Fuggite sciocchi!
riflessioni su ciò che non esiste
A change of speed, a change of style
A change of speed, a change of style,
a change of scene, with no regrets
a chance to watch, admire the distance
(Joy Division, New Dawn Fades, 1979)
Ci sono tante ragioni per scrivere un libro. Narcisismo, noia, accrescimento del proprio curriculum
vitae nella speranza di un fantomatico posto fisso inducono molti a scrivere e, qualche volta, a pubblicare. Il numero dei libri scritti (e poi pubblicati) ogni anno in Italia è elevatissimo.
Il pregio di questo scritto sta nella volontà di sparigliare le carte in tavola: nello scopone scientifico,
l’equipe che riceve le carte, per prevalere sul mazziere ed il suo compare dovrebbe cercare di effettuare prese dispari. Lo studio delle complesse tecniche del gioco conferisce allo scopone il carattere
di scienza; da qui l’aggettivo, scientifico, che risuona, ça va sans dire, con l’altro aggettivo
dell’autore multiplo di questo libro, sperimentale.
Equipe Sperimentale, dunque, di Storia. Perché l'Equipe è uno storico e per tanto le carte le riceve
dal mazziere/archivista.
Nel campo della ricerca storica prevale lo storico solitario che, nel buio degli archivi, cerca la Verità
o, se proprio siete dei fanatici dell’oral history, gira con il registratore per le campagne. Per scoprire
poi magari, come il Paolo Hendel di Speriamo che sia femmina, che quella canzone, in realtà, la conoscono tutti, con buona pace dell’affannosa ricerca “all’ultimo poeta”.
Il lavoro collettivo è spesso difficile, a maggior ragione quando si parla di lavoro storico, in quanto
le risposte vengono date ad una velocità diversa, rallentate dalla mediazione del gruppo. E questo
cambiamento di velocità sottende un deciso, decisivo, cambiamento di stile. Non sappiamo dire se il
mutamento di stile proposto dall’Equipe si dispiegherà dal punto di vista della scrittura: a giudicare
da questo libro sì.
Ma questo libro è essenzialmente la proposta di un metodo per la ricerca, nei suoi aspetti scientifici
e anche in quelli pratici. La scelta di pubblicare un testo metodologico, come questo, ha un sapore
talmente tradizionale da risultare rivoluzionaria in una scienza che vive di continui ispessimenti culturali e di metodo sembra non voler più parlare. E questo in un certo senso prescinde dalla metodologia proposta (la ricerca collettiva), che è di certo rivoluzionaria in un momento in cui quanti scrivono di storia sono affetti da patologico narcisismo. Un atteggiamento sovversivo, i cui moventi
l'Equipe ha ben chiari. Scrive infatti: “Lasciamo stare il mondo delle scienze esatte, rimaniamo vicini al terreno umanistico, alle sue cattedrali, ai suoi deserti. [...] Siamo come dei gas; tendiamo a occupare tutto lo spazio disponibile prima di entrare in contatto gli uni con gli altri. E quando lo facciamo scopriamo di non essere in grado di affrontare il conflitto che ne deriva. È una gara continua,
una sfida a chi arriva primo, una interessante regressione adolescenziale in cui i maschi andavano a
cercare il righello pur di dimostrare di essere più dotati”. E ancora, l’Equipe mette insieme compe-
tenze diverse delle scienze storiche ed umane in genere, anche qui col recupero di una tradizione
scientifica schiacciata dalle tendenze iper-specialistiche dell’ultimo trentennio di storiografia.
Si può dire a ragione che il lavoro collettivo o corale, per usare il termine preferito dall’Equipe, garantisca la permanenza del carattere asintotico che il rapporto tra lo storico e la “sua” storia deve indispensabilmente avere. Garantisce altresì un maggiore spazio (e tempo) di critica delle fonti, assicurando in tal modo che il percorso storiografico resti nell’alveo della verità storica, che altro non è
se non la risultanza di un uso attento e critico di esse. Perché prima di tornare all’uno, passa attra verso più teste, più occhi, più formazioni, divenendo necessariamente, piuttosto che la somma aritmetica dei vari soggetti, un soggetto storiografico nuovo. Più complesso, più efficace, meno narcisista. La somma infatti non è mai data: c’è una mediazione continua fra i singoli che, tramite la giustizia, crea quella tensione evocata nel recente testo di Luisa Muraro (Dio è violento, Nottetempo,
2012).
La tradizionale battaglia contro l’Io, dall’invettiva di Gadda contro il “più lurido di tutti i pronomi”
alla celebre “transizione dall’io al noi” di Steinbeck, la si trova anche nel saggio della Muraro: “[…]
ciò che contribuisce maggiormente al potere del potere, è la voglia di avere successo in prima persona, essere riconosciuti e ammirati, esistere agli occhi degli altri nella propria unicità, voglia o bisogno che impregna la nostra cultura tanto da contagiare anche i bambini in tenera età”. Ecco, il
nome collettivo è prima persona, ma plurale. In cui la pluralità ha a che fare con il “punto di leva”
ossia “il desiderio di protagonismo […] ma a una condizione, che il desiderio entri in tensione con
la giustizia […]”. La giustizia di doversi confrontare con gli altri Io e riconoscersi a vicenda in
modo da tradurre il tutto “in politica, non quella ufficiale ma quella sorgiva e nutriente che, sul campo di battaglia della storia e della vita quotidiana, contende alla logica del potere il senso delle nostre vite e il valore dei nostri sentimenti”.
L’operazione politica, sottesa all’uso di un nome collettivo, è pratica molto diffusa in arte (nel maggio 2011, a Parigi, ad esempio, si è tenuto un simposio internazionale sul Nominalisme collectif );
nel resto dello scibile umano il nome collettivo è visto, sempre e comunque, come un che di esotico.
Tale esotismo ha anche una motivazione ben precisa, poiché la vita di un ricercatore, tanto nelle
scienze esatte quanto in quelle che esatte non sono, è afflitta dalla corsa spasmodica alla pubblicazione. Il processo di valorizzazione della propria carriera è inciso, graficamente, nelle firme apposte
a un articolo, a un saggio, a un libro; figli, spesso illegittimi, della grande ossessione dell’accrescimento del proprio CV. Simile, troppo simile, alla diffida brechtiana su quel giorno quando “a ogni
vostro eureka rischierebbe di corrispondere un grido di dolore universale”. La ricerca diventa la
scusa di un’improbabile eureka e nel mondo si continuano ad accumulare libri (il cui peso biologico-fisico intacca alberi, incrina scaffali e occupa, nel sua forma digitale, byte).
L’Equipe è, dunque, negazione di una firma individuale; è costruzione collettiva (o comunitaria) di senso; è rottura di ogni parcellizzazione dei saperi e liberazione dai vincoli accademici.
La prima pioneristica esperienza di lavoro collettivo/nome collettivo è quella di Nicolas Bourbaki
(datata 1933), pseudonimo collettivo sotto il quale lavora un gruppo di matematici, fra cui André
Weil (il fratello di Simone). Dal 1939 hanno dato vita a un’opera collettiva Éléments de mathématique tesa a non separare la matematica nelle sue diverse specializzazioni. Charles Denis Bourbaki
era un generale napoleonico la cui statua era davanti al dipartimento di matematica dove lavorava
uno di questi studiosi.
- c’è sovraffollamento della parola collettivo -
Il nome collettivo è, allo stato attuale, una cosa molto italiana e relativamente nuova. In Italia
l’esperienza è intrapresa da molti collettivi. I primi, dopo una rapida (e parziale) ricognizione, sono
stati quelli del gruppo Epimeteo che si occupa di filosofia; poi Luther Blissett, divenuti in seguito,
con alcune differenze e grande successo Wu Ming, nel campo della letteratura; Laser, un gruppo di
fisici e filosofi, che si sono occupati di epistemologia; dalla pluriforme attività di San Precario sono
nati Nora Precisa (interventi in rete sulla situazione della scuola), Serpica Naro e, di recente, le sarte
romane di Re(d)cycle (attivi nel campo della moda); Kaizen e Scrittura Industriale Collettiva sono
due collettivi che si muovono nel mondo della scrittura; Ippolita.net un’esperienza che si avventura
nelle vie dell’informatica.
Si parlava di lavoro collettivo, corale. Le metafore musicali sono davvero efficaci e hanno una loro
materialità ineliminabile, fatta di strumenti scordati, palchi precari, luci instabili. Se noi abbiamo
iniziato in due, ora siamo un solido trio: basso, batteria e chitarra, se preferite il rock, o piano, se
preferite il jazz. Ci esibiamo in presentazioni, archivi, scuole. La nostra traiettoria è stata semplice:
una storia (Razza patigiana. Storia di Giorgio Marincola, Iacobelli, 2008) e due studiosi. Abbiamo
iniziato e, aggiunto un “pezzo”, siamo arrivati alla conclusione, induttiva, che il lavoro collettivo è
l’unica soluzione; l’Equipe, al contrario, ha assunto un’impostazione, deduttiva, partendo dal metodo (ossia il libro che avete nelle mani) e solo dopo avviando una ricerca. Due traiettorie che sono
confluite nello stesso punto (un attrattore strano dicono gli esperti di sistemi dinamici): il lavoro
collettivo è il futuro.
INTRO
Questa introduzione all'introduzione è un'utile premessa per chiunque leggerà queste pagine.
Chiariamo fin da questo momento che se avremo la possibilità in futuro di scrivere qualcosa frutto
di una ricerca storica, ci impegneremo fino in fondo a fornire le fonti provvedendo alla loro traccia bilità e accessibilità, ma non è questo il caso. Come potrete notare non applicheremo e non provvederemo a formulare note o rimandi a piè di pagina.
Abbiamo un'alta considerazione dei nostri lettori di ogni sorta, che si divertiranno a intuire le fonti
ispiratrici di questo scritto. Speriamo colgano ciò che ha mosso le nostre idee e ragionamenti. Il nostro è anche un atteggiamento dichiaratamente provocatorio, indirizzato anche ai feticisti delle note
e non della tracciabilità reale dei propri percorsi metodologici.
Infine, non vedrete note perché solo in questo modo comprenderemo la necessità di rendere tracciabili riproducibili i percorsi intrapresi.
Con le pagine che seguono vogliamo aprire uno spazio di discussione sulla metodologia di studio,
scrittura e condivisione dei saperi, perché avvertiamo un disagio che appartiene alla nostra quotidianità e che crediamo condividere con chi ha ereditato, vive e costruisce con noi questo presente.
Procediamo.
Non fermatevi qui.
Buona lettura.
ESTAMOS AQUI’
“Gli stereotipi sono comodi aiutano a pensare più in fretta!”
(Up in the air)
…Estamos aquì
fa caldo.
Estamos aquì
volti sconosciuti si guardano, si osservano cercano di capire.
Estamos aquì.
Curiosità, incertezza, in qualche modo quei volti si sfidano e si studiano. Qualche birra su un tavolo.
Quei volti bevono…
Fa caldo,
estamos aquì.
Qualche giorno prima è giunta una mail a tutti quei volti, una mail di un volto che si presentava sussurrando che non li aveva mai visti, una mail che raccontava un’idea. Semplice, laconica, a tratti
malinconica: incontriamoci. L’immensa difficoltà della banalità di un incontro; una data da definire,
un orario da concordare e gli impegni da spostare:
“No, mi dispiace sono occupato: lavoro!”
“Mi farebbe piacere, ma ho gli esami…”
“Guarda davvero, mi dispiace, ma ho troppo da fare in questi giorni…”
“Io ci sono, perfetto: ora e giorno!”
“Allora c'incontriamo, vero? Ottimo! A presto e complimenti per l’idea, ci voleva qualcuno che
prendesse in mano la situazione L’avrei fatto io, ma poi come al solito tutto passa, siamo sempre
troppo incasinati, davvero ci sarò!”
Incontriamoci!
Ed eccoci dunque, volti intorno ad un tavolo di un bar. Siamo volti laureati e laureandi, siamo scienziati della comunicazione, siamo storici, siamo storici dell’arte, scienziati della politica, scienziati
della cultura, siamo volti sudati che si trovano intorno ad un tavolo per parlare.
Si stringono delle mani e dei volti si baciano, improvvisamente una bocca soffocata da una barba
prende la parola, ha qualcosa da dire e allora ecco che subito le orecchie ascoltano.
Eccola è la bocca del volto che ha avuto l’idea, sì, la bocca delle mani che hanno scritto la mail. Se
noi con i nostri volti siamo qui, ora, è perché quelle mani hanno scritto.
Quella bocca comincia a disegnare parole e abbozza la cosa più inaspettata e meravigliosa che le
orecchie potessero catturare: ci dice che non ha nulla da dire!
Incertezza, stupore, qualche volto cambia espressione.
Erano gli occhi che ci volevano vedere, non era la bocca che ci voleva incontrare, com'è possibile?
Non aveva nulla da dire.
In quel momento qualche volto intuisce e delle bocche iniziano a sorridere.
La bocca delle mani che hanno scritto la mail prova a spiegarsi meglio e sempre di più noi, altri volti, iniziamo a comprendere che se quel volto ci ha contattati è perché non aveva un'idea ben precisa
di ciò che voleva esprimere. Eravamo dinanzi ad una sensazione. Si è appena laureato, il mondo che
improvvisamente si è aperto davanti ai suoi occhi è diverso, è strano: è arido, è costituito da tante
piccole impellenti necessità che prevaricano quotidianamente le volontà, è popolato da occhi che
non si guardano, da volti che non si conoscono e che non osano conoscersi, è saturato dalla certezza
creata dalla paura e dall’ignoranza, eco di sirene: “da soli è sempre meglio”. Così quel volto che abbiamo di fronte diviene lo specchio dei nostri volti, delle nostre sensazioni. È il futuro che bussa
alla nostra coscienza. Sono qui, estamos aquì. Siamo così diversi, o forse siamo soltanto stanchi di
sentirci soli? Si cammina lungo le strade di grandi città, corpi che abitano metropolitane, braccia e
gambe che toccano e calpestano treni e autobus, ma mai che si sfiorino tra di loro. Il contatto, alla
faccia della Stein, è vietato. La condivisione una speranza solitaria.
Quel volto allora si è solo posto una domanda, si è chiesto se fosse davvero impossibile incontrare
qualcuno che avesse voglia di condividere delle idee, si è chiesto se davvero fosse così assurdo mettersi in discussione. Ascoltare gli altri è una delle prove più ardue che si possano affrontare, ma se
per caso gli altri comunicassero idee e pensieri mai immaginati e ascoltati prima? Se per caso mettere a nudo se stessi e ciò che ci anima non diventasse una esperienza irrinunciabile?
Se, mettiamo caso, la mia bocca disegnasse parole in concomitanza con la vostra e improvvisamente la vostra bocca dicesse qualcosa a cui io-volto non avevo mai pensato o avrei giurato di non condividere mai? Se per caso ci accorgessimo che la nostra bocca sta parlando come se fosse la vostra?
Se quelle vibrazioni di corpi in movimento che escono dalla vostra bocca fossero esattamente ciò
che non riuscivate ad esprimere? Saremmo in grado di accettare di non essere il mezzo che esprime
i suoni, ma il corpo che li condivide come se fossero suoi? Potremmo credere con convinzione di
far parte di un enorme meccanismo che ha generato quel suono? Potremmo essere noi stessi quel
suono? Gli occhi allora si illuminano.
È nato un pensiero. Non il mio pensiero. Non il tuo. A che serve la proprietà di un pensiero? È. Punto.
Ma i pensieri son pericolosi, i pensieri fanno pensare e perché dovresti pensare se non condividi?
Ecco, lo sapevo, la bocca delle mani che hanno scritto la mail mi ha fatto pensare, però adesso sono
circondato da altre orecchie e magari, qualche orecchio brama il mio pensiero, forse.
Noi volti sudati beviamo un’altra birra,
fa caldo.
Aquì estamos!
Ecco, il concetto di fondo è questo:
superiamo tutto, andiamo oltre, non fermiamoci a guardare, non cerchiamo per forza una spiegazione, una collocazione, una necessità; proviamo ad esprimere una volontà.
L’11 marzo 2001 a città del Messico il subcomandante Marcos tiene un discorso davanti ad una
moltitudine umana che invade gli spazi davanti al parlamento messicano e il messaggio più forte
che Marcos esprime è “Aquì estamos!”- noi siamo qui! -, lo ripete in continuazione: “Aquì
estamos!”
Ma quindi… noi che adesso stiamo scrivendo, cosa stiamo facendo? Siamo tutti Zapatisti!
“Viva il subcomandante Marcos!”.
Ammettetelo, lo avete pensato, state cercando tra le righe un punto di riferimento, un paradigma,
una luce che illumini chi siamo e cosa vogliamo. Il corpo non basta. Servono i nomi. Dai nomi si ricava la storia e dalla storia le idee. E quando avrete le idee il giudizio sarà lì. Dietro l’angolo.
Non c’è nulla di male, è normale che l’abbiate pensato, siamo volti che camminano domandando
senza conoscersi: noi e voi, occhi che non si vedono. Cerchiamo di dare forma e sostanza a ciò che
non conosciamo.
E allora proviamo a partire proprio da qui: dalla necessità comune di categorizzare, ma con la consapevolezza che non importi poi così tanto conoscere perché già abbiamo idea di cosa stiamo ascoltando, osservando, comunicando o toccando. Non potrebbe essere proprio questo uno dei motivi che
spinge dei volti a sedersi intorno ad un tavolo? Non potrebbe essere proprio la voglia di conoscere
per superare la zavorra dei pregiudizi, degli stereotipi, delle categorie cristallizzate che ognuno di
noi possiede?
È difficile liberarsene. Quando si ha un volto nuovo davanti si cerca di capire immediatamente chi
è, da dove viene, cosa vuole, cosa pensa, e basandoci su quello che il nostro istinto pregiudiziale ci
suggerisce noi agiamo. È indubbiamente vero, siamo tutti diversi, e se aggiungessimo “per fortuna” non crediamo che nessuno si offenderebbe; siamo diversi nel modo di pensare, siamo diversi
nel modo di agire, siamo diversi nel modo in cui viviamo le diversità. Ma se queste diversità venissero convogliate in un unico “essere”, se il filosofo del muro non avesse ragione? Io non sono il mio
corpo. Noi siamo il mio corpo. Come fareste voi occhi che state leggendo a categorizzarci? Siamo
tutti diversi ma siamo tutti “io”, le diversità rimangono ma è come se rappresentassero una schizofrenia calcolata pensata voluta sperata desiderata e infine espressa. E dunque? Come fare?
Farneticazione di mani che prende forme quando la bocca legge. Ma non è così assurdo, pensateci
bene, perché si preferisce lavorare da soli? Ci possono essere più risposte a questo interrogativo:
può essere, per esempio, che si preferisca lavorare da soli perché si è convinti che “meglio di me
non può fare nessuno”, dunque perché perdere tempo a condividere le proprie competenze, aspirazioni, intuizioni e ipotesi; si può preferire lavorare da soli perché si ha paura, paura di non essere
all’altezza, paura di sbagliare, di essere giudicati, di risultare inferiori, di non realizzarsi, di non vincere o di non avanzare lungo il percorso della propria carriera lavorativa.
Un volto è triste quando perde.
Si lavora da soli perché altrimenti i tempi si allungano e i guadagni diminuiscono “se devo vincere
meglio farlo da solo”.
Ma allora noi volti sudati perché siamo seduti intorno ad un tavolo?
È vero, è più facile fare da soli, nessuno nel percorso ti contraddice e se vinci il merito è solo tuo.
Ma un volto quanti occhi ha? E quante orecchie? E perché nell’immaginario collettivo esseri con
quattro braccia sono più forti e molti occhi su un volto spesso denotano intelligenza e furbizia?
Potendo osservare da più punti di vista un oggetto posto su una collina si potrebbe avere un quadro
più approfondito seppur in un primo momento più confuso? Molteplici informazioni, innumerevoli
giudizi, infinite analisi che s'intrecciano e si fondono, ma se si ha la pazienza e la voglia di ascoltare
tutti gli impulsi che riceviamo e poi di elaborarli insieme, ecco che forse la visione che avremo sarà
più ampia. Saremo stanchi e avremo impiegato più tempo, ma qualsiasi oggetto stessimo guardando, ci potrebbe apparire improvvisamente dotato di una sostanza sconosciuta: potrebbe rappresentare per noi ciò che prima neanche immaginavamo. Se i nostri occhi, collegati ai nostri cervelli, potessero guardare contemporaneamente lo stesso albero cosa vedremmo?
Per questo noi volti siamo intorno ad un tavolo: perché non vogliamo limitare il nostro sguardo,
perché vogliamo sbagliare, non vogliamo aver paura dei pensieri e delle idee altrui perché ne abbiamo bisogno.
Vogliamo essere schizofrenici.
Quello che viviamo è connesso intimamente a ciò che altri hanno vissuto. Il nostro presente è futuro
per chi ha vissuto nel passato. Se vogliamo capirlo bisogna avere braccia, gambe, occhi e bocche
che si muovono insieme in mille direzioni diverse; sono troppe le gambe per sapere di preciso dove
stiamo andando, ma non intendiamo smettere di chiedercelo.
È intorno a quel tavolo che è nata l’Équipe Sperimentale di Storia con l’unico intento di porsi do mande, di condividere conoscenze e sperimentare un modo diverso di fare storia e di vivere la no stra realtà.
L'équipe diviene un bouquet difficile da analizzare, ma essenziale per comprendere.
Perché quando camminiamo ci piace alzare la testa e guardarci intorno, senza avere paura di scoprire che abbiamo preso una strada sbagliata. Non abbiamo nulla da perdere e apriremo nuovi sentieri.
Perché se è vero, come ci sembra d'aver intuito, che l’équipe è un metodo, prima ancora è un modo
di vivere e di relazionarsi.
Dasein. Doppia acca. Estamos aquì e usciamo fuori dalle abitudini della storia fino ad ora forgiata;
estamos aquì e non si parla di accademie; estamos aquì e parliamo semplicemente di noi, di quello
che vogliamo e di quello che pensiamo.
Estamos aquì perché siamo convinti che bisogna esserci. “Domani è troppo tardi”.
TAMBURI NEGLI ABISSI
Non possiamo uscire. Hanno preso il ponte e il secondo salone. [...]
Non possiamo uscire. Giunge la fine, [...] tamburi, tamburi negli abissi.
[...] stanno arrivando.
(Il Signore degli anelli)
Prendete un bel respiro e preparatevi a tuffarvi in questo nostro abisso privato. Come in un documentario che mostra le quattro stagioni di un paesaggio che scorre alla velocità di un battito di ciglia, affrontiamo anche noi le quattro stagioni della storiografia.
Tra storia e filosofia:
Lafilosofiadellastoria VOLTAIREeVICOforseancheunpodiKANT Leconcezionidellastorianellottocento HEGELCOMTEMARX Lostoricismo WEBERePOPPER BENEDETTOCROCE
Un po’ di teoria
Tempoeverità ARONVILARCROCEeinfineBLOCH Storiaepolitica ancoraCROCEeMARX
Laconoscenzastorica COMTEvsVEYNEeperchènoHEIDEGGER Esisteloggettività? BRUHLWEBERecistannobeneancheSALVEMINIRICOEUR
La ricerca che problema:
Metodologia UNPOTUTTIeforseNESSUNO
Lefontieladottrina DROISENBERNHEIMTOPOLSKImaancheCHABODCROCEetantialtri
Lefontielorocritica IPROTOCOLLIdeiSAVIdiSIONprimaditutto
From Erodoto to Weber:
Torniamoallesuperiori ERODOTOTUCIDIDEPOLIBIOeleversionidilatinoegreco Lastoriografiamoderna MACHIAVELLIinattesadiVOLTAIREeMONTESQUIEU Lottocento HUMBOLDTeMICHELETmanondimenticateCARLYLEeRANKE Positivismoemarxismo arrivanoTOQUEVILLEegliingombrantiMARXeENGELS Lanascitadellastoriografiaculturale WEBER
La storiografia contemporanea: primi anni...:
Newhistory? LACOMBELANGLOISSEIGNOBOSeancheDURKHEIM Leannales BLOCHFEBVREPIRENNE
Culturaepolitica CASSIRERHUIZINGA
...il dopoguerra:
Lascuoladi BLOCHeFEBVRE
Terzagenerazione BRAUDELLEGOFFFURETenondimenticateFOUCAULT
Storiografia in Italia:
Trapositivismoeidealismo VILLARICROCEGENTILE VOLPEeSALVEMINI
CHABODelanuovastoriografia MORANDIROSSELLI
Ilruolodelmarxismo GRAMSCI
Respirate ora.
Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera. Se vi serve, rileggete i
grandi nomi, lentamente, riflettete sul loro significato, pensate alla strada percorsa. Quanti ne
mancano? Tanti, forse troppi, ma sentivamo il loro peso sulle spalle troppo grande da continuare a portare. Così come nell’omonimo film, la semplificazione della circolarità - metaforica della condizione umana (nel nostro caso della storia, ma non è forse la stessa cosa?) si spezza in
un impeto di violenza - solo simbolica naturalmente - che ci riporta all’interno della nostra contemporaneità. L’intero nostro lavoro si sviluppa nel tentativo di inserire in un contesto ben conosciuto, o almeno conoscibile, un elemento di rottura metodologica, che a nostro avviso è rappresentato dall’équipe. A questo, che sarà ben evidente durante l’intera lettura, aggiungiamo in questo momento solamente l’accenno di una riflessione da cui non pensiamo sia possibile esulare e che si inserisce perfettamente nel contesto di quanto andiamo scrivendo. Un paradigma di
cui il nostro concetto di équipe è semplicemente un’emanazione:
Il paradigma della sostenibilità.
Sostenibilità che, ancor prima che filosofica, economica, ambientale, sociale, siamo fermamente
convinti sia del pensiero.
Pensiero sostenibile
Una rivoluzione del pensiero che sta prepotentemente prendendo forma negli ultimi anni e che
quotidianamente interagisce e fa l’occhiolino a tutte le scienze umane con alternate, e a volte contraddittorie, risposte. Una scienza che richiede, a nostro avviso, di definire anche un nuovo paradigma sociale inteso come “una costellazione di concetti, valori, percezioni e comportamenti condivisi da una comunità, che dà forma a una visione particolare della realtà come base del modo in
cui la comunità si organizza” (Capra, 1996). Detto questo, pensiamo che tale riflessione non possa
essere evitata dalla storia e da chi se ne occupa, proprio perché si inserisce in modo massiccio nel
contesto delle relazioni umane e quindi della costruzione di significati.
Nel corso degli ultimi due decenni in molti, e non soltanto storici, hanno dibattuto i caratteri principali della transizione dall'epoca industriale ad una nuova, non ancora meglio definita, epoca: postindustriale; postmoderna; ultramoderna e così via. C’è addirittura chi si è lanciato in premonizioni catastrofiche gridando alla fine della storia.
Da un lato, secondo alcuni, la società può essere ancora analizzata come moderna, dato che molti
fenomeni che spesso vengono etichettati come postmoderni riguardano, in realtà, l'esperienza
del vivere in un mondo che ha caratteri di continuità con l'era moderna, seppure in maniera storicamente nuova. Dall'altro, si ritiene che la società sia significativamente cambiata e che l'epoca attuale si caratterizzi come qualitativamente differente da quella moderna. Si tratta di una nuova
epoca storica, di nuovi prodotti culturali, di un nuovo modo di teorizzare il mondo sociale. Il pen-
siero postmoderno rifiuta un unico grande fondamento universale, astorico e razionale nell'analisi
della società, mentre preferisce essere relativista ed irrazionale. Interessante un passaggio tratto da
Wuming1 in New Italian Epic: “Dopo la caduta del muro e la Prima guerra del Golfo, in Occidente molte persone parlavano di “nuovo ordine mondiale”. [...] L’Homo liberalis era il modello
definitivo di essere umano. [...] Gli anni Novanta non furono solamente il decennio più avido della storia (secondo Joseph Stiglitz), ma anche il decennio più illuso, megalomane, autoindulgente e
barocco. La celebrazione chiassosa del potere e dello “stile di vita occidentale” toccò livelli
mai raggiunti prima, roba da far sembrare frugali le feste di Versailles durante l’Ancien Régime. [...] Nulla di nuovo poteva più darsi sotto il cielo (ricordate Fukuyama?) [...] di conseguenza: orgia di citazioni, strizzate d’occhio, parodie, pastiches, remake, revival ironici, trash, distacco, postmodernismi da quattro soldi”.
Il pensiero sostenibile non si aspetta più di trovare una formula onnicomprensiva, totale e definitiva della vita, senza più ambiguità, rischio, pericolo ed errore, e sospetta fortemente di ogni voce
che prometta il contrario.
Sia che si accetti l'ipotesi interpretativa della postmodernità, sia che si sostenga quella della modernità sia, come preferiamo, si decida di lasciar perdere questa categorizzazione, non possiamo negare che nella nostra contemporaneità (tanto per tagliare la testa al toro) stanno avvenendo significativi cambiamenti concettuali. Continuare a scrivere pagine e pagine d’inchiostro, e non tenere conto di questi cambiamenti, diventa dunque abbastanza controproducente, non vi pare?
A noi sì.
Ora però facciamo attenzione. Il dibattito attorno al tema dello sviluppo e della globalizzazione si
è in gran parte arenato nella celebrazione del concetto di sviluppo sostenibile che troppo spesso
viene considerato, o per lo meno percepito, come qualcosa che riguarda in particolare l’uomo
e il suo ambiente, ma non è così. Non più. “Questo paradigma contiene in sé due possibili interpre
tazioni e prospettive, fra loro non solamente differenti, ma addirittura opposte: da una parte una
sostenibilità
-quella implicita per esempio nell’idea di “sviluppo sostenibile”- fondamentalmente contraddittoria e che spinge nei fatti in direzione di una tecnocrazia ecologica, dall’altra un’idea di sostenibilità basata su un’ecologia delle idee, che punta piuttosto ad una ridiscussione radicale dei fondamenti del nostro immaginario culturale”. Nel primo caso, il concetto di sostenibilità rappresenta
una forma aggiornata e più sottile del vecchio obiettivo scientifico ed economico-produttivo di
un controllo sulla natura da parte dell'uomo. Nel secondo caso, al contrario, l'idea di sostenibilità rappresenta una possibile porta per uscire dalla cornice ideologica in cui si trova la cultura occidentale ancora religiosamente aggrappata all’immaginario della crescita e dello sviluppo, tranquilla e silenziosa all’ombra degli idoli del passato.
Ecco, lo abbiamo detto. Questo non riguarda forse in modo deciso e convincente anche il nostro concetto di Équipe? Assolutamente sì. Non riguarda la Storia e le sue diramazioni scientifiche? Ancora sì. Ma non solo.
Non pensate soltanto con le categorie care agli studi e alle scienze economiche. Per affrontare la
nostra contemporaneità occorrono forme di pensiero, cultura ed educazione che favoriscano la
strutturazione di un nuovo paradigma cognitivo, filosofico ed epistemologico (complesso, siste-
mico, relazionale, critico, riflessivo, flessibile, capace di gestire l’incertezza e il cambiamento).
Serve in particolare un pensiero sostenibile che affondi le proprie radici in un paradigma etico basato sulla libertà, il rispetto, la cura, la responsabilità e la solidarietà. Questo pensiero ci
deve aiutare a cambiare i nostri stili di vita, che non sono solo quelli connessi a quanta differenziata facciamo o se il pannolino dei nostri figli è in ciripà piuttosto che in sintetico usa e
getta. È un cambiamento nelle relazioni e di conseguenza un atteggiamento che si ripercuote nella
quotidianità, che si faccia il banchiere o che si scriva di memorie patrie. Già. Un nuovo paradigma. Con profonde radici nel concetto di cultura. Ripensiamo per qualche istante a Thomas Khun
e Paul Feyerabend. Sostenevano che nel momento in cui si assiste al passaggio da una teoria fisica ad un’altra, come per esempio da quella newtoniana a quella einsteniana, mutano le coordinate culturali di riferimento, dunque le credenze, e allo stesso tempo anche il significato dei termini linguistici utilizzati. Le rivoluzioni culturali e linguistiche possono tracciare nuovi paradigmi, i
quali, contemporaneamente, possono convivere con quelli precedenti. Già sentito? Forse, ma è
una sensazione, un malessere diffuso quello che ci porta a scrivere queste pagine. Non è definibile in maniera precisa, non è possibile trovare l’etichetta giusta per quello che percepiamo, perché
non può essere descritto con il linguaggio che abbiamo conosciuto fino ad ora.
Immaginate la carrozza di un treno. Salite i tre gradini in ferro che portano al
pianerottolo del lato locomotiva ed entrate. L’odore di sigaretta è ben riconoscibile nell’aria, voltate da uno dei due lati e vi ritrovate di fronte la famigliare
serie di sedili blu. Sporchi e silenziosi. Abbiamo dimenticato di dirvi che è
sera. Scegliete voi la linea. La carrozza è semivuota, tre persone sono già
sedute in altrettanti sedili e due, due uomini, stanno entrando anche loro
dalla porta di fronte alla vostra. Rallentate il passo per vedere dove si siedono (uno a destra e uno a sinistra) e fate la vostra scelta: notate con celerità
che gli scompartimenti sono sei e uno solo è quello libero, allora date una
occhiata alle persone sedute e vi accorgete che non riuscite a farvene una
idea precisa in così poco tempo. I vostri piedi si muovono senza neanche la fatica di ordinarglielo e portano il vostro sedere allo scompartimento restato
vuoto. Vi sedete e non potete fare a meno di sperare che non entri più nessuno.
Non ci vuole molto. Basta frequentare per qualche periodo una qualsiasi università italiana, collaborare per fondazioni, istituti o istituzioni, sentire raccontare qualche aneddoto da alcuni “addetti
ai lavori”. Lasciamo stare il mondo delle scienze esatte, rimaniamo vicini al terreno umanistico,
alle sue cattedrali, ai suoi deserti. Il comportamento all’interno di questi non luoghi è lo stesso
che teniamo all’interno del treno descritto prima. Siamo come dei gas; tendiamo a occupare tutto
lo spazio disponibile prima di entrare in contatto gli uni con gli altri. E quando lo facciamo scopriamo di non essere in grado di affrontare il conflitto che ne deriva. È una gara continua, una
sfida a chi arriva primo, un’interessante regressione adolescenziale in cui i maschi andavano a
cercare il righello pur di dimostrare di essere più dotati. Siamo fermi a questo livello. Vediamo e
viviamo quotidianamente la lotta per la sopravvivenza e per le risorse e ci sembra abbastanza
chiaro che non si stia parlando di acqua e tanto meno di socialdarwinismo.
Già negli anni Settanta, in altri ambiti disciplinari, erano state prese in considerazione le relazioni tra spazio, esseri umani e risorse e ci si era accorti della necessità di sostenere la gestione di
un’epoca di transizione. Cosa ci impedisce di recuperare queste riflessioni e i percorsi di studio
che hanno innescato e porli con forza nell’ambito degli studi storici? Non si tratta di vestirsi
con abiti nuovi strizzando l’occhio a discorsi già sentiti, ma significa analizzare e discutere di
queste riflessioni per praticarle, individuandone le modalità di attuazione anche nella nostra disciplina.
Ecco che in questo il pensiero sostenibile diviene un punto di riferimento, un modo differente
di utilizzare la conoscenza e le risorse intellettuali. È capire che non si tratta più di dover scegliere
tra l’interesse privato e quello collettivo, ma che il primo dipende in modo inscindibile dal secondo. Non è un dibattito antropologico sul noi e sul loro, ma la presa di coscienza che l’io fa
parte sia dell’uno sia dell’altro. Questo influisce su come fare storia. Influisce sulla metodologia.
Influisce sulla costruzione delle proprie identità.
Pensiamo non sia più possibile credere di potersi isolare dal contesto, scrivere senza riflettere anche sul significato stesso del gesto, dell’inchiostro che traccia un segno sulla carta o delle dita
che battono veloci sui tasti di un computer, senza interrogarsi sulle dinamiche che ci hanno
portato a farlo, e sulle influenze che ci accompagnano. Facciamo parte di una nebulosa - non solo
letteraria - che ci connette tutti quanti in modi che spesso ci sfuggono, ma che non per questo
sono meno reali. Pensare di non partecipare a questo gioco perché sul treno ci sediamo seguendo funzioni matematiche, non ci permetterà di stare lontani da quel pianeta rappresentato dalla
quotidianità e dalle sue innovazioni, dai socialnetwork ai software open source, dalle piattaforme
aperte e interattive ai canali multimediali gestiti dalla comunità della rete. Pensiamo davvero di
poter fare storia senza?
Scrivere in forma corale, permettersi il piacere di condividere le conoscenze, fare ricerca insieme,
accettare la libera diffusione dei saperi, sperimentare forme condivise di lavoro, utilizzare il tempo invece di esserne schiavi, potrà sembrare antieconomico, ma è ciò che più si avvicina all’avere
cura di sé. È ciò che più si avvicina all’idea che andiamo maturando di pensiero sostenibile.
ABBIAMO UCCISO BLOCH
“Papà, spiegami allora a che serve la storia.”
(Apologia della storia)
È la straordinaria domanda che Marc Bloch utilizza per aprire il suo scritto più famoso: Apologia della storia. Sono trascorsi da quel giorno più di sessant’anni, gli stessi che ci separano
dalla sua fucilazione ad opera delle truppe naziste nel giugno del 1944. Con il suo testo Bloch
sembra voler provare a rispondere a questa difficile domanda, non si sottrae al compito più arduo
che si possa chiedere a chiunque: descrivere il perché non tanto di qualcosa, ma di se stessi. E lo
fa con pagine straordinarie di grande lucidità metodologica, storica, ma soprattutto umana. Leggendo e avvicinandosi alla fine del suo scritto si ha la percezione di una corsa verso la contemporaneità, sembra di vederlo arrivare Bloch, verso di noi, ma è solo un’impressione, perché nel
momento più importante, quello che tutti attendono, la sua immagine scompare. Scompare, nel
suo caso, sotto i colpi di arma da fuoco dei suoi assassini e con la sua assenza si dipinge un paradigma di riferimento a cui in tanti devono le proprie fortune, ma a cui nessuno dopo di lui ha saputo dare prosecuzione nel senso in cui noi oggi lo rileggiamo. Siamo tutti fermi al capitolo 5,
come se tutti da quel giorno fossimo in piedi dinanzi al plotone di esecuzione, ad attendere che sia
lui a scriverlo.
Siamo ancora in attesa.
Vogliamo, allora, rispondere anche noi, come tanti altri, a quel ragazzo che chiede a che serve
la storia con la più banale e divertita delle risposte: “dimmelo tu a che serve”.
Ma sarebbe troppo facile. Scaricare la responsabilità della risposta significa abdicare non tanto al
proprio ruolo (quale ruolo poi?), ma più semplicemente alla propria natura di essere pensante.
A una domanda complessa, si può fornire una risposta semplice? Dipende cosa si intende per risposta semplice. Noi crediamo lo si possa fare, ma ci sembra che ultimamente questa risposta e il
dibattito che ne scaturirebbe, non susciterebbero così tanto interesse. Senza scomodare Foucault e
i suoi ragionamenti sul potere, pare che non si voglia condividere questa risposta, perché probabilmente rispondere significherebbe in gran parte mettere in discussione il proprio ruolo e il potere che inevitabilmente da questo deriva. Crediamo che la storia, rigorosamente con la lettera minuscola (non è un nome proprio e non appartiene a qualcuno), sia quella disciplina verso la quale
troppo spesso in molti provano timore e reverenza, altrettanti invece la usano a piacere quando
più ne hanno bisogno per spiegare i perché dei fenomeni umani che si manifestano nel mondo
che ora viviamo. Nel nostro presente. È così difficile accettare che la storia sia quella disciplina
che fornisce a chiunque una mappa concettuale, una bussola per potersi orientare nello spazio e
nel tempo circostante? In realtà, prendendo in prestito un tema caro alla psichiatria basagliana, siamo di fronte a una storia istituzionalizzata. C’é chi la detiene e chi la subisce. Come se al centro
la strada fosse inaccessibile. La vera rivoluzione di paradigma in questo scenario è permettere che
le mappe concettuali, le bussole, gli spunti teorici permettano a chi li ha appresi, a chi inizia a volerne usufruire, di scatenare uno scontro con colui che li ha forniti. È quel concetto, ancora una
volta caro alla psichiatria della tensione costante.
Un piccolo passo indietro.
Se alla domanda di quel bambino qualcuno rispondesse con “La storia è inutile. Non serve
a niente”?
Questa è una risposta molto semplice e diretta ad una domanda molto difficile. Certo potremmo mimare lo stereotipo dell'intellettuale sine nobilitate che si scandalizza di fronte a proposizioni logicamente non degne di attenzione e respingere questa risposta. Chiediamoci però il motivo per cui si può approdare ad una risposta che ritiene inutile la storia: quali sono i meccanismi costitutivi del ragionamento (o del comportamento, perché a volte si può rispondere anche con il proprio agire) di una persona più o meno giovane che drasticamente e liberamente si esprime in questi termini? Qualcuno dall'alto della sua esperienza di vita e di adulto formatosi nei brillanti,
fecondi, straordinari, ma ormai trascorsi anni Sessanta/Settanta/Ottanta potrebbe azzardare l'ipotesi secondo cui lo stereotipato giovane d'oggi è indotto a fornire una risposta di questo tipo perché
vive un tempo di passioni tristi. Attraverso una magica intuizione potremmo affermare che il problema risiede nel funzionamento del sistema scolastico e nel nozionismo da cui è posseduto.
Troppo scontato rintracciare nella formazione di primo e secondo grado il focolaio di una simile affermazione, sappiamo fin troppo bene che questo tipo di riflessione è avviata da tempo. Cerchiamo, allora, di allargare lo sguardo: perché non porre questo interrogativo a tutta la società?
Forse ci renderemmo conto che la presunta inutilità della storia sopravvive in un contesto culturale in cui la rappresentazione di se stessi, la propria immagine sociale, è appaltata a modelli globalizzati e standardizzati. Il presente diviene l'unico spazio di trasformazione e cambiamento,
mentre il futuro e il passato incognite malleabili a seconda del gusto personale.
Semplice conoscenza. È il suo uso e consumo che va discusso. Da sola non può far male, semmai
passa inosservata. Da sola, senza critica, senza tensione, non progredisce.
Con questo scritto cerchiamo dunque di fare storia, ma in particolare di produrre riflessione e discussione sulla disciplina. Cerchiamo di mettere in crisi i pilastri che non condividiamo e di erigerne altri con la speranza che qualcuno li abbatta sonoramente. La storia è ancora una scienza
giovane e inesperta, troppo spesso frutto di un amore del passato tipicamente cristiano e marxista.
L’idolo delle origini è ancora ben saldo nella nostra contemporaneità e noi vogliamo abbatterlo. Questa non è la nostra storia, non è la disciplina che ci rappresenta e, almeno ad oggi, nemmeno quella che ci fa crescere come individui e come collettività.
La storia è uno dei modi in cui si dispiegano in un contesto complesso l'inclusione, la dialettica, la
continuità, la discontinuità delle realtà. Fare storia significa lavorare su se stessi, ridurre i propri
pregiudizi, gli etnocentrismi ed eliminare gli apriorismi, considerare e combinare i relativismi e
gli universalismi, costruire e de-costruire discorsi e impressioni e alla fine, chissà, lasciarsi alle
spalle tutti questi -ismi; oltremodo la storia è scoperta e ricerca omnicomprensiva della realtà
umana, ovvero riguarda tutti noi. Ciò che stiamo cercando di comprendere è che la storia è contemporaneità tout court; non stiamo esprimendo un ossimoro. Il nostro oggi è spiegato ed incarnato anche dallo ieri, nulla di tutto ciò che ci circonda è indipendente: non c’è un’idea, un’invenzione, una guerra, una situazione politica che non ponga le sue radici in un fatto che l’ha preceduta. Tutto acquisisce un senso unicamente nel suo insieme. E l’accettazione passiva degli avvenimenti presenti che rende inutile la storia. Allora?
«La Storia è sempre contemporanea, cioè politica» [Antonio], non esiste un unico passato: ne esistono tanti. Il termine politica non deve spaventare, non è un fantasma del passato, è più semplicemente sinonimo di azione, di (de)costruzione di significati.
Una delle qualità dello storico, ma diremmo di qualsiasi persona che si voglia dire dotata di senso
civico, è la capacità di trasformare il proprio vissuto, passato e presente in riflessione storica, dargli significato e poi tradurlo in significante. Si pensi in questo senso ai grandi dibattiti interni
a Les Annales, o anche a scritti più recenti come quello del 2002 di Hobsbawm. Il fatto storico,
l’evento, la sua analisi, la sua potenzialità di essere un argomento di discussione e di produzione
di significati, non esisterebbero senza il linguaggio. Sia questo linguaggio la lingua parlata o un
foglio scritto. Per quanto si apprezzi la grande duttilità della parola orale, noi crediamo che lo scrivere, il tradurre nero su bianco i propri pensieri, sia per uno storico, come per chiunque altro, non
solo o non tanto un dovere, ma una necessità esistenziale.
Scrivere è divertente, scrivere è liberatorio, scrivere è difficile, scrivere è obbligatorio, scrivere è
lasciar fluire i propri pensieri verso l’esterno ad una velocità più accettabile di quella del parlato
e quindi più ragionati, più lenti. Perché scrivere, così come fare lo storico, è un mestiere lento.
Ma soprattutto, scrivere e fare lo storico non possono essere due momenti separati, due operazioni, lontane tra loro. Non sono l’opera di due art igiani che si scambiano la materia prima in
different i stadi di lavorazione. Scrivere è fare storia.
Elogio della lentezza ed elogio dell’arte dello scrivere.
Per chi scrivono gli storici? In sé la domanda è sbagliata, presuppone il poter distinguere gli storici dagli entomologi, gli storici dagli alcolizzati, gli storici dagli stronzi.
Gli storici.
La domanda giusta è perché si scrive. Per chi si scrive. Scrivere è una necessità individuale,
un modo per esprimersi, per relazionarsi, è un mezzo empatico per dire “io sono qui. Eccomi”, un modo straordinariamente complesso per dare spazio alle proprie necessità individuali,
alle proprie irrequietezze, alle proprie inquietudini. Alla paura. Paura dell’ignoranza, di quello
che non si conosce, di quello che non si capisce. E si scrive per qualcuno.
Questo aspetto è sintomatico del momento in cui il mestiere di storico si trova oggi.
Lo storico di oggi, o almeno la sua immagine riflessa, ci sembra ancora tardo- romant ica: nella migliore delle ipotesi malinconica, solitaria, stravagante e noiosa; nella peggiore invece, autoreferenziale, egoista e boriosa. In verità lo storico di oggi è il prodotto di una contraddizione del sistema culturale ed economico vigente. L'atomizzazione dell'individuo, la produzione e il consumo
di massa delle forme culturali si fondono con la reiterazione della figura di uno storico avulso dalla società in cui vive, incapace di comunicare, di bruciare i vestiti della propria conservazione e
superare i propri confini autocelebrativi. È molto triste notare che lo storico emerge spesso
come soggetto isolato e individuale che lavora da solo.
Cerchiamo di riprendere il filo cedendo volutamente e provocatoriamente alla generalizzazione.
Gli storici pretendono di determinare, attraverso la ricerca e la creazione dei saperi storici, aspetti
delle identità delle comunità nazionali presenti e viventi. Per raggiungere questa meta essi scrivono a se stessi, approvano e asseriscono la fattura degli oggetti forgiati in officina. Questo procedimento è parzialmente reale, poiché permane e si evince dalle imprese editoriali la consapevolezza
dello storico di dover uscire dalle fortificazioni dell'accademico. La distribuzione nelle librerie di
opere storiche, la loro pubblicizzazione mediante conferenze e incontri risponde proprio all'esigenza di trasmissione e costruzione dei saperi storici. Il discorso richiederebbe ulteriori approfondimenti: dovremmo prendere in considerazione i bisogni culturali e le domande del pubblico, dovremmo esaminare le modalità di pubblicizzazione del sapere e, infine, i criteri di selezione delle
opere pubblicizzate da parte dell'editoria. Ci limiteremo a dire, quindi, che la trasmissione del sapere è vincolata a una serie di fattori esogeni ed endogeni all'ambito accademico.
Quanto detto finora si collega poi in modo molto stretto con un tema che a volte si relega nelle ultime pagine dei libri di metodologia e di dibattito storiografico che però ha un’enorme influenza non solo sulla diffusione del materiale più propriamente storico, ma anche sul valore scientifico di ciò che viene prodotto e sulla possibilità di innovare la conoscenza: responsabilità civica ed
etica di cui lo storico, non tanto come scienziato ma come essere umano, ha di rendere conto. Sia
di ciò che scrive, sia di ciò che è; oltre al dovere etico di non concludere il suo lavoro con un punto su un foglio bianco, ma di iniziarlo proprio da quel punto. E si torna in questo modo al punto
iniziale, a cosa serve fare storia se alla fine della scrittura (o della lettura) si chiude il libro e lo si
depone tra i propri trofei sulla libreria?
Intuizioni.
“La vita è troppo breve” scriveva Bloch, “La storia non può farsi se non per cooperazione” aggiungeva. Siamo ancora lì. Qual è il significato di cooperazione? Siamo noi, ora, quel ragazzo
che poneva la domanda esistenziale allo storico. Traduciamo la parola cooperazione, conferiamole contemporaneità e inseriamola in questo contesto, il mondo in cui viviamo. Discutiamola
questa parola, smontiamola un pezzo alla volta, una lettera alla volta, mastichiamola e proviamone
il gusto, testiamone la consistenza. “Il mestiere di storico si esercita mediante una combinazione
di lavoro individuale e lavoro in équipe”. No, diremmo di no. Siamo sulla buona strada, ma non
siamo completamente d’accordo. La propria individualità, fenomenologicamente, può assumere significato solo nella relazione? La relazione è tra individui nel senso di soggetti a-storici o nel
senso di entità in perenne co-costruzione di significati? Si esiste senza l’altro? Ci si esplica nella relazione? Il senso della freccia è individui-équipe o esattamente l’opposto?
Abbiamo un’intuizione: una storia che assume la figura umana non solo perché è storia
dell’uomo,
ma perché essa stessa è antropomorfa.
Odore di sangue umano.
Da questo deriva la pallida necessità di una non meglio ben identificata storia interdisciplinare
e intersoggettiva. Ma si faccia attenzione, interdisciplinare non nel senso storiograficamente più
utilizzato dalle discipline. Non nel senso che si contribuisce con un pezzettino a testa alla costruzione di un grande mosaico, ma ad una metodologia il cui termine non trova riscontro nel lin guaggio a nostra disposizione, che è ben lontana dall’essere stata anche solamente discussa e
postulata. Interessanti in proposito le poche righe con cui ancora una volta Giovanni De Luna
schiva il problema: “Si possono rompere i compartimenti stagni tra i vari saperi, in una pratica
storiografica che si giovi non solo di concetti derivati da altre scienze sociali che facilitano la
descrizione e la spiegazione storica, ma anche della capacità che le altre discipline hanno nel
contribuire efficacemente all’elaborazione del questionario con cui si preparano le domande alle
fonti”. Chiaro. No? No.
Di nuovo. Siamo tutti fermi al capitolo 5, come se tutti da quel giorno fossimo in piedi dinanzi
al plotone di esecuzione, ad attendere che sia lui a scriverlo. Siamo ancora in attesa.
BANG!
L’ÉQUIPE È UN METODO
“C'è chi vive al paesello
c'è chi vive in fattoria
senza mai muovere un passo dal compagno e dal fratello.
Costoro sanno sempre dove sono
san quale e quanta è la loro via –
poi ci sono i ragazzi come noi - che diciam
prima di salve addio...
perché noi siamo
gli Assi dell'Alta Quota,
Vagabondi del Vuoto...
Dove gli altri treman di terrore,
noi sicuri passiamo con ardore.
Soffino i venti oltre la scala Beaufort,
nera pece d'inferno sian le notti,
che il fulmine si sferri
e impazzi il tuono,
ognora baldo e ardente a noi è il cuore!
Perché...
Il compare e del Caso è un'anima sfrontata,
mai si lamenta, ignora la paura,
ché ha rosso il sangue, e la mente pura
come le righe della sua giubba immac-o-lata!”
(Contro il giorno)
Genesi dell’équipe
Ci eravamo buttati, quindi.
Avevamo compiuto l’immenso sforzo di creare una nuova relazione, di guardarci negli occhi, e di
guardare intorno a noi. Senza una delineata direzione da seguire, avevamo costituito l’Équipe Sperimentale di Storia. Soltanto raccogliendo a dieci mani e riunendo in una massa ancora informe le nostre idee sbriciolate e sparpagliate. Divisi dalle nostre esperienze di vita del tutto differenti, avevamo un progetto, una strada da percorrere, senza sapere dove ci avrebbe portato e quale sarebbe stata
la meta concreta che avremmo raggiunto.
Fin da subito, ci hanno uniti un vago senso di disagio dinanzi alle modalità di fare storia, un approssimativo rifiuto delle sue forme di diffusione e la constatazione e rivelazione di una profonda solitudine nel camminare lungo i percorsi di studio e ricerca storica che individualmente ognuno di noi
aveva intrapreso o avrebbe potuto (voluto?) intraprendere. Dottorati, master, corsi di formazione…
E dopo? Perchè? Per chi?
A questo, poi, si è aggiunta l’inevitabile opera di decostruzione critica del presente in cui viviamo e
la domanda irrisolta “come possiamo contribuire?” dettata dalla nostra formazione, ma anche dal
nostro essere prima di tutto cittadini attivi. La solitudine dello storico si è lentamente e inesorabilmente fusa con il senso di precarietà provato nel mondo del lavoro, dello studio e in quello ben più
ampio della relazione. Così, sia per la necessità di condividere esperienze e inquietudini, sia per
svagare la mente e soddisfare curiosità, abbiamo cominciato a ragionare insieme su noi stessi, sul
nostro futuro, sul fare storia oggi, su progetti e aspirazioni. Dopo le riflessioni private, era giunto il
momento di un confronto insieme e di costruire un orizzonte comune: di uscire dalla “zona grigia”.
Si trattava, più che di un desiderio, di una necessità. Ispirati da un contesto di nascita di nuove esperienze, associazioni, collettivi gruppi informali in ogni settore di ricerca e produzione del sapere,
abbiamo iniziato a percepire l'insorgenza di un'epidemia, il “noi”.
Eravamo però ancora lontani dall’intenzione di elaborare e sperimentare una metodologia di lavoro
in équipe; in modo inconsapevole, ci siamo inoltrati in una selva fitta, tra nodi e sentieri telematici,
persone interessate e altre diffidenti.
Abbiamo dunque preparato un viaggio senza scorgerne nitidamente la meta, e proprio in quel momento, mentre riempivamo le nostre valigie di pensieri e dubbi, ci siamo scoperti un’équipe.
Équipe
Che buffo. A volte battere le dita sui tasti è così semplice, non si percepisce il peso delle singole let tere che trovano una combinazione particolare. Équipe. Non serve nemmeno la lingua per pronunciarla. Ma per noi è così importante. Così pesante. Così inaccessibile.
Il significato di équipe sul dizionario è: “Gruppo di persone impegnate in una collaborazione di carattere tecnico-scientifico, volta a un fine specifico”.
Aveva scritto Bloch: “Non v’è altro rimedio allora, che sostituire alle molteplicità delle competenze
in un solo uomo un’alleanza di tecniche, praticate da differenti studiosi, ma rivolte alla disamina
d’un unico tema”. Quanto, ad oggi, è rimasto di quel dibattito? Esiste ancora?
In ambito storico, a tutt’oggi, esperienze di équipe nascono dall'intento di studiare con maggior
completezza una serie di fenomeni storici che senza alcun dubbio nella solitudine del singolo non
sarebbe possibile verificare. In questo senso, nel contesto accademico, l’équipe rappresenta un lavoro collettaneo, una pubblicazione di una serie di contributi individuali, singolarmente connotati e
firmati, che rispettano le diverse posizioni professionali. È attraverso tale procedura che per consuetudine si attribuisce dignità scientifica al sapere e, soprattutto, si riconosce e si offre la possibilità di
crescita professionale ai rispettivi autori. La firma… il nome… si mantiene dunque l’espressione
dell’autorialità di ogni intervento, criterio fondamentale per la valutazione delle carriere professionali e, di conseguenza, a cui difficilmente si rinuncia.
Ma noi ci possiamo accontentare di questo? Vogliamo provare a fare un passo in avanti e vederci
come un’entità unica che, catturando le differenze e impiegandole in modo costruttivo, trova una
formula il cui risultato è maggiore della somma dei singoli addendi: 1+1=3.
Ha inizio da questo sottocapitolo la parte più propriamente metodologica e di
narrazione di come ci siamo mossi nel periodo che ha dato vita a queste pagine. Chi non fosse interessato a questa parte (come molti amici che ci hanno
aiutato nell'editing) può tranquillamente passare al sottocapitolo successivo
senza perdersi niente di irrinunciabile al fine della comprensione generale del
testo.
L’allegro chirurgo
Oggi, al punto cui è giunta la nostra riflessione, si è rivelato necessario per noi condividere il percorso d'équipe che abbiamo tracciato, e in particolare le fasi di costruzione del metodo e dello stesso
testo che state leggendo. La riflessione volta a capire ci ha inevitabilmente condotto alla necessità di
trasmettere ciò che abbiamo e non abbiamo potuto sperimentare. Raccontare la nostra esperienza, le
tappe del nostro viaggio, ci sembra il modo migliore per spiegare cosa intendiamo nella pratica con
il concetto di équipe e quindi aprire un confronto con altre realtà simili o differenti da noi su un
orizzonte comune.
Elemento basilare dell’équipe è stato senza dubbio la relazione, ossia la possibilità e l’impegno a
comunicare tra noi, a conoscerci, ad esserci, nella necessità di trovare compromessi con gli spazi e i
tempi a disposizione di ognuno. La relazione permette di costruire la reciproca fiducia, essenziale
per una sincera e aperta condivisione dei saperi, delle competenze e delle passioni, e solo in una seconda fase si possono elaborare obiettivi comuni. La relazione quindi entra prepotentemente nel discorso sul metodo. La relazione è metodo.
Il primo anno ha costituito per noi ciò che abbiamo considerato una fase di prericerca, punteggiata
dagli innumerevoli interrogativi che individuavano la ragione stessa della nostra esistenza e del contesto in cui ci saremmo inseriti. La nostra insoddisfazione e il nostro tentativo di analisi della situazione si traducevano in numerose domande sul mestiere dello storico, sul metodo storico, sulla diffusione della ricerca e sulla disciplina in generale.
In realtà, da questi interrogativi ne sono nati altri, dai più banali ai più complessi, inserendoci in una
sorta di labirinto in cui ogni strada portava a nuove questioni e da cui, ci siamo detti, forse non c’è
una via d’uscita. Ognuno individualmente ha cercato di rispondervi, conducendo le proprie personali ricerche, leggendo libri, consultando manuali e riviste e discutendo con altre persone. Gli incontri
settimanali erano così dedicati al confronto vivo e fertile sulle fonti reperite e sulle opinioni maturate. Avevamo però l’assoluta necessità di fare ordine, di comprendere e gestire quel ricco e variegato
materiale. Abbiamo quindi raggruppato le questioni in tre parti distinte, che costituissero nuclei concettuali precisi e separati:
a) Guardandosi attorno (con disinvoltura)
Per chi scrivono gli storici?
Chi si preoccupa di come si fa storia e perché?
Quale metodo è opportuno utilizzare per spiegare come si fa storia?
Quali obiettivi si hanno quando si fa storia?
b) L'Équipe e altre storie
Cos'è la storia per noi?
Quali obiettivi ci poniamo?
Quali metodi di ricerca utilizzeremo?
Quali metodi del metodo?
Quali basi teoriche?
Le nostre proposizioni, intenzioni e i nostri metodi saranno fissi e immutabili? Cosa sarà immutabile e cosa no?
Faremo storia?
c) L'entropia interrogativa e riflessiva
Riflessione e gestione del sapere storico
Uso del copyleft
Rapporto tra storia e politica
Rapporto tra storia e mezzi di comunicazione
Rapporto tra la storia e il nostro tempo
Memoria o scoperta?
Per fare storia bisogna studiare?
È necessaria l'interdisciplinarità?
Che ruolo hanno i testimoni?
Per ogni batteria di domande era prevista una risposta di massimo cinque cartelle da inviare agli altri componenti dell’équipe, così da intrecciare i diversi contributi. Puntualmente, ogni settimana, ci
trovavamo a leggere le nostre riflessioni, a proporre osservazioni, a discutere le molteplicità dei
punti di vista. Questo lavoro di approfondimento portava a sviscerare i concetti che avevamo trattato, mettendo in gioco noi stessi e le nostre convinzioni. A volte abbiamo incontrato questioni che
non suscitavano in noi considerazioni unanimi o che ci lasciavano il retrogusto di insolute perplessità. Il dibattito veniva quindi interrotto per concentrarsi su quell’aspetto particolare: oltre ad un confronto insieme, abbiamo lasciato trascorrere alcuni giorni per una riflessione personale e più obiettiva, per poi rivalutare ancora insieme i punti rimasti in sospeso. Là dove non è stato possibile trovare
una convergenza interpretativa si è deciso di sospendere in maniera permanente il giudizio, con
l’intenzione di segnalare il punto come una discussione aperta. Abbiamo ritenuto importante, infatti,
delineare una precisa tracciabilità delle nostre domande e delle problematiche che abbiamo percepito, più che delle nostre risposte. Crediamo che l’etica dello storico, e del ricercatore in generale, sia
non soltanto rendere noti i risultati del proprio lavoro, ma anche raccontare il procedimento seguito,
quali sono state le riflessioni e le influenze che hanno portato a scegliere una determinata direzione,
così come i limiti e gli ostacoli incontrati e le questioni più rilevanti.
Questa fase di lettura “attiva e ragionata” delle rispettive cartelle ci ha permesso di scavare e abbattere i nostri pregiudizi, le nostre frasi fatte, le nostre certezze, di scoprire le differenze che connotavano i diversi contributi, ma anche i numerosi concetti comuni ai nostri elaborati. Dopo aver individuato i nuclei tematici abbracciati negli scritti, per ognuno di essi è stato costruito un unico corpus
di risposte derivante dall’unione delle nostre singolarità:
Il Presente
Sensazione
Documenti
Fatto/racconto/Oggettività
Impegno civile
Domande
Epochè/onestà intellettuale
Équipe
Lo storico
Il Metodo
La Storia
Memoria
Strumenti di comunicazione/nuovi media
Interdisciplinarietà
Storici di riferimento
Destinazione della comunicazione storica
Mittente e destinatario
Critica delle/alle forme di comunicazione
Gli strumenti dello storico
Relazione équipe esterno/interno
Storia e politica
Relazione tra scienze esatte e scienze umane
Dopo questa prima fase di scambio sui “massimi sistemi della storia” (anche con la loro accezione
generalista), abbiamo cominciato a costruire significati: a selezionare le tematiche da trattare, i riferimenti da accogliere e quelli da discutere, a creare un discorso completo che rispecchiasse la pluralità degli interventi in una veste unitaria ed omogenea. Un’ulteriore lettura, discussione e scrittura
ha preceduto la concettualizzazione di un saggio diviso nei capitoli tematici che state leggendo e
un’ulteriore decostruzione e ricostruzione delle risposte. È stato faticoso, inutile negarlo, ma necessario. Confrontandoci con altri gruppi di ricerca, abbiamo scoperto che, a differenza loro, per noi
era essenziale capire fin da subito chi siamo e cosa siamo insieme, fare un passo indietro. Prima di
cominciare a lavorare in équipe, abbiamo cercato di costruire l’équipe. Per quanto il concetto in
senso generale non sia per sé originale, perché esistono già da anni numerosi collettivi e gruppi di
lavoro collaudati (basti pensare alle realtà di scrittura collettiva, quali SIC, Kaizen e Wu Ming, o a
quelle di informazione multimediale ed editoriale, tra cui Epimeteo, Generazione TQ, 404: file not
found, per arrivare a collettivi in ambito scientifico-matematico, ad esempio L.A.S.E.R.), pensiamo
che ciò che rappresenta secondo noi l’équipe abbia connotazioni particolari e che scriverne fosse il
mezzo più adatto per metterci in gioco e aprire un dialogo più ampio. Raccontarci ci ha aiutato a
scoprire e capire la nostra identità, di individui e di équipe, quindi la scrittura non è stata soltanto un
momento di riflessione ed elaborazione, ma anche di crescita effettiva.
Diversi sono stati i tentativi di scrittura corale: concordare le scelte stilistiche, sintattiche e grammaticali è un’operazione alquanto difficoltosa e dispersiva se attuata in modo sincronico. Si è dunque
deciso che ogni capitolo dovesse essere scritto “a due mani” e successivamente passare attraverso la
discussione e rielaborazione scritta di tutti gli altri per essere poi inserito nella versione definitiva.
Ogni capitolo è stato quindi trasmesso più volte ad ogni membro dell’équipe perché lo modificasse,
lo arricchisse, lo correggesse nella progressiva definizione di questo saggio.
La scrittura corale si è poi affinata durante gli incontri, nei quali abbiamo esaminato nuovamente
termini e condizioni poste e riscritto ciò che non sembrava ancora convincente dal punto di vista sostanziale e formale. Gli stili si sono fusi fino al punto da non saper più riconoscere le proprie parole
e, più in generale, i propri contributi.
…ve ne siete accorti?...
Abbiamo usato un termine molto particolare: scrittura “corale”.
Tanti si cimentano nella scrittura collettiva o si dedicano a progetti comunitari, ma ci sembrava
che questi aggettivi fossero del tutto limitati per rappresentare l’équipe: corale significa “unanime”,
“concorde”, è il momento in cui i vari elementi e metodi concorrono in una simultaneità rappresentativa ideale.
Le diverse voci del coro si fondono e contribuiscono alla creazione di una nuova sinfonia, una nuova voce mai stata udita e diversa da ogni elemento che la compone. Le diverse individualità emer gono nella dimensione corale, ma il risultato o la sintesi è d’équipe.
Questo dunque, brevemente e a fatica, è ciò che abbiamo effettuato in due anni, e che abbiamo registrato nei documenti elettronici delle singole fasi di lavorazione e nei files audio di numerose discussioni svolte.
Per maggiore chiarezza, cerchiamo di schematizzare qui di seguito l’intero nostro iter:
Prericerca: -
corale (stabilire oggetti e termini della ricerca)
individuale (ricerca personale)
corale (feedback di ciò che si è ricercato, discussione e riassunti)
individuale (lettura dei riassunti)
corale (riproposizione della discussione)
Costruzione dei significati: corale (in fase d'incontro)
Scrittura corale divisa in tre movimenti:
primo movimento
- corale (interrogativi su un oggetto a cui tutti devono dare risposta)
- individuale (formulare risposta in base alle domande)
- corale (trasmissione delle proprie risposte e discussione)
- individuale (scrivere sul brano di un'altra persona)
secondo movimento
- corale (trasmissione del brano, lettura collettiva e riproposizione della discussione
con integrazioni, cancellazioni e modifiche fino al raggiungimento della versione finale)
terzo movimento
- corale (rilettura, discussione e modifica tra équipe e valutazione di altre persone
esterne all’équipe che lavorano in diversi ambiti disciplinari o occupazionali)
- individuale (lettura da parte di esterni)
- corale (discussione e modifiche alla luce dei feedback ricevuti)
Dopo queste ultime modifiche, si riparte dal secondo movimento, ossia la lettura corale, ragionata e
discussa, e si prosegue con il terzo fino a quando l’ultima lettura non risulti soddisfacente per tutti i
membri dell’équipe.
… Che palle!
L’équipe è come il maiale. Non si butta via niente
Dopo esserci persi varie volte tra i tortuosi sentieri metodologici e i nostri ragionamenti labirintici,
siamo arrivati al succo: ma noi cosa siamo? Cos’è dunque l’équipe così come noi la intendiamo?
Beh, per capire questi concetti e per formularli concretamente, abbiamo seguito il metodo che abbiamo provato a descrivere in queste pagine.
L’équipe è un unico soggetto a cui tutti contribuiscono con le proprie inclinazioni personali, i propri
interessi e i propri sguardi, nell’indagine di verità non assolute. Insieme si percorre il sentiero della
conoscenza dell'uomo, sfuggendo alla tentazione di lasciarsi cullare tra l’eccellenza individuale e la
mediocrità pubblica.
Viene allora da chiedersi: da chi è composta l’équipe nel senso da noi elaborato? Da storici? Non
solo. Quando parliamo di lavoro d’équipe ci riferiamo principalmente al rapporto con espressioni
culturali e punti di vista differenti: l’interdisciplinarità permette di accedere a nuovi stadi d’analisi,
che offrono la possibilità di una ricerca più accurata e vasta, che possa toccare tutti i diversi livelli
che compongono un'immagine e che renda meglio la complessità dei problemi considerati. Noi stessi abbiamo una formazione multidisciplinare in cui la storia ha avuto uno spazio ampio, ma non univoco. L’analisi e la riflessione di équipe su ogni evento sembra aver accresciuto la nostra coscienza
critica e, di conseguenza, ci ha insegnato a metterci in dubbio come individui provvisti di conoscenze e credenze pregresse. Perché questo avvenga, però, è importante essere disposti ai cambiamenti,
a non restare fissi su un metodo di indagine storiografica. Se le variabili sono tante, è necessario trovare tante modalità di analisi. Gli uomini sono esseri culturali e biologici: ogni sguardo che li indaga deve essere interpellato e preso in considerazione. L’équipe infatti si muove come un unico soggetto che attraversa i passaggi della ricerca e della scoperta; insieme si percorre il sentiero della conoscenza dell’uomo. L'interdisciplinarità non è dunque una scelta o un'opzione, ma l'elemento costitutivo strutturale degli studi umanistici –ma crediamo anche degli studi scientifici - per rendere ancora più variegato il campo dello studio, ottimizzando tempo e risorse. È una via d'uscita dalla profonda atomizzazione del mercato del lavoro e della società contemporanea che inevitabilmente ha
intaccato anche il lavoro in ambito storico. Non esiste la storia senza l'interdisciplinarità.
E non si tratta di pura teoria. Uno degli obiettivi principali dell’équipe, per il quale ci stiamo già da
ora impegnando, è la tracciabilità dei propri percorsi di ricerca, mettendo a disposizione le fonti e,
perché no, digitalizzandole. L’accessibilità e la fruizione delle fonti sono il caposaldo su cui l'équipe
si fonda e sono la base per l’elaborazione di un sapere critico, molteplice e complesso. In riferimento all’ambito informatico, mezzo ormai imprescindibile per ogni settore di studio, promuovere l’uso
del copyleft ed incentivare il ricorso al web e ai media significherebbe dare maggiore accessibilità
a strumenti difficilmente reperibili e collaborare alla creazione di una solida rete di conoscenza
umana. Inoltre, resta fondamentale mantenere lo sguardo corale ben focalizzato sull’attualità, per
favorire una selezione delle tematiche della ricerca.
La possibilità di consultare direttamente le fonti, di ripercorrere i sentieri già battuti e di valutarne i
passaggi intermedi oltre che il risultato finale contribuirebbe al raggiungimento di un altro e non
meno importante obiettivo: la libera circolazione, interpretazione e critica dei saperi in un linguaggio comune riconosciuto, quello scientifico–critico. Spiegare come si fa storia non vuol dire dunque
fare lo storico, ma produrre e trasmettere saperi storici. L'équipe deve chiedersi come dialogare con
chi storico non è, costruire ponti su cui sia possibile incontrarsi, scambiare esperienze e strumenti di
lavoro.
Il nostro progetto potrebbe sembrare ingenuo e lontano dalla realtà, ma crediamo che proprio grazie
al lavoro in équipe possano emergere aspetti del metodo seguito che talvolta, nel lavoro individuale
e, perché no, autoreferenziale, vengono trascurati. Innanzitutto, il dovere etico di ogni studioso, ma
non solo, di giustificare ciò che si dice. Il nostro compito in quanto storici è quello della de-costru zione e ri-costruzione. La storia è quindi una materia da sezionare, esplorare, ricomporre a seconda
delle domande che le poniamo e delle nuove scoperte che nel corso dei secoli gli esseri umani compiono, ma anche delle diverse interpretazioni e visioni che maturiamo su di noi come individui, sul
nostro ruolo e sulle dinamiche che agiscono nel nostro profondo. A condurre e animare tale riflessione e la ricerca storica deve essere quindi la continua tensione verso la verità. Lo storico ha il
dovere di tendere ad una ricostruzione il più verosimile possibile, rendendo tracciabile il percorso
compiuto, non solo i risultati ottenuti dalla ricerca. In questo modo è possibile mettere in azione il
concetto di storia come ragionamento complesso e partecipato dai membri della società: lo storico
ha a disposizione i documenti da analizzare, ma chiunque può elaborarvi un pensiero e un’opinione
personale nel momento in cui conosce le tappe seguite, le motivazioni che hanno portato a determinate scelte, i limiti, gli ostacoli, gli errori.
Ecco perché è fondamentale che il procedimento seguito sia scientifico: osservazione, intuizione,
ipotesi, sperimentazione, risultati, verifiche, prova e controprova, interpretazione e sintesi devono
comunque essere accompagnate dal confronto sull’uso dei documenti, sulla loro interpretazione,
spiegazione e narrazione. Il fare storia diventa quindi un sistema di azioni collettive, in cui la metodologia d’équipe deve essere condivisa e perseguita nel modo più corretto possibile, sia che essa si
produca come elaborazione teorica, sia come proposta concreta. Proprio per questo è necessario
svolgere qualsiasi operazione procedurale scientifica percependosi come una collettività che opera
sul principio del consenso unanime: ogni decisione (anche il disaccordo) deve essere espressione
consensuale dell'intera équipe. Nel fare ricerca ci rendiamo conto di come non basti più, ora che
l’equipe è un metodo, varcare la soglia degli archivi da soli, è chiaro che così facendo entrano in
gioco fattori soggettivi che indirizzano la ricerca verso un percorso specifico; Con pazienza, dunque, tanta pazienza, programmiamo visite in archivio almeno in coppia ed abbiamo elaborato parametri comuni nella descrizione dei documenti, per giungere poi ad un momento interpretativo corale. Tutto il percorso, dal rapporto diretto con la fonte alla sintesi finale è dell’équipe.
L'indipendenza dalla politica, la scelta di un'alternativa economica, l'appropriazione diretta dei mass
media e l’alleanza con gli attuali studi pedagogici sono scelte che implicano rischi. Ci permettiamo
di aggiungere, che al di là di tutte le dinamiche metodologiche e intellettuali, poter condividere un
lavoro dà di per se un senso diverso al lavoro svolto, ; entrare in un archivio in due rende tutto meno
complicato, spaventoso e siamo sinceri, a volte meno noioso.
Questo significa munirsi di un metodo, mutare le attuali strategie didattiche e divulgative o addirittura abbatterle. Non si tratta di creare una società di storici, ma una società permeabile alla trasmis sione e alla gestione critica dei saperi. Sviluppare la diffusione del pensiero sostenibile.
Eppure non sembra un progetto accarezzato dalla maggior parte degli studiosi e degli addetti ai lavori, perché questo equivarrebbe a cambiare la propria posizione, smantellare i canali ufficiali in cui
si consolida la propria carriera, recidere legami economici e politici che permettono la sussistenza
dello storico o dell'accademico.
Avere coraggio
Vogliamo a questo punto prevenire una delle prime obiezioni che ci verranno mosse (e in parte già
ci sono giunte) dopo la lettura di queste pagine: l’antieconomicità del lavoro in équipe e della metodologia che stiamo descrivendo. Decidere di lavorare in équipe implica un tempo più lungo di elaborazione, perché scegliere questa opzione per fare qualcosa che da soli svolgeremmo più velocemente? Una delle risposte più immediate sarebbe semplicemente “perché ne risulterebbe un lavoro
più completo, più approfondito e potenzialmente meno contestabile”. Certo, se ci affidiamo unicamente al rapporto tra tempo impegnato e guadagno ricavato, possiamo dire che il nostro è un lavoro
“in perdita”, ma se non ci vogliamo fermare a questa analisi e guardare al lavoro finito, non sarà difficile notarne i vantaggi in termini di precisione, fondatezza, molteplicità di prospettive fornite. Pensiero sostenibile.
Se considerassimo i saperi come una risorsa, se ci orientassimo al pensiero sostenibile nel suo senso
di ricerca, l’équipe ci apparirebbe più chiaramente come un mezzo di fruizione valido sia a livello
quantitativo, ossia di libera circolazione, sia qualitativo, vale a dire di ragionamento costruttivo ed
in continua evoluzione. Al di là di un mero calcolo costi/benefici, l’équipe punta ad un’idea forte di
comunità di relazioni, di strumenti, di idee e di discorsi che superano abbondantemente il confronto
tra il lavoro del singolo e quello corale.
Il piano di giudizio cambia. In un orizzonte di pensiero molto più ampio di quello prettamente storico, riteniamo che l’équipe possa essere una valida alternativa alla grande confusione, al grande buio
nel quale avvengono i frenetici cambiamenti, i massicci sfruttamenti e le superficiali decisioni che
troppo spesso governano la nostra quotidianità.
Occorre considerare il concetto di pensiero sostenibile in un’ottica di sviluppo sociale che sostituisca alla logica del “contenere” errori, costi ed esagerazioni, la logica del “correggere”.
Qualcuno potrebbe ritenere la nostra concezione di équipe una sorta di oppressione del singolo a
vantaggio di un organismo. In realtà non c’è l’esclusione di qualcosa o qualcuno, ma piuttosto la
scelta d’includere ed allargare il proprio pensiero. Non è importante chi siamo, ma cosa e come ci
esprimiamo. Il lavoro d'équipe, infatti, favorisce la crescita e l'arricchimento di tutti solo se si valorizzano i processi di partecipazione.
Riguardo al metodo di lavoro da seguire, pensiamo che le intuizioni, le ipotesi, la ricerca, le interviste debbano essere compiute il più possibile insieme, attraverso una metodologia di lavoro riproducibile anche in altri ambiti, ma sempre con un approccio scientifico. L’équipe partecipa in modo diretto alla creazione di significati del testo anche attraverso la scrittura: la dialettica infatti imprime il
moto dell'interpretazione.
Sì, tutto questo è difficile, il metodo di lavoro in équipe è arduo e faticoso, ce ne accorgiamo ogni
giorno, ogni volta che occorre organizzarsi per andare in archivio, per decidere criteri comuni da se-
guire nella descrizione dei documenti, per rapportarci con il mondo esterno e con gli altri collettivi
con cui siamo in contatto. Per ora, grazie a questo saggio, stiamo sperimentando un “metametodo”,
dettato da un nostro ragionamento che sta evolvendo nel momento stesso in cui ci confrontiamo e
scriviamo.
Crediamo dunque che il lavoro dell’équipe, la nostra équipe in particolare, debba partire da queste
riflessioni, ma non debba definire e tradurre in modo dettagliato ciò che fa – ci sembrerebbe di tradire il suo stesso spirito – quanto piuttosto dire “come essa spera progressivamente di farsi”.
Non stiamo fissando l'immutabile, questa sarà solo la versione 1.0. Le idee che formuleremo coralmente, a una lettura successiva, ci sfuggiranno, ci appariranno incomplete, insoddisfacenti, le percepiremo lontane da noi e per questo motivo le cambieremo.
Quando cadono i grandi tocca ai piccoli guidare
Noi nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze, nasciamo sprovvisti di tutto e
abbiamo bisogno di assistenza, nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio.
Tutto ciò che non abbiamo alla nascita e di cui abbiamo bisogno da grandi, ci è
dato dall’educazione.
Questa educazione ci viene dalla natura, o dagli uomini, o dalle cose. Lo
sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi è l’educazione della
natura; l’uso che ci si insegna a farne è l’educazione degli uomini; l’acquisto di
una nostra propria esperienza sugli oggetti che ci colpiscono è l’educazione
delle cose.
1. Un po’ di storia
1762. Forse conviene iniziare da qui. Non siamo poi così distanti dalla pubblicazione per la prima
volta del Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini di
Rousseau, in cui grande spazio è dedicato al tema dell’educazione e del sapere come mezzo per
emancipare se stessi, diremmo oggi. Per quanto non si possa parlare appieno di una teoria
pedagogica consapevolmente strutturata nel pensiero di Rousseau, possiamo iniziare a ripercorrere
tracce sparse di queste riflessioni, fino a ritrovarle due secoli dopo nelle parole e negli scritti di un
altro pensatore francese: il Michel Foucault di Sorvegliare e Punire. L’idea del sapere come
espressione di potere nella gestione delle verità e delle conoscenze ci riconduce ad un sistema
complesso che pervade la fisicità e la politica intesa con l’accezione di controllo del corpo che
ancora oggi è al centro della discussione sulle istituzioni. L’anno preciso è il 1975 e non ci dovrebbe
stupire il fatto che sia lo stesso periodo in cui nelle aule dei tribunali (istituzione) venivano dibattuti
casi emblematici di un sistema educativo escludente e classista come quello dell’Istituto Medico
Psico-pedagogico Villa Giardini, nel nostro modenese (guarda caso un’altra istituzione). Istituzioni
che Basaglia, non solo in riferimento al manicomio, chiamava totali, e che ben si raccordavano con
l’istituzione carceraria. Villa Giardini, un istituto per minori, privato e convenzionato con l’ente
pubblico, in cui non vi sono persone, ma matti, vagabondi, figli di emigranti e derelitti. Queste sono
più o meno le categorie che appartengono ad un modello di pensiero che si fa sistema e in
particolare si qualifica come educativo, fortemente influenzato dal proprio passato e costretto a
costruire le proprie pratiche e metodologie sul suo bagaglio culturale di riferimento. Ma non
corriamo, non seguiamo la tentazione della generalizzazione, della provocazione, ma afferriamo il
consiglio/critica di Elisa, pedagogista e amica. Proviamo a dipanare una matassa densa e
coinvolgente, cerchiamo di fissare alcuni punti, forse a volte nemmeno i più importanti della storia
della pedagogia, per comprendere il paradigma educativo del presente e scorgerne le prospettive.
Il progetto più completo e organico di riforma dell’educazione nella Francia rivoluzionaria fu
presentato all’Assemblea legislativa nel 1792 da J.A. Caritat marchese di Condorcet (1743-1794).
L’impostazione da cui trae spunto la sua proposta è decisamente sollecitata dai lumi del suo tempo:
l’istruzione è il mezzo più diretto per sollevarsi dalla miseria, dunque uno Stato deve fornire a tutti
gli strumenti per poter provvedere ai propri bisogni ed essere in grado anche di contribuire al
benessere comune. La stella polare, come risulta evidente, è dunque l’uguaglianza. Il sillogismo è
semplice: più persone istruite uguale a meno persone povere. Meno persone povere, uguale a una
società più giusta.
La proposta di Condorcet era decisamente articolata (cinque gradi di istruzione, formazione degli
insegnanti di ogni grado all’interno del grado successivo di istruzione…), ma ciò che ci interessa è
il tentativo di costruire una scuola in cui lo Stato non avesse autorità. Una scuola in cui il potere
pubblico non potesse impedire la genesi di nuova conoscenza. Fin qui ogni cosa ci risulta familiare,
anche se già iniziamo a percepire, per quanto possa essere sottile e silenzioso un paradosso che
solamente più avanti si espliciterà. Ci basti sapere per ora che, anche nella teoria più profondamente
connessa al secolo dei Lumi, la scuola si doveva occupare dell’oggettività dei fatti, senza occuparsi
di trasmettere opinioni politiche o religiose. Ecco l’istruzione come mezzo di trasmissione di un
sapere oggettivo, fattuale e dunque vero. Al resto dovevano pensare la famiglia e la Chiesa. Basta.
Sul concetto di verità potremmo a questo punto perderci inseguendo le innumerevoli discussioni
aperte dalla storiografia, ma è di rilievo comprendere dove ci conduce la strada che abbiamo appena
cominciato a battere e che abbraccia solamente due secoli di storia.
Negli anni in cui il Rousseau dell’Emilio scriveva, le società dell’occidente stavano lentamente
immergendosi in quella fase storica che solitamente, nei manuali per le scuole superiori, viene
rigidamente periodizzata così: la prima rivoluzione industriale. Mentre i manualisti si dimenano tra
un mezzo secolo di esistenza – tra gli anni Ottanta del Settecento e i primi Trenta dell’Ottocento – e
che ci piaccia identificarla con i telai inglesi o con una bella macchina a vapore di Watt, la
rivoluzione industriale è contraddistinta da processi di alta fermentazione anche nel mondo
dell’educazione; ciò porta a compimento alcuni paradossi tipici del mondo che cambia. La
convincente teoria secondo la quale l’educazione emancipa le coscienze e contribuisce ad elevare
l’essere umano dalla povertà materiale e spirituale, collide in modo evidente e fragoroso con la
differenza sociale prodotta dal diffondersi della grande industria e della manodopera a basso costo.
Come armonizzare l’evidente importanza dei saperi teorizzata dagli illuministi con l’imposizione
delle 14-16 ore di lavoro giornaliere? E come rispondere alla necessità crescente di manodopera
specializzata?
Se all’apparenza possono apparire domande retoriche o banali, poste a paragone con il nostro
presente o con il nostro futuro, si dimostrano assai attuali e centrali nei meccanismi dell’istituzione
scolastica. Le teorie educative proprie di quella contemporaneità trovano dunque spazio e si
mescolano nelle numerose teorie filosofiche di tutti i pensatori. Questi pensieri sparsi sulle pratiche
educative e la loro importanza, trovano del resto spazio anche all’interno del mondo socialista e ai
suoi richiami «all’educazione collettiva» come condizione primaria «per il riscatto umano dalle
miserie della terra» così come nelle teorie più idealiste dei romantici, secondo le quali l’educazione
è una questione privata e appartiene all’autonomia del proprio Io interiore.
Su queste basi, ancora fortemente improntate dalle teorie del secolo dei Lumi, inizia a prendere
forma con lentezza, ma in modo inesorabile, la scuola che oggi conosciamo, imboccando strade a
volte chiuse, a volte dissestate, a volte in salita, ma che in un modo o nell’altro hanno contribuito a
delineare i contorni di quella odierna.
Se dunque abbiamo attraversato in questa nostra corsa la Francia e l’Inghilterra, ora ci ritroviamo
nella Germania della Bildung (educazione), intesa qui non come un insieme di conoscenze, ma
come la capacità dell’essere umano di realizzarsi.
In contro luce abbiamo quindi fotografato le grandi teorie che ci hanno accompagnato fino ad oggi e
ci ritroviamo a confrontarle con alcune discussioni molto attuali e che riempiono numerosi spazi
che abitiamo: pluralità d’intelligenze, otri da riempire, organizzazione degli spazi e della didattica,
attenzione al soggetto, centralità dell’oggetto.
Scintille dalla fucina.
E un incendio all’orizzonte.
La ragione.
Tale incendio come spesso accade parlando di straordinari fenomeni culturali conta più punti di
innesco, si diffonde in modo irregolare e dà spazio a interpretazioni dell’evolversi della società
molto diverse a seconda di chi le formula. Senza voler essere eccessivamente sintetici possiamo
però brevemente accennare che «l’approccio scientifico ai problemi dell’educazione coincide, verso
la metà dell’Ottocento, con lo sviluppo della società di massa». Questa tendenza culturale ha un
significato ben preciso e conduce alla nascita di numerose teorie educative: da quelle del
positivismo evoluzionistico a quelle più vicine al marxismo, fino a quella d’impronta sociologica di
Durkheim che già nel 1922 intendeva studiare in modo storico–scientifico l’educazione,
intendendola come un fenomeno sociale e pertanto da adattare alla società.
«In Italia la cultura del Positivismo si afferma come tentativo di consentire alla cultura di affrontare
in modo realistico, nel periodo post-risorgimentale, i gravi problemi sociali della nazione, dal cui
assetto istituzionale e giuridico non possono essere separati. Il nuovo Stato ricevette
un’organizzazione fortemente accentrata e caratterizzata da una forte “piemontesizzazione”: l’intera
vita politica era regolata nei ministeri della capitale, mentre vennero estesi a tutto il territorio i
sistemi normativi del Regno sabaudo». Mentre cercherete affannosamente l’autore di questa
citazione sappiate che il suo contenuto è valido anche per il sistema educativo.
A questo punto potremmo continuare a lungo con l’analisi storica del percorso che ci ha trascinati
agli attuali sistemi educativi e istituzionali che governano la crescita dei bambini e degli adolescenti
nel mondo occidentale. Potremmo adottare un punto di vista nazionale o europeo e seguire l’iter
politico amministrativo che ha dato origine nel dettaglio ai differenti gradi di istruzione, così come
potremmo procedere come abbiamo fatto fino ad ora compiendo lunghi balzi e osservando come le
diverse teorie delle idee hanno generato di conseguenza altrettanti modelli educativi. Si potrebbe
altrimenti continuare fornendo un elenco analitico degli autori “chiave”, classificando coloro i quali
si sono posti contro il positivismo della ragione tra fine Ottocento e inizio Novecento. Potremmo
aprire un varco ampio e forse necessario per far spazio alla riforma Gentile. Ma forse a questo
punto, come dicevamo, conviene fare una pausa. Vi sono tutti gli spunti per una ricerca corale. Ora,
però, riflettete. Godetevi un buon bicchiere d’acqua. Una boccata di ossigeno.
Una sosta lungo la strada.
Bene.
Riprendiamo.
Da un altro punto.
Non così distante. Anzi.
Immedesimiamoci per un momento e leggiamo un paio di brevi aneddoti.
2. Impressioni sul presente
Scuola Media. Ora secondaria di primo grado. Classe definita «speciale».
È il 2011. Una giornata di ottobre, di quelle ancora belle calde che ti chiedi dove sono finite le
mezze stagioni e ti rendi conto che lo stai pensando dall’interno di una stanza con 28 banchi
disposti al centro per accogliere una riunione di professori di scuola media, la dirigente scolastica e
i servizi sociali del distretto. Oltre alle mezze stagioni, ti chiedi anche cosa ci stai facendo tu, lì
dentro. Hai studiato storia, in questo caso non hai assolutamente l’abilitazione per insegnare nulla,
sei un educatore, rigorosamente non professionale, sottopagato da una Cooperativa sociale a cui è
stato chiesto di fornire due figure di “educatori” per un progetto funzionale alla riduzione della
dispersione scolastica. Sì, ti senti anche un po’ fuori luogo. Nonostante tutto, però, non ti rassegni,
prendi posto a uno dei banchi e noti la parola “cazzo di merda” intagliata con saggia e abile
maestria sul legno. L’incontro serve a pianificare l’anno scolastico di questa particolarissima classe
dal simpatico nome di “Futuro oltre il banco”. Non è la solita classe di scuola media. È un
“innovativo” (innovativo?) progetto in cui 15 tra ragazzi e ragazze pluri-bocciati di tutto il distretto
scolastico sono stati accorpati in una unica classe che dovrà accompagnarli all’esame di terza media
contando sul buon funzionamento di un’équipe multidisciplinare. E non puoi fare a meno di
pensare all’uso improprio dei termini.
Funziona così: tu acciuffi 15 adolescenti, metà stranieri, metà del sud Italia più un paio di autoctoni
e li costringi a vivere dentro una stanza, seduti al loro posto per qualche ora. Nella stessa stanza,
mediante un’ampia fessura che chiamano porta infili a turno i professori di ruolo della scuola
media, ovviamente inconsapevoli del progetto. Ricordati della psicologa un’ora alla settimana e
delle due immancabili guardie del corpo travestite da educatori e guardi cosa succede. In teoria,
pensi ne verrà fuori un capolavoro di promozioni a raffica. Ed eccoti il progetto innovativo. Se
cerchi di non pensare al fatto che tutto ciò sia sbagliato e bisognerebbe far tabula rasa e costruire
ben altro, puoi provare a far notare almeno che un consiglio di classe al mese, di un’ora e trenta, in
cui pianificare le attività e discutere dei ragazzi è un po’ poco, ma nessuno ti ascolta. Puoi provare a
dire che bisognerebbe combinare delle strategie individuali e di gruppo, immaginare e organizzare
delle attività educative non formali e modalità laboratoriali attraverso cui le discipline scorrono e si
dispiegano. Ma ti verrà risposto che «non sono mica degli artisti!». Che «non hanno interessi!». Se
provi a insistere scopri che il colpo mortale non l’hanno ancora sparato, fino a quel momento si
stavano scaldando. «Noi siamo professori, siamo qui per dirgli le cose che devono sapere e ci
devono portare rispetto. I loro problemi vanno visti dagli assistenti sociali o dagli psicologi. Se sono
gravi dagli psichiatri». «La scuola li deve educare, per il resto ci sono altre professionalità».
Friuli. Scuola elementare. Ora scuola primaria. Laboratorio di storia.
I bambini e le bambine vengono condotti dentro un’aula dell’archivio comunale di turno che
accoglie. I tavoli sono pronti per far lavorare gruppetti più piccoli rispetto all’intero gruppo classe.
Già pronti in bella mostra alcuni documenti di archivio per ognuno di loro. Titolo del laboratorio:
Vivere in guerra. La vita quotidiana durante la prima guerra mondiale. Le finalità: «educare ad una
cittadinanza consapevole attraverso la valorizzazione dei luoghi legati alla storia della Prima Guerra
Mondiale e la conoscenza della storia locale; stimolare le capacità di osservazione e di analisi verso
il patrimonio storico della propria città e le forme di memoria presenti nel tessuto urbano». Gli
obiettivi: «conoscere le emergenze culturali e architettoniche della propria città; comprendere e
interpretare documenti; costruire collegamenti fra la storia locale e quella generale; conoscere
aspetti specifici di un evento storico». Tempo: 3 ore. Encomiabile. Poi a casa. Lavoro preparatorio
svolto in classe: nessuno. Lavoro da svolgere in seguito: nessuno. I documenti sono già stati scelti e
forse nessuno si è curato di spiegare cosa è un documento. Per interpretare i documenti vengono
poste domande precise. Le risposte, chi fa le domande, le sa già. Il suo obiettivo è carpirle dalla
voce dei bambini. I contenuti che si vogliono far passare (come se si trattasse di osmosi) sono ben
chiari a chi conduce. Non ha importanza il pensiero dei bambini, ciò che davvero conta è creare
abbastanza spazio nel loro cervello per farci stare il materiale che dobbiamo archiviare. Un bel
garage vuoto. Ogni tanto nel caos che regna sovrano riuscite anche a tornare presenti a voi stessi,
mentre anche in questo caso vi chiedete come siete finiti in quella situazione, ma poi l’esperto
dell’archivio vi ricaccia nel vostro angolino in cui cercavate riparo. Stava urlando «Io sono un prof.
mi dovete ascoltare».
Ecco.
Finita la pausa.
Forse si stava meglio prima.
Si aprono in questo modo anche nel nostro cervello due finestre parallele come se fossero due
pannelli del vostro browser. Da una parte il ragionamento, a nostro avviso centrale, relativo al
cambio di paradigma che è necessario affrontare per il tipo di problematiche connesse alle società
future, dall’altra l’evidente disinteresse che la storia, in particolare come disciplina accademica, ma
non solo, ha dimostrato nei confronti dello sviluppo di discussioni e confronti per aprirsi al come
insegnare la materia. Alla didattica. Quel capitolo 5 che Bloch nel suo libro più famoso non fece in
tempo a scrivere. Sono passati quasi settanta anni e nonostante tutto siamo ancora fermi, incastrati
tra quelle pagine bianche.
3. Un paradigma in crisi
E allora quale modello educativo dovremmo, anzi vorremmo, prendere come riferimento? Quale
strada si prospetta davanti ai nostri piedi? «Franca Pinto Minerva sostiene l’urgenza da parte della
pedagogia di rivedere la propria articolazione concettuale e di considerare l’apertura
interdisciplinare come elemento fondamentale per la riformulazione del concetto di formazione.
Dello stesso avviso sembra Giorgio Chiosso il quale afferma che l’uomo contemporaneo deve
imparare a familiarizzarsi con le dissolvenze e con il pluralismo metodologico, a costruire logiche
inter- e poli-disciplinari per definire nuovi schemi cognitivi, oltrepassare i confini disciplinari
tradizionali e procedere a forme di ibridazione fra competenze scientifiche diverse. Sembra ci sia
accordo, dunque, nell’auspicare il superamento del modo riduttivo in cui il concetto di educazione
viene inteso dai paradigmi interni alle singole discipline e nell’affermare la necessità di un
approccio interdisciplinare che metta la pedagogia in relazione con i saperi che le altre scienze
umane e sociali elaborano. Si tratta, sostiene Concetta Sirna, «di saperi necessari per leggere e
decifrare meglio l’evento educativo nella sua complessità». Franco Frabboni, a sua volta, parla di
un rinnovamento della pedagogia che dovrebbe «cambiare pelle scientifica e slargare il proprio
compasso ermeneutico, rifondando la propria teoria della conoscenza». In effetti, l’apertura
interdisciplinare sembra costituire una strategia conoscitiva efficace per far fronte ai molteplici
problemi concettuali ed operativi che la condizione postmoderna pone alla pedagogia. Mi trovo
d’accordo con gli studiosi sopra ricordati sul fatto che una simile scelta, se assunta fino in fondo,
implicherebbe profonde innovazioni all’interno di quadri accademici consolidati».
Jerome Bruner, psicologo americano, considera il pensiero narrativo il primo dispositivo per
conoscere e interpretare la realtà e sostiene che «il pensiero umano è essenzialmente di due tipi: il
pensiero logico-scientifico e il pensiero narrativo. Questi due modi di pensare, pur essendo
complementari, sono irriducibili l’uno all’altro. Il pensiero narrativo si occupa del particolare, delle
intenzioni e delle azioni dell’uomo, delle vicissitudini e dei risultati. Il suo intento è quello di situare
l’esperienza nel tempo e nello spazio. Il pensiero logico-scientifico è un sistema descrittivo e
matematico, ricorre alla categorizzazione e alla concettualizzazione, è teso a trascendere il
particolare e a conseguire un elevato grado di astrazione». Provando a riassumere per punti i due
tipi di pensiero individuati dallo psicologo, potremmo dire che il pensiero logico scientifico (o
paradigmatico):
descrive; cerca Verità scientifiche;
utilizza come strumenti: logica, matematica;
si basa sulla creatività: teorie, analisi, argomentazioni scientifiche;
dall’altra invece, il pensiero narrativo:
interpreta;
parla di verità per il soggetto, non di verità assolute;
utilizza come strumenti: la lingua, le regole sintattiche e morfologiche, arte;
si basa sulla creatività: sostanziale, libertà assoluta della mente.
Ora potremmo chiederci: i due modelli possono coesistere, oppure uno esclude l’altro? Per
rispondere vi portiamo l’esempio di Charles Darwin, il padre dell’evoluzionismo.
Nel 1831 tra l’insoddisfazione e il disinteresse verso gli studi di teologia e ancor prima di iscriversi
a medicina, ma felice della sua collezione di coleotteri e armato della sua passione per la botanica
partì per un viaggio di 5 anni intorno al mondo. Durante questi anni raccolse le sue intuizioni su
alcuni taccuini e lo fece in due modi: attraverso la scrittura diaristica e attraverso il disegno. Questo
esempio mostra come il pensiero narrativo sia molte volte il supporto fondamentale per la
generazione di teorie di stampo scientifico e di come quindi i due possano, non solo coesistere, ma
essere l’uno complementare all’altro.
Uno splendido esempio è lo schizzo del corallo della vita come un modello capace di spiegare
meglio di quello ad albero, l’evoluzione. La scienza dunque, spesso è frutto di intuizione e pensiero
narrativo.
“E quindi?” Vi starete chiedendo.
Quindi crediamo che nell’ambito accademico l’attuale modello sia profondamente in crisi, quello
della nostra disciplina prima di tutto. È necessario trovare lo spazio per discutere e progettare
strategie che tengano conto anche di tali teorie per aprirci al nostro presente. Teorie e ragionamenti
che non possono essere separati dall'intuizione, dalle ipotesi, dalla ricerca, dalla scrittura, dalla
comunicazione, dalla didattica e dall'educazione. Troppo spesso tendiamo a considerare il presente
più complesso del passato, ma che a nostro avviso semplicemente richiede forme di pensiero che
utilizzino categorie attuali, pur nella consapevolezza del processo storico che le ha prodotte.
Crediamo dunque si ponga una questione ormai ineludibile nel dibattito storiografico come in
qualsiasi altra disciplina. Come affrontare l’insegnamento? Come pensare la diffusione di ciò che
viene pensato, ricercato e creato? Come pensare ad un modello educativo differente che tenga conto
delle persone in quanto espressioni di micro-mondi culturali differenti? Come usare gli strumenti di
cui disponiamo non per servirci dell’altro, ma perché l’altro si serva di ciò che lo circonda? In
questo senso il video di Ken Robinson è interessante: invita a ripensare il nostro sistema educativo
alla luce di teorie neanche poi così moderne, sintetizza le precedenti teorie per fornire una via
d’uscita da un modello considerato in crisi. Il pensiero divergente.
The Selfish Gene, saggio di Richard Dawkins degli anni Settanta, si è rivelata la fonte ispiratrice
del romanzo di Tony Brugees Pontypool Changes Everything; e da quest'ultimo
muove i propri passi Il recente film Pontypool del 2008 sintetizza queste due esperienze. Un
morbo si propaga mediante alcune parole infette; non appena le persone comprendono quelle
parole, tendono a ripeterle continuamente nel tentativo di liberarsene. I contagiati cessano di vivere
per autodistruzione o tentano di masticare la propria bocca o di un'altra persona nella ripetizione. I
protagonisti del film adottano una tecnica che si dimostra un buon antidoto al virus: privano
totalmente di senso la parola infetta, ricostruendo un altro senso, usando un'altra lingua che non sia
l'inglese. L'intero “paradigma” su cui il morbo fondava la sua esistenza.
Sid: "Uccidere...Uccidere... uccidere... uccidere... ”
Grant: “Syd, stai bene? Ok, credo tu abbia detto una parola infetta. Sei infetta.
Però sappiamo che parola è.!Non dire niente. No, fermati!Fermati! Sappiamo che parola e'!”
Pausa.
Grant: "Uccidere non è uccidere... uccidere non è uccidere...uccidere....non è uccidere...
Pausa.
“Oh Dio, cosa faccio... non lo so!Uccidere è Meraviglioso, uccidere è bello, uccidere è bambino
uccidere è un giardino..uccidere è un tramonto... uccidere è tutto quello che hai sempre sognato...
Pausa
“Uccidere è Baciare...”
Uccidere è baciare, ma non basta.
1973. Gianni Rodari in quello che lui definisce «libretto», ossia Grammatica della fantasia,
fornisce una serie di strumenti pratici e di tecniche concrete volte a creare nel processo educativo
ampi spazi per l’immaginazione. Invenzione, gioco e creatività vengono così rivendicati come
strumenti costitutivi di un approccio alla realtà e di un processo educativo. L’immaginazione
diviene così l’insieme di stimoli e impulsi che permette la crescita della persona in società. La
creatività «va coltivata in tutte le direzioni». Sarebbe interessante comprendere, nel rapporto
Emilia-Mondo (si, permetteteci un po’ di campanilismo), quale sia stato storicamente il ruolo del
pensiero e delle tecniche di Gianni Rodari. Sicuramente possiamo assistere ancora oggi alle diverse
brecce aperte da queste sue riflessioni. Qualcuno, in un recente saggio, ha accusato di rodarismo la
scuola italiana, ma le parole dello scrittore piemontese non sono mai divenute pratica sistemica e
nuovo paradigma, ma solo uno spazio di lusso confinato e ben delineato all’interno di un complesso
che ancora oggi si muove in un’unica direzione. Integrazione facoltativa in un sistema e non sistema
a sé. Importante allora porsi alcune domande per il futuro. Se quello spazio allora rivendicato fosse,
al contrario, l’assioma su cui costruire l’intero sistema educativo dall’infanzia all’università? Se
immaginazione, gioco, creatività fossero i mattoni di un paradigma fondato sull’interdisciplinarietà?
Quanto alla parola “mattone” ricordiamo il test americano di creatività, di cui parla Marta Fattori
nel suo bel libro Creatività ed educazione. I bambini vengono invitati, con quel test, ad
elencare tutti gli usi possibili del “mattone” che conoscono o che riescono ad immaginare.
«Purtroppo test del genere non hanno lo scopo di stimolare la creatività infantile, ma solo quella di
misurarla per selezionare “i più bravi in immaginazione”, così come con altri test si selezionano i
più bravi in matematica. Avranno la loro utilità, naturalmente. Ma in sostanza perseguono scopi che
passano sopra la testa dei bambini. Il gioco del “sasso nello stagno” che qui ho brevemente
illustrato, invece, si muove nel senso opposto: deve servire ai bambini, non servirsi di loro».
Sir Ken Robinson non cita il mattone, ma la graffetta. Fa differenza?
4. Un po’ di fantasia
Prendiamo a questo punto in prestito da Bruno Munari, artista e designer, il termine di pensiero
laterale: verso la fine degli anni Sessanta, dopo l’esperienza dei Libri illeggibili (sì, avete letto bene,
cercate su Google) individua significati differenti per i termini fantasia, invenzione e creatività.
Con il termine fantasia si indica la possibilità di concepire, di pensare ciò che prima non c’era, e
quando la fantasia comincia a funzionare, ecco l’invenzione, che fa diventare immagine ideale e
progetto il lavoro della fantasia. Il “materiale” di cui l’invenzione si serve è ciò che già si conosce,
ciò che già c’è, ma l’invenzione consiste proprio nel ricombinare idealmente questo materiale,
empirico o astratto che sia, in modo nuovo e originale. Ma questo non è ancora un atto creativo,
perché la creatività è per Munari, la capacità-possibilità di realizzare e mettere in pratica (che
significa anche far entrare in relazione con gli altri) ciò che la fantasia ha concepito e l’invenzione
ha trasformato in progetto.
«A livello educativo questo significa che l’invenzione e la creatività non hanno bisogno solo di doti
intellettuali, non sono solo idee e pensiero: nascono e vivono anche grazie ai luoghi e ai materiali
attraverso cui è loro data la possibilità di prendere corpo. […] È ben chiaro, d’altra parte, che anche
la fantasia, se non è alimentata, incoraggiata, allenata dall’abitudine e dalla pratica inventiva e
creativa, si affievolisce e scompare dall’orizzonte del pensare e del fare». A queste teorie si
aggiunge, sempre nel dopoguerra, il concetto di pensiero divergente: una nuova facoltà mentale, un
tipo di intelligenza differente dalla più convenzionale abilità di risolvere problemi standardizzati in
modo altrettanto standardizzato. Si inaugura così la tendenza americana a ricercare e classificare
diverse forme di intelligenza. Una concezione questa che trova oggi il suo più marcato sostenitore
in Howard Gardner e nella teoria di intelligenze multiple.
Quello che ci piacerebbe riuscire a fare in modo più deciso, nella nostra disciplina di provenienza,
la storia, ma in generale nella relazione tra le discipline umanistiche e scientifiche, è riuscire a
localizzare uno spazio di discussione e approfondimento in cui porre a confronto le questioni
appena accennate. Vogliamo provare, anche noi, il piacere/bisogno dell’atto creativo corale. Tante
volte, guardandoci alle spalle abbiamo rischiato di essere (o siamo stati) l’insegnante vestale che
detiene il monopolio dei saperi.
Quale che sia la materia che trattiamo, dobbiamo essere artigiani consci delle opportunità che la
contemporaneità ci offre, di incoraggiare il pensiero divergente e d'equipe in noi e in chi ci sta di
fronte. Esercizio in noi e fuori da noi. Troppo spesso tendiamo a ricompensare solo le risposte
“giuste” e a penalizzare quelle “sbagliate”, eppure “sbagliando s’inventa”.
Le scuole hanno le loro regole e regolamenti, i loro modelli normativi di procedura, di condotta e
coercizione, troppo spesso chi si conforma, rinunciando a sé, riesce a convivervi in maniera più
serena di quello non conformista e molto fantasioso. Nelle scuole quotidianamente assistiamo a veri
e propri delitti. Le idee divergenti a volte sono considerate originali e di valore, ma spesso sono
ritenute stravaganti e sciocche, inducendo l’insegnante a sospettare che il bambino o il ragazzo stia
soltanto “facendo il furbo” o abbia semplicemente qualche problema da risolvere o peggio ancora
non abbia ben compreso come si deve stare in società. Sfortunatamente (o fortunatamente) la
creatività è una cosa imprevedibile e noi non possiamo pretendere che si estrinsechi sempre in una
forma adatta alle circostanze del momento: proprio in questa fase nascono le innovazioni che
disgregano le alternative fino ad allora postulate e le prospettive calcolate. Ciò che noi possiamo
fare è cercare di essere consapevoli del contesto in cui ci muoviamo e del suo passato e che la
nostra disciplina, come molte di quelle umanistiche, sta vivendo un periodo di profonda crisi
rispetto ai temi che abbiamo affrontato. In quest’ottica squisitamente storica possiamo, forse,
provare a metterci in discussione. Adottando nel metodo d'equipe la necessità del cambio di
paradigma. Impegnarci insomma a sperimentare noi quel capitolo cinque che Marc Bloch non fece
in tempo a cominciare.
Meno Uno
Lentamente. Eccoci a una falsa conclusione.
Dopo aver formulato un'ipotesi, dopo aver affrontato una fase di sperimentazione più o meno
convincente, dopo aver costruito alcune interpretazioni più o meno condivisibili, sembra sia giunto
il fatidico momento delle conclusioni. Ma forse è meglio dire che siamo giunti al capitolo finale che
conclude questo scritto e ci permettiamo di esprimere il nostro disagio nel terminare con la classica
e abusata formula delle conclusioni. Una conclusione infatti presuppone una sintesi di quanto è stato sperimentato, di ciò che è stato interpretato, una più generale ricognizione dei risultati ottenuti e
l'indicazione vaga e appena accennata delle possibilità che potrebbero verificarsi in una probabile
ricerca futura.
In verità, secondo il nostro punto di vista, non vi è alcuna conclusione da fare. Ci sembra opportuno, invece, chiarire che dobbiamo ancora cominciare un percorso.
Oggi, con questo lavoro, si è solamente materializzato un discorso generale, una volontà in costruzione che intravediamo, ma a cui non possiamo dar sostanza se non con un reale impegno d'équipe
su un oggetto vivo di ricerca.
Partiamo, quindi, da meno uno.
Dopo una lunga riflessione, dopo aver impiegato ore anche solo per decidere il valore di una singola
parola, non ce la siamo sentiti di condurre una ricerca storica, e dunque di mettere in pratica il metodo che abbiamo abbozzato, senza prima aver condiviso e discusso con altri soggetti l’idea da cui
ogni cosa prende e prenderà spunto: un approccio metodologico d'équipe. Questo è il metodo proprio del nostro lavorare in équipe e non vediamo ragione per non applicarlo anche a noi stessi.
Crediamo che la creazione della discussione, di una dialettica tra esperienze diverse tra loro, sia il
punto zero da cui cominciare e non possiamo, noi che stiamo provando ad esprimere un metodo,
esimerci dall’applicarlo. Per questo, partendo appunto da meno uno abbiamo deciso di scoprire, indagare: vorremmo sapere se lì fuori, da qualche parte, esiste qualcun altro che percepisce un’incoerenza nel suo lavorare individualmente. È la paura della solitudine dello storico che ci ha unito, e da
questo sentimento abbiamo preso la forza di porre in discussione quanto abbiamo elaborato in questi anni.
Desideriamo aprire uno spazio di confronto sul lavoro in équipe, sentendo la necessità di creare un
punto di riferimento in cui confrontarsi con tutte quelle persone che sono incuriosite da questo tema,
o che semplicemente, per ragioni diverse dalle nostre, si sono addentrate in esperienze cooperative,
corali, collettive, simili ma diverse.
Crediamo che un dibattito permanente e un conflitto perenne sulla metodologia siano opportuni
al fine di aggiornare e rinnovare costantemente il proprio modo di fare ricerca, per evitare di
cristallizzare i processi di rinnovamento.
Come detto in precedenza, non esistono diritti d'autore sui metodi d'équipe, nemmeno esiste
un'immutabile versione di riferimento, ciò che è essenziale è il confronto, unica reale strada di crescita, se si crede realmente nella necessità di non imprigionare un pensiero, ma al contrario di
espanderlo, stando attenti a non cadere nell’inganno di definire come oggettivi pensieri soggettivi,
se si vuole tendere verso la verità si è obbligati ad accettare l’errore.
Viviamo in tempi in cui il concetto di comunicazione è profondamente mutato. Internet ci dimostra
come la creazione e la fruizione di conoscenza siano necessariamente svincolati da un unicum, dove
vi è qualcuno che si pone come detentore: la rete è libera e liberi son i suoi contenuti. Nel mondo
digitale ogni risorsa, sia essa video, audio o un’immagine, può essere libera, accessibile e comune.
Ma per far sì che un pensiero diventi comune, in una collaborazione d’equipe, bisogna non fermarsi
qui: le risorse devono essere creative commons, devono essere, per intenderci, a disposizione
di chiunque, aggiornabili e modificabili. Migliorabili, o peggiorabili da chiunque.
Pericoloso penserete voi. Sì diremo noi. Io pericoloso e sì li metterei tra virgolette, mi sembrano più
diretti e più d’impatto visivo.
Il pensiero comune descrive un’opera cartacea come qualcosa di monolitico, inalterabile, stampato,
definitivo, ma se noi astraiamo l’inchiostro dalla carta ci rendiamo conto che nulla è immutabile;
leggendo un testo si da vita ad un pensiero, i ragionamenti liberi nella mente si intrecciano con la
fissità delle parole stampate, dando vita ad una nuova realtà soggettivamente intesa in circostanze di
solitudine, ma meravigliosamente condivisibile in équipe.
Queste stesse parole non fanno riferimento ad un pensiero unico, non sono, come abbiamo detto,
frutto di due mani e una testa, e allora perché limitarle ad otto mani, perché solo quattro teste, è possibile, e secondo noi necessario, andare oltre, senza paura; ancora una volta crediamo che nel conflitto, o meglio, nella sua valorizzazione, si possa ottenere più di quanto si perda.
Ecco. Noi pensiamo al metodo in équipe come ad un approccio in divenire che non può essere identificato con una sola e unica versione, ma che necessariamente si confronta costantemente con se
stesso.
Aprire uno spazio di discussione contribuirà a migliorare e a rendere più partecipato e funzionale il
metodo utilizzato.
Questo parallelismo con il mondo del web ci permette, inoltre, d'introdurre un altro tema con cui è
necessario misurarsi: l'apertura di spazi di discussione non può relegarsi soltanto ad ambienti fisici.
La necessità è quella di trasporli su nodi telematici aperti dalle singole équipe o da un'unione di esse
e a qualsiasi individuo interessato. Questo aspetto, in effetti, ci darebbe la possibilità di entrare in
contatto con soggetti e individui di qualsiasi Paese del globo e allo stesso tempo ovviare a rigide
forme convenzionali organizzative.
Non cadete nel facile pregiudizio che le generazioni di oggi non siano in grado di vivere le relazioni. Siamo ben consapevoli che queste non sono risposte esaustive ai nostri propositi di discussione,
ma d’altra parte il web e le sue forme di interazione offrono possibilità di relazioni e contatti preziosi. L'apertura di un sito, di un blog o di un forum non solo è funzionale alla discussione e alla diffu sione di quest'ultima, ma sarebbe utile per implementare una qualsiasi opera storica pubblicata, la
sua accessibilità e la sua critica.
Ci spieghiamo.
Come abbiamo precedentemente analizzato, non possiamo più accettare che il libro (inteso come
qualsiasi forma di espressione culturale concreta), frutto di un lungo percorso di ricerca, possa esaurirsi nella sua forma più classica e più diffusa, ossia quella cartacea. Lo spazio telematico ci permetterebbe prima di tutto di pubblicare ciò che per ragioni editoriali, di tempo o semplicemente di pertinenza esclusiva è stato eliminato: ecco quindi che è possibile fornire i riferimenti d'archivio, bibliografici e bozze interpretative di spunti di ricerca rudimentali e non ancora definiti in una precisa
finestra dello spazio telematico.
La pubblicazione di frammenti del percorso di ricerca, documenti audio e video delle sedute
d'équipe, audio letture dell'opera, versioni e bozze della pubblicazione contribuiscono a mettere a
nudo un percorso, offrire uno sguardo e una panoramica dell'iter affrontato.
La tracciabilità della ricerca significa poter ripercorrere la fase delle ipotesi fino a quella interpretativa, passando per la citazione delle fonti e là, dov'è possibile, provvedere alla loro trascrizione e digitalizzazione così che gli stessi documenti siano scaricabili e accessibili direttamente dal web.
Questa la teoria, meravigliosa, affascinante nella sua enucleazione,; ma come renderla pratica? Se lo
storico vuole uscire dalla sua solitudine non può pensare di farlo rimanendo seduto davanti ad una
scrivania o con le mani impolverate mentre senza sosta indaga gli archivi come unica fonte di conoscenza; se si vuole rompere la necessità della solitudine bisogna uscire dalle accademie, guardarsi in
torno, cercare nuove realtà, diversi punti di vista; in poche parole cercare o creare nuove reti di interazione con chiunque si senta di voler condividere questa idea.
Così, mentre si è ad un convegno, non ascoltiamo solo le parole del relatore, ma guardiamolo negli
occhi, cerchiamo un’ interazione, dialoghiamo senza timori, stringiamo una mano non per formalità,
ma per la volontà di conoscere chi è davanti a noi, solo così è possibile aprire un contatto che non
sia solo dialogico, ma anche umano. Incredibilmente banale.
Così è stato, quando presenti alla presentazione di un libro ci siamo trovati davanti ai due ragazzi
che l’avevano scritto, Razza Partigiana, non una persona, ma due volontà che si sono unite per uno
scopo. LiGli abbiamo ascoltati, ma ligli abbiamo anche guardati,: due persone sono diverse da una
persona sola, e la diversità va sempre capita, ed è li che noi abbiamo posto loro la questione del metodo, del perché fossero in due, di come avessero fatto… la risposta è stata meravigliosa, non ce
l’avevano, l’avevano semplicemente fatto.
Ecco un primo, forte punto di incontro: avevamo davanti chi aveva in parte realizzato ciò che noi
stavamo teorizzando, loro avevano davanti chi ancora non aveva creato, ma stava elucubrando su
qualcosa di non conosciuto.
Le prospettive cambiano quando non si è più davvero da soli, così sempre di più abbiamo sentito la
necessità di scoprire chi altro ci fosse, dove si stava nascondendo, quali erano le sue idee. Mentre vi
scriviamo abbiamo cominciato a sperimentare la fase di ricerca con metodo d'equipe Non abbiamo
cercato documenti, ma persone, idee, ed è bastato poco per scoprire che tutto era molto più a portata
di mano di quanto ci si potesse aspettare. Abbiamo contattato il Caso S. di Bologna e Lapsus di Milano. Sono due esperienze che sorgono dalle ceneri dei corsi triennali di qualche riforma non più
identificata. Numerosi storici e non in grado di studiare e praticare. Per non tradire i nostri principi
siamo usciti dalle accademie, L'incontro tra queste nostre esperienze si è materializzato ci siamo seduti sul selciato di una piazza in terra, in mezzo ad una piazza, eravamo tanti, abbiamo stappato
qualche birra e abbiamo iniziato a parlare, ognuno si raccontava e gli sguardi si incrociavano, era
chiaro che da quel momento l’équipe, questo saggio, non sarebbe più stato più lo stesso.
Il Caso S. e il Laboratorio Lapsus sono due realtà diverse tra loro e dall’Equipe Sperimentale di Storia,: si parte da idee comuni, il luogo di incontro primario è sempre l’università, ma non è altro che
un primo rendez- vous randevù, per poi guardare verso altre, nuove possibilità, ma non è nelle similitudini che si trova gli stimoli; è nell’osservare come queste realtà Ci siamo guardati e conosciuti
ed ora. Li abbiamo osservati e da loro stiamo imparando tanto. stiamo ampliando questa versione
1.0. abbiano messo in pratica le loro idee, guardando al loro di metodo, e osservando come entrambi
abbiano reso Il Caso Esse ha costruito un reale luogo di discussione, condivisione e comunicazione
di saperi storici, creando una piattaforma on-line in cui scrivere articoli su un tema comune con la
possibilità di ricostruirle collettivamente, con tutte le criticità che ciò comporta.
Il Caso S. è riuscito a creare una piattaforma on line tramite la quale riescono, tra le altre cose, decidendo delle parole chiave da utilizzare, a coinvolgere nella scrittura di articoli più realtà differenti,
dando sempre la possibilità di poter ricostruire tutti i passaggi che hanno portato alla decisione di
affrontare una parola chiave piuttosto che un'altra. Quello che propongono, dunque, non è solo la
condivisone di un sapere, ma la possibilità di ricostruirlo collettivamente, con tutte le criticità che
ciò comporta. Se affermiamo con fermezza la necessità della tracciabilità delle fonti e della condivisione di esse in una elaborazione di équipe, il Caso S. da appunto l’opportunità di collaborare e contribuire a distanza al procedimento cognitivo che porta alla formazione di un pensiero.
Lapsus, dall’atra parte ci dimostra come, con la creazione dell’ASSOCIAZIONE LAPSUS-Laboratorio di analisi storica del mondo contemporaneo, si possa, partendo da ambiti accademici, dare vita
a nuovi luoghi e a momenti di incontro sul pensiero storico attraverso la creazione di eventi, labora tori e corsi di formazione, vestendo la storia di un importante ruolo sociale e collettivo.
Ci siamo rincontrati tutti a Roma, al convegno Scrivere e Pensare collettivo. Questa l’idea
che univa noi, Lapsus, KaiZen – che in giapponese significa miglioramento continuo - , Laser, Wu ming, SIC, Epimeteo, Serpica Naro, Gruppo lavoro CRS. C’erano scrittori, storici, studiosi
di quelle che vengono definite scienze esatte, non un punto di vista dunque, ma una intradisciplinarità –non capisco perché intra, è un errore di battitura?- violenta; pensieri diversi che prendono
forma collettiva. È stato un po’ come contarci, non per capire quale fosse la forza in gioco, ma per
avere una piccola percezione di come fosse possibile creare una rete di contatti attraverso i quali
ognuno di noi potesse crescere, migliorare.
Ci siamo incontrati, ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito di non essere da soli, ma questa
è solo una piccola certezza post-parto, come quando l’ostetrica sorridendo ci dice che ciò che è venuto al mondo ha tutte e venti le dita. Ma tutto ciò non è che un primo piccolo passo, una certezza
che però porta subito a guardare ad una seconda parte di elaborazione e azione. Stiamo parlando
della responsabilità dello storico di occuparsi della destinazione, circolazione e fruibilità del testo.
Presentazioni, seminari o interventi all'interno di manifestazioni pubbliche sono le più classiche iniziative di promozione editoriale, ma noi crediamo che sia possibile spingersi oltre.
Proprio perché il lavoro d'équipe si fonda sulla grammatica interdisciplinare e sull'esercizio cooperativo, non può esimersi dal realizzare una connessione con il mondo della scuola e delle università,
utilizzando questi termini nella loro accezione più generale.
Preoccuparsi di collaborare con persone che operano nell'ambito della teoria pedagogica e del mondo educativo e riuscire a creare dei percorsi educativi non formali che utilizzino le opere come strumento per una riflessione più ampia sul passato, il presente e il futuro, crediamo possano essere
considerate ulteriori forme di prosecuzione del senso di un progetto editoriale. Ragionare su come
tutto ciò potrebbe essere funzionale ad un processo educativo e alla discussione di tematiche attuali
crediamo risponda alle stesse esigenze poste dal presente nell'orientamento della ricerca.
Attività laboratoriali didattico educative con ragazzi e ragazze con la collaborazione di associazioni
e cooperative che aderiscono ad un sistema di tecniche e di approcci sostenibili potrebbero rispondere anche alla chiusura rintracciata e innegabile della storia all'interno di circuiti profondamente
istituzionalizzati e accademici, impermeabili alla maggior parte di coloro che appartengono ad altre
generazioni o semplicemente non coinvolti dalla disciplina storica.
Pensare, per esempio, alla partecipazione dei giovani nel creare e sperimentare forme creative audio
e video relative all'opera pubblicata, significa poterla arricchire dello sguardo di persone che vi si
avvicinano e se ne appropriano trasformandola o estendendola.
Per questo è nostra intenzione ora sperimentare questa metodologia su una ricerca a cui applicare
quanto abbiamo pensato ed esposto. Un percorso che parta dall'intuizione e giunga alle scuole, alle
università e ai luoghi del lavoro. Anche questo significa mettersi in discussione. Questo significa
che da soli non bastiamo.
Sappiamo bene quali saranno i problemi e le difficoltà a cui andremo incontro in ogni fase del processo di ricerca, d'interpretazione e di scrittura.
Questo ci consolerà.
Sicuramente qualcuno si ritroverà a sostituire questa versione 1.0 accogliendo altri aggiornamenti,
sperimentando questo metodo e consentendoci il suo superamento. Possiamo forse dirci che alla
fine di questo breve saggio siamo già a una consapevolezza ben diversa da quella consolidatasi nelle prime pagine. Forse anche per questo crediamo che la versione 1.0 sia già da cambiare.
Non spetta però solo a noi affermarlo, non ci va di fare questo passo da soli, percepiamo l'impellente necessità di condividere quanto abbiamo sperimentato fino ad ora, convinti che non stiamo aggiungendo nulla di nuovo:
le idee che appartengono ad un determinato tempo e ad una determinata epoca fluttuano nell'aria
come una nebulosa e, che si respiri a Modena, a Roma, o ad Austin, non si può pensare di essere gli
unici padri di ciò che pensiamo.
A dir il vero ci sentiamo come Tamatea, un uomo di origine polinesiana che in un tempo
imprecisato si diresse verso la vetta di una collina e una volta giunto in cima dedicò alla sua amata
un brano musicale eseguito tramite il suono di uno strumento tradizionale polinesiano, il “vivo”.
Oggi a ricordo di quel momento più o meno reale vi è una collina di 300 metri in Nuova Zelanda
che si chiama:
“La vetta dove Tamatea, l'uomo dalle ginocchia grosse, lo scalatore di montagne, l'ingoiatore di terre, che passo di qua, suonò il flauto nasale alla sua amata”
“Taumatawhakatangihangakoauauotamateaturipukakapikimaungaoronukupokaiwhenuakitanatah”
Ecco, interpretate quanto abbiamo composto come un'esecuzione musicale che vi abbiamo dedicato,
da ri-arrangiare.
Siamo a meno-uno e per questo ora ci tocca cominciare da zero, attendiamo un passaggio a questa
fermata mentre suoniamo il “vivo” polinesiano.