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L’INNO OMERICO A DIONISO
NELLA TRADUZIONE DI PAVESE
Eleonora Cavallini *
Pubblicati da Einaudi nel 1947, i Dialoghi con Leucò ricevettero un’accoglienza a dir poco deludente sia nell’ambiente letterario, più incline verso tematiche di tipo ‘neorealista’ e dunque
incentrate sulla vita quotidiana di contadini e operai, sia da parte dei classicisti, ai quali il libretto di Pavese doveva apparire
un’opera quasi dilettantistica, non sorretta da adeguata institutio
accademica, e per giunta molto lontana dall’impostazione neoumanistica predominante in Italia ancora nel dopoguerra1. Nell’ambito degli studiosi di antichistica, il primo a interessarsi al
libro di Pavese fu Mario Untersteiner, che avviò con lo scrittore
un carteggio destinato a importanti sviluppi, e recensì molto favorevolmente i Dialoghi con Leucò ne L’educazione politica I 11-12
(1947) 344-346. L’interessamento dimostrato da Untersteiner,
di cui Pavese aveva già letto La fisiologia del mito (Milano 1946),
stimolò lo scrittore ad approfondire la sua conoscenza dei classici greci e soprattutto lo studio della lingua greca, come si evince
da una lettera di Pavese a Untersteiner del 20 novembre 19472:
Caro Professore,
la notizia che mi ha letto con simpatia e con gusto mi dà molta gioia.
Il mio libro è nato da un interesse per il problema del mito e delle co* Università di Bologna, sede di Ravenna.
1 Sull’argomento, cfr. Cavallini, Cesare Pavese e la ricerca di Omero perduto. Dai Dialoghi con Leucò alla traduzione dell’ Iliade, in Eleonora Cavallini (a cura di), Omero mediatico. Aspetti della ricezione omerica nella civiltà contemporanea, nuova edizione aggiornata, Bologna (Dupress) 2010, 97-132. Di notevole interesse la prefazione dello stesso scrittore
alla prima edizione dei Dialoghi: «Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un
testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi,
ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore
autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che
a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di
quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge.
Ha smesso per un momento di credere che i suoi totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti
della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili
bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi».
2 In Lettere 1925-1950, Torino (Einaudi) 1968, 564.
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Eleonora Cavallini
se etnologiche che m’ha indotto e mi induce a molte strane letture –
ma poche mi hanno dato la soddisfazione e lo stimolo della sua Fisiologia. Pensi che le Sue pagine hanno anche avuto questo effetto, che
ho ripreso grammatiche e dizionari (dopo una giovinezza tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericana e anglosassone) di molti anni fa3, quando posso, rosicchiandomi Omero, col solo rimpianto
di non poter procedere scioltamente come vorrei. È un lingua terribile – divina e terribile, come la Terra secondo Endimione. Inutile
dirLe che ogni Suo appunto e apprezzamento mi sarà carissimo. Anche se non stampato.
Con cordiale amicizia,
Cesare Pavese
La lettera citata basterebbe di per sé a smentire il pregiudizio, ancor oggi presente fra i classicisti, secondo cui l’interesse
di Cesare Pavese per il mondo greco e per il mito sarebbe stato
esclusivamente di carattere etnologico4. Sarebbe tuttavia importante determinare quale punto di padronanza del greco sia stato raggiunto dallo scrittore nel suo recupero della lingua «divina e terribile», da lui accantonata per molti anni, anche al fine
di verificare quanto, e in che termini, l’assidua supervisione di
Pavese abbia influito sulla traduzione einaudiana dell’Iliade, da
lui stesso affidata a Rosa Calzecchi Onesti dietro suggerimento
di Untersteiner 5.
Molto importanti, in questo senso, sono le quattro prove di
traduzione dalla Teogonia di Esiodo e da tre Inni Omerici (V e VI
[ad Afrodite], e VII [a Dioniso]), rinvenute fra i manoscritti
3 Pavese si era già esercitato nella traduzione di classici greci durante il confino a
Brancaleone Calabro, nel 1935: ne restano quattro quaderni, conservati nel fondo di
Maria Sini Pavese (Fondo Sini), contenenti esercizi per la ripresa dello studio del greco
nonché qualche prova di traduzione più impegnativa. Si veda in proposito Attilio Dughera, Tra gli inediti di Pavese: le traduzioni dai classici greci, «Studi Piemontesi» 9 (1980)
31-45.
4 Cfr. ad esempio Luigi Spina, «BMCR» 2008.01.30, (http://bmcr.brynmawr.edu/
2008/2008-01-30.html ) «he (Pavese) was interested in myth as viewed from an ethnological perspective».
5 Come è noto, Untersteiner declinò personalmente l’invito di Pavese a realizzare
una nuova versione dell’Iliade, «quasi letterale, a verso a verso, andando a capo quando
il verso è finito» (lettera a Untersteiner del 12 gennaio 1948), ma gli suggerì una sua ex
allieva del liceo Berchet di Milano, Rosa Calzecchi Onesti, destinata a compiere l’opera
nel 1950. Come ho sostenuto in un precedente lavoro (cit. a n. 1, 103 s.), alcune peculiari soluzioni interpretative presenti nella traduzione della Calzecchi Onesti rispecchiano inequivocabilmente il dettato poetico pavesiano, con particolare riferimento a Lavorare stanca.
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
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dello scrittore6 e pubblicate nel 1981 da Attilio Dughera7. Che
Pavese si sia cimentato nella versione di un’opera impegnativa,
ardua, perfino scostante come la Teogonia, induce a credere che
per lo scrittore non si trattasse di semplici esercizi scolastici: è
anzi più probabile che Pavese avesse intenzione di dare alle
stampe queste opere dopo averle accuratamente rivedute e corrette. Che lo scrittore fosse attratto proprio dalla Teogonia esiodea e dagli Inni Omerici si spiega considerando il suo interesse
per la storia del mito greco nelle sue forme più arcaiche e, in
generale, per la storia delle religioni.
Nello stato in cui si trova, il lavoro procede con una certa fatica, ma anche con minuziosa attenzione per i singoli dettagli
(incluse le particelle). I criteri sono gli stessi enunciati nella lettera a Untersteiner del 12 gennaio 1948 (cit. a n. 5), e successivamente ribaditi nella prefazione all’edizione einaudiana dell’Iliade (1950): «traduzione oggettiva, filologica, interlineare se
fosse possibile». Fra gli ostacoli più significativi incontrati dall’autore, le ambiguità provocate dalla mancanza dei casi nella
lingua italiana: ad evitare confusioni, Pavese segnala con sottolineature le singole concordanze. Nel complesso, il lavoro presenta, oltre al fascino intrinseco di un particolarissimo dettato
poetico, anche il fascino non trascurabile del ‘non finito’. Considerando gli ammirevoli sforzi compiuti dallo scrittore per addentrarsi negli insidiosi meandri della lingua greca, comprensibile è che egli talora incorra in sviste banali, che comunque in
genere non compromettono gravemente la comprensione del
testo originale.
In questa sede, prenderò in esame la traduzione pavesiana
dell’Inno Omerico VII (a Dioniso)8. Il manoscritto non è datato,
6 Il manoscritto con la traduzione dei tre Inni Omerici è conservato, assieme a quello della Teogonia esiodea, nel Fondo Sini 22 (cfr. n. 3).
7 Attilio Dughera (a cura di), La Teogonia di Esiodo e tre Inni Omerici nella traduzione di Cesare Pavese, Torino (Einaudi) 1981, pp. 88-91, 95-107 (d’ora in avanti cit. come
Dughera).
8 Come per tutti gli Inni Omerici, anche per l’Inno a Dioniso risulta estremamente
difficile sia stabilire la cronologia sia identificare contesto e occasione. Otto Crusius, Der
homerische Dionysoshymnus und die Legende von der Verwandlung der Tyrsener, «Philologus»
48 (1889) 193-228, collocava il componimento in ambiente attico nella metà del VI secolo, facendo riferimento a feste dionisiache che alcune tarde fonti connettono con il
santuario di Brauron, e ai rituali in cui si commemorava il rapimento di fanciulle brauronie da parte di pirati Pelasgi o Tirreni. Diversamente, Albert Gemoll, Die Homerischen
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ma nella Nota al testo il curatore informa che nella biblioteca di
Pavese, presso il Fondo Einaudi, si trova il testo originale utilizzato per la traduzione, «come si può dedurre dalla corrispondenza delle molte annotazioni a margine e interlineari»9: si tratta della ristampa (1946) di Thomas W. Allen, Homeri Opera, V,
Hymnos Cyclum Fragmenta Margiten Batrachomyomachian Vitas continens, Oxford 1912. Da una nota autografa sulla prima pagina,
risulta che il libro fu acquistato il 4 gennaio 1949, e questo rappresenta un sicuro terminus post quem per la datazione: era il periodo in cui Pavese seguiva assiduamente il lavoro di traduzione
dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti. Dall’accurato resoconto di
Dughera non risulta che lo scrittore fosse in possesso dell’edizione Loeb, con versione inglese, di Hugh G. Evelyn-White, Hesiod, the Homeric Hymns and Homerica, Cambridge (Mass.)-London 1914: del resto, da un confronto fra la traduzione di
Evelyn-White e quella di Pavese non emerge nessun elemento
tale da far ritenere che lo scrittore abbia letto, o comunque tenuto in considerazione, la versione dell’archeologo britannico10. Nelle prossime pagine, tuttavia, farò riferimento alla traduzione di quest’ultimo (d’ora in avanti cit. come Evelyn-White),
nonché a versioni più recenti, soprattutto italiane, come quelle
di Filippo Cassola, Inni Omerici, Milano (Fondazione Valla Mondadori) 1975 (cit. come Cassola), Giuseppe Zanetto, Inni Omerici, Milano (BUR)1996 (cit. Zanetto) e Marisa De’ Spagnolis, Il
mito omerico di Dionysos e i pirati tirreni in un documento da Nuceria
Alfaterna, Roma (L’Erma di Bretschneider) 2004 41s. (cit. De’
Spagnolis); terrò inoltre conto della più recente, elegante versione inglese di Martin L. West, Homeric Hymns, Homeric ApoHymnen, Leipzig 1886, 315 ss., pensava a una origine ellenistica, soprattutto a causa di
alcuni fenomeni linguistici che tuttavia non appaiono decisivi, come puntualizza Filippo
Cassola, Inni omerici, Milano (Fondazione Valla Mondadori) 1975, 287 s. Ulteriori, interessanti suggerimenti per l’interpretazione dell’Inno e per l’identificazione di un contesto di riferimento in Cecilia Nobili, L’ Inno Omerico a Dioniso (Hom Hymn. VII) e Corinto, «Acme. Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano», 62/3 (2009) 3-35.
19 Così Dughera 99.
10 Noto anche per le sue traduzioni di Ausonio, e per le ricerche archeologiche
compiute in Egitto, soprattutto in siti di epoca copta, Evelyn-White si tolse la vita nel
1924, all’età di cinquant’anni. La tragica fine dello studioso, che aveva marginalmente
partecipato alla spedizione che condusse alla scoperta della tomba di Tutankhamon,
venne da alcuni collegata con la diffusa leggenda della «maledizione del Faraone».
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
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cripha, Lives of Homer, Cambridge (Mass.)-London 200311. Il confronto può infatti rivelarsi utile sia allo scopo di verificare se e
fino a che punto le versioni di Pavese siano state prese in considerazione dai traduttori successivi12, sia al fine di valutare la precisione e l’adeguatezza delle scelte interpretative pavesiane rispetto a quelle di studiosi provvisti di indiscutibile competenza
nel campo del greco classico. Sarebbe inoltre importante sapere
di quali dizionari e lessici si sia avvalso Pavese nel corso del suo
lavoro: in ogni caso, non si può a mio avviso prescindere da un
confronto con Henry G. Liddell-Robert Scott-Henry S. Jones, A
Greek-English Lexicon, Oxford 1940 (nona edizione: d’ora in poi
citato come LSJ). Per comodità di lettura, non riporterò per
esteso l’intera traduzione pavesiana dell’Inno a Dioniso, ma citerò volta per volta singole parti di essa, facendole seguire dal
relativo commento13.
1-8 Di Dioniso di Semele illustre figliolo
(mi) ricordo, come apparve lungo il lido del mare infruttuoso
sulla costa sporgente a giovane uomo simile
pubere: belle si agitavano le chiome
scure, un manto intorno alle robuste aveva spalle
porpureo: presto gli uomini dalla nave buonibanchi
predoni avanzarono rapidamente sul livido flutto
Tirreni: essi spinse mala sorte.
v. 2 (mi) ricordo: si tratta in realtà di un futuro, convenzionale
negli Inni Omerici («mi ricorderò, canterò»: Hymn. Dem. 495,
etc.). Mare infruttuoso: per lo più l’epiteto ajtruvgeto~ viene reso
con «infecondo» (Zanetto 183; cfr. anche Calzecchi Onesti a
Iliade I 316, etc.), in quanto connesso con il verbo trugavw, «raccogliere frutti» (cfr. LSJ 273, che rinvia a Schol. Hom. Od. II
370). Se si accoglie questa etimologia, l’aggettivo «infruttuoso»
scelto da Pavese appare più preciso: il mare infatti non può essere coltivato, ma non per questo può dirsi «infecondo», dato
che accoglie molte specie vegetali e animali. Secondo Erodiano
L’opera di West sostituisce, nella collana di classici Loeb, quella di Evelyn-White.
Cassola verosimilmente non potè consultare i manoscritti pavesiani, ancora inediti all’epoca in cui l’illustre grecista pubblicò i suoi Inni Omerici (1975).
13 Le seguenti note riguardano esclusivamente la traduzione di Pavese e le sue peculiarità. Sull’Inno in generale, e sul mito di Dioniso rapito dai pirati tirreni, rinvio ai testi citati a n. 8.
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(2,284 Lentz) il vocabolo sarebbe invece equivalente di a[truto~
= «instancabile» («irrequieto» traduce Giovanni Cerri, Omero.
Iliade, trad. di G.C., commento di Antonietta Gostoli, con un
saggio di Wolfgang Schadewaldt, Milano [Rizzoli] 1996, 141, a
Iliade I 316). Si tratta in realtà di uno dei tanti epiteti esornanti
propri della dizione formulare epica, fissati da una lunga tradizione per la loro adattabilità al metro, a prescindere dal significato che molto spesso è oscuro o comunque incerto.
vv. 3-4 giovane uomo… pubere: la scelta dell’aggettivo «pubere» è coerente con l’intento di Pavese di tradurre nel modo più
letterale possibile («giovinetto, appena pubere» è la versione di
De’ Spagnolis 41). La forzatura che si avverte (fanciullo o giovane uomo?) non dipende dal traduttore ma dall’originale: infatti
l’aggettivo prwqhvbh~, presente già in Iliade VIII 518 con riferimento ai fanciulli troiani ancora troppo giovani per combattere, designa un giovinetto «nella prima adolescenza» (così Cassola 29), ma le «robuste spalle» (v. 5 stibaroi`~ … w[moi~) sono
quelle di un uomo (v. 3 nehnivhÛ ajndriv: cfr. Zanetto 183 «un giovane / nel fiore dell’età», West 185 «a youth in first manhood»). Nondimeno, l’epiteto prwqhvbh~ è anche in Hymn.
Apoll. 450, dove il dio è descritto come un uomo vigoroso dalle
ampie spalle: ciò sembrerebbe implicare uno slittamento semantico di prwqhvbh~ rispetto a Omero.
v. 6 dalla nave buonibanchi: come in altri casi, Pavese rende
con un vocabolo unico un aggettivo composto, ejuvsselmo~ =
«well-benched or -decked» (LSJ 732), usato nell’epica in riferimento a navi. Qualunque sia il significato da attribuire a sevlma
(‘banco’ oppure ‘ponte’), l’epiteto non può che rimandare alla
‘solidità’ dell’imbarcazione (cfr. Cassola 562, che infatti, a p.
291, traduce «solida nave»). Molto simile alla traduzione pavesiana è quella della Calzecchi Onesti ad Iliade II 170 «la nave nera buoni scalmi» (p. 49); lo stesso passo iliadico verrà reso con
«alla nave nera dai solidi banchi» da Cerri, op. cit., 181.
v. 7 sul livido flutto: così Pavese traduce l’espressione formulare ejpi; oi[nopa povnton (cfr. Iliade XXIII 316 ejn oi[nopi povntwÛ,
etc.). Al tradizionale, cristallizzato epiteto oi\noy viene generalmente annessa una nozione cromatica: cfr. LSJ 1208 «wine-
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
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dark», e da ultimo Riccardo Di Donato, Dell’acqua colore del vino.
Il mare da Omero a Erodoto, in Stefano Amendola-Paola Volpe
(edd.), Il mare e il mito, Atti dell’incontro di studi, Li Galli 5 e 6
settembre 2009, Napoli (D’Auria) 2010, 23-37, il quale rileva
che oi\noy «indica un colore scuro, violetto che il mare può assumere in determinate circostanze. È il colore del fondo della
coppa, o forse, più realisticamente, della ciotola» (p. 32). «Violaceo» traduce anche Zanetto 183, che tuttavia, a pagina 119
(con riferimento a Hymn. Apoll. 391) rende lo stesso epiteto con
«bluastro», mentre Cassola 139 e 293 traduce coerentemente
«cupo», annotando (p. 562) che «il colore naturale del vino
greco è il nero (Od. V 265) e occorre annacquarlo abbondantemente perché diventi rosso (IX 208-11)»14. Secondo altri, il mare sarebbe paragonato al vino in quanto ‘lucente’ («sparkling»
Evelyn-White) ovvero ‘spumeggiante’ (E.B. Howell, «Greece
and Rome» 2, 1955, 86). È probabile che in tutte queste interpretazioni ci sia una parte di verità; ritengo tuttavia che associare oi\noy esclusivamente a un’idea di ‘colore’ sia riduttivo, tanto
più se si considera che il senso cromatico di Omero riguardo al
mare è piuttosto incerto15: del resto, etimologicamente il vocabolo non significa propriamente «colore del vino», bensì «di
aspetto simile al vino» (cfr. l’ineccepibile versione di West, «wine-faced sea»). Come è stato sottolineato da Bruno D’Agostino
e Luca Cerchiai16, l’associazione mare/vino implica anzitutto
un’idea di ‘alterità’: per ogni civiltà contadina (come anche i
Greci alle origini)17, il mare ‘infruttuoso’ (ajtruvgeto~: cfr. supra,
v. 2) rappresenta l’‘altro’, l’estraneo, in contrapposizione alla
terra ‘fertile’ (poulobovteira: cfr. Iliade III 89, etc.); rappresenta
Cfr. anche De’ Spagnolis 42 «mare fosco».
In Omero il mare può anche essere ‘nero’ (Iliade XXIV 79) oppure poliov~, ‘canuto, grigio’ come le chiome di una persona anziana (Iliade IV 248, etc.). Sulla difficoltà
di tradurre i termini greci e romani indicanti ‘colore’, cfr. Umberto Eco, Dire quasi la
stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano (Bompiani) 2010 (II ed.), 353-363.
16 Cfr. Luca Cerchiai, Le Sirene, il Tuffatore e le porte di Ade, in B. D’Agostino-L.Cerchiai, Il mare, la morte, l’amore. Gli Etruschi, i Greci e l’immagine, Roma (Donzelli) 1999, 5360; Bruno D’Agostino, Oinops pontos. Il mare come alterità nella percezione arcaica, ibid. 1999,
81-87. Sulle analogie tra mare e vino, e sull’importanza del mare nella sfera dionisiaca,
ritorna Jean-Marie Pailler, Una mer vraiment dionisiaque, in Kainà pragmata. Mélanges ouffert à Jean Claude Carrière, Toulouse 2009, 191-200, cui tuttavia non appaiono convincenti
le argomentazioni dei due studiosi italiani sul tema dell’‘alterità’ (p. 195).
17 Di ciò era ben consapevole lo stesso Pavese (cfr. Dialoghi con Leucò 122).
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inoltre l’ignoto, pieno di pericoli per gli audaci che vi si avventurano in cerca di ricchezza (sui rischi della navigazione, cfr.
Esiodo, Opere e giorni 618-694). Analogamente, il dono di Dioniso può condurre a un’esperienza ‘dosata’ dell’alterità, a quel
temporaneo «uscire da sé» che è l’e[kstasi~, ma può anche portare alla follia e alla perdizione chi lo consumi in eccesso o non
miscelato (come Polifemo nell’Odissea)18. Nell’affrontare il mistero è sempre presente una minaccia. La traduzione di Pavese
«livido flutto» rende meglio di altre l’idea di un mare infido e
imprevedibile: è probabile che lo scrittore avesse nella memoria
Eugenio Montale, Corno inglese (da Ossi di Seppia), vv. 10 s.: «e il
mare che scaglia a scaglia, / livido, muta colore». La traduzione
«livido mare» è adottata anche da Rosa Calzecchi Onesti per
Iliade XXIII 316: che l’idea sia di Pavese, piuttosto che della traduttrice, si deduce dal fatto che nell’edizione dell’Odissea (Torino, Einaudi, 1962, 13), la Calzecchi Onesti cambierà la versione
di ejpi; oi[nopa povnton (I 183), da «sul livido mare» in «sul mare
schiumoso»19. Per quanto riguarda la scelta del termine ‘flutto’,
è probabile che essa sia dovuta all’esigenza di differenziare i numerosi vocaboli con cui la lingua greca designa il ‘mare’: in questo caso povnto~, al v. 52 a{l~, altrove pevlago~ ovvero qavlassa 20.
v. 8 essi: di solito Pavese sottolinea le concordanze fra nomi
e aggettivi, quando siano tali da generare ambiguità. In questo
caso il motivo della sottolineatura non è chiaro, non essendovi
dubbio sul fatto che l’acc. pl. tou;~ sia riferito ai pirati Tirreni.
vv. 8-24
vedendo
accennarono l’un l’altro, presto balzaronfuori, subito prendendo
andarono nella loro nave, godendo in cuore.
Figlio infatti lui apparve di divini re
essere, e di lacci vollero legarlo molesti.
Lui non tennero i legami: i vimini lontano caddero
dalle mani e dai piedi: egli sorridendo sedette
con gli occhi scuri, e il pilota conoscendolo
18 Sul carattere ambivalente del vino, cfr. anche Iliade VI 265 «che non mi privi il
corpo di forza, e il vigore io dimentichi» (trad. Calzecchi Onesti 211).
19 Altrove, tuttavia, la traduttrice mantiene «livido mare» (p. 135, a Od. V 132). La
sostituzione con «schiumoso» si deve forse alla lettura del contributo di Howell (cfr. supra). «Spumoso» traduce ancora Cerri, op. cit. 1171.
20 Sui «molti nomi» del mare in greco, cfr. Di Donato, op. cit. 28-31.
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
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subito ai suoi compagni gridò e parlò:
«Disgraziati, quale siffatto dio legate, avendo preso,
fortissimo? Né portarlo può la nave benfatta.
O infatti Zeus è questo o l’arcargenteo Apollo,
o Poseidone: poiché non ai mortali uomini
simile, ma agli dèi che hanno le sedi olimpie.
Ma su, lui rimandiamo sulla nera terraferma
subito, né le mani sopramettetegli, affinché non, irato,
svegli molesti venti e turbine molto».
vv. 10 s. andarono: ei|san in realtà è III persona plurale dell’indicativo aoristo attivo di i{hmi e significa «fecero salire». La
confusione con la III persona pl. dell’impf. di ei\mi = «andare» è
piuttosto comune. Similmente, al v. 11 il greco e[fanto viene
scambiato per una forma passiva del verbo faivnw, «mostro»
(medio-passivo «appaio»), mentre si tratta della III persona plurale dell’impf. medio di fhmiv, «dire», ma anche «pensare, credere». Il senso del passo è dunque «infatti credevano che egli
fosse figlio di divini re».
v. 13 i vimini: sono usati già in Odissea IX 425-429 da Odisseo per legare i montoni di Polifemo tre a tre e collocare sotto
di essi i compagni, per portarli in salvo.
v. 15 conoscendolo: Cassola 291 traduce «comprendendo»; Zanetto 183 «il timoniere capì»; De’ Spagnolis 42 «accortosene».
Nel nostro passo, tuttavia, il verbo noevw si riferisce a quel particolare momento dell’esperienza del divino che consiste nel
(ri)conoscimento di un dio da parte di un mortale. Una condizione privilegiata, che la divinità non concede a tutti: infatti solamente il timoniere si rende conto di trovarsi di fronte a un nume, sebbene tutti, sulla nave, abbiano avuto modo di vedere i legami di Dioniso sciogliersi senza alcuno sforzo da parte del dio
(cfr. Eur. Bacch. 447 s.). Come già ho sottolineato in altre sede,
nell’epica greca arcaica la riconoscibilità degli dèi non è meccanicamente legata ai dati sensoriali, ma è piuttosto frutto di un
meccanismo cognitivo, reso appieno dal verbo noevw. Si tratta peraltro di un’intuizione non a tutti concessa: gli dèi infatti, quando vogliono, sanno anche rendersi irriconoscibili (emblematico
il caso di Iliade 22, 297ss.)21.
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Op. cit. (a n. 1) 104 e n. 18.
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v. 17 disgraziati: daimovnio~ è vox media, in quanto designa «ciò
che nelle sue azioni lascia scorgere l’efficacia di un essere divino… così in senso amichevole e di lode, come in senso ostile e
di biasimo»22. Nonostante le sottili argomentazioni di Elisabeth
Brunius-Nilsson, DAIMONIE, Diss. Uppsala 1955, secondo la quale il vocabolo indicherebbe soprattutto l’intensità affettiva, o il
desiderio di convincere usando un tono drammatico, appare difficile condividere, per l’epiteto daimovnioi con cui il timoniere
apostrofa gli stolti compagni di viaggio, traduzioni troppo inclini
alla captatio benevolentiae, come «amici»23, o simili. Eccessivamente
spregiativa appare, d’altra parte, la traduzione «madmen» (Evelyn-White, West). In realtà, nel nostro passo l’aggettivo daimovnioi
riprende e conferma quanto anticipato al v. 8 tou;~ d∆h\ge kako;~
movro~ («essi spinse mala sorte»): il timoniere, unico dell’equipaggio ad avere il privilegio di riconoscere il dio (v. 15 nohvsa~),
non potrà che sottolineare il grave pericolo che i compagni stanno correndo a causa della loro cieca avidità. La traduzione pavesiana «disgraziati», nel senso letterale di «persone che hanno sorte avversa»24 risulta dunque pienamente adeguata al contesto.
Poco oltre, al v. 26, l’arrogante ajrcov~ della nave si rivolgerà al timoniere con lo stesso epiteto, daimovnie, questa volta usato in senso più marcatamente spregiativo, ma comunque compatibile con
la traduzione «disgraziato» di Pavese, che in tal modo evita di
usare due termini diversi per rendere lo stesso vocabolo greco25.
22 Così F. Schenkl, in F.S.-F. Brunetti, Dizionario Greco-italiano/italiano-greco, La Spezia 1990, 177. L’opera è una rielaborazione, curata da D. Meldi, di due testi classici, F.
Schenkl, Vocabolario greco-italiano, Torino 1877 (3 ed.) e F. Brunetti, Dizionario manuale
italiano-greco, Torino 1881 (3 ed.). Meno convincente l’interpretazione di LSJ 365, secondo cui in Omero il termine vale «good sir, or lady, addressed to chiefs and commoners… used by husbands and wives, Il. 6.407.486 (Hector and Andromache), 24.194
(Priam to Hecuba)», con accentuazione della valenza ‘positiva’. In realtà, in tutti i passi
citati da LSJ (inclusi Od. XXIII 166 e 174, dove lo scambio di epiteti è fra Odisseo e Penelope, e non, come si legge in LSJ, fra «strangers»), vi è sempre un riferimento a una
‘cattiva sorte’ che ha colpito, o si accinge a colpire, l’interlocutore: da Ettore, destinato
a morire per mano di Achille, a Ecuba, appena privata del figlio, a Odisseo e Penelope,
ancora turbati dalle molte sventure che li inducono, fino all’ultimo, ad essere reciprocamente diffidenti.
23 Così Cassola 291.
24 Cfr. Giacomo Devoto-Gian Carlo Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze
1971, 721.
25 Diversamente, al v. 26 Cassola traduce daimovnie con «sciagurato», sostenendo
che «la risposta del capo (v. 26) ha invece un tono nettamente dispregiativo, e daimovnie
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
55
v. 22 sulla nera terraferma: «terraferma» traduce con precisione il greco h[peiro~. «Sulla terra nera», preferito dalla maggior
parte dei traduttori (Cassola, Zanetto, De’ Spagnolis) corrisponde piuttosto al formulare gai`a mevlaina (Iliade II 699, etc.).
vv. 25-42
Così disse: lui il capo con orrenda rimproverò parola:
«Disgraziato, vedi il vento, insieme la vela issa della nave
tutte le funi prendendo: ciò piuttosto agli uomini importerà.
Spero o in Egitto arrivare o a Cipro
o agli Iperborei o d’ambe le parti: alla fine
ci annuncerà i suoi cari e tutte le ricchezze
e i suoi fratelli, poiché un dio ce lo mandò».
Così detto, l’albero e la vela issò della nave.
Gonfiò il vento il mezzo della vela, intorno le funi
si stesero: subito a essi apparvero cose meravigliose.
Vino dapprima per la veloce nave nera
dolceabersi gorgogliò profumato, e sorse un odore
immortale: stupore prese i naviganti tutti che vedevano.
Subito lungo l’altissima vela si stese
una vite qua e là, e pendettero molti
grappoli: intorno all’albero si avvolse edera nera
di fiori germinante, e un amabile frutto ne sorse:
tutti gli scalmi ebbero corone.
v. 27 ciò: in realtà il pronome o{de è maschile e indica Dioniso. La frase, nell’insieme, significa «di costui si occuperanno gli
uomini».
vv. 28-31 Spero o in Egitto … mandò: nonostante alcune incertezze (ad esempio eJkastevrw non significa «d’ambe le parti» ma
«ancora più in là»), la traduzione di Pavese è di notevole preciè certamente usato in senso ironico» (p. 563). Ma il vocabolo è il medesimo, e renderlo
con due termini diversi, anzi quasi opposti, rischia di far perdere di vista il senso della
‘dizione formulare’ epica, in cui uno stesso epiteto (o segmento di testo) fissato dalla
tradizione può essere soggetto a slittamenti semantici anche importanti. Nel caso in oggetto, i vv. 26-28 dell’Inno a Dioniso costituiscono un adattamento di Iliade VI 486-493,
in cui Ettore, dopo avere apostrofato Andromaca con un affettuoso ma perentorio daimonivh, la esorta ad occuparsi di telaio e fuso e altre opere femminili, ricordandole che
povlemo~ d∆a[ndressi melhvsei, «della guerra si occuperanno gli uomini». Analogamente,
l’ajrcov~ ingiunge al timoniere di badare al vento e alle vele, in quanto o{de (Dioniso) d∆
au\t∆ a[ndressi melhvsei («di costui si occuperanno gli uomini», vale a dire gli altri marinai). Nella traduzione einaudiana dell’Iliade, la Calzecchi Onesti di solito rende daimovnio~ con un piu generico e polivalente «misero/a».
56
Eleonora Cavallini
sione, considerata l’intrinseca difficoltà dell’originale, che ha
creato problemi ai commentatori a causa di oscurità concettuali
e forzature linguistiche e sintattiche. Il senso delle parole del
comandante è: «dovessimo arrivare in capo al mondo, alfine costui si deciderà a rivelarci chi sono i suoi familiari, affinché noi
possiamo riscuotere il riscatto». Ma la frase è formulata diversamente: «spero che costui arriverà (s’intende «assieme a noi»,
ma il testo non lo specifica) fino in Egitto etc.»26. Una versione
come «credo proprio che ce lo porteremo in Egitto etc.» (Zanetto) rende l’idea ma si discosta non poco dalla lettera del testo; una certa approssimazione si avverte anche in «I reckon he
is bound for Egypt or for Cyprus or to the Hyperboreans or
further still» (Evelyn-White).
v. 30 ci annuncerà i suoi cari: Problematico l’uso transitivo del
futuro ejxerw`, «dirò, proclamerò» (su cui cfr. Cassola 563 s.): forse la traduzione più soddisfacente è «ci dirà di etc.» (De’ Spagnolis). Quanto a fivloi, il vocabolo può indicare gli «amici» ma
anche, più genericamente, «kith and kin» (LSJ 1939). Poiché si
può supporre che ai pirati non interessi conoscere le compagnie frequentate dal giovane sconosciuto, bensì piuttosto avere
notizie della sua famiglia, la versione di Pavese risulta più appropriata di altre. Del resto, soprattutto in età arcaica, l’‘amico’ è
piuttosto designato con il termine eJtai`ro~.
v. 33 gonfiò … vela: sulla scorta del Gemoll (Homerische Hymnen, Leipzig 1886, 64 ss.), Cassola 564 osserva che la costruzione
del verbo ejmpnevw, «soffiare», con «vela» all’accusativo è priva di
riscontri certi27. Ma inaccuratezze di questo tipo non sono infrequenti negli Inni Omerici 28, e la convincente (anche se, questa
volta, non letterale) traduzione di Pavese rende un ottimo servizio all’antico rapsodo. Altre versioni più recenti come «gonfiò
il centro della vela» (Zanetto 185), o «il vento gonfiò la vela nel
mezzo» (De’ Spagnolis 42) richiamano molto da vicino quella
26 Gli Iperborei sono un mitico popolo che si riteneva vivesse ai confini settentrionali della Terra. Secondo il Ciclope euripideo, 11 s., la dea Hera aveva aizzato contro
Dioniso i pirati tirreni affinché lo portassero «molto lontano» (makravn).
27 La seconda Istmica di Pindaro (v. 40), citata da alcuni commentatori, va con
ogni probabilità interpretata diversamente: cfr. Cassola 564.
28 Cfr. E. Cavallini, [Hom.] Hymn. X (Ven.), 13-14 (1978-79) 29-34.
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
57
pavesiana. La nozione primaria di ejmpnevw, «soffiare in», è mantenuta da Cassola 293 «il vento soffiò in piena vela» e da West
187 «the wind blew full into the sail».
vv. 33-4 le funi si stesero: quando il vento gonfia la vela, le
scotte non vengono stese, bensì «tirate» dagli esperti marinai
(cfr. LSJ 1756). In questo caso, la traduzione più precisa è quella di Evelyn-White, «the wind filled the sail and the crew hauled
taut the sheets on either side».
vv. 34-42 subito a essi … corone: L’affascinante descrizione dei
prodigi di Dioniso viene resa da Pavese con maggiore scioltezza
rispetto ai versi precedenti: in particolare, lo scrittore rinuncia,
almeno in alcuni punti, al proposito iniziale di collocare ogni
singola parola della traduzione italiana nella stessa posizione
dell’originale.
v. 40 edera nera: la versione di Evelyn-White è «and a dark ivyplant twined about the mast, blossoming with flowers, and with
rich berries growing on it» (cfr. West «dark ivy»). Anche i traduttori italiani (Cassola, Zanetto) preferiscono rendere mevla~
kissov~ con «edera scura». Ancora una volta, tuttavia, mevla~ è un
epiteto esornante in cui è difficile riconoscere una precisa valenza cromatica. Forse, l’espressione mevla~ kissov~ deriva dal fatto che l’edera, al contrario della vite, vive nell’oscurità e a basse
temperature, fiorisce in autunno e fruttifica in inverno-primavera: vite ed edera, pertanto, si integrano reciprocamente e simboleggiano l’ambivalenza di Dioniso29. Pavese, avendo tradotto
al v. 22 hjpeivroio melaivnh~ con «nera terraferma», coerentemente usa l’aggettivo «nero» in tutti gli altri casi in cui ricorre il greco mevla~ (cfr. anche v. 35), mentre rende con «scuro» il greco
kuavneo~ (vv. 5 e 15)30.
vv. 42-59
29
30
quelli vedendo
la nave già allora poi al pilota ordinarono
accostarsi alla terra: quello ad essi leone divenne entro la nave
terribile in prora, forte ruggì, e nel mezzo
orsa fece villosocollo indizi mostrando:
fece sorgere bramosa, il leone in cima al ponte
Cfr. Walter F. Otto, Dioniso. Mito e culto, trad. it., Genova 1990, 143.
Kuavneo~ è propriamente il colore dello ‘smalto’, e cioè «dark-blue»(LSJ 1003).
58
Eleonora Cavallini
tremendo torvo guardante: quelli a poppa fuggirono,
intorno al pilota prudente cuore avente
stettero sbalorditi: quello improvviso slanciandosi
il capo prese, essi fuori la mala sorte evitando
tutti insieme balzarono, poché videro, nel mare divo,
delfini divennero: il pilota commiserando
trattenne e lui fece felicissimo e disse parola:
«Coraggio, divo nocchiero, al mio cuore carissimo,
sono io Dioniso tonante che fece la madre
Cadmeide Semele nell’amore di Zeus congiunta».
Salve figlio di Semele belviso: non lice in alcun modo
di te comporre di nascosto il dolce canto.
celato
vv. 44-48 quello ad essi leone … torvo guardante: i versi 45-48 sono espunti da Francis E. Sparshott, Homeric Hymn 7. 44-8, «Classical Review» n. s. 13 (1963) 1 s., che li considera opera di un interpolatore. In particolare, lo studioso pone l’accento sul costrutto involuto del v. 47, in cui il verbo ajnevsth («sorse, si levò») fa da
soggetto sia dell’«orsa», fantasma evocato da Dioniso, sia del
«leone» che invece è una metamorfosi del dio stesso. Già comunque nell’edizione di Allen vengono espresse perplessità sulla
durezza stilistica della frase. Pavese affronta la questione introducendo un causativo «fece sorgere bramosa». L’autenticità del
passo è stata successivamente sostenuta da A.W. James, Dionysus
and the Tyrrhenian Pirates, «Antichthon» 9 (1975), 19, che considera le difficoltà sintattiche non decisive ai fini dell’espunzione.
v. 52 mare divo: l’espressione, che rende la formula epica eij~
a{la di`an, deriva dalla traduzione latina dell’umanista cinquecentesco Andreas Divus (Ilias ad verbum translata; Odyssea ad verbum translata, Andrea Divo Iustionopolitano Interprete, Parisii, In officina Christani Wecheli, 1538). Fra l’altro, Divus è intermediario di Ezra Pound nel suo adattamento in lingua inglese (Canto
I) di Odissea XI, come dichiara esplicitamente il poeta stesso a
conclusione del componimento; si confronti, in particolare,
l’incipit del Canto I di Pound
And then went down to the ship,
Set keel to breakers, forth on the godly sea, and
We set up mast and sail on that swart ship,
con i versi corrispondenti di Divus:
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
59
at postquam ad navem descendimus, et mare,
navem quidem primum deduximus in mare divum
et malum posuimus et velam in nave nigra.
Come rileva Hugh Kenner31, la scelta di divus sarebbe dovuta semplicemente ad assonanza con il greco di`o~ (e quindi costituirebbe una paretimologia), mentre «any modern crib, for instance, the Loeb, says “on the bright sea”»32. In effetti, l’epiteto
omerico di`o~ implica l’idea di ‘luminosità’, insita nell’originaria
radice indoeuropea *dei-/*di-: ma a questa stessa radice si ricollega anche il nome di Zeus, inteso come divinità celeste e solare. Tutto ciò che proviene da Zeus è dunque ‘divino’, ma anche
‘splendente’, ‘luminoso’, specie se in riferimento a forze della
natura come il mare o l’etere (cfr. Hjalmar Frisk, Griechisches
Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1954-1972, s.v. Zeus).
È molto probabile che Pavese si sia avvalso del termine «divo», dal sapore inaspettatamente ‘neoclassico’33, nell’intento di
rendere in modo univoco l’epiteto esornante di`o~, che nell’epica greca arcaica può qualificare dèi, uomini, popoli e cose (cfr.
LSJ 434 s.): più avanti infatti (v. 55), troviamo ancora di`o~ riferito al timoniere, per il quale un epiteto come ‘brillante’ sarebbe inappropriato34. Si potrebbe inoltre osservare che, in questo
caso, l’espressione ‘mare lucente’ rischierebbe di suonare contraddittoria rispetto al v. 7 (‘livido flutto’)35: tuttavia, la dizione
formulare epica non sempre tiene conto delle incongruenze
che gli epiteti esornanti, per lo più antichissimi e fissati da una
plurisecolare tradizione, possono causare (cfr. da ultimo Cavallini, Lo scudo di Enea, «Studi in onore di Antonio Carile», in corso di stampa).
31 Pound and Homer, in George Bornstein (ed. by), Ezra Pound among the Poets, Chicago (University Press) 1985, 6 ss.
32 «The bright sea» è anche la traduzione proposta da Evelyn-White per il nostro
passo. L’epiteto di`o~ non viene reso da West 189.
33 «Il divo Ulisse» era la versione di Vincenzo Monti, Iliade di Omero, Milano, Stamperia Reale, 1812, al v. 194 del I libro (secondo la numerazione del traduttore).
34 Ancora con «diva fra le dee» Pavese traduce l’espressione di`a qeavwn ai vv. 28 e
172 dell’Inno ad Afrodite (pp. 71 e 79 dell’ed. Dughera).
35 Nella traduzione inedita del XI libro dell’Odissea (di cui Pavese aveva letto, nel
1948, l’edizione commentata da Untersteiner per Sansoni, di cui si conserva nella biblioteca pavesiana una copia con dedica del curatore), lo scrittore addirittura rendeva
a{la di`an (v. 2) con un arduo, fortemente assonante, «sale divo» (cfr. Roberto Gigliucci,
«Liberazione», 22 marzo 2008).
60
Eleonora Cavallini
Probabilmente si deve all’influsso di Pavese la traduzione
della Calzecchi Onesti «nel mare divino» per eij~ a{la di`an di Iliade I 141, specie se si considera che poche righe dopo (al v. 145)
la stessa rende di`o~ ∆Odusseuv~ con «Odisseo luminoso». Ancora
«mare divino» traduce Giovanni Cerri, op. cit. 129, che presuppone un’accurata ricerca di carattere etimologico.
v. 55 divo nocchiero: anche in questo caso Pavese rende l’epiteto di`o~ con «divo», mostrandosi coerente con la scelta effettuata per il verso 52. La traduzione «nocchiero» è invece ipotetica, in quanto il testo greco presenta una corruttela (cfr. Cassola 564 s.).
v. 56 fece: la traduzione corrente è «generò» (Cassola 295,
Zanetto 185)36. Ma nell’epica arcaica l’aoristo tevke (da tivkto) è
riferito per lo più alla ‘madre’ (cfr. Iliade I 36 etc.), suggerendo
l’idea della materiale fisicità del parto. Il ricorso al colloquiale,
quasi ‘popolare’ fece riflette l’esigenza di concretezza caratteristica della dizione poetica pavesiana37, soprattutto in Lavorare
stanca. L’uso del verbo fare = generare, partorire trova perfetta corrispondenza nel dialogo La madre (dai Dialoghi con Leucò 71),
dove il dio Ermete, rivolgendosi a Meleagro che si interroga sul
comportamento distruttivo della madre Altea38, risponde «Chiedi perché vi han fatto, Meleagro».
Una soluzione analoga è proposta nella traduzione einaudiana dell’Iliade, al verso 280 del primo libro (p. 19), dove l’espressione formulare qea; dev se geivnato mhvthr viene reso con «una madre dea ti ha portato», che evidenzia la corporeità della gravidanza di Teti, antica dea-madre mediterranea. Che in questo e
altri punti la versione di Rosa Calzecchi Onesti presupponga un
diretto influsso di Pavese, è cosa che ho ipotizzato già in altra seLa traduzione di De’ Spagnolis si ferma al v. 53.
Sulla lingua di Pavese, cfr. Gian Luigi Beccaria, Il «volgare illustre» di Cesare Pavese,
in AA.VV., Il mestiere di scrivere. Cesare Pavese trent’anni dopo (Atti del Convegno), Santo
Stefano Belbo 1982, 63-74.
38 Secondo il mito, la vita di Meleagro dipendeva da un tizzone ardente, che la madre Altea conservava sotto braci accese per salvaguardare la vita del figlio. Quando Meleagro, in occasione della caccia al cinghiale Calidonio, uccise i fratelli della madre che
si opponevano alla vittoria di Atalanta, amata dall’eroe, Altea in preda all’ira gettò il tizzone nel fuoco e provocò la morte immediata del figlio (sulla vicenda, cfr. Pseudo-Apollodoro I 8, 1-3).
36
37
L’ Inno omerico a Dioniso nella traduzione di Pavese
61
de39. Per la traduzione dell’Iliade lo scrittore auspicava l’uso di un
registro stilistico sciolto, scevro da orpelli e artifici di tipo neoclassico, e che tuttavia non togliesse «al discorso omerico la sua
essenzialissima cadenza e corposità di respiro» (dalla Prefazione
all’edizione einaudiana dell’Iliade, 1950). Lo scrittore era profondamente colpito dalla limpida essenzialità della poesia omerica,
in cui le stesse espressioni formulari, tradizionali e stereotipe,
mantengono un indiscutibile fascino ben percepibile anche per
un moderno: di qui la ricerca di un dettato sospeso tra la verticalità obbligante della lingua poetica e le scorciatoie del linguaggio
colloquiale. Sempre nella Prefazione all’Iliade, Pavese scriveva:
Le poetiche versioni – anche le più recenti – in cui [Omero] viene presentato ai lettori ne fanno sostanzialmente un classico italiano
minore, con tutte le limitazioni e le spiacevolezze che questo fatto
comporta. È una scoperta quasi banale, ma la fanno tutti coloro che
preparano per un esame un canto dell’Iliade o dell’Odissea sul testo
greco: chi avrebbe detto che Omero è così oggettivo, così sciolto, così
immediatamente «parlato» e quasi somiglia più ai narratori neorealisti che non alle sue traduzioni correnti?
L’ultima frase citata si riferisce, probabilmente, non tanto
alla lingua di Omero quanto all’andamento fluido e prevalentemente paratattico dei versi omerici: se infatti la lingua di Iliade
e Odissea è semplice, perfino frugale (appena un migliaio di vocaboli), non si può affermare che sia vicina al ‘parlato’, trattandosi di una Kunstsprache artificiale, cristallizzata dal plurisecolare lavorio degli aedi e fortemente condizionata dal metro.
v. 59 di nascosto/celato: nel manoscritto le due traduzioni di
lhqovmenon sono presentate come possibili alternative. In realtà,
il greco lhqovmenon riprende (secondo il procedimento della
Ringkomposition) quanto già detto in incipit: «Di Dioniso mi ricorderò». Lhqovmenon vale infatti «dimenticando» e l’intera frase,
nell’insieme significa «non è possibile, dimenticandosi di te,
comporre dolce canto». La funzione degli Inni Omerici è infatti
quella di proemi ad agoni rapsodici, diffusi in tutto il mondo
greco, in cui ciascun cantore, prima di affrontare il tema prescelto per la performance epica, dedicava un canto propiziatorio
alla divinità di cui si celebrava la festa (cfr. Zanetto 15 ss.).
39
Cfr. Cavallini, op. cit. (a n. 1) 103 s.
62
Eleonora Cavallini
L’analisi, qui proposta, della traduzione pavesiana del VII
Inno Omerico, permette di trarre, almeno provvisoriamente, alcune conclusioni, che mi riprometto di approfondire in séguito,
attraverso un’ulteriore indagine sulle versioni di Pavese da testi
greci. Nel rendere in italiano l’Inno a Dioniso, Pavese si dimostra, ancora una volta, traduttore accurato ed esperto, nonostante alcuni errori linguistici dovuti alla limitata familiarità con
il greco. Egli segue rigorosamente alcuni criteri, coerenti con
l’impostazione generale del lavoro di traduzione omerica in cui
appare impegnato fin dai primi mesi del 1948: corrispondenza
precisa fra i versi dell’originale e i righi della versione italiana,
aderenza quanto più puntuale possibile alla lettera del testo, ricerca di un registro lessicale semplice ma non prosastico. Consapevole – forse più per sensibilità personale che per conoscenza dell’omeristica40 – della presenza di una ‘dizione formulare’,
strettamente legata al metro e consolidata da secoli di tradizione orale – Pavese ha cura di scegliere un unico vocabolo per
rendere uno stesso ‘epiteto esornante’, in modo da non falsare
la particolarissima cadenza dell’epica greca arcaica, in cui singoli termini o sintagmi ricorrono con frequenza in diversi contesti. D’altra parte, lo scrittore è attento a rendere con vocaboli
differenti alcuni sinonimi che, nella multiforme e versatile lingua greca, esprimono diverse sfumature di un concetto che in
italiano può essere ricondotto a un unico termine (es. «mare»).
La sua prova di traduzione contiene le asperità proprie di un lavoro incompiuto, ma si caratterizza anche per una densità poetica che la contraddistingue rispetto alle versioni correnti; inoltre, alcune peculiarità linguistiche parrebbero confermare la
presenza di diretti interventi dello scrittore nella versione dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti. Si tratta, in sostanza, di un lavoro non perfezionato ma significativo, che conferma come la
ricerca di Pavese sui testi greci meriti di essere più attentamente
considerata anche dagli studiosi di antichità classica.
40 Gli studi di Milman Parry sulla ‘dizione formulare’, ancorché intrapresi negli anni ’30 del secolo scorso, rimasero difficilmente accessibili fino al 1971, quando il figlio
dello studioso, Adam Parry, pubblicò The Making of Homeric Verse: the Collected Papers of
Milman Parry, ed. by A. Parry, Oxford 1971.