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Diritto internazionale

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Sordo, Martina Del. Diritto Internazionale.

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Sordo, M. D. Diritto internazionale.

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Sordo, Martina Del. “Diritto Internazionale,” n.d.

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Sordo MD. Diritto internazionale.

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Sordo, M. D. (no date) “Diritto internazionale.”
PARTE PRIMA La formazione delle norme internazionali Definizione di diritto internazionaleprecisazioni terminologiche Il diritto internazionale è l’ordinamento della comunità degli Stati. Esso scaturisce dalla cooperazione tra gli Stati, che si impegnano a rispettarlo con proprie norme di rango anche costituzionale. Le norme internazionali creano diritti e obblighi per gli Stati, secondo la volontà di ciascuno nelle forme previste dal diritto internazionale stesso. Esso non regola solo i rapporti interstatali ma tende sempre di più a disciplinare i rapporti che si svolgono all’interno della comunità statale . economici, commerciali o sociali. A questo scopo esso viene applicato dagli operatori giuridici interni : innanzitutto i giudici nazionali. Bisogna distinguere il diritto internazionale pubblico dal diritto internazionale provato. Quest’ultimo è costituito da quelle norme di diritto privato straniero che i giudici sono tenuti ad applicare, quando le norme dello Stato prevedono limitazioni al proprio diritto privato. Si tratta quindi, di norme che appartengono ad ordinamenti diversi ; il primo della comunità degli Stati, il secondo dello Stato interno. Il diritto internazionale pubblico tende a regolare anche rapporti interni e di diritto privato, ma solo perché lo Stato traduce in norme interne le norme internazionali stipulate che trattano tali rapporti. Quadro sintetico delle funzioni di produzione, accertamento ed attuazione coattiva del diritto internazionale. Le caratteristiche dell’ordinamento internazionale sono : Funzione normativa ; Funzione di accertamento del diritto ; Funzione di attuazione coattiva delle norme ( Esecuzione del diritto) La funzione normativa è il potere vincolante delle norme internazionale per gli Stati. Bisogna distinguere tra diritto internazionale generale ( norme indirizzate a tutti gli stati ) e diritto internazione particolare ( norme che vincolano solo una ristretta cerchia di Stati, che di solito hanno partecipato alla loro formazione ) . ad esempio, la Costituzione Italiano (art.10) afferma che l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. La Costituzione si riferisce alle norme consuetudinarie, formatesi nell’ambito della comunità internazionale nel tempo e attraverso l’uso continuo, di cui si può affermare l’esistenza, solo se si dimostra che sono rispettate dagli Stati per prassi costante. Questa è la consuetudine, fonte di primo grado del diritto internazionale che , tuttavia, ha dato sinora una scarsa quantità di norme. Tipiche norme di diritto internazionale particolare sono quelle derivanti da accordi, patti , convenzioni o trattati internazionali, che vincolano solo gli Stati contraenti. Esse sono molto numerose e costituiscono la parte più rilevante del diritto internazionale. Sono fonte di secondo grado, poiché l’accordo è subordinato alla consuetudine, così come nel diritto interno il contratto è subordinato alla legge. Fonte di terzo grado sono i procedimenti previsti da accordi che costituiscono norme di diritto internazionale particolare. Essi traggono la loro forza cogente dagli accordi internazionali, che li prevedono, e sono vincolanti solo per gli Stati aderenti agli accordi da cui promanano. Si tratta di atti delle organizzazioni internazionali, ossia delle unioni tra Stati , come l’ONU, la Comunità Europea, ecc. Queste organizzazioni non hanno potere vincolante nei confronti degli Stati membri e normalmente emettono delle raccomandazioni , ovvero delle mere esortazioni. Quando gli atti di queste organizzazioni sono vincolanti, invece, essi sono fonte gerarchicamente sottoposte agli accordi, perché prendono vita proprio dall’accordo ( trattato istitutivo). Lo Stato, quindi, è vincolato alla decisione, perché si è impegnato a riispettarla con l’adesione all’accordo costitutivo dell’organizzazione. La funzione di accertamento giudiziario del diritto internazionale è molto più labile rispetto al diritto interno., Essa ha carattere prevalentemente arbitrale. L’arbitrato, a differenza della giurisdizione, si poggia sull’accordo delle parti diretto a sottoporre le controversie ad un giudice congiuntamente predeterminato. L’attuazione coattiva delle norme internazionali , ovvero, la repressione della violazione delle norme internazionali, si basa sull’autotutela ( nel diritto interno è invece un’eccezione il farsi giustizia da sé ). Proprio per questo si afferma che il diritto internazionale poggia su rapporti di mera forza. Queste caratteristiche hanno portato alcuni a negare la giuridicità del diritto internazionale, fenomeno incapace di imporsi continuità ed efficacia al singolo Stato non osservante. Secondo il CONFORTI, la giuridicità e l’obbligatorietà del diritto internazionale risiedono nell’attività degli operatori giuridici interni, che hanno il compito istituzionale di far applicare il diritto, in primo luogo i giudici. In Italia la Costituzione (art.10) impegna al rispetto del diritto internazionale generale ; inoltre, i trattati stipulati formano normalmente oggetto di legge ordinaria applicativa. Quindi, l’osservanza del diritto internazionale si basa sulla volontà degli operatori giuridici interni ad operare i mezzi esistenti, affinchè le istanze internazionalistiche prevalgano su quelle nazionalistiche. Secondo JELLINEK, il diritto internazionale è frutto dell’auto-limitazione del singolo Stato, in quanto la comunità internazionale non possiede i mezzi giuridici idonei per reagire in modo imparziale ed efficace alle violazioni delle norme internazionali. La cooperazione del diritto interno è indispensabile, quindi per fare del diritto internazionale un fenomeno giuridico. E’ anche vero che l’applicazione del diritto internazionale non può compromettere i valori della comunità statale costituzionalmente garantiti. Esistono quindi problemi di coordinamento tra i due ordinamenti, anche perché spesso il diritto interno appare più progredito di quello internazionale. Lo Stato come soggetto di diritto internazionale. Altri soggetti e presunti tali. Lo Stato viene definito in modo duplice : da una parte Stato-comunità ( comunità umana stanziata su una zona della superficie terrestre, sottoposta a leggi che la tengono unita ) , dall’altra parte abbiamo lo Stato-organizzazione-governo-apparato ( insieme di governanti e degli organi che esercitano il potere d’imperio sui singoli associati). E’ a questa seconda accezione che spetta la qualifica di soggetto di diritto internazionale. Sono gli organi statali che, esercitando il potere di governo, partecipano alla formazione delle norme internazionali ; è ad essi che queste norme si rivolgono, disciplinando e limitando la loro attività di governo ; sono unicamente gli organi statali che, con la loro condotta, possono comportare responsabilità per lo Stato. Gli organi che concorrono alla formazione dell’apparato statale non solo quelli di vertice, ma tutti quelli che partecipano al potere di governo nell’ambito del territorio, quindi anche le amministrazione locali e gli enti pubblici minori, che, per consuetudine, sono considerati componenti dell’organizzazione dello Stato soggetto di diritto internazionale . Lo stato-organizzazione è, dunque, quell’ente rilevante per l’ordinamento internazionale, in quanto destinatario delle sue norme ; per questo lo Stato può pretendere che esse vengano rispettate nei propri confronti e questo avviene finchè esso eserciti effettivamente il proprio potere su di una comunità territoriale. Il requisito dell’effettività territoriale di governo è essenziale. Per questo motivo è negata la soggettività internazionale ai governi in esilio e ai comitati di liberazione nazionale (CNL) , che, benché, riconosciuti dai governi ospitanti per motivi di opportunità politica, non hanno effettiva sovranità sul territorio occupato da altro Stato. Così, ad esempio, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina con sede a Tunisi, quando nel 1988 proclamò lo Stato della Palestina, nonostante non avesse nessuna base territoriale. ESEMPIO : La sentenza della Cassazione ( 1985) ha sostenuto che L’OLP e altri movimenti di liberazione nazionale, godono di soggettività limitata allo scopo di discutere, su basi di perfetta parità con gli Stati territoriali, questione relative alla autodeterminazione dei popoli da essi controllati, principio ritenuto norma consuetudinaria di natura cogente. Viene, invece , esclusa la soggettività piena e , quindi, vengono negate le immunità previste dal diritto internazionale e le immunità dalla giurisdizione penale riconosciuta ai capi di Stato estero. Anche oggi, nonostante il passaggio di vari territori da Israele al controllo dell’autorità nazionale palestinese, vi sono dubbi sulla effettiva soggettività di uno Stato Palestinese. I suoi territori di fatto sono ancora sotto il controllo militare israeliano. Inoltre, gli accordi che hanno sancito questo passaggio somigliano, più che ad accordi internazionali ad intese intercorse con le potenze coloniali nella fase di decolonizzazione e di preparazione all’indipendenza definitiva. Del resto, tali accordi non sono registrati presso il segretariato dell’ONU come avviene per le intese internazionali, inoltre, l’Anp continua ad aver presso l’ONU, lo Stato di osservatore e non di membro. Altro requisito necessario ai fini della soggettività internazionale è l’indipendenza o sovranità esterna, che si ha quando un organismo di governo non dipende da alcun altro Stato. Non hanno tale caratteristica gli Stati membri di Stati federali che, quindi, non sono soggetti di diritto internazionale, benché a volte possano essere autorizzati dal potere centrale a concludere accordi. Diverso è il caso della Confederazione, ovvero l’unione tra stati indipendenti e sovrani , creata soprattutto a scopi di difesa, con un organo rappresentativo di tutti gli Stati ( Dieta) che possiede ampi poteri in materia di politica estera. In definitiva, è indipendente e sovrano lo Stato il cui ordinamento sia originale, tragga forza giuridica da una Costituzione propria e non dall’ordinamento e dalla Costituzione di altro Stato. Non diminuisce la soggettività, la dimensione anche minima del territorio . Fanno eccezione i governi fantoccio, che pur se caratterizzati da istituzioni indipendenti e originali, di fatto sono soggetti all’ingerenza di altri Stati ; essi, quindi, non hanno soggettività internazionale. Non occorre nessun riconoscimento ufficiale da parte della comunità degli Stati per divenire soggetto internazionale. Lo è automaticamente ogni organizzazione di governo che eserciti effettivamente ed indipendentemente il proprio potere su di una comunità territoriale. Il riconoscimento di uno stato nei confronti di un altro stato è un atto lecito ed è altrettanto lecito il non riconoscimento. Per il diritto internazionale sono atti che non producono conseguenze giuridiche, essendo comportamenti della sfera politica. Il riconoscimento è un atto politico, indicativo unicamente della volontà di un Paese di avviare rapporti diplomatici con un altro Paese e di stringere relazioni amichevoli e collaborazioni mediante la conclusione di accordi. ( La Corte d’Appello americana , con una sentenza del 1992, ha rifiutato di considerare estinto un trattato con Taiwan, Stato non più riconosciuto dagli USA dal 1979, ma comunque dotato degli attributi statali di territorio, popolo, Governo, rapporti internazionale ). Gli stati preesistenti non possono esercitare col riconoscimento una sorte di potere di ammissione nella comunità internazionale nei confronti di una nuova organizzazione di governo, che si è affermata con i caratteri dell’effettività e dell’indipendenza. E anche se alla manifestazione o meno del riconoscimento, oggi come in passato, è stato dato valore di giudizio e ideologico ( non di democraticità, violazione dei diritto umani ecc.), tutto ciò non si è mai tradotto in norme internazionali, perché gli Stati non hanno mai trovato un accordo sui valori da porre a base di una codificazione o di una stabilizzazione consuetudinaria del riconoscimento. Un tentativo di trovare queste norme è stato fatto con le due dichiarazioni di Bruxelles (1991) in cui la Comunità Europea ha posto una lunga serie di condizioni per il riconoscimento dei Paesi dell’ex Unione Sovietica e dell’ex Jugoslavia. Ci si chiede se, oltre all’effettività e all’indipendenza, occorrano altri requisiti affinché lo Stato acquisti personalità internazionale, come nel caso delle dichiarazioni di Bruxelles. Bisogna dire che gli Stati presenti oggi chiedono al Nuovo Stato di non costituire una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, che esso goda del consenso del popolo attraverso le libere elezioni e non violi i diritti umani ; questi requisiti, quindi se mancanti, dovrebbero anche essere motivo di perdita della personalità internazionale. Ma, di fatto, nel contesto mondiale attuale questi requisiti, mai ufficializzati, sono validi solo per l’instaurazione di rapporti amichevoli. Inoltre, non sono pochi gli Stati autoritarie inosservanti dei diritti umani, ma che hanno rapporti costanti con Stati democratici. Anzi, si può affermare che la richiesta di tali requisiti non condiziona, ma presuppone la personalità giuridica dello stato stesso. Si discute poi della soggettività o meno del Governo o del Partito Insurrezionale. Gli insorti non possono essere soggetti di diritto internazionale, ma solo dei sudditi ribelli, verso i quali il Governo legittimo può prendere dei provvedimenti che ritiene siano opportuni. Ma, se essi dovessero riuscire a prendere il controllo effettivo di una parte del territorio, in tal caso ci si troverebbe di fronte ad una forma embrionale di Stato, alla quale non si può negare soggettività, anche se la rivolta dovesse fallire. E’ dunque l’effettivo controllo del territorio il requisito richiesto per la personalità giuridica. Il moltiplicarsi di norme convenzionali che obbligano gli Stati a tutelare i diritti fondamentali dell’uomo fa propendere gran parte della dottrina per l’esistenza di altri soggetti di diritto internazionale, oltre agli Stati; questi soggetti sarebbero, sia pure limitatamente, le persone fisiche o quelle giuridiche, in quanto titolari di veri e propri diritti internazionalmente riconosciuti. A suffragare questa tesi sta il fatto che, sempre più spesso, è concesso all’individuo ricorrere presso organi internazionali ( potere di azione) per vedere riconosciuto un proprio diritto. Allo stesso modo, esistono tanti trattati che disciplinano vari aspetti della vita economica e sociale interindividuale. Anche nel diritto consuetudinario vi sono numerosi esempi per sostenere la personalità internazionale degli individui : si pensi ai crimini di guerra contro la pace e la sicurezza dell’umanità, per i quali uno Stato può esercitare la propria potestà punitiva a difesa di prerogative nazionali, ma che si riflettono nell’individuo. La dottrina contraria a questa teoria afferma che non si nega che gli individui possano essere titolari di suddetti diritti, ma se ne contesta la natura internazionale. Destinatari delle norme consuetudinarie o pattizie che si rivolgono all’individuo rimangono sempre e solamente agli Stati. La destinazione individuale di molte norme internazionali e il potere d’azione riconosciuto alla persona sul piano interstatale non sono sufficienti ad individuare una personalità del singolo sul piano dell’ordinamento internazionale, il quale è una comunità di governanti e non di governati. Questi ultimi rimangono sottoposti allo Stato, la cui collaborazione è essenziale perché si raggiungano gli obiettivi individuali che le norme internazionali si propongono. Inoltre, l’individuo non ha la possibilità di avvalersi direttamente di mezzi internazionali coercitivi per costringere gli Stati a rispettare i suoi diritti. Neanche le minoranze etniche possono assurgere a soggetti di diritto internazionale, nonostante numerose norme riconoscano e tutelino i loro diritti. Non vi sono oggi strumenti di azione diretta. Si parla poi, spesso, di diritto dei popoli ( autodeterminazione ecc), ma il termine popolo è un modo enfatico per indicare lo Stato che è l’effettivo titolare del diritto. Tuttavia, vi sono una serie di norme internazionali che tutelano il popolo rispetto all’apparato che le governa. Queste norme si riducono all’unico principio della autodeterminazione dei popoli . Esso è una regola di diritto positivo che ha acquistato carattere consuetudinario ed è stato posto alla base della Carta dell’ONU. La Corte Internazionale di Giustizia ne ha riconosciuto l’esistenza come principio consuetudinario in due pareri richiesti dall’Assemblea Generale (1971, Namibia ; 1975, Sahara occidentale ) e in una sentenza (1995, Timor Est) che lo definisce come uno dei principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo. Tuttavia, esso è un principio che oggi ha ancora un’applicazione ristretta, per lo più a quei popoli sottoposti ad un Governo straniero, a dominazione coloniale, a territori conquistati e occupati con la forza ( autodeterminazione esterna ) . Il diritto di autodeterminazione consiste nel riconoscere la libera scelta che un popolo può fare per uscire dal dominio straniero e divenire indipendente, associarsi o integrarsi ad altro Stato indipendente, ecc. Diversamente non può considerarsi di diritto internazionale il principio di autodeterminazione interna , cioè non si può pretendere che ogni Governo sia riconosciuto e liberamente scelto dalla maggioranza dei sudditi come obbligo di diritto internazionale. Pur essendo un principio sempre più spesso propugnato, tuttavia esso non lo è , allo stato attuale dei fatti, un principio generale : nella comunità internazionale esistono governi non democratici che spesso godono dei favori proprio di quegli Stati che propugnano i valori democratici. In definitiva, il diritto internazionale generale impone allo Stato, che governa un territorio non suo , di consentirne la autodeterminazione. In caso di violazione, la comunità internazionale può adottare alcune misure sanzionatorie. Di conseguenza, appare lecito l’appoggio ai motivi di liberazione nazionale . Comunque, non si può parlare di diritto soggettivo internazionale dei popoli all’autodeterminazione, visto che i rapporti intercorrono unicamente tra Stati. E’ nei confronti della comunità internazionale che un certo Governo ha l’obbligo di consentire l’autodeterminazione ; allo stesso modo, è nei confronti della comunità internazionale che gli Stati hanno l’obbligo di negare efficacia extra-territoriale agli atti di governo compiuti nel territorio dominato. Non si può invece ammettere l’ipotesi di rapporti giuridici internazionali tra il popolo in lotta ed il Governo straniero occupante, a meno che il movimento di liberazione non sia riuscito a riassumere il controllo effettivo di una parte del territorio. A differenza del passato, non si può negare piena personalità alle organizzazione internazionali ( associazioni tra Stati ) dotate di organi per il perseguimento di interessi comuni. Esse stipulano accordi che producono diritti e obblighi per le organizzazioni stesse, ma che non hanno effetti nella sfera giuridica degli Stati membri. A riprova di ciò, quanto quando uno Stato non membro vuole concludere un’intesa con l’organizzazione, ma coinvolgendo anche gli Stati membri, deve richiedere la partecipazione diretta all’atto di quest’ultimi. Quindi l’organizzazione è un soggetto di diritto internazionale , dal suo atto costitutivo e dagli accordi di cui è parte. La personalità internazionale delle organizzazioni non va confusa con la personalità giuridica del diritto interno che esse posseggono nei singoli Stati membri in cui operano, secondo le regole stabilite nello Statuto. Cosi, ad esempio, la Carta delle Nazioni Unite stabilisce che l’ONU, nel territorio di ogni Stato membro, gode della personalità giuridica necessaria per l’esercizio delle sue funzioni e per il conseguimento dei suoi fini. Nel caso, invece, di un’attività in uno Stato terzo, non vincolato dal trattato istitutivo, si applicano le norme interne di quello Stato sulla capacità giuridica degli enti collettivi stranieri. Altro problema, nasce per l’eventuale responsabilità solidale degli Stati membri per le obbligazioni contratte dalle organizzazioni. In caso l’accordo costitutivo tratti la questione, si applicano le relative regole ( il trattato della CE esclude la responsabilità solidale degli Stati membri) ; in caso contrario sembra giusto applicare la regola della responsabilità solidale, affermata da alcune sentenze, in base ai principi generali di diritto, per i quali chi si impegna in affari di natura economica deve rispondere delle obbligazioni che ne derivano. La Chiesa Cattolica è ente indipendente. La sua personalità internazionale si concretizza nel potere di concludere accordi e, data l’esistenza dello Sato della Città del Vaticano, in tutte le situazioni giuridiche che presuppongono il governo di una comunità territoriale. La personalità NON può invece concedersi al Sovrano Ordine Militare Gerosolimitano di Malta, un tempo collegato alla comunità internazionale per aver avuto sovranità su Rodi e Malta, oggi, invece, organismo puramente assistenziale. Il diritto internazionale generale. La consuetudine e i suoi elementi costitutivi Le norme di diritto internazionale generale hanno natura consuetudinaria e vincolano tutti gli Stati. La consuetudine è caratterizzata dal comportamento uniforme, costante e ripetitivo ( diurnitas o prassi ) da parte della generalità degli Stati, accompagnato dalla convinzione della sua obbligatorietà e necessità o doverosità sociale ( opinio juris sive necessitas ) . La critica a questa concezione dualistica basa la consuetudine sulla sola prassi : ammettere anche il secondo aspetto, vorrebbe dire che per lo Stato incorrere in un errore : coscienza di un’obbligatorietà giuridica non ancora esistente. Di fatto, la giurisprudenza internazionale e interna si riferisce sempre ai due elementi. A conferma di questo vi è anche il comportamento degli Stati, che quando non vogliono che la sola prassi crei nuovo diritto, si affrettano a dichiarare che un certo comportamento, che intendono tenere, è dettato da sole ragioni di cortesia o che esso non è idoneo a creare un precedente per la formazione di una norma consuetudinaria o per l’abrogazione di una norma preesistente ( la desuetudine ). I cerimoniali e gli usi di cortesia quindi non si concretano in consuetudini, pur se dotati di diurnitas, gli Stati non sono convinti della loro obbligatorietà. In tal senso, la Cassazione penale a Sezioni Unite (1955) ha dichiarato che l’estensione delle immunità diplomatiche al personale di servizio delle ambasciate e ai familiari del diplomatico rappresenta una consuetudine internazionale,a titolo di pura cortesia ma , mancando l’opinio iuris sive necessitas, non costituisce obbligo internazionale. Inoltre, l’indagine sull’opinio iuris sive necessitas serve per accertare se in un determinato trattato siano presenti norme di diritto generale ( consuetudine confermata dall’accordo) o norme di diritto convenzionale ( regole nuove limitate ai rapporti tra i contraenti ). L’elemento dell’opinio iuris è rilevante anche per stabilire se lo Stato vuole modificare il diritto consuetudinario esistente, affermando una nuova consuetudine o una desuetudine, o se sia incorso in un illecito internazionale. Il CONFORTI risponde che un Governo può violare il diritto consuetudinario ( c’è sempre una violazione iniziale alla nascita di una nuova consuetudine ), se dimostra che detta violazione sia sorretta dal convincimento della sua doverosità sociale. Per quanto riguarda l’esistenza dell’elemento della diurnitas, occorre un certo tempo, più o meno lungo, per la formazione della consuetudine. Il tempo può essere tanto più breve quanto più diffuso è un certo atteggiamento nella comunità internazionale. Non esistono, invece, consuetudini istantanee, poiché mancano i caratteri di stabilità e ripetitività richiesti dal diritto non scritto. Alla formazione della consuetudine possono concorrere non solo organi detentori del potere estero con atti esterni ( trattati, note diplomatiche ecc) , ma anche altri organi con atti interni ( leggi, sentenze, atti amministrativi). Un ruolo decisivo è ricoperto dalla giurisprudenza che può contribuire notevolmente all’evoluzione del diritto consuetudinario. Le corti possono contribuire all’identificazione delle cause di estinzione e di nullità dei trattati, promuovendo la difesa di valori, tutelati costituzionalmente dall’ordinamento interno e diffusi nella generalità dei Paesi, anche a livello internazionale. La consuetudine si impone a tutti gli Stati ( anche quelli di nuova formazione ), abbiano o meno partecipato alla sua formazione. Gli Stati nati dalla decolonizzazione hanno contestato il vecchio diritto consuetudinario, poiché formatosi in epoca coloniale e rispondente ad interessi diversi dai nuovi. Da qui la pretesa di ritenere valide solo le norme consuetudinarie liberamente accettate. Secondo il CONFORTI , bisogna distinguere la contestazione fatta dal singolo Stato da quella di un gruppo di Stati. Nel primo caso, la contestazione anche se ripetuta, è irrilevante, né per applicabilità occorre la prova dell’accettazione, altrimenti si negherebbe l’esistenza di un diritto generale valido per tutti. Del resto, lo Stato singolo non chiede l’inopponibilità nei suoi confronti di una consuetudine già formata, ma vuole impedirne la formazione o negare che questa sia avvenuta. Nel secondo caso, la consuetudine non può considerarsi esistente nei loro confronti, e quindi, non applicabile. Ma, prima di giungere alla conclusione dell’inesistenza , l’interprete deve sforzarsi di salvare la norma consuetudinaria contestata, rifacendosi ai principi giuridici comuni anche generalissimi. E’ da respingere l’opinione di gran parte degli Stati in sviluppo, maggioranza dell’Onu, che riferendosi alla grande produzione di risoluzioni e raccomandazioni a carattere universale da parte degli organi delle Nazioni Unite, parlano di formazione quasi legislativa del nuovo diritto internazionale generale e consuetudinario. Queste risoluzioni non hanno forza vincolante e i comportamenti in esse contenute diventano valide solo se confermati dalla diurnitas e dall’opinio iuris sive necessitas o se sono trasferite in convenzioni internazionali. E’ da ammettere, poi, l’esistenza di consuetudini particolari ( di natura locale o regionale). Si tratta di diritto non scritto formatosi per modificare o abrogare norme poste da un determinato trattato. La fattispecie avviene in caso di accordi istitutivi di organizzazioni internazionali, quando i contraenti o gli organi dell’organizzazione danno vita ad una prassi modificatrice delle norme a suo tempo pattuite e basate sul diritto generale. Le consuetudini particolari non possono modificare o abrogare patti quando l’organizzazione è dotata di organismi che controllano il rispetto del trattato istitutivo. In ogni caso, anche la consuetudine particolare risulta sempre dall’uniformità dei comportamenti degli Stati contraenti di un trattato o di un’area geografica, senza che sia necessario indagare se il singolo Stato abbia effettivamente partecipato alla formazione della stessa. Si parla invece di reciprocità , e non di consuetudine particolare, in caso di uniformità dei contegni da un certo numero di Stati non legati da trattati o da vincoli geografici di alta natura. Alle norme consuetudinarie generali, è applicabile l’analogia ,ovvero l’interpretazione estensiva che applica una norma ad un fatto nuovo che esso non contempla, ma i cui caratteri essenziali sono simili al vecchio caso. ( es. applicazione delle norme di navigazione marittima alla navigazione cosmica. ) I principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili. Tra le fonti non scritte, l’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu annovera anche i principi generali di diritto riconosciuti dalla Nazioni civili. Si tratta di una fonte applicabile al caso concreto, utilizzabile dove manchino norme pattizie e consuetudinarie. E’ in pratica una sorta di analogia iuris, che sulla base dei principi giuridici secolari, colma le lacune del diritto, da effettuare dopo aver esperito un’attenta analisi della normativa internazionale esistente. A parte le polemiche suscitate sul significato della definizione nazioni civili , ritenuta offensiva per i Paesi del Terzo Mondo, un problema deriva dal fatto che si tratta di principi estratti non dal diritto internazionale vigente, ma prelevati dall’ordinamento interno degli Stati. Dunque, per essere sentiti come obbligatori e necessari a livello internazionale, questi principi devono essere osservati nella gran parte degli Stati, raffigurando valori e comportamenti considerati necessari anche sul piano internazionale. In sostanza, si tratta di un particolare insieme di norme consuetudinarie internazionali, rispetto alle quali la diurnitas ( prassi) è data dalla costante applicazione all’interno dei singoli ordinamenti e l’opinio iuris è data dalla considerazione di tutti gli organi dello Stato che esse abbiano valore universale e quindi, siano applicabile in ogni ordinamento, anche in quello internazionale. Dunque, il principio generale di diritto comune è uniformemente seguito. Ciò vuol dire che, in quanto prassi, il giudice di Uno Stato può applicarlo anche quando esso non sia presente nel proprio ordinamento, sempre che in esso sia prevista l’osservanza del diritto internazionale. Ad esempio, in Italia, in base all’art.10 della Costituzione Italiana, una legge nuova contraria al diritto internazionale generale provoca l’illegittimità della norma interna e tale conseguenza vi sarà anche in caso di contrarietà ad un principio generale del diritto riconosciuto dalle Nazioni civili. Altre presunte norme generali non scritte. Parte della dottrina Quadri pone al di sopra delle norme consuetudinarie un’altra categorie di norme generali non scritte, i cosiddetti principi generali convinzioni costituzionali, espressione immediata e diretta del corpo sociale, che caratterizzano l’intera comunità internazionale, pur essendo state imposte da forze prevalenti in un dato momento storico. Sarebbero fonti primarie. Tra esse si distinguono : i principi formali ( sono due, consuetudo est servanda e pacta sunt servanda ) che propongono una diversa gerarchia di fonti di diritto internazionale, principi formali ( 1° grado) consuetudine e accordi (2° grado) ; principi materiali che disciplinano direttamente i rapporti tra gli Stati nel modo in cui le forze prevalenti indirizzano le scelte in determinati settori di rapporti internazionali . La critica a questa posizione, pur ammettendo il ruolo di primo piano delle grandi Potenze nella formazione del diritto internazionale, afferma che la norma esiste solo se, all’iniziale imposizione , segue la stabilità, la continuità e la reiterazione degli Stati, accompagnate dal convincimento della doverosità sociale del comportamento. Si discute se sia fonte di norme internazionali, l’equità ovvero il comune sentimento del giusto e dell’ingiusto. A parte la possibilità di utilizzare l’equità come mero strumento interpretativo secundum legemem , è da negare la qualifica di fonte sia nel caso di equità contraria alla consuetudine e alle norme pattizie, sia nel caso di equità diretta a colmare le lacune del diritto internazionale, poiché, sia la volontà dello Stati è evidentemente diretta a non istituire diritti e obblighi nei loro rapporti, questi non possono essere creati attraverso l’equità. Spesso sia le corti interne che internazionali hanno emesso decisioni sulla base di considerazioni di equità , ma di sovente sono state smentite dalla prassi successiva. Inesistenza di norme generali scritte. Il valore degli accordi di codificazione. Con la nascita dell’Onu è stata avviata un’opera di codificazione che si è tramutata in una serie di trattati multilaterali. Non esistendo nella comunità internazionale un’autorità dotata di poteri legislativi, la scelta pattizia era l’unico strumento per trasformare il diritto non scritto in diritto scritto. L’art.13 della Carta dell’Onu assegna all’Assemblea Generale il compito di codificare il diritto internazionale. L’organo ha istituito una Commissione di Diritto Internazionale ( CDI) , predisponendo convenzioni multilaterali aperte alla ratifica degli Stati, convocando conferenze di Stati per la redazione di progetti di intese o istituendo comitati interni ad hoc Es. Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati 1969, Convenzione di Vienna sulla successione degli Stati nei trattati 1978, Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare 1982. Gli accordi di codificazione vincolano i contraenti ma nonostante contengano un diritto consuetudinario, non possono applicarsi anche agli Stati non ratificanti. Gli accordi di codificazione vanno considerati alla stregua di normali trattati internazionali che vincolano solo i Paesi contraenti. In ogni caso, l’interprete dovrà sempre fare un’accurata analisi quando vorrà applicare come diritto generale una delle norme contenute negli accordi, verificando se effettivamente corrispondano alla prassi degli Stati. In tal senso : sentenza Corte Internazione di Giustizia 1969 sulla delimitazione della piattaforma continentale tra Germania e Stati limitrofi. E’ possibile che, a causa della mutazione della prassi degli Stati, bisogna ricorrere al ricambio delle norme di diritto generale codificate. Tutti gli accordi del genere sono stipulati per una durata illimitata, ma per alcuni sono previsti procedimenti di revisione in vista di nuovi accordi più attuali. L’evoluzione del diritto consuetudinario comporta l’inapplicabilità della norma obsoleta per gli Stati non contraenti (motivo in più per non equiparare il diritto codificato a quello generale ) . Per quanto riguarda gli Stati contraenti, nulla vieta che il diritto consuetudinario di nuova formazione abroghi quello pattizio anteriore, sempre che si accerti incontrovertibilmente che gli Stati contraenti abbiano contribuito alla formazione della nuova consuetudine. Le dichiarazioni di principi dell’ONU. Si inquadrano nel discorso sul diritto internazionale generale le dichiarazioni di principi dell’Assemblea Generale dell’Onu, contenenti una serie di regole sui rapporti tra Stati, ma più spesso sui rapporti degli Stati con i propri sudditi e con gli stranieri. Tra tutte si ricorda la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e le Dichiarazioni in campo economico che suggeriscono regole a cui dovrebbe ispirarsi l’azione degli Stati, per eliminare o attenuare le differenze tra Paesi ricchi e Paesi poveri. Non si può dire che le Dichiarazioni costituiscono fonte autonoma di norme internazionali generali. L’Assemblea Generale non ha poteri legislativi mondiali e le sue risoluzioni non hanno carattere vincolante, aspetto questo tenacemente difeso dai Paesi occidentali. In caso contrario, i Paesi del Terzo Mondo, maggioranza dell’Onu, avrebbero in mano la gestione del diritto generale internazionale. Tuttavia, è innegabile che le Dichiarazione dei principi abbiano un ruolo importante, simile a quello degli accordi di codificazione, per lo sviluppo internazione più attento alle esigenze di solidarietà sempre più sentite oggi. Pur non vincolanti, esse danno un contributo alla formazione del diritto internazionale, ispirando i contenuti degli accordi e condizionando la formazione della consuetudine; esse, quindi, sono rilevanti in quanto prassi degli Stati che le adottano. Certe Dichiarazioni possono avere il valore di veri e propri accordi internazionali, quando, oltre ad enunciare un principio, ne equiparano l’inosservanza alla violazione della Carta dell’Onu. Si tratta di un espediente, di fronte alla natura non vincolante delle Dichiarazioni, per sancire che quel determinato principio è ormai obbligatorio e vincola gli Stati che le sostengono con il voto; essi, proprio esprimendo un assenso, intendono obbligarsi. Lo stesso dicasi quando la Dichiarazione considera l’inosservanza di un principio del diritto internazionale generale e non nella violazione della Carta dell’Onu. I trattati. Procedimento di formazione e competenza a stipulare. L’accordo ( convenzione, trattato, patto ) è fonte di norme internazionali particolari. Come gli atti di natura contrattuale, il trattato è l’incontro di due o più volontà, dirette a regolare una determinata sfera di rapporti attraverso diritti e obblighi reciproci. Non è da accogliere la distinzione della dottrina tedesca tra trattati normativi o trattati legge ( unici produttivi di norme giuridiche, caratterizzati da volontà di identico contenuto e dalla adesione di un gran numero di Stati contraenti : accordi di codificazione, trattati istitutivi di organizzazioni internazionali ecc.) e trattati contratto o trattati negozio ( le parti, muovendo da disposizioni contrastanti, attuano uno scambio di prestazioni corrispettive : accordi commerciali, trattati di alleanza ecc.) . La distinzione non ha senso, perché qualsiasi trattato esprime una volontà di obbligarsi e produce regole di condotta. Inoltre, per quanto riguarda la contrapposizione e l’unione delle parti, i due dati sono più o meno presenti in qualsiasi procedimento negoziale sino alla stipulazione dell’accordo. Invece, una distinzione che va fatta, e che non avvalora comunque la teoria tedesca deriva dalla presenza nei trattati di norme astratte, che regolano una fattispecie generica di rapporto e vincola gli Stati contraenti che vengano a trovarsi in una situazione che rientra nella tipologia generale descritta e , norme concrete che regolano un singolo e ben determinato rapporto. Meglio ancora di può dire che i trattati, come tutte le fonti di norme giuridiche, possono dare vita a regole materiali, che disciplinano i rapporti tra destinatari contraenti, e regole formali 8 o strumentali) , che si limitano ad istituire fonti per la creazione di ulteriori norme, come quelle contenute nei trattati istitutivi di organizzazioni internazionali : questi accordi, oltre a regolare concretamente i rapporti tra i contraenti, rimandano agli organi sociali dell’organizzazione la produzione di ulteriori norme. Il complesso di norme consuetudinarie che regola il procedimento di formazione, i requisiti di validità ed efficacia degli accordi forma il diritto dei trattati. A questo tema è dedicata la Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati, entrata in vigore nel 1980, la Convenzione di Vienna del 1978 sulla successione degli Stati nei trattati e la Convenzione di Vienna del 1986 sui trattati stipulati tra Stati e organizzazioni internazionali e tra organizzazioni internazionali, mai entrata in vigore. Per quanto riguarda la sfera di applicazione della Convenzione del 1969, l’art. 4 di essa afferma il principio secondo cui le regole consuetudinarie di diritto generale in essa contenute si applicano a tutti gli Stati e a tutti i trattati. Per le norme innovative, lo stesso articolo enuncia che esse non sono retroattive e quindi sono applicabile solo agli Stati ratificanti, tra cui la Convenzione è in vigore. La conseguenza è che, in caso di trattati successivi multilaterali, di cui siano contraenti anche Stati terzi, la Convenzione si applica solo a quelli legati dalla Convenzione stessa. Scopo di Vienna 1969 è quello di allargare il più possibile e non restringere la sua applicazione. Per favorire l’incontro di volontà degli Stati, il diritto internazionale lascia la più ampia libertà in materia di forma e procedura nella conclusione degli accordi, purchè se ne deduca la reciproca intenzione ad obbligarsi. Il modo consueto è quello degli accordi per iscritto, regolato da Vienna 1969 ( art.7-16). In linea di massima le fasi di conclusione di un’intesa, formatesi ai tempi delle monarchie assolute , sono le stesse ancora oggi, pur con ulteriori procedure nate successivamente : Negoziazione : predisposizione dell’accordo da parte di plenipotenziari (oggi membri dell’esecutivo), emissari del sovrano (oggi capo dello Stato) , previa contrattazione con la controparte. Firma : chiusura del testo definitivo da parte dei plenipotenziari; Ratifica : atto con cui il sovrano controlla l’adesione al mandato assegnato dai plenipotenziari; Scambio ratifiche : per portare a conoscenza delle parti la volontà ad obbligarsi . L’art.7della Convenzione di Vienna del 1969 stabilisce che il rappresentante dello Stato viene identificato in base alla produzione di pieni poteri. Gli organi competenti si deducono dal diritto interno e dalla prassi di ogni Stato ( in Italia è il Governo). Sono rappresentanti anche i capi di Stato, i capi di Governo, i ministri degli Esteri in ordine a tutti i trattati; i capi delle missione diplomatiche per i trattati con gli Stati, presso cui sono accreditati; i delegati pressi le organizzazioni internazionali per i trattati stipulati in seno alle stesse. La fase di negoziazione è più complessa nei trattati multilaterali. Ad esempio i trattati di pace, di codificazione sono negoziati dai plenipotenziari nell’ambito di conferenze diplomatiche dalle procedure molto articolate. La vecchia regola dell’adozione del testo all’unanimità viene sempre più spesso sostituita dal principio di maggioranza qualificata. La firma del trattato da parte dei plenipotenziari chiude la fase della negoziazione. Essa non comporta alcun obbligo per gli Stati ed è solo un’autenticazione del testo definitivo. La ratifica è l’atto con cui lo Stato si impegna nei confronti degli altri Stati ratificanti. In base alle norme costituzionali interne di ogni Stato è individuabile il soggetto nelle cui attribuzioni rientra il potere di ratifica. Di solito è il capo dello Stato, spesso in funzione di dichiarante della volontà di altri organi, quali il Governo e il potere legislativo. Nell’ordinamento italiano (art.87 Cost.) i trattati internazionali sono ratificati dal capo dello Stato, spesso previa autorizzazione delle Camere. L’autorizzazione è necessaria (art.80) e va espressa con legge nei trattati di natura politica, che prevedono regolamenti giudiziari che comportano variazioni del territorio nazionale. In base a quest’articolo, ogni atto del presidente della Repubblica deve essere controfirmato dai ministri proponenti assumendosi la responsabilità. Il capo dello Stato non può rifiutarsi di sottoscrivere, ma può solo sollecitare il riesame del trattato, prima della sottoscrizione. In Italia, quindi il potere della ratifica è soprattutto nelle mani del potere esecutivo e legislativo. Alla ratifica 8 detta anche approvazione o conclusione ) va equiparata l’adesione o accessione che non è altro che una ratifica successiva di un testo predisposto da altri. Essa è la volontà di concludere l’accordo e viene espressa nei trattati multilaterali dallo Stato che non ha partecipato alla fase di negoziazione. Questo è possibile nei trattati aperti, che prevedono l’ingresso successivo di altri contraenti, con la clausola di adesione. Per l’adesione all’Unione Europea da parte di uno Stato terzo, invece, occorre un nuovo accordo, autonomo dal primo, che deve essere ratificato dal nuovo Stato membro e dai contraenti del trattato istitutivo dell’Unione. Il procedimento di formazione dell’accordo si conclude con lo scambio delle ratifiche. In questo caso, il trattato si perfeziona istantaneamente. Nei trattati multilaterali, invece la procedura normalmente adottata è quella del deposito delle ratifiche. L’accordo si forma per gli Stati depositanti via via che le che le ratifiche vengono consegnate presso un Governo o presso il segretariato di un’organizzazione internazionale. Si prevede però che l’intesa non entri in vigore, neanche per gli Stati ratificanti, finché non sia stato depositato un certo numero di ratifiche. Allo scambio o deposito, l’art.16 di Vienna della Convenzione di Vienna fa seguire la notifica agli Stati contraenti o al depositario. Secondo la Carta dell’Onu (art.102) e Vienna 1969 ( art.80 ), ogni trattato va sottoposto a registrazione presso il Segretariato dell’Onu e a pubblicazione a cura di quest’organo nella United Nations Treaty Series. Tuttavia questi due oneri non costituiscono requisito di validità o di esistenze dei trattati, ma comportano unicamente la possibilità di invocare il trattato dinanzi ai vari organi delle Nazioni Unite. Esistono dei procedimenti alternativi della formazione dei trattati, caratterizzati dalla diversa manifestazione di volontà degli Stati. Nei trattati predisposti dalle organizzazioni internazionali, la negoziazione è sostituita dalla discussione e l’approvazione da parte di solito, dell’organo assembleare. Nei trattati multilaterali, i plenipotenziari redigono un testo definitivo che rimane aperto alla firma e alla ratifica degli Stati. Fenomeno sempre più ricorrente , che trova giustificazione nelle esigenze di speditezza e praticità dei tempi attuali, è quello degli accordi in forma semplificata o accordi informali. Essi vengono conclusi con la sola sottoscrizione del testo da parte dei plenipotenziari, quando dai negoziati, dai comportamenti dei rappresentanti o dal testo stesso si evince la volontà comune di attribuire alla firma valore di piena e definitiva volontà di adesione. Si parla di accordo misto, quando per alcuni Stati può essere concluso nella forma semplificata , mentre per altri con la forma solenne. Sono da assimilare agli accordi in forma semplificata anche le note diplomatiche e altri strumenti simili, sempre che da essi si ricavi la volontà di vincolarsi reciprocamente. Cosi dicasi anche per tutti i patti stipulati senza ricorrere alla ratifica. Bisogna sottolineare che, per aversi un accordo in forma semplificata , non basta la mancanza della ratifica , ma occorre che dal testo dell’intesa o delle circostanze risulti una chiara e sicura volontà di obbligarsi attraverso la firma. Spesso, infatti, gli Stati danno vita a rapporti definiti accordi, ma che non hanno alcun aspetto giuridico , espressamente escluso dalle dichiarazioni dei sottoscrittori, da quanto esposto nel testo. Si tratta di intese che valgono finché valgono. Al confine tra intese non giuridiche e accordi in forma semplificata si collocano gli accordi sull’applicazione provvisoria dei trattati, che si hanno quando nel testo del testo del trattato, in attesa di ratifica o con dichiarazione separata, le parti prevedono che esso entri immediatamente e provvisoriamente in vigore, salvo la legittimazione definitiva della ratifica. Nella dottrina non c’è univocità di interpretazione sulla natura giuridica o meno di questi trattati. Per l’affermazione, pur essendo intese che possono essere revocate unilateralmente in qualsiasi momento, Picone afferma che esse hanno la capacità di sospendere l’efficacia delle convenzioni precedenti sullo stesso oggetto; inoltre, in caso di revoca lo Stato si troverebbe nell’impossibilità di annullare retroattivamente le conseguenze verificatesi nel periodo di validità del trattato. Per quanto riguarda i trattati segreti , di solito vietati dal diritto interno, non sembra possa negarsi la loro validità quando gli Stati consentono ai propri organi di condurre accordi riservati, a meno che la natura non vincolante dell’intesa risulti da altra fonte. Per quanto riguarda i soggetti che possiedono una competenza a stipulare accordi in forma semplificata, le norme variano da ordinamento ad ordinamento. In genere le norme costituzionali elencano i limiti nel concludere questo tipo di intese. Per l’Italia si può ritenere che la forma semplificata può essere scelta in tutte le materie , ad eccezione di quelle elencate nell’art.80 Cost.( trattati di natura politica che prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, che comportano variazioni del diritto internazionale). Ci occupiamo ora dei trattati conclusi in violazione di norme interne sulla competenza a stipulare. La fattispecie si verifica quando un organo di un Paese si impegna, concludendo in qualsiasi modo un accordo, ma lo fa non rispettando le procedure previste dal proprio diritto interno. Ci si chiede se il trattato sia egualmente valido o se l’inosservanza delle norme interne si traduca in un vizio della volontà dello Stato contraente, e quindi, in una conseguente nullità dell’intesa. Il problema nacque nel passaggio dalle monarchie assolute a quelle costituzionali, quando accanto al sovrano assoluto, potere unico, si affiancarono il potere esecutivo e il potere legislativo. E oggi in Italia, la questione si riflette proprio nei rapporti che intercorrono tra Governo e Parlamento. Si è verificato che l’esecutivo ,adducendo motivi di opportunità di politica internazionale, abbia impegnato lo Stato senza ascoltare il Parlamento, quando, invece ne sarebbe occorso l’intervento, soprattutto negli accordi in forma semplificata, dato che la procedura in forma solenne prevede che la partecipazione formale e allargata e , quindi, il controllo reciproco dei vari poteri dello Stato . ( es. domanda d’ammissione all’Onu del 1947 fatta dal Ministro degli Esteri e accolta nel 1955) . Accanto alle posizione diverse e contrastanti sull’argomento della dottrina, si pone la soluzione data dalla Convenzione di Vienna (1969) all’art.46 : Il consenso espresso in violazione delle norme del diritto internazionale sulla competenza non può essere invocato dallo Stato come vizio del suo consenso, a meno che la violazione non sia manifesta e con concerna una regola del suo diritto interno di importanza fondamentale , Una violazione è manifesta se è obbiettivamente evidente per qualsiasi Stato che si comporti in materia secondo la prassi abituale e in buona fede. Interpretando la norma, il CONFORTI ritiene che la violazione si ha solo quando sull’accordo non si è pronunciato uno degli organi a cui la Costituzione assegna un potere decisionale effettivo . per la stipulazione degli accordi internazionali; ad esempio, quando il Parlamento italiano non si pronuncia nelle materie elencate dall’art.80 Cost. l’accordo concluso dal Governo senza la relativa competenza costituzionale è quindi, un intesa priva di carattere giuridico che vale finché vale. La situazione è sanabile nel momento in cui l’organo che non si è pronunciato esprime l’assenso nelle forme previste dalla Costituzione. Spesso vi sono degli accordi intermedi, tra quelli in forma solenne e in forma solenne , ma che dimostrano come il Governo, quando conclude patti in materie di competenza di altri organi, normalmente si preoccupa di avere il consenso di questi ultimi. In seguito varie iniziative di alcune Regioni italiane, è sorta la questione sull’esistenza o meno del diritto delle Regioni a concludere accordi internazionali. Sulla posizione iniziale della Corte Costituzionale contraria alla competenza regionale internazionale ( sentenza 1975) si è innestato il D.P.R. 616/1977 che ha ribadito la riserva dello Stato dei rapporti internazionali, anche nelle materie trasferite e delegate dall’ente territoriale , affermando il divieto per le Regione di svolgere attività promozionale all’estero senza il preventivo assenso del Governo. Tale posizione è stata confermata dalla Consulta nelle pronunce emesse tra gli anni ’80 e ’90 , in cui si afferma che le Regioni, con l’assenso del Governo, possono stipulare intese di rilievo internazionale e addirittura veri e propri accordi che impegnano la responsabilità dello Stato, con l’unica esclusione per le materie contenute nell’art.80 Cost. Il nuovo art. 117 Cost. prevede la possibilità per le Regioni , nelle materie di propria competenza , di concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali di altri Paesi nei casi con le forme disciplinate dalla legge. In ogni caso, per il CONFORTI, negli accordi internazionali le Regioni vanno considerate come organi dello Stato con competenza a stipulare, mentre non si può affermare la giuridicità di altre iniziative tese a creare rapporti di collaborazione con enti stranieri. Non sono accordi di diritto internazionale, perché risultano essere solo occasioni di applicazione di atti legislativi e amministrativi interni in attuazione della collaborazione concordata. Allo stesso modo vanno considerate le intese tra enti territoriali minori che sono meri programmi che portano all’applicazione di atti amministrativi interni, cioè hanno una rilevanza non statale, ma locale. Hanno invece giuridicità internazionale quegli accordi stipulati autonomamente tra Regioni, per esplicita volontà degli Stati contraenti, in esecuzione dei trattati internazionali. Agli accordi stipulati dalle organizzazioni internazionali, tra loro o tra loro e Stati membri o terzi, è dedicata la Convenzione di Vienna del 1986, i cui principi riproducono quelli contenuti in Vienna 1969. Lo Statuto di ogni organizzazione consente di identificare gli organi che hanno competenza a stipulare e in quali materie questo potere si applica. L’inosservanza di tali norme comporta l’invalidità dell’accordo concluso. Anche per questa Convenzione del 1986 ( art.46) è causa di invalidità la violazione di norme dell’organizzazione di importanza fondamentale sulla competenza a stipulare. L’inefficacia dei trattati nei confronti degli Stati terzi. L’incompatibilità tra norme convenzionali. Il trattato, fa legge tra le parti e solo tra le parti. Diritti e obblighi per Stati terzi non potranno derivare da un trattato, se non attraverso la partecipazione degli Stati terzi all’accordo stesso; una partecipazione che non sia adesione che, come abbiamo visto inserisce a pieno titolo lo Stato aderente tra i contraenti dell’intesa. Occorre, quindi, che diritti e obblighi per lo Stato terzo, discendenti da un trattato, per essere efficaci siano sottoposti all’accettazione, anche implicita, del medesimo. Quando in un trattato, i contraenti si impegnano a tenere comportamenti vantaggiosi per il terzo, tali vantaggi, finché non si trasformino in diritti attraverso la partecipazione del terzo, possono sempre essere revocati, anche senza la stipulazione di un nuovo accordo, anche solo con la negazione di tali vantaggi in ordine a casi concreti. Anche la Convenzione di Vienna (1969) negli art. 34-37 ribadisce il principio della partecipazione, affinché il terzo assuma diritti o obblighi derivanti da un trattato tra altri Stati contraenti, con i seguenti principi : Necessità del consenso del terzo ad obblighi e diritti; Volontà dei contraenti a creare un obbligo e necessità di assenso scritto del terzo; Consenso presunto in caso di assegnazione di un diritto, a meno che non vi siano indicazioni contrarie o il trattato preveda diversamente; Revocabilità in qualsiasi momento del diritto accettato, a meno che non sia stata stabilita la sua irrevocabilità. Quando il trattato viene sostituito da un altro trattato sulla stessa materia e tra gli stessi contraenti, i rapporti tra gli Stati sono regolamentati dal nuovo accordo, ma, quando i contraenti dei due trattati non coincidono, possono sorgere problemi relativi al fatto che uno Stato, impegnato con il primo trattato a tenere un determinato comportamento, col secondo potrebbe obbligarsi a tenerne uno contrario; inoltre, alcuni Stati di un trattato multilaterale possono modificare o abrogare, con un’intesa successiva, alcune disposizioni che toccano anche i rapporti con gli altri contraenti. In questi casi, si può andare incontro al problema dell’ incompatibilità fra norme convenzionali. I problemi relativi vanno risolti combinando i principi della successione dei trattati e dell’inefficacia dei trattati nei confronti di terzi. Tra gli Stati contraenti di entrambi i trattati, l’accordo successivo prevale su quello precedente. ( CRITERIO CRONOLOGICO )Lo Stato contraente dei due trattati sarà obbligato a due comportamenti e, quindi, dovendone sceglierne uno, incorrerà comunque in un illecito internazionale nei confronti degli Stati del primo trattato o nei confronti del secondo. Sarà quindi internazionalmente responsabile. Discorso a parte va fatto per l’art.103 della Carta dell’Onu, che considera prevalenti gli obblighi derivanti dalla Carta su quelli di qualsiasi altro accordo internazionale. Si potrebbe giudicare puramente velleitaria questa pretesa, in quanto una norma convenzionale può essere sempre abrogata da accordi successivi, ma questa regola è ormai diventata norma consuetudinaria e va considerata ius cogens. La Convenzione di Vienna ( 1969) ricalca più o meno la medesima disciplina nei seguenti paragrafi dell’art. 30 sull’applicazione dei trattati nel tempo : Par.3 Tra due Stati il trattato anteriore si applica solo nella misura in cui le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore ; Par.4 Quando le parti del trattato anteriore non sono tutte parti contraenti del trattato posteriore: Nelle relazioni tra GLI Stati che partecipano ad entrambi i trattati, si applica il paragrafo 3 ; Nelle relazioni tra uno Stato partecipante ad entrambi i trattati ed uno Stato contraente di uno solo, il trattato di cui i due Stati sono parti regola i loro diritti e obblighi reciproci ; ART. 41 : Due o più parti di un trattato multilaterale non possono concludere un trattato che miri a modificare il primo, sia pure limitatamente ai loro rapporti, quando la modifica è vietata dal trattato, oppure, pregiudica le altre parti contraenti, o, in più , è incompatibile con la realizzazione dell’oggetto e dello scopo del trattato multilaterale stesso. Il testo dell’art.41 appare ambiguo, poiché sembra accogliere la tesi dell’invalidità dell’accordo successivo che viola gli obblighi assunti verso le altre parti del primo accordo. Tuttavia, questa ipotesi è smentita dai lavori preparatori della Convenzione e anche dal fatto che il caso previsto dall’art.41 non figura tra le cause di invalidità dei trattati in Vienna 1969. Si può concludere che l’art.41 risolve il problema solo in termini di illiceità e responsabilità internazionale degli Stati contraenti dell’accordo successivo verso le altre parti del trattato multilaterale. In realtà, gli Stati cercano di evitare situazioni del genere inserendo negli accordi le cosiddette clausole di compatibilità o clausole di subordinazione che risolvono il problema alla radice. Secondo l’art.30 , par.2, della Convenzione (1969), quando un trattato precisa che esso è subordinato ad un trattato anteriore o posteriore, le disposizioni di quest’ultimo prevalgono. In ogni caso, a queste clausole, spesso si accompagna l’impegno delle parti ad intraprendere tutte le azioni necessarie, lecite e idonee per sciogliersi da obblighi incompatibili. Es. art. 307 della CE. Le riserve nei trattati. Attraverso l’istituto della riserva , lo Stato esprime la volontà di : Non accettare alcune clausole del trattato; Accettare alcune clausole con talune modifiche ; Accettare alcune clausole secondo una certa interpretazione espressa attraverso la cosiddetta dichiarazione interpretativa. La dichiarazione interpretativa di non accettare una o più norme di un trattato, se non in un certo significato, rende non opponibile allo Stato dichiarante altre interpretazioni della norma. Parte della dottrina distingue tra dichiarazioni interpretative qualificate o condizionate, che sono vere e proprie riserve , e dichiarazioni interpretative semplici, che sarebbero solo una proposta di interpretazione, mirante ad evitare il consolidarsi di una prassi, favorirla o inaugurarla. L’ammissione delle riserve ha lo scopo di consentire la più larga partecipazione possibile nei trattati multilaterali. Invece, nei trattati bilaterali, la parte che non vuole assumere più certi impegni può proporre direttamente la cancellazione dal testo della clausola su cui c’è diversità di opinione. Molto meno elastica era la situazione nel diritto internazionale classico. La possibilità di apporre riserve doveva essere già concordata nella fase della negoziazione e la riserva stessa doveva figurare nel testo predisposto dai plenipotenziari. A questo punto gli Stati potevano scegliere se ratificare o meno. Formulare riserve non previste nel testo, impediva la formazione del consenso, comportava l’esclusione dello Stato dal novero dei contraenti. Un cambiamento decisivo è dovuto al parere della Corte Internazionale di Giustizia ( 28.05.1951), in risposta ad una richiesta dell’Assemblea Generale dell’Onu circa la possibilità di apporre riserve alla Convenzione sul genocidio, che non prevedeva tale clausola. Con un principio oggi entrato nella prassi, la Corre rispose che una riserva poteva essere formulata nell’atto della ratifica, anche se la facoltà non era prevista dalla Convenzione, purché essa fosse compatibile con l’oggetto e lo scopo del trattato. Un altro Stato può, comunque, contestare la riserva e la sua compatibilità con lo spirito del trattato e, se non si raggiunge un accordo sul punto, il trattato non è esistente tra Stato contestante e Stato autore della riserva. A questa linea flessibile è ispirata la disciplina sulla riserva suggerita dalla Convenzione di Vienna del 1969 . Art. 19 : una riserva può essere sempre formulata, purché non espressamente esclusa dal trattato e perche non incompatibile con l’oggetto e lo scopo dello stesso; Art. 20: quando la riserva non è prevista nel testo del trattato, essa può essere contestata da un altro contraente, ma, se la contestazione non viene manifestata entro 12 mesi dalla notifica della riserva ai contraenti, la riserva si ritiene accettata; Art. 20-21 : L’obiezione ad una riserva non impedisce che essa esplichi i suoi effetti nei rapporti tra lo Stato formulante e lo Stato obiettante, a meno che quest’ultimo non abbia espresso la chiara e manifesta intenzione di impedire che il trattato entri in vigore nei rapporti tra i due Stati. La tendenza innovatrice si ricava dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani che, in caso di formulazione di riserva inammissibile ( esclusa dal testo, contraria all’oggetto e allo scopo del trattato), afferma che lo Stato formulante non viene escluso dal trattato, ma unicamente la riserva è invalida e deve ritenersi come non apposta. Tuttavia, non è possibile per ora estendere a tutti i trattati questa interpretazione, rivolta specificamente alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, fondamentale strumento per la difesa delle prerogative dell’essere umano e, quindi, da non sottoporre più di tanto a tentativi di modifica. Può accadere che sorgano problemi circa la competenza a formulare riserve. Il problema va risolto analizzando i vari testi costituzionali. In Italia, la questione si è già posta, quando il Governo ha aggiunto di sua iniziativa riserve non concordate col Parlamento. Parte della dottrina ritiene ammissibile un’ipotesi del genere, o anche che il Governo non tenga conto di una riserva espressa dal Parlamento nella legge di autorizzazione, assegnando all’esecutivo il ruolo di gestore dei rapporti internazionali. Altra parte della dottrina è invece di parere contrario, giudicando essenziale la collaborazione dei due organi per la formulazione della volontà statale. Alla collaborazione tra Governo e Parlamento è ispirato l’art. 80 Cost. Per il CONFORTI, l’apposizione di una riserva da parte del Governo, all’atto della ratifica è valida per il diritto costituzionale e anche per il diritto internazionale. In caso, invece, di non dichiarazione del Governo di una riserva voluta dal Parlamento e contenuta nella legge di autorizzazione, per la parte coperta dalla riserva sarà ipotizzabile una violazione del diritto interno. Lo Stato, quindi, non rimarrà impegnato per quella parte del trattato, a meno che il Parlamento non revochi la riserva. L’interpretazione dei trattati . L’attività interpretativa dei trattati, che consente di comprendere le volontà espresse nel testo dell’accordo, ha portato all’abbandono del metodo subbiettivistico per il quale, sulla sorta della disciplina dei contratti nel diritto interno, ha rilievo la volontà effettiva delle parti come contrapposta a quella dichiarata. Ora la regola generale si rifà al metodo obbiettivi stico , per quale si deve attribuire attribuire al trattato il senso che appare palese nel testo dalla sua costruzione logica, in armonia con l’oggetto e con la funzione dell’atto. La Convenzione di Vienna si pronuncia a favore dell’ultimo metodo nei seguenti articoli : Art. 31 : Un trattato deve essere interpretato in buona fede, secondo il normale significato dei termini del testo, alla luce dell’oggetto e dello scopo del trattato stesso; si fa eccezione quando ad un termine può attribuirsi un significato particolare, se è certo che tale era l’intenzione delle parti ; Art. 32 : i lavori preparatori sono un mezzo supplementare di integrazione, quando il testo ha un significato ambiguo e oscuro e quando all’esame dello stesso deriva un significato assurdo o irragionevole; Art. 33 : Nel caso dei trattati redatti in più lingue, se la comparazione dei testi porta a differenze di significato ineliminabili attraverso gli strumenti interpretativi suddetti e se non è prevista la prevalenza di un testo, va comunque adottato il significato che meglio concilia le varie versioni tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato. Valgono poi quelle regole di teoria generale dell’interpretazione vigenti in quasi tutti gli ordinamenti e considerate, nell’ordinamento internazionale, principi generali del diritto, con lo scopo di favorire più che impedire, l’incontro tra le volontà degli Stati. Rispetto al passato ha preso piede il criterio dell’interpretazione estensiva e di un aspetto particolare di essa come l’analogia. In definitiva si va verso la ricerca del senso letterale del testo e quasi mai verso l’idea di sovranità dello Stato che, invece, porterebbe ad un’interpretazione restrittiva. Un’applicazione di questi principi è ravvisabile nella teoria dei poteri impliciti , applicata dalla Corte Internazionale di Giustizia in fase di interpretazione della Carta dell’Onu, più che come accordo va visto come costituzione, per cui ogni organo dell’istituzione dispone non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per l’esercizio di tali poteri. Questa teoria, considerando la generalità e l’indeterminatezza di molti fini dell’organizzazione, ha spesso portato ad ampliare notevolmente i poteri degli organi delle Nazioni Unite. Questa teoria spesso utilizzata nei diritti interni, ha assunto grande importanza anche nella Comunità Europea. Nel trattato istitutivo, l’art.308 ammette che quando un’azione della Comunità , non prevista dall’accordo, è necessaria per raggiungere uno degli scopi prefissati dall’organizzazione, il Consiglio, su parere del Parlamento, può votare all’unanimità le disposizioni del caso, ampliando i poteri degli organi interessati. Tuttavia, questa norma sembra non accogliere la teoria degli organi impliciti, poiché l’ampliamento dei poteri viene fatto non su base interpretativa, ma con una deliberazione ad hoc dell’organo rappresentativo di tutti gli Stati. Difatti, la corte di Giustizia ha invece scavalcato l’art.308, ricavando i poteri impliciti direttamente dalle norme del trattato. Secondo il CONFORTI, questa teoria è eccessivamente estensiva. Contraria alle interpretazioni unilateralistiche, cioè che una norma di diritto internazionale possa assumere significati diversi a seconda dello Stato contraente, è Vienna 1969. Infatti, è significativo, nel novero di queste norme richiamate come ausilio interpretativo, essa non includa le norme di diritto interno. Insomma per favorire l’incontro delle volontà degli Stati contraenti, va rifiutata ogni interpretazione unilateralistica che non sia autorizzata dall’accordo stesso e va invece ricercato per ogni clausola un significato unico. L’esigenza di evitare le interpretazioni unilateralistiche, è stata ultimamente avvertita, in sede di stipulazione dei cosiddetti accordi di diritto uniforme, ossia quelle intese con cui gli Stati si impegnano a regolare allo stesso modo settori del diritto privato, del diritto privato internazionale e del diritto processuale. La successione degli Stati nei trattati. La successione nel diritto internazionale avviene quando uno Stato che, si sostituisce per motivi più vari ad un altro nel governo effettivo di una comunità territoriale, assume vincoli derivanti dai trattati stipulati dal precedente regime. La sostituzione può avvenire nelle seguenti maniere : Cessione : La parte del territorio di uno Stato viene consegnata e passa sotto la sovranità di un altro Stato già esistente; Conquista : la parte del territorio di uno Stato passa sotto la sovranità di un altro Stato già esistente che ne prende il possesso ; Distacco consensuale : la parte del territorio di uno Stato si costituisce in Stato indipendente con l’accordo delle parti ; Incorporazione : l’intero territorio di uno Stato è soggetto ad inglobazione in un altro Stato ; Fusione : l’intero territorio di uno Stato si unisce ad un altro Stato, per formare un’entità del tutto nuova. Rivoluzione : la parte del territorio di uno Stato è soggetto si costituisce in Stato indipendente in seguito a rivolgimenti politici ; Smembramento o secessione : dal territorio di uno Stato si formano più Stati nuovi >; Radicale cambiamento di regime : in seguito a rivolgimenti politico-sociali un nuovo Governo si sostituisce in toto a quello esautorato. ( ipotesi non riconosciuta da tutta la dottrina) All’argomento è dedicata la Convenzione di Vienna 1978 , sulla successione degli Stati nei trattati. Essa si applica a tutte le successioni intervenute dopo l’entrata in vigore della stessa , ma uno Stato successore può chiederne l’applicazione ad una successione avvenuta precedentmeente. Un principio della prassi comunemente accettato anche da Vienna 1978 , è res transit cum suo onore, per cui uno Stato che si sostituisce ad un altro è vincolato dai precedenti trattati localizzabili, ovvero accordi e clausole di accordi di natura reale che riguardano l’uso di determinate parti del territorio. Di solito si fanno rientrare in questa categoria anche gli accordi che fissano le frontiere, ma per, il CONFORTI, queste intese, esauriscono i loro effetti nel momento in cui la frontiera viene determinata, dopo di che a dover essere rispettato non è l’accordo, ma il principio consuetudinario, del rispetto dei diritto di sovranità che ciascun Paese esercita all’interno dei propri confini.