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Nota a "La stanza del vescovo" di Piero Chiara

2025

“La stanza del vescovo” è il romanzo più celebre di Piero Chiara e ne è stata fatta anche una trasposizione cinematografica da Dino Risi con Ugo Tognazzi e Ornella Muti. Quest'opera descrive uno spaccato di provincia. I libri di Chiara hanno come tema predominante la provincia con le sue chiusure mentali, le sue ristrettezze di vedute, la sua noia. Anzi nelle sue opere non è la provincia a fare da semplice sfondo, ma addirittura il contesto socioeconomico diventa protagonista assoluto, seppur essendo declinato ogni volta in modo diverso, con sfumature modali differenti. Ne consegue che lo scrittore di Luino ha rappresentato in modo eccellente e con sobrietà il mondo angusto, chiuso della provincia di quegli anni. Se ne “Il piatto piange” i giocatori della bisca vivono anteguerra, ne “La stanza del vescovo” i personaggi vivono nel dopoguerra immediato. Chiara mescola realismo e fantasia. Nella sua scrittura però raramente ci sono tracce di espressionismo. Questo romanzo tratta di una passione amorosa, quella della presunta vedova Matilde, sposata per procura. Dovrebbe essere letto da molti scrittori e scrittrici odierne, veri/e o aspiranti, perché non esistono in queste pagine pornografia, esibizionismo sessuale, volgarità. La dimensione erotica viene spesso taciuta con discrezione oppure allusa con garbo. Però non è la sfera carnale che interessa allo scrittore ma l'antagonismo, la rivalità, intrisa di amicizia e di cameratismo maschile, tra il protagonista e Orimbelli. Il primo è un aspirante Casanova fallito, che desidera Matilde, il secondo è il Don Giovanni kierkegaardiano, cinico, machiavellico, seduttore senza scrupoli che usa l'inganno per “rubargliela”. Da un lato abbiamo l'inganno seduttivo, ma senza alcuna componente ludica come ne “La mandragola" di Machiavelli e ne “La locandiera” di Goldoni. Qui avviene il dramma e l'opera diventa un giallo: un giallo in cui il delitto non avviene all'inizio dell'opera e in cui ogni riga ha pregevolezza letteraria. Questo romanzo è anche una contronarrazione della borghesia nordica operosa. I personaggi sono tutti inetti, agiati, oziosi, che hanno ormai soddisfatto i loro bisogni primari. Ne “La vita agra” di Bianciardi il protagonista doveva tradurre a ritmi forsennati per campare. Qui al contrario regnano l'ozio, ma non l'ozio latino né quello di H.Hesse, ma l'improduttività infeconda, sterile, sintomo del male di esistere, segno inequivocabile di vuoto interiore. Si può provare il vuoto per poca vita come la protagonista di “Casa d'altri” di Silvio D'Arzo, che chiede al prete se si può suicidarsi perché non si ha più niente da chiedere alla vita. Si può anche provare il vuoto per troppa vita, per troppo arricchimento esperenziale. Ma il divertissement fine a sé stesso di Orimbelli è la maschera del Nulla, a forza di ingannarsi finisce per autoingannarsi. Il gioco si spinge troppo oltre e per sfuggire all'arresto si impicca. L'Orimbelli a differenza di Zeno non ha una coscienza. In queste pagine il lato psicologico, esistenziale, metafisico non viene esplicitato. Chiara fa parlare la vita, senza attribuirle un significato. Il suo è una sorta di positivismo della narrazione. I fatti, la trama hanno la priorità. Questo romanzo è la rappresentazione dell'alta borghesia di provincia, non caratterizzata dal solito calvinismo nordico ma dalla sterilità creativa. Chiara descrive fedelmente quell'alta borghesia. Se il piccoloborghese Mombelli de “Il maestro di Vigevano” era intriso di “catrame” dalla testa ai piedi, cioè dall'ossessione per il decoro, il perbenismo, la reputazione, l'alta borghesia di quest'opera si può concedere libertà e licenze che le classi sociali inferiori non possono permettersi. Orimbelli conosce regole, norme, valori, ma puntualmente li trasgredisce fino ad arrivare a uccidere la moglie. I ragazzi di vita pasoliniani, poveri e sottoproletari, vivevano in un mondo amorale. In quest'opera invece il desiderio sconfina nell'immoralità. La dimensione estetica del seduttore non combacia con la sfera etica, valoriale. Orimbelli non è un vero libertino che sa rispettare le donne e agisce in un quadro normativo, come gli antichi libertini fino ad arrivare a Vincenzo Cuomo. Questo bel romanzo ripropone anche l'antica dicotomia dei letterari latini tra epicureismo e stoicismo. Qui non c'è la recusatio onesta né l'idillio bucolico. Qui l'epicureismo è deteriore, è infelice, si tramuta in tragedia. Infine questo romanzo tratta del desiderio umano sempre sconfinato e mai appagato. Il protagonista vive per inerzia, facendosi trascinare dagli eventi. È un uomo passivo, che attende ma non sa neanche lui che cosa, di certo non attende Godot. Quando alla fine potrebbe vivere con Matilde parte per una nuova avventura perché l'oggetto del desiderio ormai è troppo facile da raggiungere. Come Casanova ha bisogno di conoscere ancora, di desiderare di nuovo e non può accasarsi, non può fermarsi: è un borghese che fugge dalla borghesia, così come all'inizio del romanzo si era preso una vacanza, una pausa prima di ritornare a lavorare. Nel libero mercato si può vivere con il salario, il profitto, la rendita, il welfare. Ma Chiara da autentico liberale ci insegna che anche chi vive di rendita può essere insoddisfatto e infelice. Insomma il solo determinismo economico non è sufficiente a spiegare l'umanità e il mondo. Chiara ci insegna che il male di vivere è connaturato. Ma questo libro è anche la rappresentazione ontologica del desiderio, questa forza soggiacente, che talvolta tracima e deborda, per quanto cerchi di essere contenuta negli argini della borghesia. Matilde non è una donna stilnovista, cioè idealizzata, né una donna elegiaca, cioè dominatrice, ma una donna borghese, quindi una preda da catturare e poi assoggettare al vincolo matrimoniale. “La stanza del vescovo” è perciò la rappresentazione di un mondo asfittico, dove la vita è un gioco a somma zero e le convenzioni, apparentemente rispettate, sono fatte per essere tutte trasgredite. Il congegno narrativo di questo romanzo breve è ideato e realizzato in modo sapiente.