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Cultura visiva, studi visuali

2011, Studi Culturali

This article instroduces visual studies, focussing on the notion of visuality and visual culture, selectively reviewing some of the most relevant trends in this cross-disciplinary field.In mondi sociali sempre più carichi di rappresentazioni visive, in culture sempre più strutturate da tecnologie della visione in continuo mutamento, anche le scienze sociali ed umane stanno acquisendo una propria sensibilità visuale tentando di correggere quella predilezione per modelli euristici di derivazione linguistica che le ha a lungo caratterizzate. Da alcuni decenni, la sociologia, la semiotica, la geografia, la storia e l’antropologia hanno affiancato gli studi culturali cominciando a riflettere sul ruolo dell’immagine, assumendo le immagini come oggetto di ricerca o come indicatore per l’analisi di fenomeni culturali complessi. L’aspirazione è sempre più quella di considerare le immagini – disegni, mappe, elementi decorativi ma anche e soprattutto foto – come qualcosa di più che attraenti illustrazioni esemplificatorie o elementi decorativi per arricchire un testo. Certo possiamo rinvenire illustri precedenti a questa svolta visuale – basti pensare, per riprendere due contributi classici già apparsi in «Studi Culturali», al ruolo che W.E.B. Du Bois (1900) riservò alla fotografia per studiare e al contempo promuovere l’identità afroamericana, o alla celebre analisi dei genderismi condotta da Goffman (1977) a partire dalle fotografie pubblicitarie (si veda anche Sassatelli 2010 e 2004). Tuttavia, oggi si avverte più forte l’urgenza di far fronte ad un fenomeno, quello dalla cultura visiva, che appare sempre più centrale.

Il Mulino - Rivisteweb Roberta Sassatelli Cultura visiva, studi visuali (doi: 10.1405/35365) Studi culturali (ISSN 1824-369X) Fascicolo 2, agosto 2011 Ente di afferenza: Università di Bologna (unibo) Copyright c by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Per altre informazioni si veda https://www.rivisteweb.it Licenza d’uso L’articolo è messo a disposizione dell’utente in licenza per uso esclusivamente privato e personale, senza scopo di lucro e senza fini direttamente o indirettamente commerciali. Salvo quanto espressamente previsto dalla licenza d’uso Rivisteweb, è fatto divieto di riprodurre, trasmettere, distribuire o altrimenti utilizzare l’articolo, per qualsiasi scopo o fine. Tutti i diritti sono riservati. PRESENTAZIONE Cultura visiva, studi visuali In mondi sociali sempre più carichi di rappresentazioni visive, in culture sempre più strutturate da tecnologie della visione in continuo mutamento, anche le scienze sociali ed umane stanno acquisendo una propria sensibilità visuale tentando di correggere quella predilezione per modelli euristici di derivazione linguistica che le ha a lungo caratterizzate. Da alcuni decenni, la sociologia, la semiotica, la geografia, la storia e l’antropologia hanno affiancato gli studi culturali cominciando a riflettere sul ruolo dell’immagine, assumendo le immagini come oggetto di ricerca o come indicatore per l’analisi di fenomeni culturali complessi. L’aspirazione è sempre più quella di considerare le immagini – disegni, mappe, elementi decorativi ma anche e soprattutto foto – come qualcosa di più che attraenti illustrazioni esemplificatorie o elementi decorativi per arricchire un testo. Certo possiamo rinvenire illustri precedenti a questa svolta visuale – basti pensare, per riprendere due contributi classici già apparsi in «Studi Culturali», al ruolo che W.E.B. Du Bois (1900) riservò alla fotografia per studiare e al contempo promuovere l’identità afroamericana, o alla celebre analisi dei genderismi condotta da Goffman (1977) a partire dalle fotografie pubblicitarie (si veda anche Sassatelli 2010 e 2004). Tuttavia, oggi si avverte più forte l’urgenza di far fronte ad un fenomeno, quello dalla cultura visiva, che appare sempre più centrale. La centralità della cultura visiva è, per certi versi, cosa scontata nelle nostre società. La comunicazione visuale è a sua volta descritta come inevitabile, impellente e onnipresente: può essere colta in ogni luogo e in ogni dove, senza confini o barriere linguistiche, accessibile a chiunque e quindi universalmente rilevante. Etichette già ben note come quella di «cultura di massa» vengono rilette in questa luce come elementi eminentemente visivi. Ed è precisamente dal proprio carattere pre-linguistico, dalla propria immediatezza e riconoscibilità visuale che tanta cultura di massa sembra trarre la propria potenza – come avviene per quei simboli globali che sono il logo di Coca-cola, di Nike o di Kodak. Se gli elementi visivi della cultura ci appaiono così potenti, è tuttavia soprattutto sull’esperienza dell’attore che li fronteggia che ci si è soffermati. Le immagini invitano un particolare modo di guardare, pongono l’osservatore in una particolare posizione: così, come voleva John Berger nel suo Ways of Seeing (1972) «non guardiamo mai — 147 — STUDI CULTURALI - ANNO VIII, N. 2, AGOSTO 2011 PRESENTAZIONE ad una cosa; guardiamo sempre alle cose in relazione a noi stessi». La nozione di «occhiocentrismo» coniata da Martin Jay (1993), e anticipata dalle classiche osservazioni simmeliane sulla vista come «senso» della modernità (Simmel 1908), descrive bene l’idea che, per quanto importante sia il pre-discorsivo in ogni società, nella società tardo-moderna la crescita delle immagini prodotte dagli attori sociali e ad essi disponibili ha reso l’esperienza visuale centrale dal punto di vista affettivo e cognitivo. La soggettività umana viene ad essere forgiata da una cultura visiva così imponente da essere spesso l’appiglio per forme, più o meno controculturali, di resistenza – come avviene nei fenomeni di culture jamming, writing urbano e contro-pubblicità. Così tanto che per il soggetto moderno il vedere finisce per coincidere con il sapere, si pensi agli studi condotti da Foucault o, più recentemente, da Barbara Stafford che mostrano quanto le conoscenze mediche moderne sul corpo umano si fondino su particolari modalità di visione. Accanto all’idea che il vedere – lo sguardo del soggetto, la sua capacità di dare significato alle cose e di essere da esse colpito – si ponga a fondamento conoscitivo ed affettivo del mondo sociale, si è fatta dunque strada la consapevolezza che «le immagini non sono mai un finestra perfettamente trasparente sul mondo» (Rose 2007). La fotografia, la pittura, i film, ecc. mostrano il mondo in un modo particolare e la loro rappresentazione non è mai «innocente». Ecco allora che vi è la necessità di distinguere il visivo – ciò che l’occhio umano come organo di senso è capace di riportare al nostro cervello – dal visuale – ciò che riusciamo a vedere nell’immagine prodotta dagli occhi e dal cervello. È qui lo scarto compiuto dagli studi visuali: dalla presa di coscienza del moltiplicarsi della cultura visiva, intesa come insieme di immagini differenti ma accomunate dall’essere prodotte e riprodotte socialmente, alla tematizzazione del visuale, inteso come insieme di modi del vedere. Modi del vedere che sempre accompagnano la visione perché inevitabilmente contribuiscono alla produzione della cultura visiva, che sono in essa inscritti, e che attraverso di essa vengono suggeriti, riprodotti o resistiti (sino al punto che quanto l’occhio stesso come organo di senso è capace di vedere è stato, a sua volta, visto – indicato, misurato, compreso – in modo diverso nel corso della storia, si veda Crary 1992). Cultura visiva e studi visuali dunque appaiono come un binomio inscindibile, tanto che spesso – anche nel nostro paese – si parla di «approcci di cultura visuale» per indicare con una crasi questo insieme di riflessioni teorico-epistemologiche. La scelta linguistica operata qui invece rimanda esplicitamente all’utilità di tenere sullo sfondo tali riflessioni teorico-epistemologiche proprio per meglio individuare quei processi di oggettivizzazione della cultura e di soggettivizzazione dello sguardo che passano attraverso la visualità o, per usare un termine fortunato, il «regime scopico». Un breve excursus su quest’ultima nozione ci aiuta a comprendere meglio il portato teorico e metodologico della svolta visuale. La nozione di regime scopico fu proposta dal teorico cinematografico francese Christian Metz (1977) per distin- — 148 — PRESENTAZIONE guere il cinema dal teatro: nel primo la rappresentazione è molto più indipendente da ciò che viene rappresentato tanto che il regime scopico filmico consente una distanza dal referente sconosciuta nel teatro. Il termine è stato traslato ed usato per indicare il modo in cui alcune identità dominanti, quella maschile ad esempio, informano di sé lo sguardo cinematico costringendo anche gli spettatori, di ogni sesso, ad assumere particolari angolazioni visuali – qualcosa di affine alla nozione di «male gaze» proposta da Mulvey (1975; si veda anche Sassatelli 2009). E infine è stato interpretato in senso più astratto come l’insieme dei sistemi generali visuali costruiti da un apparato culturale, tecnologico e politico e che mediano l’apparentemente neutro mondo degli oggetti in un campo percettivo neutrale (Jay 1993). In questo uso più totalizzante la nozione di regime scopico indica un ordine non visuale che opera ad un livello pre-riflessivo determinando i modi dominanti del vedere e dell’essere visti. In ognuna di queste accezioni, l’idea di regime scopico mette a fuoco quei particolari processi che mediano la rappresentazione e la visione, portando attenzione a dispositivi tecnologici/ istituzionali (ad es. cinema vs. teatro), relazionali/identitari (ad es. gli ordini di genere, classe, razza, ecc.), e politico/culturali (dal più generale sistema degli orientamenti culturali ai più particolari protocolli scientifici). Sono questi altrettanti livelli di analisi che ci inducono a riflettere criticamente su un certo atteggiamento post-modernista che ha interpretato il moltiplicarsi delle immagini come il tramonto delle possibilità di significazione soggettiva, e ancor prima come quel crollo della distinzione tra reale e rappresentazione che inghiottirebbe tutti, dominanti e dominati, in un meccanismo simulatorio (Baudrillard 1981). A questa ottica, che vuole essere polemica ma rischia esiti nichilisti, si contrappongono quelle prospettive critiche che, pur prendendo molto sul serio le aporie del rapporto tra rappresentazione e realtà, non rinunciano a identificare differenti piani nei processi rappresentazionali e rimangono sensibili alle differenze di potere. Per queste prospettive il moltiplicarsi delle immagini ha i propri centri di controllo e alcuni soggetti, gruppi sociali e istituzioni, anche in modo del tutto inconscio, si trovano nella condizione di esercitare notevoli gradi di controllo sulla proliferazione visiva, proponendo particolari visioni della maschilità, della razza, della guerra, dello stato, della natura, della malattia, ecc. Questi stessi soggetti e istituzioni, allo stesso tempo, finiscono per rappresentarsi e rappresentare il proprio ruolo come neutrale, naturalizzando le differenze così rappresentate. Tuttavia, nella contemporaneità delle mille immagini infinitamente riprodotte e re-incorniciate non vi è nulla né di necessario né di incontestato: alle modalità dominanti di rappresentazione se ne oppongono altre minoritarie, alternative, marginali. Compito dell’analista visuale è allora non solo sottolineare la non neutralità della rappresentazione, ma anche discernere tra modalità di rappresentazione diverse considerandone i diversi esiti visuali, e più latamente culturali. È cioè quello – per usare uno strumento analitico, il «diamante culturale», — 149 — PRESENTAZIONE già felicemente applicato ai prodotti culturali di massa – di mettere a fuoco le immagini come prodotti culturali specifici che emergono da un contesto sociale determinato in relazione a processi differenziati e diseguali, sia di produzione sia di consumo. In altri termini, è quello di analizzare elementi di un circuito complesso di produzione, circolazione e appropriazione della cultura visiva con l’ambizione di illuminarne frammenti che ci forniscano indizi sulle diverse condizioni del rappresentare e le diverse modalità in cui si realizza il vedere, e così riflettere sul nesso tra rappresentare e vedere e sui diversi effetti sociali e culturali che differenti condizioni del rappresentare e modalità del vedere portano con sé. Sin dalla sua nascita «Studi Culturali» ha riservato al visuale una attenzione costante e crescente (si veda ad es. Bezrucka 2008; Vallorani 2010; Lusini 2011). Tuttavia oggi, a fronte del consolidarsi di un’area interdisciplinare di ricerca che va sotto il nome di «studi visuali», è parso fondamentale raccogliere in un volume dedicato – il primo monografico dalla fondazione, curato da chi scrive insieme a Cristina Demaria e Tiziana Terranova – una serie di ricerche e riflessioni sulla cultura visiva e gli studi visuali. Con il termine studi visuali ci si riferisce ad una nebulosa di ricerche e prospettive, di variegata provenienza disciplinare, che non tanto e non solo hanno preso coscienza del ruolo delle immagini nella nostra cultura, quanto hanno cominciato a stringersi attorno all’idea che il visuale possa rappresentare una nuova, importante prospettiva euristica. Certo si tratta di un’area di ricerche in grande espansione nel nostro paese (per una rassegna si veda Gariglio 2010) e sopratutto a livello internazionale – con lavori che tentano di mappare un campo interdisciplinare e di fornire strumenti di analisi visuale a tutto tondo (ad es. Barnard 2001; Emmison e Smith 2000; Howell 2003; Rose 2007), studi di vasto respiro teorico sulla cultura e il visuale (ad es. Mitchell 1994 e Mirzoeff 1999), lavori che mettono a fuoco un particolare approccio, metodo o sviluppo disciplinare (ad es. Pink 2006 o Knowles e Sweetman 2004), e ancora raccolte di saggi, ad es. il reader di Hall e Evans (1999) o quello di van Leeuwen e Jewitt (2001). Certo sul suo terreno fioriscono stili d’indagine differenti: si va dallo smontare analiticamente le immagini con strumenti che spaziano dall’analisi composizionale a quella del contenuto, al contestualizzarle criticamente come forme di rappresentazione e produzione di senso con approcci strutturali quali l’analisi del discorso, o ancora a considerare le visualità dei ricettori e gli spazi di appropriazione come tipico degli audience studies, e infine, su un piano differente, al fare delle immagini uno vero e proprio strumenti di ricerca, uno stimolo da utilizzare per puntare a scoprire elementi taciti del quotidiano (si veda Rose 2007). E tuttavia, come spesso avviene quando la ricerca mette a fuoco territori e prospettive nuove che nondimeno intersecano campi preesistenti e consolidati, la sfida che si presenta a quanti praticano studi visuali rimane quella di stabilire strategie teoriche e metodologiche convincenti, che non solo fissino dei «canoni» di ricerca, ma anche permettano ai diversi stili di riconoscersi reciprocamente. — 150 — PRESENTAZIONE Il problema, come scriveva già Howard Becker (1995), non è solo ricercare una legittimità dall’esterno: il rispetto della discipline di provenienza o di altri scienziati sociali viene, almeno in parte, dalla stessa rilevanza che la cultura visiva ha nelle nostre società. Il problema è anche e soprattutto quello di promuovere un campo di studi che appaia legittimo e fondato ai suoi praticanti, così che essi possano pensare che quello che stanno facendo è una forma di conoscenza valida, in grado di rivaleggiare con altre metodologie, e non una semplice produzione o lettura di belle immagini. Ecco quindi che il senso di questo monografico vuole innanzi tutto essere quello di offrire, nella tradizione di «Studi Culturali», un terreno di confronto e messa alla prova di diversi modi di prendere in considerazione la cultura visiva come oggetto culturale e di condurre l’analisi visuale assumendone sia la specificità sia la centralità nella contemporaneità. Costringerci negli ovvi limiti del formato monografico non è stato semplice. E tuttavia, facendo innanzi tutto appello alle forze interne alla rivista ma anche ai molti che, nel nostro paese, si occupano di studi visuali, abbiamo selezionato un numero di contributi differenti, espressione di diverse angolazioni teoriche, metodologiche e disciplinari, che insieme compongono una tavolozza di sfumature, che tra contrasti ed armonie, possano far crescere il riconoscimento di sé. I saggi qui contenuti regalano diverse inquadrature dell’analisi visuale, mostrandoci quanto le immagini possano essere non solo oggetto di ricerca ricco e strategico nella loro inevitabile polisemia, ma anche strumento di indagine fertile e rivelatore di aspetti taciti del quotidiano che altrimenti ci sfuggirebbero. Nel loro complesso, i contributi raccolti fanno leva su molte delle questioni centrali degli studi visuali oggi: la problematizzazione della neutralità delle immagini sullo sfondo di una attenzione per il loro contesto di produzione, distribuzione e consumo, per le differenze sociali in esse iscritte, per i processi di riconoscimento identitario che il guardare sollecita, per la diversificazione degli sguardi e, allo stesso tempo, per quanto di inconsciamente «pungente» si ritrova nei prodotti visivi. Ecco che il saggio di Cristina Demaria affronta da una angolazione semiotica il nodo del rapporto tra lo statuto documentario dell’immagine, la memoria e la testimonianza aiutandoci a ripensare al rapporto che la rappresentazione documentaristica della violenza intrattiene con la possibilità e la capacità di muovere le coscienze. Come negli altri saggi del volume, lo svolgersi di tematiche teoriche poggia e si nutre di un’analisi dei fenomeni visivi, e nello specifico Demaria ripercorre i tracciati della memoria iscritti in un documentario, The Specialist, che racconta quel processo al gerarca nazista Eichmann che fu il discusso oggetto del tormentato saggio di Hannah Arendt sulla banalità del male. E se la messa in discussione del potere, nelle sue forme più brutali come in quelle più «dolci», sembra passare anche e soprattutto per processi di visualizzazione che ne svelino l’arbitrarietà, il potere stesso opera non tanto mascherandosi, rimuovendo visibilità, quanto creando percorsi di visibilità che lo costruiscono come fondato, — 151 — PRESENTAZIONE poggiante sul reale. Ed è proprio sul problema dell’efficacia delle immagini nel rappresentare il mondo che ritorna il saggio di Luca Acquarelli, aiutandoci a ripensare uno dei temi forse più classici della geografia, quello della mappatura del territorio. Acquarelli applica gli strumenti dell’analisi visuale ad un periodo, quello coloniale fascista, che offre il destro ad un’analisi dettagliata dell’intreccio tra forme del potere, distinzioni etniche e regimi di visualizzazione. Se proprio una messa a fuoco dei processi di rappresentazione ci consente di comprendere Nazismo e Fascismo come fenomeni interamente sociali per quanto estremi, ancora maggiore dovrà essere la nostra attenzione alle modalità di rappresentazione laddove i media di massa globali ci restituiscono un effetto di proliferazione visiva dalle conseguenze potenzialmente anestetizzanti. È questo il punto di partenza del saggio di Marco Solaroli sul ruolo giocato dalla costruzione di alcune immagini come icone culturali nell’inquadramento dello scandalo di Abu Ghraib e della guerra in Iraq. Solaroli, che in questo numero ha curato anche l’introduzione e la traduzione del ricchissimo classico di Stuart Hall sulle fotografie giornalistiche e i loro livelli di significazione, insiste sulla necessità di considerare discorsi e pratiche di significazione delle fotografie di Abu Ghraib a più livelli seguendone il continuo «re-framing» in sfere altre dal giornalismo, come la sfera politica o quella artistica, con la consapevolezza che è proprio tramite questi processi di «re-framing» che il loro statuto iconico si è andato consolidando e con esso la loro capacità di funzionare da cornice dominante per la guerra in Iraq. Le trame del potere colte mediante l’analisi di elementi della cultura visiva, sono, ce lo hanno ben illustrato sia gli studi femministi, sia gli studi post-coloniali, anche e soprattutto trame della differenza e della diseguaglianza iscritte in filigrana nella nostra cultura. Così, intrecciando analisi empirica e ricognizione teorica, il saggio di Michaela Quadraro e Tiziana Terranova ripercorre il consolidarsi degli studi sulla rappresentazione della razza e dell’etnia negli studi culturali britannici, l’emergere di un approccio «affettivo» alla cultura visuale e l’arricchirsi della riflessione di nuovi percorsi più partecipativi attraverso le tecnologie di riproduzione digitale e di rete. E lo fa a partire da una coinvolgente analisi di alcune opere – istallazioni e performance – di artisti che hanno messo a fuoco criticamente proprio il rapporto tra rappresentazione ed etnia, il britannico di origini caraibiche Isaac Julien e l’iracheno americano Wafaa Bilal. Considerando i prodotti visuali contemporanei non è certo necessario soffermarsi solo sull’arte in versione, per così dire, maggiore, o sugli aspetti più seri o persino cupi o brutali del nostro quotidiano. La svolta visuale dovrebbe offrirci uno strumento in più per problematizzare la quotidianità, il circuito delle merci anche più banali e scontate, gli stili e le pratiche di consumo più minute ed ordinarie. Come illustrato dalla Copertina di questo numero, elementi della cultura di massa fanno regolarmente il verso ai classici della pittura moderna esemplificando molto bene quel processo di esteticizzazione ironica che ca- — 152 — PRESENTAZIONE ratterizza, oggi, gran parte della cultura commerciale occidentale. E ancora, gli oggetti più banali della nostra visualità quotidiana, come le cartoline, possono dirci molto del modo in cui un territorio e la sua popolazione vengano costruiti, come mostra il saggio di Emanuela De Cecco sulla costruzione iconografica della città di Bolzano dagli anni sessanta ad oggi. E poi, entrando maggiormente nel privato della sfera domestica da un’angolazione antropologica Silvia Bernardi e Fabio Dei mettono a fuoco l’uso delle fotografie nelle case della classe media Toscana, mostrando quanto questo oggetto visivo della cultura materiale funga sia da strumento relazionale di sottolineatura degli affetti e dei rapporti famigliari, sia da elemento estetico per la visualizzazione di gusti dal carattere eminentemente distintivo. Il numero si chiude non solo con la consueta sezione recensioni, in questo caso dedicata a diverse ricerche empiriche che contribuiscono a illustrare la varietà del campo degli studi visuali anche nel nostro paese, ma anche con una nuova rubrica: «Bussole». Qui Luigi Gariglio e Federica Timeto si cimentano con alcuni dei più recenti e importanti volumi di sintesi sulla cultura visiva, gli studi e le metodologie visuali, offrendoci alcune utili coordinate per orientarci in un paesaggio sempre più vasto e articolato. Un paesaggio cui «Studi Culturali» continuerà a dedicare particolare attenzione con la consapevolezza che questo ci aiuta a comprendere, per parafrasare Berger, fino a che punto il nostro sguardo si perda nel paesaggio e tuttavia quanto, rinunciando allo sguardo, rinunceremmo ad appropriarci di una storia cui apparteniamo. Roberta Sassatelli Bibliografia Barnard, M. (2001) Approaches for Understanding the Visual, Basingstoke, Palgrave. Baudrillard, J. (1981) Simulacri e impostura, trad. it. Bologna, Capelli, 1981. Becker, H.S. (1995) Visual Sociology, Documentary, Photography and Photojournalism: it’s (almost) all a Matter of Context, in «Visual Sociology», 10 (1/2), pp. 5-14. Berger, J. (1972) Questione di sguardi, trad. it. Milano, il Saggiatore, 2006. Bezrucka, Y. (2008) «Otello» e la retorica visuale del Moro di Venezia, in «Studi Culturali», 5 (3), pp. 375-406. Crary, J. (1992) Techniques of the Observer: Vision and Modernity in the Nineteenth Century, London, Mit Press. 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