Sogni e visioni nella Vita nova
di Donato Pirovano
Reti Medievali Rivista, 25, 2 (2024)
<http://www.retimedievali.it>
Parole nove: indagini sul lessico
della Vita nova di Dante Alighieri.
I.
Riflessi classici, biblici e scientifici
a cura di Nicolò Maldina e Donatella Tronca
Firenze University Press
Reti Medievali Rivista, 25, 2 (2024)
<http://rivista.retimedievali.it>
ISSN 1593-2214
Parole nove: indagini sul lessico della Vita nova
di Dante Alighieri. I. Riflessi classici, biblici e scientifici,
a cura di Nicolò Maldina e Donatella Tronca
DOI: 10.6093/1593-2214/11444
CCBY 4.0
Sogni e visioni nella Vita nova
di Donato Pirovano
La sostanza onirica è una componente importante della narrazione e della sostanza epifanica
che caratterizza la Vita nova. Collocati in punti strategici della storia, tutti convergenti verso
il (o dal) kérigma della morte o meglio assunzione al cielo di Beatrice, questi episodi si configurano come premonizioni e come aperture dell’orizzonte narrativo. In questo contributo sono
analizzate le due, forse tre visiones in somniis, che si trovano rispettivamente nei paragrafi III,
XII e XLII. Nella comune dimensione onirica e nella prefigurazione di qualcosa che avverrà
tutte e tre mantengono un carattere enigmatico.
The oneiric substance is an important component of the narrative and epiphanic substance that
characterises the Vita Nova. Placed at strategic points in the story, all converging towards (or
from) the kérigma of Beatrice’s death or rather assumption into heaven, these episodes are configured as premonitions and as openings of the narrative horizon. This contribution analyses
the two, perhaps three visiones in somniis found in paragraphs III, XII e XLII respectively. In
the common oneiric dimension and in the foreshadowing of something to come, all three maintain an enigmatic character.
Medioevo, Dante Alighieri, Vita nova, sogno, visione, enigma.
Middle Ages, Dante Alighieri, Vita Nova, dream, vision, riddle.
Infastidito da colui “che sogna e fa spirti dolenti”, il poeta bolognese Onesto degli Onesti1 sovradimensiona la sostanza onirica della Vita nova. A rigore, infatti, nel libello si possono annoverare due visioni in sogno (cfr. Vn, III e
XII), una terza visione forse in sogno (Vn, XLII),2 tre immaginazioni (cfr. Vn,
IX, XXIV, XXXIX), un delirio (cfr. Vn, XXIII) e un rapimento fuori dal mondo
sublunare (cfr. Vn, XLI).3
1
In particolare si possono leggere i sonetti: Bernardo, quel dell’arco del Diamasco, Non so s’ è
per mercé che mi vien meno, e “Mente” ed “umìle” e piú di mille sporte piene di “spirti”. Sul poeta bolognese si veda Marrocco, Onesti, Onesto degli. In precedenza cfr. soprattutto Antonelli,
“Nuove su Onesto da Bologna,” 9-20; e Marti, “Onesto da Bologna,” 35-51.
2
Secondo Baldelli, “Visione,” 7-8, si tratta di una visio in somniis dal momento che il termine
“visione” nella Vita nova è utilizzato per indicare i sogni.
3
Sulle tipologie di queste ‘visioni’ gli interpreti non sono sempre concordi. Cfr. Livorni, “Sogno
e visioni,” 81-96 (con bibliografia pregressa).
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Donato Pirovano
Prescindendo dalla tipologia, si tratta, comunque, di una componente importante della narrazione e della sostanza epifanica che caratterizza la Vita
nova. Collocati in punti strategici della storia, tutti convergenti verso il (o dal)
kérigma della morte o meglio assunzione al cielo di Beatrice, questi episodi
si configurano come premonizioni e come aperture dell’orizzonte narrativo.4
Mi soffermo in questo contributo esclusivamente sulle due, forse tre visiones in somniis, che si trovano rispettivamente nei paragrafi III, XII e XLII,
perché nella comune dimensione onirica non solo prefigurano qualcosa che
avverrà ma anche mantengono un carattere enigmatico.
Dopo aver ricevuto il saluto di Beatrice, Dante si rifugia nella sua stanza e
si addormenta (Vita nova, III 2-9):
L’ora che ’l su’ dolcissimo salutare mi giunse era fermamente nona di quel giorno; e
però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a’ miei orecchi,
presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti e ricorsi al solingo luogo
d’una mia camera. E puosimi a pensare di questa cortesissima, e pensando di lei, mi
sopragiunse un soave sonno, nel qual m’apparve una maravigliosa visione: che mi parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale i’ discernea
una figura d’un signore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta
letizia, quanto a sé, che mirabil cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali
io non intendea se non poche; tra le quali ’ntendea queste: “Ego dominus tuus”. Ne le
sue braccia mi parea vedere una persona dormir nuda, salvo che ’nvolta mi parea in un
drappo sanguigno leggeramente, la qual io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E
nell’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: “Vide cor tuum”. E quando elli era stato alquanto,
pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che le
facea mangiare questa cosa che ’n mano l’ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e
così piangendo si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si
ne gisse verso il cielo. Ond’io sostenea sì grande angoscia, che ’l mio deboletto sonno
non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui isvegliato. E mantenente cominciai a pensare,
e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita era stata la quarta de la
notte; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de
la notte. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti li quali
erano famosi trovatori in quel tempo; e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per
me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare un sonetto, nel quale io
salutasse tutti li fedeli d’Amore, e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi
a loro ciò ch’io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale
comincia: A ciascun’alma presa.
Il “soave sonno”5 sopraggiunge improvviso, mentre l’io sta pensando intensamente a Beatrice, la donna “cortesissima”, ‘piena di grazia’, con, dunque,
un significato più pregnante rispetto a “cortese” (e cfr. Vn, III 1: “ineffabile
cortesia”). Il pensiero ossessivo è reso efficacemente dal polisindeto iniziale
e dalla ripresa a breve distanza del verbo “pensare”. Dante si comporta come
un giovane innamorato, concentrato sull’immagine dell’amata impressa nella
4
Per il kérigma della Vita nuova cfr. la mia Nota introduttiva alla Vita nuova, 31-2.
L’aggettivo potrebbe essere ispirato da un verso del sonetto di risposta di Cavalcanti (Rime, ii
7): “sì va soave per sonno a la gente”.
5
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sua mente: è il pensiero insistente che Andrea Cappellano nella sua fortunata
definizione dell’amore chiama “immoderata cogitatio”.6
Il racconto parla di “maravigliosa visione”, che tuttavia si può interpretare
come sogno, considerato che avviene mentre il protagonista sta dormendo e
che poco oltre l’autore la definisce espressamente come tale: “lo verace giudicio del detto sogno” (Vn, III 15). La dimensione onirica – introdotta da un
“che” con valore dichiarativo (“che mi parea”) – è ottenuta con la descrizione
vagamente sfumata di particolari (“figura d’uno signore”, “persona dormir
nuda”, “una cosa la quale ardesse tutta”), alcuni dei quali risultano poi progressivamente messi a fuoco. Il racconto, inoltre, è scandito dalla insistente
presenza del verbo pareami, il verbo che nel libello caratterizza la narrazione
onirica (cfr. per esempio Vn, XII 3-5), mentre l’imperfetto predominante indica la continuità delle azioni.
Il finale del sogno provoca grande affanno (“angoscia”) in Dante e il “deboletto” sonno non poté reggere e “si ruppe”, verbo ripreso anche per la fine
del sonno di XII 9, e poi pure in Inf., IV 1: “Ruppemi l’alto sonno ne la testa”.
Al risveglio si ridesta la riflessione e conseguentemente la poesia nel giovane
innamorato, che già conosce l’arte di scrivere versi. Quando si sveglia, infatti,
Dante riprende a pensare, cosicché il sonno nel quale avviene il primo sogno
è come circolarmente conchiuso dentro due atti del pensiero: il prima è rappresentato dal pensiero fisso di Beatrice, il poi dalla riflessione che prepara la
composizione del sonetto A ciascun’alma presa e gentil core.
Nel racconto della Vita nova Dante fissa il momento onirico tra le ventuno
e le ventidue con l’intento di far emergere il numero sacro “nove” attraverso
il computo delle ore notturne (in Vn, XII 9, il sogno sarà invece nella nona
ora diurna), rinunciando così alla diffusa credenza secondo la quale i sogni
avvenuti dopo la mezzanotte, e soprattutto quelli vicini all’alba, fossero i più
veritieri.7
Commentando il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core, Dante dice
che “lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma
ora è manifestissimo a li più sempici” (Vn, III 15), insomma nessuno, nemmeno il sottile ingegno di Guido Cavalcanti, riuscì a interpretare l’enigma.
Inserito nella Vita nova e reinterpretato, come rivela la narrazione che ha più
punti di frizione con la poesia, l’episodio del cosiddetto sogno del cuore mangiato non è poi così limpido, tanto che alcuni particolari ancora sfuggono (o
sono comunque interpretati non univocamente) ai commentatori.
6
Andrea Cappellano, De amore, I 1: “Amor est passio quaedam innata procedens ex visione et
immoderata cogitatione formae alterius sexus”, “L’amore è una passione naturale che procede
dalla visione e dall’ossessivo pensiero di persona d’altro sesso”.
7
Cfr. per esempio Orazio, Sermones, I 10 33: “post mediam noctem visus, cum somnia vera”,
“apparve dopo mezzanotte quando i sogni dicono il vero”. E anche Inf., XXVI 7: “Ma se presso
al mattin del ver si sogna”.
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Donato Pirovano
In un mio recente libro ho proposto di leggere questo episodio come una
mistagogia.8 Nel contesto sacrale delineato dalla nuvola rossa come il fuoco,
Amore è l’officiante di un rito in cui il cuore di Dante brucia per la passione
ma miracolosamente, come il roveto ardente di biblica memoria (cfr. Ex., 3,
2), non si consuma. E se, secondo il modello cardiocentrico dominante nel
Medioevo, nel cuore c’è la vita, offrendo questo cuore alla “donna de la salute”
(Vn, III 4), Amore offre a Beatrice la vita di Dante perché la trasformi, transustanziando la sua passione cosicché non venga mai meno.
Nel rito antropofagico il cuore ardente viene, pertanto, assimilato e al
tempo stesso purificato dalla donna. Nei diffusi racconti medievali del cuore mangiato è manifesto un dato: la donna, una volta divenuta consapevole
del tragico pasto a lei offerto dal marito e costituito dal cuore dell’amante,
sceglie deliberatamente di morire. Solo così, attraverso questo sacrificio supremo, quella nobile vivanda sarà sottratta alle normali funzioni fisiologiche
e ai bassi processi della digestione e sarà sublimata nella più preziosa delle
teche. Scegliendo la morte, la donna si riscatta dimostrando che quell’amore
adulterino non è una colpa ma un magnanimo sentimento.9 Da questi racconti
– comunque molto diversi dall’episodio della Vita nova – viene recuperato il
finale, cioè il sacrificio femminile. Nel corpo di Beatrice che Amore porta verso l’alto, il cuore di Dante continuerà ad ardere, il suo amore transustanziato
non cesserà e la sua vita diverrà veramente nuova. In questo rito onirico Beatrice incarna, dunque, ciò che poi è in tutta la Vita nova: l’icona vivente della
caritas, di quell’amore disinteressato che viene dal cielo e al cielo ritorna.
La mistagogia riguarda, però, anche la poesia. Contro l’esibita opzione per
la poesia morale che Guittone – il più noto e accreditato poeta del secondo
Duecento – esibisce nella canzone manifesto Ora parrà s’eo saverò cantare,
Dante rivendica nella Vita nova la centralità del tema dell’amore nell’àmbito della poesia in volgare. Se il poeta aretino nella sua corona di sonetti Del
carnale amore vuole condannare la passione erotica i cui effetti non possono
che essere esiziali, Dante afferma il valore soteriologico dell’amore. Insomma,
l’amore non è morte, ma vita e vita nuova.
A corroborare la tesi della mistagogia, si può osservare che non solo questo primo episodio corre sotterraneo per tutta la storia, ma si compie nell’estremo canto di lode Oltre la spera che più larga gira, non a caso l’ultimo
testo poetico della Vita nova, così come A ciascun’alma presa e gentil core è
stato il primo. Per una speciale virtù di Amore instillata nel cuore addolorato
Dante ha la visione di Beatrice, la quale riceve onore e splende nella gloria
dell’Empireo, tuttavia il proprio intelletto non è in grado di intendere appieno
questa contemplazione paradisiaca, tanto che non ne può trattenere che una
debole traccia: se ciò che lo spirito riferisce al cuore addolorato risulta arcano,
resta però nel cuore dolente il dolce nome della donna (cfr. Vn, XLI 10-13):
8
9
Pirovano, La nudità di Beatrice, 108-14.
Montanari, Il fiero pasto, 85.
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Sogni e visioni nella Vita nova
Oltre la spera che più larga gira
passa ’l sospiro ch’esce del me’ core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.
Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.
Vedela tal, che quando ’l mi ridice,
io no lo ’ntendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.
So io che parla di quella gentile,
però che spesso recorda Beatrice,
sì ch’i’ lo ’ntendo ben, donne mie care.
[5]
5
10
La “gloriosa Beatrice” – la donna nuda avvolta da un drappo rosso che
Amore aveva portato con sé in cielo – vive eternamente nel cielo di Dio, in
quell’Empireo che lei stessa nella Commedia descriverà mirabilmente (Par.,
XXX 38-42): “Noi siamo usciti fore / del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal piena d’amore, / amor di vero ben pien di letizia, / letizia che
trascende ogni dolzore”, compimento poetico di ciò che Oltre la spera che più
larga gira è “umbrifero prefazio”. Non si possono non notare due particolari
presenti nel rito iniziale della Vita nova: Amore che piange – tra l’altro con
la ripresa del gerundio “piangendo” in posizione marcata visto che il verbo
chiudeva il primo sonetto e ora in forte enjambement apre l’ultimo verso della
prima quartina –, e il cuore “dolente” di Dante, non più mangiato ma da cui
fuoriesce – però in virtù proprio di quel pasto rituale – il sospiro-spirito che
può contemplare la donna.
La seconda visio in somniis è narrata nel paragrafo XII della Vita nova.
Durante un sonno pomeridiano, Dante ha un sogno: un giovane biancovestito
si trova nella sua stessa stanza e gli siede vicino; in un primo momento la figura onirica in silenzio osserva il protagonista disteso nel letto, poi lo chiama
e gli parla esprimendosi in latino. L’appello affettuoso fa scattare l’agnizione
e Dante riconosce Amore, che molte volte – non narrate, però, nel libello – gli
era apparso in sogno e l’aveva chiamato in quel modo (cfr. Vn, XII 1-9):
Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fu negata, mi giunse
tanto dolore che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la
mia camera, là ov’io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo: “Amore, aiuta il tuo fedele”, m’addormentai
come un pargoletto battuto lagrimando. Avvenne quasi nel mezzo del mio dormire che
mi parve vedere ne la mia camera lungo me sedere un giovane vestito di bianchissime
vestimenta; e pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là dov’io giacea, e
quando m’avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami
queste parole: “Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra”. Allora mi
parea ch’io il conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni
m’avea già chiamato: e raguardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea
che attendesse da me alcuna parola. Ond’io, assicurandomi, cominciai a parlare così
con esso: “Signore de la nobiltade, e perché piangi tu?”. E quelli mi dicea queste parole: “Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentie partes;
tu autem non sic”. Allora, pensando a le sue parole, mi parea che m’avesse parlato
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Donato Pirovano
molto oscuramente, sì ch’io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: “Che è ciò,
signore, che mi parli con tanta oscuritade?”. E que’ mi dicea in parole volgari: “Non
domandare più che utile ti sia”. E però cominciai con lui a ragionare de la salute la
qual mi fue negata, e domanda’lo de la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: “Quella nostra Beatrice udio da certe persone di te ragionando che la donna, la
quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa
gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona,
temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente sia conosciuto per
lei alquanto lo tuo segreto per lunga consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per
rima, ne le quali tu comprendi la forza ch’io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo
tostamente da la tua puerizia; e di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu
prieghi lui che glile dica, ed io, che son quelli, volontieri le ne ragionerò; e per questo
sentirà ella la tua volontà, la quale sentendo, conoscerà le parole de l’ingannati. Queste
parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non
è degno; e nolle mandare in parte sanza me, dove potessero essere intese da lei, ma
falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che sarà mestiere”. E
dette queste parole, sì disparve, e ’l mio sonno fue rotto. Onde io ricordandomi, trovai
che questa visione m’era apparita ne la nona ora del die, e anzi ch’io uscisse di questa
camera, propuosi di fare una ballata, ne la quale io seguitassi ciò che ’l mio segnore
m’avea imposto; e feci poi questa ballata, che comincia: Ballata, i’ vo’.
Due sogni, dunque, aprono e chiudono la prima sezione della Vita nova: il
primo avviene la notte successiva all’incontro nel quale Beatrice elargisce per
la prima volta il suo saluto a Dante, questo secondo accade il pomeriggio dopo
la negazione del saluto da parte della gentilissima. I due episodi sono costruiti
in modo parallelo e speculare. La tecnica descrittiva è la medesima e si fonda
sulla continua ripetizione del verbo “parere” per lo più all’imperfetto. Nei due
racconti, poi, ci sono elementi che ritornano, come la ricerca di solitudine nella propria camera, il sonno, Amore personaggio onirico, il pianto di Amore,
l’enigmaticità di alcuni particolari, l’ora fatale (la nona della notte in Vn, III 8,
la nona del giorno in Vn, XII 9).
Se, però, nel primo sogno prevale la dimensione visiva caratterizzata da
un intenso cromatismo, in questo secondo risalta la dimensione verbale perché a dominare è il colloquio tra Dante e Amore, come dimostra del resto
la fitta presenza dei verba dicendi. L’unico elemento cromatico è, infatti, il
colore delle “bianchissime vestimenta” di Amore, così come Beatrice il giorno
del primo saluto era “vestita di colore bianchissimo” (Vn, III 1) e così come in
séguito nella già ricordata allucinazione premonitrice della morte della donna
Dante vedrà l’anima della gentilissima ascendere al cielo come “una nebuletta
bianchissima” (Vn, XXIII 7).
Tuttavia, come è stato notato da molti commentatori, il personaggio onirico di Amore biancovestito seduto presso Dante disteso ricorda l’angelo che
le donne il mattino di Pasqua trovano seduto nel sepolcro vuoto, così come
narrato in Mc., 16, 5: “Et introeuntes in monumento viderunt iuvenem sedentem in dextris coopertum stola candida et obstupuerunt” (“Ed entrando nel
sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed
ebbero paura”), versetto che Dante cita in Conv., IV 22 14, a proposito della
ricerca della beatitudine.
L’ipotesto segnalato appare congruente, anche in virtù del fatto che in
questo episodio della Vita nova, l’io agens come le donne evangeliche è smar-
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Sogni e visioni nella Vita nova
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rito dopo aver perso quella che riteneva la sua beatitudine ed è in ricerca di
una risurrezione per sé e per la propria poesia, che infatti Amore gli indicherà, come l’angelo aveva annunciato la risurrezione di Gesù, affidando alle
donne quella notizia.
Dopo essere stato per un po’ silenzioso a osservare Dante, Amore sospirando inizia a parlare e si esprime in latino – come nel primo sogno (Vn, III
3 e 5) –, sancendo con la solennità della “grammatica” la fine di una fase esistenziale e poetica. Il vocativo iniziale “Fili mi” – così come la Filosofia chiama Boezio “alumne” (Cons. Phil., I pr. 3 4) – fa scattare il riconoscimento:
apprendiamo, sebbene narrativamente ellittico, che Amore molte volte aveva
chiamato in questo modo Dante nei suoi “sonni”, “sogni”, a ribadire nel diuturno e intimo rapporto onirico tra i due personaggi la continuità dell’innamoramento dell’io agens.
Alle parole perentorie di Amore, Dante non replica, ma rimane impressionato dal suo intenso piangere. Il particolare ha fatto discutere gli esegeti,
ma pare probabile che anche in questo caso si debba intendere una velata
premonizione della futura morte di Beatrice: nella Vita nova, infatti, il pianto
di Amore allude sia profeticamente (cfr., per esempio, Vn, III 7 e XXIII 21) sia
retrospettivamente (cfr., per esempio, Vn, XXXIV 8 e XLI 10) alla morte della
gentilissima. Inoltre, come ha notato Roberto Rea,10 la domanda che qui Dante rivolge ad Amore, “e perché piangi tu?”, viene esattamente replicata dalle
donne che tornano dalla veglia funebre per il padre di Beatrice e interrogano
Dante (cfr. Vn, XXII 14): è un altro dettaglio che collega il pianto di Amore al
tema della morte che percorre la trama della Vita nova.
Se, come credo, le lacrime di Amore sono stille profetiche della morte di
Beatrice, egli ora non può soddisfare la domanda di Dante, ma lo farà più
avanti nella storia, in Vn, XXIII 26 vv. 63-64: “Allor diceva Amor: – Più nol ti
celo; / vieni a veder nostra donna che giace –”, e quell’espressione “più nol ti
celo”, in quel punto non strettamente necessaria, pare proprio collegata alla
reticenza che stiamo esaminando.11
Amore in sogno si rifiuta di rispondere, e in modo non proprio consequenziale pronuncia in latino una sorta di autodefinizione oscura e misteriosa, che rimarrà tale, nonostante la richiesta di chiarimento da parte di Dante.
Amore d’ora in poi parla in volgare, in un colloquio più intimo e cordiale con
il protagonista, tuttavia non svela la sua precedente enigmatica espressione.
La reticenza che diventa parenesi, “Non domandare più che utile ti sia”,
ricalca un versetto di san Paolo relativo alla fede come criterio fondamentale
di misura – Rom., 12, 3: “Dico enim, per gratiam quae data est mihi, omnibus qui sunt inter vos non plus sapere quam oportet sapere”, “per la grazia
che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi non sapere più di quanto è
conveniente sapere” –, un passo, tra l’altro, che Dante traduce in Conv., IV 13
10
11
Rea, “Ego tanquam centrum circuli,” 746.
Rea, 748.
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Donato Pirovano
9, come ha segnalato Michele Scherillo12 e dopo di lui molti esegeti. Mi pare
interessante evidenziare che nel séguito della stessa lettera, Rom., 12, 9, Paolo, dopo aver affrontato il tema dell’unità in Cristo di tutti i carismi – in un
certo senso come qui la necessità della conformazione delle parti al centro –,
propone un programma di vita ai cristiani di Roma che inizia con la formula “dilectio sine simulatione” (“l’amore [nel senso ovviamente della caritas]
non abbia finzioni”), affermazione che risulta alquanto congruente con questo
brano della Vita nova.
Non mi soffermo qui sulle enigmatiche parole di Amore, rimandando per
un approfondimento al mio commento,13 se non per considerare che nel contesto e nella linea narrativa del libello Dante in questo momento è ancora eccentrico (“tu autem non sic”) rispetto al vero amore che è disinteressato e gratuito e, dunque, la sua percezione degli eventi risulta illuminata in modo non
radiale, tanto che ha sopravvalutato simulazioni, segreti, saluti, i quali solo
ricondotti al centro acquisirebbero la giusta prospettiva. L’io agens, e conseguentemente la sua poesia, deve più direttamente scoprire la vera natura
dell’Amore che Beatrice rappresenta. Il pianto di Amore nasconde per ora la
tragica verità di una morte prematura eppure sollecita a uno sforzo introspettivo che non può più tardare. È tempo che Dante abbandoni le finzioni e tenda
unicamente a Beatrice, e che la sua poesia ritrovi una voce più personale per
essere veramente innovativa.
L’ultima visione (forse, si è detto, in sogno), definita “mirabile”, è collocata
nelle righe finali della Vita nova, XLII 1-3:
Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose
che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potessi
più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sa
veracemente; sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita
duri per alquanti anni, io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna; e
poi piaccia a colui che è Sire de la cortesia, che la mia anima sen possa gire a vedere la
gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira
ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus. Amen.
L’annuncio della nuova visione – probabilmente una visio in somniis visto
che il termine visione nella Vita nova è utilizzato per indicare i sogni –14 arriva improvviso, in un tempo imprecisato. È un evento di grazia, senza determinazioni cronologiche, che avviene nel kairós, e infatti la formula introduttiva
di raccordo lo collega all’evento lirico rappresentato dal sonetto precedente.
L’aggettivo “mirabile”, ‘meravigliosa, stupenda tanto da produrre smarrimento’, è traccia che fa pensare a Beatrice, visto che quell’epiteto è spesso riferito a
lei nella Vita nova (cfr. per esempio III 1, e XIV 5), e il vocabolo “cose”, consono alla voluta indeterminatezza, lascia un alone di sacro mistero, come poi in
12
13
14
Scherillo, “Commento alla Vita nuova,” 106.
Dante Alighieri, Vita nuova, 124-7 (con bibliografia pregressa).
Baldelli, “Visione,” 7-8.
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Sogni e visioni nella Vita nova
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Par., I 4-6: “Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire
/ né sa né può chi di là sù discende”.
La reticenza sulla visione non è assoluta ma relativa, e il silenzio poetico
si spezzerà quando l’io si sentirà pronto a trattare più degnamente della sua
donna, così da scrivere (“dire” poeticamente) di lei quello che non fu mai detto di nessuna. Dai pochi particolari si può dedurre che la novità annunciata
parte anch’essa dal kérigma e si apre su un orizzonte poetico e narrativo tanto
ampio che nessuno prima d’ora è riuscito ad abbracciare con lo sguardo.
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Donato Pirovano
Opere citate
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Donato Pirovano
Università degli Studi di Milano
donato.pirovano@unimi.it
https://orcid.org/0000-0003-4696-4393
358
Reti Medievali Rivista, 25, 2 (2024) <http://rivista.retimedievali.it>