ANIMAL studies
Rivista italiana di antispecismo
trimestrale
anno iv numero 13 novembre 2015
animal mundi
Le grandi religioni e gli animali
ANIMAL STUDIES
Rivista italiana di antispecismo
trimestrale
13/2015 – Animal Mundi. Le grandi religioni e gli animali
numero a cura di Alma Massaro
Direttore responsabile
Costanza Troini
Direttore editoriale
Roberto Marchesini
Comitato scientiico
Ralph R. Acampora (Hofstra University)
Carol Adams (Southern Methodist University)
Matthew Calarco (California State University Fullerton)
Felice Cimatti (Università della Calabria)
Enrico Giannetto (Università degli studi di Bergamo)
Oscar Horta (Universidade de Santiago de Compostela)
Andrew Linzey (University of Oxford)
Peter Singer (Princeton University)
Tzachi Zamir (he Hebrew University of Jerusalem)
Redazione
Eleonora Adorni, Matteo Andreozzi, Alessandro Arrigoni,
Laura Caponetto, Serena Contardi, Maria Giovanna Devetag, Valentina Gamberi, Nausicaa Guerini, Alessandro Lanfranchi, Marco Maurizi, Antonio Volpe, Lucia Zaietta
ISSN 2281-2288
ISBN 978-88-97339-63-2
Reg. Trib. Roma n. 232 del 27/7/2012
© 2016 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop.
via Aldo Moro, 43/D - 04011 Aprilia
www.novalogos.it • info@novalogos.it
finito di stampare nel mese di marzo 2016
a cura di PDE Promozione S.r.l.
presso lo stabilimento di Legodigit S.r.l. Lavis (TN)
Sommario
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Introduzione
di Alma Massaro
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L’Ebraismo e gli animali
di Paolo De Benedetti
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Il Cristo cosmico e gli animali nella patristica
di Ilaria Ramelli
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Un amore cosmico. La compassione per gli animali nella
tradizione cristiana
di Guidalberto Bormolini
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Il Cristianesimo originario e la questione animale
di Enrico R. A. Calogero Giannetto
49
Gli animali secondo la religione islamica
di Aboulkheir Breigheche
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India: asceti e animali
di Guido Zanderigo
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Intervista al Professor Paolo De Benedetti
di Gianfranco Nicora e Alma Massaro
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Letture. Il grido della creazione. Spunti biblici e teologici per un’etica
cristiana vegetariana – Vegetarianesimo di ispirazione cristiana. Uomo
e animali nel disegno divino.
INTRODUZIONE
di Alma Massaro
Correva l’anno 1993. Avevo circa dieci anni e da poco tempo avevo ottenuto il permesso di recarmi da sola alla messa della domenica, quando, per
qualche ragione, i miei genitori e mia sorella non potevano venirvi assieme a
me. Accompagnata dal piccolo Ician, il mio grande compagno di avventure
a quattro zampe, andavo a sedere assieme a lui nelle panche posteriori della
Chiesa, per poi ritornare lentamente a casa una volta terminata la celebrazione. Fu proprio durante una di queste funzioni domenicali che avvenne
qualcosa di memorabile, una sorta di epifania della persona che sarei diventata negli anni a venire. Un giorno decisi, infatti, di ricevere il sacramento
della Confessione e, non essendoci nessuno disponibile a prendersi cura di
Ician durante la mia assenza, lo portai con me in dentro al confessionale
dove, prima di ricevere l’assoluzione, il sacerdote confessore mi pose, con
aria di rimprovero, una domanda, che ancora oggi ricordo con il sorriso:
“Perché porti sempre a messa con te il tuo cane?”. Con la franchezza dei
miei dieci anni, gli risposi che anche lui era una creatura di Dio. A tanta
prontezza ed aderenza alle Scritture, il sacerdote non seppe controbattere e
procedette, pertanto, ad assolvermi dalle mie mancanze.
Sono passati 23 anni, così tanti!, e le cose sono decisamente cambiate nel
modo in cui sia la Chiesa sia la società in generale percepiscono il rapporto
esistente tra gli esseri umani e gli animali. Numerosi pregiudizi sono stati eliminati e, a poco a poco, si sta facendo strada un approccio basato sul principio
del rispetto. Tuttavia, ciò che non è mutato è quanto pensavo allora e credo
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animal studies 13/2015
fermamente ancora oggi: gli animali sono creature di Dio. Una delle cose più
belle dell’essere cresciuta è proprio aver avuto la possibilità di entrare in contatto con numerose persone che condividono assieme a me questa certezza, a
cui hanno dedicato le loro attività di studiosi, attivisti, professionisti. È anche
grazie a loro se ciò che mi rendeva diversa dai miei coetanei è diventato un
valore comune da salvaguardare, condividere e difondere.
Non importa la fede che si professa, no, non è questo il punto. Ciò che
conta è riuscire a comprendere che, nonostante le numerose diferenze esistenti tra gli esseri umani e gli altri animali, anche questi ultimi fanno parte
di un progetto più grande, sono dotati di una peculiare vita spirituale, a
noi spesso ignota, e condividono con noi le stesse origini e lo stesso destino. Dalla terra sono nati i nostri corpi e alla terra, senza ombra di dubbio,
ritorneranno, ma i nostri spiriti andranno incontro ad altro destino. In questo senso, i testi contenuti nel presente volume rappresentano un prezioso
contributo per comprendere più a fondo il legame che unisce tutti i viventi
all’Ininito, quello con la I maiuscola.
Alla luce di questa intima nota personale, e prima di procedere oltre con
la lettura, è opportuno fare alcune brevi considerazioni, al ine di comprendere la struttura e l’ordinamento del volume.
Se, da un lato, il mondo occidentale contemporaneo è attraversato da
un generale disinteressamento nei confronti del sacro e della tradizione,
dall’altro nuovi fermenti viviicano i cuori di un numero sempre maggiore
di credenti. Grazie all’instancabile attività di singoli sacerdoti particolarmente attenti al mondo animale (si pensi, in Italia, a don Mario Canciani e,
in Inghilterra, a Andrew Linzey) e di associazioni di credenti volte proprio
a riscoprire, in senso biblico, il rapporto uomo-animale (si pensi all’Associazione Cattolici Vegetariani e alla cugina anglosassone Catholic Concern
for Animals), ma anche grazie a una riscoperta tradizione papale di rispetto
per la natura (si vedano le parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II
in occasione della “Giornata della Pace” del 1990 ma anche la recente enciclica Laudato si’ di papa Francesco), il divario che separava il Creatore dai
“nostri fratelli minori” si va riducendo, come dimostrano le diverse realtà
parrocchiali sparse per il mondo che, negli ultimi anni, hanno aggiunto al
loro calendario liturgico la “benedizione degli animali”, in occasione della
ricorrenza del dies natalis di Sant’Antonio Abate, il 17 gennaio, o di quello
di San Francesco di Assisi, il 4 ottobre.
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introduzione
Per parte sua, il mondo accademico internazionale non è rimasto immune da tali cambiamenti e, nell’ultimo decennio, ha visto un iorire di studi
attorno a queste tematiche; altrettanto è accaduto a livello nazionale, dove
una serie di indagini rigorose sono state condotte intorno alla tradizione
ebraico-cristiana. Tuttavia, nonostante la ricchezza di tali lavori, in Italia
ben poco è stato fatto a proposito delle altre tradizioni religiose che rimangono, per quanto riguarda i temi qui afrontati, ancora oggi sconosciute.
Non stupisce pertanto che nel presente volume a tre studi dedicati alla
religione cristiana si aianchino uno studio relativo all’Ebraismo, uno all’Islam e uno all’Induismo. Ciò non è dovuto, appunto, ad una preferenza personale di chi scrive ma, piuttosto, alla diicoltà oggettiva di ingaggiare, in
suolo italico, studiosi disposti ad afrontare simili questioni. Una disparità
che, mi auguro, non sia d’intralcio alla lettura ma possa servire da stimolo
per intraprendere nuovi percorsi d’indagine. L’ordine stesso in cui vengono
presentati i contributi vuole ofrire, da un lato, un percorso genealogicotemporale all’interno delle tre religioni abramitiche e, dall’altro, una struttura speculare tra queste e la tradizione induista.
Il lettore che si accinge a proseguire oltre questa breve introduzione si
prepari, quindi, ad una serie di “tui” all’interno delle diverse tradizioni
religiose. Immagino non rimarrà stupito nel ritrovare una forte continuità
tra le prime tre e una sorta di “divario incolmabile” tra queste e la quarta
ed ultima tradizione spirituale. Ciò è dovuto a una serie di ragioni, prima
fra tutte la diferenza tra i monoteismi e i politeismi. Ma, anche se la lettura dell’ultimo contributo può suonare di diicile comprensione alle nostre
orecchie, non passeranno certamente inosservate la ricchezza e la creatività
con cui il mondo induista integra il mondo animale all’interno della sua
storia spirituale.
Inine è opportuno spiegare la ragione per cui le due recensioni con le
quali si chiude il volume sono precedute da un’intervista, condotta nell’estate 2013, al teologo e biblista astigiano Paolo De Benedetti e già pubblicata,
in lingua inglese, sulla rivista Relations. Beyond Anthropocentrism. Questo
perché i temi qui afrontati rimangono oggi ancora molto attuali e non c’era
occasione migliore per promuoverne la difusione.
Non meraviglierà, quindi, trovare in chiusura di questa mia introduzione
un duplice ringraziamento. L’uno agli autori che hanno scelto di condividere le loro conoscenze, frutto di studi approfonditi e di una sentita passione
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personale; l’altro ai lettori, con l’auspicio che possano trovarvi importanti
spunti di rilessione e, perché no?, il desiderio di apportare nuovi contributi
a questo appassionante ambito di ricerca.
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L’EBRAISMO E GLI ANIMALI
Di Paolo De Benedetti
Teologo e biblista italiano, già docente di Giudaismo alla Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale di Milano e di Antico Testamento
agli Istituti di scienze religiose delle università di Urbino e Trento1
Se mi è consentito dirlo, Dio ha creato l’universo e la vita perché aveva “bisogno” di un “tu”, di una realtà da ascoltare e a cui rivolgersi.
Questa è la ragione della vita, che sta al centro del racconto della creazione.
Tra i bisogni di Dio, come la Bibbia stessa ci fa capire, metterei in primo piano
lo “sguardo” delle creature che corrisponde appunto al bisogno divino di un
tu. Dio è amore, e l’amore richiede occhi, orecchie e cuore: l’amore non è solo
una domanda, ma anche una risposta.
Ecco perché la creazione degli animali (e anche delle piante) è il primo bisogno che Dio ha contro la solitudine.
Ci sono, anche per un credente, diversi modi di leggere la Bibbia: quello
deinibile come un reciproco sguardo è il principale. Dio è eterno, ma l’idea
di eternità non basta al nostro “vivere con Dio”. Il vivere con Dio comporta
quell’amore, come abbiamo detto, che vince la nostra solitudine, e ha bisogno
che l’uomo si specchi in Dio. In quel Dio creatore che, se mi è permesso dirlo,
anch’Egli ha bisogno di specchiarsi: non solo nell’uomo, ma anche negli animali.
Ciò che molta tradizione ha ignorato, e che la Bibbia ci insegna, è la ragione per cui Dio, oltre all’uomo e prima di lui, crea gli animali. Quale ragione?
Molte: la pluralità della vita, la compagnia e il servizio all’uomo, il bisogno
1
Paolo De Benedetti, per molti anni direttore editoriale in alcune delle maggiori case
editrici italiane, ha realizzato dei cicli monograici per la trasmissione di Rai Tre “Uomini e
profeti” curata da Gabriella Caramore. Tra i libri pubblicati dedicati alla teologia animale,
Teologia degli animali (Morcelliana 2007) e Il ilo d’erba (Morcelliana 2009).
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divino di identiicarsi non solo con l’uomo ma anche con gli animali, che nella
Bibbia non rappresentano soltanto un oggetto sacriicale, ma anche la volontà
divina di coinvolgere l’animale nel mistero della salvezza. Infatti, se da un lato
la Bibbia ritrae alcuni animali in senso negativo, come per esempio il lupo e il
serpente, dall’altro ne fa simboli del divino, come l’agnello e la colomba.
La Bibbia, inoltre, rivela il rapporto di Dio con l’uomo e ciò che la divinità
prescrive all’uomo nei confronti del mondo naturale, compresa la fauna. Il
rapporto del pensiero ebraico nei confronti della natura risulta, pertanto, essere
positivo, perché la natura è un’opera meravigliosa che testimonia la presenza e
la bontà del Creatore!
La Bibbia stabilisce una condotta etica per l’uomo e parla di doveri umani
oltre che di diritti dell’uomo. Il primo divieto di uccidere gli animali per cibarsene nasce in funzione di tale preoccupazione etica.
La Bibbia aferma che l’uomo è stato creato a immagine divina e quindi è
portatore di diritti e doveri che non possono tuttavia calpestare i diritti altrui,
neppure di coloro che, per natura, non sono a livello dei diritti umani. La visione ebraica è in funzione del benessere etico universale-umano, perché questo è il rapporto che lega Dio all’uomo, deinibile “collaboratore” di Dio nella
continua creazione del mondo.
Il rapporto dell’ebraismo verso gli animali va considerato storicamente distinto secondo alcuni periodi dell’età biblica e post-biblica (la legge orale):
1. Il primo periodo dell’età biblica, che si può deinire il tempo della creazione, è il periodo “vegetariano”. Infatti, pur essendo stato concesso
all’uomo il dominio sul creato, gli era stato vietato di cibarsi di carne ed
era stato invitato a nutrirsi dei soli prodotti della terra (Gen. 1,29-30).
2. Il periodo del Diluvio, dopo il quale l’uomo è autorizzato a nutrirsi della
carne degli animali. Tale dominio non deve essere indiscriminato e assoluto, bensì limitato e regolato. All’uomo è vietato far sofrire gratuitamente un animale, per cui gli è imposto l’assoluto divieto di recidere
un membro dell’animale se questo è ancora vivo e quindi di cibarsi del
suo sangue (VII norma dei “precetti Noachidi”, Gen. 9,3).
3. Nell’età della legislazione sinaitica, a iniziare dal Decalogo, si delineano
delle normative più marcate a protezione della fauna e viene stabilito il
riposo settimanale anche per gli animali, come per le persone.
4. Con l’ingresso nella Terra Promessa viene istituita la “shekhità” (macellazione particolare ebraica) per regolare un uso indiscriminato di uccisioni di animali. Le disposizioni legali improntate a profondo riguardo
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l’ebraismo e gli animali
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e pietà verso gli animali sono numerose; fra le altre:
Il divieto di uccidere la mucca e il suo nato nello stesso giorno.
Il divieto di prendere i pulcini dal nido in presenza della madre.
Il divieto di cucinare il capretto nel latte di sua madre.
Tra le più celebri pagine del Midrash, relative a taluni personaggi biblici,
sono quelle che esprimono un profondo rispetto per gli animali. Ad esempio
troviamo:
1. Noè, che si preoccupò di dare il vitto alle bestie nell’arca durante il diluvio, tanto che nei dodici mesi che egli stette nell’arca non poté riposare
un sonno tranquillo né di notte né di giorno per l’impegno che aveva
nell’alimentazione degli animali.
2. Mosè: di lui si racconta un episodio di quando era pastore del gregge di
suo suocero Jetro. Mosè inseguì un vitellino che correva verso l’acqua;
raggiuntolo mentre beveva, lo accarezzò e gli disse: “non sapevo che
avevi sete ed eri stanco”. Quindi lo prese sulle sue spalle per tornare al
gregge.
Ma anche la mistica ebraica e i pensatori ebraici costituiscono una fonte
preziosa per comprendere il rapporto Dio-uomo-animale:
1. L’uccisione per esigenze sportive fu vietata dai maestri dell’Ebraismo2.
2. Lo Zohar, il classico del pensiero mistico ebraico, avverte che “tutte le
creature sono opera di Dio e tutte hanno una loro funzione nel creato,
pertanto l’uomo non deve uccidere senza necessità alimentare o di difesa
gli animali”.
3. La Halakhà stabilisce una norma ben precisa che dice: “una persona
non deve assaggiare cibo se prima non ha dato da mangiare alle proprie
bestie”.
4. Maimonide nel suo Mishneh Torà codiicò il divieto di cacciare gli animali o di usarli per i giochi pubblici.
5. Nella Mishnah e nel Talmud ci sono importanti testimonianze, secondo
le quali, nell’ambito della medicina curativa o di assistenza chirurgica
degli animali, si richiedeva una competenza veterinaria. Non era infatti
suiciente essere dei medici di persone per poter prestare cure mediche
agli animali.
La concezione zooila dell’ebraismo, quindi, non nasce solo dalla constata2
Si veda oggi il divieto di caccia in Israele.
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animal studies 13/2015
zione che gli animali sono dotati di intelligenza, sensibilità e proprietà psichiche per cui hanno tutte le reazioni di paura, di gioia, di noia, di curiosità, di
amore e di meraviglia di cui è fornito l’essere umano, ma perché fanno parte di
quel mondo creato da Dio che viene detto “Vita”.
In epoca più recente, è possibile trovare ulteriori richiami al ricco rapporto
esistente tra Dio-uomini-animali:
1. Martin Buber rileva come Dio voglia che l’uomo non si limiti a dominare brutalmente le cose ma sia, invece, collaboratore dell’opera incessante
della creazione (Sierra 1994).
2. L’uomo ha come suo compito quello di custodire il creato (Gen. 2,15)
(Cfr. De Benedetti 2004).
3. In Gen. 2,15 Dio dice ad Adamo di custodire e coltivare il giardino… Il
giardino non è dell’uomo, ma gli è aidato perché sia coltivato (Cfr. De
Benedetti 2007; p. 33).
4. Abraham Joshua Heschel aferma: “La natura stessa (cioè il mondo animale e quello vegetale) ha bisogno di salvezza” (Heschel 1983; p. 107;
Cfr. De Benedetti 1999).
5. Il famoso rabbino Nachman di Brazlav (1772-1811) diceva: “Se un
uomo uccide un albero prima del suo tempo, è come se avesse ucciso
un’anima vivente”.
6. Come osserva Enzo Bianchi: “L’uomo, donando un nome all’animale,
entra in relazione e in dialogo con lui, lo riconosce come essere vivente
di fronte a sé. L’uomo, per essere se stesso e per avere una vita veramente
umana, ha bisogno di una ‘comunità’ (Gen. 2,18) e questa comunità
comprende anche gli animali. C’è dunque co-creaturalità tra uomini e
animali, perché creati a vivere insieme, in relazione, a dividere lo stesso
spazio terrestre e a morire insieme dopo una vita piena di relazioni: uno
stesso destino infatti legherà uomini e animali i quali – dice Qohelet
(3,18 -21) – avranno ‘la stessa sorte’”(Bianchi 1997).
Gli animali sono una presenza e spesso, soprattutto per le persone più povere e semplici o anziane, sono aiuto, compagnia e consolazione.
L’animale è un compagno di viaggio per l’uomo. “Non c’è cattiva inclinazione negli animali” scrive il Talmud (Barn XVI), e ciò signiica che gli animali
non peccano: sono innocenti (De Benedetti 2007).
Chi legge la Bibbia scopre che anche gli animali, creazioni volute e benedette da Dio, sono in relazione con Dio, e questo non solamente perché Dio
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l’ebraismo e gli animali
pensa a loro fornendo il cibo con sollecitudine (Sal. 104,21-28; 136,25; 147,9)
o perché Dio dà loro un soio e glielo rapisce (Sal. 104,29), ma perché essi comunicano con Dio con altri linguaggi impenetrabili e impensabili per l’uomo.
Profondi conoscitori del loro creatore, gli animali sono i primi a lodarlo
senza interruzione per i suoi beneici, ci dicono ancora i Padri della Chiesa.
Come ho già avuto modo di ricordare, “si può dire che la benedizione divina degli animali perdurerà dalla creazione ino alla ine dei tempi, quando ritroveremo gli animali nella vita eterna. Perché, anche se la teologia ha
gravemente trascurato questo aspetto, occorre riconoscere “con fede piena” la
resurrezione di tutto ciò che ha avuto la vita, animali e piante” (De Benedetti,
Bianchi 2013).
Anche nella tradizione islamica è precisato che gli animali risorgeranno nel
giorno del giudizio come gli uomini. Se ciò non avvenisse bisognerebbe riconoscere che la morte è più potente di Dio, che la morte vince in eterno la vita.
C’è una comunione di origine e destino tra l’uomo e gli animali che deve
essere vissuta nell’esistenza quotidiana.
Ecco perché sono fondamentali tutti i precetti che nella Bibbia riguardano
il nostro rapporto con gli animali, e che non sono soltanto afermazioni teologiche, ma regole per la vita di ogni giorno.
Così insegna la Bibbia: “La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa;
come muoiono questi muoiono quelli; c’è un soio vitale (rùach) per tutti”
(Qo. 3,19). Un soio vitale che testimonia l’esistenza dell’anima.
Victor Hugo scrive: “Fissa lo sguardo del tuo cane e poi osa afermare che gli
animali non hanno un’anima”. Il profeta Gioele (3,1) annuncia: “Efonderò il
mio spirito, dice Dio, sopra ogni carne” e il libro dei Numeri (16,22) deinisce
Dio “Dio degli spiriti di ogni essere vivente”.
Queste e molte altre frasi bibliche rivelano il rapporto di Dio non solo con
gli uomini, ma anche con gli animali. “Uomini e bestie tu salvi, o Signore”
(Sal. 36,7).
Bibliograia
Bianchi, E. (1997), Uomini e animali, Qiqajon, Magnano (BI).
De Benedetti, P. (2013), Bianchi M., Animali e noi. Un destino in comune, MC editrice, Milano.
De Benedetti, P. (2009), Il ilo d’erba, Morcelliana, Brescia.
13
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De Benedetti, P. (2004), “Il creato come mio prossimo”, in Biglino, D. (a cura di), Vivere la relazione, Grafo, Brescia.
De Benedetti, P. (2007), Teologia degli animali, Morcelliana, Brescia.
De Benedetti, P. (1999), E l’asina disse… L’uomo e gli animali secondo la sapienza di Israele, Qiqajon, Magnano (BI).
Heschel, A. J. (1983), Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Roma.
Sierra, Rav. S. J. (1994), “Il rapporto con il mondo animale e l’ebraismo’’ in AA.VV., Gli animali
e la Bibbia, Garamond, Roma.
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IL CRISTO COSMICO E GLI ANIMALI
NELLA PATRISTICA
Di Ilaria Ramelli
Professore ordinario di Teologia e Britt endowed Chair alla Graduate School of heology, SHMS (Università “Angelicum”)
e Fellow all’Università di Oxford1
1. Bardesane e altri pensatori patristici sul Cristo cosmico
Una serie di autori patristici, a cominciare dal II secolo, hanno presentato
Gesù Cristo come “Cristo cosmico”, la cui incarnazione non è soltanto nell’umanità o negli esseri razionali (logikà), bensì anche in tutta la creazione, animali compresi. Tale presentazione, se da un lato in ilosoi-teologi quale Bardesane
di Edessa, Origene o Gregorio Nisseno, era inluenzata da concezioni medio
e neoplatoniche, dall’altro lato aveva anche una forte componente biblica. Ritorneremo sul ruolo del passo di Isaia descrivente l’armonia cosmica escatologica; per ora basti ricordare, nel Nuovo Testamento, la descrizione di Gesù
come agnellino (Gv 1,29-36) o come gallina con i pulcini (Mt 6,26). Gesù è
l’agnellino sgozzato, sacriicato dell’Apocalisse, ossia uno dei piccoli agnellini
sacriicati nell’olocausto quotidiano del Tempio (Tamid), sacriicati nello stesso modo in cui Gesù fu sacriicato, vittima perfetta, senza ossa spezzate (Cfr.
Rigato 2007).
Bardesane di Edessa (154-222), proveniente dall’odierna Urfa, fu un ilosofo e teologo cristiano di vaste competenze e multiformi interessi, che leggeva
la Scrittura alla luce della ilosoia greca, specialmente medioplatonica2. Era
1
Ilaria Ramelli è membro di società scientiiche nazionali e internazionali e di comitati
scientiici o direttivi di riviste e collane accademiche. Autrice di numerose pubblicazioni
in prestigiose riviste e collane scientiiche italiane e internazionali, tra i suoi maggiori
interessi sono la ilosoia antica, tardoantica, medievale e rinascimentale, specialmente
Stoicismo e Platonismo, i classici, la Patristica e il Cristianesimo antico.
2
Come dimostrato in Ramelli 2009 e 2016.
15
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questa un’operazione culturale già messa a punto da Filone in ambito giudaico
ellenistico e, in ambito cristiano, da Origene di Alessandria († 255/6) poco
dopo Bardesane (Cfr. Ramelli 2008; 2015). Le convergenze tra il pensiero di
Bardesane e quello di Origene sono profonde e vanno dagli assi portanti della
loro ilosoia ai dettagli più minuti. Un caso riguarda la nozione del Cristo
cosmico letta attraverso lenti medioplatoniche.
Secondo Bardesane, così come per i Medioplatonici, le Idee platoniche non
costituiscono più un mondo noetico a sé, bensì sono idee o pensieri di Dio,
come ad esempio Alcinoo le descrive in Didascalico 9. Dio ne garantisce lo
statuto ontologico, l’immutabilità e l’eternità. Le Idee, paradigmi delle realtà
create, pertengono alla mente di Dio, spesso identiicato con il Logos di Dio
e la Sapienza di Dio, che per Platonici cristiani quali Bardesane e Origene è
Cristo e assomma in sé le Idee-Forme o logoi in una unità trascendente3.
Un frammento di Bardesane, proveniente da un suo perduto trattato
sull’India e riportato dal Neoplatonico Poririo, presenta il Cristo cosmico
come contenente i paradigmi di tutte le creature, animali compresi. CristoLogos-Sapienza è l’agente trascendente della creazione e al contempo la Potenza/Dynamis di Dio immanente nel cosmo. Bardesane lo descrive come una
enorme statua che porta cesellato sulla supericie l’intero universo. Tutte le
creature sono rappresentate su questa statua cosmica che, essendo in forma di
croce, si rivela come Cristo cosmico. Esso assomma il macrocosmo, portando
in sé i paradigmi di tutti gli esseri, ed anche il microcosmo, ossia l’umanità,
in quanto la statua è androgina e uniica pertanto le due metà dell’umanità.
Cristo infatti ha assunto l’umanità intera, non soltanto una parte di essa; anzi,
secondo Bardesane, Origene e altri Padri, ha assunto perino gli animali e l’intero cosmo come proprio corpo.
La descrizione che Bardesane ofre del Cristo cosmico risente anche dell’inlusso del Timeo di Platone (dialogo che ebbe un’enorme fortuna nel Medioplatonismo, “pagano” e cristiano): “Dicono che sia stato Dio a dare questa statua a
suo Figlio, perché questi potesse avere un modello/paradigma da contemplare”,
come il Demiurgo platonico contempla le Idee, paradigmi del cosmo. La statua dunque rappresenta il modello ideale del cosmo creato da Cristo-Logos e
3
Per un’analisi completa rimando al mio contributo “Clement’s Notion of the Logos ‘All
hings As One’. Its Alexandrian Background in Philo and its Developments in Origen
and Nyssen”, in Pleše, Z. (a cura di), Alexandrian Personae: Scholarly Culture and Religious
Traditions in Ancient Alexandria, Mohr Siebeck, Tubinga (in pubblicazione).
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il cristo cosmico e gli animali nella patristica
al contempo identiicato con l’agente creatore. Cristo-Logos, infatti, il creatore
secondo il prologo giovanneo, è per Bardesane anche il mondo intelligibile, il
paradigma del creato. Nelle cosiddette tradizioni cosmologiche, che riportano
il pensiero di Bardesane sulle origini del mondo, in efetti, Cristo-Logos è ripetutamente presentato come l’agente della creazione.
In quanto sede delle Idee e mente divina, Cristo-Logos è l’unità trascendente di tutte le creature, come anche il Medioplatonico cristiano Clemente
Alessandrino lo concettualizzava. Pertanto, il modello ideale del cosmo creato
da Cristo-Logos è ancora Cristo, il Cristo cosmico. Per questo, nella rappresentazione di Bardesane, esso stende le braccia in forma di croce, ed è un essere
umano vivente e immortale.
Ecco le corrispondenze in forma schematica:
Platone, Timeo
Bardesane, Sull’India
Demiurgo ossia Dio creatore
Dio + Figlio di Dio = Cristo-Logos Creatore
Idee come paradigmi
paradigma ideale = Cristo-Logos come
mondo intelligibile
Anche Origene, come Bardesane, considerava Cristo-Logos-Sapienza come
la sede delle Idee o logoi delle creature (quest’ultimo un concetto più stoico,
ma adottato anche da Medio- e Neoplatonici), gli archetipi delle creature, e
l’agente della creazione (Commento a Giovanni I 19, 114-115).
La concezione bardesanica di Cristo-Logos-Sapienza come avente su di sé,
quali decorazioni, i paradigmi di tutte le creature, animali inclusi, trova un
parallelo impressionante nella concezione origeniana di Cristo-Logos-Sapienza
come avente su di sé quali decorazioni, in dal principio, i paradigmi ideali di
tutte le creature4. Questi erano sul corpo di Cristo-Sapienza quale agente creatore del cosmo e costituivano la sua “bellezza intelligibile dalle molte e variegate
decorazioni”. Questa idea è identica in Bardesane e Origene e non sembra
comparire in pensatori a loro precedenti o contemporanei. Clemente citava Ef
3,10 in Strom. I 3, 27, 1, ma connettendolo a Ebr 1,1, e riferendolo alla varietà
della Sapienza di Dio nell’arte, nelle scienze, nella fede e nella profezia, e non
ai logoi delle creature presenti sul corpo di Cristo-Logos-Sapienza.
Per Origene, in efetti, il corpo di Cristo è non solo tutta l’umanità, e non
4
Commento al Vangelo di Giovanni XIX 22, 147, con una reminiscenza di Ef 3,10.
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solo la Scrittura, che egli vede come un’incarnazione (cosicché leggere la Bibbia
equivale per Origene a un atto di manducazione eucaristica), ma il corpo di
Cristo è “la totalità dell’intera creazione”, la somma di tutte le creature, animali inclusi (totius creaturae universitas, Omelia 2 sul Salmo 36). Questo sia per
l’incarnazione di Cristo in una creatura (Gesù di Nazareth) che rappresenta
tutte, sia perché, come Logos e Sapienza, Cristo è la Mente di Dio che contiene
i paradigmi ideali delle creature. Per questo, Origene usa l’immagine dei logoi
di tutte le creature quali decorazioni sul corpo di Cristo, come Bardesane (Cfr.
Ramelli 2013). Coerentemente con questa concezione, Origene descrive l’universo come “un immenso organismo vivente tenuto insieme dal Logos e dalla
Potenza/Dynamis di Dio come da un’anima” (Princ. II 1, 3). In tal modo, fra
l’altro, Origene assimila anche Cristo-Logos, e forse lo Spirito, alla platonica
anima del mondo. L’idea che la Dynamis divina permei e mantenga coeso il
mondo fu poi ripresa da Gregorio Nisseno, un fedele seguace di Origene, verso
la ine del IV secolo. Egli proseguiva così la linea del trattato De mundo attribuito
ad Aristotele: la divinità trascendente è anche immanente nel mondo grazie
alla sua potenza (dynamis)5. La teoria che Cristo-Logos sostenga e mantenga
coeso il mondo come un’anima fu ripresa anche da Atanasio (L’Incarnazione
del Logos, 41), un altro ammiratore di Origene, e consuona con la teoria origeniana del cosmo come una ulteriore incarnazione di Cristo: non solo l’umanità
intera, ma, come dicevo, l’intera creazione6.
La nozione di “Cristo cosmico” di Bardesane, Origene e Gregorio Nisseno
fu ripresa anche da Massimo il Confessore, A Talassio 61-63: l’intero cosmo
è incarnazione di Cristo-Logos7. Massimo considerò l’essere umano un vero
microcosmo, come una sintesi dell’intera creazione, e fu seguito da Giovanni
Scoto Eriugena, l’ultimo grande ilosofo patristico dell’alto Medioevo latino (IX
sec.): poiché l’essere umano sussume in sé il cosmo, quando Cristo ha assunto
l’umanità nell’incarnazione ha assunto l’intero cosmo, tutte le creature, compresi
gli animali, e le ha salvate (Periphyseon V 24). Questo perché “il Logos di Dio,
quando assunse la natura umana, non omise di assumere alcuna sostanza creata.
Dunque, assumendo la natura umana, Cristo assunse ogni creatura. Pertanto, se
De mundo, 397b23-30, 398b7-11 e 20-22.
Sull’atteggiamento positivo dei Padri nei confronti degli animali e del creato si veda
Bormolini 2014; pp. 53-74. Cfr. anche Starowieyski 2014 sugli animali nella Scrittura,
negli apocrii biblici, e nella patristica greca, latina, etiopica e armena.
7
Su quest’ultimo punto in Massimo cfr. Blowers 2012; pp. 163-164.
5
6
18
il cristo cosmico e gli animali nella patristica
Cristo, avendola assunta, ha salvato e restaurato la natura umana, certamente ha
anche restaurato ogni creatura visibile e invisibile” (ibidem V 25).
2. Gli animali in alcuni Atti apocrii e presupposti protologici ed escatologici
L’idea che Cristo-Logos, creatore, mente di Dio contenente i paradigmi delle creature, e dynamis immanente nell’intero creato, abbia assunto anche gli
animali nel suo corpo cosmico, ossia nel livello cosmico della sua incarnazione, ha anche una controparte narrativa nelle “conversioni” di animali al Bene
(che è Dio) e dunque al Logos (che è Cristo), con la conseguenza che questi
smettono ogni male, inclusa ogni ferocia, e assumono la parola/ragione, il logos. Ciò è evidente in vari Atti apocrii degli Apostoli, in particolare gli Atti di
Filippo (Cfr. Ramelli 2007; pp. 215-228). Questa narrazione sembra sostenere
la dottrina dell’apocatastasi o restaurazione universale (Cfr. Ramelli 2013b) insegnata da Origene, Gregorio Nisseno, Eriugena e altri, nella forma più vasta,
inclusiva anche degli animali (come nel caso del Nisseno e di Eriugena).
L’Atto I ofre una ouverture soteriologica: Filippo, resuscitando un morto
grazie alla potenza di Cristo, proclama che “Il diavolo inganna gli esseri umani
e cerca di privarli della vita nel mondo a venire [...] ma Cristo, che fu crociisso e sepolto, regna sui mondi; chiunque creda in esso ha la vita assicurata
nel mondo a venire”. Nell’Atto II, Filippo ad Atene dibatte con il sommo sacerdote giudaico Anania e lo acceca, ma Cristo gli ridona la vista. Gesù vuole
infatti fare di Filippo un uomo pieno di mitezza (§ 17). Filippo proclama,
pur velatamente, la vittoria inale di Cristo sull’inferno: “Se Anania persiste,
lo vedrete sprofondare nell’abisso, a meno che il Signore resusciti quanti sono
all’inferno, cosicché confessino che Gesù è il Signore, poiché quel giorno ogni
lingua confesserà che Cristo è il Signore”. Tra quanti confesseranno Cristo,
come vedremo, ci sono anche gli animali.
Nell’Atto III, § 12, tra il cielo e il mare appare una croce luminosa, che
comparirà ancora alla ine di questi Atti e che è venerata dagli animali marini.
Nell’Atto V, Filippo proclama che Cristo “ci salva da ogni trappola e inganno
del diavolo, che il Signore Gesù alla ine punirà” (§ 4) e promette: “sarete tutti
salvati da Gesù” (§ 24).
Gli animali emergono soprattutto dall’Atto VIII in poi, dove Cristo-Logos,
attraverso Filippo, converte un leopardo dal suo “cuore malvagio” alla mitezza,
cosicché per prima cosa esso rinuncia a divorare un capretto (§ 17, cod. V).
19
animal studies 13/2015
In Isaia 11,6-7, che profetizza la restaurazione del popolo del Signore e l’apocatastasi resa possibile dalla rettitudine e dalla fede del discendente di Iesse, si
prevede che il leopardo e il capretto si riposeranno insieme, e il leone mangerà
ieno come un bue. Il capretto è “il ferito che è guarito e cura colui che lo aveva
ferito” (§ 18, cod. V), ossia guarisce il leopardo. Al contempo il ferito è anche
Cristo, l’agnello di Dio, che cura gli uomini che lo avevano ucciso.
Sia il leopardo sia il capretto, convertendosi a Cristo-Logos, assumono il
logos, parola e ragione, e gloriicano Dio per questo. Il Logos converte perino
le anime più eferate. Infatti Filippo e Bartolomeo nel § 19 dichiarano: “Ora
abbiamo davvero compreso che non c’è nessuno che superi la tua tenera e compassionevole misericordia, o Gesù che ami l’umanità!”. Gesù ha misericordia
degli animali feroci perché ama l’umanità. Gli animali convertiti possono dunque anche rappresentare i più feroci peccatori – come in Teoilo, Ad Autolico II
17 e Origene, Dialogo con Eraclide 14 e Omelie sulla Genesi 2, 3 – conquistati
dal Logos. Secondo Origene, infatti, non c’è male dell’anima che il Logos non
possa curare.
Nel § 19, memori della profezia di Isaia, la cui realizzazione desiderano,
gli apostoli pregano Dio che gli animali possano “acquisire mitezza e non cibarsi più di carne”. Come ha osservato anche François Bovon, vari racconti di
conversioni di animali negli Atti apocrii rappresentano la ine del regno della
violenza (Bovon 1999; pp. 369-392; Cfr. Spittler 2008). Il tema della mitezza
e mansuetudine è in efetti di primaria importanza negli Atti di Filippo. Nel §
31 (= Cap. 9, §§ 137-138 Bonnet), il peccato rimproverato a Filippo è proprio
quello di mancare di mansuetudine e dunque di voler restituire male per male
senza praticare invece il perdono. Per questo, Filippo non potrà entrare immediatamente in paradiso, ma dovrà attendere “negli eoni” per quaranta giorni.
Nel § 20, gli animali si ergono in piedi come esseri umani e gloriicano Dio:
“Tu che hai mutato la nostra natura bestiale in mitezza”. Nell’Atto XII (cod.
A), quando Filippo dà l’Eucaristia a Mariamme e a Bartolomeo, il leopardo e
il capretto, sentendosi esclusi, scoppiano a piangere e il leopardo dichiara: “La
mia natura bestiale è stata mutata in bontà [...] Lo ammetto, io sono una bestia feroce, ma perché questo capretto, qui, non sarebbe degno dell’Eucaristia?
Non riceviamo forse anche noi la vita da Dio? Usateci dunque misericordia,
poiché lo stesso Dio è in tutte le creature e ci ha dato il Logos con generosità [...]
Noi siamo divenuti come esseri umani, e lo stesso Dio dimora in noi [...] Apostoli
del Salvatore buono, fateci questa grazia: che anche il nostro corpo bestiale sia
trasformato e possiamo abbandonare l’apparenza animale” (§§ 2-4). Ciò che
20
il cristo cosmico e gli animali nella patristica
trasforma gli animali in esseri umani è il logos e il nous, l’intelletto: “Crediamo
che ciò sarà realizzato grazie a voi, poiché il nous prevale necessariamente, il nous
che risiede in tutti i pensieri e nel cuore. Questo nous ha incominciato a risiedere
in noi [...] ci fa uscire dal greve torpore della bestialità e poco a poco ci porta alla
mitezza, inché diveniamo esseri umani completi, in corpo ed anima” (§ 5).
La misericordia di Dio porta tutte le creature, animali inclusi, alla salvezza:
“Dio provvidenzialmente si prende cura di ogni natura, perino delle creature
feroci, nella sua grande, materna e compassionevole misericordia” (§ 5). La
misericordia salviica di Dio si estende inanche agli animali feroci, sia in senso
letterale sia in senso metaforico – ossia i più eferati peccatori. La provvidenza per gli animali è sottolineata a più riprese: “Dio ha visitato l’universo per
mezzo del suo Cristo, comprendendo nella sua economia salviica non solo gli
esseri umani, ma anche le bestie e ogni specie di animali. Chi può descrivere la
buona Provvidenza che Dio ci dimostra ininterrottamente?” (§ 6); “Crediamo
che non esista alcuna creatura vivente a cui il nostro Dio non estenda la propria
cura provvidenziale per la sua salvezza” (§ 8). Tutte le creature sono dunque
incluse nella salvezza donata da Dio, anche gli animali.
La conversione di animali selvaggi alla mitezza è un motivo che si trova
anche, come accennavo, in altri Atti apocrii di Apostoli e in altre narrazioni
della letteratura cristiana antica. Ad esempio, negli Atti di Paolo un leone vive
una simile conversione e viene battezzato. In seguito a ciò, Paolo gloriica Dio,
“che ha dato il Logos a bestie selvagge e la salvezza a quanti lo servono”. Le
bestie selvagge sono sia animali sia i peggiori peccatori. Negli Atti di Filippo, gli
animali sono inclusi nella salvezza universale, che è proclamata a più riprese, ad
es. nell’Atto VIII, § 3 (cod. G), ove Gesù dichiara che le soferenze di Mariamme e di Filippo, i quali patiranno il martirio, sono inalizzate alla “redenzione
del mondo intero”, evidentemente in quanto si tratta della partecipazione al
sacriicio redentivo di Cristo.
Che la missione di Cristo e degli apostoli abbia un ine universalmente salviico appare chiaramente anche dal § 14 (ms. G), in cui Cristo dice a Filippo:
“Tu, a tua volta, imita tutto ciò che è buono. Considera i luminari del cielo e
imitali. E anche voi, o miei discepoli, imitateli tutti: come essi spargono la loro
luce beneica sui buoni e i malvagi allo stesso modo, senza favorire alcuno, allo
stesso modo voi diverrete uno strumento per la salvezza del mondo intero”. Questo comprende anche gli animali. Nell’Atto IX (cod. V), il combattimento contro l’oscuro dragone simboleggia non tanto la lotta contro un animale, quanto
la lotta contro il male, e nell’Atto XI, § 2 i demoni confermano di essere stati
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animal studies 13/2015
sconitti: “Quello che è stato crociisso per contrastarci ha consumato la nostra
antica natura”, che non è la natura animale – sebbene i demoni si mostrino in
questi Atti in forma di serpenti –, bensì il male. Se il male è in essi distrutto,
resta aperta la possibilità della loro restaurazione nel Bene. Infatti, nel § 6 i
demoni annunciano la loro decisione di servire il Bene.
Filippo celebra la divinità come “il Bene che viviica” e “libera quanti sono
in catene”. Nell’Atto XIII (cod. A), § 5 Filippo celebra la potenza salviica
di Cristo, che include perino quanti sono in perdizione: “Grazie al Logos
dell’Altissimo, sconiggiamo i prìncipi del mondo delle tenebre ed eliminiamo
la durezza dalle persone [...] Cristo è la salvezza di quanti sono in perdizione”.
Nell’Atto XIV (cod. A), tutti ricevono il battesimo da Filippo e da Mariamme, una scena che si ripete nell’Atto XV, cod. A. Nel § 7 il “santo Logos”
di Dio è descritto come “il vero Medico, che guarisce non solo il corpo, ma
anche lo spirito”. Si tratta della concezione di Cristo Medico, cara a Clemente,
a Origene, e a tanta parte della tradizione patristica. Nell’Atto XV, § 26, in
seguito ad una maledizione di Filippo, si apre un abisso che inghiottisce tutti
gli abitanti di una città, tranne i pochi convertiti, ventiquattro donne che avevano deciso di vivere in castità, rinunciando alle relazioni sponsali con i loro
mariti, e quaranta vergini. Gesù, tuttavia, salverà anche tutti gli altri che sono
stati inghiottiti dalla terra, per quanto fossero empi e non credessero in lui. Di
fronte alla sua benevolenza, infatti, si convertiranno. Nel § 32, Gesù traccia
una enorme croce nell’aria e la riempie di luce – qualcosa di simile all’enorme
croce citata nella più antica scena del Vangelo di Pietro in relazione alla discesa
agli inferi di Gesù (che dopo la morte in croce è sceso a “predicare ai dormienti”). Gesù negli Atti di Filippo richiama i perduti su dall’abisso, e questi salgono
usando la croce come scala. Tutti escono dall’abisso volontariamente, in seguito a conversione: “Ci pentiamo dell’errore in cui ci trovavamo ieri, quando
eravamo ancora indegni della vita del mondo a venire, e ci pentiamo”.
Filippo, riconoscendo i suoi peccati, loda il Signore che “ha liberato il mondo intero dall’inganno del diavolo” (§§ 33-34). Anche gli animali fanno parte
del mondo intero e la loro liberazione dal potere del maligno porta alla loro
mitezza. In § 140 Bonnet, si celebra Cristo, che fa risalire i peccatori dall’abisso dell’inferno, e la bontà di Dio, che porta le creature a ricusare il male, così
da divenire degne della comunione con Cristo. Nel § 35, la summenzionata
liberazione degli adoratori del serpente che erano stati condannati all’abisso
è descritta come liberazione dall’inferno grazie alla croce di Cristo: “Voi che
siete stati resuscitati dai morti e dall’inferno dell’abisso, che siete stati riportati
22
il cristo cosmico e gli animali nella patristica
indietro dalla croce luminosa grazie alla bontà di Cristo”. Cristo è presentato
dunque negli Atti di Filippo come il salvatore sia dei peccatori, perino quelli
condannati all’inferno, sia degli animali.
Altri racconti di conversioni di animali feroci alla mitezza, come accennavo, si trovano in altri Atti apocrii e in ulteriori narrazioni cristiane antiche,
specialmente relative a santi asceti, su cui non possiamo ora sofermarci8. Queste storie non sono solo folkloristiche, ma sono profondamente connesse alla
protologia ed escatologia patristiche: prima del peccato originale, gli animali
vivevano in pace, senza violenza e senza essere uccisi o sfruttati né dall’uomo
né da altri animali; alla ine dei tempi i Padri, in base alla profezia di Isaia che
prevedeva la paciica convivenza del lupo con l’agnello, del leopardo con il
capretto ecc. (Is 11,6-8), postulavano la restaurazione di questo stato irenico.
Questo perché alla ine il peccato sarà totalmente abolito e con esso la violenza,
l’oppressione e la morte che ne scaturivano. Questo è specialmente evidente
nella dottrina patristica dell’apocatastasi (Cfr. Ramelli 2013b).
Non è un caso che Teoilo di Antiochia usi proprio il termine “apocatastasi”
o restaurazione in un contesto di restaurazione escatologica in cui gli animali
ritorneranno allo stato originario di non-violenza in seguito alla scomparsa
del peccato negli esseri umani. In Ad Autolico II 17 Teoilo predice che quando l’uomo avrà abbandonato il male, anche gli animali saranno restaurati alla
mansuetudine originaria: è la restitutio in pristinum statum che i sostenitori
dell’apocatastasi concepiranno sia per l’umanità e le creature razionali (Origene) sia per la creazione intera (Gregorio Nisseno). Ed è notevole che Teoilo
interpreti le iere anche come simbolo degli uomini viziosi, come sono interpretate anche da Origene. Gli animali, secondo Teoilo, “in principio non
furono creati cattivi o velenosi, poiché in principio nessun male venne da Dio,
ma tutto era bene e molto bene, ma fu il peccato umano a renderli malvagi:
quando l’essere umano trasgredì, anch’essi trasgredirono insieme con l’umanità: quando dunque l’umanità tornerà allo stato che è secondo la sua natura, e
non farà più il male, anche gli animali saranno restaurati alla loro mitezza originaria”. È quello che accade negli Atti di Filippo, ad esempio, e quello che Isaia
profetizzava. Nello stesso spirito di Teoilo, anche Cassiano, Istituzioni IX 8, e
altri Padri ponevano la correzione dei vizi e peccati umani come prerequisito
per una vita paciica anche con gli animali.
Una presentazione di alcuni di questi racconti si trova in Bormolini 2014 e Starowieyski
2014.
8
23
animal studies 13/2015
Bibliograia
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24
UN AMORE COSMICO
LA COMPASSIONE PER GLI ANIMALI
NELLA TRADIZIONE CRISTIANA
Di Guidalberto Bormolini
Dottorando in teologia spirituale monastica
presso il Pontiicio Ateneo Sant’Anselmo a
Roma1
1. Una rilettura della visione cristiana della natura
Per lungo tempo, negli ultimi decenni, la cultura giudeo-cristiana è stata
accusata di non predicare un amore cosmico per tutte le creature e di aver
quindi favorito l’attuale gravissima crisi ecologica. Tali prese di posizione, seppur in gran parte infondate e parziali, hanno comunque una giustiicazione
poiché sono conseguenza di un reale cambiamento di visione che, soprattutto
nel cristianesimo occidentale, ha fatto perdere il collegamento con la fonte del
pensiero biblico e cristiano. Ma ogni tradizione chiede, giustamente, di esser
vagliata alla propria fonte e le fonti cristiane sono molto chiare a questo riguardo. I padri della Chiesa hanno trattato spesso il tema del rapporto fra l’uomo e
il creato, proponendo una visione positiva dell’universo, che si relaziona ad un
Dio buono che ha fatto cose buone, favorendo così una visione benevola della
natura in opposizione alle posizioni manichee o di alcune scuole della ilosoia
ellenistica che provavano forte disprezzo verso la materia e il mondo visibile.
Anche il rapporto concreto col mondo animale era di livello elevatissimo in
quelli che il cristianesimo stesso ritiene esser i propri rappresentanti esemplari:
i santi. Nessuna tradizione può afermare di esser totalmente rappresentata dal
comportamento dei suoi singoli seguaci, i grandi ideali diicilmente si incarPadre Guidalberto Bormolini della comunità dei Ricostruttori nella preghiera è docente
al Master “End life” dell’Università di Padova. Guida ritiri ed esercizi spirituali, collabora
con numerose riviste e pubblica saggi su ascesi e spiritualità. Si occupa in particolare di
ecologia e spiritualità. Di recente pubblicazione I santi e gli animali (Firenze 2014).
1
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animal studies 13/2015
nano in intere moltitudini, e il cristianesimo antico ha quindi “canonizzato”
la igura del santo come colui che rappresenta la massima incarnazione del
proprio ideale evangelico. La vita di un santo ha una forza rappresentativa e
normativa perino superiore a quella della teologia. È quindi signiicativo che il
rapporto armonioso col mondo animale sia universalmente presente nelle vite
dei santi del primo millennio (e non solo) ed attesta quindi, con un principio
di valore profondamente teologico, che il patrimonio cristiano è univoco a
questo riguardo (Cfr. Bormolini 2014).
Purtroppo in seguito, come aferma Enzo Bianchi, “il cristianesimo occidentale, soprattutto nel secondo millennio, ha coltivato una fede a-cosmica,
radicalmente antropocentrica, nella quale animali e vegetali, ossia la natura,
costituiscono soltanto un contesto per l’uomo, il suo ambiente; anzi, sono a lui
inalizzati, sono nient’altro che strumenti al suo servizio” (2008; p. 4). Anche
se la svolta decisiva sembra avvenire in epoca ancor più tarda, in seguito al fascino esercitato dalla ilosoia cartesiana sui pensatori cristiani. Moltmann, uno
dei teologi contemporanei maggiormente impegnato sul tema dell’ecologia,
individua nella ilosoia di René Descartes – più noto come Cartesio – le basi
dell’attuale stravolgimento del rapporto uomo-creato:
Secondo Cartesio per mezzo della scienza naturale l’uomo deve diventare “maître et possesseur de la nature” e così realizzare la sua destinazione, conforme al dettato della creazione […] Il ripristino del dominio
sul mondo da parte dell’uomo per mezzo della scienza naturale e della
tecnica renderà nuovamente l’uomo l’essere somigliante a Dio sulla terra.
In Bacone e Cartesio è possibile riconoscere il fatale capovolgimento del
pensiero biblico che oggi con lo sviluppo della tecnica ha portato alla crisi ecologica mondiale. Secondo la Bibbia la somiglianza con Dio fonda
il dominio dell’uomo sul mondo. Secondo Bacone e Cartesio il dominio
dell’uomo sul mondo fonda la sua divinità. Da quando Bacone e Cartesio raigurarono il rapporto uomo-mondo come rapporto soggettooggetto e questo modello apparve universalmente evidente, iniziò l’avanzata vittoriosa delle Scienze naturali classiche e della tecnologia moderna.
Si tratta di un modello di dominio e di sfruttamento (1980; p. 143).
Come risaputo, nello speciico del rapporto col mondo animale la visione
Cartesiana dell’animale come una semplice “macchina” (Descartes 1966; p.
57) ebbe grande peso, e inluenzò il pensiero sempre più tecnocratico dell’Occidente difondendosi anche nella mentalità comune della cristianità occiden26
un amore cosmico. la compassione per gli animali nella tradizione cristiana
tale. Ma nulla di più lontano dall’autentica tradizione cristiana come testimoniano le parole di Teresa d’Avila che parla con l’autorevolezza di un Dottore
della Chiesa: “Per conto mio nutro anzi la convinzione che in ogni minima creatura plasmata da Dio, quand’anche si tratti solo di una formichina, si celano
più meraviglie di quante se ne possono immaginare” (Teresa d’Avila 4, II, 2).
2. Il ritorno alle fonti: la riscoperta di un amore cristiano cosmico
A far parzialmente giustizia di questo allontanamento dalle fonti è stato l’intervento recente del Magistero attraverso la lettera Enciclica Laudato si’ di Papa
Francesco. Si tratta di un primo passo che lascia sperare in ulteriori sviluppi del
pensiero cattolico approfondendo anche il tema del rapporto col mondo animale che in tale documento non è ancora suicientemente approfondito. Va
comunque ricordato che alcune pubblicazioni recenti indicano che sta ormai
penetrando anche nel mondo cattolico italiano una forte attenzione teologica
verso i diritti degli animali, già presente da almeno più di due secoli in altre
aree culturali (Massaro 2013). Non intendiamo qui fare una completa rassegna
bibliograica, ma può esser utile ricordare alcune pubblicazioni che mostrano
come in Italia ci sia una crescente attenzione al tema animale nella rilessione
cristiana. Innanzitutto va ricordato un personaggio, dichiaratamente cattolico
e gandhiano, come Lanza del Vasto, poi la recente traduzione del saggio di
Andrew Linzey, Teologia animale (1998), ma ancor più i numerosi volumi dedicati al tema da Paolo De Benedetti, a partire da Il nostro prossimo, gli animali
(2007) e Teologia degli animali (2007). Da segnalare sono anche i volumi di
Adriano Mariani, soprattutto Do per cibo il verde dell’erba. Il cristianesimo alla
prova della condizione animale (2005), il lavoro di Piero Stefani, Gli animali e la
Bibbia. I nostri fratelli minori (1994) e il saggio di Giacomo Coccolini, Insieme
nell’arca (2012). Anche i nostri studi I vegetariani nelle tradizioni spirituali e I
santi e gli animali, l’Eden ritrovato (2014), hanno trovato vasta eco nei quotidiani e settimanali cattolici nazionali. Ultima pubblicazione teologica sul tema
è Il grido della creazione (2015) che dimostra ulteriormente come la coscienza
ecclesiale abbia sempre più consapevolezza che il tema del rapporto col mondo
animale sia un’istanza fondamentale dell’etica contemporanea. Il convegno da
cui si è originato il volume (organizzato da una profetica Associazione di Cattolici Vegetariani) è stato salutato da una Lettera augurale di Papa Francesco a
irma dell’assessore Peter B. Wells. Ulteriore conferma di questa crescente sen27
animal studies 13/2015
sibilità è la generosa presenza al simposio di un vescovo, mons. Eugenio Binini
che ha scritto anche un contributo, e del Card. Edoardo Menichelli, che ha
voluto irmare la Prefazione.
3. L’amore per gli animali nei Padri
Per quanto riguarda il mondo patristico va considerato che anche quando
non parlano degli animali nello speciico, ma della creazione in generale, tali
considerazioni sono riferite anche agli animali che ne sono membri, umani
compresi.
La creazione, la natura tutta, è vista dai Padri come un tesoro prezioso: la
creazione è buona perché buono è il Creatore. Ma non si creda che nel pensiero
antico questa considerazione fosse ovvia! I Padri infatti sentivano l’esigenza di
contrastare alcune ilosoie che consideravano la materia e il mondo come qualcosa di opposto allo spirito, sottoposto al dominio di forze negative. Per i primi
Padri tutta la natura compartecipa della bontà e della bellezza divina, anche il
mondo animale: “Neanche negli animali privi di ragione esiste il male”2. Di
conseguenza i Padri del deserto arrivavano ad afermare la bontà intrinseca del
mondo animale in modo veramente radicale: “Abbà Poemen raccontava che
un fratello chiese ad abbà Alonio: ‘Che cos’è l’umiltà?’. E l’anziano rispo¬se: ‘È
mettersi al di sotto di tutti gli esseri non dotati di ragione3 e sapere che questi
sono irreprensibili’”4. Si trovano autori che deiniscono poeticamente la natura
come un grembo, a disposizione del Creatore, che genera ogni essere: “O natura muta che dal tuo seno hai fatto scaturire gli animali: sebbene alla vista [tu]
non sembri che umile fango, hai generato la bellezza di tutte le specie”5.
Ogni aspetto della creazione è la manifestazione di una sapienza meravigliosa e afascinante e i Padri ne cantano la bellezza: “Sta scritto: ‘Poiché tu,
Signore, mi hai rallegrato con la tua creazione’ [Sal. 92,5]. Qualunque cosa io
Dionigi Pseudo-Areopagita, Sui nomi divini, IV, 25.
“…non dotati di ragione…”. L’espressione utilizzata appartiene alla cultura dell’epoca
e non alla cristianità in quanto tale. Vi sono invece numerose testimonianze di altro
genere a questo riguardo, che documentano un colloquio profondo e intellegibile tra
umani e altri animali nelle vite di santi (Cfr. Bormolini 2014 in particolare il cap. VIII “Il
colloquio con il mondo animale” e cap. XI “Il canto della creazione”).
4
Poemen 41, Detti dei Padri del deserto, serie alfabetica 615.
5
Narsai, Omelia sulla creazione, III, 197-200.
2
3
28
un amore cosmico. la compassione per gli animali nella tradizione cristiana
guardi, mi rallegra; comprendo il Creatore e benedico Dio [cfr. Sap. 13,5]”6.
Attingendo all’immenso tesoro trasmesso dai Padri, Antonio da Padova ribadiva che la bellezza del cosmo ci ricorda la bellezza di chi lo ha creato: “L’opera
del Signore è la creazione, la quale, ben considerata, porta chi la contempla alla
considerazione del suo Creatore. Se tanta bellezza è nella creatura, quanta ce
n’è nel Creatore? La sapienza dell’arteice risplende nella materia” (Antonio da
Padova 1979; pp. 476-477).
Vi è quindi una sapienza interna al cosmo che bisogna saper penetrare, e
questo concetto è confermato anche dal Magistero attuale: “le varie creature rilettono, ognuna a suo modo, un raggio dell’ininita sapienza e bontà di Dio”7.
I Padri orientali pensavano che il mondo visibile fosse innanzitutto una scuola
per le anime, che può condurre l’uomo alla conoscenza di Dio8. La materia
è così riabilitata, le viene assegnato un posto prezioso nel piano divino, è necessaria per l’educazione dell’essere umano e diventa punto di partenza verso
la conoscenza di Dio (Cfr. Harl 1958; p. 372). Ma, soprattutto, attraverso la
bellezza dell’universo si può raggiungere l’inefabile bellezza di Dio9.
Ma son soprattutto i versi, pronunciati da uno dei più grandi padri e dottori
della Chiesa, annoverato tra i quattro più insigni dell’Oriente e “maestro universale”, che chiariscono in modo inconfutabile che nella tradizione cristiana
l’amore per tutti gli animali non è un fatto strumentale né occasionale, ma è
una compartecipazione all’amore con cui il Creatore ha amato le sue creature:
Dio, accresci in noi il senso della fraternità con tutti gli esseri viventi,
con i nostri piccoli fratelli a cui Tu hai concesso di soggiornare con noi
su questa terra. Facci comprendere che essi non vivono soltanto per noi,
ma anche per se stessi e per Te; facci capire che essi amano, al pari nostro,
la dolcezza della vita e si sentono meglio al loro posto, di quanto noi non
ci sentiamo al nostro!10
Altrove lo stesso santo prega per gli animali che “ofrono le loro misere vite
ainché noi viviamo bene […] e anche per le creature selvagge che tu hai creato
sapienti, forti, belle”. Ma il culmine lo raggiunge quando rivolto al Signore così
Origene, Omelia sui Salmi, Sal 91, 5.
CCC 339.
8
Cfr. Basilio Magno, L’Esamerone, VI, 1.
9
Cfr. Ippolito, Sulle sante Teofanie, I, 2.
10
Basilio di Cesarea, Omelie sull’Esamerone, II, 1.
6
7
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si esprime: “Ti preghiamo per tutte le creature e supplichiamo la tua grande
tenerezza di cuore perché tu hai promesso di salvare l’uomo e gli animali e hai
concesso loro il tuo amore ininito” (citato in Bianchi 1997; p. 26).
4. La rivelazione cosmica
Il modo in cui viene riproposta la questione galileiana nel dibattito contemporaneo fa dimenticare, probabilmente agli stessi cattolici, che l’insegnamento
patristico originario parla di due Rivelazioni da parte di Dio: una ci è stata tramandata dalla Parola di Dio, ed è contenuta nelle Sacre Scritture; l’altra invece
risale a tempi primordiali, non è rivolta principalmente ad un popolo, e ci parla
attraverso la natura da Lui creata (Daniélou 1998; pp. 22-3211). Jean Daniélou
(1998) ha eccellentemente sintetizzato tale tradizione:
Precedentemente all’alleanza con Abramo l’Antico Testamento conosce
una prima alleanza – quella di Noè –, contratta con l’umanità intera, e
che ha per oggetto la fedeltà di Dio nel cosmo, il cui sacramento è l’arcobaleno […] La regolarità delle leggi naturali è dunque una “ierofania”
attraverso la quale l’uomo può riconoscere l’esistenza di un Dio provvidente (p. 22).
I mistici cristiani da sempre sostengono che attraverso la contemplazione
della natura si può udire la voce divina e che la creazione può esser letta come
un libro: “Questo mondo sensibile è come un libro aperto a tutti e legato
da una catena così che vi si possa leggere la sapienza di Dio, qualora lo si
desideri”12. Agostino dice che la Bibbia ci permette di comprendere il senso
perduto del mondo e della natura, che è il “primo libro”13. La segreta presenza di Cristo nel creato rende la natura una sorta di Sacra Scrittura cosmica,
rendendo la “Bibbia” della natura un libro più ricco, saggio e profondo di
qualsiasi opera umana. Si può indiscutibilmente afermare che nella cristianità, ino almeno a tutto il Medioevo, la natura è intesa come libro vergato dalla
Un intero e documentato capitolo di questo testo tratta della Rivelazione cosmica come
è presentata nella letteratura patristica.
12
Bernardo, Sermoni diversi, IX, 1.
13
Cfr. Agostino, Sul salmo, VIII, 8; Sul Salmo, CIII, 1, 8; Confessioni, I, 13, 18 e 49.
11
30
un amore cosmico. la compassione per gli animali nella tradizione cristiana
mano divina. Oltre a tanti altri autori riportiamo Ugo di San Vittore che dice:
“Questo mondo sensibile è quasi un libro scritto dal dito di Dio, cioè creato
dalla virtù divina, e le singole creature sono come igure, non inventate dall’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà divina per manifestare la sapienza
invisibile di Dio”14; Meister Eckhart che afermava “Chi non conoscesse altro
che le creature non avrebbe bisogno di prediche, giacché ogni creatura è piena
di Dio ed è un libro”15.
Il teologo contemporaneo Olivier Clément, impregnato di pensiero patristico, può a ragione dichiarare che la natura, e quindi tutti gli animali che la
popolano, sia il “Libro cosmico della Gloria” (Clément 2007; p. 41).
5. I testimoni dell’amore cosmico: i santi e gli animali
Come afermato precedentemente non va assolutamente sottovalutata la valenza teologica della testimonianza dei santi riguardo all’amore per tutti gli animali. L’universalità di questa particolare relazione rende tale testimonianza quasi
“normativa”, poiché il santo è canonizzato anche per presentarlo come modello
esemplare di vita cristiana. Quindi è diicilmente sostenibile che, in un cristiano,
l’assenza di amore per tutte le creature non inluenzi la propria condotta di vita.
Il legame armonioso con il mondo animale caratterizza infatti gran parte della
tradizione monastica primitiva, che è stata un’enorme fucina di santi. Il monachesimo del deserto ebbe una grandissima e rapida difusione: i monaci che
popolarono le distese selvagge del deserto furono così numerosi da far asserire ai
contemporanei che “il deserto era diventato come una città”16! Una città in cui
gli anacoreti convivevano con gli animali selvatici, uniti in una stretta collaborazione e talvolta anche coabitazione. Spesso i monaci sfamavano leoni ed altri animali con della frutta, si narra anche di una lupa che andava ogni giorno a pranzo
da un eremita, nelle ore canoniche previste dalle regole monastiche, rispettando
addirittura i giorni di digiuno17. Un santo anziano che viveva nei pressi del Giordano accoglieva i leoni nella sua grotta e li nutriva tenendoli in grembo18. Sempre
nel deserto di Giuda un monaco strinse un patto con un leone: se accettava di
Ugo di San Vittore, Erudizione didascalica.
Meister Eckhart, Sermone: Quasi stella mattutina.
16
Atanasio, Vita di Antonio, XIV, 7. L’espressione ebbe notevolissima difusione nella
letteratura monastica.
17
Cfr. Sulpicio Severo, Dialoghi, I, 14.
18
Cfr. Giovanni Mosco, Il prato, 2.
14
15
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non uccidere più per sfamarsi avrebbe provveduto lui stesso a procurargli il cibo,
così il felino si recò regolarmente due volte al giorno dal monaco, e mangiava
pane e ceci19. Quanto chiedevano agli animali carnivori era comunque lo stile di
vita degli stessi eremiti: nessun monaco nel deserto infatti mangiava carne (Cfr.
Bormolini 2000) ed alcuni dichiarano espressamente di esser vegetariani per non
uccidere animali! Quando infatti il vescovo di Cipro mandò a chiamare abbà
Ilarione a pranzo furono serviti degli uccelli, il vescovo ne porse al padre Ilarione
che protestò: “Perdonami, da quando ho indossato l’abito monastico non ho più
mangiato animali uccisi”20. Tra le “madri” del deserto si fa riferimento a Candida
che “delle creature che hanno sangue e calore di vita non volle far cibo”21, espressione simile a quella usata dall’antico biografo riguardo a Samuele di Kalamon,
che non mangiava carne: “né cosa da cui si versasse sangue”22.
La convivenza tra santi monaci ed altri animali era molto più frequente di
quanto si possa immaginare. Un giovanissimo eremita fu udito pregare a voce
alta il Signore di concedergli di vivere armoniosamente con gli animali selvatici;
appena terminata la preghiera, raggiunse una iena che allattava i suoi cuccioli e
senza alcun timore si attaccò anche lui alla mammella della iera23. Agatone, scelta la grotta che riteneva adatta alla sua vita di meditazione, scoprì che però era già
dimora di un grosso serpente. Il rettile si ofrì immediatamente di cedere il posto
all’eremita, che invece lo supplicò di non farlo: “Se te ne vai non resto nemmeno
io!”. I due compagni da allora condivisero anche il cibo in modo vegetariano: andavano insieme a nutrirsi della linfa che sgorgava dalla corteccia di un sicomoro
e, dopo aver mangiato, rientravano insieme nella grotta24. Esistevano anche casi
inversi in cui non era l’animale selvatico ad adattarsi a ritmi umani, ma viceversa.
Il Prato spirituale racconta di curiosi monaci detti “pascolanti”, che si nutrivano esclusivamente di erbe e conducevano una vita errante insieme ad animali
erbivori25. Uno di loro, Euprepio, afermava che il modo migliore per vivere è
mangiare erbe, vestirsi di erbe, dormire sull’erba26, tradizione viva anche nel monachesimo copto27. Nei Detti ci sono racconti di anacoreti che vivono in mezzo ai
Cfr. Giovanni Mosco, Il prato, 162.
Epifanio Vescovo di Cipro 4, Detti dei padri del deserto, serie alfabetica 199.
21
Palladino, Storia Lausiaca LVII, 2.
22
Isaac, Vita di Samuele di Kalamon, 7.
23
Cfr. Detti dei padri del deserto, serie degli anonimi 963-964.
24
Detti dei padri del deserto, versione copta 235.
25
Giovanni Mosco, Il Prato, 19 (Cfr. Martini, 2004; pp. 33-43).
26
Cfr. Euprepio 4, Detti dei padri del deserto, serie alfabetica 221.
27
Per esempio Apa Stefano non mangiò mai cibi cotti per diciotto anni “ma solo qualche
19
20
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un amore cosmico. la compassione per gli animali nella tradizione cristiana
bufali28, e non perché la vita in comune con gli animali fosse ritenuta una forma
di penitenza, come sostengono la maggioranza degli studiosi. Si narra infatti che
il monaco Teone usciva di notte dalla sua cella nel deserto accompagnato da una
moltitudine di bestie selvatiche, che dissetava con la sua acqua. Intorno alla sua
abitazione si potevano scorgere orme di bufali, di onagri, di gazzelle e di ogni
specie di animali perché di loro “si deliziava senza posa”29 e quindi la sua scelta
non era rinuncia, ma invece acquisizione di una vita beata.
Altrove abbiamo tentato di dimostrare che lo straordinario mito dell’homo selvaticus, che parla appunto di una condizione nella quale gli animali selvatici e gli
umani sanno godere della reciproca compagnia, è signiicativo proprio in riferimento alla condizione di questi eremiti selvatici (Cfr. Bormolini 2015; pp. 101103). In base alle narrazioni più difuse in ambito cristiano possiamo afermare
che è evidentemente attribuito al ritorno alla condizione selvatica non tanto un
signiicato penitenziale, ma piuttosto di puriicazione. Questi miti presentano,
infatti, una caratteristica interessante: nonostante la loro condizione selvatica, a
cui sono condannati i “trasgressori”, costoro si attengono a una dieta vegetariana!
Quindi sembra piuttosto trattarsi di un ciclo di puriicazione ed è particolarmente
indicativo che la dieta sia vegetariana, perché attesta una catarsi raggiunta con
l’immersione totale nella natura, e non una punizione che emargina dalla civiltà
umana. La condizione dell’homo selvaticus non è quindi una condizione ferina, le
fonti sembrano parlare di ben altro: la puriicazione permette il ritorno alla condizione regale, dopo aver riconosciuto, in conseguenza dell’immersione nella natura
selvaggia, che è solo l’Altissimo che detiene la regalità e può concederla in dono.
6. Tradizione sempre viva
In seguito alla gloriosa epoca dei monaci primitivi sono innumerevoli i racconti di un amore senza limiti verso tutte le creature, in primis gli altri animali.
Brevemente ricordiamo solo alcuni santi recenti per mostrare la continuità.
Il santo Martino de Porres, vissuto nel XVII secolo, amava teneramente
ogni creatura, in particolar modo gli esseri umani più emarginati e gli animali
più riiutati. Fu grande amico dei topi e dei ratti, perché anche in questi esseri,
erba del prato” (Isaac, Vita di Samuele di Kalamon, 117) oppure altri che erano “pascolanti”
solo in Quaresima (Cfr. Besa, Vita di Shenute, 12).
28
Cfr. Detti dei padri del deserto, serie degli anonimi 62; 132 a; 156.
29
Anonimo, Storia dei monaci in Egitto, VI, 4.
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“come in tutto il creato, scopriva l’orma del Creatore”30; amava molto tutti gli
animali, e li aiutava concretamente: organizzò un piccolo ospedale per cani e
gatti abbandonati e per ogni sorta di animale soferente, e il numero dei suoi
“pazienti” crebbe tanto che dovette persuadere una ricca sorella a ospitarli nella
sua grande casa, presso la quale lui si recava ogni giorno a curarli (Cfr. Rossetti
2011; pp. 97-98). Le cronache riportano le dolci espressioni con cui si rivolgeva loro, i processi canonici riportano che “parlava con gli animali come si
parla con esseri intelligenti e ne era ben capito e obbedito. Cani, gatti, buoi,
topi conobbero la sua carità e istintivamente si rivolgevano a lui, non solo per
ricevere il cibo, ma anche perché curasse le loro ferite e malattie”31.
Anche san Giuseppe Cottolengo, nella Torino ottocentesca, era noto per il
suo amore per gli animali. Fece diventare vegetariani i suoi monaci contemplativi. Aveva due canarini a cui era afezionatissimo e che riempiva di ogni cura.
Diceva di tenerli non per propria compagnia ma per “deliziare le orecchie della
mia cara Madonna” (Bourgeois 2008; p. 217).
Il beato Tito Brandsma fu un religioso carmelitano morto martire in un
campo di concentramento nazista, e la sua opposizione alle crudeltà del nazismo fu così radicale che si manifestò anche con un’ostinata ribellione contro
qualsiasi crudeltà inferta agli animali. In una conferenza che tenne nel 1936 a
Nimega, intitolata “Insegnare la prevenzione della crudeltà verso gli animali”
(Brandsma 1932), propose una fondazione cristiana dell’amore per la natura.
Afermava che l’uomo, se ama Dio, deve necessariamente amare anche ciò che
Dio ama, ovvero la natura da Lui voluta e creata:
Si deve vedere Dio come lo sfondo del nostro essere, e adorarlo non solo
nel nostro intimo, ma anche in tutto ciò che esiste, prima di tutto nel
nostro prossimo, ma anche nella natura, nell’universo. Egli, infatti, è presente ovunque, riempie di sé ogni cosa col lavoro delle sue mani. Dio che
abita la nostra esistenza, Dio all’opera nel cosmo, non deve solo essere
oggetto della nostra intuizione. Bensì, Dio deve manifestarsi nella nostra
vita, esprimersi nelle nostre parole e nei nostri gesti, irraggiare da tutto il
nostro essere e da tutto il nostro agire (Tito Brandsma 1932).
Questo esercizio d’amore, se rivolto in particolare verso gli animali, fa crescere la capacità di amare gli altri esseri umani:
S. M. Bertucci, “Martino di Porres”, cit., col. 1243.
Atti del processo di beatiicazione, Secretariado Martin de Porres (a cura di), Valencia,
1660, 1664, 1671.
30
31
34
un amore cosmico. la compassione per gli animali nella tradizione cristiana
Una persona che è crudele verso gli animali corre il grande rischio di
diventare crudele verso gli esseri umani. Una persona, viceversa, che è
premurosa verso gli animali non tratterà aspramente neanche il suo prossimo. L’amore per gli animali, la protezione degli animali minacciati, la
cura per gli animali che sofrono, suscita nell’uomo mirabili condizioni
di amore e cura per i propri prossimi (Tito Brandsma 2013; p. 23).
Anche madre Teresa di Calcutta aveva un amore particolare per gli animali,
tanto da comporre una bellissima preghiera a loro dedicata: “Grazie, Signore,
per gli animali tutti; la tigre, l’orso, l’elefante, il cavallo, la mucca e la capra.
Tu, o Signore, sei il pastore e ci hai chiamato: ‘mio gregge’. Grazie per gli uccelli che a te cantano inni e per i pesci che vagano negli abissi di tutto il creato.
Quando torno a casa, spesso afaticata e stanca, il nostro cagnolino mi viene
incontro abbaiando felice e mi dà il benvenuto leccandomi le mani. Io ho il
dono di tanti amici, Signore” (1997; p. 7). Ma ancor più signiicativi sono i
versi con cui la beata e Nobel per la Pace ha risposto alla domanda “Perché
amare gli animali?”:
Perché ti danno tutto, senza chiedere niente. Perché contro il potere
dell’uomo con le armi sono indifesi. Perché sono eterni bambini, perché
non sanno cosa è l’odio né la guerra. Perché non conoscono il denaro e
si consolano solamente con un posto dove rifugiarsi dal freddo. Perché si
fanno capire senza proferire parola, perché il loro sguardo è puro come
la loro anima. Perché non conoscono l’invidia né il rancore, perché il
perdono è ancora naturale in loro. Perché sanno amare con lealtà e fedeltà. Perché vivono senza avere una lussuosa dimora. Perché non comprano l’amore, semplicemente lo aspettano e perché sono nostri compagni,
eterni amici che niente potrà separare. Perché sono vivi. Per questo e per
altre mille cose meritano il nostro amore. Se impariamo ad amarli come
meritano saremmo molto vicini a Dio!
La recentissima Lettera Enciclica di Papa Francesco Laudato si’ non è quindi
una novità, ma semmai un ricollegarsi alle vere fonti cristiane, talvolta dimenticate, e può essere il primo gradino di un percorso ecclesiale sull’amore per la
natura che raggiunga tutti i viventi. Così identiica il vero discepolo di Cristo
lo stesso Maestro Divino “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se
avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35), verranno forse tempi in cui “gli
uni per gli altri” sarà riferito anche a tutti gli altri animali, e non solo.
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36
IL CRISTIANESIMO ORIGINARIO
E LA QUESTIONE ANIMALE
Di Enrico R. A. Calogero Giannetto
Docente di Storia del pensiero scientiico e
di Filosoia Contemporanea presso l’Università di Bergamo1
Il cristianesimo occidentale non sembra essere stato particolarmente attento
alla questione animale, se non in alcune eccezioni come nel caso della “rivoluzione francescana”. Certo, il cristianesimo si è schierato contro le pratiche
sacriicali animali e in occidente, a partire da Costantino, quando è diventato
politicamente rilevante, il cristianesimo ha segnato la ine dei sacriici e della
loro funzione ideologica. Ma come è stato possibile che questa prospettiva
radicale sia nata in un contesto culturale, anche se non più completamente
cristiano, caratterizzato comunque, almeno in parte, da una secolarizzazione
del cristianesimo? Si è trattato soltanto dell’estensione dell’etica cristiana altruistica e di cura-amore attivo ai non-umani? Oppure c’era già una più profonda radice cristiana di un’etica illimitata e rivolta a tutti gli esseri viventi? Il
cristianesimo è antropocentrico e umanistico come altre religioni post-neolitiche? Veramente Gesù non ebbe mai parole di compassione per gli animali?
Veramente l’etica originaria del Cristianesimo è puramente centrata sull’essere umano, antropocentrica e specista? Così sembrerebbe a sentire la maggior
parte dei cristiani delle più difuse confessioni. In efetti, la questione animale
richiede un salto, implica un’etica che trascenda l’umano, un’“etica del Regno
di Dio” (Giannetto 2012; 2015). I cristiani vegetariani o vegani, a parte ecceEnrico R. A. Calogero Giannetto è autore di numerosi lavori, che spaziano dalla storia
della isica alla cosmologia quantistica, e dalla storia del Cristianesimo all’etica animale.
Tra le sue pubblicazioni: Il Vangelo di Giuda – traduzione dal copto e commento (Medusa,
2006), Un isico delle origini. Heidegger, la scienza e la Natura (Donzelli, 2010) e Note per
una metamorfosi (Ortica, 2011).
1
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zioni che pure stanno crescendo nel mondo – in Italia, da un po’ di anni, c’è
anche un’Associazione Cattolici Vegetariani –, si rifugiano così in testi che,
seppure forse costruiti a in di bene, restano comunque dei falsi inaccettabili:
il cosiddetto “vangelo esseno della pace”, scritto dal pluri-falsario e plagiatore,
ormai morto, Edmond Bordeaux Szekely, vangelo che è stato adottato negli
USA come “nuovo testamento” da una fantomatica “Essene Christ Church”; il
cosiddetto “vangelo dei dodici apostoli”, scritto a seguito di una improbabile
“rivelazione onirica” ricevuta a inizio Novecento dal reverendo Gideon Ouseley in maniera conforme ad un presunto originale aramaico conservato in
Tibet, e presentato come il vero “nuovo testamento” dalla profetessa tedesca
Gabriele a capo del gruppo noto in Europa come “Vita Universale” (e a volte
si sostiene falsamente come trovato a Qumran). Il “vangelo esseno della pace”
è in gran parte un plagio da manoscritti di Qumran realmente trovati nel 1947
e riferentesi ad un Maestro di Giustizia e invece qui riadattati a Gesù, mentre
il “vangelo dei dodici apostoli” non è altro che una sinossi dei quattro vangeli
canonici, a cui sono stati aggiunti dei passi sugli animali. Eppure, ci sono invece dei testi autentici e antichissimi, parte di vangeli apocrii non accettati
dalle chiese o di detti sparsi di Gesù – i cosiddetti “agrapha” –, in cui Gesù ha
insegnato efettivamente una dieta vegana e l’amore per tutti gli esseri viventi.
Questo è però anche uno dei motivi per cui sono stati considerati “eretici”, a
fronte dei vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca, Giovanni) che sembrano
escludere questo aspetto dell’insegnamento di Gesù: sembrerebbe che Gesù
avesse mangiato e fatto mangiare pesci e non abbia mai parlato degli animali.
Per tutta la questione, compresa la dimostrazione che il termine “pesci” nei
vangeli vada inteso simbolicamente e indichi i “cristiani”, mi permetto di rimandare a una mia prima sintesi (2005; 2006; 2011). Esistono invero dei detti
“vegani” di Gesù. Sono presi da una raccolta di cosiddetti “agrapha” o “loghia”
araba di Gesù: oltre i vari apocrii del Nuovo Testamento vi sono delle testimonianze o dei detti di Gesù, isolati o contenuti in altre opere, che possono avere
una certa rilevanza per comprendere Gesù, il cristianesimo e lo stesso Nuovo
Testamento. Questa raccolta è in arabo ed è pubblicata in una serie di scritti
che va sotto la voce di “Patrologia Orientale”, che si aggiunge alle più classiche
opere di “Patrologia Greca” e di “Patrologia Latina” (Asin et Palacios 1917;
1926; 1990; 2003)2. Questa raccolta araba è legata a tradizioni islamiche che
risalgono almeno al VII secolo e per questo vengono sottovalutate dagli storici
Per una traduzione inglese, si veda per esempio: he Ascetic Jesus in he Islamic Jesus –
he Portrait of Jesus in Islamic Literature and Tradition, (Deleanu 2002, pp. 25-35, p. 48).
2
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il cristianesimo originario e la questione animale
del cristianesimo. Tuttavia, è ovvio che si possono rifare a tradizioni orali di
molto anteriori. Non so quanto sia noto che l’islamismo si formò infatti da un
particolare ambiente proprio di quello che è chiamato “giudeo-cristianesimo”
in opposizione al “cristianesimo paolino”. Si può quindi ipotizzare che queste
tradizioni orali che conluiscono in quelle islamiche risalgano almeno in parte
ai primi nazareni-esseni-ebioniti, seguaci di Gesù e rappresentanti il giudeocristianesimo originario della cosiddetta prima “Chiesa di Gerusalemme”. In
questo caso si avrebbe a che fare con fonti antiche e molto attendibili su Gesù.
Robert Price li tratta come una sorta di fonte Q araba. Il legame strettissimo di
un loghion come il 145 con Mt. 6,25 e passo parallelo in Luca dimostra come
questa dieta sia legata al riiuto dell’agricoltura e del dominio della terra da
parte dell’uomo, aboliti nella proclamazione del Regno di Dio. Ecco i brani
rilevanti:
• loghion 39. [...] Allora il Messia disse agli apostoli: “Mangiare pane d’orzo misto a sale duro, indossare il cilicio e dormire nei letamai, è dunque
gran cosa, se giova alla salvezza dell’anima in questo mondo e nell’altro”.
• loghion 44. Voglia tu seguire l’esempio di chi possiede lo Spirito e il
Verbo, Gesù iglio di Maria (su di lui la pace!). Egli diceva: “Il mio
condimento è la fame, il mio segno distintivo è il timore di Dio, la mia
veste è di peli, il mio mantello durante l’inverno è dove battono i raggi
del sole, la luna è la mia lucerna, i piedi la mia bestia da soma, il mio
cibo e i frutti sulla mia tavola sono tutto ciò che germoglia dalla terra spontaneamente [senza coltivazione]. Si fa notte ed io non possiedo nulla, si fa
giorno ed io non possiedo nulla; eppure sulla terra non c’è nessuno che
sia più ricco di me”.
• loghion 77. Il Messia iglio di Maria (su di lui la pace) indossava vesti di
crine, mangiava i frutti degli alberi selvatici, non aveva un iglio che potesse morire, né una casa che potesse crollare, non pensava all’indomani,
e dormiva ovunque la notte lo cogliesse.
• loghion 80. Il Messia (Dio lo benedica e dia la pace) era solito dire: “Oh,
igli d’Israele, usate l’acqua pura, vegetali selvatici e pane d’orzo, ed evitate
il pane lievitato perché non sareste grati a Dio”.
• loghion 109 (111Robson). Gesù (su di lui la pace!) disse agli apostoli:
“Prendete come case i luoghi di preghiera, e le case come ospizi. Mangiate i vegetali selvatici, bevete l’acqua delle sorgenti e tenetevi alla larga
dal mondo”.
• loghion 139. Se vuoi imitare il digiuno di Gesù, iglio della Vergine im39
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•
macolata (su entrambi la pace!), sappi che egli digiunò per tutto il tempo
della sua vita; non mangiava che pane d’orzo, indossava vesti di crine di
cammello, e, ovunque la notte lo cogliesse, fermava i suoi passi e pregava
ino a scorgere all’orizzonte il segno dell’alba imminente [...]
loghion 145. [...] O igli d’Israele! Prendetevi i templi come dimore e
le tombe come case! Comportatevi come ospiti di passaggio! Non vedete gli uccelli del cielo? Non seminano e non raccolgono, eppure Dio
nell’alto dei cieli li nutre! O igli d’Israele! Mangiate pane d’orzo e vegetali
selvatici!
Il rapporto fra cristianesimo e umanismo va quindi considerato nella sua
complessità storica. La reazione contro la trasformazione neolitica delle religioni quali culti sacriicali era legata nel cristianesimo originario non solo a una
prospettiva anti-sacriicale, ma anche di una dieta vegana, legata ad un’etica
cosmica-universale di amore attivo e di cura nei confronti di tutti gli esseri viventi. Nel cristianesimo originario tutti gli esseri viventi sono igli e iglie dello
stesso Dio, e come tali umani e non umani si appartengono in una relazione di
fratellanza/sorellanza universale. Solo la successiva occidentalizzazione del cristianesimo ha fatto sì che scomparisse quasi l’etica universale verso tutti i viventi. Una disamina storico-critica accurata e non pre-giudiziale, legata allo studio
e all’interpretazione di tutte le fonti storiche e delle varie testimonianze, porta
alla conclusione indiscutibile seguente: che Gesù non fu solo contro i sacriici
animali, ma che anche perse la vita proprio in conseguenza del suo “attacco”
al tempio come spelonca non solo di ladri, ma anche di assassini (secondo il
testo originale di Geremia citato); che Gesù predicò una dieta vegana come
attestato dai detti conservati nella tradizione araba, nel vangelo degli ebrei,
nelle pseudo-clementine, nei testi gnostico-encratiti e dalla sequela di ebioniti,
nazareni, marcioniti, manichei e altri, e che i racconti evangelici in cui si parla
di pesci vanno interpretati simbolicamente secondo l’identità di Gesù/Pesce e
dei cristiani come pesci; che Gesù, anche nei testi canonici proclamò il Regno
di Dio da realizzare nell’ora e nel qui come restaurazione escatologica della
condizione iniziale edenica di pace e non-fagocitazione reciproca fra tutti i viventi (Gen. 1,29-30; Is. 11,6-9; Mc. 1,13). Gesù ribaltò tutte le gerarchie con
il principio d’inversione di primi e ultimi: questo colpì anche quello che si è
chiamato umanismo, perché l’essere umano si deve fare ultimo per prendersi
cura di tutte le creature; la parabola del “buon samaritano” di Luca 10 parla
di un Amore del prossimo nel senso di un genitivo soggettivo, per cui non vi
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il cristianesimo originario e la questione animale
è alcuna limitazione di etnia, di genere o di specie per l’Amore, in quanto è
chi ama che si fa prossimo a tutti gli esseri. Se la Parola di Dio ha preso corpo
nell’essere umano Gesù, Gesù si è fatto agnello per far sì che nessun agnello
fosse più ucciso e sacriicato; la comunione eucaristica è la sostituzione di un
pasto animale-sacriicale basato sulla logica fagocitativa umana, con un pasto
vegano non cruento in cui la Parola di Dio stesso nell’essere umano di Gesù
si fa cibo non basato sull’uccisione di altri esseri animali. Il Cristianesimo
originario è quindi un anti-umanismo, un antispecismo, e la sua riscoperta
sarà fondamentale per la liberazione animale di cui parla anche Paolo nella Lettera ai Romani (8,21 e ss.). E in tutti i tempi successivi vari gruppi
cristiani “eretici” hanno ripreso questo anti-umanismo originario e hanno
portato all’attuale sviluppo di un’etica anti-umanistica che ne ha dimenticato
la radice. Questo è confermato anche dai vangeli canonici. Invero, le copie
dei vangeli canonici che noi usiamo sono traduzioni, o meglio traduzioni di
traduzioni: sono traduzioni dal greco, che di solito viene considerato dalla
maggior parte degli studiosi come la lingua originale; ma tutti sono pronti
ad ammettere che dipendano da fonti orali in aramaico – la lingua parlata
da Gesù e dai suoi primi discepoli –, o da fonti scritte aramaiche perdute. Le
traduzioni sono stereotipate, sono dipese dal contesto culturale occidentale,
antropocentrico e umanista, in cui sono state prodotte, e si ripetono da secoli
con piccolissime varianti, nella convinzione che allontanarsene signiicherebbe rompere con la tradizione. Tuttavia, alcuni testi aramaici dei vangeli canonici si sono preservati: nell’Ottocento sono stati ritrovati due testi in antico
aramaico siriaco (il Curetoniano e il Siro-sinaitico) e una vasta selezione di
frammenti in aramaico palestinese cristiano (Christian Palestinian Aramaic,
CPA) (Miniscalchi Erizzo, 1861; Smith Lewis, Dunlop Gibson 1899; Wilson 2003): mi sono così riproposto di tradurli a poco a poco senza avere presupposto in mente il modello conosciuto e difuso di traduzione dal greco.
L’esito è sorprendente e ne presento qui solo due esempi.
Matteo 18,1-10 (cfr. Mc. 9,33-37 e 42-48; Lc. 9,46-48): 1 In quel giorno si avvicinarono i discepoli al Signore Gesù, dicendo: “Chi è perciò il
più grande nel regno dei cieli?” 2 E il Signore Gesù proclamò un agnello e lo sollevò in mezzo a loro. E disse: 3 “In verità, io vi dico che se
non sarete convertiti e non diventerete come un agnello, non entrerete
nel regno dei cieli. 4 Perciò, chiunque umilierà se stesso come questo
agnello, questo sarà il più grande nel regno dei cieli. 5 E tutti quelli
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che accoglieranno uno di questi agnelli nel mio nome, accoglieranno
me. 6 E per chiunque arrecherà male alla vita di una di queste piccole
creature che si idano di me, sarebbe stato meglio che una macina di
mulino da asino gli fosse stata legata intorno al collo e fosse annegato
nelle profondità del mare. 7 Guai a questo eone per i mali che vengono
e per i mali che verranno, ma di più guai all’essere umano per cui essi
vengono.8 Se la tua mano o il tuo piede è mezzo per fare del male, taglialo e gettalo via da te. Perché sarebbe stato meglio per te essere nato
monco o zoppo, piuttosto che avere due mani o due piedi ma andare a
inire nel fuoco di questo tempo-del-mondo. 9 Se è il tuo occhio causa
del male, cavalo fuori e gettalo via lontano da te; sarebbe stato meglio
per te essere nato avendo un occhio solo, piuttosto che avere due occhi
e andare a inire nella fossa della Geenna dove i riiuti sono bruciati
nel fuoco.10 Guardatevi dal disprezzare una di queste piccole creature.
Perché io vi dico che i loro angeli costantemente vedono il volto del
mio papà che è nei cieli.
La traduzione più difusa fa riferimento a bambini umani solo attraverso
una sotto-determinazione del senso del termine aramaico palestinese cristiano (CPA) “talià” – che indica un cucciolo di una qualsiasi specie –, causata da
un contesto culturale di ricezione sicuramente antropocentrico. Ma il senso
principale e originario del termine è certamente quello legato all’ebraico e
all’aramaico biblico, a cui il CPA antico era più simile, in cui “talià” signiica
agnello (Is. 40,11 e 65,25). Anche la rilevanza del simbolismo dell’agnello,
legato a Gesù, nel Nuovo Testamento, è decisiva a favore di questa traduzione. Il greco invero mantiene comunque il senso più ampio nel termine
“pais”, ed è solo la traduzione successiva in altre lingue che ne ha ristretto
il signiicato. Si può allora supporre che proprio il privilegio al signiicato di “bambino” per il termine “talià” sia un retro-efetto della traduzione
greca con “pais”, per cui addirittura “agnello” non compare più nei lessici
aramaici quale signiicato di “talià”. Che l’aramaico sia la lingua originale si
nota anche dal gioco di parole che Gesù fa con il corrispondente del verbo
entrare: “alà…talià…la taloùn” (“non…agnello…non entrerete”). E si nota
ancora da Marco 9,35-36, dove c’è un gioco di parole fra “servo” e “agnello”
che sono espressi in aramaico dallo stesso termine “talià”. La risposta paradossale di Gesù consiste nel ribaltamento di qualunque gerarchia, anche di
specie, per cui la più piccola creatura, l’agnello, è la più grande nel regno dei
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il cristianesimo originario e la questione animale
cieli. Questo ribaltamento gerarchico è ancora più evidenziato dal fatto che
“talià” può avere, in altri contesti, anche il signiicato di servo. Questa interpretazione del termine greco che appare spesso nel testo evangelico come
“piccola creatura” è stata data per la prima volta, a partire da una traduzione
di passi simili, in una memorabile predica di Albert Schweitzer. Il termine
poi usualmente tradotto con “scandalizzare”, invero signiica “recare male”,
“recare danno alla vita” o anche “uccidere”: si comprende quindi la durezza
delle parole successive di Gesù, anche dei versi 8-10, per chi ha arrecato questi mali. Il verso 9 riferito all’occhio si può così connettere al capitolo 9 di
Giovanni, dove la vera cecità è propria di quelli che credono di vedere e non
vedono. In questa luce va compreso anche il verso 19,12 sugli eunuchi per il
regno dei cieli: sarebbe meglio essere evirati piuttosto che fare violenza, fare
torto alle donne con la propria virilità. La prima condanna è poi non genericamente del “mondo”, come nelle solite traduzioni, ma di questo “eone” (età
del mondo) in cui domina il male: il termine “alma” aramaico corrisponde al
termine “olam” ebraico e reso col greco “aiòn”, non indica il mondo ma l’attuale, temporanea, conigurazione del mondo, che dovrà essere già ora e qui
soppiantata dal “Regno di Dio” proclamato da Gesù, in cui, secondo Isaia
11,6-9, non ci sarà più il male, non ci sarà la violenza fra gli individui della
stessa specie o di diverse specie viventi né reciproca fagocitazione: l’essere
umano avrà l’innocenza della piccola creatura qui anche evocata, che giocherà nella tana della vipera, mentre il lupo e l’agnello pascoleranno insieme. La
conseguenza del male non è la ine in un inferno “eterno”, ma la ine consiste
nel lasciarsi consumare, in questa vita, dal fuoco inferiore di questa età del
mondo, che è simboleggiato dalla bassezza della discarica di Gerusalemme,
che era chiamata Geenna. Che la traduzione corretta di “talià” sia “agnello” o
“piccola creatura” e non “bambino” è evidente anche dal verso 10: altrimenti
non si comprenderebbe perché si dovrebbero disprezzare i bambini umani. E
anche dal riferimento ai “loro” angeli, che sono distinti da quelli degli esseri
umani. Questo implica anche che tutte le creature vedono Dio, che è identiicato afettuosamente con un papà. Non solo non bisogna fare del male agli
altri viventi, ma anche non bisogna disprezzare gli altri esseri viventi, le altre
creature considerate “piccole” e “inferiori”, perché vedono e vedranno Dio e
perché saranno le più grandi nel Regno di Dio.
Giovanni 6: 2 E una grande folla lo seguiva, e vedeva i segni che faceva sugli infermi. 3 E allora Gesù salì sulla montagna e là si sedette con i
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suoi discepoli. 5 E sollevò Gesù i suoi occhi, e vide che una grande folla
veniva da lui e disse a Filippo: “Dove possiamo procurare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. 6 Diceva così per metterlo alla prova; infatti, egli stesso sapeva quello che stava per essere fatto. 7 Rispose
Filippo e disse: “Duecento denari di pane non sono suicienti per essi,
neppure perché ognuno possa riceverne un minimo pezzo”. 8 Gli disse
uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: 9 “C’è qui un
bambino che ha cinque pani d’orzo e due bricchi d’acqua, ma che cosa
sono essi per tutti questi?”. 10 Disse allora Gesù: “Fate sedere gli uomini”. C’era, invero, in quel luogo molta erba. Si sedettero dunque quegli
uomini ed erano circa cinquemila. 11 E Gesù prese i pani e, dopo aver
reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece con
i bricchi d’acqua, inché ne vollero. 12 E quando furono saziati, disse
ai suoi discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. 13 Li raccolsero quindi e riempirono dodici canestri con i pezzi
dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato. 25 E
lo trovarono di là dal mare, e gli dissero: “Rabbì, quando sei venuto
qua?”.26 Gesù rispose: “In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non
perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi
siete saziati. 27 Procuratevi non il cibo che passa e perisce, ma quel cibo
che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su
di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. 28 Gli dissero: “Che cosa
dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”. 30 E gli dissero: “Quale segno dunque tu farai perché vediamo e possiamo crederti? Quale
opera compirai? 31 I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto,
come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo”. 32 E disse
loro Gesù: “In verità, in verità vi dico: non Mosè vi ha dato il pane dal
cielo, ma il Padre mio vi dà il pane dal cielo, quello vero. 33 Il pane di
Dio, invero, è colui che discende dal cielo e dà la vita per il mondo”.
34
Gli dissero allora: “Signore, dacci sempre di questo pane”. 35 Disse
loro Gesù: “Sono io il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame
e chi crede in me non avrà sete in eterno”. 41 E intanto i Giudei mormoravano di lui perché aveva detto: “Sono io il pane che discende dal
cielo”. 47 Disse Gesù ai Giudei: “In verità, in verità vi dico: 48 Io sono il
pane della vita. 49 I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto
e sono morti. 50 Questo è il pane che discende dal cielo, perché l’uomo
che ne mangia, non muoia. 51 Io sono il pane vivo, che discende dal
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il cristianesimo originario e la questione animale
cielo. Chi mangerà di questo pane, vivrà in eterno; e questo pane è la
sola carne che io darò, quella mia che io darò per la vita del mondo”.52
E i Giudei si misero a litigare tra di loro e dicevano: “Come può costui
darci come carne da mangiare, la sua?”. 53 E Gesù disse loro: “In verità,
in verità vi dico: se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non
berrete il suo sangue, non avrete con voi la vita e me in voi stessi. 54
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ecco avrà la vita eterna
e io lo resusciterò nel nuovissimo giorno. 55 E disse Gesù a coloro che
avevano creduto in lui fra i Giudei: la mia carne, infatti, è il vero cibo
e il mio sangue la vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne, e beve il
mio sangue, dimorerà in me e io in lui. 57 Come il Padre, che è la Vita,
ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di
me vivrà per me. 58 Questo è il pane che discende dal cielo, non come
quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo
pane vivrà in eterno”.59 Queste cose disse Gesù, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. 60 Molti dei suoi discepoli allora, dopo aver ascoltato
questa Parola, dissero: “Questa Parola è dura; chi può intenderla?”. 63 È
lo Spirito che dà la vita, il cibo carneo fa compiere il male contro la vita
di qualcuno. Quelle parole che vi ho dette sono Spirito e Vita.
Al di là dell’interpretazione teologica della persona di Gesù che come tale
è presentato in una distinzione oppositiva agli esseri umani e ai Giudei, che è
caratteristica globale del quarto vangelo, su cui non mi sofermo, ci sono altri
punti rilevanti da sottolineare. Nella moltiplicazione dei pani non compaiono afatto pesci: il termine originario “nun” indica acqua (o contenitore d’acqua), e solo per metonimia “pesce” (attraverso un lungo processo che parte
dall’interpretazione dell’ideogramma originario), attestato poi come unico
signiicato anche in aramaico palestinese, a partire da cattive retroversioni
del Nuovo Testamento dal greco pensato come sua lingua originale. Questo
concorda con Es. 17,1-7, come ripresa dei miracoli di Mosè. Il signiicato di
pesce si è difuso anche a partire dall’epiteto di Giosuè-Yoshua, che era chiamato “Ben Nun”, iglio dell’acqua, ovvero “pesce”. In aramaico ed ebraico si
parla anche di uomini come “igli di uomini”, e di pesci come “igli di pesci”,
ecc. Si è identiicato così “Ben Nun” come “iglio del pesce”, ma impropriamente. Il termine quasi sempre usato per pesce è invece ‘dag’. Gesù-Yeshua
è considerato simbolicamente il nuovo liberatore Giosùe-Yoshua, ed è quindi stato associato anch’esso con il simbolo del “pesce”. Gesù ha convertito
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i pescatori in pescatori di uomini e gli episodi di pesche miracolose sono
racconti simbolici di conversioni di “cristiani” = pesci. L’autore del quarto
vangelo vuole riprendere il racconto del miracolo della moltiplicazione dei
pani, perché solitamente non compreso se non nella sua portata materiale,
e chiarire il senso dell’eucaristia, raccontata negli altri vangeli già scritti precedentemente. Il miracolo più grande è quello della Parola di Dio che Gesù
difonde, distribuisce e dona a tutti donando se stesso, è il cibo spirituale. Il
preoccuparsi per il cibo materiale contro cui Gesù si scaglia in Mt. 6,25-34
e implicitamente in Mt. 5,6, porta gli esseri umani anche a cibarsi di carne,
ma Gesù su questo punto aferma nettamente, con un gioco di parole in aramaico, che la sola carne (bishra) che concederà da mangiare agli esseri umani
è il suo Evangelo (bishra). Infatti, la moltiplicazione dei pani (Gv. 6,1-14;
26-27) attestava Gesù come il “vero profeta” (Deut. 18,15; Gv. 6,14), da un
lato come “nuovo Mosè” che ripeteva il miracolo della manna (Es. 16,4; Sal.
105,40; Ne. 9,15; Gv. 6,31-35 e 48-51), dall’altro contestando Mosè (6,32
“Non Mosè vi ha dato il pane dal cielo...”; 6,49 “I vostri padri...sono morti);
anche la ripresa del libro dell’Ecclesiastico, il Siracide, 15,3 e 24,16-27 (e
invero Proverbi 9,2 se tradotto correttamente: “Ella (la Sapienza/Chokmà)
ha fatto sacriicio di sé: invero, ha miscelato il vino di sé, ha preparato la
mensa di sé”), comporta una contrapposizione, perché la Sapienza che emerge dalla legge di Mosè lascia fame e sete, mentre la gnosi di Dio data solo dal
Figlio (Gv. 1,18 e 17,3), il cibarsi della vera Parola di Dio (Deut. 8,3) non
lascia fame o sete. Qui, è stato il grande studioso Robert Eisler a cogliere
un gioco di parole in aramaico fra il termine bishra come “carne” (questo è
efettivamente il termine usato nell’evangeliario rimasto in aramaico palestinese cristiano, CPA, Christian Paalestinian Aramaic) e l’omofono bishra che
signiica “Buona Novella”, per cui il senso di Gv. 6,53-56 è di cibarsi della
sua “Buona Novella”. Come in Es. 16,1-3 c’era stato un mormorio contro
Mosè e Aronne perché in Egitto gli israeliti mangiavano carne in abbondanza
e Dio allora, Es. 16,11-13, diede loro quaglie come carne da mangiare, così
hanno mormorato nei confronti di Gesù (Gv. 6,41.43.52) richiedendogli
anche carne da mangiare (Gv. 6,52) per fare lo stesso: Gesù però ha risposto
(Gv. 6,51-56) che la sola carne che dava loro era la sua stessa carne come
pane, la sua “Buona Novella”, il suo Evangelo, il solo vino era il suo sangue come vera vite (Gv. 15,1-8), perché un nazoreo/nazireo/nazareno (Num.
6,1-6) non beve vino e nemmeno si accosta a un essere morto (tanto meno
per mangiarne, come spiega Robert Eisler), e la carne da mangiare, il cibo
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il cristianesimo originario e la questione animale
carneo fa compiere il male alla vita di qualcuno (Gv. 6,63): è lo Spirito che
dà la vita, e la Parola di Dio, le sue parole, sono il vero pane, il vero cibo,
Spirito e Vita! Qui, è chiaro dal contesto che non si tratta afatto di una contrapposizione fra spirito e materia secondo un dualismo platonico, o di una
mera, generica, contrapposizione fra un modo di vivere spirituale e un modo
di vivere “carnale”, ma di una speciica contrapposizione fra cibo spirituale e
cibo materiale, e, all’interno del cibo materiale, di una contrapposizione di
una dieta vegetariana/vegana (basata sul pane) alla dieta carnea: con un gioco
di parole, Gesù aferma che la sola carne (bishra) che darà da mangiare è il
cibo spirituale del suo Evangelo (bishra), della sua vita, della sua Parola: solo
un greco, o un moderno anti-cristiano che non ha potuto cogliere questo
gioco di parole, ha potuto interpretare le parole di Gesù nel senso di un rito
teofagico o cannibalico e comunque carnivoro. Il cibo carneo, anche nelle
traduzioni che si riallacciano ai signiicati meno “forti”, “non serve a nulla”,
o anche “non fa afatto bene”, o anche “non fa bene alla vita di alcuno”, ed è
quindi da escludere.
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GLI ANIMALI SECONDO
LA RELIGIONE ISLAMICA
Di Aboulkheir Breigheche
Medico Chirurgo, Presidente del Consiglio dei Garanti dell’Associazione Islamica
Italiana degli Imam e delle Guide Religiose
1. Creature, anzi popoli e comunità come voi
Cominciamo con il ricordare che gli animali sono creature organizzate secondo regole precise, che gli uomini conoscono solo in parte, e hanno una vita
comunitaria particolarmente strutturata, basti pensare alle api.
Ogni specie animale, comprese quelle dannose, ha un ruolo ben preciso e
utile che rientra in maniera chiara e precisa nel Progetto Divino. Nessuna creatura esiste per caso e in maniera disorganizzata, tutt’altro.
Anche il rapporto che gli animali intrattengono con l’uomo e con l’ambiente in cui vivono non è casuale. Tutto è predisposto per realizzare un perfetto equilibrio che assicuri a ogni creatura di svolgere il ruolo assegnatogli dal
Creatore.
Molti problemi e disgrazie succedono, infatti, quando viene a mancare questo equilibrio tra i vari componenti dell’ambiente, e il più delle volte ciò accade
per colpa della creatura più “nobile”, l’uomo. Gli animali sono una componente essenziale di questo ambiente, in cui vivono assieme a tutte le altre creature.
Si legge a tale riguardo nel Corano: “Non vi sono bestie sulla terra né uccelli
che volino con le loro ali nel cielo che non formino delle comunità come voi. Noi
non abbiamo trascurato nulla nel Libro. Poi, avanti al loro Signore saranno
tutti raccolti” (Corano VI:38).
Gli animali sono considerati creature di Dio (Allah) e, proprio come gli
uomini e come tutto il creato, fanno parte di questo mondo. Ogni creatura
animale e ogni specie animale ha un suo spazio, una sua dignità, un suo ruolo
all’interno di questo mondo.
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Il Libro Rivelato da Dio a Muhammad, il Corano, è formato da 114 capitoli
(Sure, plurale di Sura), e ogni Sura ha un nome. Molte Sure portano il nome
di un animale, come segno di profonda considerazione e attenzione particolare
al mondo animale.
Queste Sure sono:
La Giovenca, Il Bestiame, Le Formiche, Le Api, L’Elefante, I Ranghi (i cavalli), Le Scalpitanti (i cavalli che corrono), Il Ragno.
Il Corano, inoltre, presenta numerose situazioni, storie e avvenimenti riguardanti tanti altri animali, come quella del cane fedele che accompagnò un
gruppo di giovani che, per fuggire dalle persecuzioni di un re tiranno, si rifugiò
nella caverna di una montagna (la Sura della Caverna).
A tale proposito è importante ricordare il grande valore riconosciuto al cane
per alcune sue capacità, come la guardia e la caccia. L’Islam, tuttavia, raccomanda molto la prevenzione, per cui è importante evitare la saliva del cane
che può trasmettere delle malattie, dal momento che i cani non sono sempre e
dappertutto vaccinati e curati igienicamente.
Tornando al Versetto del Corano sopra ricordato in cui si aferma che gli
animali formano “comunità e popoli come voi”, esso sottolinea in maniera molto
chiara e, allo stesso tempo, dolce “come voi”. Si tratta di un’espressione che
porta con sé e comprende profondi signiicati che devono esprimersi attraverso
un serio rispetto nel convivere con queste “comunità” e nel trarne i reciproci
vantaggi e le reciproche utilità.
Il versetto sopra parla sia del bestiame sia degli uccelli che volano, aggiungendo per quanto riguarda questi ultimi “che volino con le loro ali”. Proprio
questa espressione, secondo alcuni esegeti, avrebbe spinto il primo uomo che
ha sperimentato il volo personale, Abbas Ben Fernas (810-888 d.C.), a pensare
di volare applicando su se stesso delle ali. Si tratta di un tentativo primordiale,
inito con un brevissimo volo, ma, ciononostante, validissimo e che ha avuto i
suoi sviluppi.
Un altro versetto del Corano recita così: “del bestiame da soma e da macello,
mangiate di quello che Allah vi ha concesso per nutrirvi” (Corano VI:142).
Esistono, quindi, regole ben precise da rispettare in materia di distinzione
tra gli animali “da soma” e quelli “da macello”.
Certi animali sono da utilizzare per il trasporto di cose e persone, come l’asino e il cavallo, o da utilizzare nell’agricoltura, come i tori; altri sono per uso
esclusivo alimentare, e sono la stragrande maggioranza.
In certi periodi e luoghi sono state create delle istituzioni (waqf) e delle vere
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gli animali secondo la religione islamica
e proprie “case di riposo” per gli animali anziani o per quelli senza padrone,
come la “casa dei gatti” a Damasco e quella dei cani e dei cavalli, sempre a
Damasco.
Esistono altre waqf specializzate nella cura degli animali malati, in cui lavora
personale specializzato.
Nella città di Fez in Marocco era stata creata una vera “stazione di servizio”
per i volatili migranti che dovevano attraversare quell’area geograica durante il
loro viaggio; in essa veniva oferto loro del cibo e dell’acqua...
L’attenzione verso il mondo animale ha spinto molti studiosi musulmani
di zoologia a scrivere dei trattati dettagliati su varie specie animali. Uno in
particolare, di nome Jahiz (776-868 d.C.), ha scritto un grande trattato di divulgazione sulla vita degli animali, dal titolo L’Animale, in cui sono presenti
numerosi dettagli sia dal punto di vista religioso, sia ilosoico, sia scientiico.
Molti sono gli altri trattati, e i loro rispettivi autori, che riguardano il mondo animale.
Le creature delle diverse specie animali, come è stato ricordato sopra, costituiscono un vero e proprio “mondo”; per parte nostra noi uomini possiamo
comprendere solo parzialmente i segreti della loro vita individuale e comunitaria. Si veda, ad esempio, la adorazione del Creatore, un aspetto della vita che
accomuna uomini e animali:
“Non vedi tu come a Dio inneggino gli esseri tutti che sono in cielo e sulla
terra, e gli uccelli che stendono le ali? Ognuno conosce la sua preghiera, conosce il suo inno di lode, e Dio sa quel che fanno” (Corano XXIV:41).
2. Come dobbiamo trattare gli animali
Il Profeta Muhammad disse: “Dio ricompensa chiunque fa del bene ad un
essere vivente” (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
In generale gli animali sono creature create da Dio per far parte del Progetto
Divino; per questa ragione, a parte quelli dannosi, devono essere trattati con
attenzione e gentilezza: “Creò le greggi da cui traete calore e altri vantaggi e di
cui vi cibate. E come è bello per voi, quando le riconducete [all’ovile] e quando uscite al pascolo. Trasportano i vostri pesi verso contrade che non potreste
raggiungere, se non con grande fatica. In verità il vostro Signore è dolce, misericordioso. E [vi ha dato] i cavalli, i muli e gli asini, perché li montiate e per
ornamento. E crea cose che voi non conoscete” (Corano XVI:5-8).
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Si riporta nella tradizione islamica di una donna adultera perdonata da
Dio per aver oferto dell’acqua ad un cane assetato (Hadith, dalla raccolta del
Bukhari e Muslim).
Similmente si narra che il Profeta promise il Paradiso ad un uomo poiché
questi, incontrando un cane assetato, scese in un pozzo e, non avendo altro,
riempì la sua stessa scarpa di acqua e risalì verso il cane per salvarlo dal pericolo
della morte (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
Una volta qualcuno chiese al profeta Muhammad se ci sarà una ricompensa
anche per il buon trattamento degli animali. Il Profeta rispose:
Il Profeta rispose: “Chi non ha compassione per gli altri non avrà la Compassione di Dio. Siate misericordiosi con gli esseri viventi, Dio vi tratterà alla
stessa maniera” (Hadith, dalla raccolta del Bhkhari e Muslim).
Al contrario per quanto riguarda il maltrattamento degli animali, il Profeta
raccomanda e avverte:
“Sia maledetto chiunque usa per bersaglio un essere vivente” ovvero, chiunque uccide per divertimento (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
È, infatti, un grave peccato svolgere delle gare di lotta tra gli animali o prendere parte a delle manifestazioni cruente, come le corride che si svolgono in
Spagna ed altrove, a causa delle soferenze che subiscono o che vengono inlitte
agli animali.
Disse il Profeta: “Una donna ha meritato l’inferno a causa di una gatta che
aveva rinchiuso ino a che non morì. Non la nutriva e neanche la lasciò andare
in maniera che mangiasse qualche bestiola della terra” (Hadith, dalla raccolta
del Bukhari e Muslim).
Passando vicino ad un formicaio incendiato il Profeta disse: “Solo il Creatore
del fuoco ha diritto di punire con il fuoco!” (Hadith, dalla raccolta del Bukhari
e Muslim).
È, inoltre, vietato usare come tappeto o come sella per cavalcare le pelli di
leopardo. Da una tradizione autentica il Profeta proibì l’utilizzo delle pelli delle
bestie feroci (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
Vedendo un uccello girare in tondo alla ricerca dei suoi piccoli che gli erano
stati presi dal nido, il Profeta disse: “Chi ha alitto quest’uccello e preso i suoi
piccoli? Rimetteteli nel nido!” (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
Un giorno, il Profeta Muhammad incontrò un cammello e, notando che dagli occhi dell’animale scendevano delle lacrime (!), richiamò immediatamente
il proprietario e sgridandolo gli disse: “Guai a chi carica gli animali più di quello che possono, Guai a chi lascia gli animali afamati” (Hadith, dalla raccolta
52
gli animali secondo la religione islamica
del Bukhari e Muslim).
Il secondo successore del Profeta Muhammad, di nome Omar Bin Al-Khattab, emise una ordinanza in cui stabiliva, da un lato, di spianare le strade dove
passano gli animali da carico, e, dall’altro, di non caricare tali animali più di
quello che era nelle loro possibilità. Pena il sequestro dell’animale.
Un giorno, incontrando delle persone che sostavano per lungo tempo cavalcando i loro animali, il Profeta li ammonì ricordando loro: “Questi animali
non sono delle sedie per voi, assicurate a loro il benessere durante il trasporto
e durante il riposo”.
E aggiunse: “Certi animali sono migliori di coloro che li utilizzano” (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim). Vedendo, poi, un asino marchiato
col fuoco sul muso il Profeta disse: “sia maledetto quello che lo ha marchiato
sul muso”. (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
Disse il Profeta: “I cavalli si acquistano per tre ragioni: uno li ha comprati
destinandoli per la difesa, per costui essi sono una fonte di ricompensa divina.
Un altro li ha acquistati per guadagnare lecito e conservare la sua posizione,
senza tuttavia dimenticare le raccomandazioni di Dio di trattarli bene. Costui
non si dimentica neppure di far sì che ne traggano beneicio anche quelli che
mancano di mezzi. Per quest’uomo i cavalli sono una sicurezza. Un terzo li ha
comprati per orgoglio, ostentazione e ostilità per il prossimo. Per costui, i cavalli
sono una fonte di peccato” (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
3. La macellazione degli animali
La macellazione degli animali e l’alimentazione con la carne di animali hanno le loro regole ben precise. Tali regole riguardano quali sono le carni lecite e
quali quelle illecite. In generale si sottolinea negli insegnamenti della religione
islamica che tutto è lecito eccetto i pochi alimenti che sono proibiti, illeciti. Tra
questi la carne di asino, di mulo, la carne suina e tutti i suoi derivati, la carne
dei volatili che hanno un artiglio particolare per alimentarsi delle carogne di
altri animali, e quella degli animali che hanno un dente canino di forme speciiche (leone, tigre, lupo, ecc.); sono, poi, proibiti topi, serpenti, scorpioni,
insetti, ecc.
Le norme riguardanti la macellazione degli animali sono precise e sono volte
ad assicurare tassativamente agli animali il rispetto e l’ottimo trattamento prima (fase preparatoria), durante e dopo la macellazione.
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Il Profeta Muhammad ha detto: “Dio vi ha ordinato la gentilezza in tutte le
cose. Se dovete uccidere [un animale per cibarvene] fatelo nel modo migliore
e se dovete macellare fatelo nel modo migliore ailando il coltello e rilassando
l’animale” (Hadith, dalla raccolta del Bukhari e Muslim).
Per assicurare questo è indispensabile l’ottima esperienza certiicata degli
operatori e l’utilizzo di strumenti validissimi (coltelli taglienti speciici o strumenti simili), tecniche speciiche, il tutto per assicurare all’animale il minimo
di soferenza possibile1.
Da quanto detto, emerge come la visione islamica sia una visione equilibrata, che mette a disposizione dell’uomo tutti i beneici che il mondo animale
può assicurare, sia come fonte per l’alimentazione sia come mezzo da utilizzare
correttamente, ma, allo stesso tempo, assicura a queste creature tutti i diritti
indispensabili per una vita dignitosa. L’animale è, quindi, considerato un essere
vivente, con diritti e doveri propri, il cui valore non deriva dal mero compiacimento dell’uomo. Non si accetta nello stesso tempo di “santiicare” certi
animali adorandoli e dando a loro un aspetto quasi divino!
Per ulteriori dettagli riguardo la macellazione secondo il rito islamico si rimanda a:
http://www.edizionidelcalamo.com/aw/aw_003/00303.htm.
1
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INDIA: ASCETI E ANIMALI
Di Guido Zanderigo
Segretario Generale della Venetian Academy of Indian Studies e Cultore di Storia
dell’Arte dell’India e del Sud-Est asiatico
presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia1
Molti, anzi moltissimi, grazie anche a una straripante messe di divinità,
sono gli animali che in India vestono i panni del sacro. Praticamente non v’è
categoria, dai pesci agli uccelli, dai rettili ai mammiferi, che non possa vantare,
se non un’icona integrale, almeno una porzione di corpo incastonata in un’immagine divina.
I iloni in cui avventurarsi sono dunque molteplici e spaziano da divinità
che, in determinate circostanze, assumono sembianze d’animale, a Dei, semidei e demoni con corpo in parte umano e in parte bestiale, ad animali veri e
propri assurti al rango di divinità cui è tributato un culto indipendente ovvero
comprimari d’altre ipostasi, per giungere a un bestiario fantastico, frutto di
incroci più o meno improbabili tra diversi generi zoologici.
Sempre però queste raigurazioni, attraverso le caratteristiche isiche (zanne, artigli, morso velenoso, ecc.), le qualità tradizionalmente ascritte ai diversi
animali (astuzia, ferocia, pazienza, ecc.) o un richiamo prettamente simbolico
(il volo, il mondo sotterraneo, le acque, ecc.), utilizzano il linguaggio del mito
per trasmettere un messaggio più sottile di ordine dottrinale.
Uno dei casi più noti è senz’altro quello delle canoniche dieci discese
(avatāra) del dio Viṣṇu che vanno a scandire le quattro epoche (yuga) del ciclo
Guido Zanderigo è autore di numerosi testi e articoli scientiici di argomento indologico, pubblicati in Italia e in India, dedicati in particolar modo all’arte del sud India. Ha
efettuato oltre 30 missioni di studio nell’area di inluenza culturale indiana. Ha partecipato alla missione archeologica italiana (CNR, VAIS, Università Ca’ Foscari di Venezia)
nel sito mahabharatiano di Kampilya, Uttar Pradesh, India.
1
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animal studies 13/2015
cosmico della presente umanità (manvantara)2 . Ciascuno degli avatāra ha un
ruolo di raddrizzamento, di riscatto o di riapertura d’una via, tutte funzioni
nella sostanza equivalenti; a non variare è, a ogni modo, l’azione sacriicale con
cui sempre culmina il loro intervento. Questo tratto è particolarmente evidente nella prima età del ciclo, il kṛta-yuga o satya yuga (corrispondente a quella
che in Occidente è nota come età dell’oro), quando Viṣṇu assume sembianze
animali presentandosi sotto forma di pesce Matsya, di tartaruga Kūrma, di
cinghiale Varāha e, inine, di uomo con testa da leone Narasiṃha, prima di
passare, nei periodi successivi, a discese in forma interamente umana. Solo con
il Kalkin, l’avatāra che verrà a chiudere l’intero ciclo al termine dell’attuale
quarta e ultima età (il kali yuga), il Dio tornerà a vestire panni animali prendendo le sembianze di uomo dalla testa equina per dare il via al gran sacriicio
inale di questo mondo.
La prima considerazione a emergere da questo primo, sommario quadro,
è che la forma animale sembra essere la cifra dei momenti che precedono e
seguono il passaggio di ciclo, quasi a creare una barriera simbolica per sancire l’impossibilità di ciascuna umanità di trailare da un mondo all’altro. Due
elementi, in particolare, appaiono confermare tale utilizzo allegorico degli animali. Da un lato la presenza del serpente Vāsuki – un essere che proviene dai
precedenti manvantara e che quindi si pone come residuo/scrigno di conoscenze di cicli ormai conclusi – che trova posto sia nel mito della prima discesa
(il pesce Matsya), sia in quello della seconda (la tartaruga Kūrma) e che nel
suo arrotolarsi attorno a un asse – nel primo caso il corno frontale di Matsya,
nell’altro la montagna posta sul carapace di Kūrma – allude alle categorie di
tempo e spazio rappresentati dalle spire del serpente (il tempo ciclico) che si
avvolge lungo l’asse cosmico scandendo le diverse età3. Dall’altro la doppia
valenza di Hayagrīva, archetipo trascendente del Kalkin – anch’egli raigurato con testa equina – che rappresenta la funzione di recupero del Veda, cioè
la Conoscenza sacra, al termine del ciclo delle quattro età (dal momento che
questa Conoscenza è l’Assoluto, e dunque l’Eterno, non può annullarsi negli
interstizi di sospensione temporale) e, al contempo, è il demone che deve essere
La teoria dei cicli cosmici del mondo hindū trova un’autorevole ed esaustiva trattazione
in René Guénon 1974; pp. 11-20.
3
Questo simbolismo è ripreso nella rappresentazione di Viṣṇu Anantaśeṣa o Śeṣanāga,
il Viṣṇu cosmico, dormiente sulle spire avviluppate del serpente Ananta che stanno
a indicare un tempo non ancora manifestato. Per un approfondimento sui miti e sul
signiicato dei primi quattro avatāra vedasi Zanderigo 2012; pp. 347-355.
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india asceti e animali
sacriicato dal pesce Matsya all’inizio del seguente ciclo per strappargli il Veda
ainché possa essere reso di nuovo disponibile alla prossima umanità.
Proprio il cavallo, animale dalla fortissima valenza simbolica – come confermato dall’aśvamedha (il sacriicio del cavallo), uno dei più famosi rituali
del mondo vedico4 –, ci riporta a un altro importante personaggio, il vedico
Dadhyañc e ai suoi due discepoli, gli Aśvin, tutti dotati di testa equina. Il mito
tratta della trasmissione – o meglio dell’appropriazione da parte agli uomini
– di due scienze sacre (vidyā) che ino a quel momento erano state prerogativa
esclusiva degli Dei: la madhu vidyā, la scienza del miele e cioè la conoscenza
Suprema, e la pravargya vidyā, la scienza di come sostituire una testa decapitata
dal sacriicio con chiara allusione al sacriicio del sé, che avviene con la morte
iniziatica, e alla successiva rinascita (con l’apposizione d’una nuova testa) a un
diverso livello di consapevolezza (cfr. Zanderigo 2012; pp. 110-115).
Ed è questa scienza che, di fatto, spiana la strada ai miti delle tante divinità e
semidivinità dal corpo umano e testa animale che popolano il pantheon hindū,
a incominciare dal iglio del dio Śiva, Gaṇeśa, dotato di testa d’elefante, una
delle divinità più popolari e amate del mondo indiano. La igura di Gaṇeśa, oltre allo spirito protettivo e augurale che gli ha assicurato un estesissimo seguito
devozionale (bakthi), racchiude un signiicato ben più profondo essendo il Dio
del buon inizio (in genere ogni orazione, così come ogni opera letteraria e, per
estensione, ogni nuova attività, viene aperta con un inno a Gaṇeśa) e quindi, in
termini esoterici, dell’iniziazione in quanto veicolo di conoscenza5.
Ma la categoria delle divinità con testa animale non si ferma certo qui andando ad annoverare, oltre ai casi appena citati, una vasta schiera di igure tra
cui il gran sacerdote degli Dei Dakṣa, dalla testa di caprone6, o le tante forme
Siamo ancora una volta nello stesso ambito simbolico poiché il rituale dell’aśvamedha viene
oferto da un re per divenire cakravartin, cioè sovrano universale. Questa trasformazione
implica il superamento del contingente per assumere la funzione di sovrano perfetto, Re
di giustizia e quindi motore immobile rispetto le vicende umane. Ciò trova conferma
simbolica nella parte inale del rito quando il Re si issa sul palo sacriicale oltrepassando
un cerchio posto alla sua sommità – che rappresenta la corona zodiacale – per afacciarsi
al cielo delle stelle isse.
5
Il collegamento di Gaṇeśa con la conoscenza sacra si conferma anche nel mito che narra
come il Dio si sia strappata una zanna per farne la penna con cui scrivere, sotto la dettatura
del saggio Vyāsa, il grande poema epico Mahābhārata.
6
La igura di Dakṣa è collegata a un mito di estrema importanza poiché da esso prende
il via il culto della Dea. Dakṣa infatti non invita Śiva, sposo di sua iglia Sātī, al gran
sacriicio degli Dei e per la vergogna Sātī si lascia morire. Śiva, sconvolto dal dolore,
4
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animal studies 13/2015
sotto cui si presentano le Yoginī o, ancora, il demone Rāvaṇa dalle molteplici
teste, tra cui una d’asino rosso. Quello stesso Rāvaṇa che incarna le forze del
male nel Rāmāyaṇa, una delle più famose epiche indiane, cui si oppone Rāma
– altro avatāra del dio Viṣṇu – aiutato dalla scimmia Hanumān che per questo
assurgerà agli onori divini essendo venerato come campione di coraggio e devozione, qualiiche cui aspira ciascun devoto.
Anche il pappagallo, in sanscrito śuka, è un animale dalla forte valenza simbolica poiché funge da igura retorica nella poesia indiana per esprimere il tema
dell’attrazione erotica, attitudine che si riverbera nell’essere il veicolo (vahāna)
del dio del desiderio Kama. Tuttavia sotto questo aspetto, all’apparenza esteriore7, si nasconde ancora una volta un messaggio d’altro ordine in quanto il pappagallo è considerato anche depositario della conoscenza poiché in grado di ripetere ciò che gli è stato trasmesso evocando così, in termini sottili, la igura del
maestro interiore. Per tale motivo esso è uno degli attributi di Tripurāsundarī,
Mīnākṣi e Kamākṣi – tutte espressioni della Dea legate al culto di Śrīvidya,
scuola śākta di particolare levatura dottrinale – andando a rappresentare il messaggero celeste che trasmette l’insegnamento delle sessantaquattro arti.
Come appena visto con il pappagallo, un importantissimo apporto degli
animali sta poi nell’ofrirsi come cavalcature o veicoli (vahāna) delle divinità
andando a costituire, in un certo qual modo, un’estensione dei loro poteri. Troviamo allora, tanto per citare i casi più noti, il toro Nandi accanto al dio Śiva,
l’aquila Garuḍa come veicolo di Viṣṇu, il cigno Haṁsa con Brahmā, l’elefante
bianco Airavata con il re degli Dei, Indra, il topo con Gaṇeśa, il pavone con
il secondo iglio di Śiva, Skanda/Subrahmaṇya (una sorta di Marte), il coccodrillo makara che regge sia la dea Gaṅgā (il iume Gange) sia il dio Varuṇa
(dio vedico delle acque) o, ancora, il bufalo che, come accade in diversi ambiti
tradizionali, accompagna il viaggio dei defunti e funge dunque da cavalcatura
al dio della morte Yama.
Vi è inine il nutrito ilone degli animali fantastici, a partire da esseri con
corpo animale e volto umano – come Kāmadhenu, la vacca alata con coda di
distrugge il sacriicio e decapita Dakṣa; quindi si carica il cadavere dell’amata sulle spalle e
vaga per l’universo portandovi lo scompiglio. Viṣṇu, mosso a pietà, con il suo disco-cakra
fa a brandelli il corpo di Sātī liberando Śiva dal suo tremendo fardello. I cinquantun pezzi
del corpo della Dea caduti sulla terra, divengono così i principali santuari del culto śākta.
7
In efetti l’attrazione erotica rimanda simbolicamente al risveglio di kuṇḍalinī, l’energia
sottile sopita nell’individuo appena al di sotto del mūlādhāra cakra, il primo cakra del
corpo umano posto a livello dei genitali.
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india asceti e animali
pavone e viso di donna, i kiṃnara dal corpo d’uccello, la cometa Ketu, il ṛṣi
Patañjali, i nāgarāja e le nāginī tutti con corpo di serpente o i diversi demoni
dai tratti bestiali, quali Raktabīja, che si moltiplica dal sangue delle sue ferite, o
Mahiṣāsura, in grado di prendere la forma di qualsiasi animale – per giungere
alle creature di pura fantasia in cui si mischiano caratteristiche di diverse specie
come Śarabha o Kṛṣṇa nava-gunjara, con il corpo formato da nove animali,
o ancora lo yāḷi, il vyāla, il makara e il kālamukha. Tra questi merita almeno
un breve cenno il kālamukha, un essere fatto solo da un volto ferino con due
corna ritorte e una mascella da cui pendono zanne aguzze, che rappresenta il
volto (mukha) del tempo divoratore (kāla) ed è in genere posto sulle architravi
all’entrata dei templi o sulla sommità delle torri che ne sovrastano i portali a
sancire la separazione tra lo spazio profano e lo spazio sacro e dunque l’attraversamento di quella soglia oltre la quale il fedele, consegnandosi all’abbraccio
del mostro divoratore, si sveste della propria individualità per afrontare una
verità che lo trascende.
Eppure, accanto ai diversi simbolismi di animali in forma divina, ve n’è
uno che si scosta decisamente dall’abituale dominio cosmologico per andare a
indicare i gradi realizzativi di chi si vota alla ricerca dell’Assoluto. Si tratta d’un
salto di prospettiva enorme ove, piuttosto che far leva su un supporto mitico
per cogliere insegnamenti di ordine dottrinale, ci si proietta sul piano dell’esperienza individuale esprimendo metaforicamente il livello di realizzazione
raggiunto attraverso la capacità di comunicazione – verbale o psichica – con gli
animali grazie allo sviluppo di particolari poteri o all’ottenimento di particolari
grazie, a seconda dell’ambito tradizionale di riferimento (Bormolini 2014).
Una diferenza che, inevitabilmente, si rilette anche sui destinatari di sistemi simbolici così diversi. Se da una parte, infatti, i miti di animali divinizzati
sono riservati alla grande massa degli indù – e ciò giustiica la loro enorme
casistica e difusione – dall’altra ci si riferisce alla ristretta cerchia degli asceti rinuncianti (saṃnyāsin), uomini che hanno deciso di abbandonare la vita
mondana per dedicarsi esclusivamente alla ricerca interiore. Costoro occupano
un posto assai singolare tra tutte le igure di sacerdoti (brahmani), ritualisti
(pūjāri), sacriicatori o semplici esecutori di pratiche devozionali (bhakta) che
animano il mondo del sacro, andando a ritagliarsi un ruolo trasversale, e di
fatto autonomo, nei confronti delle diverse scuole e pratiche spirituali hindū.
Anche in termini sociali la monolitica e in apparenza insuperabile struttura delle caste, che così profondamente permea la tradizione indiana, sembra
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animal studies 13/2015
sfaldarsi di fronte a questa igura che sfugge ogni riferimento d’appartenenza
ponendo il rinunciante fuori – e quindi, di fatto, al di sopra – dei legami castali. Ciò si rilette nel rituale iniziatico durante il quale viene recitata la formula
di rinuncia ai vincoli e dunque alle regole sociali del mondo. Attraverso di
esso il saṃnyāsin si sottrae alla propria modalità di paśu, essere addomesticato,
cifra dell’uomo comune, per divenire un essere selvatico la cui unica missione
consiste nel raggiungimento dell’identità con il Supremo, missione che evidentemente non può sottostare ad alcuna limitazione della vita profana.
In ambiente tantrico una simile visione si fa ancor più radicale negli yogi che
rifuggono ogni parvenza di socialità per dedicarsi a pratiche spesso così crude
da risultare quanto di più distante dalle purezze rituali dell’India vedica8. Yogi e
yoginī 9 frequentano campi di cremazione, foreste, grotte e luoghi selvaggi ove,
nudi o al più coperti da un perizoma o pochi stracci, cosparsi con la cenere
delle pire funerarie e con i capelli aggrovigliati in ammassi stopposi, si dedicano
a lunghe sessioni di ascesi (tapas) che garantiscono loro l’acquisizione di poteri
straordinari (siddhi).
La prova di questo inselvatichirsi si evidenzia nella contiguità dei rinucianti
con le iere, in particolare tigri e leoni, tanto che queste iniscono per divenire
un loro elemento distintivo. La tigre, vyāghra, è l’animale selvaggio per eccellenza, dotato di fascino magnetico e sinistro, capace di forza sovrumana, assetato di sangue. Essa è la trasposizione di una forza ancestrale fatta della potenza
stessa della terra, prākṛti, e dunque del potere acquisito dagli yogi che le belve
feroci sono in grado di riconoscere accettando il comando di questi uomini
Uno dei metodi più difusi di questo ambito estremo è il cosiddetto pañcamakāra
che implica l’immersione negli elementi più grevi del corpo prima di giungere al loro
superamento. Il pañcamakāra (le cinque emme) – detto anche kulatattva o kuladravya – è
infatti un intreccio di tecniche che prevede il consumo di matsya (pesce), māṃsa (carne),
mudrā (un particolare tipo di grano abbrustolito con efetti afrodisiaci) e madya (vino)
nonché l’accoppiamento sessuale, maithuna. Tali elementi nelle scuole daksiṇacara (della
mano destra) sono utilizzati a livello puramente simbolico, mentre in particolari scuole
vāmacara (le scuole più estreme, dette della mano sinistra) possono essere sublimati a
livello di luidi e secrezioni corporee interiori rinviando così a un tantrismo che vede il
corpo del sādhaka come strumento alchemico di trasformazione.
9
Le yoginī sono praticanti di sesso femminile, sottolineando con ciò che la via tantrica
non è di esclusiva pertinenza maschile. Peraltro, con il termine yoginī si usa indicare
anche una serie di igure sottili, semidivinità e divinità che attraversa tutto il tantrismo
indiano, in particolare di scuola śākta, spesso utilizzate come supporto meditativo nella
visualizzazione dei cakra (Cfr. Zanderigo 2012).
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india asceti e animali
selvaggi. Un potere reso in termini iconograici attraverso la presenza di tigri
o leoni proni ai loro piedi o in posizione di reverente omaggio10. Più comunemente yogi e yoginī – sia hindū sia buddhisti vajrayāna – sono raigurati assisi
su pelli di tigre, di leone o di leopardo, segno del raggiungimento d’un elevato
livello realizzativo che sempre si accompagna dall’insorgenza di potenti siddhi.
E proprio tra questi poteri, il dominio sulle iere costituisce un’immediata
metafora del controllo delle passioni, primo passo sulla via dello yoga.
In chiave mitologica tale riferimento trova la sua più alta espressione nella
pelle di tigre con cui Śiva, in qualità di Signore dello yoga e dunque il rinunciante per eccellenza, usa cingersi i ianchi. Particolarmente signiicativo ai nostri ini appare lo spaccato del mito di Naṭarāja (il Signore della danza) che ne
descrive l’origine: Śiva è chiamato a intervenire nei confronti d’un gruppo di
ṛṣi riuniti nella foresta di Taragam che, in virtù del lungo tapas, avevano accumulato enormi poteri, tanto da sconvolgere l’equilibrio dell’intero universo11.
Sceso sulla terra per ristabilire l’ordine cosmico, il Dio – travestito da cacciatore
tribale – non è riconosciuto dai ṛṣi e questi, per scacciarlo, fanno uso delle
proprie siddhi generando dal fuoco sacriicale una tigre. Ma senza fatica Śiva
uccide la iera e la scuoia con l’unghia del mignolo traendone la pelle con cui
da quel momento userà cingersi i ianchi.
Si evidenzia da ciò come sia proprio una tigre uscita dal fuoco sacriicale
– sacriicio che allude al sacriicio personale, alla rinuncia del sé operata dallo
yogin – il primo efetto delle siddhi acquisite.
Tuttavia la tigre rinvia a qualcosa di più sottile, una funzione che si collega da una parte all’insorgenza dei poteri una volta intrapresa la via iniziatica,
dall’altra a quell’energia selvaggia che deve essere incanalata per farne strumento di sviluppo interiore12.
Si veda al proposito la miniatura conservata nel Salarjung Museum a Hyderabad. Lo
stesso tipo di allusione simbolica si ritrova anche in ambito cristiano nella igura di San
Gerolamo che viene abitualmente rappresentato in compagnia d’un leone (Dehejia 1986;
pp. 11-12).
11
Delle innumerevoli versioni sul mito della foresta di Taragam, ci si riferisce qui a quella
riportata nel Koyil Puraṇam, testo Tamil del sud India.
12
Con uguale simbolismo, è proprio una tigre – o un leone – a fungere da veicolo
per Durgā, uno degli aspetti della consorte di Śiva, fornendo il sostegno su cui Ella si
appoggia nella battaglia per sopprimere il demone-bufalo Mahiṣa, metafora della sua
funzione di distruttrice dell’oscurità – e dunque dell’ignoranza – ainché amṛta, la
bevanda d’immortalità, possa riemergere dal collo reciso del bufalo rivelando la luce della
10
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animal studies 13/2015
A conferma di tale impianto simbolico, kuṇḍalinī – l’energia sopita nel corpo dell’adepto nel mūlādhāra cakra alla base della colonna vertebrale, energia
che rappresenta la potenza divina Śakti latente in ciascun uomo – è descritta
come una splendida fanciulla assisa su un leone. La iera è così l’energia che si
sviluppa attraverso la meditazione e lo yogin, che siede o si cinge i ianchi con
la sua pelle, è a propria volta colui che, cavalcando la sua potenza selvaggia, è in
grado di innalzarsi da un cakra all’altro schiudendone tutti i poteri.
Anche in ambito sciamanico ritroviamo un’analoga prospettiva nella tigre
che funge da Signore dell’iniziazione trasportando in groppa il neoita attraverso la giungla, allusione alla guida sottile nel viaggio di discesa agli inferi
durante il quale esperisce la morte iniziatica (Eliade 1954).
Il tema del possesso psichico di un animale selvaggio, che subisce così una
trasformazione e diviene soggiogato riducendosi a paśu (l’animale addomesticato stretto al cappio, pāśa) – trasposto in chiave divina nella igura di Śiva
Paśupati, il Signore degli esseri legati – torna trasversalmente in molta della letteratura riguardante il sacriicio e dunque ci riporta ancora una volta alla prospettiva simbolica di morte, trasformazione e rinascita. D’altra parte se paśu,
da un punto di vista etimologico, indica un essere vincolato da un legame, Śiva
Paśupati diviene colui che si fa strumento di liberazione da un sifatto legame
e quindi, in una prospettiva più ampia, colui che consente l’afrancamento
dall’esistenza individuale. Questo quadro simbolico si fa ancor più stringente
nell’ulteriore accezione di paśu quale vittima del sacriicio, per cui l’essere che
si sacriica – e cioè lo yogin – attraverso tale trasformazione può entrare in relazione con gli stati superiori dell’essere (Guénon 1992).
Il Dio che soggioga e libera e la sua volontaria vittima sono dunque l’uno
interdipendente dall’altra inendo per condividere lo stesso destino, scambiandosi ruoli, funzioni e legami. Se l’uomo è vincolato, ma al contempo libero di
seguire la propria ricerca d’afrancamento, il Dio o il maestro, che si colloca al
di sopra dei vincoli, è di fatto obbligato a sottostare alla richiesta dell’adepto.
Riproposizione nel linguaggio del mito dell’evidenza che possiamo essere solo
noi a liberare noi stessi.
In questo gioco il cappio, pāśa, strumento del vincolo, è il tramite tra Dio e
l’essere a lui legato e per tale motivo diviene l’attributo di alcune tra le divinità
indiane a maggior inclinazione esoterica come Gaṇeśa – il Dio dalla testa d’elefante – il quale va così a confermare la propria funzione iniziatica di veicolo
conoscenza celata sotto le apparenze (Cfr. Filippi 1993).
62
india asceti e animali
di conoscenza, nonché una contiguità con il sacriicio essendo stato egli stesso
decapitato da Śiva e quindi fornito di una nuova testa (la rinascita nella conoscenza). Ma il pāśa è anche uno degli attributi della dea Tripurāsundarī – Dea
che rappresenta l’espressione più elevata del tantrismo śākta – assieme al pungolo per elefanti (aṅkuśa), che simboleggia l’accidia – e dunque in termini allegorici il potere della Dea di prevalere sulle passioni e sulla pigrizia nell’impegno
spirituale –, all’arco fatto da uno stelo di canna da zucchero (īkṣu-daṇḍa) e
alle cinque frecce loreali che indicano rispettivamente la mente (manas) e i
tanmātra, i cinque elementi (terra, acqua, fuoco, aria ed etere) che lo yogin deve
essere in grado di controllare e utilizzare durante le proprie pratiche attraverso
l’arma della mente.
La pelle dell’animale – o in altri termini la potenza stessa della iera – diviene allora il primo dono che il sādhaka (colui che segue una sādhanā, un
cammino realizzativo) incontra lungo la propria via. La potenza (la tigre) che
si sprigiona attraverso la meditazione deve però essere messa sotto controllo (il
pāśa) di vidya, la scienza sacra, ainché il rinunciante ne faccia uno strumento
di crescita spirituale evitando che i poteri acquisiti si trasformino in nutrimento dell’ego e lo allontanino così dalla vera meta (come accaduto ai ṛṣi nella
foresta di Taragam).
Ecco dunque che, con la precisione puntuale del simbolo, Śiva sottomette
la tigre e con la pelle se ne cinge i ianchi, la avvolge cioè attorno al mūlādhāra
cakra evocando così la capacità di governare desiderio e potenza che nascono
dai lombi e, al contempo, il risveglio di kuṇḍalinī, segno della conoscenza dello
yoga sotto forma di serpente.
E sono proprio i serpenti (nāga) la seconda categoria di animali ad accompagnarsi agli yogi i quali sono usi lasciare le loro scodelle colme di latte tra le radici
degli alberi o accanto ai termitai ove le serpi hanno la propria tana sotterranea.
I serpenti sono infatti i sovrani di mondi inferi (pātālaloka), proiezione degli
Dei di un’epoca precedente ora relegati alla funzione di demoni/titani/dragoni.
Essi sono i tradizionali custodi di tesori nascosti nel sottosuolo, nelle cavità tra
le radici degli alberi o nella profondità di oscure caverne, evidente allegoria di
una conoscenza ctonia, segreta, che deve essere tratta dalle viscere della terra
per fornire la base delle pratiche tantriche. Il serpente costituisce così il substrato del cosmo e le sue spire sono la potenzialità dello sviluppo ciclico di tempo
e spazio la cui essenza profonda deve essere colta dal sādhaka.
Il binomio nāga/conoscenza segreta risulta peraltro centrale in tutto l’apparato simbolico dello yoga come si riscontra chiaramente nella igura di Patañjali
63
animal studies 13/2015
– il ṛṣi noto per aver divulgato il rājayoga (lo yoga regale/supremo) – raigurato
con testa e tronco umani e la parte inferiore da serpente le cui spire sono raccolte in tre giri e mezzo, al pari di quelle di kuṇḍalinī che, nella sua forma oidica, giace adagiata nel mūlādhāra cakra in attesa d’essere risvegliata da quello
yoga di cui lo stesso Patañjali è maestro13.
D’altra parte il veleno del serpente – come le medicine, le bevande inebrianti e più in generale soma, la bevanda d’immortalità – è tradizionalmente cifra di
trasformazione che riverbera a livello sottile la capacità di risvegliare kuṇḍalinīśakti, l’energia sopita in ciascuno, per farla risalire lungo il merudaṇḍa (la spina
dorsale) attraversando in successione i diversi cakra, ino al completo riassorbimento della manifestazione individuale e alla reintegrazione nell’Unità14.
E, non a caso, è proprio un terribile serpente il secondo animale che i ṛṣi
evocano per sconiggere Śiva nel mito di Naṭarāja. Il Dio però lo aferra e ne
fa una collana da avvolgere attorno al proprio collo. Il serpente – e dunque la
conoscenza segreta, la capacità di discernere e comprendere anche le verità sottili celate sotto le apparenze – è allora il secondo dono incontrato dal sādhaka
lungo la propria via.
Inine gli uccelli con il loro volo, e in particolare i rapaci, sono una terza
categoria di animali collegati all’esperienza dello yogin.
Alcuni trattati tantrici, soprattutto della mano sinistra (vāmacara), descrivono rituali di potenza eseguiti da yoginī in cerchio che culminano con un
sacriicio cruento, un sacriicio capace di evocare la somma energia di trasformazione. Al termine di queste oscure sessioni le yoginī hanno il potere di allontanarsi in volo superando iumi e specchi d’acqua, abbandonando con ciò,
Va sottolineato come una delle immagini più evocative della tradizione indiana sia
quella che rappresenta Viṣṇu addormentato sulle spire del serpente Anantaśeṣa o Śeṣanāga
di cui si è già accennato nella precedente nota n. 3. Essa suggerisce la potenzialità del
tempo e dello spazio ancora avviluppati in se stessi (le spire) prima che dall’ombelico della
divinità suprema Viṣṇu nasca un iore di loto che schiudendosi riveli Brahmā, il creatore,
e questi – a sua volta – possa dare il via a un nuovo ciclo di manifestazione universale. E,
a conferma di questo quadro simbolico, secondo il Vāmana Purāṇa, Varāhī (la conoscenza
nascosta), per combattere il demone Raktabija, emerse dal corpo della Dea seduta proprio
sul serpente Śeṣanāga.
14
Tale trasformazione attraverso il veleno ricorre sia in ambito brahmanico sia in ambito
tribale nel culto della dea Mānasā, legata a propria volta alla igura di Śitalā e dunque alle
malattie epidemiche (in particolare il vaiolo), ma anche allo scuotimento provocato dalle
febbri che viene assimilato allo scuotimento della trance sciamanica.
13
64
india asceti e animali
metaforicamente, la sponda della presente manifestazione15.
Il volo torna poi in ambiente tribale quale caratteristica dello sciamano che
durante la trance autoindotta si stacca dal corpo per esplorare psichicamente i
mondi inferi e celesti.
Ma a un livello ancor più elevato, il volo indica l’estremo balzo sulla via della
realizzazione. In questa accezione Garuḍa, re delle aquile, è chiamato a svolgere
la funzione di psicopompo nell’accompagnare gli esseri verso la liberazione
(mokṣa). Quello stesso volo che simbolicamente sta a indicare la comprensione
delle cose segrete e delle verità metaisiche poiché, come sancisce il Pañcaviṃśa
Brāhmaṇa, ‘colui che comprende possiede le ali’.
D’altra parte la gāyatrī, il mantra trasmesso durante il rito di passaggio/
trasformazione di upanayāna, è detta l’aquila portatrice del soma – bevanda
di conoscenza e dunque d’immortalità – o, in una diversa versione del mito,
Gāyatrī personalizzata prende la forma d’un falco per recuperare soma dal cielo.
Ritornando allora al mito di Naṭarāja, il terzo e ultimo tentativo che i ṛṣi
della foresta di Taragam mettono in atto per sconiggere Śiva consiste nell’evocare un tremendo mostro, Muyalakaṃ, che si presenta sotto forma di nano
maleico16. Il Dio però lo schiaccia con la punta del piede dando così inizio
alla sua danza cosmica di creazione e dissoluzione dei mondi. Ma il nano è
noto anche col nome di Apasmāra, dimenticanza, che nell’accezione più comune rappresenta avidyā, l’ignoranza schiacciata da Śiva nella sua danza di
luce, l’emergere della conoscenza suprema e dunque il recupero della memoria
(lo schiacciamento della dimenticanza) dell’unità principiale Ātman-Brahman,
binomio che indica l’identità tra il Sé e l’Assoluto e che costituisce il picco speculativo dell’advaita vedānta (il vedānta del non duale, massima espressione del
pensiero indiano). Di fatto lo yogin ha completato la risalita del merudaṇḍa, la
collana che inanella tutti i cakra, e il corpo del nano non è altro che il suo corpo, quel corpo greve connotato di spazio e tempo che gli è servito per risalire
via via tutte le tappe del proprio cammino interiore e che ora deve abbandonare per compiere l’estremo, ultimo balzo sulla via della liberazione. Lo yogin
non più abbagliato da Māyā, il mondo illusorio delle forme, si consegna a una
Riferimenti a tale ambito spesso ricorrono nell’antica tradizione letteraria indiana e
se ne ritrova traccia in vari testi come l’Uttamacaritrakathānaka, il Kathāsaritasāgara, la
Rājātāraṅginī, il Malatīmādhava, la Vetālapañcaviṃśatī e la Daśakumāracarita.
16
Collegandoci a quanto detto in precedenza, Muyalakaṃ tiene in mano un cobra. Inoltre
il suo nome signiica anche epilessia e questo ci riporta alle considerazioni di nota n. 14
sullo scuotimento e dunque sullo stato di trance.
15
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animal studies 13/2015
verità che lo trascende, si fa strumento del Dio e partecipa dell’eterno luire degli universi evocati dalla danza di Naṭarāja ergendosi al di sopra del contingente
poiché egli è giunto alla liberazione ultima17.
Tutte queste potenzialità di trasformazione, tutte queste siddhi, costituiscono l’efetto codiicato dei tre gradini su cui si issa lo yogin, passaggi tradizionali
che si riverberano nelle gesta di mitici yogi come i kānphāṭa yogi della scuola
di Gorakhnātha, temuti per i loro poteri magici e in particolare per la capacità
di comandare alle belve feroci, ai serpenti e alla pioggia. Vi è una straordinaria
convergenza con le tre prove superate da Śiva ove a Muyalakaṃ si sostituisce la
pioggia, pioggia che in termini simbolici indica la discesa dell’inlusso divino
sulla terra o, in modo equivalente, la via di risalita (il volo) verso il cielo. Si
tratta di poteri fortemente allusivi, come nel caso di Hari-Siddha, discepolo
diretto di Gorakhnātha, il quale oltre a comandare sulle iere era noto per aver
efettuato lo scambio di teste tra le regine Adunā e Padunā utilizzando la pravargya vidyā (la scienza sacra che, come accennato in precedenza, allude alla
corrispondenza tra decapitazione, sacriicio e morte iniziatica), per i prodigi
evocati dalla forza del mantra pronunciati in volo a cavallo di una scopa (di
nuovo il volo) e per la sua discesa agli inferi per recuperare dal dio della morte,
Yama, l’anima del giovane re Gopīcandra, andando a impersonare così la funzione suprema di Yamāntaka, il Vincitore della morte, meta ultima di colui che
ha intrapreso il cammino di liberazione.
In questo modo i tre animali che connotano il percorso interiore del
saṃnyāsin riassumono i tre livelli di esperienza dello yoga – o in altri termini i suoi tre gradi di realizzazione – identiicandosi con bālya la funzione ritratta, embrionale (lo scaturire della potenza dall’embrione-radice che sta nel
mūlādhāra cakra), pāṇḍitya la funzione magistrale (segno di padronanza della
conoscenza del serpente) e mauna la funzione della perfezione segnata dal silenzio; il tutto coronato da kaivalya, l’isolamento assoluto (il volo oltre il contingente).
La materia, come emerge da queste poche righe, schiude orizzonti d’una
vastità quasi sconcertante per chi non è avvezzo al labirintico pensiero indiaSconitti i tre esseri evocati dai ṛṣi dal fuoco sacriicale – il superamento delle tre prove
dello yogin – Śiva abbandona i panni umani e al ritmo del ḍamaru il tamburello dà il
via alla danza cosmica di dissoluzione e creazione dei mondi. Śiva Naṭarāja è una delle
icone più evocative di tutto il mondo hindū e il signiicato della sua danza è oggetto di
innumerevoli speculazioni dottrinali, anche di ordine metaisico, la cui portata esula i ini
del presente studio.
17
66
india asceti e animali
no. Eppure dovrebbero bastare queste rapide osservazioni per far comprendere
come l’utilizzo degli animali nelle rappresentazioni sacre hindū, lungi dal costituire l’evidenza d’una rozza idolatria, fornisca invece un supporto simbolico
che si sviluppa attraverso un’immensa produzione mitica andando a toccare
molti aspetti dottrinali d’ambito cosmologico per giungere ino alla soglia delle
più elevate verità metaisiche.
Bibliograia
Bormolini, G. (2014), I Santi e gli animali. L’Eden ritrovato, LEF, Firenze.
Dehejia, V. (1986), Yogini Cult and Temples. A Tantric Tradition, National Museum New Delhi,
Nuova Delhi.
Eliade, M. (1954), Le Yoga, immortalité et liberté, Payot, Parigi.
Filippi, G. (1993), “On some sacriical features of the Mahisamardini”, in Annali di Ca’ Foscari
XXXII, 3, Venezia.
Guénon, R. (1992), L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Adelphi, Milano.
Guénon, R. (1974), Forme tradizionali e Cicli cosmici, Ed. Mediterranee, Roma.
Zanderigo, G. (2012), “Le porte del cosmo in India. Tempo, spazio e sacriicio”, in Marchetto,
M. (a cura di), Miti stellari e cosmogonici, Quaderni di Indoasiatica, Il Cerchio, San Marino, pp.
347-355.
Zanderigo, G. (2012), Yoginī. Il lato in ombra della Dea, Il Cerchio, San Marino, pp. 110-115.
67
INTERVISTA
al professor Paolo de Benedetti
Asti, 20 Luglio 20131
Di Gianfranco Nicora2 e Alma Massaro3
Negli ultimi decenni si è avviata, anche in Italia, una ricca discussione intorno
al rapporto esistente tra l’essere umano e l’animale a partire da una prospettiva
biblica. Quali sono i punti fondamentali da cui muovere per impostare in modo
corretto tale rilessione?
La Bibbia ofre un certo numero di spunti su cui fondare il nostro rapporto
con gli animali a partire dal racconto della creazione. In tale racconto si aferma che, dopo aver narrato la creazione di “tutti gli esseri viventi che guizzano
e brulicano nelle acque secondo la loro specie e tutti gli uccelli alati secondo
la loro specie, Dio vide che era cosa buona e Dio li benedisse”. Un’afermazione di Genesi 1 che viene ripetuta anche per i rettili e per tutte le bestie della
terra.
La presente intervista è stata pubblicata, in lingua inglese, sulla rivista Relations. Beyond
Anthropocentrism (anno II, vol. 1, 2013) e viene oggi riproposta con alcuni adattamenti.
2
Gianfranco Nicora si è laureato in Teologia a Milano. È stato Direttore del Centro di
Studi Sociali Cariplo, delle Fondazioni Molina Varese e Gemellaro Albairate. Ha inoltre
conseguito il master in Pet-therapy all’Università di Genova ed è membro dell’Istituto
Italiano di Bioetica. Attualmente è Direttore del Centro di Bioetica e Teologia animale G.
Borghi e della Fondazione Aletti Beccalli Mosca, nonché membro di Minding Animals
Italia.
3
Alma Massaro ha conseguito il Dottorato in Filosoia presso l’Università di Genova.
È editore associato della rivista Relations. Beyond Anthropocentrism e Presidente
dell’Associazione Minding Animals Italia. Autrice di numerosi studi apparsi su riviste
accademiche nazionali e internazionali, di recente pubblicazione Gli animali in Lucrezio
(Genova 2014).
1
68
intervista
Ma la nostra fede biblica si spinge più in là: ricordiamo le affermazioni
evangeliche del “buon pastore” e dell’”agnello di Dio”. Sono numerosissimi i racconti che ci “avvicinano” agli animali nella tradizione cristiana:
mi riferisco ai Padri del deserto, a san Francesco e alla tradizione francescana, ma anche, in epoca più recente, a una sensibilità laica, soprattutto
anglosassone.
Nelle società occidentali contemporanee assistiamo ad una sorta di “schizofrenia”
morale. Da un lato il valore dell’essere umano viene progressivamente innalzato
al di sopra dell’intera creazione e, a volte, anche del Creatore, al punto di fare
dell’uomo un semi-dio; dall’altro si assiste a una progressiva svalorizzazione
del valore della vita umana. Da cosa deriva tale ambiguità e cosa può arginare
questo fenomeno?
Penso che non derivi soltanto da una ideologia per così dire “materialista”
ma, piuttosto, da una incapacità di percepire e accettare la dignità della vita,
l’eguaglianza etica e psicologica che è possibile (anche se non sempre, per
colpa dell’uomo) nel rapporto uomo-animale. Del resto una vasta letteratura, religiosa e non, rivela quello che si potrebbe deinire “dialogo” dell’uomo
con gli animali e anche le piante. E addirittura con Dio: che gli alberi invochino da Dio la pioggia è una verità che dobbiamo scoprire nella teologia
della vita.
Nella Bibbia a più riprese ci vengono fornite testimonianze del diretto rapporto
esistente tra Dio e gli animali. È possibile riscontrare nel nostro vissuto quotidiano
la realtà di questi insegnamenti?
Molto spesso sì, ma non sempre. Specie quando gli animali vengono usati
come “strumenti”. Infatti non dobbiamo dimenticare che il rapporto uomoanimale è duplice: da un lato gli animali di afetto, di compagnia, di poesia;
dall’altro gli animali di uso, cioè, per dirla chiaramente, sfruttati. Abbiamo
citato il “peso” teologico di alcuni animali: agnello, pecora, colomba, asino,
balena, ecc. Dovremmo anche citare la povertà teologica relativa a questo tema:
ricordo sempre che a una mia protesta contro l’uccisione degli agnelli a Pasqua,
un cardinale rispose afermando il pericolo che noi stessi diventiamo animali.
Ma animali siamo veramente, come si deduce anche soltanto dall’etimologia
del vocabolo.
69
animal studies 13/2015
Esiste un ilo rosso che unisce la teologia degli animali cristiana agli altri credo
religiosi?
Ebraismo e cristianesimo hanno da millenni eliminato i sacriici animali, concepiti come tributo a Dio e nutrimento di Dio, e in questo condividono la
posizione di altre religioni antiche e orientali.
Nei suoi libri lei ofre numerose immagini per mostrare l’amore che Dio nutre per
la sua creazione, c’è n’è una che intende condividere con noi?
Alla ine del racconto biblico della creazione “Dio vide quanto aveva fatto, ed
ecco, era cosa molto buona” (Genesi 1,31). L’amore di Dio per il creato non è
dunque soltanto autocompiacimento, ma – se così si può dire – riconoscimento del creato stesso come Suo prossimo. Ed è questo che dobbiamo riconoscere
anche noi. Tuttavia i maestri hanno, come sempre, aggiunto un’“altra interpretazione” di “molto buona”: con un gioco di parole ebraiche non riproducibili
in italiano, si può leggere “molto buona” come “buona è la morte”. Un’afermazione necessaria per giustiicare, appunto, l’introduzione della morte nel
creato.
Oggi è molto dibattuto il problema della macellazione rituale che vede contrapporsi, da un lato, ebrei e islamici e, dall’altro, cristiani e non professanti. Senza
dimenticare le istanze di ciascuna parte, possono le Sacre Scritture indicarci un
cammino comune da intraprendere assieme?
Il cibarsi di carne, secondo Genesi 9,3-4, è consentito da Dio dopo il diluvio,
per un certo pessimismo divino nei riguardi dell’uomo. Ma con una riserva
fondamentale: “Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo: vi dò tutto questo,
come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il
suo sangue”. Il sangue era inteso come sede della vita, direi dell’anima. Ecco
perché, benché Dio consenta il mangiar carne, ne impone il totale dissanguamento, e il sangue tolto all’essere vivente deve essere coperto di sabbia o terra,
cioè sepolto e in certo senso oferto a Dio, come una sua piccola, ma fondamentale vittoria sulla morte. È una legge tutt’ora vigente, anche se l’identità
sangue-vita è oggi intesa in senso simbolico. Ma dovremmo (la Bibbia ce lo
insegna) riconoscere il valore “teologico” di questo simbolo. Come di un’altra
70
intervista
norma alimentare: se levando il sangue l’animale ucciso ha soferto, è vietato
cibarsene. Vediamo dunque come anche nelle regole alimentari sia sottintesa
un’idea fondamentale: la compassione.
Quali sono le più grandi barriere culturali che devono essere abbattute ainché
sia possibile difondere una cultura biblica a proposito dei temi relativi all’etica
animale?
Una delle più grandi barriere è costituita dal modo odierno di procurarsi il
cibo: nessuno, oggi, toglie la “vita” a un essere vivente per cibarsi di carne, ma
ricorre a botteghe (macellerie) dove la vita in senso biblico è già tolta alla carne.
Credo che una “coscientizzazione” del cibo sia la cosa più diicile, direi più
impensabile, nel mondo di oggi. Rimane in qualche modo una “possibilità” di
compassione nell’uccisione – che si faceva un tempo in casa – di polli, conigli,
uccelli. Ricordo che la mia nonna, quando eravamo bambini, non ci permetteva assolutamente di guardarla mentre lei uccideva un pollo. E mi è rimasta per
sempre nella memoria l’immagine di quelle forbici che entravano nella gola del
povero animale.
Papa Francesco in questi primi mesi di predicazione parla spesso di creazione e di
tutela del creato. Quali sono i presupposti su cui si basa la teologia della creazione
e, quindi, degli animali?
La teologia della creazione ha come suo fondamento la concezione del creato
(tutto il creato) come mio prossimo. Ma non soltanto mio prossimo, anche
prossimo di Dio. C’è un piccolo gioco di parole della mistica ebraica in cui
Dio, prima di creare alcunché, è deinito ajn=nulla, nel senso che non esistono
parole per descriverlo e deinirlo. Ma un bel giorno (mi sia consentita questa
formula popolare) Dio, che sa di essere ajn, fa un anagramma, e si deinisce
anj=io. Deinendosi “io”, nello stesso istante crea il “tu”, che è il creato, il “tu”
di Dio. In altri termini, Dio proprio auto-deinendosi dà luogo al suo prossimo, cioè a tutto il creato. Ecco perché la nostra esistenza, l’esistenza degli astri
come quella del mio gatto, è fondata sul “tu” di Dio.
Tradizionalmente il peccato originale è legato alla manducazione del frutto proibito dell’albero della conoscenza del bene e del male. Un’interpretazione suggestiva
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animal studies 13/2015
vede nella uccisione degli animali per scopo alimentare il vero peccato che sta
all’origine della cacciata dal paradiso terrestre, con la conseguente conoscenza della
soferenza e della morte. Che cosa ne pensa?
L’uomo non deve pretendere di avere la conoscenza del bene e del male. E perché non deve pretenderla? Perché, come da tutta la Bibbia appare, la conoscenza del bene e del male è – se così si può dire – una rivelazione divina aidata alla
Legge, alla Torà. Una rivelazione che Dio ha collegato al peccato e alla morte, e
per questo non intendeva manifestare ad Adamo ed Eva per salvarli dal peccato
e dalla morte. Ma la curiosità, la conoscenza dell’intero “tutto” (cioè la vita e la
morte) ha prevalso in Adamo ed Eva sull’ubbidienza a Dio.
72
LETTURE
IL GRIDO DELLA CREAZIONE.
SPUNTI BIBLICI E TEOLOGICI PER UN’ETICA CRISTIANA
VEGETARIANA
G. Bormolini-L. Lorenzetti-P. Trianni
(a cura di)
Lindau, 2015
Il volume Il grido della creazione.
Spunti biblici e teologici per un’etica
cristiana vegetariana raccoglie i contributi presentati nel corso dell’omonimo convegno tenutosi il 28 settembre 2013 ad Ancona ed organizzato
dall’Associazione Cattolici Vegetariani (ACV). Questa Associazione, come
spiega Marilena Bogazzi in appendice
al libro, nasce dalla necessità di testimoniare all’interno della Chiesa l’importanza del rispetto per ogni creatura, la tutela della vita, l’astinenza dal
compiere ogni tipo di violenza, anche
quella collegata al mangiar carne, in
virtù della consapevolezza dell’impossibilità di scindere l’amore per il
Creatore da quello per il suo creato.
“Se l’uomo è stato chiamato da Dio
quale Dominus della creazione”, spiega Marilena, “occorre allora che inizi
ad esercitare questo dominio guardando al Dominus per eccellenza,
Gesù Cristo, […] che ci ha insegnato
che la signoria non è soprafazione,
ma servizio amoroso e misericordioso
nei confronti di tutte le creature generate da Dio”. Gesù, infatti “pur essendo di natura divina, non considerò un
tesoro geloso la sua uguaglianza con
Dio; ma spogliò se stesso assumendo
la condizione di servo” (Fil 2,6).
Apre il libro la prefazione del Cardinale Monsignor Edoardo Menichelli e la lettera con cui Papa Francesco
saluta e benedice l’Associazione e tale
iniziativa. Il dibattito attorno all’impatto ambientale delle attività umane
è, infatti, attualissimo e di grande im-
73
animal studies 12/2015
portanza, vista la grave crisi ecologica in cui versa il nostro pianeta e che
ha tra le sue principali cause l’allevamento intensivo degli animali. Com’è
noto, il Santo Padre si è a più riprese
dimostrato attento a queste istanze, a
cui ha dedicato di recente un’intera
enciclica, Laudato Si’ (2015).
Gli autori di questo libro – studiosi
laici e consacrati che collaborano con
l’Associazione – ofrono spunti di rilessione ed approfondimento teologico su dette tematiche, ricordando
come la scelta etica vegetariana non
costituisca una moda recente avulsa dalla teologia e dalla tradizione
cristiana ma, al contrario, trovi un
solido fondamento proprio nella libertà di coscienza propugnata da tale
tradizione spirituale. Come aferma
Monsignor Binini, Vescovo emerito
della diocesi di Massa-Carrara e Pontremoli ed autore del saggio “A salvaguardia del creato”, nel libro della Genesi (Gen 1,1-2,4) “si evince un rapporto ideale tra l’uomo e l’ambiente;
una comunione di creature […]. La
creazione giunge a compimento grazie all’opera dell’uomo che continua
l’opera creatrice di Dio”. L’armonia
ritrovata con l’ambiente può essere
vista come segno del rapporto uomoDio, in quanto per tornare ad avere
una buona relazione uomo-natura è
necessario impostare un’etica positiva,
basata sulla costruzione del bene comune e sulla distruzione del male.
I contributi dei teologi Rosanna Virgili e padre Luigi Lorenzetti rappresentano due attente indagini dei versetti paolini che parlano della speranza
nutrita dalla creazione di essere salvata; come spiegano gli autori, la storia
di tale salvezza consiste in tre fasi: la
creazione, la redenzione e l’escatologia
(o discorso sulle realtà ultime), in una
continuità che implica l’intervento
di Dio e che include necessariamente
tutte le creature oltre all’essere umano, al quale il Creatore ha aidato
il compito di custodire e coltivare il
creato (Gen 2,15). Purtroppo, ricordano gli autori, questo ruolo di cura e
custodia è oggi degradato in maniera
generalizzata verso un atteggiamento
di sfruttamento spudorato dell’ambiente e di dominio, inteso in senso
dispotico e troppo spesso spietato,
verso le creature.
Paolo De Benedetti, già docente di
Giudaismo e di Antico Testamento, ci
ricorda che tale atteggiamento sconsiderato dell’essere umano nei confronti del resto del vivente non è assolutamente indiferente agli occhi del
Creatore, il quale anzi “ascolta la voce
degli animali e si commuove”: la voce
delle sue creature infatti “è preziosa al
cospetto di Dio”. Per parte sua, Don
Roberto Pinetti, docente di teologia
morale, propone un approccio metodologico ai temi afrontati dagli altri
autori, indicando la direzione da intraprendere per ritrovare la retta via.
74
letture
È necessario, egli aferma, riscoprire
un rapporto basato prima di tutto sulla mitezza e sull’umiltà di cuore nei
confronti del Creato, in quanto siamo
stati fatti “a immagine del Dio tre volte Santo”.
Ed è in questa prospettiva che si inseriscono i contributi di Guidalberto
Bormolini e Paolo Trianni. Il primo,
sacerdote della comunità dei Ricostruttori nella preghiera, evidenzia
come l’uomo, una volta riappropriatosi della sua santità, sia in grado di
cantare assieme a tutta la creazione,
ovvero di colloquiare in una grande
sinfonia cosmica con i propri simili e con le altre creature. Il secondo,
docente di teologia, nel suo capitolo
aferma come, alla luce della Bibbia,
dei Padri della Chiesa e della Tradizione sia possibile, anzi necessario e doveroso aprirsi a queste nuove istanze
e conferire così al discorso legato al
vegetarianesimo un posto importante
nella teologia cristiana.
Nel suo insieme il volume presenta,
da un lato, una sorta di excursus attraverso le diverse motivazioni che, di
volta in volta, in tempi e luoghi diversi, sono state addotte a sostegno della
scelta vegetariana in ambito cristiano;
e, dall’altro, un invito per il credente
del terzo millennio a recuperare questa preziosa tradizione per rileggerla
alla luce del tempo in cui si trova a
vivere. (Enrico Ceccaroni)
VEGETARIANESIMO DI ISPIRAZIONE CRISTIANA.
UOMO E ANIMALI NEL DISEGNO DIVINO
Marilena Bogazzi
Cosmopolis, 2016
È un evento importante il volume di
Marilena Bogazzi, Vegetarianesimo di
ispirazione cristiana. Uomo e animali
nel disegno divino, ed. Cosmopolis.
Importante perché è davvero arrivato
il momento che dalla base dei cristiani arrivi una parola forte in favore dei
più deboli. Degli ultimi. Di chi non
ha neppure la voce per difendesi. Cioè
degli animali.
Per secoli la Chiesa ha considerato
gli animali come esseri privi di anima
immortale, e di conseguenza ne ha in
qualche modo autorizzata l’uccisione, quando non addirittura le sevizie,
senza che la coscienza, che pure è presente in ogni uomo e in ogni credente
dovrebbe esser ancora più sensibile,
restituisse il minimo senso di errore
(e di orrore). È stata a lungo vincente
l’immagine di uomo-padrone, come
viene (male) interpretato dalla lettura
di Genesi 1,26: “Poi Iddio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini
sopra i pesci del mare e sugli uccelli
del cielo, sugli animali domestici, su
tutte le iere della terra, e sopra tutti i
rettili che strisciano sulla terra’”.
Da un punto di vista storico si può
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animal studies 12/2015
forse capire, anche se certo non condividere, questo atteggiamento anti-animalista (per usare un termine
moderno): quando il Verbo cristiano
si è difuso nell’allora mondo romano, si è mosso in una società in cui la
schiavitù era una realtà comunemente
accettata, in cui gli spettacoli circensi
consistevano nel combattimento, anche all’ultimo sangue, tra gladiatori;
una realtà che discriminava le donne e
gli stranieri. I Padri della Chiesa hanno posto invece tutti gli esseri umani
nella loro uguaglianza davanti a Dio
e, per trasmettere questo messaggio rivoluzionario, hanno disegnato un discrimine netto tra gli uomini “dotati
di anima” e gli animali.
Ma da qualche tempo la sensibilità
alla vita, che è tale in qualunque forma si manifesti, si è approfondita,
spingendo un gruppo di cattolici a rimeditare la Parola e a riconoscere che
nel progetto del Creato sono compresi
tutti gli esseri viventi, senza esclusioni.
L’uomo, vertice dell’atto creativo, non
è per questo possessore assoluto delle
altre forme di vita ma, in quanto essere dotato di ragione, è stato destinato
alla “custodia” (secondo l’espressione
di Papa Francesco) dei più piccoli e
dei più deboli.
In realtà la scelta vegetariana non è
nuova per la Chiesa. Molti Santi, modello per i cristiani (“Guardate ai Santi come modello di vita!” dice ancora
Papa Francesco), hanno scelto di non
cibarsi di carne, per rispetto dei fratelli nella Creazione.
La Bibbia infatti parla chiaro: “Iddio disse ancora: ‘Ecco, io vi do ogni
pianta che fa seme su tutta la supericie della terra, e ogni albero fruttifero
che fa seme: questi vi serviranno per
cibo’” (Gen 1, 29). Il mangiare carne
diventa uso solo dopo la cacciata dal
Paradiso Terrestre, cioè quando il peccato si è impossessato dell’uomo.
Marilena Bogazzi, che è la fondatrice
dell’Associazione Cattolici Vegetariani, si è resa conto che l’atteggiamento
cristiano nei confronti degli animali
è per molti un motivo di allontanamento dalla Chiesa. Una Chiesa ancorata alle sue credenze medievali, che
non vuole aprirsi al vero abbraccio del
Creato e alla vera compassione. A una
Chiesa che ferma il concetto di “prossimo” alle soglie del regno animale.
È stato Paolo VI il primo Ponteice
ad aver pronunciato parole in riconoscimento dell’unitarietà del Creato,
citando il noto passo di San Paolo:
“tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto” (Rom 8, 22),
in attesa di una Redenzione che abbraccia tutti gli esseri viventi. Dopo di
lui Giovanni Paolo II ha confermato
che gli animali posseggono lo stesso
“soio” di vita di cui sono pregni gli
esseri umani. Ma quello che più colpisce il cuore di un laico è la igura
di Papa Ratzinger, un grande amante degli animali, che pure si è posto
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letture
in modo intransigente nella visione
di “esclusione” dalla vita eterna. Ma
la nostra vita è qui e ora e, come sottolinea Marilena Bogazzi, a maggior
ragione dobbiamo rispetto e pietà per
esseri che (forse) non godranno del
Paradiso.
Un libro fondamentale. Per i credenti,
innanzi tutto, perché aprano gli occhi
e il cuore a questa interpretazione di
amore della Bibbia e al loro compito
sulla terra (“quello che avete fatto a
uno dei più piccoli dei miei fratelli,
l’avete fatto a me” Mt 25, 40: fratellanza che viene dall’atto stesso della
Creazione), ma anche per i laici che
possono scoprire come nel cuore della Chiesa stia cambiando qualcosa e
come le diferenze ideologiche possano conciliarsi nel concetto fondamentale di rispetto della vita. Perché,
prima che una scelta di credo, il vegetarianismo è certamente una scelta
morale. (Annalisa Gimmi)
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