondo non si desse. Tra i tantissimi generi di lenitivi le razionalizzazioni hanno assunto in Occidente nell’età moderna un ruolo di primaria importanza, che ha raggiunto il suo massimo intorno al 1800 e sembra oggi in drastica ridefinizione. Bisogna determinare se e come l’intelligenza pratica degli ee.uu. possa guardare la vita senza, per così dire, storpianti aggiustamenti. Come accettare serenamente il difatto di evenienza, l’in?felicità naturale, senza rincorrere felicità (o infelicità) artificiali? filo-sofia Costruzione di pensiero paradigmica, tendente a istituire idee e a determinare relazioni stabili tra idee allo scopo di dare risposte e fondare una coerente visione del mondo, sia essa mistica razionalista scettica scientifica narrativo-simbolica o che altro. L’attività intellettuale, in quanto tende alle determinazioni e sistemazioni SOMarie, produce spontaneamente filo-sofia. Anche nel caso di una volontà precisa di non cadere nel filo-sofico, l’e.u. non può non subire in qualche modo la coazione al banale. Il vero intero a cui la filo-sofia tende, ingenuamente o criticamente, è l’integrità dell’autocontemplazione. Nel cedere alla costruzione ideotica si erigono paradigmi risolutivi senza consapevolezza della sottostante conformità al pre-paradigma. Aggiungendosi o sottrendosi gli uni agli altri, i paradigmi storici hanno prodotto di fatto un’esplorazione delle principali varianti del pre-paradigma col risultato ingenuo di erigerlo come scenario unico del vivere e del pensare. Il filo-sofico sembra avere avuto – perlomeno in Occidente, dai Greci a noi – un suo percorso, dall’oggettivo al soggettivo e dal soggettivo al mediante. Infatti anzitutto sono state lungamente percorse le strade che promettevano di condurre alla configurazione dell’intero (integro o suddiviso) come datità reale o in sé. Deluso dalle paradigmiche dell’in sé, il pensiero occidentale ha poi provato a fondarsi sul per sé (anima, soggetto, volontà, esistenza ecc.) e da ultimo sulla relazione (epistemologica fenomenologica semiotica strutturale) che dà multiformità sia all’in sé, sia al per sé. Nel contempo, pressoché accidentalmente e grazie ad altro (principalmente la proliferazione delle tecniche e la connessa universale divulgazione della libertà di visione), è cresciuta l’apprensione critica della filo-sofia come desiderio di rispondenza ed è quindi apparso il pre-paradigma come suo ordito. Di tale apprensione è portavoce, per esempio, questo scritto. È dilagata invero anche una valutazione ipercritica dell’intera filosofia come vicenda di smarrimenti, vicenda conclusa o da chiudere. La posizione prosofica contesta la liquidazione della filosofia, ne propone anzi il ricominciamento, benché non più in chiave solutorioconsolatoria. giustizia Radice quarta e ulteriore, conseguente alle tre, ma altrettanto autoevidente e irrinunciabile. La consapevolezza ingenua della triradicalità, propria dell’essere, suscita fin dalle origini della specie il sentimento dell’ingiustizia. Rendersi conto, seppur confusamente, che l’assoluto è relativo, condizionato da tre potenze irriducibili-trasducibili, per cui ogni senso è virtualmente possibile e nessun senso si ripete, se da un lato induce a cercar rifugio in mondi adibiti, dall’altro getta luce sulla nuda alterità della giustizia. L’e.u. non può non sapere di sapere che il dis-play originario di quelle tre potenze, di cui ciascun essere dovrebbe godere e profittare, è coartato nel vissuto di tanti esseri da apparati condizioni costrizioni, illegalità e presunte legalità, torti e presunti diritti, licenze e presunte libertà, sensi obbligati, pedagogie riduttive, legislazioni prepotenti, ideologie bigotte, settarismi fanatici ecc. L’assoluta libertà del senso rivela il candore del giusto. Il giusto nell’essere al mondo è rivelato ma, come ogni altra cosa, sottostà al difatto di evenienza. Non può fiorire se non come dedizione amore cura (Jonas dice responsabilità). Senza dedizione è trascinato anch’esso nel vortice del che è & che non è. Questo darsi da fare per la giustizia non va inteso dunque come un di più facoltativo o come generosità opzionale, bensì come immediata implicazione del sapere/sentire il proprio e l’altrui essere al mondo. Tanto che l’insensibilità al giusto radicale si configura come ab-essere (q.v.). Dal sentimento del giusto sono esentati, benché spesso essi generosamente non se ne esentino, coloro che patiscono ingiustizia, poiché in quelle condizioni la percezione del darsi triseminale può del tutto offuscarsi. D’altra parte, il difatto di evenienza governa, insieme a tutto il resto, anche il senso del patire ingiustizia; ciò che determina l’autoassoluzione di molti altri che si ritengono offesi, talora per un niente, e pertanto si esentano dalla cura del giusto. Stando così le cose, la via della giustizia si presenta ancora drammaticamente lunga, forse interminabile. O è concesso sperare che una più diffusa articolata consapevole riflessione sull’essere al mondo e sul nodo DOT/SOM consenta un diverso esito? gnoseogenetica Indaga intorno al sapere come sapere-agire, retto prima di tutto dalla sensibilità al darsi triseminale. Si occupa dunque dell’attività ab-originaria dell’essere al mondo, da chiunque spontaneamente praticata specialmente nel condursi in tutto ciò ch’è poco intriso di convinzioni artefatte. Attività però facile o a irrigidirsi nel sapere ideotico o a disperdersi nella gratuita molteplicità del concettuale fine a se stesso. ideal-concettuale Negli ee.uu. il riflettere si dà ideal-concettualmente, cioè insieme nella modalità del concetto, che rappresenta, nei limiti del concepibile, il che è & che non è, e dell’idea, che stabilisce il che è (o che non è) senza ammettere di diventare con ciò un significato come un altro. Risultando dall’autoerotica dell’afferramento l’idea fissa da sé e per sé la sua circoscrizione. Adopero invece concetto per ciò che è mosso dalla discontinuità delle relazioni triseminali, o presto a muoversi, in?definito. La produzione ideotica al pari di quella concettuale è nel germe del filosofare, come la linearità è nel germe dello scrivere. Certo, si può tentare uno scrivere planare, come fecero i Futuristi; allo stesso modo nella filosofia è presente un animus ribelle che vuole rompere i proprî sogni, sentendone confusamente la doppiezza. Idee e concetti convivono negli stessi atti di pensiero parola opera omissione. Ciò dipende dal DOT. Ogni atto produce una quantità di interferenze nel dis-play delle seminalità. Queste si traducono in idee e in concetti, essendo inadeguato, nell’essere al mondo, procedere solo per concetti o solo per idee – produce un danno biologico. Abbiamo pertanto bisogno di tre termini (neutro, DOTale, SOMario) per ciascuna delle seminalità (ad es., soggetto, soggettualità, soggettità). Di fatto ogni parola andrebbe vista, nell’uso, come un trittico neutro-ideal-concettuale. Nell’e.u. la bipolarità idea-concetto traduce il difatto generale della vita, per cui una cosa (un frullo d’ali tra le frasche) è o non è specie-significativa (lo è per un gatto, non lo è per una mucca), diventando con ciò qual-cosa o restando immersa nell’insignificante, ossia nel nonnulla (in quest’ultimo caso si può dire altrettanto bene nell’informazione). La vita tuttavia non può permettere che quel qual-cosa, nella percezione del vivente, sia fissato per sempre come tale (o non tale), giacché l’ambiente muta e i fenomeni si sovrappongono tanto quanto le intricate esigenze del nutrirsi del difendersi del riprodursi ecc. Pertanto quel qualcosa è quel che è solo nell’immediato e passa ad essere altro (o niente) non appena la situazione muta. La chiusa circolarità cosa/qualcosa/nulla, tipica dell’animale finito, diventa infinita bipolarità ideal-concettuale nell’e.u., l’animale non-finito. ideotica, retoideotica Convincente, orientante ed ortogena, l’ideotica è tale che sia il sapiente sia l’ignorante possono sentirla come irrinunciabile alla comprensione del ‘mondo’. Il sapiente la presenta come prodotto suo, a giustificazione della propria presenza sociale. In realtà l’ideotica non è che la calcificazione dell’ideale; alla estremità opposta troviamo la disseminazione purchessìa del concettuale. La crisi del pensare che l’età nostra attraversa è determinata dal disgiungimento dell’ideale dal concettuale e del concettuale dall’ideale. Dio non è morto. È spenta, nell’Occidente post-occidentale, una certa ideotica del divino. La sua anima è trasmigrata in un turbine teogonico. E tutto è di nuovo, ahimé, pieno di dèi. In particolare retoideotica indica gli argini del discorso e lo scorrere dell’ideazione nel suo letto di ghiaia: l’insieme delle idee con le relative formule espressive (o delle formule con le relative idee annesse) che pre-determinano la significazione entro un paradigma. Tecnoideotica. Versione contemporanea della retoideotica. Vorrebbe sostituire alla soluzione contemplativa quella fattiva (strumentale), evitando ancora una volta la critica della soluzione. L’ideazione comporta sempre rethos (redazione simbolica) e quindi ideazione e retoideazione possono considerarsi sinonimi.Tutte le ideotiche sono variazioni sulla medesima idiotica di base. Idios: uguale, che resta su se stesso. Fin dalle origini la filosofia giace sul piano della ragione sedicente. Né può far altro o di meglio. La tenuta della razionalità sofica dipende per vocazione da quanto stretta in se stessa essa si mantiene. Ciò è ancor più vero nell’irrazionalista il quale giunge a negare di fatto il suo postulato costruendovi tutt’intorno un discorso in forma di danza nel quale la ragione, ormai impresentabile, si maschera da seduzione. La ragione sofica è autologica (idiotica) per principio: quanto più s’accresce e concreta sui suoi stessi termini, quanto più in essi s’inviluppa, quanto più resta nella circolarità ideoticoidiotica, tanto più si convince d’essere analiticamente salda. Limite inferiore dell’autologico è l’ingenua ripetizione; importante nell’ideoctisi è non cadere nell’evidenza della ripetizione pari pari, poiché l’autoriferimento non deve risultare. implicazione Terzo termine tra la complicatio e la explicatio di tradizione cusaniana. Riguarda l’essere al mondo, dove le tre seminalità irriducibili & trasducibili non consentono appunto che si giunga né allo svolgimento integrale (explicatio) di tutte le possibilità (natura naturata), né alla contrazione in unità (che sia essa etica estetica logica ontologica epistemologica pragmatica pratica ecc.) della molteplicità dei sensi e dei valori (natura naturans). L’implicazione è un fenomeno ineluttabile della triradicalità. informazione Grado zero del medio (come la percezione può dirsi grado zero del soggetto e l’accadimento grado zero dell’oggetto). Al grado zero non sussistono né sensi né significati. Infatti anche un mero significato sussiste, pur nella sua inerzia, grazie al pre-stabilirsi di una convergenza SOMaria. Il Mondo può essere pensato anche come pieno di informazione in quanto da un momento all’altro qualsiasi agglomerato o flusso di nonnulla (materia o energia) può venir colto e interpretato come significativo o sensato in ordine a una visione del mondo. Un apparente allineamento di stelle può diventare la cintura di Orione o la chioma di Berenice. intensione A parte il significato fregeano, qui il termine vale per aspetto mediale dei concetti (e, loro malgrado, delle idee). A motivo del darsi triseminale, l’intensione, nella dinamica ideal-concettuale, è co-necessaria e concorrenziale all’estensione e all’attensione. Di un concetto si dovrebbe quindi sempre intendere la sua attensione-estensione-intensione. Solo per abbreviare uso semplicemente attensione. intero L’onnino-anodino del darsi originario triseminale e della pro-sofia. Argomento di quest’opera è l’intero, un intero non integro-integrante, non metafisico-fisico, non logico-dialettico, non ermeneuticoesistenziale; un intero altro, non-identitario, che comprende tutti gl’interi conosciuti e di ciascuno evidenzia la paradigmicità. irriducibilità vs-& trasducibilità I due lati o facce delle radicalità. L’essere al mondo si manifesta all’essere in questa triplice bipolarità, inafferrabile e ineffabile, irriconducibile ad unità (se non per via SOMaria, ideando un paradigma). Se il tutto (“il che è e che non è possibile che non sia”) si presenta come che è & che non è, le tre vie parmenidee s’affiancano come varianti di valico dello stesso percorso. La coscienza prima di salvare i fenomeni si preoccupa di salvare se stessa. Perciò percepisce questa quotidiana rivelazione delle sue condizioni d’esistenza come un’insopportabile licenza. La coscienza infatti, finora, è sempre stata infelice – perché vorrebbe essere libera di legare e di legarsi. medialità Radicalità o seminalità irriducibile-trasducibile dell’[essere] al [mondo]. Comunicazione, relazione, rapporto in qualsiasi modo attuantesi. Non si dà momento di vita senza il concorso della medialità. Con questa intendo anche l’insieme incontornabile delle occorrenze mediali, il concetto degli infiniti modi del medio. Tale concetto, con quelli anologhi di soggettualità e oggettualità, assiste la visione pro-sofica. Manca nell’ideazione SOMaria e la sua assenza permette la costruzione di paradigmi di impianto oggettivo e soggettivo. momento di vita Il presente così come di fatto lo si vive, sempre immersi nel darsi presentario, denso di mobili sensi generati dal dis-play irriducibile-trasducibile delle seminalità. Senza dimenticare che all’altro capo del continuum senso-significato sussistono tutti i mondi SOMarî che o ci sono imposti (dalla tradizione, dalle leggi ecc.) o ci scegliamo. mondo, Mondo mondo. Nell’espressione essere al mondo: radice oggettuale; nella locuzione mondo ad hoc: polo oggettivo. Mondo. Intero metafisico necessariamente ignoto, che in vari paradigmi è presupposto noto o conoscibile e in qualche modo contornabile. Il nonnulla o, se si preferisce, la cosa in sé, in cui un’intelligenza sorge matura prolifera incontra se stessa e il resto rapportandovisi. Dobbiamo supporre che il darsi originario sia di questo Mondo, non sapendo immaginare realtà dove questo nostro darsi originario triseminale non viga (a prescindere da quelli in cui non sussista né vita né, quindi, datità alcuna). mondo ad hoc, mondo adibito Nel caso dell’e.u. l’essere al mondo, allorché le idee sopraffanno i concetti, genera mondi adibiti – risultato autoctico di un’ideotica, sempre incluso entro un margine d’inconsapevolezza, anche quando apparentemente vi predominano la disposizione autocritica o autoironica. Mondo ad hoc e significato nascono entrambi per autoctisi, ma mentre il significato dipende da un’assegnazione e come tale va sempre bene (i significati sono, a rigore, extra-mondani), nel mondo ad hoc v’è sempre incorporata una disposizione, un senso coattivo, spesso una moltitudine di sensi coatti. mondo della vita Mondo dell’essere al. Potrei dire Lebenswelt in omaggio a Husserl e al movimento fenomenologico. Ma ho fatto riferimento ben poco alla fenomenologia trascendentale perché il suo mondo vero è “meramente soggettivo-relativo” (come esplicita Husserl) oppure “pratico” (ancora Husserl), mai SOMario-DOTale. In particolare, oltre a ignorare la medialità come radice, né Husserl né il movimento fenomenologico sono pervenuti all’irriducibilità-trasducibilità, senza cui il mondo della vita, nella sua assoluta relatività, non è concettualizzabile. nonnulla Il famoso Che è, il Mondo, l’Essere, il Sussistente. Il sogno della scienza acritica. Lo dico nonnulla o nil in quanto di esso niente si dà se non nel crogiuolo triseminale, quando dunque il presunto Che è non è più, anzi rivela il suo separato non-essere. Niente in comune col Néant sartriano, che è solo una variante anomala dell’idea di soggetto. oggettualità Radicalità o seminalità irriducibile-trasducibile dell’[essere al] mondo. Ciò che accade. Non si dà momento di vita senza il concorso dell’oggettualità. Con la stessa intendo anche l’insieme incontornabile degli eventi, il concetto dell’indefinita estensibilità dell’oggetto. Tale concetto, con quelli anologhi di soggettualità e medialità, assiste la visione pro-sofica. Manca nel pre-paradigma, mentre il parziale superamento della sua controfigura SOMaria (oggettità) permise la costruzione di paradigmi di seconda generazione (da Cartesio a Husserl). onnino-anodino Nessun intero può darsi, perché nel darsi si sbriciola. Il tutto per conservarsi deve restare un nonnulla, una coalescenza di mera informazione, un puro accadere, un appercepire virtuale. L’onnino-anodino sta antiteticamente all’intero come la cosa al qual-cosa. Dall’onnino nascono tutte le verità, per cui lì è anche dove il vero muore. Ciò spinge il sapiente a rifuggirne prendendo una strada qualsiasi pur di starne alla larga. Tutte le vie del sapere si dipartono dall’onnino, e ciò è legittimo anzi inevitabile. Se poi all’andarsene si sovrappone il dimenticarsene, diventano configurabili interi a non finire, escogitabili a piacere per assecondare le richieste del momento, delle classi dominanti, delle strutture regolative, dei chierici stessi. per altro Mentre i prodotti ideativi, autosoddisfacenti, sono caratterizzati dall’aseità conclusiva, l’attività concettuale (attensionale-estensionale-intensionale) genera il divergente/convergente, l’inconcluso, il provvisorio, il per altro. Ad ogni istante il disegno è in divenire. Divenire è altresì il permanere purché sia non per stolidità o inerzia, ma per continuante rigenerazione concettuale (a parte la mera risignificazione). pre-/proPre- (segnalato, se la chiarezza lo richiede, dallo stacco, come in pre-paradigma) indica un che di condizionato da presenze pressanti anteposte al suo comparire. Indica in genere il ricadere dell’idea in se stessa o in ciò da cui è alimentata e che la pre-vede. La banalità, ad es., è pre-visione. Nel pensiero paradigmico un che è e il suo contrapposto che non è sono possibili perché il paradigma, quale che sia, pre-stabilisce la definizione di specifiche SOMarie. Pro- invece sottolinea il sottrarsi al pensiero incastellato, l’apertura all’in?definito. Mantiene i due significati traslati del greco: 1. ‘a difesa di’, ‘a favore di’ e 2. ‘a preferenza di’, ‘piuttosto che’. Sta a sottolineare l’alternativa al sapere presunto quale è disegnata dalla proposta prosofica, ma soprattutto quale è messa in atto dal sapere-agire, quell’apertura di cui quotidianamente si mostrano capaci in tanti casi della vita gli ee.uu. In ragione di questo suo tendenziale tutto comprendere e tutto discutere proconvoglia provvisorietà ed interrogazione; non aggiunge idee, bensì sollecita concepimenti e dirige direttamente l’intenzione al cuore dell’essere al mondo. pre-paradigma Il sapere umano formulato, pur nella diversificarsi delle sue manifestazioni, si muove di necessità, se vuole che la formulazione tenga, entro uno spazio pre-categoriale i cui tre assi sono il soggettivo l’oggettivo il mediante (spazio SOMario). Queste polarità artificiali rispecchiano, appiattendole, le radici naturali di ogni essere al mondo, che sono la soggettualità l’oggettualità la medialità. Pare infatti che non soltanto il pensare razionale, cosciente a se stesso, ma ogni forma di vita possa sorgere soltanto e inevitabilmente su tali coordinate. Questo darsi originario triseminale o triradicale (DOT) non è qualcosa che il pensiero razionale possa dominare, dal momento che il pensiero è per così dire un esantema della vita e non può pertanto in alcun caso guadagnare un punto di vista esterno ad essa e comprensivo dei suoi (di quella e di questo) costituenti primari. Le polarità in base a cui la ragione costruisce i suoi paradigmi non aderiscono alle qualità originarie delle radici precisamente perché queste qualità (irriducibilità & trasducibilità) costitutivamente si sottraggono ad ogni sorta di razionalità riduttiva. L’intero-vero di cui parla Hegel non è quindi da cercarsi dopo, alla fine di un percorso di conquiste della coscienza, ma prima, nelle modalità generali del darsi che antecedono ogni mettersi a pensare. Il filosofo detesta, nel teoretico, questi caratteri inafferrabili e tuttavia originari, quindi incoercibili. Per ciò prova a sottometterli con la ragione costitutiva che ne idea dei rimpiazzi più gestibili. Le filosofie sono tentativi illusori di sottomissione, una provincia tenta d’impossessarsi dell’impero. Tentativi tutti riusciti se si bada alla rispondenza storico-ideotica tra soluzione e problema (storicamente le risposte reclamano le loro domande e in tal modo virtualmente le saziano); tutti senza eccezione falliti se si guarda al darsi originario che trascende ogni schema. Per inciso, questa è l’unica trascendenza ammissibile, tutte le altre non essendo che riduzioni di questa. Per pre-paradigma intendo dunque ciò che accomuna tutte le schematiche SOMarie. Ma cosa hanno in comune? Non raffigurazioni, né forme, né strutture, ma una pre-disposizione, una mozione d’ordine preconcetta, che apre le porte alle figure retoideotiche, alle schematiche preferite e alla loro messa a punto in funzione della razionalizzazione desiderata e prevista. Paragono allora il pre-paradigma al tavolo da biliardo su cui gioca non importa quale causalità, aristotelica o humeana, che con le sue quattro sponde e le sue sei buche pre-stabilisce una certa logica di gioco e una ristretta gamma d’esiti, benché ogni partita si sviluppi differente da tutte le altre. Il pre-paradigma è solo una pre-disposizione vuota, un gioco che non sa d’esser giocato. presentario, presentarsi Presentario: non distante dall’accezione colta dal Mamiani quando scrive: “La sintesi suprema è data e non fatta ed è presentaria a qualunque uomo in ogni attimo di tempo e di vita” [T.Mamiani della Rovere, Confessioni di un metafisico, Firenze, 1865, vol.II, pag.410]. Tuttavia per noi la “sintesi suprema” è esente da idealità, pertanto il presentario sporge come nodo SOM-DOT e nient’altro. Presentarsi: l’insorgenza (inceptio) di una cosa qui e ora, e per il momento, ma anche la deceptio di qualcosa. Infatti ogni cosa che si presenta nel gioco delle radicalità disillude di qualcos’altro, spesso non fa che disintegrare tanti qual-cosa e lasciare un vuoto. L’essere al mondo null’altro può se non appunto ora e qui presentarsi. pro-logica Logico si applica solo a ciò che può distinguersi. Il distinguere è possibile solo col pensare banale (o significativo) dove è implicita una pre-distinzione (quella che riguarda la separatezza di mente/mediante/referente e la giocabilità delle loro interrelazioni) e viene ammessa una serie di operazioni distintivo-compositive (grammaticali semantiche sintattiche prammatiche computistiche ecc.). Questa logicità, peculiare del pensiero costruttivo-riduttivo, non può essere del tutto aggirata neppure quando ci si propone di risalire alle condizioni precedenti ogni attività distintiva, perché la vita con le sue pratiche, tra cui il pensare, è solo possibile dentro quelle condizioni. Tuttavia se c’è condizione ci dev’essere intorno ad essa e prima di essa un darsi condizionato. La pro-logica punta alla ricognizione delle condizioni precedenti ogni ipostasi teoretica pratica poietica. pro-postulato Nella reciproca congiunzione da cui non possono svincolarsi, le tre seminalità originarie producono la loro propria irriducibilità che le identifica, congiunta alla trasducibilità che le maschera. pro-schematica Articolazione del DOT in un complesso dinamico di funzionali-e-relativi intra- e inter-seminali, caratterizzato da irriducibilità & trasducibilità e pertanto da in?definitezza. In accezione gnoseogenetica, pro-schematica può essere sia l’articolazione DOTale di fatto conseguita da uno o più esseri in una sequenza di atti, sia ogni elaborazione concettuale tendente a superare le polarizzazioni ideotiche tipiche delle schematiche SOMarie. In accezione etica, pro-schematica designa il livello di complessità dinamica dell’articolazione ideal-concettuale che un’intelligenza DOT-consapevole si propone di conseguire e mantenere. pro-sofia, prosofia L’e.u. in quanto semplice vivente sarebbe primamente e spontaneamente propenso all’agire pro-sofico, benché nei limiti della significazione speciespecifica. Ma appunto è speciespecifica del suo essere al mondo la riflessività, cosicché le piegature ideotiche delle sue visioni lo deviano dal sapere-agire naturale. È questa una condizione intimamente contraddittoria ma non assurda: non è dato riflettere senza estranearsi, senza cioè uscire con un artifizio dall’intricatezza naturale. In qualche misura ideotizzare è necessario. Le ideotiche sono causate dalle stesse abilità fabrefattrici dell’umanità, le quali generano vite artefatte che finiscono per riscontrare in questa o quella ideologia corrispondentemente artefatta più rispondenza di quanta non ne trovino nell’apertura in?definita dell’essere al mondo. Le ideotiche dipendono inoltre dalle attività specificamente contemplative, per il cui tramite la mente pre-ordina la comprensione, e dalle impellenze simboliche, espressivo-comunicative ecc. La pro-sofia, pur consapevole del carattere ideal-concettuale di ogni sapere, pro-pone l’approccio integrale all’essere al mondo, conciliando in una pro-schematica fine le esigenze della categorizzazione distintiva con l’in? definitezza derivante dalle irriducibilità originarie. Se la filosofia è prosofia ridotta all’ideale, la prosofia è filosofia ricondotta, per quanto possibile, al concettuale. qual-cosa Ciò che risulta dalla polarizzazione, mediante cui il darsi triseminale indescritto (la cosa) è ridotto al SOMario (un dato qual-cosa). Di conseguenza si trovano tre primi generi di qualcosa, speculari alle tre radicalità: il qualcosa oggettivo, il qualcosa soggettivo, il qualcosa mediante. La presenza di un qual-cosa impedisce alle seminalità di conseguire senso compiuto, il quale solo verrebbe raggiunto qualora rimanesse intatta l’irriducibilità-trasducibilità. La compiutezza concettuale, infatti, è solo nell’in?definito, come quella ideale lo è nella definizione. riduzione Le seminalità indiscernibili dell’essere al mondo (soggettualità oggettualità medialità), quando diventano nella contemplazione poli banali del cosiddetto essere, prendono aspetto stabile distinguibile descrivibile definibile. Rigettata l’originaria irriducibilità & trasducibilità, assumono un volto per volta, un aspetto di facile stesura e lettura, in cui la loro libertà sempre differente è confezionata a vantaggio di un certo discorso ritenuto localmente utile bello giusto ragionevole ecc. sapere-agire “Esercito la saggezza nell’agire”, scrive Senofonte. La rappresentazione più adeguata dell’agire non è quella fornita dall’accaduto, quanto quella che nell’esperienza matura come da sapersi, da tener presente nel caso. Contestualmente, la descrizione più confacente del sapere non è quella fornita dal conosciuto, quanto quella che nell’esperienza matura come da agire, da compiere, da sapersi sul da farsi. Esso può darsi solo in effetto, dovendosi confrontare incessantemente col difatto di evenienza, cioè con l’effetto della irriducibilità-trasducibilità tra le radici. Il reciproco correttivo del sapere sull’agire e dell’agire sul sapere è soltanto uno degli aspetti, che isolato conduce piuttosto alla tecnica, in sé stessa priva di senso. L’insensatezza profonda da cui guardarsi è infatti quella di un sapere ingiunto dall’agire o di un agire ingiunto dal sapere. senso, sensatezza In opposizione a significato: per quanto il significato circoscriva, il senso sfugge. Nell’evenienza, in cui di fatto si dà, il senso è oltraggio. Imprevedibile, coinvolge fatti sentimenti relazioni riflessioni persona ambiente tempo: vi convergono le tre irriducibilità-trasducibilità radicali, generando l’in? definitezza con cui si confronta il sapere-agire. Nel senso si muove quel che l’essere intende, quel che il mondo implica, quel che i linguaggi traducono. Se del senso vedo un fondamento nel valore semantico contestuale, nel giudizio del soggetto, nella distinzione denotazione/connotazione, sottolineo solo l’uno o l’altro aspetto della precarietà del senso, ciò che consente l’inganno di attribuirgli una suppositio avvicinandolo così a ciò che più ne dista, il significato. Nulla tra gli ee.uu. può avere altro senso che non sia quello che viene assegnato, ma quel che è di fatto assegnato nel qui e ora esistenziale non può esser afferrato, se non per il tramite di altri sensi. Senso include cose come il valore etico, il portato storico, il risalto sociale, la pertinenza al caso, l’efficacia pratica, il divertimento suscitato ecc. L’interpretazione è solo un aspetto del gioco dei sensi. senso primo, senso secondo Quel che l’essere intende (sa sente dice fa), quel che il mondo implica, quel che i linguaggi (l’al) introducono in relazione a una cosa in un dato momento di vita, tutto ciò compone il senso primo di quella, p.es. ‘[il senso primo di] questo scodinzolar del cane [per me, qui e ora]’. Per l’irriducibilitàtrasducibilità delle radici i sensi primi, se non si fa di ridurli a significati, cioè a strumento di sensi ulteriori, sfuggono inesorabilmente, di attimo in attimo, pur costituendo nella loro evanescenza il solo vero, l’effettualità dell’essere al mondo. Il vero, di cui niente può dirsi, è solo nell’immediato presentarsi – inestricabilmente integrato alla vita stessa. Aggregandosi congiungendosi contrapponendosi, i sensi primi producono sensi secondi (p.es. ‘[il senso secondo di] cane che scodinzola [come idea-concetto di non importa chi come dove quando perché]’). L’analogia con i termini peripatetici (sostanza prima e sostanza seconda) vuole evidenziare un contrasto: mentre nel lessico aristotelico per sostanza prima s’intende il sostrato materiale e formale attuante la sussistenza continuità definibilità di un ente individuale, nel nostro un senso primo è espressione sfuggente della triradicalità insolubile dell’essere al mondo. Lo stesso vale per i sensi secondi, con l’aggiunta che questi, a differenza dei primi, non avendo una collocazione nel sapere-agire di qualcuno, non sono veri se non quando impiegati come sensi primi (p.es. ‘[il senso di] questa rappresentazione di cosa sia in genere uno scodinzolar di cane [per me, qui e ora, in queste condizioni]’). Oltre a ciò, un senso primo non è certo separabile da una quantità di sensi secondi messi a disposizione dall’ambiente culturale, da cui in buona misura è dipeso nel suo formarsi. L’intreccio dei sensi primi e secondi dà origine a sensi terzi e quarti, comodamente asservibili, strumenti ideologici dottrinari politici ecc. significato L’essenza del significato non ha che fare con l’oggettività o la scientificità, bensì anzitutto coll’esser posto. Il sapere scientifico-obiettivo che Husserl contrappone al Lebenswelt non è che una regione particolarmente sorvegliata di significati interconnessi. Le cose nell’evenienza difattuale non sempre diffrangono (v. diffrazione), spesso restano semplicemente quel che erano (o diffrangono impercettibilmente). Ciò a patto di cessare, dimenticate o irrilevate, nascoste dal movimento di altre cose. Chiamo ‘significato’, in primo luogo, ciò che nel difattuale giace dormiente, senza diffrazione. La m di ‘chiamo’, ad es., è stata scritta da me – un momento fa, nell’evenienza difattuale della compilazione di queste righe – senza diffrazione alcuna. È andata allo stesso modo per l’intera parola ‘chiamo’. Nello scrivere ‘compilazione’, invece, ho esitato tra questo e altri termini. Nel soppesarli è allora comparso il senso del termine e di quel che stavo cercando, forse anche di quel che stavo facendo, cioè è intervenuta la triradicalità, che posso aver tradito (cedendo a un’idea, ossia al SOMario), o essermela giocata concettualmente con un atto di vita fuori (o abbastanza fuori) dai circoli ideotici. ‘Significato’ vale quindi ‘ciò che è dato o preso così com’era’. Perché vi sia solo significato la cosa deve scomparire, lasciar posto a qualcosa di pre-distinto e di giacente-dormiente. Il giacere è la prima categoria del significato. Nel trasmettersi da persona a persona, o da cultura a cultura, da ambiente ad ambiente, i significati diffrangono in sensi, oppure sostituiscono significati o sensi pre-dati. Ciò che agli occhi di uno è un tappo a corona per un altro è un possibile ornamento un talismano il cappelluccio d’un pupazzetto… Il trascorrere da persona a persona, di momento in momento, di sensi e significati è ciò che costruisce il dis? continuum senso-significato. Il processo può essere indagato, ma sarebbe illusorio convincersi di poterlo dominare. Nel dis?continuum senso-significato l’essere al mondo si smembra e si riorganizza. La miriade di dis?continuazioni senso-significato produce il nodo DOT/SOM. L’avverbio significativamente non è mai usato se non per dire ‘secondo un significato assegnato’. soggettualità Radicalità o seminalità irriducibile-trasducibile dell’essere [al mondo]. Ciò che decide risolve risponde riflette progetta ecc. Non si dà alcun mondo senza il concorso della soggettualità, senza la quale inoltre si spegne ogni comunicare (resta l’informazione, postulato del nulla e della scienza). Per soggettualità intendo anche l’insieme incontornabile (o infinito molteplice) delle reazioni e relazioni psichiche sia di ciascun essere, sia della totalità degli esseri. Tale concetto, con quelli analoghi di oggettualità e medialità, assiste la visione pro-sofica. Manca nel pre-paradigma, mentre il superamento della sua controparte somaria (soggettità) ha permesso storicamente la costruzione di paradigmi di terza generazione (funzionalismo strutturalismo decostruttivismo ecc.). soluzione La causa finale di una qualsiasi sophía e del suo esser costruita così com’è. Il suo essere retoideata in funzione della risposta da fornire, risposta pre-vista e pre-desiderata. L’(as)soluzione al peccato di pensare. Inoltre, causa finale di un’interpretazione riguardante una schematica, una sophía o un’idea altrui. Occorre assolutamente una visione del mondo, cioè un mondo che risulti dal nostro vedere (esperire e riflettere). Se tutti i mondi sono possibili e quindi nessuno necessario, dovrò decidere quale mondo mi sta meglio (come si dice di un abito), quale mi è più comodo, confortevole. Non posso però confessare a me stesso questa decisione. La scelta deve passare inosservata. Un homunculus esterno, l’agente razionale, sceglie per me e non me lo fa sapere. In tal modo ottengo quel (mondo ad hoc) che voglio come se fosse il (mondo) che è. SOM Si riferisce alla struttura di ogni paradigma: il darsi originario trigerminale vi viene pre-smembrato in tre distinte assialità (dell’insorgere, del decidere e del riferire), che per convenzione semplificatrice chiamiamo qui soggettiva (S), oggettiva (O), mediante (M). Dapprima estratte e separate, poi ricomposte così da risultare riducibili o subordinabili o funzionali in qualche modo alla soluzione voluta. Solo a tal patto un paradigma può esser foggiato. Pertanto ovunque si dia un paradigma si ripropone un preparadigma che consiste nella polarizzazione o fissazione (quale che sia) dei ruoli e dei rapporti tra le germinalità originariamente irriducibili ma nella soluzione ideata ridotte a maschere di una scena preallestita. La modernità non meno dell’antichità imbastisce paradigmi sulla nozione, variamente spesa e apparentemente illuminante, delle reciproche implicazioni o fagocitazioni S/O (Schopenhauer, Il mondo…, §17: “l’uno [l’oggetto] e l’altra [la rappresentazione] formano una sola e medesima cosa, in quanto ogni oggetto presuppone sempre e poi sempre un soggetto”), S/M, O/M, S/O/M. Nel quadro del DOT tali coagulazioni si dimostrano anch’esse per quel che sono, riduzioni paradigmiche. triradicalità, triseminalità Vedi “darsi originario triradicale”. vs-& Intreccio pro-logico di opposizione e congiunzione. Spesso per semplicità ho usato &, come in che è & che non è, o semplicemente il trattino, come in irriducibilità-trasducibilità, ma è sempre inteso vs-&. *** Sommario a tre livelli [↑] 0. 1. 1.1. 1.1.1. 1.1.2. 1.1.3. 1.2. 2. 2.1. 2.1.1. 2.1.2. 2.1.3. 2.1.4. 2.1.5. 2.2. 2.3. 3. 3.1. 3.1.1. 3.2. 3.2.1. 3.2.2. 3.2.3. 3.2.4. Premessa. Sullo stesso argomento La consolazione della filosofia Ideazione Contemplazione Erotica Ideotica La tripolarità SOM Sembianze del pre-paradigma Erotiche ideali AUM Logos Pon Sin Mor Primæ veritates Sofie Il pre-paradigma Essere al mondo Modi del darsi originario Darsi Filosofia e prosofia Radicalità Del soggettivo Del soggettuale Del fornire esempi Creare Bloom 3.2.5. 3.2.6. 3.2.7. 3.2.8. 3.2.9. 3.2.10. 3.2.11. 3.3. 3.3.1. 3.3.2. 3.3.3. 3.4. 3.4.1. 3.4.2. 3.4.3. 3.4.4. 3.4.5. 3.4.6. 4. 4.1. 4.2. 4.2.1. 4.2.2. 4.2.3. 5. 5.1. 6. 6.1. 6.2. 6.3. Tra io e non-io Ulteriorità del Mondo Sensati costrutti Oggettivo/oggettuale Pragma e olos Medialità Una risposta anomala Implicazione radicale Irriducibilità Trasducibilità Irriducibilità vs-& trasducibilità Pro-schematica Da dove parli? Dati & non-dati L’angoscia esistenziale Evenienza Il nodo DOT/SOM Presentarsi Divagazioni prosofiche Riepilogo Casi della vita Il caso della scala L’estetico e l’etico Legno chiodo martello Essere e ab-essere Del giusto Appendici Tavola dei termini SOM e DOT Per continuare. Un indice ipotetico Note lessicali [↑] Colophon Schedatura del volume Classificazione tradizionale Dewey: Soggetto: Ontologia; Classe: 111.1. Edizione cartacea Del che è & che non è. Pensare l’evenienza / Paolo-Ugo Brusa. - [Roma] : Ilmiolibro, 2013 [in corso di pubblicazione] – pp.360 : 5 ill. ; 23 cm. ISBN 10: ########## / ISBN 13: #############. Prezzo di copertina: €10,00. Per una comparazione dei prezzi on line vedasi RiLibri: http://www.rilibri.it/book.php?isbn=#############&lang=it Edizione elettronica a cura dell’Autore, 3 aprile 2013. La formattazione ebook è praticamente identica a quella su carta. Download gratuito da http://www.smashwords.com ISBN: 9781301174997 In copertina: Riccardo Faetanini, Intellettuale, ca.1980 The Prosophy Project discute, sviluppa e diffonde la conoscenza prosofica: un progetto a lunghissimo termine teso alla miglior conoscenza possibile e alla più comprensiva condivisione dell’essere al mondo in tutte le sue manifestazioni presso ogni vivente. Le persone interessate sono cordialmente invitate a collaborare, senza alcun vincolo di adesione, struttura o sodalizio. Nota sull’Autore. Paolo-Ugo Brusa è nato a San Marino, RSM, nel 1950. Laureatosi in Filosofia (Estetica) nel 1974 a Bologna - Alma Mater, ha dapprima insegnato materie letterarie nella scuola media inferiore e poi storia e filosofia nella secondaria superiore sammarinese fino al 2010. Tra il 1980 e il 1990 si è dedicato alla psicopedagogia e all’introduzione nei programmi scolastici per diversamente abili di software personalizzato. Con Del che è & che non è e con Essere al mondo propone la riflessione prosofica come ricominciamento radicale del filosofare e supporto per un’intesa universale tra liberi individui e libere culture. Contatti: prosophy@gmail.com In preparazione: http://www.prosophy.info Smashwords Edition, License Notes Thank you for downloading this free ebook. Although this is a free book, it remains the copyrighted property of the author, and may not be reproduced, copied and distributed for commercial or noncommercial purposes. 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