Roberto Pinto
Artisti di carta
Territori di confine tra arte e letteratura
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UNI
Artisti di carta
Territori di confine tra arte e letteratura
Roberto Pinto
Comitato editoriale
Anna Barbara (Politecnico di Milano)
Cristina Casero (Università di Parma)
Emanuela De Cecco (Libera Università di Bolzano)
Luca Peretti (Yale University)
Roberto Pinto (Università di Bologna)
Carla Subrizi (Sapienza Università di Roma)
Artisti di carta
Territori di confine tra arte e letteratura
di Roberto Pinto
© 2016 Postmedia Srl, Milano
In copertina: un disegno di Enrique Vila-Matas
www.postmediabooks.it
ISBN 9788874901722
postmedia books
Introduzione 8
L’artista come personaggio 19
Troppo bello per essere vero.
I falsi quadri, i falsi artisti 29
Nella testa e nel corpo dell’artista.
I romanzi di Don DeLillo 47
Dall’arte alla letteratura. Andata e ritorno.
Sophie Calle e la complicità degli scrittori 91
L'arte che ho amato. Siri Hustvedt 133
Orhan Pamuk: lo scrittore è un pittore.
Il museo dell’innocenza 153
L’arte tra provocazione e ipertrofismo 175
Bibliografia 204
Introduzione
Il campo in cui intendo muovermi è quello degli sconfinamenti, veri e immaginari, o
della concorrenza, tra l’àmbito del verbale, soprattutto del letterario, e l’àmbito del
visivo, soprattutto del pittorico.
(Segre 2006:15)
L’incontro tra due discipline non avviene quando l’una si mette a riflettere sull’altra,
ma quando una si accorge di dover risolvere per conto proprio e con i propri mezzi
un problema simile a quello che si pone anche in un’altra.
(Deleuze 1998: 29)
Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi romanzi in cui
l’arte, in particolare quella contemporanea, riveste un ruolo centrale
nello sviluppo della narrazione1. Molti scrittori, infatti, hanno fatto
ricorso alle opere d’arte come espressioni culturali particolarmente
idonee a mettere in luce la complessità e la problematicità della
società attuale. La commistione tra l’opera e il proprio vissuto, il
problema dell’autorialità e dell’identità, l’attenzione ai conflitti
e alle dinamiche culturali e politiche sollevati da alcune opere
d’arte e dalla loro esposizione – assieme alla dipendenza dalle
dinamiche del mercato così come dai fenomeni dell’ipertrofia e
del gigantismo diffusi nell’arte degli ultimi anni – incarnano, agli
occhi degli scrittori, metafore perfette del nostro mondo. Accanto
alle opere d’arte, in questi romanzi troviamo descritti sia artisti,
sia il mondo dell’arte. E musei e gallerie che diventano luoghi
particolarmente adatti all’ambientazione di storie.
L’attenzione all’arte rivolta dalla letteratura, insieme alla
predisposizione da parte degli scrittori a leggerla e reinterpretarla
in chiave personale, sono stimolanti presupposti attraverso i quali
riflettere sui territori di confine e sugli stretti rapporti che hanno
intrecciato in più occasioni le due arti sorelle. Lo sguardo della
letteratura credo possa essere infatti accolto come strumento
7
adeguato anche al fine di comprendere come viene percepita
l’arte contemporanea dal mondo della cultura, per interrogarsi
su cosa gli intellettuali, la cultura e la società abbiano davvero
colto o recepito dell’arte contemporanea, delle sue funzioni,
delle sue priorità, delle sue strategie comunicative e del modo
in cui le tematiche vengono affrontate e raccontate. Attraverso i
romanzi credo si possa meglio indagare il ruolo che l’arte ricopre
nella nostra società delle immagini al di là di ciò che pensano
artisti, critici, storici dell’arte e tutti coloro che si dedicano
professionalmente a tale ambito.
Questo studio ha inoltre l’obiettivo di indagare se la forma
romanzesca possa restituire aspetti dell’arte contemporanea che
gli apporti storici non sono in grado di far emergere completamente
o che, per la loro natura, non rappresentano obiettivi di studio
prioritari. Forse perché, come sottolinea ironicamente Tiziano
Scarpa, “gli storici e i giornalisti vanno al sodo, sicuri di conoscere
in anticipo quale sia il nocciolo di ogni questione […] invece,
quella particolare stirpe di scrittori chiamati romanzieri sembra
perdersi in una pletora di particolari di poco o nessun conto”
(Scarpa 2015: 6). L’arte è anche fatta di minuzie, di nessi tra le
cose, di giochi metalinguistici, di allusioni e di emozioni, di ricordi
e di impressioni. L’arte è la sua storia e il suo racconto, ma sono
anche le persone che la pensano, la costruiscono, ne parlano e
vivono per essa. E la narrazione di questi elementi è, a volte, più
vicina al romanzo che al saggio critico o alla ricostruzione storica.
La storia e la critica d’arte hanno scopi e obiettivi precisi che,
forse, per entrare nei meccanismi interni della creatività artistica,
possono trarre giovamento anche dal confronto con approcci
e sguardi diversi, come quelli forniti dai romanzi, per ampliare
l’orizzonte della percezione che si ha delle sue manifestazioni.
In particolare questo libro nasce principalmente dalla lettura dei
romanzi di Don DeLillo che, in molte occasioni, si avventurano
all’interno delle foreste di segni che l’arte ha inventato, coltivato
e nutrito negli ultimi anni. Le sue pagine mettono in luce – forse in
modo più consapevole di come abbia fatto qualsiasi altro scrittore
di questi anni – pregi e criticità di questo campo di espressione.
8
Uno dei principali obiettivi del mio lavoro è stato, dunque,
indagare quel fertile campo di sperimentazione rappresentato
dalle intersezioni, dagli scambi e dalle aree comuni che si creano
tra le due discipline, quelle interferenze e ibridazioni che hanno
permesso di modificare tali linguaggi e addirittura di facilitare
passaggi di ruolo in entrambe le direzioni tra artista e scrittore,
come avviene nel Museo dell’Innocenza di Orhan Pamuk (2008)
o, in modo meno evidente ma non meno significativo, in alcune
collaborazioni, come quelle tra Sophie Calle e Paul Auster o
tra l’artista francese ed Enrique Vila-Matas2. Episodi che da
storici dell’arte che studiano il presente non possiamo ignorare
o sottovalutare, anche perché sono le più prestigiose sedi
espositive internazionali a ricordarci quanto siano feconde
queste interazioni tra territori diversi. Il Guggenheim Museum
di New York, per fare un esempio, recentemente (5 giugno - 9
settembre 2015) ha ospitato una mostra, Storylines: Contemporary
Art at the Guggenheim (http://exhibitions.guggenheim.org/
storylines/about/exhibition, ultima consultazione 10/10/2016),
in cui si incrociavano arte e letteratura attraverso il dialogo
di oltre un centinaio di opere provenienti dalle collezioni del
museo con le storie o le descrizioni elaborate da una trentina
di scrittori sensibili al fascino dell’arte contemporanea, tra
cui John Banville, Michael Cunningham e Jonathan Lethem. A
sua volta il Palais de Tokyo di Parigi – “le plus grand centre de
création contemporaine en Europe” come amano definirsi nel
sito istituzionale (http://www.palaisdetokyo.com/fr/notre-adn,
ultima consultazione 06/09/16) – ha invitato Michel Houellebecq
a realizzare una mostra nelle vesti di artista (23 giugno – 11
settembre 2016), Restert Vivant (Houellebecq 2016), mettendogli
praticamente a disposizione l’intero spazio espositivo. Dialoghi,
scambi di ruolo, territori di confine che sembrano rispondere
meglio, in tempo di estetica relazionale, agli interessi reciproci
nutriti da artisti e scrittori e che sono andati a sostituire la
funzione svolta, in epoca realista, dai quadri dipinti da Gustave
Courbet o Édouard Manet che erano la testimonianza evidente
del loro rapporto con i compagni di strada scrittori. Ritratti in
9
pittura attraverso i quali conosciamo le sembianze di Émile Zola,
di Jules Champfleury o di Charles Baudelaire che ci aiutano
anche a conoscere il loro modo di presentarsi al mondo; o ritratti
in parole, quelli composti dagli scrittori, che ci hanno permesso
di capire più in profondità personalità e poetica dei loro compagni
di strada artisti.
Nella sterminata produzione editoriale a cui si può attingere,
il punto di vista che prioritariamente abbiamo adottato
nell’affrontare la questione è quello che ci fornisce l’ékphrasis
nozionale – rimando alla definizione di Hollander (1988), ripresa e
ampliata da Cometa (2012) –, ovvero la condizione in cui lo scrittore
«falsifica» la realtà creando artisti e opere che non esistono nel
mondo dell’arte. Questo libro non vuole, dunque, porsi come
tentativo di mappare la recente ecfrastica dei narratori3; piuttosto
intende concentrarsi su alcuni esempi, per me particolarmente
rappresentativi, all’interno di un panorama vasto e variegato
che presenta, come è ovvio che sia, posizioni estremamente
dissonanti. Sul terreno dell’ékphrasis e dello studio dei rapporti
tra lingua scritta e opera d’arte si è molto scritto e discusso.
Fondamentale è stata la lettura di alcuni importanti studi di
Michele Cometa a partire da Parole che dipingono. Letteratura e
cultura visuale tra Settecento e Novecento (2004), passando per
La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale (2012) e
arrivando a Al di là dei limiti della rappresentazione. Letteratura e
cultura visuale (2014), da lui curato assieme a Danilo Maniscalco.
È bene precisare, però, che sia i miei studi, sia gli obiettivi di
questo libro sono concentrati sul fronte dell’arte e della sua
storia, e pertanto i giudizi formulati sulle opere letterarie sono da
intendersi solo come strettamente legati a questa prospettiva.
Il punto di vista sarà, quindi, radicalmente differente da quello
adottato dallo studioso palermitano nei suoi numerosi e preziosi
scritti sull’argomento. Tuttavia interrogarsi sul “doppio talento”
di alcuni artisti/scrittori (Cometa 2014) e sul “terzo spazio”
comune tra letteratura e arte da parte di studiosi di cultura
visuale e di letteratura è stata una forte spinta ad approfondire
tali argomenti. Un discorso analogo si può fare per Remo
10
Ceserani4 e il suo L’occhio della medusa. Fotografia e letteratura
(2011). Tale saggio, infatti, è un mirabile lavoro di studio proprio
sui territori di confine tra letteratura e fotografia e su come la
presenza dell’una comporti delle conseguenze sull’altra in un
mutevole scambio di interferenze5. Accanto a questi due testi
vorrei segnalare Lo sguardo narrato. Letteratura e arti visive di
Renzo Crivelli (2003), Guardare oltre. Letteratura fotografia e
altri territori curato da Silvia Albertazzi e Ferdinando Amigoni
(2008) e La finestra del testo. Letteratura e dispositivi della visione
tra Settecento e Novecento curata da Valeria Cammarata (2008).
Inoltre, se pur caratterizzato da una struttura meno sistematica,
corre l’obbligo di segnalare il volume recentemente uscito a cura
di Bertoni, Fusillo e Simonetti, Nell’occhio di chi guarda: Scrittori
e registi di fronte all’immagine (2014), nato come parte di un più
ampio progetto interuniversitario su letteratura e visualità. In
questo caso i curatori del volume hanno chiesto a una ventina tra
scrittori e registi di teatro e cinema di scrivere un brano a partire
da un’immagine. L’intenzione di creare antologie di testi legati
all’immagine era già stata affrontata più volte in passato, per
esempio da Diego Mormorio, con un punto di vista più specifico,
tramite il volume Gli scrittori e la fotografia (1988), in cui sono
raccolti narrazioni di scrittori che tra Otto e Novecento hanno
inserito nei loro racconti, o l'hanno scelta come tema nei loro
saggi, la fotografia. Un’altra ricerca dal taglio molto curioso è
il volume curato da Koen Brams, The Encyclopedia of Fictional
Artists (2010), in cui sono raccolti, come asettiche e razionali voci
di un’enciclopedia, circa duecentocinquanta vite di artisti – con
le descrizioni delle relative opere – nati dalle penne di scrittori.
Oltre alla bibliografia appena segnalata, negli anni scorsi
abbiamo assistito alla pubblicazione di una serie di saggi realizzati
da storici dell’arte che hanno cercato di allargare il loro campo di
intervento andando a studiare il territorio delle immagini, campo
assai più vasto e spesso insidioso rispetto a quello più circoscritto
e codificato del territorio artistico. Solo per fare alcuni esempi,
ricordo i lavori di Elkins, come The Domain of Images di (1999) o
quelli di Belting, come Bild-Anthropologie (2001).
11
A orientare il mio lavoro è stato anche una motivazione più interna
all’arte stessa e che muove dal desiderio di vagliare dal punto di
vista critico le opere di invenzione letteraria che affronteremo; opere
che, per molti aspetti, non sono sostanzialmente distinguibili dai
progetti artistici che siamo abituati a valutare. Il quesito soggiacente
rimanda, quindi, all’esistenza o meno di uno specifico artistico e
se questa caratterizzazione debba essere limitata soltanto a chi si
dichiara artista e propone i suoi progetti all’interno di uno spazio
che per convenzione appartiene a tale territorio. La questione è
aperta e mi costringe a una breve digressione. Dalle avanguardie in
poi, infatti, è diventato sempre più difficile individuare con certezza
differenze significative tra ciò che consideriamo opera finita e
semplice progetto. È dunque legittimo chiedersi se nei nostri
musei, dove si conserva e si espone l’arte degli ultimi decenni, si
collezionano progetti o solo opere d’arte in grado di soddisfare i
tradizionali parametri di finitezza del lavoro. Se, infatti, analizziamo
l’arte del Novecento da una prospettiva che ci consente di
cogliere distanze e differenze tra le idee e la loro realizzazione non
possiamo fare a meno di notare che a partire da Marcel Duchamp6
e passando, con le debite distinzioni, per Andy Warhol e Sol LeWitt
fino ad arrivare ai progetti più recenti, si può individuare una
costante e progressiva messa in discussione della gerarchia tra i
due termini – progetto e opera – che, fino alla fine dell’Ottocento,
erano invece considerati parti della stessa indivisibile entità.
Prima delle avanguardie storiche il progetto rappresentava, infatti,
esclusivamente una fase preparatoria del prodotto finito, un
passaggio funzionale a una migliore esecuzione del dipinto o del
gruppo scultoreo che si intendeva realizzare. Al contrario, molte
delle esperienze più recenti ci invitano a pensare che la vera e propria
realizzazione non sempre aggiunge necessariamente qualcosa
in più alle caratteristiche del progetto. Per esempio, verificare
l’effettiva chiusura della galleria nel lavoro di Robert Barry During
the Exhibition the Gallery Will Be Closed7 non aumenta in modo
sostanziale la nostra conoscenza di un’opera, che, per di più, si
basa solo un’enunciazione scritta8. Ritornando a Marcel Duchamp,
può essere utile ricordare che persino un’opera più “tradizionale”
12
come il Grande Vetro, La Mariée mise à nu par ses célibataires, même,
è per suo statuto ambigua in quanto programmaticamente lasciata
incompiuta dall’autore che, di conseguenza, l’ha costretta, usando
delle categorie tradizionali, a rimanere congelata in un limbo tra
opera e progetto. È altresì evidente che per La Mariée lo stato di
non finitezza non inficia minimamente la prerogativa di essere
considerata un imprescindibile caposaldo dell’arte del Novecento;
anzi, proprio tale status la rende simbolicamente più in sintonia
con le necessità filosofiche (oltre che estetiche) del momento
storico in cui è stata realizzata.
All’interno dell’arte degli ultimi decenni è, dunque, molto difficile
sancire una distinzione chiara e stabilmente determinabile tra
la fase progettuale e il processo ultimato. Tale condizione, che
coinvolge una parte consistente dell’arte più recente, si riverbera
anche su un altro aspetto problematico della contemporaneità,
quello relativo alla paternità dell’opera, anch’essa, da questo
punto di vista, non più facilmente attribuibile dato che non è
necessariamente un’unica persona a ideare l'opera e progettarla,
realizzarla manualmente e, infine, a mostrarla con la propria firma
all’interno di uno spazio espositivo. Di conseguenza, non sono più
in grado di aiutarci a dirimere tale questione neanche categorie
quali lo stile (a meno di non allargare notevolmente il campo
semantico di tale lemma) o altri tratti caratterizzanti le opere
del passato, come la pennellata o il trattamento della materia.
Attualmente siamo, quindi, tenuti ad accettare che l’artista sia
autore di un’opera anche soltanto in virtù del fatto che il progetto
sia suo, o almeno che lui/lei lo dichiarino tale. Talvolta persino
le immagini stesse che ci vengono presentate – da quelle di Roy
Lichtestein o Sherrie Levine, passando per Jeff Koons o Maurizio
Cattelan – non sono create dall’artista che tuttavia firma il lavoro,
lo presenta nelle mostre e si arricchisce (quando può) vendendolo
come proprio. Se si analizza la produzione degli ultimi cinquant’anni
si può infatti notare che l’artista non deve più essere dotato di una
delle indispensabili risorse del passato, ovvero il suo bagaglio
tecnico, le capacità artigianali che possono sì risultare utili, ma che
non svolgono più il tradizionale ruolo di conditio sine qua non.
13
Da questo breve excursus emerge, quindi, con chiarezza
che analizzare opere create esclusivamente con le parole può
rivelarsi anche un'utile opportunità per interrogarsi intorno alla
specificità artistica: per esempio, è giusto chiedersi se, nelle
nostre pratiche di storici dell’arte contemporanea, dobbiamo
limitare il nostro campo d'azione soltanto a chi si dichiara artista
e rivendica la concezione nonché la narrazione del proprio
lavoro, oppure se siamo tenuti anche a seguire le tracce di una
parte dell’arte del Novecento e di molte mostre che cercano
continuamente di rompere i confini tra interno ed esterno9,
includendo così all’interno del giardino dell’arte anche le opere
di chi non si è mai considerato, almeno in senso stretto, artista.
Se dunque si sono modificati i confini, o per dirla con le parole
di John Berger, se “l’intera storia dell’arte è storia delle lotte
per portare nuove esperienze dentro l’arte” (Berger 2004: 18),
possiamo considerare anche Vila-Matas o DeLillo (e non solo
Pamuk o Houellebecq autori di vere e proprie installazioni) degli
artisti visivi? È per questo motivo che il presente studio non
si concentra, se non in modo molto superficiale ed episodico,
su testi che hanno come tema l’arte e le sue opere in senso
generico, alcuni dei quali invero molto interessanti, come quello
di Jonathan Littell (2011) su Francis Bacon o i tanti scritti di Siri
Hustvedt sull’arte contemporanea (cfr. Hustevedt 2012a) o i suoi
saggi sulla pittura più antica (2005); dell’ultima scrittrice citata,
proprio perché a interessarci non è la descrizione narrativa di
opere reali, prenderemo, infatti, in esame solo i romanzi Quello
che ho amato (2003) o Il mondo sfolgorante (2014).
La mia insistenza sulla centralità del progetto e non dell’opera
non vorrei fosse intesa come una perversa operazione in cui si
sottomette l’opera al discorso e le sensazioni alle idee quasi
che la progettazione (e l’ideologia che la plasma) sia condizione
sufficiente allo scopo di riproporre una sorta di esaltazione
platonica del mondo delle idee (cfr. Ranciere 2004: 22 e ss). Non si
vuole qui dimenticare che le opere acquistano un significato anche
attraverso i media in cui vengono realizzate, né che la maggior
parte delle opere subiscono sostanziali trasformazioni proprio
14
nel passaggio dalla fase progettuale alla realizzazione, a causa
degli ostacoli che si possono frapporre o perché intervengono
ulteriori spunti creativi proprio a partire dall’incontro con il luogo
e, più in generale, con l’ambiente che le ospiterà. Il contatto con
l’eccentrico punto di vista dello scrittore può davvero fungere da
cartina tornasole dei possibili eccessi, delle “cattive abitudini”
e allo stesso tempo degli aspetti creativi e rivoluzionari dell’arte
così come si presenta oggi. Molti degli scrittori che ho portato a
esempio in queste pagine sono coscienti del fatto che l'esaurirsi
di quella mimesis che l’arte ha considerato fondamentale fino
alle soglie della modernità non ha implicato la fine dell’arte, ma
ha solo annunciato una trasformazione radicale delle sue forme
e dei suoi obiettivi. Cambiamento che probabilmente è coinciso
con la ridefinizione delle gerarchie tradizionalmente intese
che vedevano nella scrittura, nella parola, l’elemento fondante
della cultura basata su religione e razionalità, e nell’immagine
la sede della bellezza e del rapporto con la natura. Tale
divisione coincideva grosso modo con la distinzione tra la sfera
maschile e femminile dove, inutile dirlo, la sfera dell’immagine
e del femminile erano strettamente subordinate alla parola e al
maschile. Proprio in virtù della ridiscussione dei rapporti e delle
gerarchie preesistenti credo possa avere senso avviare la nostra
analisi dagli anni Sessanta-Settanta – con occasionali incursioni
all’indietro – per tentare di capire quale rapporto intercorra tra
arte e letteratura.
In ultimo vorrei ricordare che anche in anni recenti moltissimi
artisti hanno preso spunto, si sono ispirati, se non addirittura
hanno assolto al compito di illustrare singoli episodi letterari.
Tra questi vanno senz’altro citati Tim Rollins and K.O.S.10,
William Kentridge11 o Joan Jonas12; oppure, per rimanere in
Italia, Giulio Paolini – per esempio A J.L.B del 1965 dedicato a
Borges –, Mario Airò – con Raise High the Roof Beam, Carpenters
ispirato all’omonimo racconto di Salinger –, o Marzia Migliora –
con il progetto Pari o dispari realizzato nel 2004 alla Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo e ispirato al libro di Agota Kristov La
trilogia della città di K, o con l’installazione Pier Paolo Pasolini
15
del 2009. E ancor più numerosi potrebbero essere i casi di cui
occuparci se considerassimo anche i romanzi scritti da chi ha
iniziato come artista, per esempio Gabriele Picco, oppure i libri/
dialoghi tra artisti e scrittori come per esempio quello tra Damien
Hirst e Gordon Burn in Manuale per giovani artisti (2001). Questi
esempi, come moltissimi altri, avrebbero tuttavia la necessità di
un approfondimento specifico e potrebbero rappresentare il punto
di partenza per realizzare un volume autonomo in cui cercare di
comprendere quanto l’arte contemporanea sia legata al senso
della narrazione o si sia ispirata ad essa e, parallelamente, in
che maniera l’arte sia in grado di dare una forma concreta alle
immagini create con le parole dalla letteratura e quanto tali
immagini siano in grado di commentarla.
Per concludere desidero rivolgere alcuni ringraziamenti. Ogni
libro è frutto di studi personali, ma anche dei tanti stimoli che
arrivano dall’esterno. Stimoli che si indentificano con i libri che ho
letto, con le conferenze a cui ho assistito, con le persone con cui ho
condiviso le mie idee e che mi hanno suggerito letture di saggi o di
romanzi. Sperando di non aver dimenticato troppe persone vorrei
ringraziare per i loro suggerimenti di letture Katia Anguelova, Ivo
Bonacorsi, Raffaella Cortese, Sandra Costa, Cristina Gerosa,
Marco Enrico Giacomelli, Cecilia Guida, Gianfranco Maraniello,
Fabio Muzi Falcone. Il mio debito nei confronti di queste persone
è, come potete immaginare, enorme.
Nella stesura di un libro hanno un ruolo determinante i lettori
delle singole parti della ricerca, delle versioni che nel tempo
si accumulano e si sovrappongono. Tra loro vorrei fare il nome
di Emanuela De Cecco quale prima lettrice dei miei testi,
indispensabile per la sua mente lucida e puntuale nei giudizi; e
quello di Luca Bortolotti, che oltre ad avermi offerto preziose
notazioni nell’ambito della stesura del testo, da lettore forte
di narrativa mi ha suggerito anche alcuni dei romanzi presi in
esami in queste pagine. I loro consigli sono stati fondamentali
per aggiustare la rotta nel cammino, per ripensare agli obiettivi
16
del progetto e per modellare questo libro: a loro va la mia
gratitudine. Infine vorrei ringraziare La Lettrice di ogni mio testo, e
lo vorrei fare parafrasando L’estate senza uomini di Siri Hustvedt
affermando che senza la corteccia prefrontale bilaterale di Elena
Liverani questo libro non esisterebbe (cfr. Hustvedt 2011: 52).
1. Una prima stesura di alcune di queste
rilessioni si trova in Pinto (2014).
Andrea Binelli per avermi fato notare
questo plagio involontario.
2. Sulla stessa lunghezza d’onda va
considerato anche Words and Stars un
progeto di collaborazione tra Grazia
Toderi e Orhan Pamuk iniziato con una
doppia installazione presentata nel
novembre del 2016 a Torino nelle sedi
di Palazzo Madama e del Planetario
di Pino Torinese (cfr. htp://www.
palazzomadamatorino.it/it/eveni-emostre/words-and-stars-grazia-toderie-orhan-pamuk-installazione, ulima
consultazione 5/11/2016).
5. All’interno della premessa Ceserani
speciica: “Mi occuperò, invece, in
modo abbastanza ampio, anche se pur
sempre con la tecnica del campione,
del rapporto fra la leteratura e la
fotograia, intesa quest’ulima al
tempo stesso come tema e come
procedimento della rappresentazione.
Al centro del mio interesse è proprio
questo aspeto di quel rapporto e
cioè la possibilità che il procedimento
fotograico (con i suoi linguaggi e le sue
connotazioni metaforiche) si temaizzi
nei singoli tesi e che al tempo stesso i
vari temi (suggerii da quel linguaggio)
si facciano procedimento, ofrendo
esempi di rappresentazione e di possibili
svolgimeni narraivi” (Ceserani 2011:
12).
3. A tale riguardo cfr. Cometa (2012)
in cui, senza inteni di catalogazione, si
analizzano in maniera molto accurata i
casi principali di descrizione delle opere
d’arte.
4. Mi accorgo solo ora, mentre sto
procedendo alla revisione di questo
testo, che il itolo scelto, Arisi di carta,
rimanda al celebre saggio di Remo
Cesarani Treni di carta. L’immaginario
in ferrovia: l’irruzione del treno nella
leteratura moderna (1993). Ringrazio
6. Basta pensare alla prima mostra in
cui espose un suo readymade, Fountain,
e alle argomentazioni con cui Marcel
Duchamp sostenne le ragioni di quel
lavoro (Duchamp 1917).
17
7. Ricordiamo che Robert Barry, in
occasione di una mostra del 1969 che
si svolgeva in tre gallerie (Eugenia
Butler a Los Angeles, Art & Project ad
Amsterdam e alla galleria Sperone di
Torino), si “limitò” a spedire gli invii
recani la seguente nota: “During the
exhibiion the gallery will be closed”,
preannunciando così che durante il
periodo della mostra, per l’appunto, la
galleria sarebbe rimasta chiusa.
8. Un’interessante tratazione di
problemi analoghi, sopratuto atraverso
l’opera di Yves Klein, la troviamo in
Fimiani (2014).
9. A tale riguardo è imprescindibile fare
riferimento a molte della esposizioni
curate da Harald Szeemann, una delle
igure più atente a tali territori, che ha
prolungato la sua traietoria anche in
tempi più receni, per esempio nella 55a
edizione della Biennale di Venezia curata
da Massimiliano Gioni (2013).
10. In moli casi il lavoro collaboraivo
creato a più mani di Tim Rollins e dei
“Kids of Survivol” parte da tesi scrii
e da spuni leterari tra i più vari,
che spaziano da Dante a Defoe, da
Shakespeare a Marin Luther King.
11. Tuta l’opera realizzata nelle vesi di
arista, ma anche di scenografo e regista,
di William Kentridge è intrisa di aspei
narraivi che, in alcuni casi si aprono a
veri e propri omaggi alla leteratura. Ne
troviamo un esempio nel video Zeno
Wriing del 2002 in cui esplicitamente
cita il più famoso tra i personaggi creai
da Italo Svevo.
18
12. Anche nel caso di Joan Jonas gli
aspei narraivi sono spesso premineni
nell’ideazione stessa dei progei, per
esempio nella sua recente partecipazione
alla Biennale di Venezia, l’arista
americana presentava nel Padiglione
nazionale richiami allo scritore islandese
Halldór Laxness (e al suo romanzo Soto
il Ghiacciaio) e alla Divina Commedia di
Dante Alighieri.
L’artista come personaggio
Non si tratta, come abbiamo visto, dell’utopia di un’opera d’arte totale
(Gesamtkunstwerk) che si pone a sintesi tra le arti. Si tratta semmai dell’esibizione
di un punto cieco, della ricerca inquieta dei momenti opachi delle singole
forme d’arte, dell’avventurarsi in territori che nessuna delle arti, di per sé, può
ragionevolmente esaurire nella rappresentazione
(Cometa 2014: 78).
Quanto si offre in una descrizione è la rappresentazione del pensiero a proposito
di un quadro piuttosto che la rappresentazione del quadro stesso
(Baxandall 1985: 16).
Era una notte buia e tempestosa... lo scrittore nei panni dell’artista
Se analizzassimo sistematicamente i personaggi principali
che animano romanzi e racconti e stilassimo una classifica delle
professioni più frequenti – escludendo da questa lista i noir in cui
mattatori assoluti sono detective, assassini seriali e commissari
di polizia – sono sicuro che ai primi posti, appena dietro il
protagonista-scrittore, troveremmo il protagonista-artista. Grazie
alla figura dell’artista lo scrittore può, infatti, costruirsi una
sorta di autoritratto attraverso il quale riflettere su se stesso e
sui processi legati alla creazione. Tramite tale figura lo scrittore
non parla direttamente di se stesso ma, al contempo, è libero di
descrivere il mondo con coordinate a lui familiari o comunque
vicine alla sua pratica quotidiana. Si tratta di un ruolo sostitutivo
che non deve indurre il lettore a pensare che ci sia una completa
immedesimazione tra autore e personaggio. Spesso, infatti,
tendiamo ad attribuire alle storie che hanno come protagonista
uno scrittore, soprattutto se sono narrate in prima persona1
un’aderenza alla realtà da lui effettivamente vissuta, una valenza
di verità, nonostante ognuno di noi sia ben cosciente che gli
scrittori descritti nei libri non sono sovrapponibili ai loro autori;
neanche nei casi in cui, come per Enrique Vila-Matas o Emmanuel
Carrère, è esplicitamente espressa la coincidenza tra autore e
19
1. A questo proposito, come uno dei tani
esempi possibili, possiamo ricordare la
seconda delle Norton Lectures di Orhan
Pamuk (cfr. 2010: 23-40) initolata
proprio “Signor Pamuk, tuto questo è
davvero successo a lei?” in cui lo scritore
turco si soferma proprio su quesi
problemi.
2. Kris fu anche allievo di Freud e
possedeva, pertanto, una doppia
specializzazione in storia dell’arte e in
psicoanalisi.
3. Lo scritore e il pitore si conoscevano
in dall’infanzia avendo entrambi
frequentato le scuole ad Aix-en-Provence
(cfr. Reward 1939 e 1948 e Cianci,
Franzini, Negri 2001).
4. Cfr. l’introduzione di Francis Oto
Mathiessen al libro di Henry James
(1903), presente in quasi tute le edizioni
a parire dal 1944, e pubblicata anche
nell’edizione italiana.
5. La coperina interna reca infai la
dicitura: Barbablù. Autobiograia di Rabo
Karabekian (1916-1988).
Troppo bello per essere vero1
I falsi quadri, i falsi artisti
Come può esistere verità senza menzogna?
(Santiago de Alvarado cit. in Aub 1958: 13)2
Il falsario: la rivolta del bravo artista contro il sistema
Il motivo dell’inganno, del falso e della contraffazione delle
opere ha da sempre appassionato gli scrittori che hanno
spesso usato queste tematiche per accostarsi al mondo
dell’arte. Bisogna riconoscere che agli occhi di un narratore
tali questioni potrebbero contenere alcuni aspetti interessanti,
utili per la costruzione di una storia, a partire dalla possibilità
di descrivere in modo avventuroso gli eventi che coinvolgono i
protagonisti, anche perché tali questioni presuppongono azioni
illecite, come una truffa, o comunque un inganno, un raggiro.
Allo stesso tempo la falsificazione di un quadro, pur essendo
un’operazione eticamente, nonché legalmente, condannabile, di
per sé non è affatto un atto violento e ciò consente allo scrittore
di aggirare le questioni di ordine morale e in questo modo di
facilitare il processo di immedesimazione dello spettatore nei
panni del falsario.
Nella narrazione romanzesca, e a volte anche nella realtà, il
falsario è un esperto pittore o scultore tanto capace da porsi
sullo stesso piano del Maestro che viene copiato, almeno nel
campo della pura abilità manuale. Con le sue azioni si prende
gioco di individui che dovrebbero essere esperti conoscitori ma
che, gli eventi narrati lo dimostreranno, non sono all’altezza del
proprio ruolo che usano solo per esercitare il proprio potere
arbitrariamente o a loro esclusivo vantaggio. Come ci tiene a
sottolineare nella sua autobiografia romanzata Eric Hebborn,
uno dei più abili e prolifici falsari – o “imitatori dell’antico” se
vogliamo accettare la sua definizione – vissuti nel ventesimo
28
29
come sostenuto dallo scritore (Aub
1958: 138).
13. Solo per fare un esempio Perec
scrisse nel 1968 il romanzo-lipogramma,
La dispariion (1969), di 319 pagine, in
cui non compare mai la letera «e».
14. Un ennesimo esempio di romanzo
sulla falsiicazione di opere d’arte è
Falsi e Falsari dello scritore tedesco
Wolfgang Hildesheimer (1953)
che in questo romanzo si diverte a
raggiungere degli eccessi poco credibili,
ma sicuramente diverteni, come la
falsiicazione della Gioconda o di arisi
del passato completamente inventai che
diventano famosi grazie a sorprendeni
“ritrovameni” (anch’essi opera
dello stesso falsario protagonista del
romanzo).
15. È uile segnalare che entrambi i
fratelli erano stai pitori in gioventù e
prima di dare spazio alla loro vocazione
leteraria avevano scrito numerosi saggi
su temaiche arisiche. A tal riguardo
vedi Brigani (2005: 11 e ss)
16. Georges Perec si è spesso misurato
con le immagini e l’arte tanto che
Sandra Cavicchioli scrive: “I luoghi della
descrizione che più contraddisinguono
il corpus perecchiano sono comunque, a
nostro avviso, i quadri. Tele, acquarelli,
fotograie, incisioni, pullulano da ogni
dove. Al di là di questa onnipresenza,
tutavia, ciò che colpisce è che i quadri
descrii da Perec sono storie, mostrano
personaggi che agiscono, fai che
sono compiui o si stanno compiendo.
Anche quando i soggei ritrai sono
nature morte o paesaggi, dunque messe
in scena staiche che non evocano
eveni, è raro che notazioni silisiche
ne accompagnino la descrizione”
(Cavicchioli 1993: 176).
46
17. È interessante notare che un altro
degli scritori qui presi in esame,
Paul Auster, in un aricolo sul The
New York Times (1987), ripubblicato
in The Art of Hunger vede la igura
di Percival Bartlebooth come il vero
protagonista del romanzo di Perec e
che “la bizzarra saga di Bartlebooth può
essere interpretata come una (specie
di) parabola sui tentaivi della mente
umana di imporre al mondo un ordine
arbitrario [...] un progeto come quello di
Bartlebooth non può essere completato,
e quando nell’Epilogo apprendiamo
che l’enorme dipinto di Valène (che a
tui gli efei è il libro che abbiamo
appena leto) non è andato al di là di
un bozzeto preliminare, capiamo che
Perec non esime se stesso dalle follie
dei suoi personaggi. È questo senso di
autoderisione che trasforma un romanzo
potenzialmente scoraggiante in un’opera
accogliente, un libro che – dopo tanta
arguzia e allegria sfrenata – alla ine
ci conquista con il calore dell’umana
comprensione” (Auster 1997a: 206).
18. Non può sfuggire la vicinanza di
questa dichiarazione alle operazioni che
Sophie Calle ha costruito con gli scritori,
in primis con Auster e Vila-Matas, a cui
ha chiesto di raccontare una storia che
lei avrebbe vissuto. Da qui la dichiarata
“invidia” dell’arista nei confroni dello
scritore parigino.
Nella testa e nel corpo dell’artista.
I romanzi di Don DeLillo
Non si danno spiegazione dei quadri: si spiegano le osservazioni fatte su di essi.
(Baxandall 1985: 10)
In un modo o in un altro l’opinione comune tende a riconoscere negli artisti
degli esseri straordinari. In questo caso, tuttavia, un tale termine non ha
necessariamente un valore positivo. Porta con sé, piuttosto, un senso di alterità,
preannuncia la diversità che ci si attende da chi artista viene chiamato, diversità
nel comportamento, come nelle abitudini o nel temperamento. Per converso è
significativo che quello dell’artista sia l’unico tipo di comportamento deviante
che venga in qualche modo celebrato.
(Castelnuovo 1980: VII)
Un ambiente di vita piuttosto che di arte
In quasi tutti gli scritti di Don DeLillo troviamo riferimenti
all’arte contemporanea, spesso corredati da dettagliate
descrizioni di opere e di performance che rivelano la sua
straordinaria empatia nei confronti di tali sperimentazioni. In
generale si può affermare che nei suoi libri lo scrittore americano
parta dall’assunto che il mondo delle immagini ricopre un ruolo
fondamentale nella nostra vita e che la linea che demarca
la distinzione tra realtà e finzione è quasi completamente
scomparsa (cfr. Schneck, Schweighauser 2010: 1 e ss.). Il suo
legame con il mondo dell’arte è solido e profondo e, all’interno di
questo territorio, DeLillo segue percorsi assolutamente originali
che, oltre a descrivere il presente, spesso rivelano uno sguardo
in grado di prefigurare le svolte e identificare i punti critici che le
arti visive hanno dovuto affrontare negli ultimi anni.
47
16. Anche se, come fanno spesso scritori
e arisi, aferma: “I’m just translaing the
world around me in what seems to be
straighforward terms. For my readers,
this is someimes a vision that’s not
familiar. But I’m not trying to manipulate
reality. This is just what I see and hear.”
(Mc Crum 2010)
17. Linda S. Kaufmann (2010) accomuna
quesi due racconi al saggio “In the
Ruins of the Future: Relecions of
the Terror and Loss in the Shadow
of September” (DeLillo 2001a) per
mostrare tramite la scritura di DeLillo la
ricaduta sociale, economica e psicologica
dell’impato dell’11 setembre nella
realtà americana.
18. Tra i soggei di questo ciclo ci sono
anche le immagini di Ulrike Meinhof
trovata impiccata in cella il 9 maggio
del 1976 diversamente dagli altri
componeni della banda, trovai mori il
18 otobre dell’anno successivo.
19. In una delle rare interviste che
DeLillo ha rilasciato si trova un’ulteriore
descrizione che ci può fornire qualche
elemento in più sul suo incontro con
quest’opera: “I walked into the museum,
and there was this video about which
I knew virtually nothing. But I found it
oddly compelling. You were looking at
a screen on which pracically nothing
happens. And as I looked I saw that there
was something in here about ime and
mortality. I went back two or three imes.
I thought: maybe this would inspire a
work of icion”. (Mc Crum 2010)
20. Anche sulla necessità di lasciare
deiniivamente non inite le proprie
opere si potrebbero fare interessani
parallelismi con l’arte degli ulimi anni,
a parire almeno dal Grande Vetro di
Marcel Duchamp. Su tale argomento cfr.
Senaldi (2012).
90
21. Traduzione del itolo del testo di
Schneck e Schweighauser (2010) che
hanno raccolto una serie di saggi sulla
scritura di DeLillo.
22. E, dato che poco prima abbiamo
parlato di Richter anche lui alle prese
con immagini di morte (cfr. Buchloh
1989: 97), forse è uile ritornare alle
sue parole per capire perché Richter
decida di dipingere dei quadri e non di
esporre le foto dell’avvenimento: “I’d
say the photograph provokes horror,
and the paining – with the same moif
– something more like grief. That comes
very close to what I intended.” (Richter in
Elger, Obrist 2009: 229)
23. I rappori con la leteratura di
Grimonprez non si fermano qui, dato
che nel 2009 per uno dei suoi successivi
lavori, Double Take, anche in questo caso
un ilm, ha sollecitato la collaborazione
di Tom McCarthy certamente uno
degli scritori che più si sono avvicinai
all’ambito arisico. Tom McCarthy, a
sua volta, ha collaborato con arisi in
diverse occasioni non soltanto all’interno
dei suoi libri, ma anche in occasioni
esposiive più tradizionali, come l’ICA di
Londra, il Drawing Center di New York,
il Kunstwerke di Berlino o il Moderna
Museet di Stoccolma. Tra le tante aività
che lo hanno collegato alla sfera visivaarisica si segnala la collaborazione con il
suo amico e ilosofo Simon Critchley, con
cui ha fondato nel 1999 la Internaional
Necronauical Society (INS), una “semiiciious” – come amano dichiarare in
molte interviste – organizzazione arisica
(cfr. Verhagen 2004).
Dall’arte alla letteratura. Andata e ritorno.
Sophie Calle e la complicità degli scrittori
La pittura è un modo di vedere diverso dalla scrittura,
ma si tratta della stessa attività.
Paul Auster (1997: 90)
L’arte era, in effetti, qualcosa che mi stava succedendo, accadendo in quel
momento stesso. E il mondo di nuovo sembrava inedito, mosso da un impulso
invisibile. E tutto era così rilassante e stupendo che risultava impossibile
smettere di guardare. Benedetta sia la mattina, pensai.
Enrique Vila-Matas (2014: 254)
Fotografia e letteratura
Il profondo amore per l’arte che promana dalle pagine dei
romanzi di Don DeLillo potrebbe trovare, quale ideale contraltare
artistico, la figura di Sophie Calle. Affermiamo ciò non perché
l’artista francese abbia saputo (o voluto) descrivere l’ambiente
letterario con la stessa precisione e complessità con cui lo
scrittore americano ha cercato di raccontare quello artistico,
bensì perché in quasi tutte le opere dell’artista francese emerge
il rapporto simbiotico che i suoi lavori instaurano con la scrittura.
La gran parte dei lavori di Sophie Calle, infatti, si serve di strutture
narrative, a volte complesse, che si integrano perfettamente
con le immagini da lei raccolte. Le sue creazioni sono spesso
costruite tramite una sequenza di foto (occasionalmente
sostituite da video) a cui si affiancano testi, per lo più minuziose
descrizioni degli avvenimenti a cui quegli scatti si riferiscono,
senza i quali le singole immagini difficilmente sarebbero
completamente decodificabili. Le sue opere, dunque, si fondano
sul presupposto che esista uno stretto legame tra i due campi
espressivi e sono realizzate anche attraverso la declinazione di
aspetti performativi e relazionali.
91
L'arte che ho amato
Siri Hustvedt
Painting is there all at once: When I read a book, listen to music, or go to a
movie, I experience these work over time. A novel, a symphony, a film are
meaningful only as a sequence of words, notes, and frames. Hours may pass
but a painting will not gain or lose any part of itself. It has no beginning, no
middle, and no end. I love painting because in its immutable stillness it seem
to exist outside time in a way no other art can. (Hustvedt 2005: XV)
Che significato aveva il fatto che l’informe massa di «quelli là» avesse
celebrato l’opera di Harry quando era arrivata tramite un «ventiquattrenne con
l’uccello», per usare le parole di Harry? Cosa vedevano davvero gli entusiasti,
l’opera di cui lei era autrice o solo Anton, il ritratto dell’artista da giovane
fusto? Quanta gente osservava seriamente l’arte? E nel caso, cosa ci vedevano?
E come la giudicavano? (Hustvedt 2014: 112)
Siri Hustvedt è sicuramente una delle scrittrici che meglio ha
raccontato in modo articolato e approfondito il mondo artistico
contemporaneo. Il suo radicato interesse non ha prodotto soltanto
personaggi o ambientazioni per la scrittura finzionale, attività
che è sicuramente prioritaria nella sua produzione, ma anche
una serie di saggi sull’arte. Spesso si tratta di testi pensati per
essere pubblicati su cataloghi di esposizioni organizzate da
musei o gallerie (cfr. http://sirihustvedt.net/biography/ ultima
consultazione 7/10/2016), come per esempio quelli dedicati al
lavoro di Kiki Smith (2007a) o di Robert Mapplethorpe (2012b);
oppure sono scritti redatti in occasioni di lecture, come il brano
dedicato al nostro Giorgio Morandi (2009a); o, più semplicemente,
sono articoli per riviste o giornali, come i testi per Louise
Bourgeois (2007b) o per Annette Messager (2009b). La maggior
parte di questi saggi è stata successivamente raccolta nel libro
Mysteries of the Rectangle: Essays on Painting uscito nel 2005 e,
dopo tale data, nella raccolta Vivere, Pensare, Guardare (2012a).
133
4. Non si può fare a meno di ricorrere
alle parole stampate in The Advantages
of Being a Women Arist (htp://www.
guerrillagirls.com/projects/ ulima
consultazione 23/09/16), uno tra i più
celebri manifesi prodoi dalle Guerrilla
Girls. In tale manifesto, realizzato nel
1988, tra i numerosi vantaggi insii
nell'essere una donna arista spiccano:
“Knowing your career might pick up
ater you’re eighty” oppure “Being
included in revised versions of art
history”. Tale colleivo arisico viene
per altro citato in questo stesso libro
della Hustvedt (33-34) in un brano in cui
ritorna sull’argomento parafrasando lo
slogan: “In generale, il mondo dell’arte
è un mondo maschile. E quando
guarda a quello femminile, spesso lo
fa per correggere sviste del passato. È
interessante che non tute, ma molte
donne, siano state osannate solo quando
la loro epoca d’oro come oggei del
desiderio sessuale era ormai passata”
(74).
5. In uno dei taccuini la stessa Burden
scrive: “Avevo il sospeto che se fossi
stata isicamente diversa, il mio lavoro
sarebbe stato accolto, o perlomeno
osservato, con maggiore serietà. Non
mi reputavo viima di un comploto. La
maggior parte dei pregiudizi è inconscia.
Ciò che appare in supericie è una vaga
avversione che viene poi giusiicata in
modo razionale. Forse essere ignorai è
ancora peggio: quello sguardo di noia
negli occhi dell’altro, quella convinzione
che niente di mio possa essere di
qualche interesse. Ad ogni modo, avevo
collezionato il mio buon numero di
batoste e umiliazioni, e ormai avevo
paura degli spari. Alle mie spalle: Quella
è la moglie di Felix Lord. Fa delle case per
bambole. Risaina. In faccia: Ho senito
che Jonathan ha deciso di rappresentari
perché è amico di Felix. Poi avevano
bisogno di una donna in scuderia. In un
152
giornalaccio: «La mostra da Jonathan
Palmer di Harriet Burden, moglie del
leggendario mercante d’arte Felix Lord,
consiste in piccoli lavori architetonici
ingombri di varie igure e tesi. L’opera
non ha disciplina né fulcro, e sembra
uno strano miscuglio di pretenziosità
e ingenuità. Viene da chiedersi perché
quesi pezzi siano stai messi in mostra”.
(33)
6. A proposito di La benda sugli occhi in
un’intervista del 1993 rilasciata a Hugh
Kennedy e Geofrey Polk, David Foster
Wallace deinisce la Hustvedt come: “il
miglior esempio di postmodernismo
femminista che abbia mai leto”
(htp://www.minimaetmoralia.it/wp/
rircordando-david-foster-wallace/ ulima
consultazione 20/10/2016)
7. Al riguardo credo sia interessante
riportare un dialogo tra Iris e lui:
“«Le piace nascondersi dietro a una
maschera?». «Ci godo. Mi rende la vita
più colorita e pericolosa». «Pericolosa?
Non le pare di esagerare?». «Credo
di no. Adotando un nome adato per
ogni ipo di lavoro, posso fare di tuto.
Parlo sul serio. Ci vuole abilità, del
genio addiritura, per inventarsi un
alias in grado di sguinzagliare l’uomo o
la donna giusi per il lavoro giusto. […]
È impossibile sapere con sicurezza chi
si nasconde soto lo pseudonimo che
scelgo di volta in volta” (Hustvedt 1992:
10).
8. Anche in questo caso si trata di una
igura autobiograica, a parire dal nome
Iris Vegan, che combina il suo nome leto
al contrario (come abbiamo già visto nei
romanzi di Paul Auster) con il cognome
della madre, il che conferma un profondo
grado di immedesimazione della
scritrice con la protagonista principale
del romanzo.
Orhan Pamuk. Lo scrittore è un pittore.
Il museo dell’innocenza
Cosa succede nella nostra mente, nella nostra anima, quando leggiamo
un romanzo? In cosa tale sensazione interiore differisce da cosa proviamo
guardando un film, un quadro, o ascoltando una poesia, o un poema epico?
(Pamuk 2010: 6)
Why I Am Not a Painter/I am not a painter, I am a poet./Why?
I think I would rather be/a painter, but I am not. well
(O’Hara 1957)
Un racconto narrato dagli oggetti
Tra i più interessanti progetti recenti in cui arte e letteratura
si specchiano l’una nell’altra sicuramente bisogna annoverare Il
museo dell’innocenza (2008) di Orham Pamuk1. In questo romanzo
lo scrittore turco aumenta il contenuto entropico del suo lavoro
creando un corto circuito, non solo tra scrittura e immagini, ma
anche tra il mondo immaginario raccontato nelle pagine del libro
e la realtà. L’ossessione del protagonista della sua narrazione
si trasformerà, infatti, in qualcosa di estremamente concreto e
tangibile: un vero e proprio museo, inaugurato nell’aprile del 2012,
poco dopo la pubblicazione del libro. Dopo essere stato ideato e
descritto all’interno del romanzo, quale conclusione della storia
narrata, il Museo dell’innocenza (in cui sono raccolti gli oggetti
co-protagonisti del libro) è diventato dunque un luogo reale,
ubicato nel cuore di Istanbul, in Çukurcuma Caddesi, speculare
in tutto e per tutto a quello descritto nel romanzo. Tale spazio
espositivo, simile per caratteristiche, orario d’apertura e prezzo
dei biglietti2 a una qualunque altra casa-museo esistente al
mondo, si è anche dotato di un catalogo della collezione (Pamuk
2012), tradotto persino in italiano, anch’esso opera dello scrittore
turco, che in questo modo aggiunge un terzo livello narrativo da
affiancare al romanzo e allo stesso museo.
153
L’arte tra provocazione e ipertrofismo
È molto difficile far accettare un’evoluzione artistica così radicale come
la tua. Anche se credo che nelle arti figurative si è più avvantaggiati. In
letteratura, in musica è decisamente impossibile cambiare direzione, si ha
la sicurezza di farsi linciare.
(Houellebecq 2010: 154)
Quella della Biennale era una società perfettamente gerarchica. Alla base c’era
il pubblico che, in quella fase, non aveva accesso a un bel niente e che, almeno
in quei pochi giorni, brillava per la sua assenza. Al vertice c’erano gli artisti e i
curatori venuti dalle grandi istituzioni e dalle famose gallerie commerciali, seguiti
nell’ordine da collezionisti, giornalisti e critici, e da un esercito di imbucati.
(Dyer 2009: 61)
Tra party, prezzi folli e gigantismo
Come abbiamo accennato precedentemente, molte delle
incursioni di romanzi e film nell’arte recente tendono a
evidenziare gli aspetti più provocatori e ipertrofici che le
opere (e il sistema che le sostiene) hanno esibito a partire
dalle avanguardie storiche. Vari sono i motivi che potrebbero
giustificare tale scelta, il più evidente dei quali credo sia
riconducibile alla facilità con cui si crea un terreno comune
con il lettore che può condividere con lo scrittore lo stupore
che tali lavori suscitano assieme a un senso di distacco, e a
un certo scetticismo. Tramite le descrizioni di opere bizzarre e
provocatorie, peraltro dai formati particolarmente grandi, ora
vengono, dunque, esaminati gli aspetti dei fenomeni artistici che,
a uno sguardo esterno, appaiono privi di logica. Se osservata
sotto questa luce, l’arte si pone quale efficace metafora di una
realtà in cui gli elementi mediatici ed estetici hanno assunto un
ruolo estremamente importante e i valori di riferimento hanno
subito un brusco quanto, almeno all’apparenza, incomprensibile
cambiamento. Inoltre viene stigmatizzato l’eccessivo valore
economico raggiunto in talune occasioni dai lavori degli artisti
più conosciuti su cui pesa l’“aggravante” di essere realizzati
175
Bibliografia
Romanzi
Nota bibliograica. L’anno che
accompagna i rinvii bibliograici
secondo il sistema autore-data è quello
dell’edizione in lingua originale, mentre i
rimandi ai numeri di pagina si riferiscono
sempre alla traduzione italiana.
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