Academia.eduAcademia.edu

1969 e dintorni

2010

Storia e memoria Il 1969 e dintorni Analisi, riflessioni e giudizi a quarant’anni dall’«Autunno caldo» a cura di Pietro Causarano, Luigi Falossi, Paolo Giovannini Il volume origina dal Convegno «1969-2009. Analisi, riflessioni e giudizi a quarant’anni dall’Autunno caldo». La copertina è di Silvano «nano» Campeggi. © Copyright Ediesse s.r.l., 2010 Viale di Porta Tiburtina, 36 - 00185 Roma 06/44870283-325 Fax 06/44870335 www.ediesseonline.it ediesse@cgil.it Progetto grafico: Antonella Lupi Il 1969 e dintorni A Vittorio Foa, nostro amico e compagno Vogliamo ringraziare: l’Assessorato alla Cultura della Regione Toscana; la Provincia di Firenze; il Comune di Firenze; la CGIL Toscana; la Camera del lavoro Metropolitana di Firenze. È per la loro generosità che abbiamo potuto realizzare questo convegno. Nuovamente, grazie. Si ringraziano poi con particolare trasporto: – Martina Parrini che, fra le altre cose, ha perso il sonno per fare l’indice dei nomi; – Gabriele Salani e Silvio Berlingeri che hanno aiutato ogni volta che è stato necessario. Indice Premessa di Luigi Falossi 13 Introduzione di Pietro Causarano e Paolo Giovannini 17 PARTE PRIMA Il 1969: la centralità della classe operaia nel conflitto politico-sociale 1969 e dintorni di Marcello Flores 29 La nascita del sindacato dei consigli: la piattaforma contrattuale unitaria dei metalmeccanici nel 1969 di Fabrizio Loreto 37 I fatti L’interpretazione Conclusioni 38 43 45 1969. La centralità della fabbrica di Lorenzo Bertucelli 47 Una premessa Il biennio ’68-69: studenti e operai 47 48 Operai comuni e operai sindacalizzati Il rapporto con il sindacato e le nuove forme di rappresentanza Successi e limiti dell’azione confederale: dopo il 1969 50 51 54 Flessibilità del lavoro, centralità dell’impresa. La reazione del padronato all’Autunno caldo di Francesco Petrini 57 La reazione del padronato Le misure economico-strutturali: la politica economica Le misure economico-strutturali: il decentramento La «battaglia delle idee» Conclusione 58 60 61 65 69 1969. Dalle storie separate alla storia della democrazia italiana di Luca Baldissara 71 Lavoro e democrazia nell’Italia repubblicana Le linee di frattura del ’69 73 78 PARTE SECONDA Il cuore del 1969 Dopo il 1969: cosa cambia nelle relazioni industriali di Franca Alacevich La forza di innovazione dell’Autunno caldo Nuove forme di azione collettiva Nuove forme di organizzazione e trasformazione del sindacato Nuovi rapporti tra forze sindacali e partitiche Una nuova cultura del lavoro Nuove forme di partecipazione, di democrazia La reazione dello Stato e delle imprese Le conquiste del ’69: cosa rimane e cosa si è perso? La lezione del ’69: rileggere per reimparare La sorpresa Mettersi in gioco 85 86 87 88 89 90 91 91 92 94 94 95 L’egualitarismo: non solo salario di Gian Primo Cella 97 Egualitarismo e sindacato L’egualitarismo del 1969 97 99 La salute non si vende (e neppure si regala): la linea sindacale per la salute in fabbrica di Franco Carnevale, Pietro Causarano Un modello operaio di lotta alla nocività Il modello si afferma La linea sindacale a confronto con la ricerca scientifica L’epilogo di una stagione 103 103 110 115 120 L’Autunno caldo, i diritti e la fabbrica di Maria Paola Monaco 123 «Il sindacato siamo noi». Democrazia e partecipazione oltre il 1969 di Andrea Sangiovanni 137 PARTE TERZA Fabbrica, società e territori La scoperta del territorio di Paolo Giovannini 153 L’uomo a due dimensioni. I tecnici nell’Autunno caldo, tra identità professionale e lotte sociali di Christian G. De Vito 161 I tecnici «dimezzati» I tecnici, la classe operaia e le altre soggettività emergenti Proposta di comparazione: i tecnici nel movimento antimanicomiale e nei movimenti sul carcere «Vecchi» e «nuovi» movimenti sociali? 161 168 173 179 La scuola e la fatica di Pietro Causarano 183 La scuola, il lavoro e il 1969 183 Cosa è stato prima Cosa sarà dopo Il 1969 come collettore e come incubatore Contro il lavoro come fatica, contro la scuola come sacrificio 186 191 197 201 Il 1969 a Torino: il conflitto industriale nella città-fabbrica di Stefano Musso 205 I caratteri di Torino Torino nel ciclo lungo della mobilitazione operaia Una conflittualità inattesa 1968 e 1969: dalle pensioni al rinnovo contrattuale Delegati e democrazia sindacale L’eredità del 1969 205 206 211 213 216 219 Il Nord-est delle grandi imprese familiari: Marzotto, Zanussi e Zoppas di Giorgio Roverato 223 Premessa Profilo delle tre aziende I distinti contesti socioeconomici Il ’68 alla Marzotto: anticipazione dell’Autunno caldo? Le lotte operaie a Pordenone La Zoppas di Conegliano Una (brevissima) conclusione 223 224 227 229 237 243 246 L’Italsider da Taranto a Genova di Antonio Lettieri 249 PARTE QUARTA Spigolature Sì, anche il diritto di suonare il clavicembalo! di Catia Sonetti Dal nostro presente La grande fabbrica metalmeccanica nella ricostruzione del discorso storiografico e problemi connessi Il rapporto con i partiti Quello con le donne 259 259 260 265 269 Cipputi + Cipputi = Cipputi di Paolo Franco 271 Il 1969 degli economisti di Riccardo Bellofiore 275 Postfazione I giovani e l’Autunno caldo quarant’anni dopo di Matteo Baragli 283 Il 1969 e dintorni: la dispensa FIOM e altri strumenti a cura di Franco Carnevale 297 Le autrici e gli autori 325 Indice dei nomi 327 Premessa di Luigi Falossi È con un certo orgoglio, credo legittimo, che cerco brevemente di presentare questo libro. Intanto è importante perché c’è. In una fase in cui la Memoria storica è stata non solo dimenticata ma addirittura seppellita (e, com’è consequenziale, nella tomba accanto c’è il Futuro) impegnarsi a discutere di fatti successi quaranta anni fa è cosa buona e meritoria. Anche perché non si tratta di reminiscenze di qualche anima stravagante in vena di confidenze sulla propria gioventù ma di riflessioni pensate, documentate e qualche volta sofferte su un anno «spartiacque», dopo il quale niente sarà più come prima. Il «’69» è prioritariamente operaio e italiano. Non che altri paesi europei siano stati assenti ma, fatta salva l’Italia, essi erano principalmente debitori del ’68 studentesco più che possessori di un proprio progetto indirizzato anche sull’avvenire. Finito il movimento degli studenti sono finite anche le lotte operaie. Invece in Italia il «’69» è il punto di arrivo di un lungo percorso avviato subito dopo una clamorosa sconfitta (l’abbattimento della FIOM alle elezioni della commissione interna della FIAT) e perseguito tenacemente da gruppi dirigenti particolarmente capaci di guardare anche dietro l’angolo. Non è che la classe operaia italiana abbia ignorato il movimento degli studenti. Il «’68», anche in virtù di una sua dimensione internazionale capace di aprire una nuova fase storica, ha influenzato in vario modo il pensiero e l’azione di lavoratori e sindacati, portando soprattutto allo scoperto le contraddizioni e anche la difficoltà di controllo delle borghesie nazionali (all’epoca, gli studenti universitari non erano certo figli di operai!) e rompendo la ferrea autorità gerarchica che presiedeva ai rapporti sociali e a quelli familiari. Ma il punto principale è che questo percorso è progredito e si è sviluppato perché basato sulla capacità di produrre autonomamente il proprio progetto politico. Compiere quelle scelte e perseguirle nel paese dove era profondamente insediato il più importante Partito comunista dell’Europa occidentale non è stata cosa facile. Però è stata la condizione primaria per determinare successivamente le caratteristiche del «’69» e per durare nel tempo, producendo 13 LUIGI FALOSSI politica rivendicativa e modelli organizzativi e di rappresentanza democratici e partecipati, realizzati anche con profondi mutamenti dei vecchi assetti e delle vecchie dipendenze (prima fra tutte, il placet dei partiti della sinistra per la CGIL e della DC per la CISL su tutta la politica del sindacato). Credo però che sarebbe errato pretendere dal «’69» tutte le risposte a ciò che sono stati questi quarant’anni: il suo valore principale sta in realtà nell’aver provocato le domande predisponendo contemporaneamente il terreno affinché queste domande fossero esaudite. Ed è proprio in virtù di un pensiero e di una prassi esplicitamente anticorporative che l’arco delle domande indotte dalle lotte del «’69» ha coinciso in gran parte con l’arco dei bisogni sociali, di liberazione, di libertà dai vincoli autoritari e dalle consuetudini (penso principalmente alle questioni di genere che, non a caso, sono esplose beneficamente qualche anno dopo), di superamento delle barriere nazionali e nazionaliste. È la continuità delle lotte oltre il «’69» che ha permesso di affrontarne e superarne i limiti che potevano derivare dall’essere contemporaneamente un punto di arrivo e un punto di partenza: per fare un solo esempio, l’essersi appoggiato principalmente alla grande azienda, fatto assolutamente indispensabile, ma ignorando un po’ la piccola e media, è un limite che proprio la continuità ha poi permesso di superare. Però se pensiamo, in estrema ma emblematica sintesi, a due questioni dirimenti che il «’69» ha fatto emergere, promosso e affrontato, forse possiamo superare questa critica più o meno esplicita al fatto che il movimento non è stato sempre risolutivo. Prima di tutto, il tema della «divisione del lavoro». Il «’69» ha portato avanti e in certi momenti ha condotto a realizzazione l’«utopia» di un lavoro e di un uomo indivisi nei quali si alternano e convivono pratiche manuali e pratiche intellettuali e cessano le relazioni di dominio e di subordinazione che si producono nei processi storicamente determinati di divisione del lavoro. Secondo, e non meno importante, il tema della «democrazia e partecipazione». Come tutti i movimenti il «’69» produce cultura e pratiche di azione nuove (lo si vede con chiarezza anche nella costruzione delle piattaforme) ma nello stesso tempo si dimostra capace di rinnovare il rapporto fra base e leadership su quel terreno di partecipazione democratica e di controllo decisionale dal basso sul quale spesso si arenano le speranze di cambiamento. Pensare il grande e agire in grande: non è facile ma è indispensabile, altrimenti la storia la fanno gli altri e contro di noi. Buona lettura. 14 Questo libro riproduce, con modifiche e integrazioni, gli atti del convegno «1969-2009. Analisi, riflessioni e giudizi a quarant’anni dall’‘Autunno caldo’», Riteniamo necessario informare i lettori almeno delle principali variazioni intervenute rispetto al programma originario del convegno. Di seguito: a) Vittorio Angiolini (previsto come relatore di «una rivendicazione di qualità: i diritti») non ha potuto partecipare. Data l’importanza dell’argomento, abbiamo ritenuto opportuno chiedere a Maria Paola Monaco una sua relazione sullo stesso argomento. La risposta è stata positiva e di ciò la ringraziamo; b) non abbiamo pubblicato gli interventi effettuati nella tavola rotonda finale perché alcuni di essi si erano eccessivamente discostati dagli argomenti proposti; c) abbiamo però chiesto a Riccardo Bellofiore (partecipante alla tavola rotonda) di fornirci un suo elaborato – da economista – sul periodo considerato dal convegno; d) nel dibattito sono intervenuti Paolo Franco (ex segretario nazionale FIOM in pensione) e Catia Sonetti (insegnante, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Livorno): ambedue hanno accettato che i loro interventi fossero pubblicati; e) il libro si conclude con una Postfazione (inizialmente non prevista) affidata a Matteo Baragli, giovane e valente storico, ma studioso soprattutto di altri temi, nel tentativo di capire come l’argomento del convegno sia trattato nella scuola di oggi. I lettori giudicheranno. A noi non resta che ringraziare – e molto – Matteo per la sua disponibilità e per la qualità del suo contributo. 15 Introduzione di Pietro Causarano e Paolo Giovannini Questo volume dà conto dell’ultimo di una serie di importanti appuntamenti che in questi anni hanno visto l’impegno prioritario e spesso esclusivo dell’Associazione Biondi Bartolini nella riflessione sulla storia e la memoria del movimento operaio1. Che fosse inevitabile e urgente approntare un dibattito libero e aperto, anche disciplinarmente, come è nella tradizione di lavoro dell’Associazione, su cosa abbia significato il 1969 nella storia e nella società italiana e quale eredità sia ancora oggi avvertibile alla distanza di quattro decenni, lo dimostra se non altro la ricchezza e la varietà dei contributi qui raccolti2. Senza pretendere di presentare tutte le questioni affrontate nel libro, cercheremo però in questa Introduzione di soffermarci almeno sui principali punti di discussione, e soprattutto di avanzare alcune domande che possano aprire piste di riflessione ulteriore in futuro. Come apparirà chiaro al lettore, l’obiettivo che sta alla base di questo libro, che non è mai stato pensato in una chiave meramente commemorativa, è quello di capire ciò che è ancora vivo e ciò che invece è morto del 1969. Qualcuno, molto pessimisticamente, sostiene la tesi che molto o quasi tutto sia morto, ma tenendo aperta comunque una strada alla speranza, come fa ad esempio Franca Alacevich nel suo intervento, ma come fanno anche molti altri, interessati a capire quanto di quelle vicende ed esperienze parli ancora all’oggi e quanto invece ormai sia definitivamente muto3. 1 Ricordiamo, tra i principali, i convegni e le successive pubblicazioni: Metalmeccanici fiorentini del dopoguerra, Ediesse, Roma 2002; I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto, Ediesse, Roma 2006; Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali. Il Novecento italiano, Ediesse, Roma 2008. 2 La gran parte di essi costituisce la rielaborazione degli interventi tenuti l’8 e il 9 ottobre 2009 a Firenze in occasione del convegno nazionale su «1969-2009. Analisi, riflessioni e giudizi a quarant’anni dall’‘Autunno caldo’», su iniziativa – oltre che dell’Associazione Biondi Bartolini – della CGIL Toscana e della Camera del lavoro di Firenze. 3 Per questa ragione è interessante la Postfazione che abbiamo voluto mettere alla fine del volume, scritta da un giovane ricercatore (Matteo Baragli), testimone anagraficamente tutto posteriore a quella storia. 17 PIETRO CAUSARANO E PAOLO GIOVANNINI Richiamiamo velocemente i punti fondamentali per la riflessione. Flores, nel suo saggio di apertura (1969 e dintorni) ne sottolinea in particolare uno, che viene richiamato anche da altri (ad esempio da Francesco Petrini nel suo intervento sulla reazione del mondo imprenditoriale all’Autunno caldo): cioè il fatto che il 1969 è caratterizzato da una sua specificità italiana, pur non dimenticando il livello internazionale nel quale si colloca, anche se in minor grado a confronto con l’altro anno fatidico della fine del millennio scorso, il 1968. Mentre il 1969 si caratterizza dunque per essere fortemente radicato prima di tutto nella società italiana dell’epoca e nelle sue contraddizioni, il 1968 è stato indubbiamente un movimento immerso in forma più generalizzata a livello internazionale, anche in termini di suggestioni e rimandi, e questo potrebbe forse già essere spunto per qualche considerazione futura sull’impatto che i due momenti hanno avuto sulla società italiana4. La seconda osservazione riguarda gli attori sociali del movimento del 1969. Quasi tutti i contributi concordano nel ritenere che gli attori sociali fondamentali siano le nuove generazioni di studenti, da una parte, e di operai comuni (anche essi giovani), dall’altra. Molti poi riflettono sull’incontro di queste due differenti generazioni, che si fanno anche portatrici di interessi «di classe» e di valori diversi. Esse sono state, a parere di molti, non solo protagoniste assolute del movimento del 1969, ma anche fecondatrici del movimento, pur se in modi e con partecipazioni e apporti diversi. Il 1969 viene insomma letto da tutti, come crediamo sia vero, nei termini di un tempo che scuote e dà un’impronta allo sviluppo e alla storia della società italiana, provocando una frattura che fa sì che quello che c’era prima sia radicalmente diverso da quello che c’è dopo. Il 1969 si è fatto dunque portatore di una storica proposta di trasformazione, che forse però, come molti sottolineano, non ha avuto grandissimi risultati, almeno rispetto al livello di complessità e di carica utopica delle idee che venivano avanzate e delle aspettative di mutamento ad esse correlate; ma che sicuramente ha prodotto un forte bisogno di cambiamento sulle cui ragioni bisognerebbe riflettere, così come va compreso il perché sia risultato sostanzialmente non vincente, almeno secondo quella che è l’interpretazione prevalente in queste pagine. Sul piano politico è stato sicuramente non vincente, come emerge chiaramente da molti interventi: così come il 1968, anche il 1969 ha avuto scarsi effetti politici. Forse ne ha avuti di più sul piano istituzionale della forma di Stato, se pensiamo ad esempio alla maturazione del regionalismo proprio in quegli anni, per quanto poi in modalità talvolta incompleta e contraddittoria. Mentre invece sono stati sicuramente rilevanti i risultati ottenuti sul piano delle trasformazioni di tipo culturale, che hanno cambiato la società italiana e le relazioni fra i cittadini dal punto di vista dei costumi e dei diritti civili, economici e 4 Contributi in questa direzione erano già sviluppati in M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 1998. Cfr. anche C. Donolo, «’68+’69». Ripensando la stagione dei movimenti, in Parolechiave, n.s. millenovecentosessantanove, n. 18, 1998, pp. 201-214. 18 INTRODUZIONE sociali (dal divorzio all’aborto, dal voto a 18 anni all’istituzione del Servizio sanitario nazionale e di un moderno sistema previdenziale e molte altre cose che sono opportunamente ricordate nei saggi che seguono e in particolare in quello di Maria Paola Monaco sullo Statuto dei lavoratori). Qui si aprono degli interrogativi, anche a confronto con la situazione di altri paesi, ad esempio, come osserva qualcuno, alla Francia. Rispondendo che in Italia la responsabilità principale della mancata risposta alle esigenze di trasformazione generale della società per molti versi è sicuramente stata prima di tutto del sistema politico, e di uno Stato incapace di rispondere in maniera riformatrice profonda alle istanze venute fuori dal 1968-69, e incapace inoltre di riformare se stesso, a differenza di quello che avevano saputo fare altri paesi. Una incapacità che in parte è conseguenza di quel biennio, per il fatto che lo Stato stesso, i suoi apparati, le sue strutture diventano terreno di scontro del conflitto in corso, anche in forme oscure e tragiche. Venendo ad argomenti più specifici. C’è un interrogativo fondamentale sollevato da Fabrizio Loreto, Franca Alacevich, Andrea Sangiovanni e da molti altri: che cosa è successo rispetto a quello che è il referente politico, sociale e istituzionale principale per quell’anno, cioè il sindacato? Nel 1969 ci troviamo di fronte ad una situazione nella quale convivono insieme più o meno veloci processi di declino e mutamenti innovativi molto rapidi, talvolta quasi improvvisi. Da una parte abbiamo avuto un rapido declino, almeno secondo molti, del contributo originale del movimento studentesco del 1967-68 nell’innesto con il movimento del 1969; dall’altra, invece, una nuova forza, autonoma, del movimento del 1969, una forza che è partita dalla base, in particolare dagli operai comuni, dal movimento dei delegati, ecc., cui ha corrisposto un rapidissimo declino del vecchio modo di fare sindacato, nell’impresa e fuori. Anche questa nuova forza operaia però ha subito a sua volta e abbastanza rapidamente, per diverse ragioni che sarebbe interessante analizzare, un processo di istituzionalizzazione – come capita quasi sempre ai movimenti sociali – con una diminuzione dell’intensità partecipativa e propulsiva del movimento di base stesso, che si era espresso prevalentemente in forme di democrazia diretta, a fronte di un’assunzione di nuova capacità direttiva, nell’arco di alcuni anni, del movimento sindacale organizzato su base rinnovata. Il quale, intendiamoci, ha saputo anche muoversi con una certa intelligenza, almeno questa è l’opinione comune, nei confronti del movimento dei delegati, principalmente attraverso un ricambio profondo, generazionale, dei quadri e dei dirigenti sindacali: facendo in un certo senso proprie – attraverso la cooptazione dei leader spontanei che erano sorti durante il movimento dei consigli di fabbrica del 1969-70 – le principali istanze della base. Questo processo di rinnovamento del personale sindacale, insieme ad altri fattori – per esempio lo spostamento rapido del movimento dei consigli dall’interno della fabbrica verso l’esterno della fabbrica, nelle città, nel territorio, più in generale nella società – ha finito per mettere le rappresentanze sindacali a 19 PIETRO CAUSARANO E PAOLO GIOVANNINI confronto con i problemi, meno conosciuti e meno praticati, delle riforme di struttura, delle politiche sociali, sanitarie, formative, ecc. Temi che indubbiamente erano poco adatti ad essere fronteggiati e governati dal movimento dei consigli e che erano invece più adatti, in prospettiva, ad essere fronteggiati e governati dalle rappresentanze organizzate e professionali del sindacato. Questo è un punto di grande interesse, su cui si può essere d’accordo o meno, ma che merita sicuramente attenzione. È del resto un problema ricorrente nella storia del sindacato, cioè quale soluzione trovino le tensioni interne alle forme di rappresentanza dei sindacati industriali rispetto alla dimensione orizzontale, nella fabbrica e nella società. È un travaglio tuttora aperto e che pone questioni anche all’oggi, non fosse altro perché allora il sindacato si è dovuto confrontare con la costruzione di un moderno welfare e oggi con la sua destrutturazione, all’interno di profondi passaggi d’epoca sul piano economico, dell’organizzazione produttiva, del mercato del lavoro di cui gli albori si cominciano a intuire proprio in conseguenza di quel lungo ciclo conflittuale aperto dal 1969 nel mondo industrializzato e non solo in Italia5. Un altro punto centrale, forse perché interessa anche da un punto di vista sociologico e non solo storico, è cosa abbia significato – non solo per il movimento allora, ma anche per ciò che poi il movimento ha lasciato in eredità al paese – la forza improvvisa e imprevista di quello strumento innovativo della partecipazione che era costituito dall’assemblea, espressione per certi aspetti diversa dal passato di un nuovo soggetto sociale, ma soprattutto originale modalità attraverso la quale si esprimeva il bisogno di partecipazione e si elaboravano le richieste del movimento stesso. Sia pure in maniera confusa e spontaneistica, questo ha indubbiamente costituito uno degli aspetti inventivi più forti del 1969, che probabilmente affonda le sue radici nel 1968, ma che comunque è anche una modalità espressiva in parte diversa dall’esperienza studentesca – che poi, come sappiamo, è tramontata abbastanza rapidamente, almeno nella forma originaria con la quale si era presentata nel ’69. A differenza delle assemblee studentesche, le assemblee operaie avevano un effetto diretto, in quei mesi, sulle strategie decisionali, sui meccanismi della rappresentanza, sulla stessa selezione della leadership, e non solo della rappresentanza di base ma anche dei quadri dirigenti del sindacato, sempre oscillante fra l’essere espressione di un movimento sociale e costituire insieme uno strumento di istituzionalizzazione delle sue istanze, anche le più radicali. Le assemblee non discutevano e basta, decidevano e applicavano le decisioni, a partire dal livello dell’impresa, ma direttamente o indirettamente anche oltre. 5 È fra i temi presenti ad esempio anche nell’ultima riflessione di Guido Baglioni, fra i padri fondatori della moderna sociologia del lavoro italiana proprio in quegli anni, in L’accerchiamento. Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, il Mulino, Bologna 2008. Da un punto di vista di comparazione storica, si guardi almeno M. Pigenet, P. Pasture, J.-L. Robert (a cura di), L’apogée des syndicalismes en Europe occidentale, 1960-1985, Publications de la Sorbonne, Paris 2005. 20 INTRODUZIONE Altro punto importante, su cui si fermano molti contributi (da Cella a Lettieri e Bertucelli e, sotto altri profili, da Causarano e da altri), è l’egualitarismo, cioè il tentativo utopico ma coraggioso di rompere la rigida divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che in un certo senso era simboleggiata da un sistema di qualifiche che manteneva su scale di valori separate operai e impiegati, riflettendosi poi in molti altri aspetti della vita dei lavoratori e della loro qualificazione, valutazione e classificazione all’interno del mondo del lavoro. Questa rivendicazione egualitaria si muove allora in due direzioni, una direzione, come detto, che mira ad abbattere e superare, per quanto possibile, la divisione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale, e un’altra che agisce su un piano direttamente sindacale, quello della remunerazione del lavoro, attraverso piattaforme appunto egualitarie, dove si chiedono aumenti uguali per tutti: una pratica vertenziale che ottiene dei risultati concreti, almeno per un certo arco di tempo, ma che poi come sappiamo viene anch’essa rapidamente superata. È interessante, come sottolineano molti, che siano istanze – quella del superamento della divisione fra lavoro manuale e intellettuale e quella dell’egualitarismo, in particolare dell’egualitarismo salariale – che coinvolgono tutti, chi ci guadagna e chi ci perde: è un punto che ci dovrebbe far riflettere, nel senso che questa comunanza di valutazione e questa solidarietà interna ai lavoratori, operai, impiegati e tecnici dà il senso di un solidarismo che si crea e sopravanza persino il piano degli interessi materiali dei diversi soggetti sociali. Visto sotto altri profili, è una forma temporanea – per certi versi precaria ma comunque forte – di egemonia. È una considerazione che abbiamo fatto riferendoci alle figure sociali dei giovani studenti e dei giovani operai e al loro rapporto solidaristico contro ogni diversità di classe e di interessi materiali, ma che forse dovremmo estendere anche a quell’altra differenza che riguarda la componente operaia, e il ruolo che hanno giocato, nel 1969 ma anche negli anni successivi con equilibri diversi fra di loro, gli operai comuni da una parte e gli operai professionali o specializzati dall’altra, facendosi portatori di richieste e di valori indipendenti dalla loro pur differente posizione sociale e lavorativa. Come si sa, questo è un interrogativo di ricerca che ha ispirato molti lavori già nei primi anni ’706, ma è anche oggi un interrogativo politico che dobbiamo porci e al quale dobbiamo tentare di dare risposta. Non a caso uno dei campi di impatto simbolico immediato dell’egualitarismo, nel lavoro, sarà quello dell’abolizione delle differenze di status e salariali basate sul genere e sulla gerarchia dei ruoli sessuali, a parità di funzione, con una tardiva applicazione dei fondamenti costituzionali7. 6 Si pensi al gruppo di ricerca coordinato negli anni ’70 da Alessandro Pizzorno sul «ciclo di lotte» del 1968-72 (la serie di volumi, più quello conclusivo su Lotte operaie e sindacato, furono pubblicati fra il 1974 e il 1978 dal Mulino e non a caso ancora oggi sono punto di riferimento per le riflessioni e gli studi sul 1969) o alle ricerche comparate curate dallo stesso Pizzorno con Colin Crouch sul «ritorno della lotta di classe» (Conflitti in Europa. Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ’68, Etas Libri, Milano 1977). 7 Già il presidente di ABB, Luigi Falossi, ha sottolineato nella sua Premessa le ragioni della sottovalutazione delle tematiche di genere nel convegno, come anche (e per altri versi) di quelle legate 21 PIETRO CAUSARANO E PAOLO GIOVANNINI Ampiamente discussa nel volume, prima di tutto nel saggio di Carnevale e Causarano ma poi in molti altri interventi, è la questione del rapporto fra condizioni e qualità di lavoro, e ambiente e salute. È un tema centrale del movimento fin dai suoi inizi, che trova poi una sua specificazione non solo dentro la fabbrica ma anche fuori di essa. Non è un caso che le vertenze affrontate dal sindacato e anche dallo stesso movimento dei consigli, nel momento in cui si danno una rappresentanza di tipo territoriale con i consigli di zona, vadano a confrontarsi con le grandi tematiche del territorio, i trasporti, le scuole, le mense, ecc., ma anche e forse soprattutto con le tematiche dell’ambiente e della salute, per il legame strettissimo che molti avevano ormai individuato fra i problemi interni e quelli esterni alla fabbrica. Uno spostamento di centralità vertenziale verso il territorio e i problemi delle riforme che forse – visto in prospettiva – è una delle ragioni della diminuzione del consenso operaio verso il sindacato industriale (ed anche di una sua crisi davanti ai mutamenti culturali dell’opinione pubblica su questi problemi); ma che sicuramente ha dato alle strutture confederali una dimensione politica nuova e potente quali istituzioni non secondarie della regolazione generale nella società italiana. Si è trattato comunque di un passaggio problematico e talvolta traumatico, se solo pensiamo all’impatto che le questioni ambientali e i conflitti relativi hanno avuto sulle relazioni e sulle politiche industriali dalla fine degli anni ’70. Va registrato così un altro importante slittamento, dalla centralità della fabbrica e del lavoro nella fabbrica alla centralità della società e del lavoro nella società, cui, non a caso, prestano attenzione molti interventi e che quindi sfioriamo appena, rimandando al saggio di Giovannini sulla scoperta del «territorio»8. Questo spostamento di ottica è rilevante perché prefigura tutta una serie di successivi mutamenti nelle modalità di contrattazione, nella tipologia delle vertenze, negli obiettivi delle lotte sindacali. Gradatamente, la loro attenzione si indirizza verso tematiche che portano lentamente il sindacato a dotarsi di strumentazioni diverse, più sofisticate e complesse, e a scendere sui nuovi terreni di contrattazione che caratterizzeranno larga parte della fine degli anni ’70 e gli anni ’80 e che ancora negli anni ’90 e persino oggi – anche se con minor forza – continuano a contrassegnare il sistema di relazioni industriali. Ci riferiamo al progressivo affermarsi di una modalità di contrattazione che non conta più alla dimensione internazionale, almeno rispetto alla lettura proposta dagli organizzatori per capire cosa sia stato effettivamente il 1969 e cosa sia invece arrivato dopo, come eredità del 1969. Ci pare tuttavia che l’intervento di Catia Sonetti permetta di ricondurre ad una sostanza analitica più compiuta ed elaborata questa scarsa considerazione per le tematiche di genere, al di là della mera constatazione fattuale. 8 Anche i saggi di Musso e Roverato, seppur più strettamente legati alla realtà di fabbrica, contestualizzano il conflitto industriale in dinamiche territoriali e sociali molto differenziate, mostrando insieme non solo le distanze ma anche il potenziale coagulante di quel movimento sociale che era centrato sul lavoro e sul lavoratore a partire da esperienze e condizioni apparentemente così poco paragonabili fra loro. 22 INTRODUZIONE soltanto la partecipazione dei soggetti tradizionali, ma che vede entrare in gioco un terzo soggetto, cioè l’attore pubblico, lo Stato, il governo, e anche – dopo la regionalizzazione – il sistema delle autonomie locali. Questo processo, iniziato nel 1969, impone nuove esigenze di conoscenza e nuove strategie di contrattazione e, nel corso degli anni successivi, finisce inevitabilmente per far transitare il sistema di relazioni industriali verso quella modalità concertativa che, comunque la si giudichi, ha avuto in Italia un grande momento alla fine del secolo passato, sia a scala regionale che a livello nazionale9. Contribuendo a sua volta al ripristino della tradizionale egemonia confederale rispetto alle federazioni di categoria, meno adatte ad agire sul nuovo e complicato terreno di una vertenzialità con forti risvolti politici e istituzionali e su tematiche orizzontali. Inoltre, almeno per tutti gli anni ’70, ha comportato un nuovo equilibrio tra sindacati e partiti, dove i primi hanno acquistato una maggiore indipendenza dai secondi e in non pochi casi hanno esercitato un ruolo di «supplenza». Franca Alacevich e Andrea Sangiovanni presentano opportunamente una rassegna dei cambiamenti principali nei sistemi di relazione, concreti e simbolici, che ruotavano attorno agli operai e che hanno preso forma nel 1969 consolidandosi negli anni seguenti: qualcosa si è detto a proposito dell’assemblea. Su un punto però vorremmo aggiungere un commento, e precisamente su come siano mutate le forme dell’azione collettiva. I cambiamenti di quell’anno e anche degli anni seguenti sono stati davvero radicali, hanno prodotto continue invenzioni di lotte e di strategie portate avanti con modalità spesso inaspettate e sorprendenti, spiazzanti, in un clima di effervescenza collettiva, spesso gioiosa, talvolta minacciosa, attraverso azioni e forme di sciopero e di manifestazione articolate e differenziate per mezzi utilizzati, tipo di partecipazione e grado di coinvolgimento. Siamo di fronte a una tipica azione schumpeteriana di «distruzione creatrice», che cambia ogni aspetto dell’azione sindacale, rivoluziona il contenuto delle piattaforme, ridisegna continuamente l’agenda delle vertenze e delle contrattazioni: dando, anche da questo punto di vista, un segno fortemente innovativo a quella stagione sindacale. Chiudiamo questo breve panorama delle idee e delle interpretazioni che il lettore vedrà approfondite nei saggi del volume, esplicitando alcune domande, 9 L’intervento di Bellofiore, pubblicato alla fine del volume, sollecita molte considerazioni sui deficit di conoscenza degli attori e dei protagonisti rispetto alla ridislocazione delle forze e delle risorse allora in campo, a cominciare dal fatto che significativamente e un po’ paradossalmente – come lui sottolinea – una parola fra le più usate e abusate nel 1969, «capitalismo», non sia quasi mai risuonata esplicitamente nei nostri lavori, quasi a sottolineare la difficoltà a dare significato – oggi – ad una categoria che sempre più era diventata – allora – astratta perché per certi versi incognita di fronte alla transizione che investiva la società industriale (capitalista e non solo) in quei decenni (si pensi soltanto ad es. alla distanza siderale che separa il discorso pubblico sulla «fabbrica» e sul «lavoro» di quell’epoca, rispetto a quello tutto centrato sull’«impresa» di oggi). Qualche suggestiva risposta si può forse ritrovare, proprio perché collegata al 1969 e alla capacità che c’è stata successivamente di ribaltarne i contenuti liberatori e critici, in L. Boltanski, É. Chapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999. 23 PIETRO CAUSARANO E PAOLO GIOVANNINI a volte chiaramente espresse a volte sotto traccia in questo lavoro, su quali sottili fili leghino ancora il 2009 al 1969 – sempre che non siano stati tutti recisi nella realtà delle cose, prima ancora che nelle coscienze e nella memoria. La prima. Nel 1969 la figura sociologicamente e politicamente centrale è quella dell’operaio comune o, come è stato spesso definito, l’«operaio-massa». Che ne è oggi di questa figura allora così fortemente rappresentativa del degrado ma anche della possibilità di riscatto del lavoro industriale? E a quali figure sociali ci troviamo oggi di fronte? È possibile ipotizzare l’esistenza di un soggetto nuovo, di una figura sociale altrettanto centrale di quella operaia di allora? Siamo capaci di individuarla (se esiste) o ci fanno difetto gli occhi e fuor di metafora gli strumenti culturali, scientifici e politici di cui disponiamo? Perché magari questa figura centrale esiste ma non siamo in grado di vederla, come è successo spesso nella storia e come ci ricordava già Marx ne La guerra dei contadini in Germania riflettendo sul fallimento politico di Thomas Müntzer. Questo mi sembra il primo interrogativo che ci dobbiamo porre. La seconda domanda è sottesa in vari interventi e riguarda in definitiva il rapporto fra intellettuali e movimento operaio. I saggi di De Vito o di Carnevale, ma anche di altri (come quello di Causarano sulla scuola, ad esempio) toccano questo punto delicato: i ceti intellettuali, intesi in un senso molto lato, hanno giocato o no un ruolo nelle vicende sindacali e politiche dell’epoca? E se sì, quale, e in che relazione con gli altri soggetti sociali, primo fra tutti la classe operaia? Sono stati ispiratori, vivificatori del movimento, oppure semplicemente fiancheggiatori subalterni, portatori d’acqua, ecc.? Sarebbe interessante capire un po’ meglio questo punto perché di grande rilevanza anche rispetto all’oggi. L’ultima domanda – che potremmo definire di attualità – origina da un interrogativo che si è posto Marcello Flores nel suo saggio introduttivo. Come mai un biennio così potente e innovatore, un fenomeno di massa quale è stato indubbiamente il 1968-69 diventa lentamente, nei fatti, un elemento di costruzione della maggioranza silenziosa – come ipotizza Flores10 – e potremmo dire, oggi, del «berlusconismo»? Quanto e in che misura – ci si sofferma Baldissara – le aspettative quasi palingenetiche di rinnovamento democratico suscitate da quel biennio e poi solo in parte recepite e istituzionalizzate e soprattutto condivise, non hanno giocato la loro parte in questo esito paradossale, nella misura in cui non si è ricostituito – né allora né dopo – un nuovo equilibrio, basato su nuove regole, al posto di quello precedente? Sono tutte domande che propongono – nello spirito di questo lavoro – un confronto idealtipico fra la situazione del 1969 e quella di oggi, in un contrappunto tra le due tendenze che hanno caratterizzato gli anni terminali di questo intervallo di tempo, cioè la solidarietà emersa come principio forte nel 1969 e 10 Il riferimento è ovviamente al 1980 e alla «marcia dei quarantamila», cioè alla prima manifestazione pubblica e di massa di una maggioranza silenziosa. 24 INTRODUZIONE l’attuale situazione improntata invece a uno spiccato individualismo. Un ieri ancora segnato dalla presenza di un alto livello di partecipazione, un oggi invece dove prevale una situazione di sostanziale disimpegno, politico e partecipativo; e ancora, una carica utopica del 1969 cui oggi corrisponde, almeno apparentemente, un vuoto di utopie; infine, una Costituzione che allora entra in fabbrica con lo Statuto dei lavoratori e che oggi invece è pesantemente sotto attacco. Questi quarant’anni hanno visto insomma un profondo cambiamento, non sempre per il meglio, le cui radici, paradossalmente, affondano anche nel modo in cui quella storia è stata vissuta e si è definita, un modo che evidentemente ha favorito la costruzione di identità oppositive nei decenni successivi, con le quali oggi tutti dobbiamo fare i conti. 25 PARTE PRIMA Il 1969: la centralità della classe operaia nel conflitto politico-sociale 1969 e dintorni di Marcello Flores * Buongiorno, sono venuto qui a parlare con molto piacere anche se con un po’ di difficoltà: il 1969, infatti, che è il tema centrale delle ricchissime relazioni che seguiranno e di questo intero convegno, non è mai stato un mio oggetto di studio particolare. Per questo ho pensato di limitarmi soprattutto a un discorso più complessivo sull’intera epoca, sul periodo, anche perché effettivamente questo può permetterci di spiegare, almeno in parte, i lunghi silenzi sul ’69. Non si è trattato tanto di una particolare negligenza nell’analizzarlo e nello studiarlo, anzi; paradossalmente gli studi sul ’69, come dimostrano proprio le stesse persone dei relatori qui convenuti, sono stati maggiori di quelli sul ’68, almeno da un punto di vista analitico. Questi studi, però, non sono mai riusciti a diventare discorso complessivo, a farsi interpretazione; e questo in parte per la natura stessa di quel periodo storico che, se in Italia ha avuto il suo epicentro proprio nel biennio ’68-69, che va considerato un po’ un tutt’uno, a livello internazionale è stato poi riassunto e simboleggiato solo dall’anno 1968 perché in genere, diversamente che in Italia, è lì che si è non del tutto esaurita ma certamente prevalentemente manifestata quella eruzione sociale, culturale, generazionale che ha caratterizzato la grande rottura di quel periodo. In Italia l’eccezionalità, la particolarità del caso italiano è stata soprattutto questa dimensione più lunga, questo prolungamento – che in parte è un prolungamento che viene già dagli anni precedenti e va rivolto quindi anche all’indietro – in cui possiamo vedere il ’68 e il ’69 come il momento culminante, più esplicito, ma non certamente unico e risolutivo, di quella stagione di grande trasformazione. Basti pensare – visto che parliamo del ’69 soprattutto come anno operaio, delle lotte operaie – al fatto che il culmine delle ore di sciopero in Italia si ebbe due anni dopo, nel 1971. E quindi è assai comprensibile considerare un periodo più ampio. Così anche, paradossalmente, il ’69 è l’anno che vede in maggior numero gli studenti nelle piazze, le occupazioni delle università, * Questo testo è la relazione esposta oralmente dall’autore e da lui poi rivista, dopo la trascrizione, senza aggiunte. 29 MARCELLO FLORES la presenza della mobilitazione degli studenti medi, benché l’anno degli studenti sia considerato il ’68. In genere l’idea che ci si è fatti, e che poi è passata un po’ come luogo comune su quegli anni, deriva da un’immagine degli anni successivi, dall’analisi delle conseguenze e dei risultati che ci sono stati successivamente. Diciamo che quello che è successo dopo ha costituito spesso l’ottica, il punto di vista, gli occhiali attraverso cui guardare anche il ’68 e il ’69. E quindi questo ha impedito di guardare con particolare attenzione, così come si farà in questi due giorni, allo svolgimento stesso di quegli anni e ha fatto prevalere soprattutto un’interpretazione di storia politica; un’interpretazione, tutto sommato, di storia del rapporto fra «movimento» e Stato, partiti, sindacato, rispetto a quella che era la novità sociale e culturale, che certamente aveva tantissimi nessi ed anche forti influenze ed effetti sulla politica, ma che aveva anche una sua autonomia la quale rappresentava probabilmente l’aspetto più innovatore, più originale e significativo, e che certamente verrà analizzato qui proprio in questa sua dimensione. Questo punto di vista, tra l’altro, travalica di gran lunga sia il mondo della fabbrica che quello della scuola, perché il ’68-69, come insieme, è la capacità di mobilitazione sociale complessiva attorno a due attori sociali ben definiti, gli studenti e gli operai, e attorno a un denominatore, che anche se non è l’unico è quello portante ed è di carattere generazionale. Sono infatti i giovani, sia giovani studenti che giovani operai, che costituiscono la spina dorsale di questo movimento, di questo rinnovamento. Ecco, questo aspetto è quello che permette probabilmente di uscire, non tanto organizzativamente, ma mentalmente, culturalmente e come valori di riferimento al di fuori delle università e delle fabbriche e di investire con le proprie problematiche, con le proprie istanze, con le proprie esigenze, con le proprie modalità di comportamento, tutta quanta la società. Da questo punto di vista, anche se è giusto vedere il periodo in un’ottica ancora più lunga, va detto che la peculiarità del ’68-69 è stata quella di aver dato una scossa formidabile all’intera società, di aver posto l’intera società italiana, che stava arrivando a una fase in parte conclusiva di grandissimo sviluppo e trasformazione che era stata fatta nel decennio precedente, a guardarsi allo specchio e a interrogarsi attraverso le domande che venivano poste dalla generazione più giovane: questa era la grande novità. Certo, erano domande che in gran parte erano legate anche alla tradizione e da questo punto di vista forse la cosa si vede ancora di più in fabbrica; ma questa capacità di porre domande in forma nuova, spesso domande anche nuove, ma senza rinnegare – magari entrando anche, come si vedrà, in conflittualità, in alcuni momenti pure forte, con le tradizioni presenti – costituisce proprio quella possibilità di parlare a tutta la società, che si trova di fronte a un nuovo scenario a cui reagirà, sia nell’immediato che negli anni successivi, in modo diverso. Per provare a comprendere il ’68-69, cercherò di analizzarne le ambiguità, l’aspetto contraddittorio ma tutto sommato positivo. Successivamente sarà più opportuno far prevalere, invece, una dicotomia tra un aspetto positivo e 30 1969 E DINTORNI uno negativo, che costituiscono probabilmente l’eredità di lungo periodo di questa sorta di conflittualità e di separazione forte che nella società italiana esiste ancora oggi. Non la chiamerei certamente «guerra civile», come è stato detto più volte, perché questa ipotesi da un punto di vista storico non va nemmeno presa in considerazione. Una breve divagazione: certamente è con grande piacere che dobbiamo riconoscere la decisione della Corte costituzionale di ieri1, però non dobbiamo nascondere il fatto che certamente c’è una metà dell’Italia che invece vede quella scelta conforme alla Costituzione come un ingombro; per lo meno, come un qualcosa che non permette di avanzare secondo quella che è l’idea di una certa parte. E quindi si protrae per anni una situazione di forte polarizzazione che risale agli anni ’70 e potremmo dire che anche questo, forse, è un aspetto importante su cui riflettere. Il titolo appropriato del convegno sarebbe 1969/2009, cioè i quarant’anni che ci separano da quel momento e che fanno sì che in realtà quella grande proposta di trasformazione sia una proposta che, non risultando poi di fatto vincente, abbia avuto come effetto quello di dividere fortemente la società e in qualche modo di radicalizzarla: ora più a livello politico che non a livello sociale e culturale, in alcuni momenti più a livello ideologico che politico; però certamente questa divisione, che oggi trova una radicalizzazione anche proprio per le vicende personali del nostro presidente del Consiglio, ha radici in quel momento esplosivo di modernizzazione. Quella modernizzazione si fonda su una trasformazione materiale molto forte, demografica innanzi tutto, perché questa è l’epoca del venire a maturità giovanile della generazione del baby boom; per la prima volta, la coorte dei giovani è la maggioranza della società, a differenza di oggi in cui la maggioranza è una popolazione ormai invecchiata e i giovani rappresentano in qualche modo una minoranza. È una trasformazione in cui ha luogo un forte sviluppo ed erano presenti una serie di valori che certamente nascevano e avevano trovato le loro radici nella Resistenza, nella Costituzione e nella Repubblica, ma che in quel momento si ampliavano perché avevano una dimensione internazionale che era rappresentata, per riassumere, dalle grandi lotte contro il neocolonialismo, contro la guerra del Vietnam, per l’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli, che era ovviamente qualcosa di nuovo. La grande novità della sconfitta dei fascismi dopo la seconda guerra mondiale aveva trovato negli anni ’60 un nuovo grande momento di svolta, quello della decolonizzazione, che permetteva di parlare per la prima volta di tutto il mondo come di un mondo in qualche modo indipendente, potenzialmente libero dall’oppressione di uno Stato sull’altro, certamente in un contesto in cui esisteva un’egemonia delle due superpotenze le quali però garantivano al tempo stesso, per lo meno in Europa, una situazione di pace: cosa che l’Europa non aveva mai 1 Si tratta della sentenza della Corte costituzionale del 7 ottobre 2009 sul cosiddetto lodo Alfano (la sospensione dei procedimenti penali a carico delle più alte cariche dello Stato) [n.d.c.]. 31 MARCELLO FLORES vissuto. E la generazione del ’68 è la prima generazione che nasce alla fine immediata della guerra e che non conosce una guerra per tutta la durata della sua vita; anche se nello stesso tempo è una generazione che vive con l’incubo della catastrofe nucleare. Oggi non c’è certamente più questa memoria, ma all’epoca era fortissima la paura di una catastrofe nucleare e questa deterrenza atomica tra le superpotenze sembrava poter scongiurare la fine del mondo. Una paura che forse era esagerata ma che faceva parte anche di questo nuovo, grande risveglio di valori che i giovani del ’68 portano un po’ in tutto il mondo. La peculiarità italiana sta nella durata ma anche nella profondità di questa esperienza e sta, rispetto ad altri paesi, negli scarsi effetti che ha il ’68-69 sugli equilibri politici. Certo, ci saranno anche in Italia, poi, degli effetti e delle conseguenze di natura politica, ma non così immediati come in altri paesi, dove c’è un forte cambiamento, in direzione o di una ripresa riformatrice neoautoritaria (come in Francia attraverso De Gaulle) o di un’apertura ai governi riformatori o socialdemocratici (che proprio da allora in poi, anche se non immediatamente, in gran parte dell’Europa prenderanno il sopravvento anche dove non erano mai stati presenti con forza). Ci sono però in questa peculiarità e particolarità italiana grandi trasformazioni culturali, grandi trasformazioni di mentalità collettiva ed anche alcuni notevoli cambiamenti istituzionali; basti ricordare uno dei più importanti, lo Statuto dei lavoratori del 1970, oppure, su un altro versante, il divorzio, il voto ai diciottenni, la riforma tributaria, l’introduzione del Servizio sanitario nazionale, che all’epoca era qualcosa di equivalente a quello che Obama adesso cerca di fare negli Stati Uniti; anche se da noi poi non risultò in alcun modo così conflittuale e quindi è stato un po’ dimenticato. È certo, tuttavia, che la forza di penetrazione nella società di questa scelta – e soprattutto per gli anni futuri – è stata notevole; come lo è stato, anche se per alcuni il giudizio è più positivo e per altri forse meno, l’introduzione delle Regioni, che ha portato una nuova configurazione istituzionale della società italiana. Troppo a lungo tutte queste cose sono state appiattite su alcuni aspetti, valga per tutti il discorso sulla violenza e il terrorismo, cioè sulla seconda metà soprattutto degli anni ’70, anche se in realtà il terrorismo comincia prima. Rimane il fatto, tuttavia, che il suo momento più forte è quello della metà degli anni ’70, che sembra essere stato (o almeno viene visto, in alcuni casi polemicamente e strumentalmente, in altri diventando poi un po’ un senso comune mediatico) come il risultato quasi necessario di quella radicalità sociale che era stata al cuore del ’68-69. C’è stata certamente una scarsa duttilità politica e istituzionale in Italia, prevalentemente delle forze di governo ma in parte da attribuire anche alle forze di opposizione; quella grande spinta del ’68-69 e quelle riforme costituiscono, se oggi le guardiamo e mettiamo tutte in fila, il momento di maggiore trasformazione riformatrice dell’intera storia della Repubblica, più ancora di quelle dell’immediato dopoguerra, ma non sembrano rappresentare il carattere prevalente del periodo. Occorre capire come mai non si è riusciti a dare loro corpo, nella realtà storica degli anni ’70 e successivi, se non in una versione tutta 32 1969 E DINTORNI politicista, il «compromesso storico» prima, i «governi di unità nazionale» poi, il «pentapartito» dopo, che di fatto hanno un po’ messo da parte, tralasciato, non dato risposta a quelle istanze del ’68-69. In genere gli storici e molti studiosi sostengono che il decennio ’48-58 è stato il decennio della politica, dei partiti, della rinascita, anche economica e strutturale, ma attraverso il ruolo prevalente dei partiti; il decennio ’58-68, il decennio del boom e delle grandi trasformazioni sociali, sarebbe stato invece il decennio della società, che si sarebbe manifestata pienamente ponendo le proprie esigenze di modernizzazione, accompagnando la modernizzazione dell’Italia in modo talvolta conflittuale (pensiamo alle migrazioni da Sud a Nord), ma diventando comunque protagonista, e lasciando la politica un po’ a rimorchio. Ecco, cosa è stato allora il decennio successivo, quello che va dal ’68 al ’78 per rimanere a questa divisione cronologica, anche se in questo caso potremmo forse arrivare fino all’80? All’apparenza è un periodo che possiamo definire forse solo in negativo. A molti, in tanti scritti, non è venuto in mente di notare che se è stato il decennio di qualcosa, è stato il decennio in cui lo Stato ha mostrato la sua incapacità a riformare se stesso, le istituzioni, la pubblica amministrazione, il rapporto con i cittadini, anche se una serie di elementi – appunto i diritti civili, il divorzio e poi l’aborto – rappresentavano invece forti spinte in questa direzione. E quindi sarebbe stato un decennio in qualche modo di difesa, di chiusura difensiva, corporativa e a volte repressiva da parte dello Stato, anche se con le ovvie giustificazioni nei confronti del terrorismo, e anche di chiusura ideologica e organizzativa da parte dell’opposizione, del movimento operaio e anche del movimento sindacale. Questo avviene proprio mentre a livello internazionale, pur sempre nel quadro della guerra fredda, abbiamo assistito, con la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, all’indebolimento delle due superpotenze, o almeno a una loro minore capacità di presa. Da una parte, il blocco sovietico perché, dopo l’occupazione di Praga, ha compiuto una scelta di continuazione autoritaria e insieme di stagnazione economica che accompagnerà l’URSS di Brežnev per tutti gli anni ’70; dall’altra gli Stati Uniti perché conoscono quel maggiore isolazionismo e declino, che a metà degli anni ’70 si concretizza nella fine della guerra del Vietnam. Certo, ci sono colpi di coda e non da poco come l’appoggio al golpe in Cile e così via, però di fatto gli Stati Uniti sembrano avere meno presa anche sul proprio mondo occidentale di riferimento. Mentre tutti gli altri paesi europei, pensiamo alla Francia e alla Germania, oltre all’Inghilterra che già l’aveva fatto, ottengono una maggior autonomia e indipendenza, l’Italia invece non riesce ancora a sfuggire a questa sorta di minorità e sudditanza. È anche vero che ci sono tendenze in senso inverso, nella politica estera per esempio – pensiamo alla politica estera italiana sul Medio Oriente in modo particolare, che in qualche modo ha quegli aspetti di autonomia rispetto agli Stati Uniti che ci si aspetterebbero in questo periodo –, ma nel complesso bisogna rimarcare che questo non si riesce a ottenere. 33 MARCELLO FLORES Non ci si riesce per le scelte che fa l’establishment italiano, e le fa (non bisogna dimenticare cosa succede alla fine del 1969) attraverso le decisioni di una parte, certamente minoritaria e ridotta ma corrotta, dell’establishment. Da Piazza Fontana in poi, attraverso i meccanismi della violenza di massa (la «stagione delle stragi»), cerca di aggravare, con la paura del buio totale, quella conflittualità sociale che già di per sé poteva accentuare una radicalizzazione e divisione all’interno della società; ma un conto è vedere la radicalizzazione che l’Autunno caldo porta nella società come un conflitto aspro, che poi potrà trovare comunque una sua soluzione di mediazione, un conto è vederla invece in una cornice segnata dalle stragi, da Piazza Fontana, poi da Brescia e così via. Certamente si crea nell’opinione pubblica non solo una radicalizzazione ma addirittura una contrapposizione tale per cui emerge con forza un aspetto che io mi auguro sia presente anche nelle analisi delle relazioni successive, e cioè il clima di paura che nasce e cresce a partire dal ’69. Sicuramente non c’era consapevolezza, da parte di chi faceva la lotta allora, di poter conquistare molto di più; c’era, a volte, l’idea di poter fare paura, ma questa idea faceva parte di un rinnovato orgoglio di classe, della capacità di ripresa, di azione, che sembrava essersi addormentata negli anni; da questo punto di vista il far paura era un far paura più metaforico, si faceva paura al padrone, agli avversari di classe. Quello di cui non ci si rende conto è che quell’azione, così come viene utilizzata anche da altre forze, diventa una paura che, nei confronti di una parte della società, si instilla, si radica, e finirà con l’alimentare quella organizzazione della maggioranza silenziosa che poi nel 1980 porterà alla grande svolta anche nei rapporti e nelle relazioni sindacali, alla fine di un lungo decennio sempre più difficile da questo punto di vista. Certo, dipanare qui le diverse componenti, responsabilità, azioni, è estremamente difficile, ed è la parte che sicuramente l’analisi storica deve e può riuscire ancora adesso a portare avanti, perché è quello che ci può permettere di dare delle risposte; però io credo che le risposte della ricerca debbano essere costruite attorno ad alcuni interrogativi. Ecco, dal mio punto di vista di storico il principale interrogativo è capire come mai, e attraverso quali diversi attori, diversi meccanismi, diversi protagonisti, un biennio di esaltazione, di esplosione, di proposta di grandi valori – l’antiautoritarismo, l’egualitarismo ecc. – diventi poi nel giro di alcuni anni e, quasi totalmente, alla fine del decennio un elemento invece di divisione, di costruzione della paura dell’avversario. È il passaggio che oggi e da quindici anni consente a Berlusconi di parlare dei comunisti come di qualcosa di terrificante, cosa che a noi può sembrare ridicola, e che però gli permette anche di ottenere un largo consenso. Questo è forse un modo anche di ripercorrere la storia di quegli anni legata molto a tutta l’evoluzione del quarantennio successivo e non di prenderla per quanto avvenne in quel singolo anno. Il ’69, che è il cuore di questo convegno, è caratterizzato, e verrà detto molto più dettagliatamente e meglio di quello che posso fare io, da una parte dal ritorno in fabbrica, un terreno microeconomico 34 1969 E DINTORNI e al tempo stesso salariale, ma anche e forse ancora di più legato alle norme e alle modalità del lavoro, e dall’altra dalla rinascita di un senso di appartenenza, che non era quello classista ottocentesco, ma che era molto più composito e diverso, di cui erano protagonisti i giovani arrabbiati insieme ai sindacalisti, con cui a volte si scontravano e con cui invece spesso si univano; ed anche questa è una geografia da tener presente e da seguire. Quello che mancò certamente a quell’anno, a quel biennio, a quel periodo, sono la mediazione e la soluzione istituzionale che in qualche modo, questa è almeno la mia interpretazione storica, fu affidata a una cultura inadeguata, a una cultura cioè molto rivolta ancora al passato, che riusciva da un punto di vista ideologico e organizzativo a tenere insieme cose diverse, radicalismo, corporativismo, però poi non riusciva a dare a quelle lotte una prospettiva, a dar loro una visione strategica, e quindi rischiava di farle rimanere chiuse in se stesse, anche se spesso con notevoli vantaggi, vittorie e successi immediati. Quello che soprattutto non si riusciva a fare, attraverso una mediazione che era affidata a una cultura politica troppo vecchia rispetto al mondo che era cambiato in quegli anni, era di riuscire a parlare all’insieme della società, e quindi a presentarsi con un progetto politico autorevole nei confronti della società intera. Questo avviene a livello internazionale, tant’è vero che ci sarà poi tutta la fase europea e mondiale di neoconservatorismo, pensiamo alla Thatcher, pensiamo a Reagan ecc. Quindi è certamente in una dimensione più ampia che va vista anche questa fine della spinta progressiva e della rinascita invece di una controriforma, in qualche modo, sociale e culturale. Però bisogna anche su questo pensare alle inadeguatezze che il movimento operaio, la sinistra e il sindacato hanno avuto proprio nel riuscire a proporsi all’intera società invece che cercare di salvaguardare, nel breve periodo, il consenso accumulato, illudendosi che questa salvaguardia potesse poi costituire una ripresa nel decennio successivo, cosa che invece non è avvenuta. Certo, sono successe tante cose, come il crollo del muro di Berlino e così via, che meriterebbero una più approfondita analisi. Nel ’68 non c’è stata una cultura in senso stretto, una cultura teorica nuova, c’è stata però una fortissima cultura diffusa, una mentalità nuova, che è maturata ed è arrivata all’intera società, per quello che riguarda la famiglia, i rapporti con la religione, i rapporti interpersonali: sono tutte cose che non rimangono chiuse nell’ambito di piccole élites, siano esse studentesche, intellettuali e anche operaie, ma diventano presto momento di discussione e anche di consapevolezza all’interno della società, altrimenti non riusciremmo a spiegarci la vittoria clamorosa rispetto a certe aspettative sia del divorzio che del referendum sull’aborto. Ecco, tutto questo che c’è di nuovo, questa cultura diffusa che diventa parte della società, non riesce, fa fatica a diventare anche cultura politica, perché la cultura politica continua invece a muoversi secondo logiche di lungo periodo, è in ritardo, non riesce a trovare in qualche modo la possibilità di anticipare, come invece dovrebbe sempre fare, le trasformazioni in corso. 35 MARCELLO FLORES Da questo punto di vista è esemplare non tanto il ’69 operaio, ma il modo in cui gli studenti del ’68 vanno nelle fabbriche e vanno a incontrare gli operai, perché quegli studenti che fanno questa operazione e che certamente costituiscono anche un motivo di sollecitazione nei confronti degli operai, soprattutto dei più giovani, sono quegli studenti organizzati attorno ad alcuni gruppi che hanno la visione di fatto più arcaica, sono quelli che ripropongono dei meccanismi, delle idee di rivoluzione che sono quelle dell’inizio del Novecento o della prima metà del Novecento o addirittura dell’Ottocento. Questi gruppi che si presentano come «avanguardie» della classe operaia discutono solo attorno a questi meccanismi (se il partito è rivoluzionario, d’avanguardia e così via) e non riescono invece a tradurre quella grande spinta democratica, egualitaria, antiautoritaria, in qualcosa di più solido; quello che apparteneva cioè all’insieme del «movimento» e che non appartiene più ai singoli gruppi extraparlamentari, come si chiamavano allora, che sono quelli i quali maggiormente poi vanno nelle fabbriche. Questi studenti «rivoluzionari», paradossalmente, non portano quell’entusiasmo di democrazia e partecipazione del loro movimento, portano quelle istanze di rivoluzione e organizzazione che in realtà poi entreranno un po’ in conflitto anche con la grande ribellione operaia, la quale ovviamente, dovendo a un certo punto scegliere, opterà per l’organizzazione sindacale. Prevarrà una situazione forse difensiva ma di maggiore spessore, e non è un caso che cresca il numero degli iscritti al sindacato e in misura minore anche al Partito comunista, se non ricordo male, fino al 1977, proprio perché si capisce che c’è comunque bisogno di una sponda istituzionale e organizzativa, che non poteva essere quella velleitaria e secondo me soprattutto incapace di guardare alle trasformazioni avvenute e in corso. Quella «nuova» sinistra cercava di rinchiudere una realtà davvero nuova come quella degli anni ’60 in vecchi moduli teorici e organizzativi: eppure bastava guardarsi in giro per il mondo, come avevano fatto quegli stessi studenti qualche mese prima. Invece, nel momento in cui diventano gruppi politici che si proclamano rivoluzionari, rinchiudono tutto il recente passato in una logica che era quella o del leninismo o dello stalinismo in alcuni casi, del luxemburghismo o del castrismo e così via, realtà tutte chiaramente difficilmente importabili in Europa, e quindi da questo punto di vista inevitabile era la sconfitta cui si andava incontro. Ecco io terminerei di nuovo con una domanda, perché questo è un po’ il difetto degli storici, porsi domande ma per poter andare avanti, rivedere il passato sempre in modo un po’ nuovo: come mai questo grande momento di trasformazione – partito nel ’68-69 dai due ranghi più nuovi della società, i giovani nella scuola e i giovani nelle fabbriche e nel sistema produttivo – non riesce a diventare poi anche trasformazione istituzionale, nuovo senso dello Stato più democratico, più partecipato e così via? Tutte questioni che, non a caso, sono quelle che si continuano a discutere ancora adesso. 36 La nascita del sindacato dei consigli: la piattaforma contrattuale unitaria dei metalmeccanici nel 1969 di Fabrizio Loreto Il presente saggio analizza uno dei principali eventi del 1969, finora scarsamente indagato dalla storiografia, vale a dire l’ampia consultazione di oltre 200 mila metalmeccanici (soprattutto operai, ma anche qualche migliaio di impiegati), organizzata dai tre sindacati di categoria – FIM-FIOM-UILM – tra i mesi di maggio e luglio, in vista del rinnovo contrattuale dell’autunno. L’Autunno caldo, come è noto, ha rappresentato un momento eccezionale nella storia italiana. Qualche anno fa Guido Baglioni, in un interessante contributo nel quale raffigurava l’autunno del ’69 «come una cometa con una coda non molto lunga ma nemmeno troppo corta», discuteva alcune interpretazioni di quella rovente stagione1: egli scartava sia la tesi della «parentesi» – che non ha mai portato fortuna alle spiegazioni storiografiche –, sia la tesi di un semplice «passo in avanti» – che in effetti è un po’ riduttiva –, puntando invece sulla definizione dell’Autunno caldo come un evento «spartiacque», dopo il quale nulla era stato più come prima. In ogni caso quella stagione – intesa come il risultato di un lungo e paziente lavoro di preparazione, teorico e pratico, dispiegatosi negli anni ’60, ma che ha ricevuto una forza dirompente dalla contestazione giovanile del ’68 –, ha prodotto una cesura profonda nell’Italia contemporanea: una rottura non solo sul piano sindacale, perché in quell’anno si affermò in Italia – nel senso che fu egemone (il che non significa che fosse anche maggioritario) – il «sindacato dei consigli», il quale per alcuni anni avrebbe dettato l’agenda politica del paese. In definitiva, se l’Autunno caldo è stato così importante nella storia nazionale, penso sia utile ripercorrere la fase di preparazione della complessa vertenza contrattuale2. 1 G. Baglioni, La cometa dell’Autunno caldo, in Il Mulino, n. 4, 2000, pp. 697-705. La citazione è a p. 698. 2 Per questo saggio ho utilizzato soprattutto la preziosa e copiosa documentazione custodita presso la Fondazione Vera Nocentini di Torino (d’ora in poi FVN), in particolare i fondi della FIM (d’ora in poi AFIM), che conservano un ricco materiale (anche nazionale e anche unitario), tra cui 37 FABRIZIO LORETO I fatti A differenza delle lotte autunnali, la consultazione della primavera è poco nota. Infatti, al di là della memorialistica, di questo passaggio si parla raramente nella stessa storiografia sindacale3. Da un esame analitico degli eventi si desume che essa si svolse in quattro fasi. Dopo un iniziale scambio di vedute, avvenuto nella prima riunione unitaria dei Comitati esecutivi di FIM-FIOM-UILM (Salsomaggiore, 16-17 luglio 1968), un nuovo incontro si ebbe a Firenze il 2 aprile 1969: in quella sede si decise di effettuare una consultazione di massa nella categoria per discutere e varare la piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale4. Le due riunioni avvennero in fasi piuttosto diverse: seguendo, ad esempio, la cronologia proposta da Emilio Reyneri in un famoso saggio del 1976, mentre nell’estate del 1968 il sindacato, complessivamente, era ancora in una fase difensiva (oggetto, anch’esso, della contestazione giovanile), nella primavera successiva erano evidenti da un lato il declino del movimento studentesco, dall’altro la ripresa del sindacato (divenuto, ormai, soggetto della contestazione)5. In pochi mesi, dunque, era maturato, come ha scritto Bruno Trentin, «un forte ripensamento critico sulla stessa natura e funzione del sindacato»6. A tale proposito, vi erano stati alcuni passaggi «simbolici»: ad esempio, la riconquista a dicembre, da parte della FIOM, dopo il terribile 1955, della maggioranza dei consensi tra i lavoratori alla FIAT7. Ma in quei mesi vi erano stati passaggi molto significativi anche sul piano delle politiche sindacali: ad esempio, la II assemblea organizzativa della FIM e la Conferenza della FIOM sulla democrazia sindacale, dove – anche se con qualche esitazione – si era assistito alla crescente convergenza delle due federazioni su temi rilevanti8. Inoltre, alla fine del ’68, un intero fascicolo dedicato alla Consultazione precontrattuale del 1969. Ringrazio Giovanni Avonto, Paola Asproni e Catia Cottone per la loro disponibilità e gentilezza. 3 Cfr. P. Boni, FIOM. Cent’anni di un sindacato industriale, Meta edizioni, Roma 1993, pp. 196-197; P. Galli, Da una parte sola. Autobiografia di un metalmeccanico, manifestolibri, Roma 1997, pp. 142144; B. Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 90-91. Nella storiografia si trova un fugace accenno sulla consultazione soltanto nel volume di S. Turone Storia del sindacato in Italia. Dal 1943 al crollo del comunismo (Laterza, Roma-Bari 1992, p. 395). Inoltre, a volte può capitare di restare imprigionati in una lettura frettolosa, che vede la base operaia imporre ai vertici sindacali il rovesciamento completo della strategia da seguire: cfr. M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, tomo II, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Einaudi, Torino 1995, p. 449. 4 Verso il nuovo contratto. I lavori dell’Esecutivo unitario, in Il ragguaglio metallurgico, n. 4, aprile 1969, pp. 8-9. 5 Cfr. E. Reyneri, Comportamento di classe e nuovo ciclo di lotte, in A. Accornero (a cura di), Problemi del movimento sindacale in Italia, 1943-1973, in Annali della Fondazione Feltrinelli, vol. XVI (1976). 6 B. Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso, cit., p. 89. 7 P. Franco, La nuova commissione interna alla FIAT, in Sindacato moderno, n. 1, gennaio 1969, pp. 22-23. 8 Cfr. G.P. Cella, B. Manghi, P. Piva, Un sindacato italiano negli anni Sessanta. La FIM-CISL dall’as- 38 LA NASCITA DEL SINDACATO DEI CONSIGLI l’assemblea era al centro di tutte le principali vertenze aziendali e in numerosi casi essa era ormai una realtà9; così come era diffusa la pratica dei referendum in azienda sui temi più diversi (sulle rivendicazioni, sulle forme di lotta, per la ratifica degli accordi, ecc.)10. Infine, va segnalato l’aspetto più rilevante: la conquista dei primi delegati avvenuta, a livello aziendale, nei mesi iniziali del ’6911. I delegati – eletti da tutti i lavoratori, su scheda bianca e revocabili in ogni momento dall’assemblea – furono decisivi per il controllo dell’organizzazione del lavoro – dei sistemi di cottimo e dei tempi alle linee di montaggio (cadenze, organici, orari di fatto) –, determinando conseguentemente «l’approdo ad un rapporto tra democrazia diretta e democrazia delegata che poteva dare al movimento sindacale degli strumenti nuovi di iniziativa e di egemonia»12. Fu questo, dunque, il contesto nel quale si svolsero ad aprile gli Esecutivi unitari, quando iniziò a precisarsi la bozza di piattaforma. Il secondo passaggio si ebbe il 2 e 3 maggio quando, in due successive riunioni, furono approvati dalle Segreterie di FIM-FIOM-UILM due documenti: il primo sui contenuti della piattaforma, il secondo sulle modalità di svolgimento della consultazione13. Con questi atti iniziò a prendere forma il nuovo modello sindacale che si sarebbe affermato nell’autunno. Certo, in alcuni appunti sindacali precedenti la consultazione non erano mancati timori sia sulle modalità della consultazione (ad esempio, non c’era l’obbligo di proporre quesiti scritti), sia sul rischio di prevaricazione di questa o quella federazione14. Ma le novità introdotte dai due documenti erano molto rilevanti: pochi ma selezionati obiettivi, per non disperdere la discussione e per non presentare una lunga «lista della spesa» dove gli imprenditori potessero sociazione alla classe, De Donato, Bari 1972; A. Bellocchio, Una battaglia per rinnovare il sindacato, in Sindacato moderno, n. 1, gennaio 1969, pp. 4-5. 9 L’assemblea in fabbrica, ivi, p. 9. 10 Esempi di volantini sindacali sull’esercizio della democrazia in fabbrica (attraverso referendum, assemblee, consultazioni, ecc.) sono in FVN, AFIM, b. 74, ff. 876-878, Materiale unitario prodotto dalla FIM. 11 I casi più importanti nella categoria si ebbero alla Castor, alla Singer e alla Indesit di Torino; nel gruppo Ignis; alla Michelin di Trento, alla Rex-Zanussi di Pordenone, alla Zoppas di Conegliano, al Nuovo Pignone di Firenze, alla Fatme di Roma, all’Italsider di Bagnoli. Cfr. E. Guidi, Analisi e valutazione degli accordi sui delegati, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 24, dicembre 1969, pp. 54-72. 12 B. Trentin, Il sindacato dei consigli, Roma, Editori Riuniti 1980, p. 18. Cfr. E. Giovannini, La farina e il lievito. Idee, percorsi, ricordi, Roma, Ediesse 2008, pp. 71-72. 13 I documenti Proposta unitaria per la formazione della piattaforma contrattuale e Nota esplicativa ed indirizzi relativi al metodo della consultazione ed al merito delle proposte rivendicative sono allegati alle due circolari della FIM, n. 14 e 15, rispettivamente del 2 e 3 maggio 1969: FVN, AFIM, b. 75, f. 879, Circolari FIM nazionale. 14 FIOM Milano, Premessa e introduzione al referendum, s.d.; FIM-CISL Torino, Appunto sul rinnovo contrattuale, aprile 1969: entrambi i documenti sono in FVN, AFIM, b. 76, f. 886, Consultazione precontrattuale. Cfr. L. Bruni, Una scadenza terribilmente vicina, in Il ragguaglio metallurgico, n. 5, giugno 1969, p. 12; E. Pastorino, Consultazione della categoria per il rinnovo contrattuale, in Sindacato moderno, n. 4-5, aprile-maggio 1969, pp. 4-6. 39 FABRIZIO LORETO scegliere cosa concedere e cosa no; nessuna posizione predeterminata, vale a dire nessun patriottismo di organizzazione; scelte delicate (ad esempio sul salario) affidate a tesi alternative; impegno dei sindacati ad accettare responsabilmente la piattaforma anche se in disaccordo con essa; prosecuzione della lotta durante le trattative. Il senso dell’operazione era evidente: la consultazione non sarebbe stata un fatto occasionale, ma il punto di partenza di un nuovo rapporto più democratico tra sindacato e lavoratori15. Non si trattava più di una «democrazia di ratifica», disse Trentin nella Conferenza consultiva della FIOM sul contratto (Rimini, 9-11 maggio), riferendosi alla precedente esperienza del 1966, quando i lavoratori erano stati chiamati ad esprimersi su una piattaforma già decisa dai sindacati; si trattava invece di una «democrazia di base», con il dovere da parte del sindacato di avanzare delle proposte ai lavoratori ma anche con il dovere di rispettare le decisioni votate da questi: solo così si sarebbe affermata la funzione dirigente del sindacato. La democrazia, sosteneva Trentin, non era né «un’accozzaglia di esigenze», né uno «sfogatoio di richieste»; e i vertici sindacali dovevano esporsi in prima persona, «a viso aperto», «senza morire su quelle proposte» se rifiutate, ma anche senza imporre ai lavoratori le scelte già prese in riunioni ristrette16. Il terzo passaggio si ebbe tra la metà di maggio e la metà di luglio, quando la consultazione fu realizzata tramite migliaia di assemblee (di reparto, di fabbrica, di sezione sindacale, di lega, territoriali, dei lavoratori studenti)17. In quelle settimane il sindacato attraversava una fase esplosiva. Innanzitutto, si era nel pieno della stagione congressuale: l’assise della UILM a Venezia provocò il ribaltamento di linea, con la vittoria dei socialisti di Benvenuto contro i socialdemocratici di Corti, mentre l’assise della FIM a Sirmione divenne di fatto il congresso della minoranza della CISL, cioè della «sinistra» che sfidava Storti18. Inoltre, il congresso della CGIL a Livorno si divise sulla spinosa questione delle incompatibilità, concludendosi con la sconfitta di Novella; il congresso delle ACLI a Torino stabilì la fine del collateralismo con la DC; infine, il congresso della CISL a Roma, che si concluse con la vittoria di mi15 Così commentò l’allora segretario generale della FIM Luigi Macario in una dichiarazione alla stampa che sottolineava la portata storica dell’evento: «La consultazione dei metalmeccanici sulle rivendicazioni da presentare per il rinnovo contrattuale vuole rappresentare un avvio verso un nuovo modo di fare la politica sindacale in Italia. Non solo infatti essa introduce un fattore di partecipazione decisiva della base alle scelte delle organizzazioni sindacali, ma rivolgendosi in maniera unitaria, oltre agli iscritti, a tutti i lavoratori, fa intravedere un disegno operativo di unità sindacale». 16 Intervento conclusivo di Bruno Trentin, supplemento a Sindacato moderno, n. 6, giugno 1969, pp. 16. Le citazioni sono a p. 3. 17 Preparare il rinnovo contrattuale impegno di tutti, supplemento a Sindacato libero, periodico dei lavoratori del Canavese, n. 3-4, 9 maggio 1969; si veda anche il Giornale dei delegati operai, periodico dei delegati FIAT di Torino (Mirafiori, Lingotto, Stura e Rivalta) in FVN, AFIM, b. 76, f. 899, Lotte sociali del 1969 legate ai rinnovi contrattuali. 18 Entrambi i congressi fecero ritardare di qualche giorno il decollo della consultazione. 40 LA NASCITA DEL SINDACATO DEI CONSIGLI sura di Storti, sanzionò la spaccatura in due dell’organizzazione sulle prospettive dell’unità sindacale19. A Torino, nel frattempo, fu siglato l’accordo alla FIAT (30 giugno), preceduto da una miriade di accordi di officina, che avviarono la stagione della conflittualità permanente, regolamentarono il lavoro alle linee, conquistarono i delegati ed evitarono l’acconto salariale; di fatto, tutta la vertenza alla FIAT spiega perché a Torino buona parte della consultazione sia avvenuta nel mese di luglio e fece segnare una partecipazione più bassa rispetto ad altre zone del paese20. La consultazione presentò alcuni punti critici: ad esempio la scarsa partecipazione degli impiegati, la marginalità dei lavoratori siderurgici, gli screzi tra FIM e FIOM21. Per avere informazioni sulla consultazione è utile leggere i volantini di convocazione delle assemblee nella provincia di Torino. In essi sono indicati, ad esempio, i luoghi di svolgimento delle assemblee, le quali furono tenute in alcune fabbriche e soprattutto nelle sedi sindacali, anche se non mancarono casi di riunioni negli oratori o presso le case del popolo; e sono indicati gli orari delle assemblee, con differenze evidenti tra chi poteva effettuarle durante il turno di lavoro, perché aveva già conquistato tale diritto, e chi era costretto a riunirsi davanti ai cancelli delle fabbriche oppure di sera, nella lega sindacale (era il caso della gran parte delle aziende e di tutte le piccole e piccolissime imprese). È utile, inoltre, leggere i verbali delle assemblee, le schede riassuntive, le risposte ai referendum (nel caso di consultazione scritta)22. Quali indicazioni emergono dai verbali? Innanzitutto, scaturisce un generale orientamento (non larghissimo, ma neanche ristretto) a favore degli aumenti salariali uguali per tutti; inoltre, si registra una forte spinta alla parità con gli impiegati, con la consapevolezza che, tra le varie opzioni tra cui scegliere (scatti biennali, indennità di anzianità, ferie, preavviso di licenziamento), la disparità in tema di malattia e infortunio è la più insopportabile e, dunque, la più urgente da eliminare. La rivendicazione che 19 Cfr. M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), in L. Bertucelli, A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, Roma, Ediesse 2008. 20 A. Serafino, Gli scioperi alla FIAT. Dalla paura alla lotta, in Il ragguaglio metallurgico, n. 6-7, luglio-agosto 1969, pp. 9-10. Si veda l’inserto La lotta alla FIAT a Sindacato moderno, n. 7-8, luglioagosto 1969 (32 pagine). 21 Si veda la circolare della FIM nazionale sugli impiegati (n. 56 del 25 giugno) e la lettera della commissione interna della sezione FIAT Ferriere sui siderurgici (18 luglio), entrambe in FVN, AFIM, b. 76, f. 886, cit.; sugli impiegati si veda anche il bollettino unitario FIM-FIOM-UILM Impiegati e tecnici, del maggio-giugno 1969, in FVN, AFIM, b. 76, f. 891, Pubblicazioni su contratto e dopocontratto. Sulle tensioni tra FIM e FIOM si veda la lettera di Renato Lattes, all’epoca membro della Segreteria della FIOM di Torino, datata 9 luglio, in FVN, AFIM, b. 76, f. 888, Rapporti e corrispondenza varia. Cfr. la rassegna Una piattaforma costruita dai lavoratori, in Sindacato moderno, n. 7-8, luglioagosto 1969, pp. 14-23. 22 Sia i volantini riguardanti le assemblee per la consultazione, sia i verbali sono in FVN, AFIM, b. 76, f. 886, cit. I verbali sono ventidue e per il loro numero esiguo sarebbe arbitrario trarre indicazioni generali (anche se ci sono schede di aziende importanti come la Lancia e la Pininfarina); si tratta, comunque, di un materiale interessante, piuttosto raro negli archivi sindacali. 41 FABRIZIO LORETO ottiene il maggior numero di consensi riguarda le 40 ore (pagate 48), con una ostilità molto dura da parte dei lavoratori nei confronti dello straordinario. Molto positive, praticamente unanimi, sono anche le risposte in tema di diritti sindacali. Certo, occorrerebbe avere qualche dato in più (la qualifica dell’operaio, la sua provenienza geografica, le dimensioni dell’azienda dove lavora, ecc.) per poter svolgere considerazioni più analitiche; tuttavia, i documenti si presentano omogenei. Non mancano frasi polemiche contro i sindacati («che ogni tanto si facciano vivi vicino l’azienda», scrive ad esempio un operaio). Altre frasi denunciano il crescente e irriducibile antagonismo delle nuove leve operaie; frasi spesso estreme, a volte ingenue, ma in ogni caso duramente segnate dalla fatica quotidiana, da salari da fame, dalla nocività dell’ambiente di lavoro. Soffermiamoci su alcune risposte fornite dagli operai in occasione di consultazioni scritte. Sul salario, ad esempio, un operaio invoca «una minima differenza di paga […] perché le bocche da sfamare sono tutte uguali!»; e sull’orario un lavoratore scrive: «sabato chiuso come le banche», oppure «lo straordinario non deve più esistere», o ancora «con le ore di straordinario che dobbiamo fare, devono dare altri posti di lavoro». Sulle forme di lotta si legge: «gli scioperi si debbono fare quando il padrone a [sic] bisogno di manodopera, no quando il lavoro è calmo», oppure «sciopero ad oltranza perché solo così si può ottenere qualcosa». Colpiscono, infine, le frasi che richiamano al principio fondamentale della dignità umana delle persone che lavorano; a tale proposito un lavoratore scrive: «più rispetto per operaio (nel contratto solo vincoli e obblighi per noi, mai per il padrone)». Con l’approssimarsi delle ferie estive si arrivò al quarto e ultimo atto della consultazione. Mentre cresceva il numero delle aziende dove venivano eletti i delegati23, a Milano il 9 luglio si svolse una riunione tra le Segreterie nazionali, nella quale furono fissate le regole per l’assemblea finale. Si decise che l’iniziativa si sarebbe svolta a porte chiuse nel capoluogo lombardo; si fissarono le procedure, i tempi degli interventi, il ruolo delle commissioni, i numeri e le caratteristiche dei partecipanti. All’iniziativa avrebbero presenziato i tre Consigli generali di FIM-FIOM-UILM, le Segreterie provinciali e un rappresentante per ogni grande azienda metalmeccanica del paese24. Le regole prevedevano anche 23 La diffusione di massa si ebbe soltanto con l’Autunno caldo. Il primo settore per numero di delegati e lavoratori coinvolti fu il metalmeccanico che nel 1969 ottenne i delegati in 39 aziende, per un totale di circa 215 mila lavoratori interessati; seguivano il tessile-abbigliamento (l’accordo territoriale del biellese coinvolgeva circa 44 mila lavoratori), il settore chimico e della gomma (dieci imprese, tra cui la Pirelli, per un totale di circa 38 mila lavoratori) e l’alimentare (l’accordo con la Perugina riguardava tremila lavoratori). La tabella che riassume i dati del 1969 è in Quaderni di rassegna sindacale, n. 24, dicembre 1969, p. 61. 24 Le aziende coinvolte furono più di cinquanta: 13 di Milano, 7 di Torino (compresi gli stabilimenti della FIAT), le 4 Italsider di Cornigliano, Piombino, Bagnoli e Taranto, altre 18 fabbriche del triangolo industriale, 8 aziende del Nord-est, 6 di Emilia e Toscana, 3 del Centro e 2 del Sud. 42 LA NASCITA DEL SINDACATO DEI CONSIGLI una precisazione finale: «ai Direttivi unitari – si legge nel post scriptum del verbale – parteciperanno rappresentanti delle Federazioni nazionali senza però prendere la parola». Anche questa appariva come una novità di rilievo, segno del clima nuovo che si respirava nel sindacato e della filosofia che accompagnava questo evento25. Finalmente, il 26-27 luglio, a chiusura del ciclo, si tenne la prima Conferenza unitaria dei quadri sindacali, dove si varò la piattaforma, basata su cinque punti: le 40 ore settimanali, la parità operai-impiegati per i trattamenti di malattia e infortunio, l’allargamento dei diritti sindacali in fabbrica, alcune rivendicazioni specifiche per giovani e impiegati, e gli aumenti salariali uguali per tutti26. Su quest’ultimo punto, il più dibattuto, pur non avendo a disposizione i dati delle votazioni, tutte le testimonianze parlano di una vittoria chiara, anche se non così ampia come le assemblee di base sembrava avessero suggerito. In ogni caso, come è noto, sulla questione salariale il vertice comunista della FIOM finì in minoranza; ciò, tuttavia, non attenuò l’impegno dei dirigenti, a cominciare dal segretario Trentin, nella difesa della piattaforma. A Milano, inoltre, si stabilì di proseguire gli scioperi anche durante le trattative. Infine, fu varato un documento, Il rafforzamento dell’organizzazione, su cui si tornerà tra breve perché importante sul tema dei consigli27. L’interpretazione Rispetto agli avvenimenti appena descritti, si può esprimere il seguente giudizio: la consultazione dei metalmeccanici del maggio-luglio 1969 ha rappresentato la più rilevante esperienza collettiva di democrazia attiva e partecipata mai realizzata in Italia da un attore politico. Questo per tre motivi: per il dato quantitativo, per il metodo utilizzato, per la qualità delle scelte effettuate. Innanzitutto il dato quantitativo, non straordinario ma certamente significativo. Purtroppo, non si hanno a disposizione i dati finali della consultazione; ma un valore parziale, presentato dal mensile della FIOM e riguardante 36 province (quelle, però, con il numero più elevato di metalmeccanici), è indicativo: 1.209 assemblee e 516 referendum, oltre 130 mila partecipanti su circa 800 mila lavoratori interessati; probabilmente il dato finale di cui si parlò all’epoca 25 Riunione Segreterie nazionali FIM-FIOM-UILM, Milano, 9 luglio ’69, in FVN, AFIM, b. 12, f. 170, Documenti e iniziative organizzative unitarie nazionali, 1967-69. Cfr. Giudizio unitario e conclusivo delle organizzazioni sindacali FIM-CISL, FIOM-CGIL, UILM-UIL sulle consultazioni per la piattaforma rivendicativa contrattuale in provincia di Torino (19 luglio 1969), in FVN, AFIM, b. 75, f. 884, Documenti e note sindacali unitari. 26 Piattaforma unitaria per i rinnovi dei contratti metalmeccanici, in FVN, AFIM, b. 76, f. 887, Volantini. 27 E. Giovannini, L’appuntamento di autunno, in Sindacato moderno, n. 7-8, luglio-agosto 1969, pp. 4-5; Documento unitario di politica organizzativa, in Esperienze e orientamenti, n. 23, settembre 1969, pp. 8-10. 43 FABRIZIO LORETO (tra 250 e 300 mila partecipanti) è un po’ sovrastimato, ma non lontano dalla realtà28. Dall’analisi disaggregata risulta che solo in una provincia (ma non si sa quale) non vinse l’ipotesi degli aumenti salariali uguali per tutti. Milano ebbe il primato con 400 assemblee e 25 mila lavoratori coinvolti; a Torino i partecipanti furono seimila (di cui duemila della Olivetti di Ivrea), ma – come detto – pesò sull’esito della consultazione la vertenza alla FIAT; a Genova furono cinquemila. Tra le realtà più dinamiche si segnalarono Bologna e Brescia, mentre il dato di Napoli non fu soddisfacente; tra le medie realtà ottennero buoni risultati Reggio Emilia, Modena, Pordenone, Treviso, Trieste, Venezia. Il Nord, in generale, rispose bene, mentre al Centro-Sud la situazione risultò più problematica, anche se non mancarono sorprese (come a Latina, dove – in proporzione – si rilevò il dato più alto: quattromila partecipanti in tredici assemblee, su 5.300 lavoratori interessati)29. Il secondo aspetto da segnalare è il metodo utilizzato per la consultazione. L’esercizio democratico fu reale, con una piena libertà di scelta. Il capovolgimento era radicale rispetto al passato: non più una democrazia «a cascata», dall’alto verso il basso, ma partecipata da parte della base. I lavoratori discussero, si confrontarono e si scontrarono, ma poi scelsero (non fu una mera consultazione); le federazioni di categoria si aprirono, accettarono la sfida di rivendicazioni forti e di strumenti innovativi, i consigli, messi in campo per sostenerle. A tale proposito, un riferimento particolare merita il documento conclusivo di Milano, Il rafforzamento dell’organizzazione, che fu il primo documento sindacale elaborato a livello nazionale che individuava nei consigli le strutture di base del futuro sindacato unitario. A chiusura della consultazione il leader della FIOM Trentin, che pure era uscito sconfitto nella consultazione sul tema del salario, si dichiarò pronto a sostenere quel sindacato nuovo «in cui la partecipazione attiva dei lavoratori alle scelte politiche» dell’organizzazione doveva diventare «l’elemento determinante». Era una strada «di non ritorno», scriveva Trentin alla vigilia dell’Autunno caldo; e proseguiva: «a questa prova dobbiamo andare tutti con molto coraggio e anche con molta fiducia nei lavoratori. […] [Occorre] affidare la creazione del sindacato nuovo nelle mani di quelli che dovranno dirigerlo, liberi dai sistemi, dagli schemi e dagli steccati del passato»30. Infine, terzo e ultimo elemento, insieme al dato quantitativo e alle questioni di metodo, fu l’elemento qualitativo: dalla consultazione uscì l’idea di una lotta che era sì contrattuale ma che, nel momento in cui si poneva l’obiettivo del mutamento dei rapporti di potere in fabbrica, diventava una battaglia politica; ancora più politica se quel messaggio – non «la conquista del potere, ma la inces- 28 I risultati della consultazione, in Sindacato moderno, n. 7-8, luglio-agosto 1969, p. 24. Ibidem. 30 B. Trentin, Ai lavoratori la parola decisiva, in Il ragguaglio metallurgico, n. 8, settembre 1969, p. 4. 29 44 LA NASCITA DEL SINDACATO DEI CONSIGLI sante trasformazione anti-autoritaria e libertaria del potere», avrebbe scritto più tardi Pino Ferraris31 – fosse riuscito a passare, come si diceva all’epoca, «dalla fabbrica alla società». Conclusioni In sintesi, si può affermare che, a partire dalla consultazione del 1969, si estese a livello nazionale (fino ad allora si erano avuti soltanto alcuni «laboratori», in questa o quella fabbrica, in questo o quel territorio) una nuova «cultura sindacale», quella del «sindacato dei consigli»32 (o del «sindacato della classe»33), il quale voleva essere lo strumento diretto di tutti i lavoratori, ma che, con il passare dei mesi, finì per diventare espressione soprattutto di una tipologia allora prevalente nelle industrie italiane, cioè quella del cosiddetto «operaiomassa», giovane, emigrato, dequalificato. L’aspetto più interessante, però, è che il «sindacato della classe» sfidò apertamente le culture precedenti: non solo, come è evidente, la cultura della CISL di Giulio Pastore e Mario Romani34, una cultura ferma al sindacato-associazione, al sindacato dei «soci», rivolto ai soli iscritti e molto attento alle compatibilità economiche delle imprese e alle compatibilità politiche dei governi; ma anche il modello della CGIL, che era sì un sindacato generale, che guardava a tutti lavoratori, ma che era fermo alla visione tradizionale del «sindacato per la classe» e non «della classe»; di un sindacato, cioè, che, secondo lo schema leninista, era diretto da gruppi dirigenti che stabilivano la linea da adottare e che erano anch’essi molto attenti agli equilibri politici e ai partiti di riferimento35. Una sfida, dunque, per usare le parole di Baglioni, lanciata dai metalmeccanici sia al «leone CGIL», sia alla «volpe CISL»36. La novità eclatante di questa originale cultura fu l’unità sindacale organica. Tale obiettivo era promosso e condiviso trasversalmente, dai comunisti, socialisti e socialproletari della FIOM, dalla FIM, versione sindacale del «dissenso cattolico», e dai socialisti della UILM, che arrivò per ultima ma che risultò decisiva (poiché impedì la divisione sindacale e il ripetersi dello «schema» di Piazza Statuto del 1962). Punto di incontro delle tre culture (marxista, cattolica e labu31 P. Ferraris, L’eresia libertaria: interventi, polemiche e saggi intorno al biennio 1968-1969, Istituto di Studi storico-giuridici, filosofici e politici dell’Università di Camerino, San Severino Marche 1999, p. 63. 32 P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Tea, Milano 19962, p. 385. Cfr. F. Loreto, L’«anima bella» del sindacato. Storia della sinistra sindacale (1960-1980), Ediesse, Roma 2005. 33 Cfr. F. Loreto, L’unità sindacale (1968-1972). Culture organizzative e rivendicative a confronto, Ediesse, Roma 2009. 34 Cfr. Mario Romani. Il sindacalismo libero e la società democratica, a cura di A. Ciampani, Edizioni Lavoro, Roma 2007. 35 Cfr. G.P. Cella, B. Manghi, R. Pasini, La concezione sindacale della CGIL: un sindacato per la classe, ACLI - Collana ricerche, Roma 1969. 36 G. Baglioni, La cometa dell’Autunno caldo, cit., pp. 700-701. 45 FABRIZIO LORETO rista) fu il progetto centrato sui diritti e sulla integrità psicofisica della persona, a partire dai luoghi di lavoro. Con l’unità sindacale alle porte – l’Autunno caldo sarebbe stato il punto più vicino alla realizzazione del SUM, il Sindacato unitario dei metalmeccanici, o del CIO, la Confederazione del sindacalismo industriale, mutuata dal modello americano – divenne automatica l’opzione per strutture unitarie nei luoghi di lavoro, all’interno delle quali i lavoratori operavano le scelte e, attraverso di esse, selezionavano il gruppo dirigente del sindacato. I lavoratori, come ha scritto Paul Ginsborg, diventavano i «soggetti attivi e dissenzienti» di una «democrazia deliberativa», nella quale prima si discute, anche in modo serrato, ma poi si decide37: una democrazia che, sempre secondo Ginsborg, «in termini milliani conduce alla formazione di rappresentanti validi e istruiti delle classi lavoratrici, presenti e attivi nei luoghi di lavoro»; e che «in termini marxisti» favorisce la lotta «per superare l’alienazione [e] rivendicare il controllo sul processo produttivo»38. «Il Sindacato – si legge in un volantino dei delegati FIM di una fabbrica torinese, scritto durante l’Autunno caldo – deve essere espressione della sola volontà dei lavoratori che sanno organizzarsi. A tutti chiediamo un impegno per sostenere l’azione della FIM. A parecchi chiediamo di accorgersi che i tempi cambiano!»39. In effetti i tempi stavano cambiando e, se anche il sindacato dei consigli vide affievolirsi negli anni seguenti la sua spinta propulsiva, esso aveva avuto la forza non solo di indurre al cambiamento la parte restante del sindacato, ma anche di sfidare le classi dirigenti sul terreno della democrazia e della Costituzione, cioè proprio su quei due terreni sui quali il modello di governo italiano aveva manifestato le sue crepe più vistose. 37 P. Ginsborg, La democrazia che non c’è, Einaudi, Torino 2006, pp. 54, 73-74. Ivi, p. 111. Così, nel maggio 1969, alcuni operai descrivevano su un giornale di fabbrica la nuova figura del delegato che stava nascendo alla FIAT: «il delegato di reparto è l’operaio più cosciente, più bravo, più politicizzato del reparto, egli non riconosce la legalità industriale (anche se per adesso deve per forza accettarne il compromesso), per questo il suo carattere è di conflittualità permanente. Il delegato è l’espressione delle esigenze degli operai, deve inoltre collegarsi continuamente con gli altri delegati in modo da poter elaborare, per qualsiasi iniziativa, una linea che nasca dalla discussione collettiva. Ha quindi un ruolo di dirigenza del movimento. Il delegato, che può essere iscritto al sindacato oppure no, deve rispondere (sia ben chiaro) alla decisione e alla volontà degli operai e di nessun altro. Il delegato viene eletto democraticamente, senza tante procedure burocratiche, dagli operai della squadra o del reparto ed è revocabile in ogni momento» (Democrazia operaia e sindacato, in Giornale di lotta. Sud-presse, supplemento al n. 5 di Vita proletaria, 12 maggio 1969, in FVN, AFIM, b. 76, f. 899, cit.. 39 Il volantino, intitolato Subito il Consiglio dei delegati è in FVN; AFIM, b. 76, f. 887, cit. 38 46 1969. La centralità della fabbrica di Lorenzo Bertucelli Una premessa Nella storia del movimento sindacale italiano, ormai più che centenaria, sono sempre state riconosciute posizioni e funzioni di grande rilievo alla fabbrica e agli operai industriali, anche quando il paese era ben distante da una forte economia industriale. Allo stesso tempo, all’interno di questa continuità di lungo periodo, sono intervenute profonde trasformazioni nella visione e nella considerazione della fabbrica. Anche prendendo in esame solo la seconda parte del Novecento ne possiamo individuare alcune, così da comprendere meglio le peculiarità di quanto poi accade alla fine degli anni ’60. Dopo il 1945, nell’immediato dopoguerra, in un paese duramente provato materialmente e moralmente, la fabbrica diviene una sorta di «meta-fabbrica»: un punto di riferimento che va ben al di là del luogo di lavoro in quanto tale, una sorta di «istituzione» dalla quale ripartire e progettare una nuova società, e proprio per questo sentita come patrimonio collettivo: sono gli anni in cui, grazie alle condizioni specifiche e contingenti del dopoguerra, si affermano un protagonismo e un potere operaio in grado di condizionare sensibilmente le prerogative imprenditoriali all’interno dei luoghi di lavoro1. Negli anni ’50, invece, la fabbrica scompare; o meglio scompaiono la visibilità e il protagonismo sociale di chi ci lavora, tanto che solo dopo la sconfitta della FIOM alle elezioni per il rinnovo della commissione interna alla FIAT nel 1955 – per usare le parole di Vittorio Foa – si tratterà, per un sindacato che di fatto è assente dai luoghi di lavoro, non tanto di «ritornare in fabbrica» quanto di «riconoscere» la fabbrica2. 1 Mi permetto di rimandare a L. Bertucelli, Nazione operaia. Cultura del lavoro e vita di fabbrica a Milano e Brescia, 1945-1963, Ediesse, Roma 1997, in particolare le pp. 61-74. 2 V. Foa, Introduzione a M. Mietto, M.G. Ruggerini, Storie di fabbrica. Operai metallurgici a Reggio Emilia negli anni ’50, Rosenberg & Sellier, Torino 1988, p. 12. 47 LORENZO BERTUCELLI Negli anni ’60 è il sindacalismo industriale il protagonista di una nuova fase che fa della fabbrica il perno del miracolo economico italiano. La fine del decennio rappresenta, da un lato, il culmine di questo processo, l’apice della breve stagione fordista italiana, dall’altro vede una trasformazione tumultuosa nella composizione del mondo operaio e, poi, dei sistemi produttivi che cambieranno drasticamente la fabbrica. In questi anni le organizzazioni sindacali entrano letteralmente in fabbrica e si giocano le loro carte accettando un profondo rinnovamento del sistema di rappresentanza, puntando sulla nuova forza contrattuale operaia e sul radicamento organizzativo in fabbrica per proiettarsi verso l’esterno e tentare una trasformazione sociale del paese. Il biennio ’68-69: studenti e operai A fronte di un senso comune che propone una percezione statica del ’68 come l’anno degli studenti e del ’69 come l’anno degli operai (con il secondo decisamente oscurato nel cono d’ombra del primo), la riflessione degli ultimi anni ci ha aiutato a collocare l’Autunno caldo dentro un biennio straordinario di mobilitazione operaia, a vederne bene i nessi con le torsioni della società italiana dell’intero decennio e a valutarne criticamente il rapporto con il movimento studentesco3. A fronte cioè di robusti tratti comuni e reciproche influenze, credo si debbano sottolineare con maggiore attenzione le origini endogene – proprie della fabbrica – e le peculiarità del biennio operaio4. Da questa prospettiva anche la discussione sulla periodizzazione, sul lungo o breve ’68, muta di segno: se guardiamo la fabbrica, i mutamenti del sistema di rappresentanza e dei rapporti tra le parti, si tratta di un periodo lungo, un ciclo appunto, quello del sindacato dei consigli, che ci porta almeno fino alla fine del decennio successivo, se non – per certi versi – al 1985 con il referendum sulla scala mobile che sancisce la fine definitiva della stagione dell’egualitarismo salariale. Certo, soprattutto nel 1968 la relazione con il movimento studentesco è importante: la contestazione dell’autoritarismo e delle forme di dominio – anche economico-produttivo – sull’uomo, il valore della cultura e della conoscenza svincolato dall’utilità economica, la messa in discussione delle gerarchie e dei valori della società industriale, la stessa critica radicale alla democrazia rappresentativa e la proposizione di forme di lotta inedite (assemblea e movimento) contribuiscono a creare un clima culturale favorevole all’iniziativa operaia. So- 3 Vedi, ad esempio, 1969, in Parolechiave, n. 18, 1998 e AA.VV., I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto, Ediesse, Roma 2006. 4 Utile in questo senso P. Ferraris, Millenovecentosessantanove, in 1969, cit., pp. 13-18, e P. Ginsborg, I due bienni rossi: 1919-1920 e 1968-1969. Comparazione storica e significato politico, in AA.VV., I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69, cit., pp. 13-36. 48 1969. LA CENTRALITÀ DELLA FABBRICA prattutto nella prima parte dell’anno gli studenti appoggiano gli operai: l’azione diretta fuori dai canali tradizionali della rappresentanza li unisce ed è il segno del momento5. Occorre poi considerare che l’azione diretta dei lavoratori industriali scaturisce da peculiari condizioni di lavoro e può sfruttare, in particolare, il potere che la rigidità delle tecnologie fordiste e l’organizzazione tayloristica del lavoro offrono loro: diventa possibile rivendicare un altro modo di lavorare, pensare di organizzare la produzione diversamente, si può agire con metodi nuovi efficaci e poco dispendiosi (gli scioperi a singhiozzo, a scacchiera, i cortei interni, ecc.) senza o contestando il sindacato6. La rabbia e l’iniziativa spontanea soprattutto dei giovani dequalificati – molti da poco in fabbrica – è uno shock per i sindacalisti, un vero e proprio «rovesciamento della tradizione»7. Gli studenti scrivono più documenti e più volantini, prendono più facilmente e più a lungo la parola, cercano gli operai davanti alle fabbriche, nei bar o allo stadio, spesso fanno parte della stessa generazione e condividono con i giovani operai molti gusti della nuova cultura di massa (dalla musica ai film, dai fumetti al modo di vestire). Questa estesa partecipazione degli studenti del ’68 alle lotte operaie è sicuramente una specificità del «caso italiano», mentre mi sembra più discutibile che rappresenti un elemento decisivo della lunga stagione di mobilitazione operaia degli anni seguenti. Al di là di questo, mi preme sottolineare come si crei fin da subito una lettura di questa relazione sbilanciata a favore del ruolo degli studenti come catalizzatori e promotori della mobilitazione operaia; un’interpretazione che ha tratti comuni – come ha bene evidenziato Andrea Sangiovanni – nell’opinione pubblica conservatrice, nelle autorità dello Stato e nei giornali progressisti, e che probabilmente tradisce una sottovalutazione importante dell’autonomia di questi operai e della crescita culturale di cui sono protagonisti. Troviamo qui le radici che forse hanno contribuito a costruire quel senso comune imperniato sull’enfatizzazione del ruolo di innesco e sostegno del movimento studentesco alle lotte operaie. Mentre è indubbio, infatti, che si ritrovino tratti simili tra la contestazione studentesca e la rabbia degli operai comuni del ’68, che si rintracci «la medesima tendenza a partire da sé», «il medesimo rifiuto della mediazione», «la costituzione del sé collettivo come comunità»8, qualche verifica in più credo meriti invece – senza pretendere risposte univoche – un’indagine volta a capire, anche fuori dall’epicentro del triangolo industriale, quanto per gli operai tutto ciò venga mutuato dai modelli di mobilitazione studentesca e quanto invece non sia frutto di situazioni specifiche della fabbrica e delle culture di quel gruppo sociale. 5 Cfr. A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma 2006, pp. 123-140. 6 M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), in L. Bertucelli, A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008, in particolare le pp. 108-110. 7 E. Santi, sindacalista della Ignis nel 1968, citato da A. Sangiovanni, Tute blu, cit., p. 130. 8 Sono espressioni di M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II.2, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Einaudi, Torino 1995. 49 LORENZO BERTUCELLI Operai comuni e operai sindacalizzati I protagonisti delle lotte del biennio ’68-69 sono gli operai comuni. Nel corso dei due anni, tuttavia, si assiste ad una progressiva crescita del ruolo degli operai sindacalizzati, spesso qualificati, la cui funzione di «mediazione» e «comunicazione» tra movimento e organizzazione sindacale sembra rilevante. Le condizioni di lavoro nelle fabbriche del fordismo maturo sono dure: i metalmeccanici lavorano 45 ore alla settimana, sabato compreso. Gli straordinari sono decisi unilateralmente dalle direzioni aziendali, gli infortuni sono frequenti e i morti sul lavoro in Italia sono circa 3.000 all’anno. Sono spesso le condizioni di lavoro pesanti e ripetitive – a fronte di ben altre aspettative – la scintilla della rabbia operaia, appunto di quegli operai giovani, dequalificati, assunti da poco, che non condividono la cultura del lavoro dei loro compagni più anziani o più specializzati, che non sono sensibili alle proposte di appartenenza aziendale o produttivistica provenienti dalle imprese. Sono questi gli operai protagonisti della «rottura della deferenza»9, estranei ad ogni richiamo paternalistico, quindi in grado di «saltare sui tavoli» e prendere la parola. La fabbrica fordista ad alta intensità di lavoro produce quella invasione di campo già notata in altri momenti di accelerata trasformazione produttiva: gli operai giudicano intollerabile ciò che viene loro chiesto, considerano lese le loro prerogative di dignità e di umanità; le necessità della produzione diventano così insufficienti per giustificare una condizione vissuta come insostenibile. Si crea in tal modo il combustibile per la formazione di una soggettività antagonistica che rompe ogni legame identitario e culturale con il proprio lavoro («staccare per non morire» scrivono in alcuni documenti i sindacalisti a proposito dell’assenteismo), non ha remore a contestare le rappresentanze tradizionali e a mobilitarsi autonomamente. Non è una «nuova plebe»10, ma una soggettività operaia che contesta apertamente quell’organizzazione scientifica del lavoro considerata sin qui intoccabile in quanto appunto «oggettiva»; un punto di vista operaio in grado di criticare la presunta neutralità della scienza e della tecnica applicata all’organizzazione produttiva11. In questa fase, a partire dalla seconda parte del ’68, non sono però assenti gli operai qualificati o sindacalizzati, a volte le lotte partono dai reparti dove sono loro in prevalenza o comunque vi partecipano seppure spesso con disagio o addirittura fastidio per forme di lotta che non condividono. Molte testimonianze 9 E. Reyneri, Il «maggio strisciante»: l’inizio della mobilitazione operaia, in A. Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972), il Mulino, Bologna 1974. 10 Vedi in questo senso il quadro fosco presentato da S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Marsilio, Venezia 1992, in particolare pp. 415-416. 11 F. Loreto, Il sindacalismo confederale nei due bienni rossi, in AA.VV., I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69, cit., p. 172 e Id., L’unità sindacale (1968-1972), Ediesse, Roma 2009, in particolare pp. 97-104. 50 1969. LA CENTRALITÀ DELLA FABBRICA concordano nel puntualizzare che tanti scioperi sono davvero spontanei solo in una prima fase, ma che poi anche quando sono «apparentemente selvaggi» usufruiscono in realtà di una meticolosa preparazione fondata sulla conoscenza dei meccanismi produttivi e del territorio della fabbrica; conoscenze che spesso sono patrimonio degli operai più anziani e degli attivisti sindacali12 i quali si impegnano così a «organizzare lo sciopero spontaneo». Si verifica in questo modo una comunicazione positiva tra le diverse componenti operaie che rende più efficaci gli scioperi, permette la formazione di un’identità collettiva inclusiva e soprattutto prepara lo spazio per un recupero di iniziativa alle organizzazioni sindacali all’inizio regolarmente scavalcate e contestate. Il rapporto con il sindacato e le nuove forme di rappresentanza All’inizio del 1968 il sindacato italiano è in condizioni di debolezza organizzativa e rappresentativa testimoniata dall’alta percentuale di scioperi spontanei e dall’approccio tradizionale nella costruzione delle piattaforme contrattuali delle categorie industriali. Difficoltà che si accentuano in relazione al protagonismo di un movimento che va velocemente radicalizzandosi e che registrano, a livello confederale, il momento più acuto con le contestazioni seguite alla firma dell’accordo sulle pensioni il 27 febbraio 196813. Ricordare questo dato di partenza è utile per comprendere appieno lo scollamento che in questi mesi si determina tra protagonismo operaio e organizzazioni sindacali, ma soprattutto per valutarne il successivo recupero, iniziato già a partire dall’autunno ’68. È un recupero che ha successo, tanto che proprio il ’68-69 – soprattutto dal punto di vista della storia della CGIL – può essere considerato a tutti gli effetti un momento di svolta: dopo l’Autunno caldo il maggiore sindacato italiano assumerà una forza rappresentativa, un radicamento nei luoghi di lavoro, una forza politica e organizzativa che lo renderà difficilmente paragonabile a quello di prima del biennio ’68-69. Ne uscirà un sindacato con nuove politiche contrattuali, con nuovi criteri di rappresentanza, con una maggiore articolazione delle proprie strutture organizzative, con un profondo rinnovamento dei propri funzionari e gruppi dirigenti e, non ultimo, con un forte slancio unitario. In particolare, è in fabbrica il terreno di costruzione di una nuova democrazia sindacale, è in fabbrica il perno di un nuovo potere fondato sulla capacità operaia di controllo e condizionamento dell’organizzazione del lavoro fordista. Nella prima parte del ’68 i sindacati subiscono l’iniziativa operaia accompagnata dal movimento studentesco. Non intercettano una spinta che è radicale perché sostenuta anche da ragioni «morali» o forse etiche: appunto difendere la 12 Ad esempio vedi la testimonianza di uno dei fondatori del CUB della Pirelli, M. Mosca, C’era una volta la classe operaia. Un protagonista raccontato da sei donne, Unicopli, Milano 1999. 13 M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), cit., pp. 112-113. 51 LORENZO BERTUCELLI persona e poi poter contare14. E poi non la intercettano perché in fabbrica non ci sono. La domanda di partecipazione è imponente, le rivendicazioni oltrepassano l’ambito strettamente sindacale per investire i temi dei diritti, della dignità individuale e collettiva, le questioni sociali. Nella primavera si avviano i primi tentativi di «rimonta» da parte del sindacato: referendum, questionari, assemblee sulle vertenze di fabbrica testimoniano questo sforzo e danno la misura dell’ampiezza di ciò che si sta muovendo. I numeri sono impressionanti15. Non è un processo indolore, impone destituzioni ed esautoramenti, spesso le strutture locali del sindacato sono completamente scavalcate dalle decisioni e dalle azioni assunte dalle assemblee operaie. Le confederazioni cercano di riportare al centro l’iniziativa sindacale, di unificare ed estendere il movimento promuovendo il rilancio della riforma delle pensioni e lanciando la battaglia contro le «gabbie salariali». La forza della fabbrica deve essere portata fuori a sostegno di rivendicazioni generali in grado di allargare il fronte, evitare chiusure aziendali e, non ultimo, fare da contrappeso all’iniziativa diretta. In effetti in questa fase il sindacato – scosso dalle critiche e dal dissenso operaio – non pare preoccupato tanto delle forze dell’estrema sinistra, che pure trovano un loro spazio, quanto del rischio di non recuperare rispetto alle agitazioni delle grandi fabbriche del nord: nella CGIL, in particolare, si teme la rottura del fronte del lavoro rispetto al mondo della piccola impresa e soprattutto del Mezzogiorno. Segnale importante del ritrovato protagonismo confederale è il primo sciopero generale unitario sulle pensioni del 14 novembre 1968, il primo dopo vent’anni, che vede un’altissima partecipazione. Le stesse lotte aziendali si estendono e gli accordi nel corso del 1968 sono 3.500 per 1,6 milioni di lavoratori: è qui che il sindacato «impara»; compaiono i delegati di linea per controllare i ritmi, le assemblee, e i sindacalisti ci si devono confrontare prima di altri perché, come ricordava Luciano Lama, il sindacato «la contestazione ce l’aveva in casa»16. Nel 1969 la strategia confederale ottiene alcuni successi rilevanti (accordi sulle pensioni e abolizione delle gabbie salariali) e le categorie industriali recuperano – seppure affannosamente e con continue tensioni – sulle politiche contrattuali. CGIL, CISL e UIL sembrano sempre più indirizzate ad utilizzare il protagonismo della fabbrica nel tentativo di rinnovare la società e la politica italiana, ma allo stesso tempo osservano con preoccupazione la radicalizzazione delle categorie industriali che, sospinte dall’iniziativa operaia, costruiscono piattaforme 14 Vedi G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003, pp. 321-336. È questo un aspetto che ricorda da vicino un altro momento di forte iniziativa operaia, quello dell’inizio degli anni Sessanta. Vedi L. Bertucelli, Nazione operaia, cit. 15 Rimando per brevità a F. Loreto, L’unità sindacale, cit. e M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), cit. 16 Dieci anni di processo unitario, conversazione con Luciano Lama, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 29, 1971. Per un quadro più ampio vedi M. Ridolfi (a cura di), Luciano Lama. Sindacato, «Italia del lavoro» e democrazia repubblicana nel secondo dopoguerra, Ediesse, Roma 2006. 52 1969. LA CENTRALITÀ DELLA FABBRICA «molto avanzate»17. È Lama che con chiarezza nell’estate del ’69 – e teniamo conto che è già iniziata la stagione delle bombe – afferma: «è veramente in discussione la compatibilità di tali rivendicazioni con il sistema»18. Sarà il problema del decennio seguente. Eppure tale radicalità non è al momento destinata a sfumare; alla base ci sono le ragioni ben illustrate da Alessandro Pizzorno: la costruzione di una nuova identità collettiva e le domande di riconoscimento come non negoziabili19. Di ciò si fanno interpreti le categorie industriali e sarà alla base della lunga tensione in particolare tra FLM e confederazioni20. La piattaforma contrattuale dei metalmeccanici e la successiva vertenza sono il punto di condensazione di queste tensioni, diventano il cuore dell’Autunno caldo del 1969 e il terreno di sperimentazione della relazione tra nuove forme di rappresentanza e organizzazione sindacale21. Le rivendicazioni contrattuali (40 ore, parità normativa impiegati-operai, diritto di assemblea e aumenti salariali uguali per tutti) sono il risultato del protagonismo delle assemblee operaie e dei delegati che modificano profondamente l’impostazione iniziale dei sindacati: quando la piattaforma viene varata, il 26 e 27 luglio, si sono svolte 1.500 assemblee con circa 260.000 partecipanti e 300.000 risposte al referendum. È la sanzione del ruolo dei delegati di reparto e dei consigli da parte del sindacato. Permette all’organizzazione un radicamento capillare e una presenza effettiva, fisica, nei luoghi di lavoro. Il sindacato riesce così ad intercettare e incanalare la spinta del movimento «ricevendo da esso radicalità e spinta propulsiva, e offrendo ad esso negoziabilità e generalizzazione. Soprattutto innescando una dinamica di lunga durata, in cui l’intervento dell’istituzione sindacale fini[sce] per impedire la fisiologica caduta della spontaneità nei punti bassi del ciclo, e a sua volta l’incandescenza della spontaneità fini[sce] per impedire l’istituzionalizzazione del conflitto»22. Con «l’ingresso in fabbrica» per la prima volta il sindacato italiano «assumeva il luogo di lavoro, e non il territorio, come fulcro della propria organizzazione e della propria azione»23. È dunque a partire dalla fabbrica che prende corpo quell’intreccio tra movimento e organizzazione – il cui giunto sono i delegati – che permette al sindacato dei consigli di «trasformare l’antagonismo non negoziabile del proletariato industriale moderno in definitiva e irreversibile acquisizione di cittadinanza per tutto il mondo del lavoro»24 con lo Statuto dei lavora17 È una preoccupazione che risulta evidente leggendo i verbali dei Comitati direttivi della CGIL conservati presso l’Archivio storico della CGIL nazionale. 18 Riunione della Direzione PCI del 28 luglio 1969, citata da G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 346. 19 A. Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972), cit. 20 L. Bertucelli, La gestione della crisi e la grande trasformazione (1973-1985), in Id., A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, cit., pp. 181-318. 21 Utile la testimonianza di P. Galli, Da una parte sola. Autobiografia di un metalmeccanico, a cura di Sandro Bianchi, Manifestolibri, Roma 1997, in particolare le pp. 141-152. 22 M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, cit., pp. 457-458. 23 Ivi, p. 449. 24 M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 1998, p. 252. 53 LORENZO BERTUCELLI tori e di sostenere la lunga durata dell’Autunno caldo italiano anche quando l’iniziativa sindacale si sposterà sull’obiettivo delle riforme. Da questo momento il protagonismo sindacale diventa «una questione politica». Successi e limiti dell’azione confederale: dopo il 1969 Dopo le lotte operaie e prima dei partiti politici c’è un momento in cui il sindacato è al centro della scena pubblica. È il nuovo sindacato dei consigli risultato della «coabitazione» con il movimento: nel 1973 sono 150.000 delegati e 16.000 consigli. È il risultato di un percorso complicato e mai lineare, «i nuovi organismi si sovrappongono ai vecchi, li superano e li soppiantano, senza scontri diretti. A volte senza neppure l’incontro diretto. I nuovi organismi, ampi e rappresentativi, efficaci nel coinvolgimento nei momenti di mobilitazione, si mostrano poco funzionali nelle trattative e nella gestione degli accordi, e al loro interno si determina una leadership che riproduce spesso quella sedimentatasi nell’esperienza delle commissioni interne»25. Tuttavia, la cesura rispetto alla fase precedente è netta: lo spettro e la forza contrattuale è senza precedenti, così come il ricambio e la formazione di nuove leadership è imponente. Lo si evince anche seguendo in quegli anni il dibattito interno alla CGIL sulla questione: già nel 1968, ad esempio, Lama sostiene l’impossibilità di conservare il rapporto con i lavoratori come una volta e avverte la necessità di collegare l’organizzazione alle masse operaie con mezzi fino a quel momento mai sperimentati; le istanze nuove «vanno canalizzate in quanto lievito della vita del movimento sindacale»26. O ancora, nel 1969, valutando l’efficacia delle lotte aziendali – FIAT in particolare – quando afferma apertamente che «i lavoratori vi hanno attivamente partecipato creando anche delle difficoltà alle strutture tradizionali spesso inadeguate o vecchie dell’organizzazione»27. Lo stesso dibattito sull’incompatibilità e sull’unità sindacale trova la sua genesi in questa profonda trasformazione dell’organizzazione28. Sono i metalmeccanici i protagonisti di questi processi, figure – ricorda Marco Revelli – certamente mature, collocate al centro del sistema produttivo, non emergenti, tantomeno marginali. Eppure «quel soggetto che si era rivelato incompatibile col comando capitalistico nel processo di lavoro viene frammentato, scomposto e alla fine ridimensionato nel suo potere di controllo. […] non basta evidentemente il potere sui meccanismi fondamentali del rapporto di lavoro per garantirsi la sopravvivenza. Evidentemente l’innovazione capitalistica 25 M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), cit., p. 151. A. Höbel, Organizzazione e lotte sindacali (1948-1969), in M. Ridolfi, Luciano Lama, cit., p. 160 e p. 163. 27 Verbale del Comitato direttivo CGIL, 11 luglio 1969, Archivio storico CGIL nazionale. 28 Rimando per questo a L. Bertucelli, Luciano Lama. Sindacato, società e crisi economica (19691986), in M. Ridolfi, Luciano Lama, cit., in particolare le pp. 262-272. 26 54 1969. LA CENTRALITÀ DELLA FABBRICA passa altrove, non passa solo nel processo di lavoro, ed è in grado di smontare il potere costruito lì»29. È ciò che i sindacalisti evocano, già all’indomani della firma del contratto dei metalmeccanici, come la possibile «vendetta del sistema». È sulla base di questa convinzione che la Federazione unitaria punterà sulla strategia delle riforme e sulla ricerca di nuove alleanze; ecco perché le vicende successive non riguardano più solo la fabbrica, ma l’intera società italiana. L’accesso ai consumi, le richieste di welfare e la domanda di partecipazione provocano un irrigidimento politico-istituzionale, un arroccamento del potere che di fronte all’iniziativa sindacale offre una mediazione sociale di corto respiro senza mai akcennare ad una strategia politica riformatrice. I risultati saranno così largamente al di sotto delle aspettative da aprire nuove crisi di rappresentanza nel sindacato di fronte ad una veloce chiusura della società politica nei palazzi. Insieme alla perdita di centralità del lavoro e della sua dimensione (anche) collettiva, subisce un’involuzione anche la democrazia italiana che, come ha affermato Bruno Trentin in una bella video-intervista, «non ha raccolto il testimone di quella stagione»30. 29 30 M. Revelli, in AA.VV., I due bienni rossi del Novecento 1919-20 e 1968-69, cit., p. 243. SPI-CGIL, Progetto memoria: intervista a Bruno Trentin, S. Candido, 20 luglio 1998. 55 Flessibilità del lavoro, centralità dell’impresa. La reazione del padronato all’Autunno caldo di Francesco Petrini Come rilevava nel 1943 Michał Kalecki, «la ‘disciplina in fabbrica’ e la ‘stabilità politica’ sono dei valori che gli uomini d’affari apprezzano ancora più dei profitti»1. Così, tra le conseguenze più importanti dell’Autunno caldo, da un punto di vista padronale, vi fu sicuramente l’aumento del costo della manodopera, ma ancora di più la perdita del controllo, fino allora pressoché totale, sull’organizzazione del lavoro in fabbrica. Non a caso, era proprio questo il punto che nel 1977, nella famosa intervista con Eugenio Scalfari, il presidente di Confindustria, Guido Carli, metteva in evidenza: [I sindacati] puntarono non soltanto e addirittura non tanto su rivendicazioni puramente salariali, ma sul tema della rigidità della forza lavoro. Fu questo il punto cruciale di quello scontro: sottrarre completamente e definitivamente la forza lavoro agli automatismi del mercato, all’andamento della congiuntura e alle autonome decisioni degli imprenditori. Io ebbi allora la sensazione che fossimo definitivamente entrati in un sistema che potremmo definire di labour standard, in un sistema cioè contraddistinto dal salario come variabile indipendente2. Solo pochi dati, sufficienti a farsi un’idea dei cambiamenti provocati dalla stagione di lotte apertasi in fabbrica nel 1969. Per quanto riguarda il costo del lavoro: mentre nel 1968 e nel 1969 le retribuzioni lorde pro capite crebbero in media meno del 7%, nel 1970, con l’entrata in vigore dei nuovi contratti negoziati nel punto più aspro del conflitto, esse fecero un balzo del 20%. Dopo una tregua nel 1971-72, i salari ripresero a crescere a un ritmo del 20% annuo. Di conseguenza, il salario reale crebbe di oltre una volta e mezzo tra il 1970 e il 1 M. Kalecki, Political Aspects of Full Employment, originariamente pubblicato in The Political Quarterly, vol. 14, 1943, reperibile in Aspetti politici della piena occupazione, a cura di G. Mazzocchi, Celuc, Milano 1975, citazione a p. 19. 2 G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, a cura di E. Scalfari, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 64-65. 57 FRANCESCO PETRINI 1975. La quota attribuita ai profitti del reddito generato nell’industria passò dal 34% del 1969 al 24% del 19753. Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, si può prendere ad esempio la più grande industria italiana, la FIAT. Uno dei frutti più significativi della fase cominciata nel ’69 fu, per quanto riguarda questa azienda, l’accordo integrativo aziendale del 5 agosto 1971, definito in un documento della FIOM di Torino, «il punto più alto raggiunto dal movimento sindacale alla FIAT», proprio perché si era ottenuta «una rigidità nell’uso della forza lavoro e dell’orario di lavoro che, nonostante i limiti poi riscontrati nella gestione dell’accordo, aveva sancito un potere reale dei lavoratori all’interno della fabbrica»4. A proposito della situazione dei rapporti industriali all’interno della FIAT, Marco Revelli parla di «crisi di comando», che portò, tra il 1968 e il 1973, a fronte di un aumento del 26,6% della manodopera, a un incremento della produzione di solo il 12,1%; mentre la produttività per uomo/ora, chiave di volta del miracolo FIAT nel decennio precedente, cadeva dalle 9,16 auto per dipendente del 1968 alle 8,11 auto del 19735. Si capisce quindi perché in una ricerca condotta nel corso del 1976 su un campione di piccoli e medi imprenditori, gli intervistati individuassero nella maggior rigidità dei rapporti con la forza lavoro e nello Statuto dei lavoratori che la sanciva, il maggiore fattore di squilibrio portato dall’Autunno caldo nei rapporti capitale-lavoro. Secondo uno degli intervistati, «fino a una decina d’anni fa l’imprenditore aveva una discrezionalità assoluta sull’operaio, mentre adesso si è rovesciata la situazione»6. La reazione del padronato Naturalmente gli industriali e quella parte delle classi dirigenti a loro più legata, sia pure colti di sorpresa dalla violenza del conflitto, non rimasero inerti di fronte alla nuova situazione. Nel breve periodo si tentò una risposta sulla falsariga di quella data nel 1963-64, al momento della crisi inflazionistica che pose 3 S. Rossi, La politica economica italiana 1968-2000, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 15-16. Archivio Fondazione Gramsci Piemonte, fondo FIOM-CGIL, Torino (d’ora in poi FIOM), b. 592, fasc. 3: Seminari 1972-74, FLM, Documento per il seminario «Organizzazione del lavoro», s.d., ma 1974. Con l’accordo del 5 agosto 1971 era stato sancito «il riconoscimento dei delegati di gruppo omogeneo e la possibilità di poter intervenire sui problemi di cottimo-qualifiche; acquisizione alle linee di 40’ di pausa, saturazioni massime in percentuale a seconda dei ritmi e delle cadenze; per le lavorazioni non si era riusciti a superare […] la soggettività del cronometrista, ma contestando l’insieme dei problemi delle condizioni di lavoro (cottimo, ambiente, qualifiche) in una discussione chiara coi lavoratori si era arrivati nei fatti a rifiutare ulteriori aumenti di produzione» (ibidem, il corsivo riproduce la sottolineatura nell’originale). 5 M. Revelli, Lavorare in FIAT, Garzanti, Milano 1989, p. 55. 6 A. Martinelli, La cultura economico-politica e ideologica degli imprenditori, in D. Bratina, A. Martinelli, Gli imprenditori e la crisi, il Mulino, Bologna 1978, p. 64. 4 58 FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, CENTRALITÀ DELL’IMPRESA fine al boom economico7, applicando una severa restrizione creditizia e fiscale8. Ma stavolta la ricetta, che pochi anni prima era servita a riportare il protagonismo operaio sotto controllo, non funzionò. Nelle parole di Carli, che in entrambe le occasioni si trovava al timone della Banca d’Italia: «Secondo semestre del ’69: noi conducemmo una politica del credito ispirata a criteri di restrizione. Ma nonostante ciò, nell’ultimo trimestre dell’anno si verificò l’esplosione salariale […]. In altri tempi una politica monetaria e creditizia sensibilmente restrittiva avrebbe mitigato la spinta sindacale»9. Perché non funzionò la stretta creditizia? Di sicuro per la maggiore forza del movimento dei lavoratori, che non consentiva una facile espulsione di manodopera, e forse anche per le diverse condizioni dei mercati internazionali, che con la conclusione del Kennedy Round nel 1967, il completamento del MEC nel 1968 e la crescente inflazione globale determinata dall’incipiente collasso del sistema monetario internazionale, impedivano di replicare una manovra recessiva «in un solo paese»10, pena la perdita a vantaggio della concorrenza estera di importanti quote del mercato interno. Fallita la strada più «tradizionale», nel lungo periodo si mise in campo una strategia che giocava su due piani: 1. quello «materiale», economico-organizzativo: attraverso provvedimenti di politica economica – principalmente il deprezzamento della lira – e soprattutto una profonda ristrutturazione del sistema industriale nel suo complesso e in fabbrica; 2. quello politico-culturale o di ciò che Gramsci avrebbe definito «senso comune», nel tentativo di costruire consenso attorno all’impresa e al suo ruolo di motore economico della società. In altri termini, affermare contro la «centralità della fabbrica» (con ciò intendendo, come si legge in un documento di fonte sindacale «un sistema costruito e organizzato secondo le concrete esigenze dei produttori»), la «centralità dell’impresa», cioè «un sistema che assume come valori assoluti la produzione, la produttività e l’efficienza»11. 7 Sul senso delle vicende del 1963-64, cfr. R. Bellofiore, I lunghi anni Settanta. Crisi sociale e integrazione economica internazionale, in L. Baldissara (a cura di), Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni ’60 e ’70, Carocci, Roma 2001, in particolare pp. 91-95. 8 Per un’interpretazione della manovra fiscale del 1970, il famoso «decretone» emanato dal governo Colombo, che ne sottolinea il carattere di prima risposta organica e su vasta scala data dalle autorità governative ai problemi posti dall’Autunno caldo, nel senso di tentare di «ristabilire a favore delle imprese gli equilibri economici spezzati dall’offensiva operaia», cfr. L. Berti, Inflazione e recessione. La politica della Banca d’Italia, in Primo Maggio, n. 5, 1975, citazione a p. 9. 9 G. Carli, Intervista, cit., p. 63. 10 Ma occorre ricordare che nel 1970-72 si registrò effettivamente una caduta degli investimenti, cfr. A. Gigliobianco, M. Salvati, Il Maggio francese e l’Autunno caldo italiano: la risposta di due borghesie, il Mulino, Bologna 1980, in particolare la tab. a p. 36. 11 FIOM, b. 592, Organizzazione del lavoro 1971-1979, Nota dell’FLM, Il controllo dell’organizzazione del lavoro: una scelta strategica da confermare, s.d. 59 FRANCESCO PETRINI Le misure economico-strutturali: la politica economica Se la stretta creditizia e la successiva manovra fiscale messa in campo dal governo Colombo nel 1970 non riuscirono a frenare le rivendicazioni dei lavoratori, il tentativo di ricostituire dei margini di profitto si affidò, a partire dal definitivo collasso del sistema di Bretton Woods, alla svalutazione della lira. Come è stato evidenziato si trattò di un deprezzamento differenziato, più forte rispetto al marco, più limitato rispetto al dollaro, che consentì così di rafforzarsi sui mercati di esportazione, quelli europei, Germania in primis, e di mantenere un certo equilibrio per quanto riguardava il costo delle materie prime, pagate in dollari12. Grazie al calo della lira, l’industria italiana riuscì a mantenere e conquistare nuove posizioni sui mercati internazionali, proseguendo un trend di «forzatura delle esportazioni» che ne aveva tradizionalmente caratterizzato l’atteggiamento nel secondo dopoguerra e che si era rafforzato a partire dal 1964, nell’ottica della perpetuazione di quello che è stato definito «l’equilibrio bassi consumi - bassi salari»13. Quindi, se tra il 1964 e il 1972 l’espansione delle esportazioni si era fondata sull’aumento della produttività, grazie al maggior sfruttamento della forza lavoro, dal 1973 ci si affidò alla manovra valutaria. Ma, come fu messo in luce da Augusto Graziani, si trattava, agli occhi delle autorità monetarie, dell’unica via possibile per tentare di neutralizzare gli effetti della crescita salariale e mantenere margini accettabili di profitto14. Era però una misura di corto respiro, che sollevava più problemi di quanti ne risolvesse, soprattutto in termini di rilancio dell’inflazione, e che, dal punto di vista padronale, dopo gli accordi del 1975 perse gran parte della sua utilità nello sterilizzare gli aumenti salariali15. Non è un caso che alla fine del decennio, anche per effetto delle richieste dei maggiori partner comunitari, e con una bilancia di forze interna tra capitale e lavoro in moto verso nuovi equilibri, la politica valutaria muterà totalmente di segno con 12 A. Graziani, L’economia italiana e il suo inserimento internazionale, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, L’Italia nella crisi mondiale: L’ultimo ventennio, tomo 1, Economia e società, Einaudi, Torino 1996, p. 363. 13 La definizione viene da F. Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali di interpretazione, in Storia d’Italia. Annali, vol. I, Dal feudalesimo al capitalismo, Einaudi, Torino 1978. Per le posizioni dell’industria privata circa l’integrazione economica del paese nel sistema internazionale cfr. F. Petrini, Grande mercato, bassi salari: la Confindustria e l’integrazione europea, 1947-1964, in P. Craveri, A. Varsori (a cura di), L’Italia nella costruzione europea. Un bilancio storico (1957-2007), Franco Angeli, Milano 2009. 14 A. Graziani e F. Meloni, Inflazione e fluttuazione della lira, in G. Nardozzi (a cura di), I difficili anni ’70. I problemi della politica economica italiana 1973-1979, Etas, Milano 1980. 15 Si veda ad es. il testo della conferenza tenuta nel febbraio 1976 alla Camera di commercio italo-americana dal direttore generale della Confindustria, Franco Mattei: Le condizioni economiche per rimanere nel sistema delle democrazie occidentali, in F. Mattei, Quarant’anni di economia italiana. Scritti e discorsi, SIPI, Roma 1986, pp. 385-392. 60 FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, CENTRALITÀ DELL’IMPRESA la decisione di aderire al Sistema monetario europeo e l’adozione del Piano Pandolfi16. Le misure economico-strutturali: il decentramento Nel frattempo, l’industria attraversò una fase di profonda ristrutturazione. È nel corso degli anni ’70 che nel mondo del capitalismo industriale avanzato rallenta e in alcuni casi si inverte, quella tendenza, quasi secolare, all’aumento della dimensione media di impresa17. Nel caso italiano questo sviluppo si presenta con maggiore forza che in altri paesi e la piccola e media impresa sembra affermarsi come pilastro centrale dello sviluppo economico del paese18. Non per caso, in questo periodo cominciano i primi studi approfonditi sul ruolo della piccola impresa, le discussioni sulla sua capacità autonoma di sviluppo e sulla sua capacità di rappresentare una valida alternativa al modello fordista. Si comincia a parlare di «Terza Italia» e via via si affermano i sostenitori del «piccolo è bello», con poche, ma rilevanti eccezioni19. Quel che qui ci interessa sottolineare è che questo boom della piccola impresa è in buona parte da leggersi come reazione al rafforzamento del potere contrattuale del lavoro. Di fronte all’ingovernabilità della grande fabbrica la soluzione fu cercata nel decentramento produttivo, spostando dal grande verso il piccolo intere linee di produzione, andando alla ricerca di un minor costo del lavoro e soprattutto di una manodopera più controllabile20. 16 Si vedano G. Nardozzi, Introduzione e il testo integrale del piano Pandolfi, entrambi in G. Nardozzi (a cura di), I difficili anni ’70, cit., pp. 3-56. 17 Per un’analisi diacronica della successione dei sistemi di impresa egemonica, dalle società per azioni privilegiate del XVII secolo, sul modello della Compagnia olandese delle Indie orientali, alle grandi corporations del modello statunitense, cfr. G. Arrighi, K. Barr, S. Hisaeda, La trasformazione dell’impresa, in G. Arrighi, B.J. Silver (a cura di), Caos e governo del mondo, B. Mondadori, Milano 2003. 18 Per un’analisi comparata del fenomeno cfr. F. Traù (a cura di), La questione dimensionale nell’industria italiana, il Mulino, Bologna 1999, in particolare i saggi di F. Traù, Parte prima: la logica del cambiamento. Il riemergere della small scale production nei paesi industriali, e A. Arrighetti, Integrazione verticale in Italia e in Europa: tendenze e ipotesi interpretative. 19 Tra le eccezioni più rilevanti si vedano i lavori di Marcello De Cecco – come ad es. Il declino della grande impresa, in G. Toniolo, V. Visco (a cura di), Il declino economico dell’Italia. Cause e rimedi, B. Mondadori, Milano 2004 – e di Luciano Gallino, in particolare La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003. 20 Nella sterminata letteratura sul decentramento ci limitiamo a segnalare i lavori fondanti del punto di vista qui indicato: A. Graziani (a cura di), Crisi e ristrutturazione dell’economia italiana, Einaudi, Torino 1975 (si veda anche Id., Lo sviluppo dell’economia italiana: dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 88-96); M. Messori, M. Revelli, Centralità operaia, in Primo Maggio, n. 9-10, 1977-78. Molto utili anche gli atti del convegno organizzato dalla FLM di Bergamo: Sindacato e piccola impresa. Strategia del capitale e azione sindacale nel decentramento produttivo, a cura della FLM Bergamo, De Donato, Bari 1975. 61 FRANCESCO PETRINI È innegabile che la forza della piccola impresa in Italia sia anche frutto della storia dell’industrializzazione di questo paese e delle sue condizioni sociali, oltre che di sviluppi tecnologici che vennero a maturazione proprio a partire dagli anni ’7021; e d’altra parte la ristrutturazione non fu solo dettata dall’esigenza di rispondere al conflitto di fabbrica, ma anche da altri sviluppi, in particolare dalla concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione. Ma non è certo un caso che il movimento verso l’accentramento e la fusione di imprese, che era stato particolarmente forte nella seconda metà degli anni ’60, si inverta bruscamente in un clima di aperto conflitto sociale. Come rilevava Sebastiano Brusco, uno dei primi studiosi a sottolineare il ruolo crescente della piccola impresa, vi è una relazione diretta tra intensità del controllo padronale sulle masse operaie e dimensione degli impianti22. La funzione «politica» del decentramento è bene esplicitata in un rapporto redatto nel 1974 dalla commissione operaia torinese di Lotta continua, in cui si legge, a proposito dei subfornitori della FIAT: serv[ono] per portare fuori dalla fabbrica le lavorazioni più pericolose, e più nocive (per es. fonderie, stampaggio, cromature, verniciatura) ed in qualche caso anche quelle che richiedono maggiore specializzazione, in luoghi dove i salari sono decisamente inferiori a quelli FIAT, le misure antinfortunistiche pressoché assenti, e la forza della classe operaia è molto compressa sia dalle piccole dimensioni delle officine, sia dal rapporto che si instaura tra il piccolo padrone e i suoi operai […]. La resistenza al lavoro che si esprime nei grandi stabilimenti […] qui ha molto meno capacità di farsi valere23. In questi anni si assiste quindi a uno spostamento di produzioni dalla grande alla piccola impresa che riguarda molti settori, soprattutto il metalmeccanico24, ma anche il tessile25, ed in parte anche settori ad alta intensità di capitale come 21 Il decentramento non risponde solo a una scelta «politica» di contrasto al potere crescente del lavoro in fabbrica, ma è il frutto anche di altre condizioni: tradizionale peso della piccola e media impresa, condizioni tecniche legate alla standardizzazione di certe produzioni, l’evoluzione tecnologica messa in moto come risposta alla perdita del primato produttivo statunitense. Si veda ad es. l’intervento di Ada Collidà, in Sindacato e piccola impresa, cit., in particolare p. 113, che coglieva alcune di queste dinamiche. In generale, sulla relazione tra l’indebolimento della leadership economica statunitense e l’esplosione tecnologica nel campo della comunicazione ed informazione, cfr. R.R. Nelson, G. Wright, The Rise and the Fall of American Technological Leadership: The Post-War Era in Historical Perspective, in Journal of Economic Literature, n. 30, 1992, pp. 1931-1964. 22 Non per caso, aggiungeva Sebastiano Brusco, Mirafiori fu costruita durante il fascismo; S. Brusco, Organizzazione del lavoro e decentramento produttivo nel settore metalmeccanico, in Sindacato e piccola impresa, cit.; poi ripubblicato anche in S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, Rosenberg & Sellier, Torino 1989, pp. 113-117. 23 E. Deaglio (a cura di), La FIAT com’è. La ristrutturazione davanti all’autonomia operaia, Feltrinelli, Milano 1975, p. 155. Si veda anche l’intervento del direttore del Centro studi CISL di Verona, Federico Bozzini, in Sindacato e piccola impresa, cit., pp. 94-106. 24 Cfr. S. Brusco, Organizzazione del lavoro e decentramento produttivo nel settore metalmeccanico, cit. 25 Cfr. L. Frey (a cura di), Lavoro a domicilio e decentramento dell’attività produttiva: nei settori tessile e dell’abbigliamento in Italia, Franco Angeli, Milano 1975. 62 FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, CENTRALITÀ DELL’IMPRESA il chimico26 o il siderurgico27. Nel settore macchine utensili, cioè il cuore tecnologico di un sistema industriale, la dimensione media di impresa per unità locale passa dai 59 addetti del 1961 ai 37 del 197128. Nel corso degli anni ’70 questa tendenza accelera. Nel Nord Italia, l’area a più alta densità industriale del paese, il valore medio di addetti per unità locale nel comparto manifatturiero passa dal 13,3 del 1971 al 10,8 del 1981, con il più drastico ridimensionamento delle dimensioni aziendali registrato nel settore dei mezzi di trasporto, dove si passa – nello stesso periodo – da 113,4 addetti in media per unità locale a 69,6, un calo che continuerà inarrestabile negli anni seguenti, fino ad arrivare ai 39,9 addetti per unità locale del 200129. Inoltre, il decentramento come ricerca di maggiore flessibilità gestionale si concretizza nella fine del paradigma centralizzatore nell’organizzazione della grande azienda e nell’adozione del modello statunitense dell’impresa integrata organizzata per holding indipendenti30. Accanto a tutto ciò, le grandi aziende cominciavano a mettere in atto anche la delocalizzazione geografica, sia all’interno che all’esterno del paese. La FIAT annunciò nell’aprile 1970 la decisione di investire in siti produttivi nel Mezzogiorno (per un complesso di investimenti di circa 250 miliardi di lire)31, invertendo una politica di sviluppo che fino a quel momento era stata saldamente ancorata a Torino32. Dietro questa decisione c’era certo il calcolo di usufruire dei finanziamenti pubblici per lo sviluppo del Meridione, ma anche la ricerca di nuovi bacini di manodopera, più gestibile e meno organizzata, e la fuga dalle grandi concentrazioni di lavoro operaio verso stabilimenti più piccoli e isolati in territori prevalentemente agricoli. Negli stessi anni l’azienda torinese rafforzò la sua presenza all’estero, con l’apertura o l’espansione di stabilimenti in Polo- 26 Come osservava Brusco, se la SIR, Società italiana resine, il terzo gruppo chimico italiano con 13.000 dipendenti nel 1975, suddivideva in 60 imprese la sua azienda di Porto Torres, ciò non si spiegava «solo con l’esigenza di ottenere una massa maggiore di contributi dallo Stato»; S. Brusco, Piccole imprese e distretti industriali, cit., p. 116. 27 Cfr. la testimonianza di Achille Piantoni, delegato della Dalmine di Costa Volpino, in Sindacato e piccola impresa, cit., pp. 142-144. 28 FIOM, b. 429, fasc. 3: Indagine sulla ristrutturazione, 1977, Nota FLM Torino, Materiali per l’indagine sulla ristrutturazione: Comunicazione sul settore delle macchine utensili in Italia, 22/3/1976. 29 Cfr. G. Vitali, Gli indicatori della trasformazione, tab. 12, in G. Berta (a cura di), La questione settentrionale. Economia e società in trasformazione, Feltrinelli, Milano 2008, p. 156. 30 Sulla ristrutturazione aziendale in questi anni in genere e con uno studio del caso FIAT in particolare, cfr. A. Mosconi, E. Rullani, Il gruppo nello sviluppo dell’impresa industriale, Isedi, Milano 1978. 31 V. Castronovo, FIAT 1899-1999: un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano 1999, p. 1238. Cfr. anche A. Imazio, C. Costa, L’organizzazione del lavoro alla FIAT. Produzione e conflittualità operaia, Marsilio, Padova 1975, pp. 139-150. 32 Alla fine degli anni ’60, Giorgio Ruffolo e Luciano Cafagna, inviati dal Ministero del Bilancio ad esaminare con la FIAT la possibilità di decongestionare l’area torinese, si erano visti rifiutare da parte della dirigenza dell’azienda ogni ipotesi di sviluppo al Sud; cfr. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, 1919-1979, il Mulino, Bologna 1998, pp. 150-151. 63 FRANCESCO PETRINI nia, Jugoslavia, Spagna, Turchia, Brasile, Argentina. Di conseguenza, mentre nel 1968 l’82,8% degli autoveicoli del gruppo FIAT (società controllate, collegate o licenziatarie) veniva realizzato in Italia, negli anni seguenti questa percentuale diminuisce costantemente fino a giungere al 58,9% nel 197733. Al tempo stesso, nell’industria, si dava avvio a un processo di rinnovamento tecnologico che, mentre raccoglieva alcune istanze del movimento operaio per l’umanizzazione del lavoro («un diverso modo di lavorare») e per una maggiore tutela della salute, mirava però a ribaltarne il segno, promuovendo una ristrutturazione tecnologica tesa al risparmio della manodopera e al recupero della flessibilità34. Un carattere paradigmatico a questo riguardo rivestì lo scontro determinato dall’entrata in funzione delle nuove cabine di verniciatura a Mirafiori nel settembre 1979. Con il rinnovo e la parziale automazione degli impianti, innovazioni che portarono a un sensibile miglioramento delle condizioni ambientali, la FIAT decise unilateralmente il dimezzamento della durata delle pause orarie (un quarto d’ora, come sancito dall’accordo del 1971, al posto della mezz’ora guadagnata nel corso delle vertenze degli anni successivi). Sulla questione si sviluppò un duro confronto, con il sindacato che difendeva il principio che l’innovazione tecnologica dovesse andare a vantaggio dei lavoratori e soprattutto non era intenzionato a far passare un atto unilaterale dell’azienda sull’organizzazione del lavoro35. Come scrive Musso: «La vertenza assunse un valore emblematico e si concluse con la prima significativa sconfitta dei lavoratori»36. Dopo due settimane il sindacato capitolò. Alcuni anni dopo Cesare Romiti definì l’episodio «una svolta, una modifica nei rapporti fra direzione aziendale e sindacato, una novità che non si vedeva da dieci anni. E infatti era da dieci anni che l’azienda non prendeva una decisione del tutto autonoma sul lavoro»37. Sempre a Cesare Romiti dobbiamo il migliore sunto del senso della vicenda tecnologica alla FIAT: 33 G. Pescetto, Il settore dell’auto negli anni ’60 e ’70 e la strategia della FIAT, in AA.VV., La ristrutturazione nell’auto e nei componenti e la posizione della FIAT, Istituto piemontese di scienze economiche e sociali A. Gramsci, Torino 1980, p. 22. Secondo Vincenzo Comito (La FIAT tra crisi e ristrutturazione, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 40-41), solo nella seconda metà degli anni ’70 gli investimenti esteri dell’azienda si configurano come realmente alternativi all’aumento dell’occupazione in Italia. 34 Di questa sconfitta vi era ampia coscienza all’interno del sindacato; si veda ad es. FIOM, b. 592, fasc. 3, Seminari 1972-74, Note per la preparazione del seminario su «Organizzazione del lavoro, piani di settore, rinnovi contrattuali», s.d. 35 Cfr. le osservazioni di Tom Dealessandri, all’epoca responsabile del coordinamento sindacale FIAT, in T. Dealessandri, M. Magnabosco, Contrattare alla FIAT. Quindici anni di relazioni sindacali, a cura di C. De Giacomi, Edizioni Lavoro, Roma 1987, pp. 82-83. Per le osservazioni di Magnabosco, cfr. p. 173. 36 S. Musso, Le relazioni industriali alla FIAT, in C. Annibaldi, G. Berta (a cura di), Grande impresa e sviluppo italiano. Studi per i cento anni della FIAT, il Mulino, Bologna 1999, p. 220. 37 C. Romiti, Questi anni alla FIAT, intervista a cura di G. Pansa, Rizzoli, Milano 1988, p. 93. 64 FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, CENTRALITÀ DELL’IMPRESA avete [voi sindacalisti] tanto insistito con questa storia di produrre l’automobile in modo nuovo che la FIAT ha finito per pensarci lei. Anzi, è passata all’avanguardia. E ha spinto così forte sull’automazione da realizzare, sì, un nuovo modo di fare l’auto, però a vantaggio dei costi di produzione, e quindi non nel senso che immaginavate voi38. La «battaglia delle idee» Questi sviluppi sul piano «materiale» furono accompagnati e sostenuti da una «battaglia per le idee», tesa innanzitutto a modificare l’immagine dell’impresa e a rafforzarne il peso nella società, nel tentativo di riconquistare un ruolo egemonico per il padronato, proponendo la figura dell’imprenditore come quella del portatore e del gestore dell’innovazione39, e dell’impresa e del mercato come gli unici meccanismi creatori di ricchezza per tutti40. Alla fine degli anni ’60, l’industria non appariva più solo come produttrice di benessere, ma anche e soprattutto come fonte di squilibri sociali e di sfruttamento del lavoro. Nelle parole di Gianni Agnelli: «Dicono che siamo in una società industriale che riesce a farsi consumare, ma non a farsi amare»41. Tra le file padronali cresceva la consapevolezza di aver per troppo tempo trascurato i rapporti tra l’impresa e l’ambiente esterno e di aver eccessivamente delegato, per miopia politica, la gestione di problemi la cui mancata risoluzione ora si ritorceva contro il mondo imprenditoriale stesso. Già prima dello scoppio conflittuale dell’autunno 1969 si diffondeva tra le fila degli industriali l’esigenza di un recupero padronale sul piano dell’immaginario collettivo. Da questa presa di coscienza nacquero alcuni progetti tesi a una rielaborazione dell’immagine e del ruolo dell’industria. Il primo di questi, il progetto Valletta, mosse i primi passi nel luglio 1968 su iniziativa della neonata Fondazione Agnelli (a sua volta uno dei frutti più rilevanti della consapevolezza della necessità di un recupero imprenditoriale sul piano culturale), con l’obietti38 Ivi, p. 89. Cfr. per es. le dichiarazioni di Giuseppe Pellicanò, presidente dell’Assolombarda, al primo seminario organizzato dall’Istituto internazionale di tecnologia, sorto a Milano su iniziativa dell’OCSE con il sostegno di Assolombarda, in Mondo economico, 24 giugno 1972. Pellicanò, dando voce all’ideologia della centralità imprenditoriale, sosteneva che «possedere ‘spirito innovativo tecnologico’ è caratteristica eminente del management», perciò – in una fase in cui la tecnologia «pare dominare la nostra vita» – «noi non possiamo che auspicare la diffusione e lo sviluppo del management come concezione della azione sociale [corsivo nell’originale] […]. Vorremmo che questa concezione permeasse di sé sia le sedi di azione privata, sia le sedi di azione pubblica, sia le associazioni di interessi, sia gli operatori della cultura. E ciò perché il management è un metodo di generale applicazione per affrontare i problemi dell’esistenza» (p. 47). 40 Cfr. ad esempio le tesi sostenute nel pamphlet dell’ex presidente della Lancia, Agostino Canonica, Imprenditori contestati, Franco Angeli, Milano 1978. 41 FIOM, b. 457, Il progetto Valletta un anno dopo. Introduzione del dott. G. Agnelli, 24 novembre 1970. 39 65 FRANCESCO PETRINI vo di promuovere il ricambio e la rigenerazione culturale dell’imprenditoria, favorendo l’«integrazione fra detentori del potere politico ed economico da una parte e scienziati, ricercatori, uomini di cultura dall’altra»42. A questa iniziativa ne seguirono altre, più note, come quella dei giovani imprenditori dell’Unione industriale di Torino, che nel maggio 1969 si fecero promotori di un ponderoso studio, Una politica per l’industria, in cui si argomentava a favore di «un più diretto impegno degli imprenditori nelle attività sociali e nella vita politica, [per] rimuovere il cumulo dei pregiudizi esistenti e accreditare l’immagine dell’imprenditorialità come servizio sociale»43. I giovani industriali rappresentavano la punta di lancia di una corrente che mirava a un profondo ripensamento delle strategie e del ruolo della Confindustria. Il sistema industriale, come architrave principale della società moderna, avrebbe dovuto essere giustificato da «valori», e l’associazionismo imprenditoriale avrebbe dovuto svolgere il compito di «‘emittente’ di questi valori»44. Queste istanze vennero raccolte ai vertici confindustriali, piuttosto restie ad impegnarsi su questo piano, solo a partire dalla presidenza di Gianni Agnelli, eletto alla guida della Confindustria nel maggio 1974, e, forse in misura ancora maggiore, dal 1976 con la presidenza di Carli, quando la maggiore associazione imprenditoriale divenne il centro promotore del rinnovamento culturale e politico del mondo padronale45. Come disse Agnelli nel suo discorso di insediamento alla presidenza confindustriale: «noi tutti vogliamo che l’impresa sia considerata anche in Italia come lo strumento più dinamico di cui un popolo può disporre per realizzare il suo sviluppo e come un pilastro essenziale di una società libera e moderna»46. Che fosse finito il tempo delle deleghe e a quale altezza si situasse la sfida, ben si comprende da un documento confindustriale del 1977: oggi si avverte un vuoto ideologico e quindi di egemonia da parte dei tradizionali apparati. In questo vuoto si inserisce con proprie proposte il mondo industriale […]. La 42 Ibidem. Una politica per l’industria. Rapporto sulla figura dell’imprenditore e sull’organizzazione industriale nella società italiana, a cura della Commissione problemi organizzativi del comitato centrale del Gruppo giovani industriali, Tip. Canale, Torino 1969, pp. 33-34. Sul Rapporto Una politica per l’industria e sulla Relazione Pirelli cfr. G. Mossetto, Introduzione. Il «nuovo padronato», in AA.VV., La politica del padronato italiano. Dalla ricostruzione all’Autunno caldo, De Donato, Bari 1972; G. Berta, L’Italia delle fabbriche, il Mulino, Bologna 2001, pp. 194-202; F. Lavista, Il declino della grande impresa, in G. Berta (a cura di), La questione settentrionale, cit., in particolare pp. 256-272. 44 Una politica per l’industria, cit., p. 311. 45 Sulla Confindustria in questi anni cfr. G. Provasi, Borghesia industriale e Democrazia Cristiana. Sviluppo economico e mediazione politica dalla ricostruzione agli anni Settanta, De Donato, Bari 1976, cap. 6; I. Attorresi, G. Raimondi, La Confederazione generale dell’industria italiana, in F. Peschiera (a cura di), Sindacato, industria e Stato negli anni dell’emergenza. Storia delle relazioni industriali in Italia dal 1972 al 1983, Le Monnier, Firenze 1994. 46 G. Fiocca (a cura di), Quaranta anni di Confindustria. Economia e società nei discorsi dei presidenti, vol. II, Seme, Milano 1989, p. 439. 43 66 FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, CENTRALITÀ DELL’IMPRESA Rappresentanza deve mettersi quindi in condizione di gestire culturalmente il rilancio industriale, svincolando la ristrutturazione dalle condizioni che un nuovo blocco di potere potrebbe imporre per consolidare, utilizzando la crisi, strumenti di controllo della produzione ancora più soffocanti di quelli esistenti47. Il fine ultimo era niente di meno che – per utilizzare le parole di un documento confindustriale del 1979 – «rendere la cultura della società compatibile con la funzione imprenditoriale»48. In questa battaglia per l’egemonia, la parte padronale fece proprie alcune istanze fino allora pervicacemente rifiutate: dalla programmazione49 al dialogo coi sindacati. Ci si può domandare quanto vi fosse, in queste aperture riformiste, di genuino convincimento riguardo alla necessità di un cambiamento e quanto di strumentale. Di certo, queste posizioni erano frutto delle sconfitte che la parte padronale aveva subito nei primi anni ’70 nelle varie tornate di rinnovi contrattuali e nella gestione quotidiana delle aziende. Non a caso i primi sostenitori di un’apertura al dialogo coi sindacati e di un maggior coinvolgimento politico del padronato nella risoluzione dei problemi strutturali del paese sono i rappresentanti delle grandi fabbriche a relativamente più alta intensità di manodopera, in testa la FIAT. Che si trattasse più che altro di una battaglia difensiva, volta a depotenziare il conflitto, tesa a cedere terreno sul piano contrattuale per guadagnare pace in fabbrica e il tempo necessario a sedimentare una rivalutazione globale del ruolo dell’imprenditore e del mercato, lo fanno pensare molti elementi. Ad esempio l’analisi prodotta da Cesare Annibaldi, una figura chiave delle relazioni industriali alla FIAT negli anni ’7050: i tantissimi accordi siglati dalla FIAT in questi anni (secondo Musso 177 accordi interni tra il 1975 e il 1979 nei soli tre grandi stabilimenti torinesi51) erano figli – nell’opinione di Annibaldi – dell’esigenza di «fare argine all’attacco del sindacato», imbrigliandone l’iniziativa. «Paradossalmente questa contrattazione, pur comportando un fortissimo ampliamento dei 47 Confederazione generale dell’industria italiana (CGII), Relazione sull’attività confederale, SIPI, Roma 1977, p. 5. Per questi fini, nel 1976, sotto la presidenza Carli, nacquero nell’ambito della Direzione relazioni esterne due progetti, «Impresa e società» e «Scuola», specificamente diretti a «rafforzare il ruolo storico degli imprenditori», il primo secondo le linee citate, il secondo per aumentare l’influenza del punto di vista padronale sul mondo della scuola di ogni ordine e grado e sull’università. Nel 1978 ad essi si affiancherà il «Progetto leadership confederale», con l’obiettivo di «aggregare il mondo imprenditoriale intorno ad un modello culturale e sociale che riscuota il consenso di altri gruppi sociali» (CGII, Relazione sull’attività confederale, SIPI, Roma 1979, p. 12). 48 CGII, Relazione sull’attività confederale, Roma, SIPI, 1979, p. 14. 49 Si vedano ad es. gli interventi di Giovanni Agnelli e Guido Carli al convegno organizzato nell’ottobre 1975 a Roma dalla Federazione nazionale dei cavalieri del lavoro, in AA.VV., L’impresa nell’economia italiana, Franco Angeli, Milano 1976. 50 Nel 1973 entrò alla FIAT presso la Direzione relazioni industriali del Settore Auto, divenendone il direttore nel 1976. Nel 1977 assunse la responsabilità della Direzione relazioni industriali del Gruppo. 51 S. Musso, Le relazioni industriali alla FIAT, cit., p. 212. 67 FRANCESCO PETRINI poteri del sindacato e dei lavoratori, era stata utilizzata dall’azienda che, mediante gli accordi, cercava di tutelarsi da una situazione di assoluta mancanza di regole […]»52. E ancora: «Alla conflittualità l’azienda ha risposto principalmente attraverso la contrattazione. Lo strumento contrattuale, che era usato dai delegati e dal sindacato come metodo di lotta e di cambiamento continuo, noi lo utilizzavamo come mezzo di difesa e di conservazione, per contenere la spinta del conflitto»53. Questa logica si trasferì dal piano aziendale a quello nazionale, con gli accordi interconfederali del gennaio 1975, che furono definiti da Agnelli, di fronte all’attacco di chi li considerava un cedimento ai sindacati, «validi» per le conseguenze in termini di allentamento del conflitto sociale e per il fatto di aver impegnato il sindacato a «superare l’atteggiamento tradizionale di estraneità alla produzione, accogliendo il principio che la difesa del lavoratore passa necessariamente attraverso la difesa dell’operato e della funzionalità dell’impresa»54. A livello politico, si tentò un’operazione simile di contenimento e di deviazione del conflitto verso altri obiettivi, con le polemiche contro il parassitismo della rendita e contro l’immobilismo delle forze di governo, DC in testa, e le proposte dell’«alleanza dei produttori» per modernizzare il paese. Una strategia che venne lanciata in grande stile nel novembre 1972, con la celebre intervista concessa da Agnelli a Scalfari per l’Espresso, in cui si denunciava il peso delle rendite che schiacciava i profitti e i salari, spingendo i sindacati ad addossare alle imprese oneri impropri55. Posizioni poi riprese con forza da Carli in veste di presidente confindustriale, con le polemiche su «lacci e lacciuoli» e le sue invocazioni di un impegno diretto della borghesia imprenditoriale nel nome di una «rivoluzione borghese»56 da condurre in alleanza con gli operai produttivi. In realtà si trattava di un disegno che ex post appare abbastanza velleitario, proposto da un padronato profondamente diviso tra un’ala «modernizzatrice» facente capo agli Agnelli e un’ala più legata alla DC, a cavallo tra industria pubblica e privata, capeggiata da Eugenio Cefis e dalla Montedison, le cui posizioni intransigenti riguardo alle relazioni industriali, dettate dalla diversa ottica in cui si trovava un’industria come quella chimica ad alta intensità di capitale, trovavano peraltro consenso tra i piccoli imprenditori57. D’altra parte gli stessi promotori dell’ipotesi della «alleanza dei produttori» sembrarono oscillare tra un genuino impegno in questo senso e un uso strumentale di esso per cooptare 52 C. Annibaldi, Impresa, partecipazione, conflitto, Marsilio, Padova 1994, p. 50. Ivi, p. 44. Cfr. anche T. Dealessandri, M. Magnabosco, Contrattare alla FIAT, cit., pp. 129-130. 54 I. Attorresi, La Confederazione generale dell’industria italiana, cit., pp. 254-255. 55 E. Scalfari, La malattia profitto zero, intervista a Giovanni Agnelli, in L’Espresso, n. 47, 19 novembre 1972. 56 La definizione è di Scalfari, cfr. G. Carli, Intervista, cit., p. 115, ma era certamente condivisa da Carli. 57 Cfr. la disamina della dialettica interna al mondo confindustriale proposta da G. Provasi, Borghesia industriale e Democrazia Cristiana, cit. 53 68 FLESSIBILITÀ DEL LAVORO, CENTRALITÀ DELL’IMPRESA una parte almeno del movimento sindacale nelle logiche di impresa. Alla luce di questa ambiguità non stupisce che l’idea non riuscisse a sfondare tra le file sindacali. Conclusione In conclusione, si può affermare che la parte padronale abbia seguito una strategia «gattopardesca»: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!». Citazione abusata, ma credo che colga bene un aspetto almeno della realtà. Da un lato infatti il sistema produttivo italiano conobbe una vera e propria rivoluzione strutturale, abbandonando trend che fino allora sembravano inarrestabili, e si frantumò e rinnovò dal punto di vista tecnologico, alla ricerca della «governabilità dell’impresa» e di quella «flessibilità» che diverrà il mantra degli anni successivi, rafforzando un modello di piccola impresa che in qualche lettura diverrà paradigmatico di una risposta vincente alle sfide della globalizzazione. Dall’altro, questa rivoluzione servì a riaffermare, rivisto e corretto naturalmente, un modello basato sulle esportazioni e sui bassi costi della manodopera che ha radici antiche in quell’equilibrio dei bassi salari e bassi consumi individuato come carattere strutturale dell’economia del Bel paese58. Due sono gli aspetti ulteriori da sottolineare. Primo, non siamo in presenza di una strategia padronale definita e coerente che dalle dure lezioni apprese all’inizio del decennio portò al licenziamento dei 61 alla FIAT nel 1979 e poi alla «marcia dei 40 mila». Si trattò di un percorso tortuoso, che procedette lungo la linea di minor resistenza, per cui da un’iniziale apertura a forme di neocapitalismo riformatore, assumendo tesi e proposte fino a poco prima duramente osteggiate, si passò, via via che le posizioni padronali si rafforzavano, grazie anche alla crisi economica che nella seconda metà degli anni ’70 costrinse il movimento dei lavoratori su posizioni sempre più difensive, ad un atteggiamento più intransigente. Ma le posizioni di Romiti a fine anni ’70 furono preparate e rese possibili, oltre che dai molti errori compiuti dalla sua controparte, dai cambiamenti di cui il mondo padronale si era fatto interprete e promotore negli anni precedenti. In questo quadro, e questo è il secondo punto importante, occorre sottolineare il ruolo centrale giocato in questa operazione dai due sviluppi su cui ci siamo soffermati: da un lato la ristrutturazione dell’apparato produttivo basata sul superamento del modello fordista, che lasciò una durevole impronta sull’economia italiana; dall’altro, la battaglia per l’egemonia politico-culturale, attraverso l’affermazione della «centralità dell’impresa». È quest’ultima una vicenda assai poco indagata nei suoi snodi concreti, sia a livello interno che internazionale, ma che mi sembra cruciale nel preparare il terreno alla svolta di fine anni 58 Cfr. le fonti citate nella nota 13. 69 FRANCESCO PETRINI ’70 e alla vicenda dei «35 giorni» nel 1980. L’importanza della conquista del senso comune per preparare il terreno e poi consolidare la controffensiva padronale ben risalta nelle parole di Romiti: se dopo il 1980 non solo io, ma tutti quelli come me non avessero continuato a battere il ferro finché era caldo, oggi forse saremmo tornati alle follie degli anni ’70. Per questo, dopo il 1980 ho cominciato a trasmettere messaggi in pubblico. E dappertutto insistevo nel dire che l’impresa era il centro del sistema, perché era il motore che garantiva il benessere della società. Capivo che estremizzavo, che rischiavo d’essere frainteso, d’essere definito, come son stato definito, un estremista della centralità dell’impresa. […] Ma se non avessimo martellato quel concetto in tutto il dopo-Ottanta, con ostinazione, a costo di apparire rozzi, rischiavamo davvero di tornare indietro59. 59 C. Romiti, Questi anni alla FIAT, cit., p. 138. 70 1969. Dalle storie separate alla storia della democrazia italiana di Luca Baldissara * Il ’69 operaio fatica a trovare una propria collocazione nella storia dell’Italia contemporanea. Ora si inclina verso una rappresentazione storiograficamente «autarchica», che lo separa da un prima e da un dopo, ora si piega verso l’applicazione ad esso di un «teorema politologico», che riconduce – come già nel caso del ’68 studentesco – il conflitto di fabbrica e sociale ad una logica di domanda (della società civile) e risposta (del sistema politico), di azione (collettiva) e reazione (politica). A seconda dei punti di vista, dunque, lo si interpreta come uno dei momenti alti – il momento alto – della storia del movimento operaio, che si inanellerebbe in una catena – corta in verità – di fasi «eroiche» delle lotte sociali, dal biennio rosso 1919-20 (e non a caso si parla di «secondo biennio rosso» per il 1968-69) agli scioperi del marzo ’43 e dell’anno successivo, dai duri conflitti degli anni ’50 a quelli dei primi anni ’60, sino appunto al ’69 operaio, apogeo di una stagione novecentesca – definitivamente chiusasi nel 1980, con i «35 giorni» alla FIAT – su cui talora poggia lo sguardo malinconico di chi è consapevole trattarsi di un periodo ormai concluso. Oppure lo si assume come la fase in cui il sindacato si rivelerebbe all’apice della propria incapacità di superare il cronico conflittualismo che ne caratterizza la storia, soffiando sulla politicità delle lotte a discapito di una prospettiva riformistica, assecondando le frange più radicali e disvelando così la patologica assenza di una cultura delle relazioni industriali. Ovvero lo si configura come il periodo in cui conclamata diviene l’incapacità delle classi dirigenti di adeguare le strutture politiche e istituzionali del paese alle profonde e convulse trasformazioni sociali e culturali prodotte dagli intensi processi migratori, dall’ingresso nel sistema dei consumi di massa, dal caotico urbanesimo, dall’espansione industriale. Da questi diversi ceppi interpretativi – generati con prolificità variabile dal paradigma «eroico», da quello «patologico», da quello «politologico» – sono di- * Si pubblica la relazione rivista e inviata dall’autore, benché priva del corredo di riferimenti bibliografici non pervenuti. 71 LUCA BALDISSARA scese storiografie spesso autarchiche, che hanno contribuito a tracciare profili separati della storia dell’Italia contemporanea e della storia del lavoro. Accomunati però da una visione del «sistema» – quello economico e finanziario, quello politico e istituzionale – come un’entità in sé, una struttura delle relazioni sociali che si costruisce altrove dal processo storico (dunque dal mutamento nel tempo), che risponde alle pressioni esterne con una sua intrinseca razionalità strumentale (soprattutto in termini di autodifesa), che è vincolato e governato nei suoi meccanismi di funzionamento da regole quasi oggettive di comportamento dettate da nessi logici di azione/reazione, domanda/risposta, causa/effetto. In fondo, è una riproposizione aggiornata della schematica dialettica società politica/società civile, entro la quale gli attori politico-istituzionali – la classe politica, le élites economiche, gli apparati amministrativi – reagirebbero alle rivendicazioni diffuse e generalizzate della società civile rinserrandosi nella cittadella del potere e difendendo – anche per logiche inerziali, non necessariamente e sempre per interesse – i loro spazi di riproduzione. Di fatto, da queste ricostruzioni si ricava spesso l’impressione che i fenomeni economici siano calati in una dimensione naturalistica e che i fatti politici e istituzionali si svolgano in ragione di automatismi intrinseci: i primi risponderebbero a logiche oggettive, prevedibili in base all’applicazione di leggi del comportamento elaborate nel freddo calcolo dell’interesse, e nettamente separate dalle dinamiche politico-sociali, inquinate e travolte invece dal surriscaldamento delle passioni; i secondi sarebbero comprensibili solo entro processi di autodifesa del potere e autoriproduzione degli apparati. La storia d’Italia si propone così nei termini di una storia essenzialmente del sistema politico, mentre la storia del lavoro pratica vie interne, si affaccia di rado al di fuori dei luoghi consolidati della ricerca. Quasi a suggerire a chi non fosse del mestiere, ma a volte anche a chi lo è, che il lavoro – convenzionalmente inteso ad abbracciare la storia del movimento operaio, del sindacato, delle condizioni di vita dei lavoratori – abbia contato poco nella storia d’Italia, che esso sia governato da dinamiche proprie, svincolate dal contesto politico-istituzionale e culturale, economico e sociale del paese. Certo, tale separatezza è anche la traccia evidente della patologica carenza di legittimazione del movimento dei lavoratori e del conflitto sociale, ciò che da una parte ha relegato ai margini della storia politica, sociale e istituzionale la storia del lavoro, la riflessione sul suo ruolo nella storia del paese e sul suo contributo alla costruzione della democrazia, e che dall’altra ha anche favorito l’elaborazione di una rappresentazione epica, tesa a celebrare le fasi in cui il conflitto si è risolto a suo favore, lasciando poi ai recessi della storia le ben più lunghe fasi successive alle sconfitte o quelle in cui i processi di ristrutturazione e ridefinizione degli equilibri hanno oscurato o disinnescato le lotte. Le storie separate (e non solo del movimento operaio, ma anche dei partiti politici, ad esempio) sono dunque il riflesso anche del permanere di identità e tradizioni inconciliabili, irrisolte, marcatamente dialettiche, che faticano a riconoscersi reciprocamente come pienamente legittime, e che talora si 72 1969. DALLE STORIE SEPARATE ALLA STORIA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA sono trasferite agli studi implementando lo specialismo delle indagini di settore con una ricerca archeologica sulle radici e sulle fonti di legittimazione. Pur salvando le specificità degli specialismi storiografici, auspicando anzi che l’analisi storica sul campo arricchisca di ulteriori contributi di conoscenza l’intelligenza di quel periodo, appare giunto il momento di ricondurre il ’69 alla storia, e di praticare questo sforzo di storicizzazione tentando una storia a parte intera della democrazia italiana, entro la quale sia ricompresa a pieno titolo la storia del conflitto sociale e di fabbrica, del movimento operaio e del sindacato, dei lavoratori e delle forme della loro mobilitazione e socializzazione. Ciò significa praticare una storia che restituisca la dinamicità di quel periodo, ne distilli le caratteristiche originarie negli anni precedenti e ne individui gli sviluppi successivi, cogliendo l’ampio ventaglio di fenomeni e intrecci tra processi di mutamento di cui allora non si percepiva la direzione. Significa indagare il concatenarsi sincronico degli avvenimenti e delle esperienze personali e collettive di cui il testimone e il memorialista non possono avere consapevole percezione. Significa ricondurre il conflitto sociale, il nesso tra fabbrica e territorio nel quadro della dimensione pluralistica della società contemporanea, della legittima rappresentanza conflittuale degli interessi. Significa rinfoltire la scena con i molteplici protagonisti dell’epoca, non solo gli operai, i delegati di fabbrica e i sindacalisti, ma gli imprenditori e i «padroni», i politici e gli uomini di governo. Tutti fotografati nel loro operare concreto, individuati nei loro profili sociali e culturali, colti nel misurarsi gli uni con gli altri, tutti liberati dall’anacronismo storico per cui sono oggi giudicati come se già allora avessero avuto conoscenza dell’esito delle vicende che li vedevano protagonisti e si potesse quindi valutarne l’operato a seconda di come si ritiene che avrebbero dovuto comportarsi per conseguire un diverso risultato. Lavoro e democrazia nell’Italia repubblicana Una possibile – certo non l’unica praticabile – via alla storicizzazione del ’69 è rappresentata dall’assumerlo alla stregua di un momento di verifica delle caratteristiche storiche della democrazia italiana quale si era andata impiantando dopo il 1945. Fra i tratti di maggiore novità dei processi di rinnovamento istituzionale e di democratizzazione che si avviano nell’Europa del dopoguerra – sullo sfondo dell’ampliata azione statale negli anni di guerra – vi sono proprio le spinte a realizzare politiche sociali e del lavoro (in primo luogo attraverso il contrasto della disoccupazione e la programmazione dell’economia), nonché verso l’integrazione del movimento operaio nella vita dello Stato (riconoscimento dei sindacati e della contrattazione collettiva, dei diritti civili fondamentali per l’associazionismo tra i lavoratori). Benché l’Italia sia parte di questi processi, il tragitto dei diritti sociali è nella penisola contrastato e contraddittorio. L’esperienza antifascista in effetti sembrava poter rappresentare – anche al di là 73 LUCA BALDISSARA delle pur significative diversità politico-culturali interne a quel fronte – un elemento coesivo nella ricerca di un orizzonte condiviso di valori e principi su cui fondare la democrazia postfascista. Il tema dei diritti sociali era presente nei programmi di tutti i partiti riuniti nei CLN. Eppure l’unità antifascista venne rapidamente meno, la democrazia faticò a impiantare le proprie radici, il movimento operaio e i partiti e le organizzazioni che lo rappresentavano non riuscirono a trovare piena legittimazione, lo Stato non si mosse – e per lungo tempo non si muoverà – verso quelle politiche sociali che altrove andavano consolidandosi. Si misurano nell’Italia repubblicana due divergenti concezioni di democrazia in ordine al tema dei diritti sociali. L’una, interpretata dalla DC, non ha tanto a che fare con i concreti meccanismi istituzionali, ovvero con le forme specifiche della rappresentanza, e nemmeno con la distribuzione del potere tra le classi. Piuttosto, assume il profilo di un ordinamento civile in cui le forze sociali collaborano al fine di perseguire il bene comune, che ricomprende in sé anche la giustizia sociale. Insomma, la democrazia si propone come ordine delle naturali differenze e delle storiche gerarchie sociali, armonizzate dal dovere del bene comune, cui sono in primo luogo chiamate le classi dominanti, tenute a svolgere opera di giustizia in una prospettiva non già antagonistica bensì di cooperazione di classe per l’emancipazione dei lavoratori. Nella classe di governo democristiana si era andata insomma sedimentando nel dopoguerra una cultura politica che praticava la mediazione dei conflitti del lavoro entro un orizzonte genericamente conciliativo e praticamente privatistico, in base ad una visione giuridica e non sociale del conflitto, che aspirava a limitare e restringere l’esercizio del diritto di sciopero, nonché a contenere l’azione sindacale e, segnatamente, ad emarginare la CGIL classista. L’altra concezione di democrazia, quella espressa dal PCI, è interamente calata in una prospettiva processuale, dove la democrazia non è qualcosa di formalmente prestabilito, ma è definibile piuttosto come un continuo ed inesausto processo permanente di democratizzazione, in cui gli obiettivi di riforma sociale sono ricondotti entro gli istituti tradizionali della democrazia, e in cui è il «partito nuovo», il partito di massa, a svolgere un ruolo propulsore. Sino a tutti gli anni ’50, il PCI – grazie anche all’egemonia politica sulla CGIL – mostrò la capacità di guidare ed ispirare il conflitto sociale, indirizzandolo verso obiettivi organici alla sua complessiva strategia. La DC, alla luce anche del ruolo di governo del paese, aggiornerà il proprio originario corporativismo nella riedizione del tentativo di contenere (e nell’aspirazione ad eliminare) la conflittualità sociale; il PCI si farà interprete di un rinnovato sindacalismo di classe, in cui il ruolo dell’organizzazione consisteva nella regolazione politica del conflitto sociale (mentre il partito si sarebbe incaricato della mediazione politico-parlamentare delle istanze sindacali). Certo, le prospettive su quale democrazia costruire nel paese e su quale dovesse essere lo spazio dei diritti sociali sono per molti versi divergenti. Ma nella visione di quelli che si avviano a divenire i due principali partiti di massa, il PCI 74 1969. DALLE STORIE SEPARATE ALLA STORIA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA e la DC, è il momento della mediazione politica garantita dal partito ad apparire centrale. Il partito garantisce infatti la funzione di cerniera sia verso il basso (le masse popolari) che verso l’alto (lo Stato), assumendo i contorni di un ambito negoziale di statalizzazione della società e viceversa di partitizzazione degli apparati. Questi partiti del resto condividono anche un’idea strumentale dello Stato e della sua architettura istituzionale ed amministrativa, alla stregua di un semplice instrumentum regni, un congegno in fondo neutrale di gestione del potere, un aspetto tecnico della politica. Si può dunque convenire con quanto ha scritto Massimo Legnani, cioè che nel 1945 «il problema della fondazione di una compiuta democrazia si è posto nei termini più netti producendo, a differenza di quanto era avvenuto nel primo dopoguerra, una serie di risposte positive che saranno consegnate alla nuova Carta costituzionale. Queste risposte non devono tuttavia indurci a sottovalutare taluni limiti che nel processo di democratizzazione avviato con il 1945 sono presenti dall’inizio e tenderanno in seguito a cristallizzarsi. Il principale tra essi sembra quello rappresentato – accanto ai condizionamenti esercitati dai poteri economici – dal protagonismo assoluto rivendicato dai partiti, la cui funzione mobilitatrice e aggregatrice, rispetto ad una opinione dispersa e non di rado disorientata, è indubbia, ma è anche gravata da una concezione fortemente verticistica delle forme della lotta politica». Ciò non deve indurre a sottovalutare la portata di novità della Carta costituzionale. Che da un lato evidenzia la capacità dei partiti di convergere sui valori fondamentali e siglare un patto di lunga durata nella storia della Repubblica, ponendo le basi di un modello inclusivo di democrazia sostanziale. E dall’altro consente di interrogare i rapporti tra politica e diritto in relazione ai mutamenti delle funzioni dello Stato nella società di massa, ovvero, più precisamente, nella società dei partiti di massa. La Costituzione repubblicana del 1948 è dunque significativa non solo da un punto di vista storico-politico, perché scaturita dall’esperienza della dittatura e della lotta antifascista e partigiana, ma anche giuridicamente, perché, avrebbe argomentato Vezio Crisafulli, «i lavoratori, con le loro organizzazioni politiche e sindacali, sono oggi nel pieno della legalità tanto da un punto di vista formale quanto da un punto di vista di sostanza. Sono nel pieno della legalità quando difendono i loro diritti politici democratici contro l’arbitrio e il tentativo di sopraffazione, poiché in tal modo essi difendono la Costituzione che quei diritti sancisce e garantisce a tutti indistintamente i cittadini». Dal 1948 le conquiste delle classi lavoratrici assumerebbero quindi un valore costituzionale, non sono più singole e determinate concessioni di volta in volta strappate sul terreno del conflitto sociale e dei rapporti di forza in seno alla società, ma si trasformano, ancora con le parole di Crisafulli, in «guarentigie stabili – anche formalmente costituzionali, quindi limitanti e vincolanti la stessa funzione legislativa». E dunque la classe operaia, anche sul terreno costituzionale, assume un ruolo generale e nazionale, in cui la difesa della Carta passa per l’attuazione dei suoi principi ed istituti, precondizione di una più ampia 75 LUCA BALDISSARA democrazia sostanziale, e non solo formale. Ciò che garantisce alla politica una risorsa inedita: è nel richiamo ad essa, ai suoi valori condivisi, al suo carattere di supremo riferimento normativo che il processo di democratizzazione ha trovato un costante puntello, e che il conflitto sociale, per quanto aspro, ha mantenuto spazi di esercizio, senza trascendere in un orizzonte sovversivo e senza venire limitato per via legislativa. Il richiamo alla Costituzione contribuisce, in primis nel PCI, all’alfabetizzazione istituzionale dei quadri e militanti del partito, garantisce la piena assunzione del terreno democratico quale ambito dello scontro politico e sociale. In tal senso, la Costituzione verrà a rappresentare una palestra di democrazia e di educazione civica del cittadino-militante. Mentre la sua prolungata inattuazione e la cristallizzazione attorno alla DC del sistema politico-parlamentare e del governo del paese appannerà progressivamente la funzione di mediazione «alta» tra gli interessi attribuita ai partiti politici, riconducendoli ad una mediazione «contingente», ad uno scambio politico di basso profilo in cui sarà non già l’«invadenza», bensì la «debolezza» dei partiti – riflesso della strutturale debolezza della democrazia italiana – ad impedire il pieno dispiegamento delle potenzialità della Costituzione antifascista nel processo di democratizzazione della società italiana. Sul terreno specifico della concezione dell’ordinamento del lavoro, la Costituzione del 1948 si calava in linea di continuità con quegli indirizzi che – a partire dall’esperienza di Weimar – non assumevano più il cittadino esclusivamente nella sua individualità, ma anche nella sua relazione con la società, entro un disegno che tendeva alla democrazia sostanziale, non solo al riconoscimento dei diritti fondamentali ma anche alla definizione di precise garanzie sociali. Così, all’articolo 3 la Costituzione realisticamente assume l’esistenza nella società di due parti distinte, il datore di lavoro e il lavoratore (posto storicamente in condizione di inferiorità rispetto all’impresa), che possono casualmente avere coincidenza di interessi, ma mai identità di fini. La fissazione del principio secondo cui la Repubblica deve tendere alla realizzazione di una democrazia sostanziale cui partecipino effettivamente tutti i cittadini, posti in condizione di esplicare liberamente l’attività lavorativa, registrava quindi l’irruzione – un dato storico di fatto – delle masse lavoratrici sulla scena politica e sociale. E, in connessione con quanto stabilito dall’articolo 41, riconosceva che l’iniziativa economica privata non poteva che avere scopi individualistici (il conseguimento del massimo utile), attribuendo dunque all’imprenditore – contro gli assunti della dottrina corporativa fascista circa la supposta funzione nazionale e sociale dell’impresa – il carattere di soggetto privato che agisce per interesse personale. La questione che si poneva era quindi quella di garantire nel contratto tra imprenditore e lavoratore una condizione di effettiva libertà e uguaglianza per entrambi, posta la condizione di subalternità reale del secondo rispetto al primo (cui l’articolo 41 fissava un limite, quello del rispetto della sicurezza, libertà, dignità dei lavoratori). In altri termini, del tutto nuova era nella Costituzione la posizione del lavoratore all’interno dell’impresa: non più un prestatore d’opera 76 1969. DALLE STORIE SEPARATE ALLA STORIA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA dietro compenso, ma un cittadino che nello svolgimento dell’attività lavorativa consegue dignità sociale e realizzazione della personalità. Per questo – con gli articoli 39 (libertà sindacale) e 40 (diritto di sciopero) – ai lavoratori veniva garantita la possibilità di autotutela dei propri interessi. Con questi articoli, il 39 soprattutto, la Costituzione riconosceva infatti l’autonomia collettiva espressa dall’organizzazione sindacale nella contrattazione, ed anzi lo Stato ammetteva l’importanza delle funzioni assolte dal sindacato nel tutelare interessi di carattere collettivo. Con questo riconoscimento – e attribuendo il diritto di sciopero alla libera espressione della personalità del cittadino-lavoratore – si sanciva di conseguenza anche lo spazio istituzionale del conflitto sociale, che, nella libera dinamica degli interessi tra le parti contrapposte, avrebbe risposto democraticamente alla necessità di risolvere specifiche questioni economiche e sociali in modo più adeguato di quanto non avrebbe potuto fare lo Stato con un proprio intervento diretto. La Carta costituzionale rappresenta quindi un importante fattore di discontinuità, anche oltre la sua reale applicazione. Perché riconosceva una piena cittadinanza al lavoro, perché individuava nel sindacato uno dei pilastri della democrazia repubblicana, perché attribuiva allo Stato democratico funzioni di garanzia del lavoro e tutela della vita dei ceti più deboli. Ciò non solo avrebbe costituito una (potenziale) fonte di legittimazione permanente della democrazia, ma anche una solida base per la realizzazione di politiche sociali e di riforme economiche che si muovessero nella direzione della giustizia sociale. La democrazia si proponeva come l’ambiente politico e al contempo istituzionale indispensabile per l’emancipazione dei lavoratori, definitivamente assurti al rango di cittadini. Pur in presenza di tali innovazioni costituzionali, la sfera della politica assurge tuttavia nell’Italia repubblicana ad un ruolo assolutamente prioritario nel processo di costruzione della democrazia. Sia il terreno istituzionale che quello economico-sociale divengono spazi d’esercizio della decisione politica assunta nella cornice della democrazia rappresentativa tipica della tradizione liberal-democratica. Le questioni inerenti alla riorganizzazione in senso democratico degli apparati statali e amministrativi, ovvero la definizione di una politica di intervento dello Stato in ambito sociale ed economico, vengono lasciate all’inserimento nelle istituzioni di uomini nuovi, espressi dai partiti antifascisti e dal compromesso riformatore tra questi ultimi, legittimati a realizzare una attività di ridefinizione in senso democratico degli equilibri di governo della società. Tutti i partiti condividono quest’ispirazione di fondo, al di là delle differenze anche profonde nei programmi e negli obiettivi politici. Quando però la transizione alla democrazia si prolunga nel contesto della guerra fredda e del ridisegno dei rapporti tra lealtà nazionale e internazionale, il compromesso antifascista si allenta, e se ne rivelano appieno anche la precarietà e la gracilità, le contraddizioni e le ambiguità. Che diverranno i tratti distintivi della democrazia repubblicana. 77 LUCA BALDISSARA Le linee di frattura del ’69 L’ingresso del paese in una tumultuosa fase di trasformazione nel passaggio dai ’50 ai ’60 contribuisce a mutare i contorni del nesso lavoro/democrazia. Lo spostamento di popolazione dalle campagne alle città, la proliferazione di attività industriali, la formazione di una nuova classe operaia, la crescita dei redditi e la nuova distribuzione della ricchezza, l’entrata in scena della prima generazione nata alla fine della guerra, l’americanizzazione culturale: le caratteristiche assunte dalla repentina e concentrata fase di modernizzazione del paese – quando l’Italia consuma nello spazio di pochi anni processi di mutamento altrove calati in periodi ben più lunghi – muta radicalmente l’orizzonte in cui si calano i processi di riproduzione sociale. Sono anni di secolarizzazione culturale e politica, di rottura del tradizionale equilibrio tra bassi salari e bassi consumi, del conseguente ingresso del paese nel sistema dei consumi di massa, dunque anche di ridefinizione ed erosione dei contorni degli aggregati di classe. Sono gli anni in cui mutano i tradizionali caratteri del rapporto tra politica e mercato, in cui sta – secondo Guido Crainz – la «radice dei processi e dei conflitti successivi (e forse anche del loro esito)», individuabile «nell’interazione di quegli elementi che appaiono chiaramente nello snodo del 1963-4: processi contraddittori ma potenti di modernizzazione; squilibri persistenti della società italiana; permanere di arretratezze culturali che improntano largamente le istituzioni del paese; fallimento di una politica riformatrice». Questa modernizzazione – il termine è tutt’altro che privo di ambiguità ma serve ad intendersi – si innesta su di un paese che proviene dal suo primo secolo di vita unitaria con un bagaglio di esperienze che comprendono l’esclusione delle masse popolari dalla vita dello Stato e il loro mantenimento in una condizione di vita al limite della sussistenza, la mancata o debole legittimazione degli organismi di rappresentanza politica e sindacale del movimento operaio, l’ingresso nella dimensione di massa della vita sociale e politica novecentesca filtrato dal fascismo, la fragilità della democrazia postfascista, sulla quale gravano non solo i vincoli della guerra fredda, ma anche una visione gerarchica e autoritaria, più esclusiva che inclusiva, del ruolo delle istituzioni e dei partiti, della rappresentanza degli interessi e del conflitto sociale in una società pluralista. L’entrata d’un colpo nella modernità apre repentinamente nuovi scenari, suscita aspettative crescenti, che rapidamente si volgono in delusioni e frustrazioni sia per gli squilibri che ha contribuito ad accentuare piuttosto che a risolvere – si ricordi che alla crescita della ricchezza e dei profitti non corrisponde una crescita dei salari, dunque il «miracolo» si fa sulle spalle dei salariati, per di più in un contesto di inasprimento delle condizioni di vita e di lavoro – sia per l’inconcludenza nel decennio ’60 di una politica tanto ricca di propositi riformatori quanto povera di realizzazioni concrete. Rispetto al passato, nel ’69 il conflitto si accende non in un momento difensivo, ma in una fase espansiva, di crescita. E si sviluppa al termine di un decen78 1969. DALLE STORIE SEPARATE ALLA STORIA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA nio di intense trasformazioni, non solo sociali, ma anche culturali, che hanno profondamente inciso sulle aspettative, sui bisogni, sulle autorappresentazioni, sul rapporto tra vita e lavoro. Ora il conflitto sociale – meglio: il conflitto di fabbrica – diviene la forma in cui si esprimono e si condensano la messa in discussione del potere del «padrone», la solidarietà con i compagni sui luoghi di lavoro e la socialità nell’ambiente circostante, la richiesta di migliori condizioni di lavoro dentro la fabbrica e di provvedimenti di integrazione del salario fuori di essa. Non si tratta più solo di vertenze salariali, per quanto aspre ed estese. Ma di un vero e proprio confronto sul terreno dei rapporti di forza, di una saldatura tra le lotte in fabbrica e nel territorio, di un modo di elevare la condizione operaia e salariata a metro di misura dei rapporti sociali e politici tout court. In questo senso va intesa l’affermazione secondo cui è la questione della democrazia a costituire lo sfondo di questa storia. Nel doppio senso, generale e particolare, secondo il quale ogni qualvolta la classe operaia organizzata riporta in primo piano la questione della sua storica esclusione dalla vita dello Stato i limiti d’egemonia delle classi dirigenti si traducono nel patologico orientarsi verso soluzioni autoritarie, o comunque di «democrazia protetta», o di «sovversivismo» dall’alto (le minacce golpiste e le torbide trame della «strategia della tensione» proprio tra i ’60 e i ’70). E tale costante e periodica rimessa in questione della legittimità della rappresentanza sindacale e politica degli interessi del movimento operaio peraltro consente il perdurare di una marcata dimensione politica dell’azione sindacale e la costrizione del riformismo in spazi angusti. Ma se così si pone in termini generali la «questione democratica» nella storia d’Italia, vi è anche una «questione democratica» particolare nella vita interna del sindacato. Attorno alle vertenze dell’Autunno caldo vi è grande mobilitazione e partecipazione attiva, i lavoratori discutono e si confrontano tra loro, le modalità dell’azione sindacale vengono mutate sul campo, attraverso le lotte stesse, e i contorni della contrattazione non si esauriscono dentro la fabbrica, benché da lì traggano la loro spinta propulsiva, ma si estendono nella società, suggerendo che non v’è democrazia in fabbrica senza democrazia nella società, che l’una rafforza e puntella l’altra. Qui matura sicuramente una frattura rispetto al rapporto con il partito, ma anche una rottura generazionale tra giovani operai comuni e vecchi operai professionalizzati, tra delegati e sindacalisti di mestiere. Nelle fabbriche il conflitto generazionale si sovrappone spesso al conflitto politico. Il nesso conflitto/democrazia appare dunque come una delle piste concettuali privilegiate in una storicizzazione del ’69 operaio, ed anche per riflettere sugli «effetti» del ’69 e sulle «risposte» al ’69 in ambito politico. Assume quindi una valenza di carattere generale l’affermazione di Vittorio Foa – dell’operaista Foa – secondo la quale nel ciclo di lotte degli anni ’60 «il sindacato ribaltò allora esplicitamente il suo tradizionale rapporto con la sinistra politica: il problema non era più quello di accettare o respingere le direttive dei partiti, diventava apertamente quello di trasmettere ai partiti operai una propria elaborazione fondata sul lavoro come fonte della politica […] indivi79 LUCA BALDISSARA duavamo nello scontro fra capitale e lavoro l’elemento dominante della dinamica politica. Eravamo attenti al versante teorico di questo recupero conflittuale, cercavamo un’idea di socialismo che […] partisse dai bisogni, dalle sofferenze, dalle speranze della gente che lavora». Perché non solo siamo in presenza di un’emancipazione del sindacato nel suo ruolo di mobilitazione dei lavoratori, processo che si consuma in reazione alla natura delle lotte e della partecipazione piuttosto che secondo una consapevole linea politica. Ma anche perché la messa al centro della dialettica politica del lavoro – e del nesso che stringe condizioni di lavoro e condizioni di vita – suggerisce e rivendica una diversa prospettiva di democrazia sociale, quale nel paese non aveva mai trovato le condizioni di esprimersi così massicciamente. E solo nell’ambiente del ciclo espansivo della «grande trasformazione» riuscirà ad emergere, per poi inabissarsi nel contesto della «crisi» degli anni successivi. Il ’69 operaio impone una diversa risposta dello Stato al conflitto sociale, non più sostanzialmente repressiva – benché non manchino le vocazioni in tal senso – ma neppure esclusivamente conciliativa e volta al contenimento del sindacato. Ma il ’69 operaio ha evidenti ricadute anche sul rapporto tra partito e sindacato, modificandone la configurazione che si era venuta assestando nel primo ventennio repubblicano. Con gli anni ’60 – in diverse tappe, dai fatti di Genova e Reggio Emilia del 1960 a quelli di Piazza Statuto del 1962, sino all’Autunno caldo – il PCI perderà progressivamente il monopolio della gestione politica del conflitto. Ed è ancor più significativo perché in questo caso si apre anche un dissenso con il sindacato, generato dalla preoccupazione per la possibile crisi del primato del partito, posta in discussione dall’interno (il mondo operaio e le organizzazioni sindacali di categoria) e non dall’esterno (gli studenti). La nota opposizione di Amendola al «sindacato dei consigli» è esemplare di queste difficoltà: la messa in discussione dei rapporti di potere all’interno dei luoghi di lavoro – l’orizzonte politico del conflitto sociale – metteva in discussione il ruolo politico del partito e la sua funzione di mediazione nei confronti dello Stato, nonché la linea politica della «alleanza dei produttori», della artificiosa distinzione tra rendita e profitto. Ma è – più in generale – la visione stessa del ruolo del conflitto e della sua funzione nella società a dividere il partito dal sindacato: con il primo teso a riproporre la propria centralità nella mediazione politica e ad attribuire al sindacato il compito della tutela degli interessi «corporativi» dei lavoratori, mentre quest’ultimo si faceva invece portatore di una concezione intrinsecamente conflittuale della democrazia, nella quale il conflitto già conteneva in sé le condizioni per la realizzazione di un programma di riforme e dove le alleanze sociali divenivano quindi immediatamente funzionali al mutamento sociale, e non all’andata al governo. Entrano in fibrillazione in questi anni i cardini della cultura politica del PCI (e della sinistra storica) così come si erano venuti configurando nel dopoguerra: l’interrelazione tra il momento politico-istituzionale e quello del conflitto, condotti a sintesi e mediazione nell’attività del partito, non riescono più ad interpretare i processi di trasformazione in atto 80 1969. DALLE STORIE SEPARATE ALLA STORIA DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA nella società. Modellata su un’Italia rurale e provinciale, con bassi consumi e costumi austeri, l’azione del partito intercetta elettoralmente le spinte antiautoritarie del secondo «biennio rosso», raggiungendo il risultato del 1975-76, ma non riesce a interpretarle politicamente, trasferendole – dal «compromesso storico» alla «solidarietà nazionale» – sul terreno tradizionale della mediazione tutta interna al sistema parlamentare e dei partiti. Si alimenta del conflitto sociale, per incidere sull’azione di governo e per portare all’interno del momento statuale quelle istanze riformatrici che daranno certo vita al più importante ciclo riformatore della storia repubblicana, privo però di un disegno complessivo di trasformazione della società. Ciò che spiega – insieme al divenire permanente e autosufficiente della pratica di mediazione – come queste riforme (dal caso RAI a quello sanitario) possano poi rapidamente tradursi in fallimenti, fonti di inefficienza e spreco, generatori di luoghi di scambio e corruttela. Già, perché gli anni ’70 vedranno realizzarsi il più importante ciclo riformatore della storia italiana. Questo ciclo di riforme non è certo l’obiettivo in sé delle lotte operaie che si manifestano nel passaggio di consegne tra i decenni, ma senza dubbio ne è un’importante – e tra le più rilevanti – ricaduta. Nel momento in cui si pone, con un’intensità non ancora manifestatasi sino ad allora e senza dubbio non ripropostasi successivamente, la questione della legittimità del movimento operaio quale soggetto politico e sociale, nel momento in cui si mette in relazione interno ed esterno al luogo di lavoro, riconnettendo cioè vita quotidiana e vita di lavoro in una prospettiva pluridimensionale, la riflessione e la rivendicazione per un diverso e più armonico rapporto tra queste due dimensioni della vita individuale e collettiva finiscono con lo stringersi in un progetto suo malgrado concretamente e materialmente riformista. Il cui riformismo in altre parole non è l’orizzonte esplicito, dichiarato e rivendicato – ché anzi le strategie e gli obiettivi di lotta si tenevano ben distanti da esso e si pretendevano rivoluzionari, anche in reazione ai fallimenti e alle frustrazioni per l’esiguità dei risultati delle riforme del centro-sinistra – ma paradossalmente uno dei risultati effettivi, concreti e duraturi di un ciclo conflittuale che negli anni ’70 condurrà al più importante ciclo riformatore della storia italiana, benché interamente conseguito sul terreno dei rapporti di forza e dunque realizzato senza un ordito politico efficace. In quel torno di tempo – e solo allora con questa intensità e rilevanza – il lavoro diveniva il prisma prospettico privilegiato da cui guardare alla società dell’epoca per mutarne gli assetti, per misurarsi con i problemi storici che continuavano a gravare sul paese. Per la prima volta dal ’45, nel ’69 il conflitto sociale tentava di fuoriuscire dallo spazio subalterno in cui era stato mantenuto grazie alla distinzione tra politica ed economia inscritta nel codice genetico della Repubblica ed alla supremazia dei partiti nel processo di democratizzazione avviato alla fine della guerra. Le gracilità, le ambiguità, i limiti della democrazia dei partiti da un canto, i limiti della cultura democratica delle classi dirigenti dall’altro, manifesti questi ultimi nella resistenza a considerare pienamente legittimo il movimento ope81 LUCA BALDISSARA raio come protagonista della dialettica degli interessi, quindi della stessa democrazia, si troveranno nei «lunghi» anni ’70 ad intrecciarsi nel contesto della crisi economica. Le riforme, strappate sul terreno dei rapporti di forza, e non già varate sulla base di confronti e programmi politici, dunque snodatesi al di fuori di qualsiasi programma riformista, prive quindi di un disegno complessivo di trasformazione e riequilibrio della società, saranno tradotte in pratiche concrete attraverso il filtro di partiti che, nelle pieghe del frammentato sistema istituzionale italiano, occupano spazi di esercizio del potere, applicano forme di scambio politico, consolidano il loro consenso ricorrendo a forme di lottizzazione e clientelismo che negli anni ’80 degenereranno nell’illegalità e nella corruzione diffusa. Resta il fatto che il conflitto espresso dal ’69 operaio (anche oltre i limiti cronologici di quell’anno) è stato anche il modo di rivendicare più ampi spazi di partecipazione al processo di democratizzazione. Sia attraverso il tentativo di farsi protagonisti in prima persona dell’azione sindacale e delle forme di rappresentanza ricorrendo ai consigli di fabbrica e alle figure dei delegati. Sia per mezzo dell’elaborazione di piattaforme di richieste che fuoriescono dai tradizionali confini delle vertenze sindacali e chiedono di redistribuire la ricchezza in forma di salario sociale. La rimessa in discussione dei rapporti di potere dentro gli stabilimenti è saldata alla richiesta di riconoscimento della funzione sociale del lavoro; il miglioramento delle condizioni di lavoro è indissolubilmente intrecciato al miglioramento delle condizioni di vita. Vita e lavoro, fabbrica e territorio sono i termini di un discorso che salda il diritto al lavoro con i diritti sociali nel disegnare un nuovo modello di cittadinanza sociale. Anzi, è forse questo l’esito paradossale del ciclo di «conflittualità permanente» dei lunghi anni ’70: alimentato senza dubbio da aspirazioni al rovesciamento dei rapporti di potere, impastato di fraseologia rivoluzionaria, ispirato anche ad una critica serrata ai modelli di rappresentanza della sinistra politica e sindacale, nutrito da una rabbia sociale accumulata nel corso dei ’60, il conflitto – inteso come luogo di selezione di gruppi dirigenti, di acculturazione politica, di acquisizione di consapevolezza attraverso l’esperienza e la condivisione della lotta – finirà in realtà con il distillare un progetto di cittadinanza sociale all’altezza delle più consolidate esperienze riformistiche europee. Ma non troverà alcun interlocutore pronto a misurarsi con esso, e sarà ben presto abbandonato persino dal sindacato stesso, travolto dalla «crisi» e incapace di risolvere l’ambivalente convivenza in se stesso del ruolo istituzionale di rappresentanza e tutela degli interessi dei lavoratori e della funzione di soggetto politico-sociale gestore dell’antagonismo di classe. 82 PARTE SECONDA Il cuore del 1969 Dopo il 1969: cosa cambia nelle relazioni industriali di Franca Alacevich Ricostruire le caratteristiche del biennio 1968-69, e soprattutto dell’Autunno caldo del 1969, non ha come obiettivo soltanto ricostruirne e mantenerne la memoria. Può servire soprattutto a valutare la portata dei cambiamenti intercorsi tra allora e oggi, verificare cosa abbiamo «ereditato» da quella esperienza, quanto di questa eredità sopravvive ancora e quanto invece è finito, e perché – che è l’auspicio degli organizzatori del convegno prima e dei curatori di questa pubblicazione poi. Per parte mia, guarderò a tutto ciò dall’angolo di visuale delle relazioni industriali, e più in particolare da quello del movimento sindacale. È un angolo di visuale preciso e ristretto, certamente, ma allo stesso tempo capace di gettare una luce forte e chiara sulla società nel suo complesso, perché alla fine degli anni ’60 ancor più di ora – ma sono convinta che sia anche ora così – le relazioni industriali da un lato riflettono e dall’altro influenzano i rapporti umani, quelli in cui le persone entrano al fine di guadagnarsi da vivere e produrre i beni e i servizi essenziali per la società. Le relazioni industriali, dunque, influenzano la vita stessa, la libertà e il benessere di tutti – come diceva Reinhard Bendix nel 1964 spiegando perché aveva scelto di privilegiare nei suoi studi proprio questo aspetto1. Vorrei proporre anzitutto una breve, e necessariamente selettiva, rilettura di alcune delle principali «innovazioni» che il movimento del ’69 ha innescato e prodotto, e mi soffermerò in particolare su cinque di esse. Successivamente, ricostruirò brevemente la reazione dello Stato alla mobilitazione, considerando sia l’intervento legislativo che le nuove strategie di azione adottate da allora in poi. Analogamente, considererò la reazione del mondo delle imprese alle lotte sindacali, all’accresciuto potere degli operai e dei sindacati. Costituiranno invece un quadro di sfondo cui si accennerà soltanto i cambiamenti intervenuti nell’economia mondiale, che pure meriterebbero ben altra attenzione in quanto 1 R. Bendix, Lavoro e autorità nell’industria, Etas Kompass, Milano 1972 (ed. orig. 1964). 85 FRANCA ALACEVICH hanno mutato profondamente il contesto di riferimento delle relazioni industriali odierne. Infine, cercherò di mostrare quanto rimane di quella esperienza e quanto si è perso, sia sul piano dell’eredità appunto del movimento del ’69, sia anche in termini di capacità di mobilitazione e innovazione nelle strategie del sindacato. La forza di innovazione dell’Autunno caldo Parto dalla lettura di un breve passo – frammisto di omissis – di una testimonianza che ci può forse dare il senso, il gusto, del cambiamento che stava avvenendo. Si era sempre sull’attenti e pronti alla mobilitazione […] esisteva un’incredibile omogeneità di atteggiamento […], le stesse vibrazioni […] Io, che prima ero uscito pochissime volte da Legnago, ho girato tutta la penisola. È come se avessi fatto il militare. Mi sono trovato faccia a faccia con mezza Italia. Ho passato giornate a discutere con genovesi e bolognesi, con trevigiani e napoletani. Ho manifestato con gente di tutte le razze, di tutte le provenienze e di tutti i dialetti […] le barriere sembravano cadere improvvisamente […] Tutti parlavano con tutti. C’erano studenti, intellettuali, giovani […] Non ho mai ascoltato e parlato tanto in vita mia. Tutto stava cambiando e discutere era l’unica maniera per capire. C’era tutto il mondo che si muoveva ed era affascinante cercar di intuirne la direzione […] D., M. e N. erano impiegati e tuttavia, contro ogni tradizione, erano militanti sindacali durissimi. Non si era mai vista una cosa del genere. Impiegati operaisti. Le cose stavano davvero cambiando […] La società italiana si era sviluppata tumultuosamente nel corso dei trent’anni del dopoguerra. Era necessario un metro per misurarne e valutarne i ceti, i gruppi e le classi […] Parlare di centralità operaia significava proporre un metro di giudizio sociale […] dotarsi di uno strumento per giudicare l’intera società […] Sapere con lucidità che venti milioni sono la paga netta annuale di un operaio è un buon modo per rendere universalmente comprensibili i discorsi economici. Un miliardo diventa allora cinquant’anni di salario operaio […] Erano scomparse la timidezza e la paura. Le persone avevano alzato la testa (testimonianza di Gelmino Ottaviani)2. Con le sensazioni che questa testimonianza ci permette, e che così bene Marco Paolini ha riprodotto in un monologo divenuto ormai celebre, vorrei affrontare schematicamente l’aspetto delle molteplici innovazioni che l’Autunno caldo del ’69 ha innescato, ha raccolto e rafforzato, ha simbolicamente rappresentato. 2 Testimonianza riportata in F. Bozzini, Cipolle e libertà. Ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani, operaio metalmeccanico alla soglia della pensione, Edizioni Lavoro, Roma 1993. 86 DOPO IL 1969: COSA CAMBIA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI Nuove forme di azione collettiva Nella fase dello sviluppo economico e della produzione di serie in grandi fabbriche, gran parte dei lavoratori erano poco specializzati, e dunque altamente sostituibili. Non vi erano tutele forti e potevano essere licenziati – lo Statuto dei lavoratori, con il suo articolo 18, ancora era da venire. In queste condizioni, pertanto, come individui soffrivano di una particolare debolezza contrattuale. La mobilitazione del ’69, tuttavia, fa loro «scoprire» che se agivano in modo collettivo potevano disporre di un elevato potere contrattuale. E questa acquisizione apre la strada a un ricorso sempre più diffuso e determinato alla conflittualità. I lavoratori, soprattutto quelli delle grandi imprese metalmeccaniche, comprendono che con scioperi organizzati in segmenti del processo produttivo, nei punti sensibili della catena di produzione e in tempi strategici, possono arrecare maggiori danni alla controparte, riducendo al contempo i costi per i lavoratori coinvolti (riducendo i prelievi individuali per le ore di sciopero). La stagione di effervescenza e inizialmente di spontaneismo che caratterizza l’avvio di questa fase, unita al coinvolgimento della base della forza lavoro, facilita questo apprendimento e lo sviluppo di mobilitazioni per la nostra esperienza passata piuttosto inedite: dagli scioperi a scacchiera (blocchi in reparti diversi, di breve durata, ma coordinati tra loro) agli scioperi a singhiozzo (di reparto). «Si era sempre sull’attenti e pronti alla mobilitazione […] Erano scomparse la timidezza e la paura. Le persone avevano alzato la testa» – dice l’operaio Ottaviani. Le ricerche e i volumi curati da Gian Primo Cella e da Colin Crouch e Alessandro Pizzorno alla fine degli anni ’70 e da Roberto Franzosi nel 1995 restano un importante punto di riferimento in materia3. Ma l’innovazione nelle forme dell’azione collettiva non si ferma a questo. Nel nostro paese più che altrove il movimento operaio fu capace di collegarsi ad altri movimenti sociali e politici, traendo da questa unione sia maggior forza che ispirazione per l’elaborazione politica e le rivendicazioni. Altri movimenti sociali avevano obiettivi più generali, di trasformazione sociale, di democratizzazione economica, di riforma di ampi settori della vita sociale e civile. La collaborazione e il dialogo tra il movimento operaio e gli altri movimenti sociali ha fatto sì che le lotte operaie assumessero sempre più centralità, rivestendo spesso un ruolo simbolico ben oltre le loro specifiche rivendicazioni. Questo processo di «inglobamento» nei movimenti sociali e politici delle lotte operaie, come segnalato da Tarrow, ha consentito la promozione e il rafforzamento di questi movimenti4. 3 G.P. Cella (a cura di), Il movimento degli scioperi nel XX secolo, il Mulino, Bologna 1979; C. Crouch, A. Pizzorno (a cura di), Conflitti in Europa: lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ’68, Etas Libri, Milano 1978; R. Franzosi, The Puzzle of Strikes. Class and State Strategies in Postwar Italy, Cambridge UP, New York 1995. 4 S. Tarrow, Democrazia e disordine: movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Laterza, Roma-Bari 1990 (ed. orig. 1989). 87 FRANCA ALACEVICH Questa particolarità, che l’Italia ha condiviso con altri paesi dell’Europa meridionale ma che contraddistingue queste esperienze da quelle nordeuropee, è stata spiegata con il fatto che l’industrializzazione si è qui giovata di forza lavoro immigrata ma dello stesso paese – «immigrazione interna» – mentre altrove ha contato di più sulla forza lavoro immigrata dall’esterno del paese5. Basi culturali se non comuni molto più vicine, la condivisione della lingua, le maggiori opportunità di reimpiantarsi nelle regioni industrializzate del Centro e del Nord, avrebbero cioè svolto la funzione di «facilitatori» del coinvolgimento e la cooperazione tra movimenti sociali diversi. È una spiegazione plausibile, sulla quale tuttavia vi sarebbe ancor oggi da indagare. Ma non è qui il caso di affrontare questa questione. Nuove forme di organizzazione e trasformazione del sindacato È ben noto come durante gli scioperi dell’Autunno caldo del ’69 si siano presentati sulla scena nuovi soggetti sociali che hanno svolto il ruolo di veri «protagonisti»: i delegati. I delegati erano portavoce diretti dei gruppi di lavoratori presenti nei reparti delle grandi imprese – inizialmente soprattutto di quelle del Nord-ovest. Questi nuovi soggetti rappresentavano una rottura con i membri delle precedenti commissioni interne, che erano direttamente gestite dai sindacati pur se formalmente elette da tutti i lavoratori e distinte dalle Rappresentanze sindacali aziendali (RSA). Anche i delegati erano eletti da tutti i lavoratori, ma erano vera espressione della base, piuttosto che del sindacato. Spesso anzi, come molti hanno segnalato, i candidati si presentavano come molto critici nei confronti del sindacato, e alternativi rispetto ai sindacalisti. Anche in questo caso troviamo un punto di riferimento essenziale nella ricerca di Alessandro Pizzorno, Emilio Reyneri, Ida Regalia e Marino Regini (del 1978) e in particolare nel saggio di Ida Regalia al suo interno, che ricostruisce la nascita della figura dei delegati6. Si può dire che proprio l’incapacità del sindacato di aggregare efficacemente le domande provenienti dalla base operaia e di trasformarle in rivendicazioni negoziabili è una delle cause del manifestarsi della protesta nelle forme e nei modi che il ’69 fa registrare. Tuttavia, questa contrapposizione ha avuto un esito inizialmente inimmaginabile: le organizzazioni sindacali hanno capito il messaggio, hanno fatto un’aspra autocritica e si sono mostrate presto in grado di riprendere la guida del movimento operaio. Hanno, soprattutto, rivisto radicalmente il loro rapporto con la base dei lavoratori. Hanno accolto le motivazioni dei lavoratori e del 5 B.J. Silver, Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870, B. Mondadori, Milano 2008 (ed. orig. 2003). 6 A. Pizzorno, E. Reyneri, I. Regalia, M. Regini, Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972), il Mulino, Bologna 1978. 88 DOPO IL 1969: COSA CAMBIA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI nuovo movimento e offerto loro sostegno e risorse organizzative. E qui sta anche la ragione della forza del movimento e della sua durata: senza le risorse organizzative del sindacato probabilmente il movimento operaio spontaneo non avrebbe avuto quella capacità di resistenza e di incisione che invece ha saputo esprimere. Dando spazio crescente alla voice interna il sindacato ha drasticamente ridotto i rischi di disgregazione e di exit e rafforzato il senso di appartenenza7. Dice infatti sempre Ottaviani: «Non ho mai ascoltato e parlato tanto in vita mia. Tutto stava cambiando e discutere era l’unica maniera per capire». Dopo la sigla dei contratti nazionali, tra il 1970 e il 1972 vengono istituiti i consigli di fabbrica. Con il patto costitutivo della Federazione unitaria CGILCISL-UIL vengono estesi a tutti settori. Poco dopo, lo Statuto dei lavoratori dà loro riconoscimento e legittimazione. I consigli rappresentano un’ulteriore elemento innovativo. Come organismi di rappresentanza di tutti i lavoratori e non dei soli lavoratori sindacalizzati, non solo riescono ad avere maggiore potere negoziale ma costituiscono l’espressione dell’unità sindacale e al contempo costantemente la stimolano. Tutto ciò comporta altri due importanti cambiamenti interni all’organizzazione sindacale: cambia il rapporto tra strutture sindacali orizzontali e verticali, di categoria, a favore di queste ultime; e cambia anche l’equilibrio tra organismi centrali e aziendali. La contrattazione di categoria prevale e la contrattazione decentrata, aziendale, spesso ne costituisce elemento anticipatore. Alle strutture centrali viene affidato il ruolo di trasferire le rivendicazioni sul piano politico e di estenderle a tutte le aree del paese e a tutte le imprese. Nel complesso, attraverso un esteso processo di decentramento organizzativo, i sindacati riescono a trarre vantaggio dall’intensa mobilitazione, rafforzano la loro presenza nelle aziende, e, rendendosi sempre più autonomi dai partiti, sono in grado di stabilire rapporti più unitari tra loro. Nuovi rapporti tra forze sindacali e partitiche Un altro aspetto innovativo del periodo risiede, infatti, proprio nel rapporto tra partiti e sindacati. La nascita della Federazione unitaria nel 1972 è senz’altro l’emblema della nuova autonomia dei sindacati dai partiti e rende l’organizzazione sindacale un attore sempre più influente, dapprima nell’arena delle relazioni industriali, poi anche e più in generale in quella politica. Il potere acquisito dalle organizzazioni dei lavoratori le rende interlocutori di cui i governi e gli imprenditori non possono non tenere conto. Larga parte del decennio successivo all’Autunno caldo vede infatti il sindacato affiancare la sua azione di rivendicazione tradizionale con un’azione più 7 F. Alacevich, Le relazioni industriali in Italia. Cultura e strategie, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996. 89 FRANCA ALACEVICH vasta, finalizzata a ottenere nuove politiche sociali: sui problemi della casa, della scuola, dei trasporti, della sanità, del fisco, ecc. Non a caso questa stagione viene ricordata con l’efficace etichetta di «lotta per le riforme». In questa lotta il sindacato svolge spesso un ruolo che è stato definito di «supplenza» ai partiti, percepiti come non più in grado di rispondere efficacemente alle nuove domande che provengono dalla società civile8. Per le caratteristiche e la genesi stessa del movimento sindacale del secondo dopoguerra, questo affrancamento dai partiti rappresenta un’innovazione di grande rilievo. D’altra parte, costituisce anche la motivazione essenziale per il mantenimento dell’unità sindacale, altrimenti impossibile da realizzare. Quel che preme qui sottolineare è che l’affrancamento dai partiti e l’unità sindacale traggono linfa proprio da quel risveglio della base, dalla partecipazione dei lavoratori, in prima persona e con i loro delegati. Tornando alle parole del nostro protagonista, Ottaviani: «Esisteva un’incredibile omogeneità di atteggiamento […], le stesse vibrazioni […] le barriere sembravano cadere improvvisamente». Era la manifestazione di una nuova cultura del lavoro – e soprattutto della persona, del cittadino lavoratore – che a partire dalle fabbriche ha rappresentato la grande innovazione del 1969. Una nuova cultura del lavoro La cultura, l’utopia – come si è preferito chiamarla – del lavoro non diviso permea di sé il movimento operaio di quegli anni e trova nella centralità della fabbrica il suo motore principale. Come ha ben mostrato Paolo Giovannini, anche in un recente saggio9, in questa fase il lavoratore produttivo, con la sua centralità economica e identificato come vera fonte della ricchezza di una società, costituisce il forte collante di una cultura sindacale e politica che per altri versi nel nostro paese era ancora un vero e proprio puzzle di culture diverse. La condizione operaia alla base del movimento del ’69 è quella della grande impresa, della fabbrica «ad alta intensità relazionale», dove i lavoratori sviluppano il valore della solidarietà (tra di loro, nel chiuso della fabbrica, ma su cui poi si innesta presto una solidarietà allargata, anche ad altri fuori della fabbrica). In cui si afferma il valore del lavoro e del produttivismo, che fanno dell’operaiomassa una figura centrale della società: «Era necessario un metro per misurarne e valutarne i ceti, i gruppi e le classi […] Parlare di centralità operaia significava proporre un metro di giudizio sociale […] dotarsi di uno strumento per giudicare l’intera società […]», dice ancora Ottaviani. 8 G. Giugni, Il sindacato fra contratti e riforme, 1969-1973, De Donato, Bari 1973; A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo: classi, partiti, sindacati, il Mulino, Bologna 1980. 9 P. Giovannini, Culture del lavoro nel Novecento italiano, in Quaderni di rassegna sindacale - Lavori, n. 1, 2009, pp. 213-239. 90 DOPO IL 1969: COSA CAMBIA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI Il sindacato è chiamato a farsi interprete e portavoce dei bisogni e delle domande di questi soggetti. La costante rilevanza assunta in questi anni dal rapporto con la base lo sollecita in questa direzione, e ad estendere la sua azione a tutte le sfere della vita che condizionano il benessere dei cittadini: alla «lotta per le riforme», appunto, oltre che ovviamente a richiedere una condizione di vita dentro le fabbriche che li veda attori protagonisti e partecipi del loro destino. Nuove forme di partecipazione, di democrazia E qui vengo all’ultima innovazione cui pensavo di far cenno: l’innovazione nelle relazioni tra direzioni aziendali e lavoratori nella gestione e nel controllo delle condizioni di lavoro e della produzione. Forti di quanto ottenuto con il varo dello Statuto dei lavoratori, i lavoratori, i consigli dei delegati, i sindacati hanno tradotto la cultura del lavoro non diviso in un esperimento di partecipazione, di presa in carico delle responsabilità, di diritti all’informazione e all’espressione delle proprie idee, di coinvolgimento nell’organizzazione del lavoro e della produzione. Lo slogan di allora era: «Partecipare all’elaborazione dei programmi produttivi». Visto da un’altra angolazione, si può dire si sia trattato di un esperimento di limitazione del potere discrezionale del management delle imprese. Introdurre nuove tecnologie, adottare cambiamenti organizzativi, assegnare i compiti e i carichi di lavoro, definire i tempi per le lavorazioni, tutte prerogative indiscusse della direzione, sono divenuti oggetto di trattativa e di partecipazione diretta, in forme più o meno sviluppate, più o meno condivise, più o meno efficaci. E questa volontà di partecipazione diretta alla vita sociale e civile si è poi trasferita dalla fabbrica alla società. Negli anni successivi, infatti, dà vita alla partecipazione dei genitori e degli studenti alla gestione delle scuole – con i decreti delegati – e più in generale la si ritrova in molte sfere della vita: dai quartieri urbani alla sanità. La reazione dello Stato e delle imprese Non vi è dubbio che tutte queste innovazioni, che si possono rintracciare nell’esperienza maturata prima, durante e soprattutto dopo l’Autunno caldo, abbiano posto delle sfide di non poco conto alla società e in particolare ai governi e alle imprese. Lo Stato inizialmente ha reagito accogliendo subito alcune istanze e interrompendo quella «astensione» dall’intervento nelle relazioni industriali che lo aveva sin qui caratterizzato – se si escludono gli interventi meramente repressivi adottati precedentemente per assicurare l’ordine pubblico, così si diceva. Il ministro del Lavoro Giacomo Brodolini, sindacalista socialista, istituisce nel 1969 91 FRANCA ALACEVICH una commissione nazionale per la stesura di una bozza di Statuto, chiamando a presiederla Gino Giugni. Lo Statuto – primo esempio di auxiliary legislation del nostro paese – verrà approvato nel maggio dell’anno successivo. E questa è storia a tutti nota. È forse meno nota, o meno ricordata, un’altra importante esperienza avviata dal ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, che alla morte di Brodolini lo sostituisce. Il ministro Donat Cattin infatti, proprio nel 1969, interviene nel conflitto tra datori di lavoro e sindacati per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici privati. È il primo intervento di «mediazione» governativa in cui il terzo attore non svolge solo un ruolo di arbitro tra le parti, ma si manifesta e agisce come portatore di interessi specifici e pertanto mette sul tavolo della trattativa delle risorse aggiuntive per il raggiungimento di un accordo. Infine, è in questo periodo che lo Stato attua un decentramento del suo apparato amministrativo, istituendo nuovi organismi di confronto costante tra le parti: comitati consultivi e organi di gestione. Quanto alle imprese, si registra qualcosa di analogo a quanto successo negli anni ’30 e ’40 negli USA. Adottano innovazioni di processo che da un lato sollevano i lavoratori dai compiti più pesanti (si pensi alla robotizzazione), ma dall’altro spesso tendono a rompere quella solidarietà di reparto che era la forza del movimento. Avviano, dopo qualche anno, quel processo di delocalizzazione che porterà alla suddivisione delle fasi produttive in imprese collocate in contesti diversi, fino alla delocalizzazione all’estero che avverrà successivamente. In qualche caso, provano ad adottare una strategia, in altri paesi ben più decisamente perseguita, di promuovere e favorire un «sindacalismo responsabile». E nel frattempo – nei decenni ’80 e ’90 – i processi di internazionalizzazione e globalizzazione dell’economia e dei mercati completano un’opera di drastico cambiamento del contesto. Ma su questo non mi soffermo, se non per raccomandare la lettura dell’articolo di Luciano Gallino apparso ieri (7 ottobre) su La Repubblica10. Le conquiste del ’69: cosa rimane e cosa si è perso? Con gli occhi colmi delle immagini di difficoltà delle relazioni industriali del nostro tempo, la stagione della mobilitazione collettiva così carica di spirito innovatore del ’69 può apparire come qualcosa di irrimediabilmente perduto. Tuttavia, non credo che l’interpretazione dell’eredità dell’Autunno caldo debba essere particolarmente pessimistica. Adottare un po’ di distacco e ripercorrere la storia delle relazioni industriali del secondo dopoguerra aiuta a vedere con le lenti del lungo periodo e a rintracciare gli elementi di continuità. 10 L. Gallino, Quando i salari sono senza dignità, in La Repubblica, 7 ottobre 2009. 92 DOPO IL 1969: COSA CAMBIA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI Nonostante in molte (troppe) aziende e realtà locali tanti diritti faticosamente conquistati siano spesso ancora oggi difficili da assicurare o negati e nonostante i ricorrenti attacchi che alcune forze politiche sferrano nei loro confronti, tutti quei diritti conquistati e riconosciuti nello Statuto dei lavoratori restano diritti esigibili. Benché alcune categorie sociali in questi anni si trovino ad affrontare crescenti difficoltà, nel mercato del lavoro e nella società, la stretta relazione tra diritti dei lavoratori e diritti sociali e civili (alla casa, all’istruzione, alla salute e sicurezza, alla sanità pubblica, ecc.) è un dato acquisito, fa parte della nostra cultura civica. Così come altri diritti – penso a quelli all’informazione e alla partecipazione – anche con il sostegno delle politiche europee, su questo terreno tutt’altro che assenti, a mio parere sono condivisi e sono entrati a far parte della nostra comune cultura – per quanto non siano sempre praticati a dovere e a sufficienza in tutte le realtà. In sostanza, seppure le culture del lavoro restino ancor oggi un complicato puzzle – per dirla con Paolo Giovannini – vi è una sorta di nocciolo comune che è sufficientemente diffuso nella nostra cultura, che si è venuto costruendo in un lungo percorso di cui il ’69 rappresenta un momento forte e centrale. Non è certo poca cosa. Non va sottovalutato. Quello che forse invece è oggi appannato, meno presente e vitale (mi auguro solo temporaneamente), è il forte spirito innovatore di quella stagione, l’effervescenza, la creatività individuale e collettiva. Quella capacità, ma anche quella voglia e quella passione, di leggere con occhiali nuovi la realtà in cui ci si trova a agire fu una nota importante e distintiva della stagione dell’Autunno caldo. «Il mondo si muoveva ed era affascinante cercar di intuirne la direzione» – diceva Ottaviani – ma di questo fascino forse oggi si trova poco. Vedo di più la fatica, la difficoltà… Quella capacità di inventare nuove forme di azione e forme appropriate alla bisogna – dunque, le più efficaci e insieme le meno costose – a volte si riaffaccia, ma la tradizione ha la meglio pur se generalmente paga poco. Penso, per esempio, agli scioperi virtuali o a quelle manifestazioni pensate e realizzate in quanto più capaci di catturare i media, di cui in questi mesi abbiamo avuto purtroppo numerosi esempi: gli operai o i lavoratori della ricerca sul tetto delle loro aziende e dei loro laboratori. Il sindacato è loro vicino, li segue, li accompagna, ma non ne diventa un portavoce capace di innovare nella sua organizzazione e nella sua politica. Quella capacità di rimettere in discussione l’organizzazione interna del sindacato, infatti, è l’aspetto caratteristico del ’69 che vedo più assente. Il problema sta forse nella mancanza di un soggetto capace di presentarsi come simbolicamente paradigmatico del bisogno di cambiamento, delle necessità diffuse. Quale «figura centrale» può infatti oggi rappresentare l’equivalente funzionale dell’operaio-massa di allora? Non è facile capirlo, forse non esiste una figura in grado di catalizzare come fu allora l’attenzione, come emblema 93 FRANCA ALACEVICH del cambiamento. Ma forse non vi sono nemmeno la spinta, la motivazione, l’urgenza di cercare questa figura o queste figure nel nostro mondo di oggi. Temo che si faccia troppo poco per verificare se esiste e dove sia. Eppure, di un nuovo metro di giudizio sociale abbiamo più che mai bisogno. La complessità della società in cui viviamo è certamente molto grande, è cresciuta a dismisura; la frammentazione delle forme del lavoro si è moltiplicata al punto che non si trovano vibrazioni che accomunino; la fragilità estrema di molti lavoratori è un forte ostacolo all’aggregazione e alla mobilitazione; l’eterogeneità degli orari di lavoro spalmati su ventiquattro ore al giorno e sette giorni la settimana riduce le possibilità di ritrovarsi e riconoscersi vicini e con comuni bisogni. Si potrebbe continuare nell’elenco, che tutti conosciamo, delle attuali difficoltà. Ma forse la lezione del ’69 ha ancora molto da dirci. La lezione del ’69: rileggere per reimparare Vediamo dunque, in conclusione, se esiste una lezione da trarre dalla nostra rilettura dell’Autunno caldo e del movimento nato nel 1969. Sempre restando nell’alveo delle relazioni industriali – che costituiscono l’angolo di visuale di questa ricostruzione – credo che una lezione utile anche per l’oggi si possa rintracciarla e che abbia soprattutto a che fare con due aspetti basilari del comportamento sia degli individui che delle organizzazioni collettive: l’attenzione al manifestarsi di novità, con il conseguente orientamento a reinterpretare la realtà e ricostruire le strategie di azione; la disponibilità a rischiare, a mettersi in gioco. La sorpresa Il movimento del ’69 ha colto tutti di sorpresa, non ci se lo aspettava. Non se lo aspettavano certamente le imprese, che pure qualche avvisaglia avrebbero dovuto saper meglio interpretare. Non se lo aspettavano il governo in carica e i partiti politici del momento, questi ultimi abituati a «controllare» i sindacati. Non se l’aspettavano nemmeno le organizzazioni sindacali. E neppure gli stessi protagonisti pensavano che il movimento avrebbe avuto la forza e le dimensioni, come anche gli effetti, che invece ha avuto. Nessuno pensava che quanto avvenuto in scuole e università pochi mesi prima avrebbe avuto una declinazione nelle fabbriche e nel mondo del lavoro. Eppure la storia di quanto avvenuto nelle grandi fabbriche statunitensi qualche decennio prima era una lezione «leggibile». L’Europa e soprattutto l’Italia stavano vivendo una stagione per molti aspetti analoga. Forse oggi siamo nella stessa situazione – seppur, come è ovvio, in contesto fortemente mutato. Ci sono molte possibilità di leggere cosa avviene in altre 94 DOPO IL 1969: COSA CAMBIA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI realtà che sono passate da situazioni analoghe prima di noi. Per restare nel campo delle relazioni sindacali, le sperequazioni tra salari dei lavoratori dipendenti e stipendi dei manager ha prodotto in alcuni paesi europei interessanti nuove rivendicazioni, che hanno avuto anche qualche successo – come in Olanda. O ancora, il lavoro flessibile è stato affrontato restituendo ai lavoratori parte del «rischio» che si accollano e facendo sostenere alle imprese parte dei costi del vantaggio che sfruttano – come in Austria. Porto solo questi due piccoli esempi, ma altri ve ne sono, per segnalare come leggere la storia altrui può aiutare11. Ed ancora, nuovi soggetti sociali chiedono a gran voce di essere presi in considerazione. Si pensi alla realtà dei lavoratori flessibili – specie nella componente dei «precari», soprattutto giovani – che potrebbe rappresentare quel nuovo da cui dovremmo farci sorprendere e che dovremmo analizzare ben più attentamente di quanto non facciamo. Non è forse un movimento paragonabile a quello degli operai della fine degli anni ’60, né magari mai lo diventerà, ma è certamente una realtà che avrà dirompenti ripercussioni sulla società del futuro, segnando la vita, l’esperienza e finanche la personalità delle generazioni future. Si pensi anche alla realtà dei «nuovi disoccupati», in questa fase di crisi economica globale. Si pensi, infine, alla realtà delle nuove povertà e alla crisi del ceto medio. E siamo sempre all’interno del mondo occidentale; se aprissimo gli occhi sui paesi emergenti ben altri esempi ancora potremmo fare. Lasciarsi sorprendere, e farlo un po’ prima che effetti irrimediabili si siano prodotti, e sapere reagire è una lezione che il ’69 ci ha lasciato e che dovremmo coltivare. Mettersi in gioco Credo però che la principale lezione che l’Autunno caldo e la stagione da esso aperta ci lascia sia soprattutto nella constatazione degli effetti positivi che la capacità di mettersi in gioco ha dimostrato raggiungibili. Il sindacato si è messo in gioco, sospinto dal movimento, e ne è uscito più forte. Ha raccolto le sfide postegli da soggetti che gli si opponevano e li ha saputi rappresentare. Ha rivoluzionato la sua organizzazione interna e gli equilibri consolidati e ha raggiunto sempre più lavoratori, e di realtà diverse. Ha rotto il tradizionale cordone ombelicale che lo legava ai partiti di riferimento e con l’unità sindacale che si è resa possibile ha ottenuto una forza che non ha avuto eguali nella nostra storia. Ha guardato ai bisogni e alle domande che provenivano dalla base e ha trovato un terreno d’azione comune con gli altri sindacati. Oggi le sfide sono tante e diverse, poste da soggetti molto diversi tra loro e con bisogni a loro volta diversi; oggi i partiti e le forze politiche sono diversi, 11 F. Alacevich, Promuovere il dialogo sociale. Le conseguenze dell’Europa sulla regolazione del lavoro, Florence UP, Firenze 2004. 95 FRANCA ALACEVICH ma molto più fragili; oggi la dimensione internazionale è ineludibile… ma il lavoro è e resta la principale porta di ingresso per una piena cittadinanza, per una vita sociale e civile dignitosa e attiva. La lezione del ’69 è più che mai utile, senza nostalgie né rimpianti per un mondo che non c’è più, ma come sollecitazione a guardare, leggere e capire il nostro mondo di oggi. 96 L’egualitarismo: non solo salario di Gian Primo Cella Egualitarismo e sindacato L’affermare che, storicamente, il sindacato abbia sempre contribuito alla riduzione delle disuguaglianze economiche e sociali è dire molto e poco nello stesso tempo. L’abbiamo sempre saputo e dovremmo saperlo ancora (o soprattutto) oggi, quando i sindacati rappresentano l’ultima barriera (sia pur fragile) all’allargarsi delle disuguaglianze imposte dai mercati. È dire molto perché con questa affermazione si individuano solo le tendenze di lungo periodo, si mette in luce il più che secolare patrimonio di lotte e di rivendicazioni per il superamento delle più gravi discriminazioni nella definizione e nella fruizione dei diritti sociali (una volta conseguiti più o meno stabilmente i diritti civili e politici) e per la costruzione della cittadinanza industriale. È dire poco, se con questa affermazione non si colgono le innegabili differenze di linee e di comportamento fra le diverse esperienze sindacali e nelle diverse fasi del secolo industriale, nonché gli effetti temporanei (più o meno intenzionali) di determinate azioni rivendicative e forme di rappresentanza sulla struttura delle disuguaglianze, sia di quelle fra la classe lavoratrice e le altre classi sociali, sia di quelle interne alla prima. In questa occasione, ricordiamolo, si parla di un’esperienza, quella dell’Autunno caldo italiano, che occupa un posto d’eccezione nel panorama dei rapporti fra uguaglianza e sindacato, lungo tutto la vicenda del movimento del lavoro, fin dagli inizi dell’età industriale1. Un panorama che vede pochi altri momenti eccezionali, dal New Unionism nella Gran Bretagna di fine Ottocento all’affermazione dei sindacati industriali negli anni del New Deal rooseveltiano, fino alla nascita dei sindacati operai rivendicativi durante le lotte brasiliane negli ultimi anni della dittatura militare. Questi momenti non sono gli unici, ma certo non ce ne sono molti altri. Su questi temi, riflettendo più di un trentennio addietro sulle vicende delle rivendicazioni ugualitarie negli anni del grande ciclo di lotte italiane, proponevo una serie di criteri per l’individuazione dei caratteri egualitari dell’azione 1 G. Berta, L’Italia delle fabbriche, il Mulino, Bologna 2006. 97 GIAN PRIMO CELLA sindacale che (una volta tanto) mi sembrano riproponibili, e che qui ricordo in forma sintetica. Seguendo questa impostazione, si può riconoscere che l’azione complessiva di un sindacato avrà tanto più effetti ugualitari (interni ed esterni al lavoro dipendente) quanto più l’organizzazione della rappresentanza e la pratica rivendicativa seguiranno i seguenti criteri: a) criteri di organizzazione e di rappresentanza non esclusivi, non selettivi, aperti, in assenza di discriminazioni di carattere primario (di genere, etnicorazziali, ecc.) o di tipo professionale (connesse al mestiere o alla qualifica); b) perseguimento della rappresentanza dei lavoratori disoccupati o comunque esterni al mercato ufficiale (o del lavoro standard diremmo oggi); c) disponibilità all’intervento in tutti i rapporti sociali concreti che contribuiscono alla strutturazione delle classi sociali (specie attraverso le forme varie di protezione sociale); d) disponibilità all’intervento sui fattori che determinano le capacità di mercato dei lavoratori (in specie sulle forme e sui contenuti della istruzione e della formazione professionale); e) apertura delle strutture sindacali al controllo e alla partecipazione dei rappresentati (moderazione e controllo delle tendenze michelsiane, ovvero delle tendenze oligarchiche che non di rado imperversano nelle organizzazioni sindacali); f) disponibilità alla conduzione di rivendicazioni esplicitamente ugualitarie (se non altro come segnale e come simbolo); g) presenza di elementi di coordinamento fra le diverse forme della rappresentanza e delle azioni contrattuali, che permettano la conduzione di vere e proprie politiche di solidarietà (salariali ma non solo). La combinazione di questi criteri nelle diverse esperienze sindacali e nelle diverse fasi storiche potrebbe aiutarci a cogliere se non una vera e propria tipologia di rapporti fra sindacato ed eguaglianza (ovvero fra rivendicazione e uguaglianza) almeno delle congiunture rilevanti in questi rapporti. Se compiamo questa operazione nel quarto di secolo che intercorre nel caso italiano fra il dopoguerra e l’esplosione del grande ciclo di lotte 1968-1972, potremmo individuare almeno quattro momenti significativi. Nella prima fase (gli anni della ricostruzione) la pressoché assoluta centralizzazione della contrattazione si pone chiari fini perequativi, riducendo i differenziali salariali fra le diverse categorie di lavoratori, e fra i settori produttivi, con un connesso effetto frenante sulla dinamica salariale complessiva. Si tratta, come ricordava con grande efficacia Merli Brandini in un saggio del 1967, di una forma di politica dei redditi ex ante che trova ben pochi altri esempi nel panorama europeo dello stesso periodo2. Cade il controllo sui licenziamenti e cedono le prerogative delle commissioni interne, con un connesso abbandono del controllo efficace sulle condizioni di lavo2 P. Merli Brandini, Evoluzione del sistema contrattuale italiano nel dopoguerra, in Economia e lavoro, n. 2, 1967, pp. 67-93. 98 L’EGUALITARISMO: NON SOLO SALARIO ro. Aumentano le disuguaglianze fra lavoro e altre classi sociali. Nell’insieme potremmo definirla come una fase di egualitarismo al ribasso. Nel secondo momento (gli anni ’50) i sindacati italiani scontano il loro ruolo subalterno nell’ambito di uno sviluppo economico accelerato. Le grandi centrali confederali, divise e in aperta polemica, animate da culture contrastanti, appaiono inadeguate ad impostare e risolvere il problema del rapporto fra egualitarismo e dinamicità rivendicativa. La CGIL con le sue esigenze di coordinamento (in buona parte politico) della classe, tende a frenare la dinamicità rivendicativa laddove si manifesta, timorosa di ogni possibile deviazione particolarista. La CISL, con i suoi obiettivi modernizzanti in tema di contrattazione, sembra allontanarsi da ogni tensione egualitaria. Si aprono spazi, in alcuni settori e zone, per uno slittamento salariale incontrollato. È una fase di allontanamento sindacale dal campo delle disuguaglianze. Nella terza fase (gli anni del boom economico e quelli successivi alla crisi del 1963-64) i sindacati riacquistano capacità rivendicativa (in declino solo nella seconda parte del periodo), viene dato spazio alla iniziativa decentrata delle categorie, dei settori, delle aziende più forti, si pone mano alla costruzione di un sistema moderno di relazioni industriali, a partire dalle partecipazioni statali (si ricordi il famoso protocollo Intersind-ASAP del 1962). Gli effetti in termini egualitari sono contrastanti: da una parte si allargano i differenziali salariali (magari con il riassorbimento dello slittamento), dall’altra l’affermarsi della contrattazione ai diversi livelli (almeno in alcuni settori) e la stessa spinta salariale migliorano la condizione lavorativa nel suo insieme. È una fase, comunque, nella quale la dinamicità rivendicativa fa premio sulla eguaglianza. Nella quarta fase (gli anni del ciclo di lotte 1968-1972), la grande mobilitazione conflittuale si caratterizza con una chiara impronta ugualitaria. La dinamicità della rivendicazione si caratterizza per gli obiettivi egualitari. Alcune rivendicazioni acquistano un carattere emblematico, specie durante l’anno fatidico del 1969: dalla abolizione delle zone salariali (ottenuta nella vertenza di inizio anno gestita da Carniti e Foa) alla richiesta di aumenti salariali uguali per tutti (per i rinnovi contrattuali dello stesso anno). Emerge come l’affermazione di una linea sindacale rivolta all’uguaglianza non sia per nulla in contrasto con la conduzione della iniziativa rivendicativa, quando quest’ultima è espressione di profonde trasformazioni nella composizione della forza lavoro. L’egualitarismo del 1969 È così che l’impronta egualitaria tenderà a caratterizzare tutto il grande ciclo di lotte (anche in altri casi europei3) e in particolare l’anno dell’Autunno caldo 3 Come si può vedere nel volume curato da M. Pigenet et al., L’apogée des syndicalismes en Europe occidentale, 1960-1985 (Publications de la Sorbonne, Paris 2005). Fra i saggi compresi nel volume si 99 GIAN PRIMO CELLA italiano. Una impronta che è ben ricordata ancora oggi, e che, per la sua netta caratterizzazione, non ritroverà altri esempi di pari portata nel sessantennio che ci separa dagli anni postbellici4. Non è semplice in poche parole ricostruire la sequenza causale che può render conto del manifestarsi di un ciclo di lotte di questa natura. In termini molto schematici, la sequenza può comunque essere così ricostruita: un cambiamento nella composizione della forza lavoro (in specie l’aumento degli operai comuni o semiqualificati, con bassi livelli di istruzione formale); una situazione di mercato del lavoro che mostra tensioni a favore della offerta (sia pure per categorie ben determinate di lavoratori e principalmente a causa delle divisioni nel mercato stesso); la presenza di una rappresentanza sindacale debole a livello di fabbrica (e qui la presenza del sindacato conta quasi come la sua debolezza). Tutto ciò ha dato origine a un’azione sindacale altamente innovativa verso l’esterno e verso l’interno (sul piano delle disuguaglianze interne al lavoro stesso), che si è manifestata entro strutture produttive altamente vulnerabili dal punto di vista tecnico e organizzativo (siamo al culmine dello sviluppo organizzativo tayloristafordista) e che non ha incontrato quei vincoli politico-istituzionali che sarebbero stati presenti qualora avessero trovato realizzazione le ipotesi programmatorie e di politica dei redditi avanzate nella prima metà degli anni ’60, nell’ambito delle ambizioni riformatrici dei primi governi di centro-sinistra. I mutamenti nella composizione della forza lavoro sono di particolare rilievo per la riflessione che stiamo qui conducendo, in quanto segnalano la messa in crisi delle tradizionali carriere operaie: le scale di classificazione si trasformavano da un insieme di gradini che molti (non tutti) avevano la possibilità di salire, in una sorta di gabbia che rinchiudeva folti gruppi di operai, senza la possibilità di uscirne. Una ricerca dell’ILSES in Lombardia, apparsa alla fine del 1969 e curata da G. Barile e M. Paci, segnalava proprio questo processo di diminuzione del livello medio di qualificazione della forza lavoro operaia: dal 1951 al 1961, gli operai specializzati, i qualificati e gli intermedi passano dal 50,7% al 43,3% e gli operai non qualificati dal 32% al 34%. Si assiste, insomma, ad una crisi della carriera tradizionale del lavoro operaio qualificato, in quanto all’aumento degli operai specializzati e degli intermedi si accompagna una forte diminuzione della categoria degli operai qualificati, la categoria che era il punto centrale della carriera operaia ed il punto di passaggio obbligato per entrare negli specializzati: gli operai qualificati erano in Lombardia nel 1951 il 37,3%, nel 1961 il 29,7%; in provincia di Milano nel 1951 il 33,2%, nel 1961 il 26,9%, vedano in particolare quello di Hatzfeld, Berta, Hofmann, Stewart sui sindacati dell’automobile (pp. 21-50) e quello di Devolder, Causarano, Hyman, Kohl, Berggren sull’azione sindacale nelle aziende (pp. 109-137). 4 M. Bergamaschi et al. (a cura di), Salari contrattuali e piattaforme rivendicative dei metalmeccanici, 1948-79, Franco Angeli, Milano 1980. 100 L’EGUALITARISMO: NON SOLO SALARIO nel 1966 il 22,2%. Il modello taylorista-fordista stava compiendo il suo corso, particolarmente accelerato nell’esperienza italiana5. La netta impronta ugualitaria la ritroviamo soprattutto in tema di rivendicazioni sul sistema di classificazione professionale e sulla natura degli aumenti salariali. La presenza di rivendicazioni sulle qualifiche è caratteristica di tutto il ciclo, ed è un segnale di grande rilievo considerato che il tema della qualificazione compare solo in momenti molto particolari della rivendicazione sindacale e della contrattazione collettiva, per almeno due motivi: perché è ritenuto dalle controparti imprenditoriali un argomento potenzialmente vulnerante delle forme di ordine o di coordinamento nelle aziende; perché dai sindacati è vissuto come un tema «delicato», foriero di possibili tensioni o conflitti all’interno della propria area di rappresentanza6. Da una ricerca della FIM-CISL sulla contrattazione aziendale nel periodo (su 1.316 accordi del 1970 e 600 accordi nel 1971) appare come il tema delle qualifiche sia trattato dal 30% degli accordi nel 1970 e dal 56% nel 1971. La logica di funzionamento del sistema tradizionale delle qualifiche ne risulta fortemente scossa: richiesta di abolizione delle categorie più basse, rivendicazioni di passaggi di categoria per gruppi estesi di lavoratori, comparsa di rivendicazioni su nuovi criteri di inquadramento (che poi porteranno nel 1973 all’ottenimento nei contratti nazionali dell’inquadramento unico operai-impiegati). Sono rivendicazioni che segnalano qualcosa di simile ad una reazione contro uno squilibrio di status (come si direbbe secondo la nota teoria sociologica)7: lo squilibrio fra l’essere (e il considerarsi) al centro delle attività produttive (sulle catene ad alta meccanizzazione) e il basso riconoscimento sociale e professionale (la classificazione ai livelli inferiori della scala di inquadramento). La rivendicazione per eccellenza degli operai comuni diventa «la qualifica» (ovvero la 2a categoria), la si pretende come riconoscimento dovuto, la si ambisce, la si strappa, anche se si sa che vale ben poco. Di questa cultura operaia abbiamo una traccia indimenticabile nelle parole di Albino Saluggia, il protagonista de Il memoriale di Paolo Volponi (in quegli anni responsabile delle relazioni aziendali alla Olivetti)8. L’altra rivendicazione egualitaria per eccellenza riguardava la richiesta di aumenti salariali in cifra uguale per tutti, in grado come tale di ridurre i differenziali salariali per qualifica9. Nella contrattazione aziendale del 1970 e del 5 M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali, il Mulino, Bologna 1972. Le difficoltà di por mano a interventi riformatori sul sistema di qualificazione sono ben dimostrate delle vicende contrattuali italiane dell’ultimo ventennio (1990-2010): si parla periodicamente con enfasi e gravità della necessità di riforma degli inquadramenti professionali, anche a seguito delle profonde trasformazioni delle organizzazioni produttive, ma si sono posti in atto solo interventi parziali di «manutenzione» del sistema, che resta nella sostanza quello definito nei contratti del 1973. 7 G. Giampaglia, G. Ragone (a cura di), La teoria dello squilibrio di status, Liguori, Napoli 1981. 8 P. Volponi, Il memoriale, Garzanti, Milano 1962. 9 In generale, G.P. Cella, Uguaglianza e rivendicazione, Edizioni Lavoro, Roma 1978. 6 101 GIAN PRIMO CELLA 1971 la richiesta di aumenti in cifra uguale è preponderante: secondo i dati della citata ricerca FIM-CISL, nel 71% degli accordi del 1970 e nell’86% di quelli del 1971 è presente questo tipo di richieste. Ma è nella piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale dei metalmeccanici del 1969 che la richiesta fa la sua comparsa sulla scena più vasta: sono le famose 75 lire orarie per tutte le categorie operaie (e le 15.600 lire mensili per tutte le categorie speciali e impiegatizie). Con questa richiesta, preceduta da non poche polemiche interne ai sindacati (basti ricordare l’opposizione, quasi proverbiale, di un prestigioso dirigente come Trentin)10, si chiudeva un’epoca della storia della rivendicazione operaia tutta all’insegna del riconoscimento deferente della professionalità operaia. Quando, dopo gli «eccessi» egualitari sulla struttura dei differenziali salariali provocati dalla unificazione del punto di contingenza del 1975, la caratterizzazione egualitaria subirà una inversione di tendenza, il modello organizzativo-tecnologico della produzione avrà iniziato il suo ingresso in una nuova era, con una nuova fase della composizione del lavoro, e di egualitarismo non si parlerà più. 10 In particolare, cfr. le riflessione a posteriori in B. Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso, 1968-1969, intervista di G. Liguori, Editori Riuniti, Roma, 1999, e Id., Lavoro e libertà, scritti scelti a cura di M. Magno, Ediesse, Roma 2008 (si veda in particolare l’intervista sull’egualitarismo condotta nel 1980 da B. Ugolini). 102 La salute non si vende (e neppure si regala): la linea sindacale per la salute in fabbrica di Franco Carnevale, Pietro Causarano Un modello operaio di lotta alla nocività Il 1961 rappresenta per la lotta alla nocività in fabbrica un anno di decisive innovazioni; vengono buttati i semi capaci di far crescere una nuova strategia sindacale e operaia. A Torino presso la Camera del lavoro, auspice Emilio Pugno, ex operaio licenziato per rappresaglia politica dalla FIAT, viene costituito un gruppo di lavoro ad hoc di operai e sindacalisti comprendente anche tecnici e medici (sostanzialmente esterni questi ultimi alla medicina del lavoro ufficiale della città) per condurre un intervento alla Farmitalia di Settimo Torinese, appartenente al gruppo Montecatini, specificamente sulle condizioni di nocività denunciate come pesanti dagli stessi operai dell’azienda. Ha luogo una vera e propria inchiesta la cui importanza, secondo Gastone Marri, va ricercata nelle novità che pone all’attenzione di tutti: a) nell’aver utilizzato, anche in assenza di altri dati clinici e di laboratorio, i disturbi e le malattie denunciate dagli operai per rappresentare una situazione di rischi e di danni di cui non si possedeva un quadro, situazione questa da verificare su base epidemiologica e da ottenersi misurando, registrando e confrontando i dati ambientali e quelli biostatistici; b) nel coinvolgimento nell’indagine di alcuni tecnici interni all’azienda; c) nel coinvolgimento del sindacato territoriale che in qualche modo recupera l’esperienza dei lavoratori e costruisce con loro una delle prime piattaforme rivendicative sull’ambiente che parte dai singoli posti di lavoro per passare dal reparto all’azienda, individuando il legame tra lotta articolata e contrattazione collettiva nazionale e tra fabbrica e territorio con un primo tentativo di collegarsi al potere democratico locale (Comune e Provincia)1. Rivoluzionari, in Italia, per quel momento, sono alcuni dei punti contenuti nelle piattaforme rivendicative, sia in quella aziendale sia in quella proposta per 1 G. Marri, Per il recupero della documentazione sulle lotte per la salute ambientale lavorativa (primo elenco di fonti), in A. Grieco, P.A. Bertazzi (a cura di), Per una storiografia italiana della prevenzione occupazionale e ambientale, Franco Angeli, Milano 1997, pp. 270-271. 103 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO il rinnovo del contratto nazionale, predisposte anche in conseguenza dell’intervento esemplare alla Farmitalia. La prima prevede che: attraverso l’esame della situazione di ogni reparto, tutte le sostanze sostituibili con altre meno nocive vengano sostituite, come stabilisce per esempio la legislazione francese, la quale proibisce l’uso del benzolo come solvente. Per quanto riguarda la carenza degli impianti dal punto di vista della prevenzione, i lavoratori chiedono che, attraverso l’esame della situazione di ogni reparto, venga realmente assicurata tutta la prevenzione possibile, con la stessa larghezza di mezzi usata per gli interessi della produzione. Per quanto riguarda il controllo sanitario i lavoratori chiedono che venga garantita la prevenzione delle malattie professionali, non quando sono già conclamate ma prima che possano recare danni definitivi2. Per quanto riguarda il rinnovo del contratto nazionale, per combattere la nocività vengono proposti: provvedimenti per i turnisti: 1°) stabilire che la distribuzione dei turni avvenga in modo tale da assicurare comunque un riposo di almeno 35 ore dopo sei giorni lavorativi; 2°) stabilire che l’indennità di turno è cumulabile con le maggiorazioni per lavoro festivo e straordinario, eliminando cioè l’attuale assorbimento da parte delle stesse. Provvedimenti per gli addetti a lavorazioni nocive rischiose o gravose, stabilire: 1°) l’obbligo di rotazione o pause alle lavorazioni suddette; 2°) l’istituzione di una commissione di fabbrica con il compito di raccogliere e suggerire proposte e richieste di carattere tecnico ed igienico volte a diminuire la nocività e le sue conseguenze; in caso di malattia e al rientro dalla stessa, diritto alla conservazione del posto di lavoro […]; il diritto del sindacato di intervenire con esperti interni e anche esterni alla fabbrica per l’osservanza scrupolosa di determinate tabelle interessanti la concentrazione massima di gas o vapori, di polveri o biologici, e l’esame della situazione di ogni reparto in relazione alle sostanze nocive usate e sostituite con altre meno nocive come stabilisce la legislazione francese, la quale proibisce l’uso del benzolo come solvente; 3°) prevenzione antinfortunistica; 4°) visite periodiche, preventive, ambulatoriali, cioè che il lavoratore sia efficacemente curato, premunito dalle malattie professionali prima che possano recargli danni definitivi, non quando sono già conclamate3. Torino nei primi anni ’60, e non solo grazie ai Quaderni rossi, è un laboratorio dove fervono e vengono amplificate le esperienze e le discussioni incentrate sulla vita di fabbrica e sulle prospettive del movimento operaio. Le intuizioni tecniche ed i risultati politici ottenuti nel caso della Farmitalia riscuotono immediatamente un discreto successo e vengono sviluppati sino a divenire patrimonio e strumenti di lavoro di alcuni rappresentanti delle organizzazioni sindacali anche all’esterno della Camera del lavoro di Torino e dell’INCA-CGIL provinciale. Ivar Oddone, medico organico al movimento operaio, dotato di 2 FILCEP-CGIL, I problemi di azione sindacale alla Farmitalia per le rivendicazioni aziendali e per un nuovo contratto di lavoro, dattiloscritto, maggio 1961, pp. 1-14. 3 Ibidem. 104 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) grande carisma personale, a partire dalla Commissione medica e poi dal Centro di lotta contro la nocività del lavoro della Camera del lavoro diventa, assieme ad un sempre maggior numero di operai, tecnici, sindacalisti, animatore e portavoce instancabile di un «collettivo di ricerca». Le posizioni di questo gruppo di militanti saranno sempre più ascoltate, di fatto disegnando la linea da far valere in maniera intransigente su questi temi, in un momento critico per il movimento operaio e quando nessun’altra proposta soddisfaceva le aspirazioni politiche e di salute poste da gruppi sempre più numerosi di operai delle maggiori fabbriche italiane. A quella della Farmitalia seguono proprio a Torino altre iniziative che ad un certo punto coinvolgono, con un gruppo di operai e di sindacalisti della V Lega FIOM, anche la FIAT. Nel 1962 viene inaugurato a livello nazionale – artefice sempre Gastone Marri, forte personalità con attitudini a vivere nelle organizzazioni di massa, dotato di spiccata curiosità scientifica – un programma di corsi sindacali, monotematici, dedicati all’ambiente di lavoro, ai quali partecipano membri di commissione interna o membri di comitati antinfortunistici da aziende quali: Solvay di Rosignano, Italcable di Roma, Italcantieri di Sestri Ponente, Tubi Ghisa di Cogoleto, CMT di Genova, Breda Fucine di Sesto San Giovanni, Alfa Romeo di Milano, Falck di Dongo, Oscar Sinigaglia di Cornigliano, Nuovo Pignone di Firenze, CRDA di Monfalcone, Montedison di Ferrara, Ceramiche Pozzi-Ferrandina di Mantova, Acciaierie di Piombino, Ideal-Standard di Brescia; ad essi inoltre partecipano delegati alla sicurezza delle miniere. Nell’ambito di tali corsi tenuti per tutti gli anni ’60, con rigore e lungimiranza (con le stesse caratteristiche cioè che ancora in quegli anni valevano per le scuole sindacali e di partito), presso la Scuola centrale INCA-CGIL a Grottaferrata e quindi presso le scuole della Società Umanitaria di Milano ed a Meina, accanto ad una vasta socializzazione di conoscenze di fisiopatologia, tossicologia, medicina del lavoro e psicologia, veniva affrontato esplicitamente il problema della non delega. Fu attraverso l’elaborazione e lo svolgimento dei suddetti corsi di formazione che furono determinati coinvolgimenti e stabiliti rapporti di tipo nuovo con tecnici militanti, interni ed esterni all’organizzazione sindacale. Il carattere della novità, modesta ma significativa, consisteva nel fatto che per la prima volta venivano posti a tecnici e ricercatori quesiti precisi o assegnati ruoli scaturenti da programmi finalizzati all’obiettivo della non delega. Ad esempio: le esercitazioni pratiche sul funzionamento e sull’uso dell’apparecchio rivelatore istantaneo tipo Draeger erano e sono coerenti con la non delega e con le esigenze di conoscenze che un delegato può avere nell’ambito del suo piano per il controllo delle condizioni ambientali. Questo insieme rendeva chiaro il rapporto col tecnico anche se appartenente all’ENPI4. I formatori erano Raffaello Misiti dell’Istituto di Psicologia del CNR (che in quelle occasioni, ma anche in riunioni sindacali pubbli4 G. Marri, L’ambiente di lavoro in Italia: l’organizzazione della ricerca «non disciplinare» (1961-1980), in Sociologia del Lavoro, n. 10-11, 1980, p. 75. 105 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO che, per alcuni anni, compariva in incognito, quasi fosse in missione segreta, facendosi chiamare Giorgio Rossi), Francesco Ingrao dell’Ospedale Forlanini di Roma, Tanzarella e Morelli dell’ENPI, Oddone e quindi Rosario Bentivegna e Marcello Marroni, entrambi medici legali dell’INCA centrale. Secondo Marri, il volano messo in moto con il processo formativo obbligava il sindacato a prestare attenzione alle esigenze espresse ora più direttamente dai gruppi di lavoratori che, «omogenei» in relazione ai problemi della nocività, necessitavano dei giusti collegamenti con i tecnici, dovevano poter contare su di una efficace rete di comunicazione sui diversi aspetti della salute e della prevenzione, volevano mettere in atto le forme di lotta più opportune per eliminare la nocività. Nel 1965 viene costituito nell’ambito della Sezione infortuni e prevenzione dell’INCA-CGIL il Centro di documentazione rischi e danni da lavoro. Il primo collegamento non episodico degli operatori del Centro con un nucleo di tecnici della Clinica del lavoro di Milano (Grieco, Foà, Zedda, Scotti, Merluzzi) si realizza nel 1966, «sulla base di due esigenze di lotta: contro la silicosi e per la definizione di modalità di intervento nei luoghi di lavoro, che tenessero conto dell’esperienza dei lavoratori e delle nuove responsabilità che essi e le loro rappresentanze andavano assumendo»5. L’agenda della costruzione e dell’affermazione della linea sindacale della salute nei luoghi di lavoro negli anni 1965-1970 è piena di iniziative e avvenimenti, tutti vissuti come appuntamenti cruciali dai militanti e dai cultori della materia: tavole rotonde; rubriche su riviste sindacali e no; convegni alternantisi a nuove esperienze nelle fabbriche; bozze di contratto sindacale per il controllo della nocività6; momenti decisivi di approfondimento specialmente tra i lavo5 Ivi, pp. 76-77. Una Bozza di contratto sindacale viene presentata al convegno su «Salute e ambiente» promosso dalla Camera del lavoro e dall’INCA di Torino il 4 marzo 1966. Il documento assume che la nocività debba essere oggetto di una precisa valutazione biostatistica sulla base di due elementi: «il rischio e il danno». Il rischio viene considerato: a) come rischio generico in rapporto a tutti i parametri ambientali fisici e psicologici che caratterizzano l’ambiente di lavoro; b) come rischio specifico valutato in rapporto alla pericolosità in sé della sostanza usata e delle condizioni nelle quali questa sostanza viene lavorata e impiegata (curva di concentrazione di detta sostanza nell’ambiente, periodo di esposizione, ventilazione polmonare/minuto, reale efficacia e reale possibilità di uso, per il tempo di esposizione dei mezzi di protezione individuale). Il danno è valutato sulla base di dati biostatistici. Danni clinicamente accertati, considerati nel loro insieme di reparto e nel loro complessivo aziendale. Danni presunti da sottoporre a verifica biostatistica attraverso una valutazione d’insieme di tutti gli indici di danno alla salute, «diretti» (esiti delle visite mediche del medico curante e del medico di fabbrica, periodiche o no, esiti degli esami di laboratorio, ecc.) e «indiretti» (assenze dal lavoro, diminuzione del rendimento sul lavoro, ecc.). Danni presunti da sottoporre a verifica per confronto, sulla base di una valutazione dei danni di cui sopra con gruppi similari omogenei rispetto al campione, che non siano soggetti al rischio che interessa. Indispensabile è allora la tenuta di due tipi di registri: a) «il registro delle condizioni ambientali» sul quale vanno registrate le condizioni che interessano, le quali saranno oggetto di trattativa con consulenza medica di parte; b) «il registro dei dati biostatistici» con registrazione, reparto per reparto, di tutti i dati relativi ai singoli addetti ai reparti: i dati particolareggiati della visita di assunzione (anamnesi, esame obiettivo completo anche se negativo) e degli esami relativi; i dati delle visite periodiche e degli esami che perio6 106 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) ratori chimici (FILCEP) ad Ariccia e metalmeccanici (FIOM) a Desenzano nel 1967; il primo di una serie di manuali sull’ambiente di lavoro e la medicina preventiva7; i Centri regionali di lotta contro la nocività e la costituzione di una «comunità scientifica allargata»8; la nascita della rivista bimestrale dell’INCACGIL Rassegna di medicina dei lavoratori (1968-1973), che diventerà in seguito Medicina dei lavoratori, bimestrale del Centro ricerche e documentazione della Federazione CGIL-CISL-UIL; missioni di studio sull’ambiente di lavoro come quella organizzata in Unione Sovietica9; la definizione da parte di Oddone con un gruppo di sindacalisti e operai facenti capo alla V lega FIAT di Mirafiori e quindi la pubblicazione di una dispensa per la formazione sindacale10 «con la quale viene proposto un primo modello di sistema per il controllo della nocività ambientale, frutto del confronto tra il modello degli operai e quello dei tecnici» e «diffusa in 130.000 esemplari di cui 60.000 a stampa e tradotta in francese, tedesco, giapponese e spagnolo»11. A questo punto si crea ed è sempre più avvertita una particolare congiuntura. Nelle grandi fabbriche la situazione, in termini di igiene e sicurezza, è oggettivamente arretrata rispetto a quanto ormai raggiunto in altri paesi europei, certo come conseguenza del fascismo prima, della ricostruzione e del boom economico poi12. A ribadirlo sono due documenti importanti e di fonte autorevole dicamente devono essere eseguiti; dati diretti di alterazione dello stato di salute; assenze dal lavoro, diminuzione del rendimento, ecc. Viene detto anche che come corredo delle visite preventive e periodiche possono essere adottati gli esami complementari suggeriti dal Comitato di alta consulenza sanitaria dell’ENPI; Commissione medica della Camera del lavoro di Torino (a cura di), Contrattazione sindacale sulle condizioni di lavoro, cicl. in proprio, Torino 19662. 7 G. Marri, I. Oddone (a cura di), L’ambiente di lavoro, ESI, Roma 1967. 8 È rimarchevole l’iniziativa condotta da alcuni membri della commissione interna della FIAT Mirafiori nei confronti del medico di fabbrica; A. Surdo, Esperienze di un rapporto nuovo tra classe operaia e medici, in Rassegna di medicina dei lavoratori, n. 5, 1970, pp. 89-102. Essa, secondo quanto riportato da Marri, chiarisce ciò che un delegato doveva chiedere al medico del lavoro: «non di intervenire per rimuovere la nocività ma di contribuire a definire ciò che serve per conoscere, controllare, verificare l’efficacia delle misure atte a ridurre o eliminare i rischi sulla base di un’ipotesi chiaramente formulata, cioè sulla base del piano del delegato»; G. Marri, L’ambiente di lavoro in Italia, cit., p. 78. Al lavoro di Surdo sono allegati alla relazione della commissione interna sui sopralluoghi all’Officina 53 della FIAT Mirafiori, sul colloquio con il medico di fabbrica e con la Direzione aziendale del gennaio 1967, il resoconto del colloquio col medico di fabbrica sulla silicosi alla FIAT Ferriere dell’aprile 1967, il resoconto del primo colloquio col medico di fabbrica sul problema della silicosi alle fonderie Mirafiori e il resoconto della commissione interna FIAT Grandi motori col medico dell’Ispettorato del lavoro. 9 AA.VV., L’ambiente di lavoro in URSS, ESI, Roma 1969. 10 FIOM, L’ambiente di lavoro, dispensa ciclostilata in 53 tavole a colori, corredata da altrettante diapositive, FIOM, Torino 1969. La seconda edizione, a cura della FLM, è stata edita dalla ESI nel 1971. La ripubblichiamo alla fine del volume. 11 G. Marri, L’ambiente di lavoro in Italia, cit., pp. 81-82. 12 Le testimonianze su questo quadro di arretratezza sono molteplici. Limitandosi alla realtà torinese, che sarà il crogiuolo di molti movimenti contestativi, politici e di lotte per la salute, si possono ricordare gli alti livelli di nocività alle linee di verniciatura dell’industria dell’auto, nelle galvaniche, nelle industrie della gomma e non ultime le diffuse lavorazioni dell’amianto, specie quelle tes- 107 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO come la relazione monografica del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) del 1968 e le conclusioni dell’indagine conoscitiva della Camera dei Deputati13. Al tempo stesso un prolungato immobilismo attanaglia, almeno sili ancora in funzione. Su questa realtà, già presente da alcuni decenni, si scontra la nuova classe operaia composta da masse di emigrati dal Sud Italia che in quegli anni affluiscono a Torino e nei comuni della cintura, subentrando agli operai piemontesi e veneti, proprio a partire da quei posti di lavoro più nocivi e quindi meno ambiti. I testi che seguono sono esemplificativi di una soggettività che comincia a farsi strada e ad assumere valore di stimolo, più o meno indirizzato, al cambiamento. Il primo è un testo di storia orale, il secondo mostra, attraverso la mediazione del letterato, l’atteggiamento «tipico» dell’operaio massa. Chiara Sasso ha raccolto di recente i racconti di tante donne che hanno lavorato negli anni ’60 e ’70 in una tessitura di amianto di Grugliasco; dice una lavoratrice: «Non si può cercare di interpretare con la mentalità di oggi. Sarebbe sbagliato. Le donne andavano a lavorare in fabbrica, all’amianto, così, come gli uomini andavano in fonderia. Era un lavoro come un altro. Dava da mangiare. Sì, entravano e uscivano dalla fabbrica con lo stesso grembiule, sì coperto di polvere, ma era normale. Allora tutte facevano così. Gli uomini giravano con il ‘toni’ [tuta], le donne con il grembiule della fabbrica, le infermiere del manicomio, uscivano anche loro, con il grembiule che si distingueva. Anch’io, quando sono entrata a lavorare in Comune, usavo il grembiule, senza tanti problemi. Così per strada, tutte avevano il grembiule. Sì, davano la stoffa per farlo, ma questo non era una tragedia, ma una bella cosa, l’operaia si faceva il grembiule per la fabbrica, e il resto della stoffa lo utilizzava per altro. Sì, davano da bere del latte, ma non c’era la mentalità per berlo, sembrava ‘sprecato’. Bere del latte solo per far digerire la polvere… La fabbrica regalava un litro di latte, ma le donne lo portavano a casa per i figli. Se qualcuna moriva, era perché prima o poi si deve morire. Se morivano giovani, era perché era destino. Si parlava della ‘pòer’ [polvere], ma così. C’era la polvere, si diceva, e la fabbrica regala del latte da bere. Per lavare i polmoni, per digerirla. Certo, poi appena si poteva, cambiavano lavoro. Potendo scegliere si facevano assumere in fabbriche meno brutte. Negli ultimi anni c’erano sopratutto meridionali». [Giusi richiede attenzione:] «Oh! sentite questa, sentite, l’altra mattina, Madonna quante gliene avrei dette…! ero con mio marito in quel negozio lì all’angolo. Una signora, dice forte: ah no! io quel copriasse da stiro non lo voglio, perché ha il foglio di amianto sotto… Io mi sono girata, mi è venuto il sangue agli occhi, stavo per rispondergli male, coprirla di parole, mio marito mi ha detto ‘cammina’. Se no mi scatenavo. Ma come? Adesso tutto sto casino? Adesso si scopre l’amianto? E noi? E IO? Ci ho lavorato dodici anni a fare l’amianto, cosa devo dire?» (da C. Sasso, Digerire l’amianto, Tip. Melli, Susa 1990, pp. 13-15). L’indomabile protagonista del romanzo di Balestrini, l’operaio massa, diventa testimone diretto delle lotte in corso in quegli anni ed anche interprete sicuro, non reticente, dei concetti che erano in voga: «E allora diciamo che è ora di finirla, che con tutta questa enorme ricchezza che noi produciamo qua e nel mondo, poi oltre tutto non sanno che sprecarla e distruggerla. La sprecano per costruire migliaia di bombe atomiche o per andare sulla luna. Distruggono la frutta, tonnellate di pesche e di pere, perché ce ne sono troppe e allora hanno poco valore. Perché tutto deve avere un prezzo per loro, tutto deve avere un valore, che è l’unica cosa che a loro interessa, non sono i prodotti che senza valore non possono esistere. Non possono servire alla gente che non ne ha da mangiare, per loro. Con tutta questa ricchezza che c’è invece la gente potrebbe non morire di fame, potrebbe non più lavorare. Allora noi prendiamoci questa ricchezza, prendiamoci tutto. Ma stiamo impazzendo? I padroni che ci fanno lavorare come bestie e poi distruggono la ricchezza che noi abbiamo prodotto. Ma è ora che gli facciamo il culo a tutti questi porci finalmente, che li facciamo fuori tutti e ce ne liberiamo per sempre. Stato e padroni fate attenzione, è la guerra, è la lotta finale»; N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 88-89. 13 CNEL (a cura di), Relazioni monografiche allegate al rapporto preliminare sul riordinamento della prevenzione contro gli infortuni e le malattie derivanti dal lavoro, Assemblea del CNEL del 20 novembre 1967, CNEL, Roma 1968; Esame delle condizioni di salute dei lavoratori di particolari industrie, Indagine conoscitiva della XIV Commissione permanente (Igiene e Sanità), in Indagini conoscitive e Documentazioni Legislative, n. 12, Servizio Commissioni Parlamentari, Roma 1972. 108 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) nel campo della salute, l’azione di partiti, compresi quelli della sinistra, di parti sociali, di istituzioni ed anche della medicina del lavoro nella sua versione professionale nonché in quella accademica. Quel gruppo di attivisti per la salute nei luoghi di lavoro, nato senza una specifica delega, almeno ufficiale, poco alla volta si accredita e crea proseliti, sulla base dei fatti, all’interno del maggior sindacato ed in particolare tra i lavoratori di alcune fabbriche, interessati a cambiare le cose anche con la lotta e lo scontro. Questo gruppo è in grado di esprimere un modello politico-tecnico, una linea tanto ambiziosa quanto modeste o poco convincenti erano le ipotesi alternative o quelle messe in campo per contrastarla o per cambiarla. Trae vantaggio dal tradurre in frasi semplici ed efficaci concetti talvolta complessi, fino a farne slogan come «La salute non si vende», i «Quattro gruppi di fattori di rischio», la «Non delega», il «Gruppo omogeneo», la «Validazione consensuale», i libretti sanitario e di rischio, i registri dei dati ambientali e biostatistici. Infine, a corroborare la fiducia nel modello, arrivano i primi risultati tangibili in termini di salute, la constatazione da parte dei diretti interessati che la lotta paga e cioè che le condizioni di lavoro non sono «oggettive», date una volta per tutte, ma possono essere cambiate con effetti apprezzabili anche immediatamente14. 14 I fattori nocivi vengono aggregati in quattro gruppi, il primo comprende quelli che esistono anche nell’ambiente domestico e di vita ma che in fabbrica si possono presentare in eccesso o in difetto (illuminazione, temperatura, umidità, rumore, ecc.); il secondo raggruppa quella grande varietà di fattori presenti in genere solo nei luoghi di lavoro sotto forma di gas, vapori, polveri, vibrazioni, ecc.; il terzo contempla le condizioni di fatica muscolare ed il quarto gruppo tutti i fattori stancanti diversi da quelli muscolari, e cioè le varie condizioni derivanti sostanzialmente dalla organizzazione del lavoro ed individuabili ad esempio nei turni, nella monotonia, nei carichi eccessivi, nella disciplina aziendale. I fattori dei primi tre gruppi sono misurabili con criteri oggettivi e possono essere confrontati con dei limiti considerati accettabili; i fattori del quarto gruppo sono percepibili in maniera adeguata solo dai lavoratori i quali soli possono assegnare loro un valore soggettivo. La linea sindacale trova il suo perno nel «gruppo operaio omogeneo», cioè in quei lavoratori che, esposti agli stessi rischi lavorativi, hanno interessi comuni e pertanto si aggregano, interagiscono, per accertarli compiutamente e per decidere di controllarli. Al gruppo spetta il compito di condurre una indagine con metodologia adeguata, mediante l’osservazione, la compilazione di un questionario, la presa di coscienza, la discussione, la trasformazione in soggetto esperto, la costruzione di una mappa dei rischi ambientali che in una prima fase può anche essere «grezza» ma che servirà come orientamento per successive indagini tecniche e per la loro sistemazione in appositi registri e libretti individuali. A questo punto deve essere risolto con decisione il problema della «non delega» nella tutela della salute; nei confronti del medico ad esempio il problema può essere affrontato creando un linguaggio comune e socializzando le rispettive conoscenze, i lavoratori riportano al medico informazioni sul ciclo lavorativo e sui relativi rischi, il medico rende edotti i lavoratori sui danni correlati o che possono essere correlati con le varie condizioni di rischio; in tal modo la salute non è assoggettata ad un processo di delega, neppure nei confronti del medico «buono» o «compagno». La «validazione consensuale» è in pratica una ricerca attiva, da parte di coloro che più direttamente ne hanno titolo ed interesse, delle soluzioni di bonifica e di perseguimento del benessere nei luoghi di lavoro; i passi finali di questo lungo ed impegnativo percorso sono rappresentati dalla presentazione di una piattaforma rivendicativa e dalla gestione delle fasi rivendicative e di lotta nelle quali entrano autorevolmente le strutture sindacali interne ed esterne all’azienda. 109 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO Il modello si afferma Il lavoro svolto sulla base dei criteri della linea sindacale per la salute è enorme, ben socializzato e con risultati incontestabili, ampiamente condivisi da addetti ed anche non addetti ai lavori e dall’opinione pubblica, ed anche temuti da alcuni. Caio Plinio Odescalchi, dirigente dell’ENPI e pioniere dell’ergonomia in Italia, concludeva con le parole che seguono una sua conversazione tendente a spiegare ai soci del Rotary Club Milano-Est «comportamento e richieste sindacali per quanto attiene all’ambiente di lavoro […]. Come vedete cari amici, le richieste sono molto massicce, alcune forse di difficile attuazione, ma decisamente poco contestabili o contrattabili perché volte alla conservazione dello stato di salute di chi lavora, di chi, tutto sommato, produce per la collettività»15. Del 1969 sono: l’indagine campione sulla salute dei lavoratori dell’alimentazione; l’indagine di metalmeccanici, chimici ed edili sulla silicosi; l’indagine nazionale nel settore della gomma sulla base del «Quaderno» elaborato dai lavoratori torinesi16. Nel 1970 «la linea sindacale» compie il passo decisivo, le avanguardie, gli specialisti della salute o come era da alcuni denominato «il club dell’ambiente», nati e sviluppatisi in forma autonoma all’interno di alcune frange del sindacato italiano lo pervadono tutto; prendono l’avvio una serie incalcolabile di iniziative, la maggioranza delle quali unitarie, congiuntamente promosse dalle tre confederazioni nazionali sui temi e sulle lotte contro la nocività del lavoro che hanno un adeguato coronamento nella grande assise di Rimini17, frequentata da due o forse tremila partecipanti, dove, confrontando le esperienze di un decennio, si arriva alla definizione, con un documento conclusivo, della vera e propria «linea dei sindacati» (CGIL-CISL-UIL) sull’ambiente18. Proprio in applica15 C.P. Odescalchi, Comportamento e richieste sindacali per quanto attiene all’ambiente di lavoro, relazione tenuta nella riunione del 10 settembre 1970 del Rotary Club Milano-Est, ciclostilato, 1970. 16 Cfr. Indagine campione sulla salute dei lavoratori dell’alimentazione, in Rassegna di Medicina dei Lavoratori, n. 2, 1969, pp. 61-71 e n. 2, 1969, pp. 91-95; G. Marri, Questionario per un’indagine operaia sulla silicosi, in Rassegna di Medicina dei Lavoratori, n. 3, 1969, pp. 29-73; FILCEA, Un «Quaderno» dei lavoratori torinesi della gomma sulla nocività ambientale, in Rassegna di Medicina dei Lavoratori, n. 2, 1969, pp. 423-456. 17 Fabbrica e salute, Atti della Conferenza «La tutela della salute nell’ambiente di lavoro», Rimini, 27-30 marzo 1972, SEUSI, Roma 1972. 18 La mozione conclusiva della Conferenza unitaria di Rimini del 1972 riporta un articolato sistema di punti da far valere come linea e come obiettivi delle organizzazioni sindacali italiane nella lotta contro la nocività dei luoghi di lavoro: « Le scelte che la Conferenza ha ribadito che vanno realizzate dal movimento sindacale nell’immediato futuro sono le seguenti: 1) Principio irrinunciabile è che la salute dei lavoratori non va monetizzata. Ciò significa, in primo luogo, che la salute va difesa, non già perseguendo integrazioni salariali che lascino immutate le condizioni di nocività e pericolosità, ma rimuovendo le cause di rischio nelle loro molteplici forme, realizzando modifiche reali dell’ambiente e dell’organizzazione del lavoro, in assenza delle quali la monetizzazione potrebbe riemergere come tendenza almeno nelle situazioni più deboli […] 2) L’iniziativa autonoma del sindacato deve realizzarsi con lo sviluppo dell’azione rivendicativa su tutti gli aspetti del rapporto di 110 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) zione di questo documento conclusivo viene creato nel 1974 il «CRD» (Centro ricerche e documentazione rischi e danni da lavoro INCA-CGIL, INAS-CISL, ITAL-UIL e delle tre confederazioni sindacali)19. lavoro, direttamente nei luoghi di lavoro dove questi si producono e attraverso gli strumenti organizzativi più adatti ad affrontarli, così come sono venuti a configurarsi nelle esperienze di lotta degli ultimi anni (l’individuazione dei gruppi omogenei, il ruolo dei delegati e dei Consigli di fabbrica), attraverso i quali si realizza su tutti i problemi, compreso quello della tutela della salute, il principio fondamentale della partecipazione dei lavoratori interessati […] Al fine di garantire un metodo comune nell’affrontare la tematica dell’ambiente, la Conferenza ha indicato le seguenti scelte: a) iniziative per sviluppare la tematica dell’ambiente al di fuori del settore industriale, nelle categorie dei servizi, agricoltura e pubblico impiego; b) impegno della Confederazione nel prossimo futuro, a promuovere riunioni regionali, con la partecipazione di tutte le strutture sindacali, patronati, e ‘tecnici’ per tradurre le scelte generali in momenti di costruzione di vertenze a livello di territorio; c) istituzione di un Centro di documentazione nazionale che assicuri la più ampia e continua socializzazione delle esperienze e delle conoscenze; d) attuazione a livello territoriale di Centri unitari di coordinamento contro la nocività, che realizzino: la raccolta e lo scambio delle esperienze con iniziative formative e di documentazione; il coordinamento, l’unificazione e la generalizzazione dei temi della salute, un rapporto nuovo con i ‘tecnici della salute’ che contribuiscano al collegamento delle iniziative di fabbrica tra loro e con l’azione per la riforma sanitaria; e) promozione di attività formative specifiche per la preparazione in particolare dei delegati di fabbrica… Per accelerare l’attuazione della riforma sanitaria, sono stati sottolineati alcuni obiettivi da perseguire mediante l’iniziativa sindacale: 1) Realizzare un rapporto preciso e costante a partire dai Consigli di Fabbrica con tutti i ‘tecnici della salute’ (medici, ingegneri, chimici, ecc.) che si riconoscono nelle scelte politiche del movimento sindacale e possono fornire un supporto indispensabile alle lotte per la salute. Un obiettivo fondamentale da perseguire è la responsabilizzazione dei tecnici in uno scambio permanente di esperienze, che arricchisca i contenuti professionali e attui la progressiva liberazione dei tecnici dai condizionamenti padronali; 2) perseguire nel quadro della politica della riforma della scuola una linea che permetta di spezzare la barriera esistente tra lavoro intellettuale e lavoro manuale e contribuisca a preparare tecnici maggiormente inseriti nei problemi del mondo del lavoro; 3) impegnarsi con un rapporto di stimolo, pressione e contrattazione autonoma con Enti Locali, anche in rapporto all’attuazione delle nuove prerogative delle Regioni in materia, perché essi prefigurino fin d’ora le costituende Unità sanitarie locali, che garantiscano l’unità degli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione. In coerenza con questi fini può aversi la creazione e l’utilizzazione di Centri di medicina preventiva, che siano in grado di intervenire sia su richiesta dei Consigli di fabbrica che con programma proprio, definito con tutte le forze sociali interessate, utilizzando le attrezzature e i tecnici dei vari enti; 4) utilizzare gli Enti esistenti nelle attrezzature e negli operatori tecnici, in coerenza però con l’obiettivo del loro superamento e ristrutturazione in un sistema sanitario nazionale, che è il fine irrinunciabile del movimento sindacale, in opposizione a qualsiasi tentativo di allontanarne l’attuazione e snaturarne il significato»: cfr. Fabbrica e Salute, cit., pp. 633-639. 19 I documenti citati ma anche tutti gli altri (complessivamente 5.690) originali prodotti tra il 1961 ed il 1983 da delegati, consigli di fabbrica, sindacato, «Centri di lotta contro la nocività del lavoro» o dai singoli tecnici coinvolti e partecipi nelle iniziative sindacali sull’ambiente di lavoro sono raccolti e ordinati (col codice DO) presso l’archivio dell’ex «CRD» (Centro ricerche e documentazione rischi e danni da lavoro INCA-CGIL, INAS-CISL, ITAL-UIL e delle tre confederazioni sindacali) creato nel 1974 in applicazione della mozione conclusiva della Conferenza unitaria di Rimini del 1972. L’archivio conserva inoltre più di 10.000 documenti tecnici acquisiti dalla letteratura mondiale (col codice D). Il sistema di accesso alla documentazione DO e D è basato su un titolario composto da 419 voci ripetute su 1.831 schede, entrambi ordinati alfabeticamente; ad ogni voce del titolario corrispondono una o più schede che contengono i titoli dei documenti DO e D e il loro numero corrispondente. Marri scrive a questo proposito che: «Il CRD rappresenta la memoria di una situazione completamente nuova, caratterizzata dal passaggio da una comunità scientifica ri- 111 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO La linea sindacale della salute nella sua fase suprema è destinata ad uscire dalle fabbriche, si pone all’esterno, deve incontrare gli interessi di tutta la società, anche per caratterizzare la tanto attesa riforma sanitaria. In precedenza, nel corso degli anni, essa aveva vissuto una prima fase dove sostanzialmente si ammetteva che la semplice diffusione tra i diretti interessati, gli operai, di conoscenze accumulate dalla medicina del lavoro tradizionale, quella italiana e quella internazionale, e quindi la loro applicazione controllata, poteva risultare utile e sufficiente per il miglioramento delle condizioni di lavoro. Il prosieguo delle esperienze sul campo, il bilancio dei loro risultati, fanno emergere una ulteriore esigenza, avvertita da alcuni con grande entusiasmo e adeguatamente coltivata, quella di costruire un sistema più articolato di interventi che, anche non escludendo le conoscenze scientifiche tradizionali, si fondasse abbondantemente su altre conoscenze, quelle originali, desunte direttamente dai lavoratori sulla base di un proprio impegno diretto nell’ambiente e nella organizzazione del lavoro, ricorrendo ad una speciale metodologia di ricerca, di contestazione, di proposte. Proposte motivate e lotte che in effetti si sono registrate non senza clamore e con risultati leggibili e talvolta anche tangibili, ad esempio in occasione dei rinnovi dei contratti nazionali di lavoro e degli accordi integrativi nella maggioranza delle aziende più grandi di quasi tutte le categorie nel 1966 e poi, più massicciamente e con maggior clamore, nel 1968-1969 e per alcuni anni seguenti20. stretta, formata da gruppi pluridisciplinari, ad una comunità scientifica legata alla non specializzazione, ma ad una forma di democrazia che trova il suo fondamento nella unificazione dei linguaggi a cui hanno corrisposto sviluppi scientifici significativi, certamente per quanto riguarda problemi applicativi, quali ad esempio l’individuazione, la valutazione, la selezione, la misurazione, la registrazione e l’eliminazione dei rischi. Il materiale conservato presso l’ex CRD documenta numerosissime realtà in cui la rappresentazione dei rischi è stata compiuta attraverso una partecipazione il cui livello ha consentito di individuare la possibilità di eliminarli»: cfr. G. Marri, Per il recupero della documentazione sulle lotte per la salute ambientale lavorativa (primo elenco di fonti), cit., p. 260). Tutto il materiale dell’ex CRD è attualmente «depositato» presso il CE.PA., Viale Regina Margherita, 36, a Roma. 20 Sul punto, si veda F. Carnevale e G. Moriani, Storia della salute dei lavoratori. Medici, medicina del lavoro e prevenzione, Edizioni Libreria Cortina, Verona 1986; S. Renga (a cura di), Il modello sindacale di tutela della salute nei luoghi di lavoro dal dopoguerra ad oggi, in Rassegna di medicina dei lavoratori, n. 6, 1991, pp. 444-462. Con il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro per gli addetti al settore chimico-farmaceutico, attraverso l’articolo 23, veniva introdotto nel 1969 il principio dell’inammissibilità delle lavorazioni in cui la concentrazione delle sostanze nocive o pericolose superassero i limiti contenuti nella lista degli igienisti americani (lista dei TLV dell’ACGIH). Ad integrazione di questa norma veniva riconosciuto alla rappresentanza sindacale aziendale il diritto di partecipare alla individuazione delle situazioni di rischio e di indicarne le soluzioni più appropriate. Solo in via transitoria, in attesa dei relativi accordi tra aziende e rappresentanze sindacali per il suo superamento, veniva mantenuta l’indennità specifica per le lavorazioni nocive e pericolose. Nei gruppi Zanussi-Zoppas e FIAT vengono sottoscritti degli accordi che risulteranno un punto di riferimento per un gran numero di altre situazioni di fabbrica o, spesso, un semplice e rituale testo da riportare in altri accordi. Quello siglato nel luglio 1971 per le aziende del gruppo Zanussi-Zoppas appare come uno speciale regolamento applicativo di alcuni articoli della legge 300 del 1970, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, e 112 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) Con l’istituzione del CRD viene messo in atto un particolare programma rigidamente scadenzato di «formazione tecnico-politica»21, avente come obiettivo dichiarato quello della «ricerca-intervento»22 o, come è stato chiamato da altri, di «ricerca non disciplinare di sociologia industriale»23. Chi si rivolge al Centro, specie se si tratta di un consiglio di fabbrica, si trasforma in ricercatore che, prevede: «a) I lavoratori controllano l’applicazione delle vigenti norme in materia di prevenzione e promuovono la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di misure idonee alla tutela della salute mediante la Commissione ambiente di lavoro; b) il ricorso ad esperti qualificati estranei all’azienda per sopralluoghi, analisi e misurazioni che una singola parte ritenga di promuovere è a totale carico della parte promotrice; c) il prelievo e l’asportazione di materiali (campionatura) sono conseguiti previa comunicazione alla direzione; d) può essere convenuta la promozione congiunta di analisi e misurazioni ambientali ricorrendo ad enti ed istituti scelti volta per volta di comune accordo, tenuto conto anche delle particolari specializzazioni richieste, in questo caso la spesa è a totale carico dell’azienda; e) vengono adottati, come criteri e parametri per le analisi e misurazioni i valori di Massima Ammissibile Concentrazione (MAC) adottati dalla Società Italiana degli Igienisti Industriali elaborati dalla Clinica del Lavoro dell’Università di Milano per tutte le voci presenti nelle tabelle; e, per le voci mancanti, i valori MAC adottati dalla Conferenza Americana degli Igienisti Industriali (ACGIH, 1969 e successivi aggiornamenti). Per quanto concerne i livelli accettabili di rumore, si farà riferimento ai criteri CHABA e alle relative tabelle. A detti criteri si fa riferimento tenute presenti le misure protettive individuali eventualmente adottate od adottabili. La validità di un determinato valore MAC è verificata attraverso il riferimento a casi di malattia dovuta specificatamente alla sostanza del MAC in esame; f) ai fini di un costante controllo, viene istituita la seguente documentazione sanitaria (a titolo sperimentale e salva conferma nel tempo della sua effettiva utilità): registro dei dati ambientali e registro dei dati biostatistici. La Commissione verifica con l’azienda la possibilità di realizzare la massima uniformità tra i due registri senza che ciò determini complessità e oneri burocratici» (S. Bagnara e F. Carnevale, La costituzione di una linea di intervento sull’ambiente e la nocività, in Classe, n. 7, 1973, pp. 120-121). L’accordo per il gruppo FIAT del luglio 1971 per l’ambiente di lavoro stabilisce: «a) L’azienda fornisce l’elenco delle sostanze normalmente presenti nelle lavorazioni FIAT e con riferimento specifico a quelle relative a malattie professionali e/o per le quali vige l’obbligo delle visite preventive e periodiche; b) nei casi di lavorazione nelle quali la concentrazione delle sostanze nocive superi i limiti massimi indicati nella tabella degli Igienisti Industriali Governativi Americani (ACGIH), l’azienda provvederà in un periodo di tempo dipendente dalla relativa situazione tecnica a migliorare le condizioni di lavoro e di ambiente dandone comunicazione al Comitato ambiente per un esame congiunto. La validità di un determinato valore MAC è verificata attraverso il riferimento a casi di malattia dovuta specificatamente alla sostanza del MAC in esame; c) si procederà in ogni stabilimento alla determinazione di una mappa delle condizioni ambientali e dei valori delle concentrazioni delle sostanze nocive di cui al primo punto; d) il rilevamento dei dati ambientali verrà effettuato mediante le attrezzature ed i tecnici del Laboratorio ricerche e controlli della società salvo quanto previsto dall’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori; e) le visite periodiche saranno effettuate dall’azienda, sulla base di criteri concordati e con la partecipazione dei Comitati ambiente, dell’ENIS, dell’Ispettorato del Lavoro, dell’INAM, dell’INAIL; f) il Comitato ambiente ha facoltà di controllo e contestazione su quanto previsto da questa regolamentazione, ha facoltà di iniziativa e di proposte»: cfr. S. Bagnara e F. Carnevale, La costituzione di una linea di intervento sull’ambiente e la nocività, cit., pp. 105-132. 21 Come si esprime G. Marri, L’ambiente di lavoro in Italia: l’organizzazione della ricerca «non disciplinare» (1961-1980), cit. 22 Cfr. I. Oddone, Il problema dell’ambiente di lavoro in Italia, in Sociologia del Lavoro, n. 10-11, 1980, pp. 53-89. 23 Il riferimento è a F. Butera, Le ricerche «non disciplinari» per la trasformazione del lavoro industriale in Italia, in Sociologia del lavoro, n. 10-11, 1980, pp. 9-49. 113 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO adeguatamente supportato, deve essere capace di definire i termini della ricerca basandosi sulla propria esperienza e su quella del gruppo al quale appartiene, predisporre un piano di fattibilità e quindi validarne e socializzarne i risultati. «Dalle ricerche il CRD cerca di realizzare un momento di sintesi dal punto di vista scientifico e dal punto di vista delle soluzioni, cioè l’arricchimento della possibilità di risposta, della socializzazione delle conoscenze e della formazione sindacale; la possibilità di trasformare l’esperienza in un «manuale»; il coinvolgimento di ricerca e di servizio; la possibilità per ogni categoria sindacale di farsi un’esperienza, di elaborare piani nazionali di lotta contro la nocività, di verificare le esperienze e le soluzioni»24. Con questa metodologia vengono portate a termine alcune iniziative, specialmente in grandi complessi industriali, tra le quali quella per la ricerca ed il controllo permanente dei rischi e dei danni da lavoro in una centrale termoelettrica, quella svolta in un centro meccanografico dell’ENEL, un’altra in un circuito di verniciatura di un ciclo carrozzeria auto, quella sulle condizioni di salute degli addetti alle stalle ed ancora quelle condotte in un reparto resine - ciclo presse di un’industria metalmeccanica e nel reparto «Bambury» di una azienda della gomma e poi, nella seconda metà degli anni ’70, quelle sull’ambiente di lavoro alla SNIA di Colleferro, sui rischi e danni da cloruro di vinile, sulla Tonolli di Paderno Dugnano, sull’ambiente di lavoro nella navalmeccanica ed alle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato di Torino25. Queste esperienze sottolineano che il piano comune di discussione tra lavoratori ed esperti della medicina del lavoro converge nell’analisi del ciclo di lavoro, cui i lavoratori offrono il contributo della propria osservazione diretta e gli esperti quello di proporre un collegamento fra i rischi e i danni possibili dato quel ciclo produttivo. Prodotto emblematico e ampiamente assunto come strumento di lavoro da entrambi i soggetti, lavoratori e medici del lavoro, è il testo di Francesco Candura, cattedratico di medicina del lavoro a Pavia, che proprio in quegli anni aveva riscritto un fondamentale testo ad uso dei cultori della disciplina26. A conferma di una svolta culturale in atto nel modo di avvicinarsi ai problemi della nocività in fabbrica da parte degli esperti un altro testo, stavolta di cultura anglosassone, tradotto in italiano, ottiene grande successo, partendo anch’esso da una ricognizione dei fattori di rischio nei cicli lavorativi, divulgando l’approccio dell’igiene industriale a questi temi27. 24 Cfr. ancora G. Marri, L’ambiente di lavoro in Italia: l’organizzazione della ricerca «non disciplinare» (1961-1980), cit., p. 89. 25 Delle quali dà conto G. Marri, Per il recupero della documentazione sulle lotte per la salute ambientale lavorativa (primo elenco di fonti), cit., pp. 278-283. 26 Ci riferiamo a F. Candura, Elementi di tecnologia industriale a uso dei cultori di medicina del lavoro, Aurora Leg. Cart. di C.Ge., Pavia 1974. 27 Cfr. J.M. Stellman e S.M. Daum, Lavorare fa male alla salute, i rischi di lavoro in fabbrica (traduzione italiana dall’americano con integrazioni di P. Apostoli e F. Carnevale), Feltrinelli, Milano 1975. 114 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) Le rivendicazioni legate all’ambiente di lavoro, rispetto al totale delle rivendicazioni, passano dal 3% del 1969 al 16% del 1972; fino al 1974 l’estensione della contrattazione sui temi della salute alla maggioranza delle categorie industriali ed anche delle piccole aziende e poi a quelle dei servizi è inarrestabile, giungendo ad affermare il diritto dei lavoratori a discutere preventivamente progetti di ristrutturazione aziendale, le dislocazione di nuovi impianti e programmi territoriali di risanamento ambientale28. Accanto a questo processo di crescita, e poi di maturità e per molti aspetti di egemonia in fabbrica della linea per la salvaguardia della salute, tutta o prevalentemente interna all’organizzazione sindacale, si sviluppa quasi parallelamente un altro processo ampiamente rivolto all’esterno. In alcuni casi l’esportazione avviene anche attraverso un vero confronto e con entusiasmo, in altri passivamente, in maniera poco critica, in alcuni altri casi, pochi, la posizione di lavoratori, tecnici o studenti diventa «autonoma» da quella sindacale. La linea sulla salute supera gli steccati di sigla sindacale, diffondendosi all’interno di tutte le organizzazioni dei lavoratori, ma anche verso alcune istituzioni locali, partiti e gruppi politici e alla fine riuscirà a smuovere anche il Parlamento con i suoi poteri legislativi. La linea sindacale a confronto con la ricerca scientifica Sul versante del mondo scientifico più direttamente interessato a questi temi, la Società italiana di medicina del lavoro, nel 1973, riunita nel XXXVI congresso nazionale a Pugnochiuso, dopo un periodo di attesa, prende posizione nella mozione conclusiva, seguente al dibattito congressuale, riconoscendo il valore scientifico dell’esperienza operaia e il valore di un sistema partecipato di registrazione dei dati ambientali e biostatistici a livello di gruppo e individuale. È la presa d’atto che cambiamenti irreversibili si sono verificati nella realtà e quindi nella professione del medico del lavoro. Giunta tardivamente, più su spinte emotive che su precisi piani di ricerca scientifica, questa adesione appare un episodio abbastanza isolato e di corto respiro, segnale di una crisi culturale che doveva ancora trovare le giuste soluzioni. Un segno manifesto di tale situazione sul piano scientifico viene dall’andamento del numero di studi, pubblicati sulla maggiore rivista italiana del settore (La medicina del lavoro), che adottano, formalmente, fraseologia e metodologia del modello sindacale (tabella 1). A commento di questi dati valgano le parole di Giovanni Berlinguer: «Il fatto che tale modello abbia avuto la maggiore espansione intorno al 1975, e sia poi quasi scomparso negli anni successivi, è la spia di una separazione tra la scienza 28 Su cui si veda M.L. Righi, Le lotte per l’ambiente di lavoro dal dopoguerra ad oggi, in Studi storici, n. 33, 1992, pp. 619-652. 115 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO ‘ufficiale’ e il mondo sindacale; e impone di riflettere anche sulla validità e sui limiti del ‘modello sindacale’. Ma anche nell’università e negli istituti di ricerca il rischio di una separazione maggiore fra le varie discipline, e fra la ricerca e le sue applicazioni, si fa più grave proprio quando diventa maggiore l’esigenza di una integrazione. Alla base del futuro programma di ricerca dovrebbe essere infatti lo sforzo per concentrare sulle conseguenze dei processi di lavoro il contributo delle scienze di base, dando rilievo all’esigenza della previsione»29. Tabella 1. Distribuzione di frequenza dei lavori che usano il modello sindacale, comparsi nel periodo 1968-1978 in «La medicina del lavoro» Anno 1968 1969 1970 1971 1972 1973 1974 1975 1976 1977 1978 N. dei lavori che usano il modello sindacale – – 3 1 1 6 6 24 4 3 2 % sul totale dei lavori – – 5 2 2 10 13 38 8 7 5 Fonte: Unità operativa di collegamento (presso la Cattedra di Fisiologia e Igiene del lavoro dell’Università di Roma), Prevenzione della patologia da ambiente di lavoro. Studio di fattibilità per un programma di ricerca del CNR, Litografia Colitti, Roma 1981. La capacità dell’iniziativa sindacale di porre il problema della difesa della salute in fabbrica al centro dell’interesse dell’opinione pubblica è dimostrata da un’inchiesta giornalistica in più puntate condotta nel 1973 sulle pagine del Corriere della Sera da Giuliano Zincone, che ottiene vasta risonanza e reazioni proporzionate alla gravità dei problemi documentati che denunciavano l’arretratezza e inaccettabilità delle condizioni di lavoro nella gran parte delle aziende 29 Cfr. Unità operativa…, op. cit., pp. 14-15. L’atteggiamento di Giovanni Berlinguer se era critico nei confronti di un certo mondo accademico, non risparmiava ormai da qualche anno gli eccessi della linea sindacale. In una nuova edizione della sua inchiesta sulla salute nelle fabbriche del 1969 scrive: «Consensualità e soggettività degli operai. Ma quante volte queste componenti essenziali, prima trascurate, una volta scoperte sono state assolutamente contrapposte alla direzione politicosindacale e all’oggettività delle conoscenze scientifiche? […] anche nel termine non delega, e nella conseguente richiesta di autogestione della salute, vi è certo una acquisizione positiva […] Non credo, tuttavia, che la salute possa essere autogestita dai lavoratori: perché sia protetta in modo efficace, occorre il concorso di forze assai vaste, la trasformazione molto profonda dei rapporti sociali […] I medici, le altre categorie sanitarie, lo Stato con il sistema delle autonomie locali, le università, gli istituti di ricerca hanno un ruolo che non è da comparse […] gruppo omogeneo non è solo quello di un reparto o di un’azienda, ma quello di un territorio, di una regione»: G. Berlinguer, La salute nelle fabbriche, 2a edizione, De Donato, Bari 1973, p. 15. 116 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) visitate30. Anche il teatro, seppure nelle sue avanguardie militanti, agita il problema31. Un momento cruciale di tale processo espansivo è rappresentato dalla decisione di influire positivamente, con proposte culturali e di metodo di ricerca, nella fase di impostazione di un modello scientifico d’intervento per lo sviluppo delle strutture di medicina del lavoro promosse dagli enti locali specialmente in alcune regioni. L’esigenza avvertita in quel momento era quella di disporre e poter far approvare una «proposta capace di eliminare ogni contrapposizione tra iniziativa dal basso e iniziativa degli enti locali sulla nocività ambientale nella fabbrica, come nel territorio»32. Nel maggio del 1972 si tiene a Milano un incontro su questo tema di grande attualità al quale partecipano medici, sindacalisti e psicologi (Bentivegna, Briziarelli, Carnevale, Foà, Giovannini, Gloria, Grieco, Maccacaro, Marri, Marroni, Misiti, Oddone, Vicinelli, Zedda). Originariamente la discussione riguarda una bozza di documento sulla ricerca nel campo della medicina e della psicologia del lavoro e quindi i problemi riguardanti la metodologia di intervento in fabbrica e quelli del coordinamento delle attività di prevenzione; ma subito, da parte degli operatori del CRD, viene posta con forza l’esigenza di disporre rapidamente di una «manualistica» capace di «unificare la comunicazione tra tecnici ed operai» per arrivare alla preparazione di univoci modelli di lavorazione e di classificazione degli ambienti di lavoro secondo una determinata scala di gravità dei rischi. Quest’ultimo progetto, al quale i tecnici sono chiamati ad adeguarsi ed eventualmente a collaborare, prende il sopravvento, viene accreditata come la nuova fase evolutiva della linea sindacale e portata avanti con impegno per alcuni anni, producendo, come visto sopra, risultati ancora oggi consultabili. 30 Articoli poi raccolti in G. Zincone, La pelle di chi lavora, Cooperativa Scrittori, Roma 1977. Per tutti, riporto questo bel brano di D. Fo, Salviamo gli uccelli, in ORDINE! per DIO.OOO.OOO.OOO, in La Comune, n. 10, Bertani, Verona 1972, pp. 15-17: «Da noi c’è tanto di quel fumo / che ogni tanto a qualcuno vengono le convulsioni. / È un fumo così tossico / che in certi momenti diventa come un gas asfissiante: / per questo c’è una gabbietta / così carina, con dentro un canarino. / L’hanno appesa nel mezzo del capannone, / è un canarino che canta sempre / sempre contento: cip, cip, cip / cip cip cip cip cip cip… / Quando non canta più vuol dire che è morto, / è morto asfissiato: cip cip cip… / È il segnale d’allarme pericolo mortale, / si scappa, si scappa tutti quanti fuori, fuori, cip, cip, cip… / È già il quarto canarino d’allarme che trac, / ci resta secco in due mesi. / «Sì, ci sono tutti i filtri da cambiare! / È venuto a saperlo la moglie dell’avvocato Buozzi / che è la grande patronessa della protezione animali; / Ha piantato in piedi un gran gibileri / ha denunciato il padrone, è andata dal vescovo: / ‘Eminenza Illustrissima, ha sentito? / Si asfissiano i canarini, dolci creature di Dio, / innocenti… come si può permettere / uno scempio simile!…’ Allleeeeluuuuiiiiaaaa? / Adesso non abbiamo più / neanche il canarino d’allarme che fa cip cip, / dobbiamo fare senza, / dobbiamo fare senza, / dobbiamo stare attenti / con un occhio addosso alle ragazze giovani, / quelle appena assunte, che per nostra fortuna / non c’hanno fatto ancora il callo, / e quando il gas va su di troppo, loro – track, ah ah? – / e come fanno i canarini vanno là distese, / e noi tagliamo la corda. – Alleluia? – / Abbiamo trovato un nostro canarino: / son le ragazze di primo pelo, / che non sono ancora abituate: vomitano / e ti fanno il segnale. / Creature di Dio, / le creature sublimi e gentili, / fanno cip, fanno cip / e vomitano l’anima». 32 G. Marri, L’ambiente di lavoro in Italia: l’organizzazione della ricerca «non disciplinare» (1961-1980), cit., p. 86. 31 117 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO Tuttavia il mondo della ricerca prende anche altre strade, non sempre comprese e apprezzate al momento. Ancora una volta è il modello sindacale a stimolare il più fecondo di questi filoni. Partendo dal cosiddetto «Quarto gruppo» di fattori della nocività, originale aggregazione di fattori di rischio a carattere psicologico, legati al modo di organizzare il lavoro, alcuni studiosi ragionano sui problemi della fatica industriale così come si va configurando negli scenari più aggiornati. I contributi disciplinari di questo gruppo riunito inizialmente intorno all’Istituto di Psicologia del CNR, guidato da Raffaello Misiti, provengono, oltre che dalla psicologia, anche dalla medicina, dalla sociologia, dal mondo della direzione aziendale, da quello delle nuove esperienze sindacali. Stress e lavoro industriale, materiali di lavoro di un seminario tenutosi a Roma il 28 e 29 giugno 197533, rappresenta il prodotto di quest’impegno, fecondo di ulteriori esperienze e iniziative che si concludono nell’incontro internazionale di cinque anni dopo, quando viene fatto il punto sulle strategie partecipative nei luoghi di lavoro, premessa non casuale agli sviluppi organizzativi dei modelli di relazioni industriali degli anni Ottanta e Novanta34. Parallelamente, a Milano, promosso da un gruppo di medici della Clinica del Lavoro «L. Devoto», si sviluppa l’esperienza di un «Progetto per l’elaborazione e la verifica di un modello interdisciplinare di epidemiologia del lavoro organizzato», che rappresenta una delle strade verso le quali si orienta la medicina del lavoro per uscire dal disorientamento disciplinare e scientifico nel quale la crisi della fine degli anni ’60 l’aveva confinata35. Queste vicissitudini sono raccolte e descritte in un’indagine ad hoc svolta per conto del CNR da un gruppo di ricercatori facenti capo alla cattedra di Fisiologia e Igiene del lavoro dell’Uni-versità di Roma. Nel 1974 nell’ambito dei «progetti finalizzati», viene fatto un tentativo di elaborare un programma nazionale di ricerca sulla prevenzione nell’ambiente di lavoro: «Fu creata una commissione formata da medici del lavoro, biostatistici e sindacalisti, per cercare di fondere le tre esperienze: quella dei clinici che andavano orientandosi maggiormente verso l’igiene del lavoro, quella degli studiosi delle malattie nelle collettività, e quella dei protagonisti delle lotte per la salute nelle fabbriche. Il tentativo fallì dopo lunghe riunioni, per la difficoltà di trovare un accordo. Fu chiesto poi dalle confederazioni dei lavoratori di svolgere due progetti di ricerca paralleli, uno con le metodologie tradizionali e l’altro con il «metodo sindacale», ma neanche questo fu possibile36. Il tema viene ripreso nel 33 Si vedano gli atti pubblicati in Istituto di Psicologia del CNR, Stress e lavoro industriale, Seminario 28-29 giugno 1975, Stabil. Tipo-Litografico Ferri, Roma 1975. 34 Cfr. S. Bagnara, R. Misiti, e H. Wintersberger (a cura di), Work and Health in The 1980s: Experiences of Fired Workers Participation in Occupational Health, Sigma Rainer Bohm Verlag, Berlin 1985. 35 Su questo, S. Bagnara, C. Cesana, G. Cortili, A. Grieco, B. Maggi, L. Melocchi, F. Novara, R.A. Rozzi, Progetto per l’elaborazione e la verifica di un modello interdisciplinare di epidemiologia del lavoro organizzato, Tipolito Mattioli, Fidenza 1979. 36 Cfr. Unità operativa…, op. cit., p. 8. 118 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) 1978 al convegno di Montecatini del CNR e quindi in occasione della presentazione dello «studio di fattibilità di un programma sulla prevenzione della patologia da ambiente di lavoro» che produce anche un interessante censimento delle ricerche e delle risorse dedicate in quegli anni alla salute dei lavoratori. Appare utile riportare i pareri espressi rispetto a questa iniziativa «da altri protagonisti (reali e potenziali) della ricerca e della prevenzione», la Confindustria e la Federazione CGIL-CISL-UIL. La prima si era dichiarata favorevole all’iniziativa a condizione di «definire preventivamente le necessarie garanzie in ordine all’esclusiva utilizzazione a fini di studio dei rilevamenti ed alla tutela del segreto industriale. Dovrà essere cioè chiaramente escluso che l’attività meramente conoscitiva dei gruppi di lavoro possa trasformarsi, anche indirettamente, in una attività repressiva per presunte situazioni anomale (il che si verificherebbe qualora nei gruppi suddetti venissero inclusi esperti aventi la qualifica di pubblici ufficiali) oppure in documentazioni di cui possano avvalersi, nei confronti delle singole aziende, le organizzazioni sindacali»37. A loro volta le organizzazioni sindacali osservavano che «il progetto va riscritto tenendo presente l’esigenza di elaborare modelli di ricerca capaci di rendere utile ed efficace la partecipazione dei lavoratori con le tecnica di ricerca più moderne e raffinate, il che significa recuperare e utilizzare l’esperienza accumulata dai lavoratori e dalle loro organizzazioni sindacali su ambiente e organizzazione del lavoro e sul rapporto tra rischi, disturbi e danni»38. L’indagine del CNR oltre al merito di aver fatto venire allo scoperto delle posizioni tutto sommato arretrate e chiuse delle parti sociali ha additato con chiarezza alcune novità che stavano maturando nel paese e nella società, i processi di cambiamento, di riconversione e di innovazione dei processi produttivi. Constatazione questa che doveva portare a considerare in evoluzione o forse già superati i modelli e le categorie impiegati nell’ultimo decennio per analizzare e cambiare le condizioni di lavoro ed anche a comprendere che l’evoluzione in atto era da ricondurre anche agli effetti prodotti dall’uso di quegli strumenti. In un altro campo, apparentemente lontano da quelli finora visti, il modello sindacale stimola iniziative di lotta contro più tradizionali fattori di rischio, quelli chimici, che adesso aggrediscono la salute in forme croniche a distanza di anni dall’inizio dell’esposizione. A breve distanza di tempo tre episodi provocano vasta risonanza richiamando l’attenzione dei lavoratori e delle loro organizzazioni, dell’opinione pubblica e della parte più sensibile del mondo scientifico. La «morte colorata» degli operai dell’IPCA di Ciriè (1973-74), i tumori al fegato ricercati e scoperti tra i lavoratori del cloruro di vinile (1974-75), l’esplosione al reattore della fabbrica chimica ICMESA di Meda (1976) segnano altrettante tappe in una presa di coscienza della gravità della condizione operaia, ma anche dell’inscindibilità dell’ambiente esterno rispetto ai luoghi di lavoro. 37 38 Ivi, p. 12. Ivi, p. 13. 119 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO Gli effetti delle sostanze cancerogene, posticipati, indistinguibili da quelli provocati da altre fonti di rischio, spesso solo presunti nell’uomo sulla base di analogie con sistemi sperimentali cellulari o animali, tutto ciò esige un nuovo modo di fronteggiare il rischio e anche nuovi standard di prevenzione più rigorosi. Studi sperimentali per la valutazione preventiva della cancerogenicità, epidemiologia dei tumori per un verso, diritto alla conoscenza, partecipazione alle decisioni e alle scelte, da un’altra parte, rappresentano i campi nei quali si cimenta la nuova frontiera della difesa della salute sia dei cittadini sia dei lavoratori in fabbrica. L’interazione fra iniziative di difesa della salute da parte dei lavoratori e competenze e passione di alcuni scienziati producono i migliori risultati nel definire uno scenario più favorevole alla salvaguardia della salute da questi fattori di rischio. Giulio Maccacaro, che per primo introduce in Italia la statistica biometrica di matrice anglosassone, fondatore e animatore di riviste di dibattito scientifico e impegno sociale nel campo della prevenzione come Sapere e Epidemiologia e prevenzione, a Milano contribuisce in maniera decisiva a focalizzare il trasferimento delle conoscenze scientifiche nell’attività di prevenzione dei tumori ambientali39. Renzo Tomatis, cancerologo sperimentale e per molti anni direttore dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione, promotore della serie delle monografie di valutazione delle evidenze scientifiche di cancerogenicità di sostanze e cicli lavorativi, rapidamente divenute strumento indispensabile per gli operatori della prevenzione, si fa tutore della formazione scientifica a livello internazionale di un ampio stuolo di tecnici, molti dei quali provenienti da esperienze di applicazione della linea sindacale di intervento nei luoghi di lavoro, sprovincializzando l’orizzonte culturale di questo settore della ricerca40. Benedetto Terracini, vero «padre» dell’epidemiologia dei tumori in Italia, diffonde a livello internazionale alcune delle più importanti esperienze svolte in quegli anni nel nostro paese e svolge un insostituibile ruolo di raccordo fra mondo scientifico ufficiale, iniziative di base e istituzioni sanitarie centrali41. L’epilogo di una stagione La seconda metà degli anni ’70 vede il complessivo indebolirsi del movimento per la salute. Il contrattacco padronale, la crisi economica, i cambiamenti sociali e politici ne disarticolano i capisaldi. Altri fattori entrano in gioco, la stanchezza o l’insoddisfazione di alcuni protagonisti di fabbrica, la comples- 39 Cfr. G. Maccacaro, L’onere della prova di cancerogenicità: sulle cavie o sugli uomini?, in G. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 313-326. 40 Cfr. R. Tomatis, La ricerca illimitata, Feltrinelli, Milano 1974 e, dello stesso autore, Visto dall’interno, Garzanti, Milano 1981. 41 Si veda B. Terracini, Intervista, in Bollettino SNOP, n. 4, 1987, pp. 21-22. 120 LA SALUTE NON SI VENDE (E NEPPURE SI REGALA) sità e l’onerosità degli interventi da condurre secondo la meticolosa metodologia ufficiale, l’effettiva introduzione di alcuni miglioramenti delle condizioni e dell’organizzazione del lavoro, almeno in alcune aziende, e contemporaneamente la difficoltà di individuare ulteriori o diverse rivendicazioni migliorative. Il 10 luglio del 1976 la nuvola di diossina che fuoriesce dall’ICMESA di Seveso segna quasi simbolicamente lo spartiacque tra un periodo nel quale centrale era il problema della salute di chi dentro la fabbrica lavorava, e un nuovo periodo nel quale l’attenzione si sposta progressivamente verso uno scenario più ampio e complesso, quello della nocività ambientale, condivisa da tutti i cittadini, portando alla luce contraddizioni riguardanti da una parte la sostenibilità dello «sviluppo» e dall’altra la difesa del posto di lavoro nelle industrie a rischio ambientale42. L’allentarsi dell’unità sindacale favorisce inoltre un processo di disimpegno delle singole confederazioni sindacali ed anche della CGIL, almeno rispetto ad alcuni aspetti non certo formali della linea sindacale sulla salute, che paradossalmente per la storia italiana non aveva avuto per molti anni «nemici a sinistra», anzi una quasi unanimità di consensi. Contemporaneamente avanzano in alcune realtà delle esperienze e delle posizioni sulla prevenzione che si differenziano in parte e sicuramente nella metodologia da quelle precisamente sindacali43. In riviste significative del clima culturale di quel periodo (Inchiesta, Sapere, Medicina al servizio delle masse popolari, Medicina democratica, Salute e territorio) più che un dibattito sulla linea sindacale per qualche tempo si afferma una reiterazione, una riproposizione spesso poco critica, delle tematiche e degli strumenti di essa. In queste stesse riviste, semmai, vengono proposte delle speciali esperienze di fabbrica e dei contributi tecnici di approfondimento di alcuni aspetti della nocività. Alcune differenziazioni tuttavia in alcuni casi esistono e vanno completamente al di là della linea sindacale, la superano in maniera netta mettendo maggiormente a fuoco un obiettivo tutto politico, quello che prevede che la nocività possa scomparire definitivamente solo con un assetto sociale diverso da quello esistente44. 42 Sulla vicenda, si veda per tutti il commento di A.C. Pesatori, Dioxin Contamination in Seveso: the Social Tragedy and the Scientific Challenge, in La medicina del lavoro, n. 86, 1995, pp. 111-124. 43 In proposito, sono di utile consultazione i testi di G. Moriani e M. Revelli, La soggettività operaia di fronte ai prossimi rinnovi contrattuali, in Sapere, n. 10, 1978, pp. 8-15; Gruppo PIA (Prevenzione e igiene ambientale) del consiglio di fabbrica della Montedison di Castellanza (a cura di), La nocività nei cicli produttivi e nel territorio, lotte e sapere operaio, Clup-Clued, Milano 1979; L. Magelli, Fabbrica, salute e trasformazione dell’ambiente, in Sapere, n. 9, 1980, pp. 37-45; G. Rubini, Piano salute e lavorazioni ad alto rischio, in Sapere, n. 3, 1981, pp. 36-38; M. Valsecchi, Prevenire: cosa, dove, come? in Sapere, n. 10, 1981, pp. 11-14. 44 «Compito dei rivoluzionari oggi è sostenere e sviluppare le lotte, l’organizzazione operaia, la ribellione spontanea contro i ritmi aumentati, la mobilità della forza-lavoro, le sostanze tossiche, l’autoritarismo dei capi, respingere l’attacco padronale sull’assenteismo reso possibile dal vergognoso cedimento dei vertici sindacali, difendere la contrattazione articolata: strumento di rafforzamento della democrazia e del controllo operaio. Compito dei rivoluzionari oggi è ampliare la batta- 121 FRANCO CARNEVALE, PIETRO CAUSARANO In questo caso, anche se non confessato, le lotte per la salute vengono viste con un valore strumentale, di denuncia e per favorire il reclutamento e l’organizzazione di lavoratori45. Pur nei limiti di un’eccessiva rigidità per quanto riguarda l’applicazione del modello sindacale e dall’altra parte da non sempre convinte adesioni alle nuove esperienze, tuttavia rimane l’estrema importanza e positività del connubio tra protagonismo di un soggetto sociale da sempre svantaggiato nei confronti della difesa della propria salute che pone con forza e chiarezza di idee esigenze e quesiti e un mondo della cultura e della scienza chiuso per troppi anni in una «torre d’avorio». Grazie all’applicazione di questa iniziativa dei lavoratori si sono prodotti dei cambiamenti soggettivi in un gruppo non piccolo di persone coinvolte ed anche oggettivi nel modo di fare medicina del lavoro; alcuni concetti oltre che alcune espressioni tipiche della linea sindacale sono stati trasferiti nella riforma sanitaria. Non si può dire tuttavia che quella linea sia passata in maniera duratura all’interno nel movimento operaio e tantomeno nella società; in un certo senso è stata utilizzata nei limiti di quello che effettivamente poteva offrire, un miglioramento delle condizioni di lavoro che, nel caso italiano, in quella fase storica, non era realizzabile in altro modo per colmare il ritardo accumulato rispetto agli altri paesi industrializzati. Da ultimo val la pena di segnalare che il caso italiano ha riscosso indubbio successo anche fuori dal nostro paese, essendo di modello per alcuni, di stimolo alla discussione per altri, in particolare per gli aspetti relativi alle problematiche della «partecipazione» dei lavoratori46. glia culturale contro la nocività coinvolgendo nelle lotte il movimento unitario degli studenti, i lavoratori ospedalieri, il movimento delle donne, i medici democratici promuovendo inchieste, corsi operai e popolari in tutti i luoghi di vita e di lavoro dove le masse vivono e lottano contro il regime democristiano ed il compromesso storico»: cfr. L. Bodini e P. Setti, Nocività: il punto della situazione, in Medicina al servizio delle masse popolari, n. 20, 1976, pp. 12-13. 45 Rinviamo su questo a F. Carnevale, Salute e lavoro negli anni Ottanta, in Quaderni Piacentini (n.s.), n. 7, 1982, pp. 117-132; e, dello stesso autore, Il dibattito sull’ambiente di lavoro attraverso le riviste, in Quaderni piacentini (n.s.), n. 9, 1983, pp. 175-191. 46 Tra la numerosa letteratura sull’argomento, segnaliamo: G. Assennato, e V. Navarro, Worker’s Participation and Control in Italy: The Case of Occupational Medicine, in International Journal of Health Services, n. 10. 1980, pp. 217-232; S. Bagnara, M. Biocca, D. Gattegno Mazzonis, Trends in Occupational Health and Safety Policy in Italy, in International Journal of Health Services, n. 11, 1981, pp. 431450; M.R. Reich e R.H. Goldman, Italian Occupational Health: Concepts, Conflicts, Implications, in American Journal of Public Health, n. 74, 1984, pp. 1031-1041; G. Berlinguer e M. Biocca, Recent Developments in Occupational Health Policy in Italy, in International Journal of Health Services, n. 17, 1987, pp. 455-474; J.O. Mallet, Acteurs sociaux et modes de lecture des risques professionnels: le cas italien, in Sciences Sociales et Santé, n. 6, 1988, pp. 55-74; e infine R. Loewenson, M. Biocca, A.C. Laurell, C. Hogstedt, Participatory Approaches in Occupational Health Research: a Review, in La medicina del lavoro, n. 86, 1995, pp. 263-271. 122 L’Autunno caldo, i diritti e la fabbrica di Maria Paola Monaco Il 25 marzo 1965 il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nell’approvare il Parere sul progetto di programma di sviluppo economico per il quinquennio 1965-1969, tracciava le linee quadro della futura vita economica e sociale del paese, in continuum rispetto all’esperienza del piano Vanoni, che aveva cercato di offrire un punto di riferimento all’azione politica del decennio precedente1. Le difficoltà di sostituire, secondo le teorizzazioni proprie del modello socialista, la logica della pianificazione integrale alla convenienza del mercato, limitavano gli intenti proclamati ad un’azione di orientamento delle forze economico-politiche, affinché queste si muovessero, seppur nella loro autonomia, in direzioni conformi alle esigenze di sviluppo. Il contenuto delle osservazioni del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro su come avrebbe dovuto essere organizzata e realizzata la programmazione economica nel quinquennio 1965-1969, se può costituire un punto di riferimento utile a mettere in luce le diversità delle tesi sostenute dalle forze sindacali2, ha nel contempo il pregio di sottolineare come gli strumenti di compartecipazione delle forze economiche e sociali alla attuazione del programma si sarebbero dovuti sostanziare in una efficienza aziendale e in una crescita di produttività provenienti, nel caso specifico, dalla libera contrattazione. D’altra parte il cambiamento epocale causato dalle innovazioni tecnologiche sull’organizzazione del lavoro in fabbrica aveva determinato un aumento della produttività ma, al contempo, un maggior sfruttamento della classe operaia. I mille gesti brevi che avevano parcellizzato il contenuto delle mansioni degli operai, infatti, rendevano necessaria l’introduzione di regole nuove in grado a volte di superare quelle consuetudinarie largamente seguite – si pensi a tutta la problematica 1 G. Provasi, Borghesia industriale e democrazia cristiana, De Donato, Bari 1976, p. 229 ss. Mentre, infatti, la CISL e la UIL sono favorevoli su tutti i punti, la CGIL ritiene di non poter andare al di là dell’astensione, in quanto concorda con le finalità generali del piano ma non con gli strumenti pensati per attuarle. 2 123 MARIA PAOLA MONACO del lavoro straordinario – ovvero a volte di affrontare in modo solutorio questioni nuove. Fu in questo contesto che, nel dicembre del 1963, dopo una gestazione di oltre sei anni, l’alleanza elettorale faticosamente raggiunta tra il leader democristiano Moro e il leader socialista Nenni consentì ai socialisti di entrare a far parte del governo. Il 13 dicembre dello stesso anno Moro, fra l’altro insignito dell’incarico di presidente del Consiglio, nel presentare in Parlamento il programma politico di governo – un programma, peraltro, talmente vasto da essere definito dall’allora presidente del Senato «brevi cenni sull’universo»3 – dichiarava di voler procedere a «definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro»4. A pochi mesi dalla presentazione di quella chiara linea politica e proprio al fine di darle attuazione, iniziò lo scambio di opinioni tra il vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni, il più tenace fautore dello Statuto, e le organizzazioni sindacali. A differenza di quanto oggi potremmo immaginare, il fronte sindacale, seppur per ragioni diverse, non si dimostrava favorevole all’introduzione di una sorta di decalogo dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro. Secondo i teorici interni al movimento sindacale della CISL, infatti, non era la legge lo strumento adatto a realizzare il contenuto del progetto. I sostenitori della CISL, portando avanti una politica di antico retaggio, attribuivano al contratto capacità regolatoria della posizione del lavoratore ovvero alla contrattazione collettiva capacità di unificazione del quadro istituzionale5. Appare evidente come la risposta della CISL trovasse origine, almeno in parte, nella contrattazione articolata. A tale proposito è estremamente significativa la lettura del testo della mozione sulle linee di indirizzo della politica salariale presentata al Consiglio generale della CISL nel febbraio del 1953, che già all’epoca prospettava la contrattazione integrativa aziendale quale strumento di collaborazione con le imprese e con il sistema in vista della loro massima efficienza6. D’altra parte, proprio poco prima dell’insediamento del governo Moro, le lotte contrattuali del 1962 avevano rotto la resistenza padronale sul negoziato in azienda. Fra le due linee di indirizzo, quella confindustriale del rifiuto della 3 G. Tamburrano, Storia e cronaca del Centrosinistra, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 249-250. E. Stolfi, Da una parte sola. Storia politica dello Statuto dei lavoratori, Longanesi, Milano 1976, p. 27. 5 M. Vais, Lo Statuto dei diritti dei lavoratori, in Rivista giuridica del lavoro, n. I, 1964, p. 27 ss. 6 Il documento si può leggere in La CISL e la programmazione dello sviluppo, a cura dell’Ufficio studi e formazione CISL, Roma 1964, p. 33: «fermo restando la piena validità della contrattazione collettiva intercategoriale e categoriale a livello nazionale, come strumento idoneo a perseguire l’equilibrio tra remunerazione monetaria e l’incremento di efficienza produttiva a livello intercategoriale e categoriale, richiede l’introduzione e lo sviluppo di una prassi di accordi integrativi in azienda, per ciò che si riferisce all’inserimento nella remunerazione dell’elemento che esprime l’indispensabilità dell’apporto dei lavoratori agli sforzi diretti ad accrescere la produttività delle aziende. Tale adeguamento comporta di natura sua una complessa opera di continuo perfezionamento, sia dal punto di vista organizzativo che da quello normativo, delle strutture sindacali e degli uomini che in esse agiscono». 4 124 L’AUTUNNO CALDO, I DIRITTI E LA FABBRICA contrattazione aziendale e quella sindacale della libertà totale di iniziativa sindacale in azienda, era prevalsa una linea di compromesso che ebbe la sua formalizzazione nel c.d. preambolo contrattuale del Contratto metalmeccanico a partecipazione statale del dicembre del 19627. Due i punti importanti sui quali poi si costruì la storia delle relazioni sindacali nei successivi anni della recessione e della ripresa fino alle soglie del 1969: in primo luogo, la certezza che la contrattazione aziendale si sarebbe svolta per le sole materie stabilite dai contratti nazionali «nei limiti e secondo le procedure specificamente indicate»; in secondo luogo, che la competenza a negoziare questo livello di contrattazione in nome dei lavoratori sarebbe avvenuta tramite una struttura sindacale extraaziendale. Tutto ciò in coerenza con una linea politica improntata ad escludere dalla gestione di un qualsiasi progetto di contrattazione collettiva le strutture presenti all’interno dell’azienda, a partire dalle ancora esistenti commissioni interne8. Se, infatti, il sindacato avesse voluto mantenere il controllo della base avrebbe dovuto procedere ad isolare quelle strutture che fino a quel momento avrebbero potuto rappresentarla al meglio ma, al contempo, non avrebbe potuto appoggiarsi ad altre strutture pur presenti – come ad esempio le sezioni sindacali aziendali – nella consapevolezza che proprio quelle strutture pensate per riavvicinare il sindacato alla base, ovvero quale fattore unificante del movimento di massa nel luogo di lavoro, non solo erano rimaste nel limbo delle relazioni industriali, ma erano state sostanzialmente confinate a svolgere un ruolo amministrativo-burocratico, quali ultimi gradini «della gerarchia sindacale»9. L’attribuzione di poteri negoziali ad un organismo praticamente evanescente avrebbe significato bloccare la contrattazione collettiva a livello aziendale e favorire di fatto il rilancio delle mai definitivamente scomparse strutture di rappresentanza diretta dei lavoratori10. Lo scambio politico delle conquiste ottenute con gli imprenditori non fu, peraltro, di poco conto sostanziandosi nella messa per iscritto delle c.d. clausole di tregua sindacale, ossia nell’impegno assunto dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori di non promuovere azioni o rivendicazioni intese a modificare, integrare, innovare ciò che forma oggetto di accordo ai vari livelli. 7 E. Guidi et al., Movimento sindacale e contrattazione collettiva, 1945-1971, Franco Angeli, Milano 1972, p. 85. 8 T. Treu, Sindacato e rappresentanze aziendali, il Mulino, Bologna 1971, p. 134. 9 G. Baglioni, L’istituto della «Commissione interna» e la questione della rappresentanza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, in Studi di sociologia, n. 1-2, 1970, p. 167. 10 Il cambio di veduta, ossia l’esclusione della struttura di rappresentanza dai poteri negoziali, fu un cambiamento dell’ultima ora dettato da ragioni di opportunità; vedi sul punto T. Treu, Sindacato e rappresentanze aziendali, il Mulino, Bologna, 1971, p. 70. Sull’individuazione dei motivi per cui si volle riconoscere il ruolo di soggetto negoziale della contrattazione collettiva aziendale ad unità associative extraziendali, M. Grandi, Rappresentanza e rappresentatività sindacale in ordine alla contrattazione articolata, in La contrattazione collettiva articolata, Giuffrè, Milano 1971, p. 76. Per un’analisi delle nuove caratteristiche della contrattazione nella fase degli anni ’60, cfr. anche G. Ferraro, Le politiche rivendicative della CISL per gli anni Sessanta, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 47-48, 1974, p. 122. 125 MARIA PAOLA MONACO Il successo di tale preambolo fu così grande da costituire la premessa di tutti i contratti, anche di quelli negoziati con la Confindustria, non solo durante il periodo della recessione ma in buona sostanza anche durante tutto il periodo successivo. E proprio nel successo di tale operazione si possono rinvenire alcune delle ragioni del rifiuto del sindacato nei confronti di un intervento statale: a cosa serve, infatti, l’intervento di una legge per far varcare ai diritti sindacali i cancelli della fabbrica se esiste già una pratica delle organizzazioni dei lavoratori capace di creare istituzioni autonome in difesa dei diritti dei lavoratori stessi?11 Diversa, invece, la posizione dell’altra grande componente sindacale. La CGIL, infatti, seppur non rinveniva motivi di dissenso in ordine allo strumento regolatorio legislativo, riproponeva la vecchia tesi di Di Vittorio12, chiedendo che la legge non si limitasse ad introdurre i diritti sindacali in azienda ma si spingesse oltre, attribuendo diritti costituzionali in capo alle persone-lavoratori. Tali diritti avrebbero dovuto essere conquistati con un intervento eteronomo volto a limitare i poteri dell’imprenditore e, al contempo, a garantire l’attività del sindacato in azienda ovvero, più genericamente, diritti sindacali e civili ai lavoratori. Lo spaccato storico sopra descritto evidenzia l’esistenza di un «conflitto di metodo» in grado di riflettersi non solo sulla titolarità dei diritti da attribuire ma anche sul loro contenuto. Alla visione della modificabilità spontanea del sistema di fabbrica tramite l’azione sindacale, di fatto proveniente dalla sezione provinciale, si contrapponeva quella dell’importazione della democrazia nella fabbrica non attraverso il semplice riconoscimento del sindacato istituzione in azienda ma dei diritti costituzionali del lavoratore in quanto persona. Al di là delle diversità sopra evidenziate, era chiaro come le organizzazioni sindacali non fossero in ogni caso in linea con la proposta governativa. Ed è per questo che nelle parole di Nenni, pronunciate durante quegli anni in occasioni diverse, era dato cogliere messaggi compromissori tra posizioni contrattualiste e costituzionaliste diretti ad ottenere quell’appoggio delle maggiori organizzazioni sindacali e delle masse di lavoratori necessario a legittimare il consenso per l’alleanza di governo. Forse è proprio per questa ragione che Nenni continuava a credere nello Statuto, nonostante il dissenso, a volte palese, delle organizzazioni sindacali. Il tema, pertanto, venne portato all’attenzione degli uffici legislativi del Ministero del Lavoro, il quale profuse il suo impegno nell’elaborare tre di11 «La normativa in temi di diritti sindacali, unita all’assenza delle libertà costituzionali individuali, equivale ad un assorbimento degli interessi e dell’iniziativa sindacale dei lavoratori nel sindacato-istituzione, contribuendo così a chiudere la dialettica fra lavoratori e organizzazione e fra le diverse possibili forme di organizzazione operaia in fabbrica»; U. Romagnoli, T. Treu, I sindacati in Italia: storia di una strategia (1945-1976), il Mulino, Bologna 1977, p. 265. 12 Cfr. la relazione dell’on. Di Vittorio al Congresso di Napoli del 1952, in I Congressi della CGIL, ESI, Roma 1973, p. 226, nella quale la CGIL aveva chiesto uno «Statuto dei diritti dei lavoratori», volto a garantire le libertà costituzionali all’interno dei luoghi di lavoro. 126 L’AUTUNNO CALDO, I DIRITTI E LA FABBRICA segni di legge: uno sui licenziamenti individuali, uno sulle commissioni interne, un ultimo sui diritti sindacali. Nonostante che le richieste della delegazione socialista non contenessero misure radicali, come quelle elaborate in altri settori, lo Statuto finì vittima insieme all’intero governo della politica dei due tempi. Prima occorre risolvere la crisi economica in atto, poi passare al resto, ossia alle riforme. In questo contesto, l’unica politica che restò in piedi e che si dimostrò in grado di andare avanti fu, quindi, quella sindacale. Ma il cambiamento improvviso dello scenario di contesto rendeva i risultati di tale politica deludenti. Nei primi mesi del maggio del 1968 una nota della CGIL forniva lo stato di avanzamento dei processi di contrattazione aziendale in atto13. La lettura del documento evidenzia come delle centinaia di vertenze aziendali che avevano impegnato il sindacato nella lotta o nella trattativa per la soluzione delle rivendicazioni unitarie presentate da diverse migliaia di lavoratori solo poche si mantenevano nei limiti del patto del Preambolo sindacale. Erano sostanzialmente le lotte operaie delle grandi aziende a liquidare la premessa contrattuale, lasciandola nei vari contratti ma priva di valenza pratica. D’altra parte, proprio quella premessa aveva condizionato in senso limitativo sia l’iniziativa dei lavoratori all’interno dell’azienda sia possibili interventi garantisti del potere legislativo. Lo strumento principale di attacco della nuova strategia sindacale, mosso dall’esigenza di tutelare interessi che, con il passare degli anni, avevano superato qualsiasi schema, fosse esso di matrice economica oppure normativa, era la fabbrica. Proprio la fabbrica era la struttura determinante nella creazione di posizioni di potere nell’ambito della sfera sociale e, al contempo, la base di partenza per svelare la mistificazione di un presunto carattere inevitabile dell’autoritarismo, della gerarchia, della neutralità della tecnologia ecc. D’altra parte il processo di razionalizzazione economica aveva determinato una segmentazione del ciclo produttivo per fasi di lavorazione. Conseguentemente, la scelta dell’imprenditore di costituire per sue esigenze produttive gruppi di lavoratori operanti in situazioni omogenee aveva fatto sì che i gruppi così oggettivamente costituiti ripetessero in forma antagonistica rispetto alle sue scelte quella stessa 13 E. Gui, Panorama delle vertenze delle lotte e delle trattative, in Rassegna sindacale, 1-5 maggio 1968, p. 10; G. Guidi, Bilancio contrattuale 1967: ora l’appuntamento è in fabbrica in Rassegna sindacale, ivi, p. 12. «Senza dubbio i miglioramenti salariali, specialmente per i lavoratori dell’industria, non sono stati adeguati alle esigenze dei lavoratori e all’aumento del rendimento. I salari restano quindi bassi, mentre sono aumentati notevolmente i profitti. Da questa dura realtà occorre partire per una vasta ripresa dell’iniziativa rivendicativa e dell’azione articolata. Per marciare con prospettive di successo su questa strada, occorre utilizzare tutte le occasioni e le possibilità di contrattazione integrativa, consolidate od arricchite con i rinnovi contrattuali. Questo è il punto di partenza e il campo, insostituibile, per dare una risposta adeguata alla iniziativa del padronato, alla linea della Confindustria – tesa allo svuotamento dei diritti di contrattazione integrativa – che certo non si batte una volta per sempre». 127 MARIA PAOLA MONACO organizzazione14. La coincidenza delle questioni pratiche che ciascun gruppo di lavoro si trovava ad affrontare – qualifiche, carichi di lavoro e ripartizione dei turni, misurazione dei tempi di cottimo15 – con il contenuto delle materie deferite dalla contrattazione collettiva ai livelli di articolazione contrattuale più bassi, comportava che le esigenze e le rivendicazioni trovassero espressione in vere e proprie delegazioni di personale che si ponevano in veste di interlocutori rispetto all’azienda o al quadro aziendale intermedio (caporeparto)16. Gli spazi lasciati vuoti dalle strutture sindacali presenti in azienda saranno così ben presto riempiti da nuove forme di aggregazione operaia capaci di superare le divisioni proprie dei vincoli associativi e di offrire a tutti i lavoratori un mezzo di espressione diretta17. La spontaneità del fenomeno trovava riconoscimento nelle procedure di nomina dei rappresentanti, svincolate da qualsivoglia schema di voto e coinvolgenti tutti i lavoratori, indipendentemente da una loro affiliazione sindacale18. La connotazione di fondo di questi processi elettorali è l’assenza di competizione. Nell’elezione dei membri delle commissioni interne i candidati erano in competizione fra loro essendo presente all’interno del collegio elettorale sia una differenziazione degli interessi fra componenti sia l’esistenza di un sistema di intenti programmatici associato ad organizzazioni sindacali diverse19. Almeno nella sua fase originaria la struttura consiliare, intesa come riunione di delegati, sembra non conoscere questo aspetto. Il collegio elettorale, infatti, identificandosi con la base omogenea dei lavoratori, non è in 14 S. Garavini, Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro, in Quaderni di Rassegna sindacale, n. 24, 1969, p. 21. 15 «È dato precisare che le funzioni contrattualmente assegnate ai delegati riguardano, per lo più, il controllo sull’applicazione dei sistemi di cottimo, tant’è vero che in numerosi contratti aziendali è prevista la figura del capo cottimo in sostituzione di quella del delegato oppure è espressamente disciplinata la figura del delegato di cottimo o per cottimi o di gruppo di lavoro a cottimo considerabile sotto questo profilo come equivalente dell’istituto denominato comitato cottimi anch’esso penetrato nella prassi contrattuale»; da U. Romagnoli, Sviluppi recenti della contrattazione aziendale: i delegati, in Rivista trimestrale di diritto processuale civile, 1970, p. 617; mette in risalto l’importanza della figura del «gruppo di lavoro a cottimo» nel processo che condurrà alla nascita dei delegati, anche M. Masucci, Dall’assemblea ai delegati. Una crescita di potere, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 24, 1969, p. 37. 16 Le prime apparizioni dei delegati si riscontrano nell’azienda Candy dove il contratto siglato nel 1968 prevede un delegato di reparto per ognuna delle sei linee di montaggio. Cfr. G. Tarello, Situazione sindacale e atteggiamenti dei giuristi, in Politica del diritto, 1970, p. 195. 17 G. Romagnoli, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, in Id. et al., La democrazia del sindacato, Mazzotta Editore, Milano 1975, p. 31 ss. 18 «Nella misura in cui traggono la loro nomina e i loro poteri dalla generalità dei lavoratori essi risultano palesemente irriducibili al modello di struttura organica o anche decentrata del sindacato, legata a questo dagli usuali vincoli di tipo associativo. Al contrario si confermano portatori di poteri rappresentativi provenienti da una collettività organizzata in assemblea che come tale ne rivendica la titolarità originaria. E a tale collettività ove si esprimono gli interessi del gruppo essi sono direttamente responsabili nell’esercizio delle funzioni loro affidate»; T. Treu, Sindacato, cit., p. 70. 19 I. Regalia, Eletti e abbandonati. Modelli e stili di rappresentanza in fabbrica, il Mulino, Bologna 1984, p. 52. 128 L’AUTUNNO CALDO, I DIRITTI E LA FABBRICA grado di esprimere interessi divergenti, né sul processo elettorale influisce una differenziazione di ideali, in quanto, in un sistema che ha rinunciato al perseguimento esplicito delle logiche di organizzazione, questi tendono ad apparire marginali. La rappresentatività trova invece riconoscimento nella previsione di una nomina revocabile «in qualsiasi momento» dai lavoratori addetti al reparto ed in grado pertanto di attribuire al delegato solo poteri estremamente precari, condizionati dalla persistente abilità del singolo a gestire i rapporti con la controparte. La figura dei delegati finiva per incarnare i desideri di un’esperienza democratica diretta che sorgeva spontanea dai processi di conflittualità propri dei meccanismi di razionalizzazione e di rinnovamento tecnologico. Mentre le commissioni interne, infatti, avevano coonestato le loro rivendicazioni sul modello di organizzazione del lavoro predisposto dall’imprenditore20, la protesta dei delegati aveva posto in dubbio, ed in termini a volte assai radicali21, la stessa concezione normativa del rapporto di lavoro che, se inteso come puro rapporto di scambio, attribuisce al datore il potere di determinare unilateralmente i modi di utilizzazione della prestazione. Pur muovendo da tali rivoluzionarie premesse concettuali il movimento dei delegati nel momento della sua nascita apparve sì un modello diverso ma non antagonistico rispetto al sindacato22. Il delegato come espressione autonoma della classe operaia si poneva in rapporto dialettico con il sindacato per definire una linea comune atta ad individuare e riferire i bisogni del gruppo ad una strategia più generale. Fu solo successivamente che su tali strutture, rispecchianti pur sempre – nonostante il loro carattere elementare e di occasionalità – il conflitto potenzialmente presente fra collettività generale dei lavoratori e organizzazione sindacale, si inserì l’azione dei gruppi contestatori che nel rapportare la realtà evolutiva agli schemi ideologici contrapposero i delegati, espressione della base operaia, alla burocrazia sindacale. Saranno proprio le materie del salario e della negoziazione dei diritti scaturenti dal rapporto di lavoro – ossia quelle stesse sulle quali il sindacato aveva inteso costruire il proprio ruolo attivo di agente contrattuale23 – a mettere in dubbio, di fronte ad una classe operaia e ad una base estraniata rispetto alle scelte effettuate dal sindacato, la stessa capacità negoziale del sindacato. La neutralità dei primi 20 Per un confronto strutturale fra commissione interna e consiglio di fabbrica, si veda P. Peira, Il capo e lo Statuto dei lavoratori, Franco Angeli, Milano 1975, p. 30 ss. 21 G. Tarello, Situazione sindacale e atteggiamento dei giuristi, cit., p. 195, secondo il quale «l’azione comune dei gruppi della sinistra contro il sistema e del movimento studentesco, tendeva a sconvolgere la strategia dei sindacati sia screditando la contrattazione […] sia accreditando forme di lotta particolarmente insidiose, sia screditando il personale sindacale tradizionale. Lo scopo era quello di far saltare il sistema produttivo piuttosto che di razionalizzarlo». 22 G. Mancini, Lo statuto dei lavoratori dopo le lotte operaie del 1969, in Politica del diritto, 1970, p. 57. 23 Cfr. il punto 6 del rapporto conclusivo alla II Assemblea organizzativa della FIM CISL, Genova, 4-6 ottobre 1968, in G.P. Cella, B. Manghi, P. Piva, Un sindacato italiano negli anni Sessanta. La FIM-CISL dall’associazione alla classe, De Donato, Bari 1972, p. 216. 129 MARIA PAOLA MONACO moti di contestazione finì così per scomparire arrivando a sconfessare tutte quelle politiche organizzative e contrattuali che apparissero integrate con la concezione normativa del rapporto di lavoro comprese, quindi, quelle del movimento sindacale, nella misura in cui queste si fossero dimostrate incapaci di ottenere, tramite la negoziazione delle forme di organizzazione del lavoro, qualcosa di diverso rispetto a dei puri e semplici incrementi salariali24. La contrattazione aziendale – posta in essere da nuove forme di rappresentanza dei lavoratori, quali i delegati ed i consigli di fabbrica – anche se ancora formalmente rimase ancorata al sistema di contrattazione articolata, iniziò ad operare rivendicazioni contrattuali su materie escluse dalla sua sfera di competenza. Nel contratto nazionale del 1969, concluso dopo il cosiddetto «Autunno caldo» sindacale, non si riesce a trovare alcun accordo in materia di contrattazione aziendale. Ciò determina il venir meno delle norme di coordinamento tra i livelli contrattuali del sistema di contrattazione articolata fondato sulla clausola di rinvio; anche la clausola di pace sindacale perde qualsiasi valore vincolante. La contrattazione raggiunge il massimo di decentramento ed il minimo di istituzionalizzazione perché, essendo venuto meno il sistema di contrattazione articolata, ogni livello contrattuale acquista autonomia, in quanto non vincolato per oggetti, per procedure né per agenti di contrattazione. La tenuta non è più neanche quella del contratto nazionale di categoria che, sebbene assuma sostanzialmente la funzione di determinare i minimi di trattamento economico e normativo, consente che quegli stessi parametri possano essere continuamente modificati in senso migliorativo dal contratto aziendale. «L’autunno potrà essere veramente caldo». L’ossimoro meteorologico contenuto nelle parole pronunciate da un politico dell’epoca, ha segnato l’inizio di una delle più difficili pagine scritte dall’Italia del lavoro25. Il caldo, tuttavia, era già arrivato o meglio gli eventi della primavera e dell’estate del 1969 avevano dato un segnale chiaro nel senso di un suo imminente arrivo26. Proprio durante quel periodo, infatti, alcune industrie, prima fra tutte la FIAT, venivano scosse da una grande ondata di lotte operaie che trovavano la loro esternazione in continui scioperi, in continue assemblee interne, discussioni e cortei. Il messaggio era quello di «fare assemblee e nominare delegati per usare la forza dello sciopero e dell’unità per modificare completamente le nostre condizioni di lavoro esercitando il controllo operaio»27. Un messaggio tramite il quale si chiedeva il controllo operaio su alcune regole atte a governare un corretto svolgimento del rapporto di lavoro: spostamenti della forza lavoro; imposizione di turni e di ore di lavoro straordinario; aumenti di merito, diminuzione del grado 24 L. Mengoni, Diritto e valori, il Mulino, Bologna 1985, p. 180. De Martino, leader socialista dell’epoca, pronunciò quella frase il 4 settembre del 1969. 26 S. Rogari, Sindacati e imprenditori. Le relazioni industriali in Italia dalla caduta del fascismo a oggi, Le Monnier, Firenze 2000, in particolare p. 220 ss. 27 R. Giannotti, Trent’anni di lotte alla FIAT (1948-1978), De Donato, Bari 1979, p. 204. 25 130 L’AUTUNNO CALDO, I DIRITTI E LA FABBRICA di disagio e di nocività del lavoro; controllo del cottimo. Su questi presupposti la spinta operaia dimostrò di essere in grado di mettere in difficoltà il sindacato fino al punto di esautorarlo. La rivolta di Corso Traiano non è altro che la dimostrazione di questo. Essa rappresenta una pagina di storia nella quale non ci si può limitare nel rappresentare i rapporti di forza fra due movimenti – quello sindacale e quello operaio – a parlare «di generico scavalcamento del sindacato; ci troviamo di fronte a un rifiuto politico del sindacato come strumento di mediazione della lotta di classe»28. La rivolta di Corso Traiano del luglio ’69 ebbe il potere di focalizzare l’attenzione della controparte su alcuni punti che saranno poi posti all’ordine del giorno del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Alla fine dell’estate i «rivoluzionari», che vedevano in quell’evento l’inizio di un processo di aggregazione rivoluzionaria, si accorsero che quel momento poteva essere considerato un apice ma che con il passare del tempo il consenso nei confronti dell’attività sovversiva sarebbe andato scemando. La tradizionale fedeltà ai partiti storici delle sinistra e ai sindacati fu un ostacolo quasi insormontabile. Le vecchie associazioni studentesche erano state spazzate via senza grandi difficoltà, ma certamente non sarebbe stato lo stesso per la CGIL o per il PCI29. D’altra parte tutto venne reso ancora più difficile dalla politica che a partire da quel preciso momento si erano dati i sindacati. Se la parola d’ordine era quella di aggregare all’interno della struttura il movimento, questo significava innanzitutto adattarsi utilizzando stessi mezzi e stesso linguaggio e dimostrando di essere autonomi, nell’introdurre i diritti e nel portare avanti le lotte sindacali, dal potere politico e, quindi, di portare avanti le riforme. Le richieste che venivano dalla base non potevano essere rifiutate perché estremiste, ma piuttosto incanalate in una strategia che consentisse una linea vincente e duratura. La vertenza dalla quale partì il processo di inglobamento del movimento nel sindacato all’inizio apparve niente di più o di diverso che una semplice vertenza sindacale: si trattava del rinnovo del contratto dei metalmeccanici. I sindacati nella loro piattaforma presentata a luglio rivendicavano un aumento di 75 lire orarie eguali per tutti, operai e impiegati; una riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 40 ore pagate 48; una stessa disciplina normativa da applicare tanto agli operai che agli im- 28 «La lotta alla FIAT ha saputo conquistarsi via via che raggiungeva le altre officine, una completa autonomia su tutto l’arco dei problemi relativi alla conduzione della lotta: dalla capacità di iniziarla autonomamente senza e contro le decisioni sindacali, all’elaborazione delle rivendicazioni, sempre più ampie e capaci di investire tutti i problemi della condizione di lavoro, alle trattative svoltesi direttamente tra operai e direzione senza la mediazione sindacale, al collegamento con le altre officine per alternarsi nella conduzione della lotta, alla capacità infine di rifiutare, continuando la lotta, gli accordi che per ben tre volte sindacati e padroni hanno siglato nel vano tentativo di bloccare con concezioni fasulle lo sviluppo delle lotte. […]»; riportato in V. Foa (a cura di), Sindacati e lotte operaie, 1943-1973, Loescher, Torino 1975, p. 104 ss. 29 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica (1943-1988), Einaudi, Torino 1989, p. 461. 131 MARIA PAOLA MONACO piegati in caso di malattia; il diritto di assemblea nei luoghi di lavoro con i rappresentanti sindacali. Al tavolo si contrappongono Confindustria rappresentata da Angelo Costa e FIOM, FIM e UILM rappresentate da Bruno Trentin, Luigi Macario e Giorgio Benvenuto. Il governo svolge una funzione collaterale avvalendosi della mediazione di Carlo Donat Cattin, autodefinitosi in più di una occasione «ministro dei lavoratori». L’Autunno caldo comincia subito dopo la pausa estiva, alla ripresa. A settembre tra le prime fabbriche dove esplode il conflitto ci sono, appunto, la FIAT e la Pirelli. Ma ben presto lo scontro si allarga a macchia d’olio, interessando più categorie ed estendendosi a tutto il paese. L’8 settembre si rompono le trattative con Confindustria. Due giorni dopo c’è l’incontro con l’Intersind (le industrie metalmeccaniche pubbliche) con una linea più morbida. Dal quale, però, si esce con un nulla di fatto. Il 15 ottobre la ripresa delle trattative con la mediazione di Donat Cattin. Ma il negoziato resta in un’impasse; per questo FIOM-FIM-UILM proclamano una manifestazione nazionale per il 28 novembre a Roma, assemblee nei luoghi di lavoro e scioperi articolati. Nel frattempo, la tensione nelle fabbriche sale, si assiste a una escalation della lotta, scioperi ad oltranza, denunce e sospensioni di operai. Il corteo di fine novembre si svolge in un clima di grande tensione per possibili incidenti: centomila i metalmeccanici che sfilano per le vie della capitale, il corteo si conclude a Piazza del Popolo con gli interventi di Trentin, Macario e Benvenuto. Il 10 dicembre la firma del contratto con l’Intersind per le aziende metalmeccaniche a partecipazione statale. Accordo che sarà usato anche da Donat Cattin per fare pressing su Confindustria. A fine dicembre ’69 furono chiuse le tornate contrattuali più importanti sotto un ricatto ben preciso, quello del golpe: tanto che l’allora ministro del Lavoro Donat Cattin disse ai sindacati: «Il contratto o lo firmate con me o con i colonnelli». Nonostante questo e la strage di Piazza Fontana, i contratti del ’69 si conclusero con una clamorosa vittoria operaia sul piano dei diritti concreti e del salario. Costringendo sindacato e PCI a rincorrere gli operai e non questi a rincorrere la sinistra istituzionale per non essere stati rappresentati. La straordinaria stagione di mobilitazione collettiva che aveva conosciuto il suo momento più alto nell’«Autunno caldo» del 1969 segnò definitivamente la sorte dello Statuto dei lavoratori. Sposando quest’angolo visuale, lo Statuto non è altro che il risultato normativo di quella straordinaria stagione di conflittualità. Se pare verosimile, ovvero forse anche scontato, pensare all’esistenza di un legame fra conflittualità operaia e Statuto dei lavoratori è molto più complesso capire quale tipo di rapporto leghi effettivamente gli eventi: la sola sequenza cronologica oppure un rapporto di causa/effetto o qualcosa di ancora diverso. Proprio la violenza degli accadimenti sopra descritti, infatti, così come lo spontaneismo del movimento operaio che chiede diritti per i lavoratori ma al di fuori di strutture, schemi o procedure precostituite (tanto che anche quelli costruiti dal sindacato – ossia da una componente vicina ai lavoratori che fino a poco tempo prima li rappresentava – vengono abbandonati) sembra essere piena132 L’AUTUNNO CALDO, I DIRITTI E LA FABBRICA mente in grado di mettere in crisi la portata politica del documento legislativo proposto dal governo30. A fronte della posizione del movimento operaio che non aveva mai inoltrato agli organi di governo richieste di Statuto, la posizione dei sindacati rispetto a quella assunta in passato fu assai diversa finendo per avere un peso determinante sull’intera vicenda. Furono proprio i sindacati, infatti, in considerazione del diverso scenario nel quale si trovavano ad operare, che, abbandonando la posizione intransigente portata avanti durante le legislazioni precedenti, si dimostrarono per la prima volta favorevoli ad un intervento normativo. Così la CISL, dando risposta al documento del Ministero del Lavoro consegnato alle associazioni sindacali il 6 marzo 1969, dichiarò che «la via che oggi si prospetta, di tutelare i lavoratori non individualmente ma rinvigorendo l’autodifesa sindacale, si presenta come alternativa, o comunque radicalmente diversa, da quella che era stata fino a ieri prospettata: la tutela dei diritti dei lavoratori come singoli»31. E d’altra parte fu proprio la spinta delle lotte operaie che impose alla CGIL di superare le sue divisioni interne sul contenuto del testo normativo. Grazie anche alla diversa impostazione politica del Ministero del Lavoro, il sindacato della CGIL poteva spostare il dibattito sulla parte sindacale del testo, facendo palese un suo dissenso alla costituzione di strutture sindacali aziendali che non fossero in grado di dare espressione «all’attività e la volontà reale dei lavoratori»32. Appariva oramai evidente che la pregiudiziale ideologica delle confederazioni nei confronti di un testo legislativo veniva abbandonata e che proprio l’assenso generale manifestato dalle centrali sindacali apriva le porte alla presentazione da parte dell’allora ministro del Lavoro Brodolini del progetto di Statuto al Consiglio dei ministri. Pare quindi possibile affermare che proprio la conflittualità operaia aveva provocato l’assunzione definitiva da parte del governo di un «progetto di legge»33 ma che questo accadimento non avveniva per una richiesta espressa in tal senso della classe operaia34 ma per una reazione difensiva dei sindacati. La componente sindacale aveva infatti capito che 30 «La strategia dei giuristi riformisti fu così messa in crisi proprio nel momento in cui la redazione dello Statuto ne aveva segnato la definitiva vittoria sulla linea costituzionale; e lo Statuto stesso si trovò in difficoltà»; G. Mancini, Lo statuto dei lavoratori, cit., p. 57. 31 In Rivista giuridica del lavoro, vol. III, 1969, p. 168. 32 Ivi, pp. 162-163. 33 Il 20 giugno 1969 fu approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge n. 738, Norme a tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro. 34 Al contrario fu proprio il movimento operaio a criticare la scelta operata dal legislatore. In tale senso vedi chiaramente l’intervento Uno Statuto per padroni e sindacati del Comitato di difesa e di lotta contro la repressione di Milano al Congresso nazionale dell’Associazione nazionale magistrati (Trieste, 10 settembre 1970), in Quaderni piacentini, n. 42, 1970, p. 75. «La proposta […] viene presentata come il coronamento di questa lunga battaglia. Ma come stanno veramente le cose? Le promesse, in realtà, sono state capovolte: la legge va in senso contrario alla Costituzione; è la sistematica negazione del principio di uguaglianza e restrizione dei diritti fondamentali di libertà dei lavoratori». 133 MARIA PAOLA MONACO se voleva continuare a svolgere un ruolo predominante all’interno delle relazioni sindacali avrebbe avuto bisogno di un testo che glielo consentisse attraverso l’attribuzione di diritti ma anche attraverso l’introduzione di generiche strutture di rappresentanza, capaci di inglobare il movimento. Fu solo grazie alla fase successiva, cioè con il riconoscimento da parte delle grandi organizzazioni sindacali di categoria del movimento dei delegati e dei consigli di fabbrica, che lo Statuto riuscì a venire alla luce. Cosa c’era di diverso nel panorama sindacale e politico? Sul primo versante non può essere sottaciuto il ruolo cruciale svolto dai delegati. I delegati, infatti, non sposavano una logica contraria al sindacato come istituzione; la loro opposizione, piuttosto, si appuntava nei confronti del comportamento e della organizzazione di un sindacato così strutturato. Né tanto meno rifiutavano la logica del contratto. La loro azione di lotta avveniva con il sostegno alla microcontrattazione di settore finalizzata alla costruzione di vertenze di carattere generale. Proprio la mancanza di ostilità dei delegati nei confronti del sindacato era stata da quest’ultimo capita e valorizzata, ancor prima della promulgazione dello Statuto. Se le federazioni metalmeccaniche non avessero riconosciuto il movimento dei delegati nei rinnovi contrattuali dell’autunno del 1969, lo Statuto, forse, non avrebbe ancora una volta visto la luce, apparendo ai più come un provvedimento autoritario imposto dai sindacati tramite la negoziazione politica. I diritti nella fabbrica entrano, quindi, anche al di là della loro effettiva valenza. Era chiaro, infatti, che tramite i diritti, in particolare tramite quelli di matrice sindacale, si finiva per legittimare delle nuove strutture di rappresentanza, volutamente generiche, ma che proprio a causa della loro genericità potevano essere identificate sia con le varie forme di autorganizzazione operaia sia con le articolazioni periferiche del sindacato. Se il diritti sindacali quindi dovevano subire questo tipo di condizionamento, quelli individuali invece dovevano essere aderenti, nel maggior modo possibile, alla pericolosa situazione sociale del paese. Proprio questo quadro sociale di fondo dimostrò di essere in grado di portare le forze politiche ad un compromesso in grado di superare tutti i temi di contrasto. In effetti, il testo uscito dalla commissione del Senato, approvato poi senza modifiche alla Camera dei deputati, dimostrava di essere dissimile dalla proposta governativa su molti punti relativi ai diritti individuali. Ad esempio, sulla questione del collocamento tutti i gruppi furono d’accordo nell’introdurre un intero titolo dedicato al tema – il V – così che potesse essere modificata la normativa risalente al 1949. Sulle questioni relative al rapporto di lavoro, le modifiche al progetto Brodolini si appuntarono sulla questione delle idoneità e infermità del lavoratore, attraverso la previsione di un controllo pubblico con ogni esclusione di competenza dei medici indicati dal datore di lavoro. I procedimenti disciplinari vennero conformati al principio costituzionale del diritto al contraddittorio prevedendosi la preventiva contestazione del comportamento eventualmente sanzionabile. Ma fu sulla risoluzione del rapporto di lavoro che il Senato incise maggior134 L’AUTUNNO CALDO, I DIRITTI E LA FABBRICA mente, sottraendo definitivamente al datore di lavoro la possibilità di recedere ad nutum. Nel testo proposto dal governo la «riassunzione obbligatoria» era prevista per i soli licenziamenti discriminatori intimati per motivi religiosi, politici o sindacali. Con l’art. 18, il Senato provvedeva, invece, ad estendere il diritto alla «riassunzione obbligatoria» a tutti i lavoratori licenziati illegittimamente, senza giusta causa o giustificato motivo. Nessuno voleva più perdere quella storica opportunità, così il 20 maggio 1970, con 217 voti favorevoli e 135 astenuti, venne approvata, senza ulteriori modifiche, la legge n. 300, che istituendo il c.d. «Statuto dei diritti dei lavoratori» portava i diritti della persona lavoratore nelle fabbriche35. 35 «Se la legge chiamata Statuto dei lavoratori fosse stata priva di rilevanza pratica, probabilmente non avrebbe suscitato le polemiche che ci sono state; se fosse appartenuta al novero delle tante leggi non applicate che appartengono al corpo legislativo della nostra Repubblica evidentemente non avrebbe destato reazioni di amore e di odio. Le ragioni per cui l’effetto dello Statuto fu così incisivo vanno certamente riferite alla particolare stagione politica che visse il paese durante e dopo l’emanazione dello Statuto», G. Giugni, Lo Statuto dei lavoratori vent’anni dopo, in Lavoro e diritto, 1990, p. 179. 135 «Il sindacato siamo noi». Democrazia e partecipazione oltre il 1969 di Andrea Sangiovanni Democrazia e partecipazione sono senza dubbio due delle parole chiave più significative del 1969, una lente attraverso cui è possibile leggere in modo non scontato quel ciclo di lotte operaie. Tuttavia esse possono essere esaminate da così tante e diverse prospettive da richiedere scelte molto ben definite – qualcuno potrebbe dire drastiche – se non si vuole correre il rischio dell’indeterminatezza, specie in uno spazio limitato come quello concesso a questo intervento. Piuttosto che soffermarmi sull’analisi del modo in cui l’Autunno caldo ha modificato sostanzialmente le forme della partecipazione e della democrazia nel mondo del lavoro, analisi che avrebbe rischiato di risolversi in una mera descrizione, ho preferito tentare di ragionare sul tema da un altro punto di vista che permetterà, forse, di dare una parziale risposta alla domanda che fa da sfondo a queste giornate di studi: qual è – se c’è stata – l’eredità del ’69? Nelle pagine che seguono, dunque, cercherò di indagare il nesso democrazia/partecipazione seguendo un percorso diacronico che, partendo dal biennio 1968-69, arrivi alla profonda crisi del sindacato di metà anni ’80, una crisi che ha una delle sue ragioni proprio nella questione della partecipazione e della democrazia interna1. È opinione diffusa che non si possa spiegare il 1969 separandolo dal 1968, se non altro perché le mobilitazioni operaie cominciano già dalla primavera di quell’anno. Di più: si può ben dire che alcuni elementi di ripresa della conflittualità operaia attraversino, in modo più o meno evidente, tutti gli anni ’60 e che dunque alcuni elementi strutturali e culturali che porteranno alla grande partecipazione del 1969 si accumulino negli anni precedenti. Non è possibile farne una disamina completa in questa sede, perciò mi limiterò a sottolinearne uno, di matrice esistenziale, che mi sembra particolarmente rilevante: esso emerge sia dalle rilevazioni di massa del sindacato e del PCI del 1968, sia dalle 1 È necessario precisare che nella stesura di questo testo ho scelto di mantenere la forma espositiva interlocutoria tipica dell’intervento orale, pur con qualche necessario aggiustamento: essa mi è sembrata particolarmente adatta all’esposizione di un ragionamento ancora in corso, che per assumere veste definitiva avrebbe avuto bisogno di approfondimenti che non era possibile sviluppare in questa sede. 137 ANDREA SANGIOVANNI inchieste della stampa del biennio 1967-68 ma – e vorrei partire da qui – viene individuato anche dalla televisione di Stato, e in modo piuttosto sorprendente visto che la RAI non si segnalerà certo per un equilibrato resoconto dell’Autunno caldo. Il «rotocalco televisivo» TV7 manda in onda, nel novembre 1968, un servizio intitolato Gli operai e il 2000 in cui Emilio Ravel descrive la condizione operaia come «sottoposta e umiliante»: essa – afferma il commentatore – impedisce agli operai «di immaginare il mondo futuro; tutto sembra condizionato all’usura della fatica quotidiana». E tuttavia, continua, parlando con gli operai «si coglie una richiesta generale di maggiore libertà, il pieno rispetto della dignità umana, una migliore considerazione sociale»; insomma, la ricerca di «una vita più civile, non solo per sé ma per l’intera umanità»2. Una tale domanda di dignità era resa ancora più radicale dall’emergere in fabbrica di nuove culture e nuove sensibilità, diffuse in quella generazione di operai che aveva cominciato a lavorare nella seconda metà degli anni ’60. Molti di questi giovani operai non sono socializzati al sindacato né fanno attività politica, almeno finché non vengono coinvolti nelle lotte; tuttavia essi si riconoscono facilmente come gruppo proprio grazie al loro essere «giovani», alla condivisione di una comune cultura, sia informale che formale, scolastica, visto che le nuove generazioni operaie sono mediamente più istruite di quelle precedenti. Molti di essi – inoltre – vivono quella peculiare condizione, sia materiale che esistenziale, che deriva dall’essere emigrati, non solo dal Mezzogiorno, ma anche dalle regioni del Nord-est o, semplicemente, dalle campagne. In molti casi, com’è noto, sarà proprio l’immissione di questa nuova forza lavoro, giovane, acculturata e sradicata, a creare una delle condizioni di rottura del vecchio sistema di relazioni dentro la fabbrica3. Essi, infatti, hanno una più accentuata percezione del distacco tra una promessa di benessere ed un presente di durezze: sarà anche grazie a questi elementi esistenziali e prepolitici che si svilupperà il proficuo incontro con i protagonisti del 1968, gli studenti. E sarà anche dall’incontro fra giovani operai e gruppi studenteschi che emergerà una delle forme organizzative dirompenti del 1969, l’assemblea, uno strumento in cui si esercita una forma di democrazia diretta, ma, allo stesso tempo, c’è per tutti la possibilità di esprimersi, riconquistando in questo modo quella dignità che si sentiva offesa. Sono proprio questi elementi prepolitici ad essere sottolineati con forza in molte testimonianze, ed in particolare il fatto che in assemblea si potesse, come 2 E. Ravel, Gli operai e il 2000, 22 novembre 1968. I corsivi sono miei. Per un panorama complessivo della rappresentazione degli operai nei media in questo periodo mi permetto di rinviare a A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma 2006, p. 141 e ss. 3 Per esempio E. Santi ricorda che alla Ignis tra il 1967 e il 1968 vengono assunti più di 3.000 lavoratori, «molti sotto i 18 anni, provenienti dal Sud, da Siena e da Trento» e che questa sarà una delle cause della rottura del sistema di relazioni industriali, cfr. E. Santi, Ignis, in M. Regini, E. Santi, Candy e Ignis, il Mulino, Bologna 1974, p. 120. 138 «IL SINDACATO SIAMO NOI». DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE OLTRE IL 1969 dice un operaio, «parlare, prendere la parola, superare la paura»: «ripetevamo un po’ tutti le stesse cose – continua –, raccontavamo semplicemente la nostra condizione, non si parlava di obiettivi – se non in termini molto generici – né di tattiche sindacali. Ognuno raccontava sé stesso e rompere il silenzio era bello per lui e per chi lo ascoltava che in quel racconto si poteva rispecchiare»4. E se l’assemblea è la forma che assume la democrazia operaia (coniugandola spesso con una partecipazione di tipo esistenziale ancora prima che politico), il momento della partecipazione è quello dei cortei e degli scioperi: sia l’una che gli altri contribuiscono alla formazione e al riconoscimento di una nuova identità collettiva, che da allora in poi caratterizzerà a lungo il mondo operaio italiano e il sindacato. Naturalmente tutto ciò non sarebbe bastato se non ci fossero state quelle particolari condizioni di lavoro che caratterizzano l’apogeo della grande fabbrica fordista-taylorista in Italia – e che diventano ancora più difficili dopo la congiuntura del 1963-64 quando assumono anche l’aspetto di una sorta di «riconquista» padronale dopo le vittorie operaie del biennio precedente – a cui si somma una generale situazione di debolezza del sindacato: sarà sufficiente a questo proposito ricordare che il tasso di sindacalizzazione tocca il suo punto più basso – 27,7% – proprio nel 1967. Dato questo scenario la scelta di forme di lotta nuove durante la primavera del 1968, e soprattutto durante l’anno successivo, si può spiegare anche come il rifiuto di forme di lotta più tradizionali che allora erano percepite come espressione di un sindacato rassegnato: ne sono un chiaro esempio il prolungamento degli scioperi oltre le indicazioni sindacali oppure l’innovativa scelta di non fermare l’interruzione del lavoro durante la contrattazione. Questa interpretazione5 trova una conferma nel fatto che le prime forme di lotta innovative sono spesso inventate da vecchie «avanguardie sindacali» e, comunque, non dagli operai più giovani e non socializzati al sindacato e alla lotta politica che diventeranno parte maggioritaria delle mobilitazioni solo in un secondo momento. Al contrario, le forme di conflitto diffuse fra gli operai più giovani, ma forse sarebbe più corretto parlare di forme di contestazione, non sono solo imprevedibili ma anche, per molti, incomprensibili: «i vecchi ‘sergenti’ piemontesi della fabbrica – notava Giorgio Bocca nel 1968 – assistono, esterrefatti, a reazioni anomale […]: ‘A me ordini non me li dà nessuno’. ‘Giù le mani, a me non mi perquisisce nessuno’ […] ‘Lei avrà ragione, capo, ma io ho la mia dignità’»6. Oppure, per fare un altro esempio, lo stesso Bocca aveva raccontato, pochi mesi prima, una «anomala» esplosione di rabbia operaia: «In una fabbrica milanese av4 È il racconto di Nico Ciarciaglino in G. Polo, I tamburi di Mirafiori. Testimonianze operaie attorno all’Autunno caldo alla FIAT, CRIC, Torino 1989, p. 176. 5 Essa risale a A. Pizzorno, E. Reyneri, M. Regini, I. Regalia, Lotte operaie e sindacato: il ciclo 19681972 in Italia, il Mulino, Bologna 1978, un lavoro che trovo ancora oggi essenziale per penetrare nelle dinamiche di quegli anni. 6 G. Bocca, La rabbia non ha salario, in Il Giorno, 1° giugno 1968. 139 ANDREA SANGIOVANNI viene uno sciopero improvviso, all’insaputa dei sindacati […] ecco passare la voce: ‘venga giù il direttore del personale’. Per ordini superiori il nostro si rassegna a scendere, preparato al peggio, e succede questo: gli sfilano davanti e ripetono, uno dopo l’altro, ‘faccia di m…’, ‘faccia di m…’»7. Sono episodi forse troppo letterari per essere realmente accaduti, ma sono comunque segnali di una trasformazione profonda, utili a delineare, sia pure in modo impressionistico, i mutamenti in corso. Mutamenti che si riflettono anche sugli obiettivi delle lotte di quegli anni, molti dei quali possono essere ricondotti in senso lato ad una idea di partecipazione: uno degli elementi che colpiscono maggiormente nelle testimonianze di allora, infatti, è la volontà degli operai di recuperare la consapevolezza del proprio lavoro e, addirittura, del proprio luogo di lavoro. C’è, insomma, l’esigenza di capire quello che si sta facendo, anche per non sentirsi solo parte di un ingranaggio: un’esigenza che nasceva dalla distanza tra la maggiore acculturazione delle nuove leve operaie e un lavoro ripetitivo e dequalificato. Del resto, le innovative forme di lotta che vengono sperimentate allora non potrebbero realizzarsi senza una consapevole e attiva partecipazione di tutti gli operai: le varie forme di sciopero parcellizzato, ad esempio, richiedono una conoscenza dell’organizzazione della fabbrica e una partecipazione collettiva e coordinata ben lontana dal mitizzato spontaneismo. È evidente che la situazione è diversa a seconda delle zone geografiche, dei comparti industriali, della composizione operaia della fabbrica, del tipo di lavorazione; tutte queste differenti situazioni, tuttavia, sono accomunate dal modo in cui viene vissuta l’intensa fase di lotte: per usare le parole di un sindacalista della FIOM che lavorava alla Candy – ma espressioni simili si ritrovano in molte testimonianze – essa è percepita come «un periodo di purificazione delle coscienze, una specie di rivoluzione culturale»8. Una delle anime di questa «rivoluzione culturale» è proprio la richiesta di una maggiore democrazia e di una più ampia partecipazione, non solo alla vita dell’azienda ma anche alle decisioni del sindacato, fino ad arrivare, in un secondo momento, alle decisioni politiche. Merito del sindacato sarà riuscire ad intercettare queste richieste e a trasformarle in un elemento di forza della propria organizzazione e della propria azione politica. In una ricostruzione fatta molti anni dopo quegli eventi, Bruno Trentin avrebbe affermato che la riflessione all’interno del sindacato «sul superamento delle vecchie forme della rappresentanza, sulla necessità di costruire nuove regole democratiche nella formazione delle piattaforme rivendicative e nella direzione del conflitto» poteva essere fatta risalire al 1962-63: forse anticipava un po’ gli eventi perché è indubbio che il sindacato viene colto di sorpresa dall’effervescenza e dalla radicalità delle lotte, ad esempio alla Ignis di Trento dove – 7 8 G. Bocca, La fabbrica nevrotica, in Il Giorno, 29 febbraio 1968. M. Regini, Candy, in M. Regini, E. Santi, Candy e Ignis, cit., p. 50. 140 «IL SINDACATO SIAMO NOI». DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE OLTRE IL 1969 sempre per seguire la ricostruzione di Trentin – si arrivò ad «una vera e propria crisi delle forme di direzione e di rappresentanza del sindacato» e ci fu «un confronto, anche molto aspro, all’interno della CGIL e della CISL. Non a caso sui temi cruciali della democrazia e della promozione di forme di rappresentanza di tutti i lavoratori, più adeguate ad esprimere i nuovi contenuti, più marcatamente antiautoritari, del conflitto sociale»9. Ovviamente gli esempi potrebbero essere molti e diversi; mi interessa però ricordare che anche il primo episodio di «recupero» del sindacato nasce per la pressione di una inedita partecipazione operaia e popolare. Mi riferisco allo sciopero generale sulle pensioni che la CGIL aveva indetto dopo aver revocato la sua adesione ad un’intesa che pure aveva appena firmato con la CISL e la UIL, intesa che, come ricorda ancora Trentin, fu contestata, «nella stessa notte in cui fu siglata […] dai deliberati di decine di Comitati direttivi provinciali […] e da migliaia di telegrammi che dalla periferia affluirono a Roma in quelle stesse ore»: una cosa che, aggiunge, «non era mai successa in tutto il dopoguerra»10. Anche gli episodi di scavalcamento della linea sindacale e di successivo recupero del sindacato sono molti e non è possibile rievocarli in questa sede; per quel che ci interessa sarà sufficiente limitarsi a ricordare che la ripresa sindacale otterrà alcuni importanti risultati proprio sotto il profilo della democrazia, della rappresentanza e della partecipazione. Guardiamo prima a quanto succede dentro le fabbriche: nelle lotte si affermano nuovi strumenti organizzativi e di direzione che poi, grazie al coordinamento sindacale, diventano più solidi ed efficaci. Così ai gruppi spontanei di lotta, ai comitati di base ecc., che usano l’assemblea come luogo decisionale in cui si esercita una nuova forma di democrazia diretta, si sostituiscono progressivamente i delegati e i consigli dei delegati: in questo modo il sindacato riesce ad intercettare una esigenza di democrazia diffusa e di vicinanza alla «base» che era stata una delle ragioni che avevano portato il conflitto sociale al suo interno e, allo stesso tempo, riesce a dare a quest’esigenza una forma organizzativa che la rende solida ed efficace. È superfluo, in questa sede, ricordare le caratteristiche profondamente democratiche dei consigli: la partecipazione di tutti i lavoratori, anche di quelli non iscritti al sindacato; l’uso della scheda bianca per le elezioni; la revocabilità del delegato da parte del gruppo omogeneo e così via. Con i consigli si diffonderà insomma un modello di democrazia attiva, partecipativa, che fa proprie alcune istanze tipiche del 1968 – in primo luogo egualitarismo e antiautoritarismo – e che costituisce uno dei più radicali elementi di discontinuità dal passato. Tuttavia la presenza di queste forme di democrazia diretta in una struttura comunque organizzata finirà per assegnare un ruolo di minore importanza allo 9 B. Trentin, Autunno caldo: il secondo biennio rosso, 1968-69, intervista di G. Liguori, Editori Riuniti, Roma 1999, rispettivamente p. 39 e p. 44. 10 Ivi, pp. 79-80. 141 ANDREA SANGIOVANNI strumento che, nella stagione delle lotte, era considerato la principale espressione di democrazia operaia, l’assemblea: infatti, come è stato autorevolmente sottolineato, mentre «si consolida l’organizzazione sindacale in fabbrica, lo strumento dell’assemblea […] tende a venir ridimensionato come mezzo di formazione e di informazione dei lavoratori e, in misura minore, come occasione ad essi offerta di partecipare a momenti emblematici della vita sindacale», mentre il suo ruolo principale, quello di strumento decisionale, diminuisce progressivamente (e questo avviene nonostante che l’assemblea continui ad essere proclamata come il massimo organo decisionale in fabbrica)11. Si può discutere su quanto un tale appannamento del ruolo dell’assemblea costituisca un passo indietro, ma senza scordare che la stessa presenza dei delegati porta profonde trasformazioni negli ambienti di lavoro, delegittimando la forza dispotica dei «capi» e arrivando a costruire una sorta di «contropotere» operaio permanente, sempre sottoposto al vaglio degli operai stessi. Usciamo ora dalle fabbriche. Il «recupero» sindacale aiuta l’affermazione e poi il consolidamento di una nuova immagine pubblica degli operai e dello stesso sindacato, una immagine «democratica» che si contrappone a quella «rivoluzionaria» che era stata dominante tra il 1968 e il 1969. Non è un elemento secondario a mio avviso; infatti l’opinione pubblica individua nel sindacato «il nuovo protagonista della politica italiana» che può svolgere «un’azione costituente del potere politico», come scriveva L’Espresso12. E una rivista cattolica come Rocca arrivava a scrivere che il sindacato aveva «soprattutto un significato nella nostra vita democratica: quello di dar vita ad un nuovo tipo di democrazia, la democrazia pluralista»13. Anche grazie a questa nuova percezione del movimento operaio potrà essere sostenuto l’ambizioso, anche se sfortunato e alla fine inattuato, progetto della cosiddetta «supplenza sindacale»14 che aveva nella democrazia e nella partecipazione due dei suoi assi portanti. E tuttavia l’egemonia di una tale immagine positiva finirà per ostacolare la comprensione delle profonde trasformazioni che di lì a poco coinvolgeranno il mondo del lavoro industriale: il decentramento produttivo e l’emergere della nebulosa di piccole e medie aziende della 11 I. Regalia, Rappresentanza operaia e sindacato: il mutamento di un sistema di relazioni industriali, in A. Pizzorno, E. Reyneri, M. Regini, I. Regalia, Lotte operaie, cit., p. 258. 12 A. Gambino, Le due facce del potere, in L’Espresso, 9 agosto 1970. 13 A. Marzotto, La lezione dell’autunno caldo, in Rocca, 1° febbraio 1970. Per una lettura complessiva di questa rappresentazione si rimanda a A. Sangiovanni, Tute blu, cit., p. 207. 14 Trentin lo descrive come l’ipotesi di «impegnare direttamente grandi masse di lavoratori nella lotta politica per il rinnovamento delle istituzioni rappresentative, per la costruzione di nuovi centri di potere e di aggregazione democratica, capaci di promuovere e di dirigere un processo di riconversione produttiva, e di suscitare, sul suo cammino, sempre nuove forme di controllo e di partecipazione dal basso»: cfr. B. Trentin, Economia e politica nelle lotte operaie dell’ultimo decennio, in Id., Da sfruttati a produttori. Lotte operaie e sviluppo capitalistico dal miracolo economico alla crisi, De Donato, Bari 1977, p. LXXX. Questo progetto di trasformazione sociale a partire dalla fabbrica è alla base della rivista Fabbrica e Stato, il cui primo numero venne pubblicato nel gennaio-febbraio 1972. 142 «IL SINDACATO SIAMO NOI». DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE OLTRE IL 1969 «Terza Italia» sosterranno certo il tessuto industriale del paese durante la crisi della seconda metà degli anni ’70, ma, allo stesso tempo, permetteranno a «figure e propensioni sociali che prima avevano minor rilievo» di manifestarsi sotto forma di «energie individuali scatenate, assenza di controlli, riferimenti preindustriali di buona qualificazione […] [ed] evasione fiscale quasi codificata»15. A metà degli anni ’70, dunque, la situazione che si presenta è quantomai ambigua. Da una parte il «sindacato dei consigli» formatosi nelle lotte dell’Autunno caldo è un modello di riferimento, «una grande esperienza collettiva di democrazia attiva» e «una conquista di autonomia culturale» che si sostanzia nel «rifiuto dell’inferiorità rispetto alla gerarchia arbitraria e alla sovranità del profitto», per usare le parole di Vittorio Foa16. Inoltre, moltiplicando il suo modello con «consigli di zona» ecc., il sindacato crede di poter estendere alla società le conquiste di democrazia e partecipazione che ha ottenuto in fabbrica. Dall’altra parte però, già in quel momento i consigli di fabbrica iniziano a mostrare alcuni segnali di crisi. Sono segni che non si colgono a guardare i numeri: mai come in quegli anni, infatti, il sindacato ha un potere ampio e diffuso che, ad esempio, gli permette di contare su 9.800 consigli di fabbrica e oltre 97.000 delegati nel 197317. E tuttavia solo due anni più tardi, nel 1975, in un convegno ad Assisi viene sottolineato che esiste una «tendenza involutiva» dei consigli di fabbrica che si manifesta soprattutto nel deterioramento dei rapporti con la base: «la maggior parte di essi – si dice – lamenta un atteggiamento di delega crescente da parte dei lavoratori» e una scarsa partecipazione18, cosa che comporta un cambiamento di ruolo della figura dello stesso delegato che si percepisce sempre più come rappresentante sindacale e sempre meno come rappresentante operaio, perdendo quindi la sua caratteristica essenziale di tramite con la base. Colpisce la distanza fra questo «ritorno alla delega» della metà degli anni ’70 e una delle parole d’ordine della lotta alla FIAT del 1969, «Siamo tutti delegati», che, nonostante nascesse fra i gruppi estremisti esterni alla fabbrica e in aperto conflitto con la rappresentanza sindacale della quale contestava il «contratto-bidone», intercettava una diffusa volontà di partecipazione. Una tale discrasia dovrebbe forse spingere ad interrogarsi più a fondo sulle reali forme di partecipazione durante il periodo 1969-1972 e sulla effettiva pervasività delle forme di democrazia, soprattutto perché alla fine del decennio il «ritorno alla delega» si trasformerà spesso in un vero e proprio rifiuto della politica attiva: come dirà 15 Cfr. G. Crainz, Biografia di una repubblica, Donzelli, Roma 2009, p. 110, da cui ho tratto sia l’espressione che la citazione, originariamente in S. Anselmi, Introduzione, in Id. (a cura di), Le Marche, Einaudi, Torino 1987, p. XXIII. 16 V. Foa, Il cavallo e la torre, Einaudi, Torino 1991, p. 292. 17 I dati sono in L. Bertucelli, Piazze e palazzi. Il sindacato tra fabbrica e istituzioni. La CGIL (19691985), Unicopli, Milano 2004, p. 27. 18 A. Castegnaro, Indagine su 22 Consigli di fabbrica, in AA.VV., La democrazia nel sindacato, Mazzotta, Milano 1975, p. 46. Il convegno era intitolato «Per una nuova democrazia: dai Consigli di Fabbrica alle altre strutture di base». 143 ANDREA SANGIOVANNI un operaio a Mantelli e Revelli che gli chiedevano cosa pensasse del rapimento Moro, «Ah, mi so niente eh. Ciami niente a mi. Belelà su i delegati…»19. Questa trasformazione è il risultato di processi convergenti che si possono tratteggiare solo sommariamente. Da una parte c’è la «crisi» – economica, ma anche sociale e politica – in cui il paese si trova dalla metà del decennio, e i cambiamenti che essa comporta. Ne ricordo solo uno, particolarmente importante dal nostro punto di vista: durante quegli anni alcune delle parole chiave del 1969 cambiano di segno rovesciandosi nel loro opposto; si pensi solo all’accordo sul punto unico di contingenza del 1975 che in larghi strati dell’opinione pubblica finisce per trasformare l’egualitarismo in un disvalore20. Da un’altra parte c’è una profonda trasformazione della stessa classe operaia di cui sindacati e partiti di sinistra si avvedono con grande ritardo: si pensi ad esempio alle desolate constatazioni di un delegato che descrive la classe operaia come un «ufo», un oggetto non identificato e un po’ misterioso: «il sindacato, le strutture organizzate della classe operaia – dice – non conoscono il modo di pensare, le aspirazioni, l’effettiva mentalità dei nuovi lavoratori. E secondo me non conoscono più nemmeno i vecchi lavoratori»21. E infine c’è il cambiamento del ruolo del sindacato che impone una progressiva centralizzazione dei suoi processi decisionali. E questo, come ha ben sottolineato Lorenzo Bertucelli, non solo crea tensioni fra le confederazioni e le organizzazioni settoriali (come la FLM), ma produce anche una forte insoddisfazione negli ambienti di lavoro che, «se a volte si manifesta in episodi di clamoroso dissenso, più spesso è causa di una tendenza al ripiegamento dell’iniziativa collettiva e al disimpegno da parte di un numero crescente di lavoratori»22. Sarà proprio a fronte della centralizzazione decisionale del sindacato che ritornerà ad emergere con forza la discussione sulla democrazia interna in una serie di manifestazioni e assemblee in cui, sul finire degli anni ’70, si contestano gli spazi asfittici per il dibattito e il mancato rispetto delle decisioni della base 19 B. Mantelli, M. Revelli, Operai senza politica, Savelli, Roma 1979, p. 19. Vale la pena di ricordare anche quanto scrive Berta: il punto unico di contingenza divide «due Italie economiche: al di qua quella strutturata intorno alle grandi imprese private e pubbliche, all’organizzazione di massa della produzione e della società; al di là quella tendenzialmente destrutturata, fluida, in cui convivono senza più gerarchie forme d’impresa eterogenee e si affermano comportamenti meno omogenei, più individualistici, più autonomi dalle reti e dalle norme collettive». Cfr. G. Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogia ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, il Mulino, Bologna 2001, p. 246. Da una prospettiva diversa Bertucelli sottolinea che dopo quell’accordo il sindacato «sarà sempre costretto a difendere la conservazione dell’esistente, accentuando la centralizzazione del suo potere negoziale. Il salario viene affidato ad un meccanismo automatico che in definitiva dipende dai rapporti generali di potere che si instaurano nella società. Il sindacato sarà perciò portato ad assumere una più definita dimensione istituzionale inserendosi pienamente nella logica del rapporto con il sistema politico e del confronto diretto con gli imprenditori». L. Bertucelli, Piazze e palazzi, cit., p. 82. 21 G. Girardi (a cura di), Coscienza operaia oggi. I nuovi comportamenti operai in una ricerca gestita dai lavoratori, De Donato, Bari 1980, p. 59. 22 L. Bertucelli, Piazze e palazzi, cit., p. 90. 20 144 «IL SINDACATO SIAMO NOI». DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE OLTRE IL 1969 da parte dei gruppi dirigenti. E tuttavia, ormai, la scelta del sindacato è fatta: dopo il congresso dell’EUR, per citare ancora Bertucelli, «la presa di distanza dal modello del sindacato dei consigli e del potere operaio in fabbrica è chiara: si prepara un’altra stagione in cui il sindacato gioca le sue carte all’interno del mercato politico contando sul sostegno del Partito comunista e sulla riserva di fedeltà dei lavoratori»23. Ma questa riserva non è infinita e, anzi, tende a svuotarsi, soprattutto dal punto di vista della rappresentanza e del rapporto con i lavoratori, con una progressiva erosione dell’autorità della leadership nei confronti degli iscritti. Il sindacato viene sentito dai lavoratori e dagli stessi delegati sempre più come un soggetto politico lontano e non come un soggetto rappresentativo dei loro problemi e dei loro interessi: nelle ricerche sui delegati, che non a caso all’inizio degli anni ’80 iniziano a farsi più numerose, uno dei temi ricorrenti è il «crescente degrado della democrazia interna [che] viene proposto come indice rilevatore e ad un tempo causa profonda della caduta di prestigio, della perdita di potere delle organizzazioni sindacali»24. Si tenga presente però che, come si ricordava prima, fino al 1980 l’immagine pubblica più diffusa del sindacato è quella di un soggetto forte e democratico e la classe operaia viene rappresentata come la classe nazionale che si deve far carico degli interessi di tutto il paese di fronte al «tabernacolo vuoto del Potere», per usare una suggestiva espressione di Eugenio Scalfari25. Questo pregiudizio positivo, ampiamente diffuso nonostante l’esistenza di numerosi elementi di contraddizione (si pensi solo al caso Alfasud), finisce per fare velo ad una realtà ampiamente differenziata, non solo fra fabbriche di grandi e piccole dimensioni, o tra diverse zone geografiche, ma anche all’interno delle stesse grandi aziende. Il caso più noto è quello della FIAT, che viene rivelato dalla nota inchiesta di massa realizzata nei primi mesi del 1980, e in seguito alla quale i giornali parleranno di un operaio che «ha cambiato pelle»26. Non ci si può soffermare a lungo sulle trasformazioni che quella ricerca metteva in evidenza, ma è necessario ricordarne almeno una, relativa al tema che qui ci interessa: alla domanda su che cosa bisognasse intendere per democrazia, la maggior parte degli intervistati (pari al 41,8%) rispondeva con una definizione molto generica, «libertà di manifestare le proprie idee». Questa risposta distanziava di molto le altre due, entrambe più vicine ad una concezione di democrazia improntata alle culture sindacali: infatti la democrazia era definita «lavoro e vita dignitosa per tutti» dal 23 Ivi, p. 104. Il corsivo è mio. G. Porta, C. Simoni, Gli anni difficili. Un’inchiesta fra i delegati FIOM di Brescia, Franco Angeli, Milano 1990, p. 166 e ss. 25 E. Scalfari, L’austero paradiso della classe operaia, in la Repubblica, 26-27 febbraio 1978. Il dibattito sull’egemonia operaia, che parte dall’intervista di Scalfari a Berlinguer (I sacrifici che chiediamo agli operai, in la Repubblica, 24 gennaio 1978), è in G. Russo (a cura di), L’egemonia operaia, Cappelli, Bologna 1978. 26 G. Turani, L’operaio FIAT ha cambiato pelle, in la Repubblica, 22 febbraio 1980. 24 145 ANDREA SANGIOVANNI 26% del campione, mentre solo il 19% degli intervistati la descriveva come «partecipazione dei cittadini a tutte le scelte»27. In linea di massima, emergeva un ritratto del mondo operaio contrastato e lontano dai luoghi comuni, con forti distanze e discrasie fra le avanguardie e l’insieme delle maestranze: un mondo in profonda trasformazione che lo stesso sindacato non riusciva più a rappresentare adeguatamente, come mostra con grande eloquenza una sequenza televisiva di Cronache relativa alla votazione in assemblea dell’accordo che conclude la lotta dei 35 giorni. Difficilmente si possono trovare parole più efficaci di quelle con cui la descrive Marco Revelli, che cito per esteso: è il 16 ottobre 1980 e siamo sul «grande piazzale antistante la palazzina delle Meccaniche di Mirafiori, coperto di ombrelli e di uomini serrati l’uno all’altro in un unico, massiccio blocco. Al centro gli operai, ben riconoscibili dai volti segnati, dai giacconi pesanti. Sul fondo, un po’ distaccata, la folla più rada dei capi e degli impiegati, gli impermeabili chiari, in tranquilla attesa. Sul palco improvvisato, Carniti. Lo speaker invita tutti a chiudere, per qualche minuto, gli ombrelli, poi mette in votazione l’ipotesi di accordo: ‘chi è favorevole?’. Si alzano alcune decine di mani sul fondo. ‘Chi è contrario?’: una selva di pugni chiusi e di braccia alzate. ‘Chi si astiene?’: una mano solitaria si leva al centro del piazzale. Poi, mentre già i più vicini si apprestano a festeggiare, proclama: ‘l’accordo è approvato a grande maggioranza’». In quel momento, commenta Revelli, «si può dire sia morto, nella coscienza operaia, nella memoria, nel senso comune di fabbrica, il concetto stesso di ‘democrazia sindacale’, perché difficilmente chi ha assistito tornerà a credervi»28. È un’affermazione un po’ drastica, forse, ma non troppo distante da quello che sentono anche alcuni operai. Le testimonianze di quegli anni ci descrivono infatti un sindacato centralizzato ed ormai lontano dalla base, decisamente distante dallo spirito democratico del «sindacato dei consigli», di cui, pure, si continuano a conservare le strutture: «Dall’80 a venire a oggi è una tragedia – dice ad esempio un operaio bresciano – Il sindacato non si è mai degnato, in occasioni di accordi nazionali, di venire in fabbrica a chiedere agli interessati se queste cose andavano bene o no. […] Io ricordo un’assemblea nell’83, in cui è venuto il funzionario, ha preso in mano l’accordo, ce l’ha spiegato e poi ha detto: ‘ragazzi, fate tutte le obiezioni che volete, ma questo domani mattina è decreto legge. Voi potete fare tutti gli interventi che volete, proporre questo e quello, ma domani l’accordo è legge e viene applicato’. Più chiaro di così si muore»29. 27 L’inchiesta era stata condotta da Accornero, Baldissera e Scamuzzi (con il CESPE e l’Istituto Gramsci piemontese) e promossa dalla Federazione torinese del PCI. Cfr. A. Accornero, A. Baldissera, S. Scamuzzi, Ricerca di massa sulla condizione operaia alla FIAT: i primi risultati, in Bollettino CESPE, 2 febbraio 1980, e Id., Le origini di una sconfitta: gli operai FIAT alla vigilia dei 35 giorni. Ricerca di massa sulla condizione operaia, in Bollettino CESPE, n. 12, 1990. 28 M. Revelli, Lavorare in FIAT. Da Valletta ad Agnelli a Romiti. Operai Sindacati Robot, Garzanti, Milano 1989, pp. 102 e 103. 29 G. Porta, C. Simoni, Gli anni difficili, cit., p. 169. 146 «IL SINDACATO SIAMO NOI». DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE OLTRE IL 1969 In realtà, non è solo la nuova linea politica del sindacato, sposata a partire dal congresso dell’EUR e ricordata poco fa, che spinge a questa trasformazione; è il generale cambiamento del mondo del lavoro che non consente più di portare avanti l’organizzazione democratica costruita nel 1969 sulla base della grande fabbrica di massa. Queste difficoltà erano già state rilevate a metà degli anni ’70 ma ora, nel decennio successivo, esse esplodono con tutte le loro contraddizioni: com’è stato scritto, allora diventa difficile per gli stessi delegati «definire i soggetti da rappresentare per poterne assumere la tutela, di fronte ad una realtà composita dal punto di vista sociale e culturale, non riconducibile ad una dimensione politica tradizionale. Più difficile [ancora è] decifrare le linee di comportamento richieste dal sindacato, in presenza di una situazione in cui linee, segnali, azioni sono contraddittori e segno essi stessi di una crisi di cultura e di strategia»30. Le contraddizioni, le difficoltà, le incongruenze porteranno infine alla nascita del movimento degli autoconvocati del 1984, costituitosi dopo il cosiddetto «decreto di S. Valentino» sulla scala mobile: non c’è tempo di ripercorrerne qui la vicenda, ma – è bene ricordarlo – essa avrà due dei suoi assi portanti proprio nelle questioni della democrazia e della rappresentatività del sindacato. Il movimento involverà rapidamente, sconfitto da uno degli elementi di debolezza dei delegati, la «doppia rappresentanza»31, in cui l’appartenenza sindacale o di partito (FIOM piuttosto che FIM, e, all’interno della stessa CGIL, comunisti piuttosto che socialisti) avrà la meglio sulla rappresentanza dei lavoratori. Sembra dunque di poter condividere quanto diceva Vittorio Foa in un’intervista di quei giorni. A Maurizio Chierici che gli chiedeva se si potessero fare paralleli fra la «ribellione» dei delegati di quei giorni e l’inizio dell’Autunno caldo, Foa rispondeva: «Qualche fenomeno può assomigliare, ma vorrei dire subito, con molta cautela, che allora eravamo in una fase di forte espansione delle lotte operaie. Oggi non si possono fare paralleli con quel passato. Sono solidale, come vecchio sindacalista, con le manifestazioni, ma lo sbocco che vedo è quello di invitare il sindacato a fare due cose: essere più democratico e non decidere al centro sulla testa della gente, e poi capire che la situazione è completamente cambiata nella composizione della forza di lavoro e nella organizzazione economica. È necessario cogliere i mutamenti che CISL, CGIL e UIL non hanno saputo capire. Un’epoca storica è finita»32. È vero: allora si chiudeva quell’epoca storica che era iniziata con il 1968-69. Ma proprio per questo si può tentare ora, a quattro decenni di distanza, una riflessione sulla sua eredità. In un libro recentissimo Guido Crainz ha analizzato 30 M. Franchi, V. Rieser, Esperienze e culture dei delegati. Un’indagine nella realtà metalmeccanica modenese, Bonhoeffer edizioni, Reggio Emilia 1984, p. 287. Il corsivo è mio. 31 La definizione è di M. Franchi, V. Rieser, Esperienze e culture, cit. 32 M. Chierici, Foa: «Il sindacato potrà ritrovare l’unità solo se saprà tornare con i piedi per terra», in Corriere della Sera, 9 marzo 1984. I corsivi sono miei. 147 ANDREA SANGIOVANNI «le radici dell’Italia attuale» ed ha osservato che il 1968 ha presto esaurito la sua spinta innovatrice per l’incapacità di riscrivere le «regole del gioco» politico e sociale dopo aver mostrato l’inadeguatezza di quelle allora esistenti33. Forse – pur con tutti i suoi limiti – non si può dire lo stesso per il 1969. Come ho cercato di mostrare, uno degli elementi di forza dell’esperienza consiliare fu l’incontro fra la spinta ad una democrazia partecipativa che proveniva dalla base e la capacità organizzativa delle strutture sindacali. Certo, non tutto funzionò alla perfezione ma, come ha scritto Ida Regalia, proprio il carattere imperfetto di quel sistema di rappresentanza, la sua apertura e la sua adattabilità, addirittura la «duplicità» dei delegati (che prima ho indicato come uno degli elementi della loro debolezza) sono stati in realtà la forza dei consigli di fabbrica, ciò che ha permesso loro di continuare ad esistere e lavorare, anche se spesso in una forma poco riconosciuta, sfuggente, non di rado quasi invisibile. Essi, seguendo la loro natura adattabile, col tempo hanno anche finito per cambiare pelle: per usare le parole di Regalia, «sono diventati un modo per dar voce e far da tramite collettivo tra il personale e la direzione in imprese che stanno cercando alternative flessibili» ai modelli di produzione standardizzata di massa, al cui interno erano nati34. Grazie a questa capacità di adattamento ad un mondo del lavoro in trasformazione, essi hanno «aiutato i sindacati ad aumentare il proprio seguito nei periodi di mobilitazione operaia e a resistere in quelli di crisi»35. La stagione dei consigli di fabbrica si è definitivamente chiusa, anche dal punto di vista formale, nel 1993 con la costituzione delle Rappresentanze sindacali unitarie (RSU). Le caratteristiche di questo modello di rappresentanza sono tali da non consentire alcun parallelo con quello precedente: e tuttavia viene da chiedersi se non potrebbero, in qualche misura, essere considerate come una delle «lunghe eredità» del 1969, almeno sotto il profilo della democrazia. In uno studio recente si è infatti messo in evidenza che tra i diversi modelli di democrazia perseguiti dal sindacato, quella di base è in linea di massima trascurata e sottovalutata: nonostante ciò, o forse proprio grazie al fatto che, per questo motivo esistono degli spazi poco organizzati in cui riescono ad inserirsi, le RSU si rivelano spesso capaci di coinvolgere democraticamente i lavoratori nel processo decisionale «anche se con strumenti oscillanti e poco formalizzati»36. Non si può forse scorgere in questa caratteristica adattabilità e nella persistenza di forme non formalizzate di coinvolgimento democratico nel processo decisionale un esile filo di continuità con una delle lezioni più significative del 1969? Certo, a confronto con la duttilità che aveva saputo manifestare nel 1968-69, oggi il sindacato può sembrare ancora una volta bloccato, o quantomeno incerto: a 33 Cfr. G. Crainz, Autobiografia, cit., pp. 96-99. I. Regalia, Ancora sui delegati e consigli di fabbrica, in Parole chiave, n.s. 1969, n. 18, 1998, p. 240. 35 Ivi, p. 237. 36 A. Braga, D. Carrieri, Sindacato e delegati alla prova del lavoro che cambia, Donzelli, Roma 2007, p. 43; il corsivo è mio. 34 148 «IL SINDACATO SIAMO NOI». DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE OLTRE IL 1969 fronte della positiva svolta del «sindacato dei diritti», una riconfigurazione che in qualche modo è riuscita a liberare la CGIL dalle strettoie degli anni ’8037, la rappresentanza è ancora «minacciata», per dirla con Carrieri38, anche perché entrambe le concezioni di democrazia – indiretta o diretta – presenti nel sindacato «danno […] per scontato che il campo del lavoro organizzato sia dato una volta per tutte e vada solo soppesato: mentre esso è in continuo movimento e richiede piuttosto la risistemazione dei confini»39. L’attuale complessità di un mondo del lavoro sempre più globalizzato e interconnesso, e le sfide che esso presenta ai lavoratori e alla loro rappresentanza, sono stati descritti con grande chiarezza da Luciano Gallino in un articolo in cui ricordava la celebrazione della giornata mondiale del Lavoro Dignitoso40. Eravamo partiti dai lavoratori che rivendicavano la propria dignità e la possibilità di immaginare un futuro migliore. Oggi, dopo quarant’anni, un mondo industriale completamente trasformato, nuove scale di valori, e operai che, dopo essere rimasti «senza politica» alla fine degli anni ’70, oggi sono anche «senza classe»41, sembra di essere ancora lì. È solo un errore prospettico, naturalmente. Però, forse, alcuni aspetti del 1969 possono ancora insegnare qualcosa: la capacità che il sindacato allora dimostrò di incanalare la spinta alla partecipazione che veniva dalla società trasformando – per usare le parole di Foa – la «democrazia operaia» in «democrazia sindacale» è uno di questi. 37 Così lo descrive Lorenzo Bertucelli: «di fronte ad una ormai impossibile mediazione che parta dalle realtà produttive dei diversi mondi del lavoro, si accentua una dimensione unificante imperniata su un’idea forte di cittadinanza. Così il sindacato, unica organizzazione di massa sopravvissuta alla fine della società industriale, promuove un generale riassetto strategico che lo porta ad assegnare una funzione di rilievo – che si aggiunge e non sostituisce quella contrattuale – alla difesa dei diritti sociali dei cittadini e del valore sociale del lavoro, cioè come valore culturale imprescindibile per coniugare diritti e libertà collettive». L. Bertucelli, Piazze e palazzi, cit., p. 213. 38 A. Braga, D. Carrieri, Sindacato e delegati, cit., p. 5. 39 Ivi, p. 64. 40 L. Gallino, I salari senza dignità, in la Repubblica, 7 ottobre 2009. L’articolo è stato pubblicato il giorno precedente all’apertura del convegno. 41 C. Cristofori (a cura di), Operai senza classe. La fabbrica globale e il nuovo capitalismo. Un viaggio nella ThyssenKrupp Acciai Speciali di Terni, Franco Angeli, Milano 2009. 149 PARTE TERZA Fabbrica, società e territori La scoperta del territorio di Paolo Giovannini Accade qualcosa di singolare nell’Italia degli anni ’70, su cui probabilmente non si è ancora sufficientemente riflettuto. Per vie diverse, e senza che – almeno in apparenza – si possano stabilire delle relazioni, già a partire dagli inizi del decennio si avvia un processo materiale ma anche simbolico e culturale di scoperta del territorio. Da una parte, comincia a farsi strada nel dibattito pubblico, economico e politico, la crescente centralità delle non poche aree a forte sviluppo industriale (ma popolate in gran parte da piccole e piccolissime imprese) che si sono o si stanno affermando nel Centro e nel Nord-est del paese. Dati alla mano, ci si rende progressivamente conto che quel «capitalismo straccione» ignorato dalla cultura di destra e di sinistra, ritenuto da tutti in via di inesorabile superamento, sta coprendo spazi sempre più ampi nel mondo della produzione industriale, superando e per certi aspetti mettendo in crisi la mediagrande impresa. Gli studi condotti in quegli anni (e negli anni successivi) dimostreranno in modo convincente come le ragioni profonde del successo di quelle aree di piccola impresa dovessero essere ricercate nelle caratteristiche sociali e culturali del territorio in cui erano insediate, nella capacità del mondo del lavoro di capirne ed esprimerne le aspettative, i bisogni, le vocazioni – quelle nobili come quelle meno nobili. Accanto a questa prima via verso la scoperta del territorio se ne muove però un’altra, che prende questa volta le mosse dalla fabbrica (grande più che media) e che in pochi anni – a cavallo del 1969 ma soprattutto nei primi anni ’70 – stabilisce una relazione strettissima con il territorio, che come vedremo avrà effetti di grande rilievo sulle sorti del movimento del 1969, sulla sua istituzionalizzazione, sul contenuto delle sue piattaforme rivendicative, sulla stessa struttura organizzativa e di rappresentanza del sindacato e su molte altre cose ancora. È questa la storia che proverò a raccontare qui di seguito, dando per conosciuta l’altra, ma comunque cercando – se ci riesco – di mostrarne alcune connessioni. Proviamo idealtipicamente a ricostruire le tappe principali di questo processo, le sue ragioni sociali come le sue connotazioni ideologiche e politiche. Gli anni ’60, come sappiamo, sono anni di boom, di crisi e di ristrutturazioni, che 153 PAOLO GIOVANNINI cambiano radicalmente il panorama produttivo dell’Italia di allora. Il decennio rimane comunque l’unico nella storia d’Italia che vede in posizione dominante il settore industriale – già nel 1971 il censimento registrerà il suo superamento da parte del settore terziario – e un indiscusso primato, economico ma soprattutto politico, della media-grande impresa, cui si accompagna una crescente centralità della classe operaia e delle sue rappresentanze sindacali e politiche: una classe operaia profondamente rinnovata nella sua composizione sociale, professionale, generazionale e persino etnica come conseguenza dei grandi processi di riorganizzazione produttiva degli anni seguiti alla crisi del 1962-63 e della razionalizzazione che ne era seguita1. All’affacciarsi del «biennio rosso» 1968-69 cultura ideologica e rappresentanza politica e sindacale della sinistra si presentano dunque solidamente insediate dentro le mura della grande fabbrica e della classe sociale che la abita, con i suoi valori, i suoi interessi e i suoi obiettivi. Ad essa corrispondono strutture di rappresentanza politica e sindacale che danno spazio e voce soprattutto a quella ancora consistente e sempre potente sezione del mondo del lavoro che è la classe operaia professionale, anche se ormai minacciata dall’inarrestabile avanzata di una classe operaia nuova, giovane, a bassa o nulla professionalità, meridionale ma spesso di seconda generazione, quindi inserita da tempo nei quartieri operai e nelle periferie industriali delle grandi città – specialmente del Nord, ma non solo. L’esplosione del ’68, come accade sempre quando si mette in moto un movimento sociale, ridisegna drasticamente il quadro appena descritto, con la rapidità, l’intensità e la violenza (per usare le categorie di Dahrendorf del 1957)2 che sono tipiche dei momenti storici di grande cambiamento. Compaiono improvvisamente sulla scena, seppure annunciati dai fermenti delle università americane fin dai primi anni ’60, nuovi soggetti e nuove classi sociali, gli studenti delle università e con loro i ceti medi urbani e professionali delle grandi città. Non starò naturalmente a ripercorrere tutto il processo cui dà vita il movimento del ’68 – lo abbiamo già fatto, in buona misura, nel nostro convegno di qualche anno fa sui «bienni rossi» del Novecento3. Ma vorrei sottolineare, dato il tema della mia relazione, come già il movimento studentesco, emerso apparentemente di colpo nelle università e sui problemi dell’università, esca quasi subito da quegli stretti confini per dilagare nelle città, scoprendo un territorio di intervento politico e sociale che arriva rapidamente fino ai cancelli delle fabbriche4. Università, città, 1 M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali, il Mulino, Bologna 1972. R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classi nella società industriale, Laterza, Bari 1965 (ed. orig. 1957). 3 I due «bienni rossi» del Novecento: 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto, a cura di ABB e Fondazione Di Vittorio, Ediesse, Roma 2006. 4 A differenza di oggi, le fabbriche erano allora insediate nelle periferie urbane, e anzi qualche volta immerse nello stesso tessuto urbano. Una situazione di rilievo non solo urbanistico e ambientale, ma anche – come alludo nel testo – altamente simbolica sul piano sociale e culturale. 2 154 LA SCOPERTA DEL TERRITORIO fabbrica vengono così rapidamente a costituire i tre luoghi nei quali si muove e sui quali agisce il movimento del ’68. Ma cosa accade in questa breve fase in cui – come è stato detto un po’ retoricamente – il testimone passa dagli studenti agli operai? Si tratta a mio parere di un passaggio cruciale sotto vari profili, e sul quale mi fermo un momento soprattutto per capire meglio genesi e novità delle rivendicazioni sindacali ed operaie dopo il 1968. Ne richiamerò solo alcuni, ma non poco significativi. L’incontro tra studenti e operai ha vari sensi, di natura politica e di natura sociale e culturale. È prima di tutto un incontro e un confronto tra classi sociali diverse, tra i figli della piccola e media (e qualche volta grande) borghesia e le nuove generazioni operaie: una strana alleanza sociale che si stipula simbolicamente davanti ai cancelli delle fabbriche, soprattutto nelle grandi e nelle medie città industriali del Nord e del Centro Italia. L’incontro tra questi due soggetti sociali ha più sensi e produce più di un risultato. Primo, il mondo della cultura e dell’istruzione entra in qualche modo a contatto con il mondo del lavoro e della produzione, favorendone l’approdo su quel piano egualitario su cui era già insediato il movimento studentesco. Inizia da qui, a mio parere, quel generoso tentativo di superamento della divisione storica tra lavoro manuale (ed esecutivo) e lavoro intellettuale (e direttivo) che sarà al centro della rivendicazione sindacale per non pochi anni. Diritto all’informazione, controllo sugli investimenti, inquadramento unico, 150 ore e corsi monografici, alternanza scuolalavoro, sono tutti obiettivi intorno ai quali per un tempo non breve si costruiranno piattaforme e vertenze sindacali, con risultati non sempre di grande rilievo ma comunque indicativi del percorso – utopistico e concreto insieme – intrapreso dal movimento operaio durante e dopo l’Autunno caldo. L’incontro tra studenti e operai è anche uno strano incontro generazionale, tra giovani universitari delle città del Nord e del Centro e giovani operai (spesso di origine meridionale, come ho detto) ingaggiati per un lavoro di massa e a scarsa qualificazione, e che – a differenza dei loro compagni più anziani e più qualificati – guardano alla fabbrica ma anche alla città e al territorio, sia per ciò che possono dare in termini di servizi (dalla casa ai trasporti agli asili-nido) sia per ciò che possono offrire sul piano del loisir. Più in generale, questo incontro tra diversi (studenti del Nord, operai del Sud) porta con sé due significati di grande rilievo politico e sociale. Vengono affermati, nei fatti, due valori-cardine della stagione che seguirà al ’68-69: quello dell’egualitarismo antiautoritario, e quello dell’integrazione sociale e culturale. Due valori, si noti, che presuppongono entrambi il principio della supremazia dell’interesse generale contro ogni logica particolaristica, sia pure di classe, e che si applicano a tutti gli aspetti della convivenza sociale, anche al di fuori e al di là dei tradizionali ambiti di studio e di lavoro. La scoperta del territorio, naturalmente, non avviene di colpo, né senza incertezze e arretramenti. Troppo forte e troppo radicato nella cultura operaia (e in genere nella cultura industriale, anche di parte padronale) è il valore della 155 PAOLO GIOVANNINI fabbrica, quel luogo concreto e simbolico insieme dove si toccano con mano le disuguaglianze (e le ingiustizie) del sistema capitalistico, dove si concentra materialmente la classe operaia e dove essa prende coscienza dei suoi interessi e della sua forza, dove esprime le proprie rappresentanze e dove costruisce e persegue i propri obiettivi rivendicativi. Un secolo e più di marxismo, la cui potenza ideologica si è espressa con successo soprattutto nelle organizzazioni di rappresentanza sindacale e politica del mondo del lavoro, ha certamente lasciato il segno, e continuerà a lungo a pesare sulle scelte e sulle strategie rivendicative del movimento operaio. Proviamo allora, almeno su alcuni versanti, a ricostruire questo passaggio di non breve durata, tortuoso e non senza ambiguità, come dirò più avanti, dalla fabbrica alla città – potremmo dire: dalla fabbrica alla società. Per ricollegarci alla parte iniziale di questa relazione, comincerei a vedere come e con quali idee si sono mosse le rappresentanze di fabbrica, a partire dal 1968 e negli anni che seguono, nei confronti del mondo produttivo circostante. Un mondo almeno parzialmente generato dalla stessa (grande) fabbrica, attraverso pratiche di decentramento produttivo e per il proliferare più o meno spontaneo di un indotto a limitato raggio territoriale. Si noti, per inciso, l’uso di questi due termini, che danno entrambi il senso di qualcosa che va dal centro alla periferia (del lavoro, dello sviluppo) o che è «indotto» (appunto) dalla stessa e sola presenza fisica della fabbrica, dei suoi edifici, delle sue macchine, dei suoi uomini. Imprenditori e manager, specialmente dopo le asprezze dell’Autunno caldo e ancor più durante e dopo il cosiddetto periodo della «conflittualità permanente» (che dura almeno fino al 1972), perseguono quando possono politiche di decentramento produttivo, per molti motivi ma non per ultimo per indebolire quantitativamente e organizzativamente la classe operaia di fabbrica. La quale resiste e reagisce, qualche volta con successo, riuscendo persino a far rientrare alcune lavorazioni all’interno della fabbrica. Ma presto, quasi inconsapevolmente, la strategia diventa un’altra – quanto spontanea e quanto guidata è problema aperto, su cui farò qualche cenno fra poco. La classe operaia di grande fabbrica e le sue rappresentanze, in virtù di un’egemonia economica e produttiva ma anche politica e culturale, estendono la loro tutela anche al mondo produttivo esternalizzato o semplicemente esterno, dando voce a interessi deboli e frammentati e assumendosene la rappresentanza. È su questo terreno che si incrociano confusamente, per alcuni anni, due differenti logiche di sviluppo, una che parte dalle grandi imprese (delocalizzazione e decentramento produttivo) e una che muove dal basso, magari a volte dalla loro stessa dissoluzione5. Nell’uno e nell’altro caso, settore industriale e territorio finiscono per confondersi, specialmente là dove – come nelle aree distrettuali – tende a prevalere una vo- 5 Un modello di genesi del distretto industriale che contava in passato non pochi esempi: vedi il Fabbricone a Prato o le Officine Reggiane a Reggio Emilia. 156 LA SCOPERTA DEL TERRITORIO cazione monoproduttiva. Insieme ad altre ragioni che vedremo subito dopo, queste trasformazioni spingono presto il sindacato a dotarsi di rappresentanze territoriali (come i consigli di zona) e a prestare attenzione non solo alle tradizionali disuguaglianze verticali tipiche del sindacalismo di grande fabbrica ma anche alle disuguaglianze orizzontali presenti sul territorio (come semmai era nella tradizione del sindacalismo degli inizi del Novecento)6. Un secondo e forse più rilevante percorso di scoperta del territorio è quello che – paradossalmente – origina da una consuetudine di impegno quasi esclusivo da parte di lavoratori e rappresentanze sindacali sui problemi interni della fabbrica. Anche qui, la contaminazione totalizzante e radicale conseguente al contatto con il movimento del 1968 – cambiare la società per cambiare le istituzioni – esercita indubbiamente il suo peso, ridando fiato a un’anima «politica» e territorialista storicamente presente nelle tradizioni di lotta e di resistenza del movimento operaio e sindacale fin dalle sue origini, in Gran Bretagna come, in forme assai diverse, in Italia. L’altra anima, di riflessione e di intervento sui temi del taylorismo, della catena di montaggio, dei modi e dei ritmi dell’attività lavorativa, e naturalmente su ciò che ad essi è intimamente collegato, e cioè produttività e remunerazione del lavoro, rimane indubbiamente centrale, ma prende rapidamente corpo la consapevolezza che quelle analisi e quegli interventi non siano sufficienti e che si debba guardare anche a ciò che accade fuori delle mura della fabbrica, nei luoghi troppo trascurati della società locale e del suo governo politico, amministrativo e istituzionale7. A partire dall’Autunno caldo, alle consuete tematiche vertenziali si aggiungono, in rapida successione, nuovi fronti. Quello della salute, prima di tutto, fino allora affrontato nella sua diretta relazione con le condizioni di lavoro (su questo si veda la relazione di Carnevale e Causarano pubblicata in questo volume), ma che presto mostra la sua logica e inevitabile connessione con ciò che succede nel mondo di fuori, nell’ambiente fisico (la cui qualità è spesso pesantemente condizionata dalla stessa produzione di fabbrica), ma anche sul piano più decisamente politico e istituzionale dell’assistenza sanitaria e della prevenzione delle malattie. Quello dei trasporti, la cui maggiore o minore efficienza incide fortemente sui tempi e sulla fatica del lavoro. Quello dell’abitazione, per i costi che richiede – che decurtano pesantemente il salario – ma anche per la sua localizzazione e per il più o meno difficoltoso accesso ai servizi. Infine, quello dell’istruzione, specialmente per la prima e la seconda infanzia (asili-nido, scuole materne, scuole elementari), che gioca un ruolo decisivo 6 Mi riferisco, in particolare, alle Camere del lavoro emiliane e toscane e al sindacalismo bracciantile e artigiano. 7 È una consapevolezza che riemerge periodicamente nella storia delle relazioni industriali, come hanno dimostrato fin dagli anni ’20 del Novecento molte ricerche di sociologia industriale, anche se certamente più nei periodi di crisi e di disoccupazione che nelle fasi di più sicuro sviluppo; F. Buccarelli, Culture di fabbrica e culture del territorio, in P. Causarano, L. Falossi e P. Giovannini (a cura di), Mondi operai, culture del lavoro e identità sindacali. Il Novecento italiano, Ediesse, Roma 2008, pp. 63-87. 157 PAOLO GIOVANNINI nel consentire il lavoro femminile ma più in generale nel rendere meno problematica la gestione del tempo familiare8. Che significato ha e quali conseguenze comporta questa progressiva estensione dell’interesse operaio e sindacale verso tematiche cruciali del territorio? A mio parere molte, e di grande peso. Uscendo ma non abbandonando la fabbrica, la classe operaia centrale (come veniva emblematicamente definita allora) estende la sua egemonia sul territorio – e, quindi, sulla polis – mettendo contemporaneamente in moto processi sociali e politici di grande rilevanza e di lunga durata. Provo a ricordare i principali. Se è vero, come ho detto, che la decisione di affrontare i problemi del territorio nasce dalla presa di coscienza che gli interessi dei lavoratori della fabbrica sono fortemente dipendenti da ciò che succede all’esterno delle sue mura, è pur vero che questa motivazione per così dire «egoistica» si perde poi inevitabilmente nella pratica vertenziale, nella quale si opera un processo di riunificazione della classe lavoratrice (di grande e piccola impresa, ma anche di settori non industriali) e direi persino di gran parte della popolazione del territorio intorno a obiettivi comuni e condivisi9. Sul piano sindacale, questo processo di unificazione sociale degli interessi dà fiato e corpo alla prospettiva, sempre reclamata ma mai realmente perseguita, dell’unità, che non a caso troverà proprio nei primi anni ’70 la forza di sperimentare la tenuta di strutture organizzative unitarie, come è avvenuto con la FLM a partire dal 1973. Questa stagione di lotte sul territorio apre poi una serie di finestre che porteranno il sindacato a impegnarsi su nuovi versanti, contribuendo inoltre a una importante ridefinizione concettuale dei propri obiettivi strategici. Certo non in via esclusiva, ma nemmeno poco importante, la pratica vertenziale di quegli anni sposta decisamente il baricentro della contrattazione verso quei diritti collettivi (come ci si esprime nel linguaggio sindacale, ma che sono in definitiva diritti sociali) che, affermati a parole, e magari scritti persino nella Carta costituzionale, stentavano (e stentano) ad affermare la loro legittimità, politica prima che giuridica: il diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione, a un ambiente sano e pulito; tutti diritti riconducibili a quella piena condizione di cittadinanza che come si sa dopo non molti anni (nel 1991, al XII Congresso della CGIL) si troverà al centro dell’attenzione del sindacato. 8 Questa molteplicità di fronti si apre su un territorio che – sia detto per inciso – non viene burocraticamente definito in termini semplicemente geografici o amministrativi, ma che – ed è una lezione importante per tutti gli studiosi dei luoghi e delle società locali – si allarga variabilmente fino a comprendere tutta l’area di interesse diretto o indiretto della fabbrica. Per citare un caso che conosco bene, il consiglio di fabbrica del Nuovo Pignone di Firenze si impegnava in quegli anni anche in aree lontane dalla fabbrica, come il Mugello, per la ragione che non pochi lavoratori si muovevano giornalmente da quelle zone. 9 Per fare un piccolo esempio, la lotta per ottenere mense «aperte» (cioè non per i soli dipendenti dell’azienda) fa toccare con mano a molti lavoratori di piccola e piccolissima impresa – nella pratica quotidiana del pasto – la tensione unitaria che anima i lavoratori della grande fabbrica. 158 LA SCOPERTA DEL TERRITORIO Questa ridefinizione degli obiettivi sindacali porta anche, inevitabilmente, a una ridefinizione degli strumenti organizzativi e delle logiche della rappresentanza nel movimento sindacale. Allargando la sua sfera d’azione dalla fabbrica al territorio, si fanno giocoforza più deboli la presenza e la potenza nei luoghi di lavoro, mentre riprendono fiato le strutture di rappresentanza territoriale, sancendo il passaggio da una fase movimentista a una fase più istituzionale, dove lo spazio e il peso dell’organizzazione e della dirigenza sindacale si fanno progressivamente crescenti rispetto alla base. Entriamo negli anni in cui, attenuato ma non spento lo slancio movimentista, si assiste a un rapido processo di recupero del sindacato-istituzione, favorito – bisogna dire – da una intelligente (o obbligata?) politica di ricambio della leadership, che porta nei quadri e nella direzione del sindacato non pochi elementi emersi dal movimento o comunque espressi nella fase calda dell’azione sindacale10. Si tratta di una nuova classe dirigente caratterizzata da una forte e lunga stabilità, che arriva quasi ai nostri giorni. Concorrono a garantire questa continuità di comando non solo la spesso giovanissima età di ingresso della nuova leadership – che a lungo non richiede un cambiamento generazionale – ma a mio parere le stesse mutate condizioni di esercizio dell’attività sindacale. A partire dal 1974, il sistema di relazioni industriali si viene stabilizzando intorno a pratiche di contrattazione che costituiscono la naturale conseguenza di un’attenzione sempre più esclusiva e di crescente respiro politico per le tematiche del territorio – che a sua volta estende i propri confini fino all’intera società nazionale11. Senza voler forzare troppo il ragionamento, c’è sicuramente un filo rosso che unisce questo spostamento del baricentro contrattuale dalla fabbrica alla società, alle pratiche concertative e poi neocorporative che caratterizzeranno una lunga stagione sindacale, quasi fino ai nostri giorni: coinvolgendo via via in misura crescente un terzo attore nel sistema di relazioni industriali – le istituzioni pubbliche locali e nazionali, il governo, lo Stato. Per tornare al punto. È questa evoluzione, insieme alla giovane età di ingresso, che a mio parere favorisce una così forte e lunga stabilizzazione della leadership sindacale (che, sia detto tra parentesi, porta vicinissimo, negli anni Novanta, a una pericolosa crisi di rappresentanza del sindacato)12. Come aveva dimostrato con logica ferrea la ricerca di Michels sul Partito socialdemocratico tedesco13, la crescente complessità delle tematiche vertenziali che il sindacato si tro10 C. Mershon, Generazioni di leader sindacali in fabbrica: l’eredità dell’Autunno caldo, in Polis, n. 2, 1990, pp. 277-323. 11 Per una precisa ricostruzione di questa fase di evoluzione delle relazioni industriali, cfr. F. Alacevich, Le relazioni industriali in Italia. Cultura e strategie, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1996, specialmente p. 143 ss. e lo schema alle pp. 130-131. 12 P. Giovannini (a cura di), I rumori della crisi. Trasformazioni sociali e identità sindacali, Franco Angeli, Milano 1993. 13 R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna: studi sulle tendenze oligarchiche degli aggregati politici, UTET, Torino 1912 (ed. orig. 1911). 159 PAOLO GIOVANNINI va ad affrontare nel momento in cui scende sul terreno del governo del territorio (e della società), richiede alla leadership sindacale, a tutti i livelli, una professionalità tecnicamente e politicamente sempre più raffinata, che ha la duplice (e non importa se inintenzionale) conseguenza di rendere progressivamente insostituibile (e quindi inamovibile) il personale sindacale e di rallentare così enormemente il processo fisiologico di ricambio dei quadri e dei dirigenti. La politica concertativa è poi a sua volta causa ed effetto insieme di un rafforzamento delle strutture orizzontali del sindacato, il cui personale si trova costantemente in relazione triadica con le rappresentanze politiche del territorio e con le stesse rappresentanze orizzontali del mondo imprenditoriale. Ma se nei momenti di maggiore forza del sindacato questo ruolo di attore politico ha portato a risultati vertenziali di non poco rilievo, i mutamenti intervenuti negli ultimi due decenni hanno reso purtroppo assai meno incisiva la presenza sindacale nelle arene pubbliche, senza che ci sia stata la capacità o la possibilità di ritornare con successo ad operare sindacalmente nei luoghi di lavoro. 160 L’uomo a due dimensioni. I tecnici nell’Autunno caldo, tra identità professionale e lotte sociali di Christian G. De Vito I tecnici «dimezzati» È stata soprattutto la «Scuola di Francoforte» a porre il problema della rilevanza assunta nelle società a capitalismo avanzato dai tecnici, ossia da quell’insieme eterogeneo di figure (dal medico all’insegnante, all’operatore sociale, dall’architetto al direttore carcerario, al magistrato) accomunate dalla centralità che la dimensione professionale acquista nel definire la loro identità sociale. L’analisi dei francofortesi permette così di cogliere la posizione di questi operatori nell’ingranaggio complessivo della società tardo-capitalistica. La loro prospettiva epistemologica appare tuttavia segnata da un profondo determinismo e pessimismo, che si accentuano dopo il secondo conflitto mondiale di fronte alla macchina dello sterminio nazista e alla prosecuzione della logica bellica nel mondo post-atomico intrappolato nella guerra fredda. È l’angolo visuale che domina anche il celebre incipit de L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse: «Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica, non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico»1. È l’idea dell’ineluttabilità della logica di sviluppo capitalistica e, di conseguenza, del carattere effimero di qualunque tipo di resistenza, a partire da quella dei tecnici. Il presente contributo tiene presenti quelle riflessioni, ma, concentrandosi sulla questione della partecipazione dei tecnici ai movimenti sociali sviluppatisi a partire dal biennio 1968-692, sottolinea anche gli aspetti contraddittori del 1 H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1991. 2 Le considerazioni che svolgo nel presente saggio si basano su alcune ricerche che ho condotto nel corso degli ultimi anni, di cui si trovano tracce nelle seguenti pubblicazioni: Carte da legare. Una rete di ricerca sulla storia della psichiatria e del controllo sociale tra età moderna e contemporanea, in Zapruder, n. 6, 2005, pp. 88-91; Guerra, violenze istituzionali e tortura, in Rivista sperimentale di freniatria, n. 1, 2005, pp. 124-141; Ci siamo presi la libertà di lottare. Movimenti dei detenuti in Europa Occidentale, in Zapruder, n. 16, 2008, pp. 8-22 (con Silvia Vaiani); Tecnici e intellettuali dei «saperi speciali» nei movimenti degli anni Settanta a Reggio Emilia, in L. Baldissara (a cura di), Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e 161 CHRISTIAN G. DE VITO ruolo e dei saperi di questi soggetti professionali definiti dalla dialettica costante tra l’ideologia professionale e il contatto ravvicinato con le realtà sociali. Lo stesso Theodor W. Adorno ha sottolineato del resto nei Minima moralia questa doppiezza, osservando che i tecnici, «pur umani e ragionevoli si irrigidiscono in una stupidità patologica nell’attimo in cui cominciano a pensare professionalmente»3. In questo senso, è «l’uomo a due dimensioni» l’oggetto di questo scritto. Alla fine degli anni ’60, per una parte di questi operatori la spinta proveniente dalla società prevale sul mandato professionale. È il processo che il filosofo Pierangelo Di Vittorio ha descritto come «dimezzamento» degli intellettuali e dei tecnici4: rinunciando alla centralità attribuita loro dal mandato professionale, essi rimandano a quelli che Michel Foucault avrebbe successivamente definito «i saperi assoggettati», cioè ai saperi derivati dalle soggettività sociali emergenti; limitato il peso della propria voce, essi intendono «dare la parola» a quanti gli stessi saperi professionali e il potere ad essi collegato hanno contribuito a stigmatizzare e a mantenere subordinati: gli operai e i detenuti, i «pazzi» e gli infermieri, gli studenti, le donne, gli omosessuali. Tale presa di coscienza poggia su una storia precedente. Rintracciarne le origini significa indagare percorsi biografici, prestare attenzione alla dimensione generazionale, sottolineare l’importanza delle reti di relazioni che si creano attorno ad esperienze spesso di tipo extraprofessionale nel periodo 1945-1968. È soprattutto nell’immediato dopoguerra e negli anni ’60 che si creano condizioni favorevoli all’impegno degli intellettuali e dei tecnici. Non si tratta allora di movimenti di massa, ma di singoli individui e piccoli gruppi, che agiscono per lo più in una dimensione locale e sono legati da rapporti personali e scambi intellettuali alimentati anche dall’attività di alcune case editrici. Una forte carica pratiche del conflitto sociale a Reggio Emilia nei «lunghi anni Settanta», L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008; Camosci e girachiavi. Storia del carcere in Italia, 1943-2007, Laterza, Roma-Bari 2009. Si rinvia inoltre alle seguenti ricerche: I luoghi della psichiatria. Servizi di salute mentale in Toscana, per conto della Fondazione Michelucci (in corso di pubblicazione); Comunità dell’Isolotto e mondo operaio, per conto della Comunità dell’Isolotto - Firenze (in corso di svolgimento). A tali ricerche si rimanda, anche per i relativi riferimenti bibliografici, per i punti non altrimenti specificati nelle note che seguono. 3 T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 2005, p. 143. Ponendosi sul terreno storiografico, le intuizioni della Scuola di Francoforte permettono ad esempio di indagare la posizione di varie figure di tecnici nel processo di «modernizzazione» legato al «miracolo economico»: il ruolo degli psicologi e dei sociologi del lavoro nella ristrutturazione dell’organizzazione produttiva, oppure il mandato degli assistenti sociali impegnati nelle fabbriche e nella gestione del fenomeno delle migrazioni interne e dell’inurbamento. Su questi argomenti si veda tra l’altro: C. Trevisan, Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica. Sei anni di attività dell’EGSS, Ente gestione servizio sociale - Case per lavoratori, Roma 1961; R. Rozzi, Psicologi e operai. Soggettività e lavoro nell’industria italiana, Feltrinelli, Milano 1975; C. Musatti, R. Rozzi, F. Novara, G. Baussano, Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilimenti Olivetti, Einaudi, Torino 1980. 4 P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Ombre corte, Verona 1999. 162 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO etica deriva ad essi dall’esperienza bellica, dalla partecipazione attiva alla lotta antifascista, dall’internamento subito nei campi di concentramento. La Costituzione «nata dalla Resistenza» viene spesso assunta come guida morale per un lavoro di rinnovamento culturale. La necessità di formare in senso democratico le nuove generazioni porta ad esempio alla fioritura di movimenti di rinnovamento nell’assistenza sociale, nella scuola e nel pensiero pedagogico, animati spesso da intellettuali legati al mondo azionista5. È il caso dei Centri di orientamento sociale (COS) fondati da Aldo Capitini in varie località dell’Italia centrale, del Movimento di cooperazione civica (MCC), del Movimento di cooperazione educativa (MCE), dei Centri di esercitazione ai metodi dell’educazione attiva (CEMEA). L’influenza delle esperienze anglosassoni nel campo del servizio sociale e gli scambi che alcuni di questi gruppi associativi intrattengono con la Francia evidenziano anche il carattere sovranazionale del nuovo attivismo dei tecnici, che trae origine spesso dalla comune volontà di riscatto dopo il dramma della guerra: è ad esempio il percorso dei fondatori della psychiatrie de secteur francese, già coinvolti nel movimento resistenziale, o del criminologo olandese Louk Hulsman, reduce dai campi di concentramento6. La cappa ideologica degli anni ’50 impedisce in Italia una generalizzazione e uno sbocco riformista di quelle esperienze. Nel settore assistenziale, ad esempio, le promettenti basi poste sul piano istituzionale dai funzionari azionisti del Ministero dell’Assistenza post-bellica svaniscono negli anni del centrismo. Il monopolio della Pontificia opera di assistenza (POA), creata nel 1951, impedisce lo sviluppo di un sistema di servizi sociali pubblici, mentre viene ribadito l’impegno confindustriale per la formazione degli assistenti sociali di fabbrica, in piena continuità con l’epoca fascista7. È un’involuzione che peserà sul futuro dell’assistenza sociale italiana, che solo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del de5 Per le esperienze del dopoguerra si vedano soprattutto: Servizio sociale di comunità, Edizioni Dehoniane, Bologna 1965; A. Pettini, Origini e sviluppi della cooperazione educativa in Italia: dalla CTS al MCE, 1951-1958, Emme, Milano 1980; G. Fofi, Strana gente. 1960: un diario tra Sud e Nord, Donzelli, Roma 1993; E. Catarsi (a cura di), Freinet e la pedagogia popolare in Italia, La Nuova Italia, Scandicci (FI) 1999; C. Trevisan, La storia del «lavoro di territorio» in Italia, in Autonomie locali e servizi sociali. Vademecum a schede, n. 1, 2000; A. Zucconi, Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2000; E. Neve, Il servizio sociale. Fondamenti e cultura di una professione, Carocci, Roma 2000; R. Cutini, La nascita e lo sviluppo della scuola pratica di servizio sociale di Milano (19441950), in La rivista di servizio sociale, n. 1, 2001; G. La Bella, La situazione dell’assistenza sociale in Italia nel dopoguerra, 1945-1950, in La rivista di servizio sociale, n. 2, 2003; P. Giacché, Aldo Capitini. Opposizione e liberazione, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2004; M. Cacioppo, M. Tognetti Bordogna, Il racconto del servizio sociale. Memorie, narrazioni, figure dagli anni Cinquanta ad oggi, Franco Angeli, Milano 2008. 6 Sulla psichiatria di settore francese si rimanda soprattutto a: Histoire de la psichiatrie de secteur (ou le secteur impossibile), n. sp. di Recherches, n. 17, 1975; L. Bonnafe, La psichiatria di settore: dibattito sull’esperienza francese, Cleup, Padova 1978; M. Audisio, la psichiatrie de secteur. Une psichiatrie militante pour la santé mentale, Privat, Toulouse 1980. Su Louk Hulsman si rinvia soprattutto a: J. Bernat de Celis, L. Hulsman, Pene perdute: il sistema penale messo in discussione, Colibrì, Paderno Dugnano 2001. 7 A. Zucconi, Cinquant’anni, cit., p. 70. 163 CHRISTIAN G. DE VITO cennio successivo conoscerà un processo di legittimazione e organizzazione istituzionale. L’attivismo di una parte del mondo degli intellettuali e dei tecnici non si arresta negli anni ’50, ma è costretto ormai in una posizione marginale rispetto al dibattito politico. Il rifiuto dell’approccio ideologico e propagandistico dominante la fase della guerra fredda porta singoli individui con formazione culturale e politica diversa tra loro e cercare un contatto diretto con la realtà sociale, attraverso un impegno che fonde insieme ricerca, militanza e intervento assistenziale e che si accompagna alla pratica dell’inchiesta. Tornano alla mente le figure di Guido Calogero, Maria Comandini e Angela Zucconi, fondatori del Centro di educazione professionale per assistenti sociali (CEPAS), o il coinvolgimento dell’architetto Ludovico Quaroni nelle inchieste sociali nelle borgate romane; viene da pensare alla tensione culturale ed etica che conduce alcuni intellettuali alla scoperta della «cultura popolare» del Meridione, a seguito della pubblicazione del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, sulla scia degli studi di Ernesto De Martino e delle impegnate narrazioni di Rocco Scotellaro, quest’ultimo del resto direttamente impegnato nel movimento di occupazione delle terre. Un contesto dal quale emerge anche la complessa figura di Danilo Dolci; un fermento al quale non è estraneo il comunitarismo di Adriano Olivetti8. Nella prima parte degli anni ’60 queste reti di relazioni si moltiplicano e si ha l’introduzione di chiavi interpretative e modalità di intervento che verranno poi riprese dopo il 1968-69. Specularmente all’interessamento per il mondo rurale meridionale, gruppi di intellettuali cominciano ad interessarsi anche al fenomeno migratorio che si dirige verso i centri urbani del triangolo industriale. Ne nascono inchieste che diventeranno veri e propri modelli per la produzione successiva: quella di Alessandro Pizzorno sul «caso» di Rescaldina, di Danilo Montaldi e Franco Alasia sulle «coree» milanesi, di Goffredo Fofi sull’immigrazione meridionale a Torino9. 8 Sull’inchiesta sociale si vedano ad esempio: T. Tentori (a cura di), Ricerche sociali in Italia, 19451965, AAI, Roma 1966; A. Bruni, G. Gobo, Ricerca qualitativa in Italia, in FQS, n. 3, 2005; M.L. Granzotto, C. Pasqual (a cura di), Andare a vedere. Inchiesta, reportage, resoconto. Atti della giornata di studio organizzata da storiAmestre ed Etam-Animazione di comunità e territorio (Mestre, 19 novembre 2004), Quaderni di storiAmestre, 2006. Per gli autori e le esperienze citate nel testo: C. Pasquinelli, Antropologia culturale e questione meridionale. Ernesto De Martino e il dibattito sul mondo popolare subalterno negli anni 1948-1955, La Nuova Italia, Firenze 1977; U. Serafini, Adriano Olivetti e il Movimento Comunità: una anticipazione scomoda, un discorso aperto, Officina, Roma 1982; R. Scotellaro, L’uva puttanella. Contadini del Sud, Laterza, Roma-Bari 2000; R. Cutini, Il servizio sociale italiano nel secondo dopoguerra, cit.; C. Olmo (a cura di), Costruire la città dell’uomo: Adriano Olivetti e l’urbanistica, Edizioni di Comunità, Torino 2001; C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 2005; D. Dolci, Racconti siciliani, Sellerio, Palermo 2008; D. Dolci, Banditi a Partinico, Sellerio, Palermo 2009. 9 F. Alasia, D. Montaldi (a cura di), Milano, Corea: inchiesta sugli immigrati, Feltrinelli, Milano 1960; G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1964; A. Pizzorno, Comunità e razionalizzazione. Ricerca sociologica su un caso di sviluppo industriale, Marsilio, Venezia 2010. Per i riferimenti citati nel seguito del testo si rinvia ad esempio a: E. Pugno, S. Garavini, Gli anni duri alla 164 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO Emerge anche una rinnovata attenzione per le trasformazioni in corso nell’organizzazione produttiva e nella composizione della classe operaia dei principali stabilimenti industriali. In questo senso l’approfondimento teorico e la pratica della con-ricerca proposti dal gruppo dei Quaderni Rossi presentano vari punti di contatto con la riflessione sviluppatasi nella Camera del lavoro torinese all’indomani della sconfitta della FIOM nelle elezioni di commissione interna del 1955. È un impegno a «tornare nelle fabbriche» che si accentua dopo la ripresa conflittuale del 1960-61 e i «fatti di Piazza Statuto» e che risulta determinante anche per la messa a punto del «modello operaio» di intervento sulla condizione di salute in fabbrica a partire dalla contrattazione alla Farmitalia del 1961: esperienza anticipatrice dei principi che si affermeranno a partire dall’Autunno caldo sul terreno dell’affermazione della centralità del sapere operaio e del ruolo strumentale dei tecnici10. Un altro significativo filone di riflessione critica negli anni ’60 è quello che interessa il mondo cattolico nella fase a ridosso del Concilio Vaticano II11. In particolare, si tratta di specifici ambiti del mondo cattolico che elaborano una lettura radicale dei dibattiti conciliari, anche sulla base di precedenti esperienze locali. La diocesi fiorentina ne rappresenta un esempio particolarmente significativo. Sul terreno preparato dall’arcivescovo Elia Dalla Costa e dal «sindaco santo» Giorgio La Pira emergono infatti le vicende di preti-operai come Bruno Borghi, il radicamento popolare della parrocchia dell’Isolotto e la passione polemica di don Lorenzo Milani. Esperienze che portano con sé già a partire dalla fine degli anni ’50 una forte critica dei ruoli e dei saperi tradizionali – non solo riferita all’ambito ecclesiastico – e una esigenza di ridefinire le priorità etiche e politiche in funzione della partecipazione dei gruppi sociali subalterni. Le riflessioni elaborate in quei contesti non mancheranno di incidere direttamente, a partire dal biennio 1968-69, sulla presa di coscienza dei tecnici e degli intellettuali. Basta pensare all’influenza della Lettera a una professoressa sul mondo della scuola e sul contesto pedagogico; oppure al gruppo che si riunisce attorno alla figura carismatica di padre Ernesto Balducci alla Badia fiesolana, del quale faranno parte anche Carmelo Pellicanò, direttore dell’ospedale psichiatrico di Volterra e poi di Firenze, il magistrato del Tribunale dei minorenni Gian Paolo Meucci, il magistrato di sorveglianza Alessandro Margara e il futuro senatore Mario Gozzini, di cui porterà il nome la legge di riforma carceraria del 1986. FIAT: la resistenza sindacale e la ripresa, Einaudi, Torino 1974; G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «Classe operaia», DeriveApprodi, Roma 2008. 10 Sulla medicina del lavoro, cui si fa accenno qui e nel paragrafo seguente, si rinvia al contributo di Francesco Carnevale e Pietro Causarano nel presente volume. 11 Si vedano in particolare: Comunità dell’Isolotto, Isolotto 1954-1969, Laterza, Roma-Bari 1969; L. Milani, Esperienze pastorali, LEF, Firenze 1990; Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1994; B. Camaioni Bocchini, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità, Laterza, Roma-Bari 2002. 165 CHRISTIAN G. DE VITO La repressione che quelle esperienze di rinnovamento religioso subiscono da parte delle gerarchie ecclesiastiche trova un corrispettivo nel perdurare della incapacità della classe politica di proporre una strategia di riforme di struttura che accompagnino la trasformazione economica, mitigando gli squilibri geografici e sociali da essa prodotta. Il carattere bloccato del sistema politico, che contribuirà al «lungo Sessantotto italiano», negli anni ’60 produce ancora isolamento e frammentazione nelle esperienze e nelle riflessioni critiche dei tecnici. Prevale quindi il carattere sperimentale dei tentativi di innovazione, anche se alcuni di essi riescono a divenire «modelli», mescolando ecletticamente proposte teoriche e prassi provenienti dall’estero e il contributo di giovani tecnici accorsi a visitare quei «laboratori». È il caso, tra le altre, dell’esperienza che a partire dal 1961 vede impegnato Franco Basaglia nella trasformazione dell’ospedale psichiatrico di Gorizia, che si arricchisce grazie ai contributi teorici della psichiatria fenomenologica, della psychiatrie de secteur francese, della therapeutic community britannica e dei community mental health centers statunitensi, come pure in virtù della progressiva aggregazione di giovani psichiatri, psicologi e assistenti sociali provenienti da varie città e contesti professionali12. A partire dal 1968-69 questa carica etica, questo bagaglio di esperienze e queste forme di aggregazione «molecolare» dei tecnici hanno la possibilità di rompere l’isolamento e di superare la fase della sperimentazione. Il nuovo clima politico-culturale e la spinta dei movimenti sociali porta gli operatori ad approfondire la riflessione sul proprio ruolo e sui propri saperi, ad ampliare i propri contatti professionali e politici e a denunciare pubblicamente con maggior frequenza e veemenza lo stato delle cose che caratterizza i propri campi di intervento. È un processo di «politicizzazione» che trasforma le organizzazioni esistenti e porta alla creazione di nuove associazioni. Del primo caso sono ad esempio emblematici la scissione che si realizza nel corso del 1969 in seno a Magistratura democratica (raggruppamento sorto nel 1964) e l’acceso dibattito che nel marzo 1970 scuote il convegno di Rimini dell’Associazione nazionale degli assistenti sociali (ASSNAS)13. Tra le nuove forme di partecipazione organizzata spiccano invece Medicina democratica, Psichiatria democratica e il rafforzamento dei sindacati confederali tra gli insegnanti. Dai dibattiti interni alle organizzazioni di categoria si rileva soprattutto il conflitto tra posizioni corporative e posizioni antiautoritarie. Di fronte alla contestazione proveniente dai movimenti sociali, una parte degli operatori auspica il rafforzamento dell’identità professionale entro un quadro di modernizzazione e razionalizzazione dei settori di appartenenza, mentre altri fanno proprie le ragioni dei critici, accettando di mettersi in discussione. 12 Si vedano soprattutto: F. Basaglia, Scritti, Einaudi, Torino 1981, 2 voll.; M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Mondadori, Milano 2001. 13 Si vedano ad esempio: L. Pepino (a cura di), L’eresia di Magistratura democratica: viaggio negli scritti di Giuseppe Borré, Franco Angeli, Milano 2001; E. Neve, Il servizio sociale, cit. 166 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO È comunque soprattutto al livello dei contatti che si instaurano quotidianamente tra operatori e movimenti sociali che è possibile valutare le novità portate tra i tecnici dalle mobilitazioni della breve, ma intensa stagione racchiudibile tra il 1968 e il 1974. È principalmente questa dimensione diffusa e magmatica, già rilevante negli anni ’60, a svilupparsi ulteriormente in quella fase, raggiungendo livelli quantitativi e qualitativi inediti. Al sostanziale isolamento nel quale si erano mossi i piccoli gruppi e le sperimentazioni locali in quel decennio, si sostituisce ora il fiorire di centinaia di collettivi, gruppi, circoli, movimenti. Benché procedano spesso lungo percorsi autonomi, configurando una irriducibile frammentazione organizzativa e teorica, essi partecipano di un clima comune, caratterizzato da alcuni principi ideali e metodologici condivisi. A dare loro una visione unitaria, sia pure talvolta aspramente criticata, c’è la «strategia delle riforme» portata avanti dal movimento sindacale, che tiene insieme settori di intervento tanto diversi quanto la questione abitativa e la riforma sanitaria, il tema del diritto al lavoro e la formazione culturale e politica del mondo operaio. Nella strutturazione dei nuovi servizi sociali corrispondenti a quelle auspicate riforme si prova ad attuare quel collegamento tra «fabbrica e società» che è centrale anche nell’intervento di molti gruppi di tecnici: l’egualitarismo degli «aumenti uguali per tutti» si trasferisce all’esterno degli stabilimenti industriali, divenendo ad esempio rivendicazione dell’universalismo nell’accesso al diritto alla salute; l’antiautoritarismo si traduce in una richiesta di decentramento e partecipazione che impone la centralità del concetto di «territorio» e trasforma il quadro istituzionale: si pensi al ruolo attribuito alle Regioni, al movimento dei quartieri, alla «gestione sociale» nella scuola. Una spia del formarsi di questo terreno comune è anche nella diffusione della pratica dell’inchiesta, che viene a costituire un campo intermedio nel quale si sviluppa il rapporto tra la soggettività operaia e il mondo dei tecnici e degli intellettuali tra la fine degli anni ’60 e il decennio successivo. È una diffusione capillare, che stimola una partecipazione non più confinata a ristretti gruppi di intellettuali e operatori. Emerge così costantemente dai documenti archivistici, con riferimento a lotte locali come in rapporto a esperienze più ampie e strutturalmente più organizzate. La prassi dell’inchiesta si diffonde perché corrisponde ad alcuni dei principi che dominano l’incontro tra tecnici e lavoratori: l’esigenza di superare una dimensione puramente ideologica, immergendosi nel vivo delle contraddizioni politiche e sociali; il coinvolgimento attivo dei protagonisti della scena sociale, valorizzando i loro saperi soffocati dai tecnicismi e dalle ideologie; la dimensione collettiva della ricerca, sottratta alla logica della competizione individuale tra esperti; la necessità di rottura con l’organizzazione tradizionale dei saperi, abbattendo le barriere disciplinari e configurando uno scambio orizzontale tra ricercatori, siano essi professionisti o meno. Un aspetto, quest’ultimo, ben esplicitato anche dall’esperienza della rivista Inchiesta: nel corso degli anni ’70 essa non si limita a proporre temi di inchiesta e a svolgerli secondo le consuete modalità accademiche; si fa invece snodo fon167 CHRISTIAN G. DE VITO damentale di relazioni tra collettivi di ricerca eterogenei sia per composizione sociale e formazione culturale che per localizzazione geografica. In tutte le inchieste di quegli anni la partecipazione dei tecnici è ampia e insieme al contatto con i lavoratori, divenuti «con-ricercatori», contribuisce a rompere la tradizionale autoreferenzialità dei professionisti della ricerca e l’isolamento degli operatori sociali. L’inchiesta risponde alle necessità epistemologiche e organizzative dei nuovi movimenti sociali e al continuo scomporsi e ricomporsi dei loro reciproci legami. La si ritrova pertanto anche al di fuori del contesto italiano, in esperienze critiche che gruppi di operatori portano avanti in contemporanea, pur in contesti geografici lontani e in assenza di legami organizzativi diretti. Il processo di «dimezzamento» dei tecnici interessa ad esempio i radical social workers statunitensi e i criminologi critici del KROM norvegese, gli operatori del Radical Alternatives to Prison (RAP) britannico e gli attivisti del Groupe d’information sur les prisons (GIP) francese; esso riguarda gli «antipsichiatri» olandesi e gli «psichiatri democratici» italiani, anche se i loro protagonisti, nutritisi delle medesime letture nel corso degli anni ’70, si incontreranno solo all’inizio del decennio successivo14. Proprio perché basata su esperienze di intervento largamente sovrapponibili, anche la teorizzazione degli operatori e degli intellettuali coinvolti in questi movimenti presenta forti elementi di convergenza, nonostante che i riferimenti culturali e politici di partenza siano assai diversificati. Si pensi agli scritti di Michel Foucault e Franco Basaglia, di Thomas Mathiesen, Nils Christie, Louk Hulsman, alle loro esplicite affermazioni circa il debito contratto con i movimenti sociali ad essi contemporanei e più specificamente con i gruppi di cui sono essi stessi attivisti. Riconoscimenti che indicano l’ampiezza del processo di «dimezzamento» dei tecnici che sta alle loro spalle: un segnale ulteriore del terreno comune creatosi nel decennio 1965-1975; un capitolo da aggiungere alla storia del carattere internazionale del «Sessantotto». I tecnici, la classe operaia e le altre soggettività emergenti La strutturale frammentazione e diffusione dei movimenti degli operatori impone di usare la massima cautela nel tentare una riflessione generale come quella rappresentata da questo contributo. Sembra utile nondimeno avanzare 14 Si vedano in particolare: T. Mathiesen, The Politics of Abolition, Martin Robertson, London 1974; M. Reisch, J. Andrews, The Road Not Taken: A History of Radical Social Work in the United States, Brunner-Routledge, New York 2002; F. Boullant, Michel Foucault et les prisons, PUF, Paris 2003; P. Artières, L. Quéro, M. Zancarini-Fournel, Le Groupe d’Information sur les Prisons: archives d’une lutte, 1970-72, IMEC, Paris 2003; G. Blok, Baas in eigen brein. «Antipsychiatrie» in Nederland 1965-1985, Nieuwezijds, Amsterdam 2004; H. Smits, Strafrechthervormers en hemelbestormers. Opkomst en teloorgang van de Coornhert-Liga, Aksant, Amsterdam 2008. 168 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO un’ipotesi in questo senso, anche per favorire uno sviluppo ulteriore della riflessione storiografica su questi fenomeni, finora assai frammentata e incompleta. Si ipotizza quindi, seguendo lo schema di Pierangelo Di Vittorio, che il processo di «dimezzamento» di una parte degli intellettuali e dei tecnici possa essere ricollegato principalmente alla spinta proveniente dal movimento operaio e dalle nuove soggettività sociali nel periodo 1968-1974. In particolare si intende mostrare come tale presa di coscienza abbia investito gli intellettuali e i tecnici in maniera tanto più incisiva quanto maggiore è stata la vicinanza con la soggettività operaia, in termini di legami ideali, organizzativi e personali. E da questo punto di vista, tenendo presente la dinamica politico-sindacale, da un lato, e il livello e la qualità della mobilitazione dei tecnici, dall’altro, si individuano tre situazioni: la prima, relativa a quegli ambiti di intervento degli operatori direttamente determinati dall’iniziativa operaia e sindacale; la seconda, concernente settori non interessati dalla diretta influenza operaia, ma inseriti nella strategia sindacale; la terza situazione, propria di quei campi in cui l’azione delle soggettività sociali e dei tecnici si dispiega in assenza di una spinta sia operaia che sindacale. Della prima situazione fornisce un’esemplificazione chiara il caso della medicina del lavoro, o per meglio dire, utilizzando la significativa terminologia dell’epoca, la «medicina dei lavoratori». Qui il rapporto tra tecnici e gruppi operai è strettissimo e avviene all’interno dello spazio fisico della fabbrica stessa. Sui medici del lavoro agisce una duplice spinta: «dal basso», sono i consigli di fabbrica a chiamare direttamente gli operatori, non di rado garantendone «fisicamente» l’accesso agli stabilimenti negato dagli imprenditori e poi conducendoli nei reparti; «dall’alto», la strategia complessiva delle centrali sindacali inserisce queste azioni locali nell’ambito della contrattazione nazionale delle varie categorie e nella mobilitazione per la riforma sanitaria. I concetti-chiave elaborati in seno al movimento operaio rimandano ad un’esplicita subordinazione del sapere dei tecnici a quello dei lavoratori. L’approccio tradizionale viene negato radicalmente e con esso l’insieme dei ruoli e dei saperi professionali preesistenti: sono travolti la tendenza «riparativa» dei medici di fabbrica e il ricorso alla «monetizzazione» da parte degli enti previdenziali e assicurativi, mentre si sviluppa una prassi conflittuale che mira a modificare nel suo insieme l’organizzazione del lavoro; è apertamente denunciata la modalità di controllo puramente amministrativa degli ispettori del lavoro, mostrando scarso interesse anche per il potenziamento degli organici di queste figure professionali ritenute conniventi con il sistema di potere interno agli stabilimenti. Ciò che emerge è l’affermazione della soggettività operaia e in rapporto ad essa si definisce una vera e propria non-identità professionale dei tecnici. Non quindi un sistema chiuso di concetti e di metodi «scientifici», ma un costante processo di riformulazione dei saperi volto a sostenere le esigenze soggettive dei lavoratori: attorno alla «non delega» da parte degli operai si modella il «rifiuto della delega» da parte dei medici del lavoro; alla «validazione consen169 CHRISTIAN G. DE VITO suale» corrisponde la relativizzazione delle misurazioni quantitative dei tecnici; i «gruppi omogenei» indicano la nuova dimensione collettiva della ricerca e dell’intervento attorno alla salute dei lavoratori. Si viene così a creare uno spazio intermedio, nel quale gli operai portano non solo il sapere individuale e collettivo derivato dall’esperienza lavorativa, ma anche il proprio contropotere che si afferma attraverso la conflittualità sindacale e le nuove strutture sindacali di base. I tecnici, sui quali incombe il peso del controllo operaio, vi portano non solo le proprie competenze professionali, ma anche una soggettiva adesione ai bisogni e alle aspirazioni dei lavoratori. Questo bilanciamento del diseguale potere esistente nella società tra lavoratori e tecnici permette un momento di confronto reale, per sostenere il quale emergono strumenti nuovi e peculiari: il libretto di rischio e il libretto sanitario, il registro ambientale e quello dei dati biostatistici, e in generale un ricorso alla prassi dell’inchiesta che contribuisce anche a generalizzare la riflessione sulla nocività dal contesto interno alla fabbrica all’ambiente circostante. Il diretto contatto tra il movimento operaio e gruppi di operatori e intellettuali si ritrova anche nell’esperienza delle «150 ore»15. Essa è inserita nella strategia sindacale dell’«inquadramento unico» elaborata dopo l’Autunno caldo e, a partire dal contratto nazionale dei metalmeccanici dell’aprile 1973, sintetizza alcuni stimoli ed esperienze sviluppatisi in precedenza: i «contro-corsi» del movimento studentesco, le «scuole popolari», i «doposcuola di quartiere», la diffusa attività di inchiesta e intervento sociale di collettivi e movimenti locali. Le «150 ore» si distaccano esplicitamente dal modello della formazione professionale e non hanno come fine l’indottrinamento politico-ideologico. Esse corrispondono ad un’esigenza di appropriazione collettiva del sapere da parte dei lavoratori: si innestano sulla critica radicale della divisione tra lavoro manuale e intellettuale; affermano l’orizzontalità dei saperi, negando ogni superiorità a quelli tecnici e accademici; sovvertono i rapporti tra le discipline e la concezione delle unità didattiche. Con l’irruzione degli operai organizzati nella scuola pubblica, le «150 ore» vengono anche ad assumere il significato di una «aggressione dall’interno della scuola attuale», di una programmatica apertura di contraddizioni dentro l’istituzione scolastica e i meccanismi di formazione del sapere, attorno ai nodi dell’autoritarismo, dei programmi e del ruolo degli insegnanti. Il carattere collettivo della pressione operaia, ponendosi anche in contrasto con l’orizzonte volontaristico che ha caratterizzato fino ad allora le sperimentazioni basate sulla «pedagogia attiva», intende creare le basi per una vera «riqualificazione» degli inse- 15 Sulle «150 ore» si veda soprattutto G. Bini, T. De Mauro, S. Fanelli, M. Lichtner, L. Lombardo Radice, W. Maraschini, Didattica delle 150 ore, Editori Riuniti, Roma 1975. Sui «doposcuola di quartiere» si rinvia in particolare a: Scuola e quartiere, La Stamperia, Firenze 1969; B. Incatasciato, Dalla scuola al quartiere. Gruppi di base e intervento nella scuola. Il movimento di «scuola e quartiere» a Firenze, 1968-1973, Editori Riuniti, Roma 1975. 170 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO gnanti. I lavoratori insomma non tornano a scuola in modo individuale e disperso, non si presentano più agli insegnanti nella veste di genitori o di singoli lavoratori-studenti. Vi entrano con tutto il peso della loro organizzazione, sulla base delle indicazioni del sindacato e dei consigli di fabbrica e spingono per la trasformazione del ruolo dei docenti insieme al movimento studentesco e alla parte critica degli stessi insegnanti. Le trasformazioni della scuola e dell’università resteranno molto al di sotto delle aspettative, tra l’altro anche per il prevalere, soprattutto negli insegnanti, di un orientamento corporativo e politicamente moderato. La partecipazione di una parte di essi ai corsi delle «150 ore» rimane comunque un aspetto significativo della generale presa di coscienza da parte dei tecnici, tanto più che essa si accompagnata ad una prima penetrazione dei sindacati confederali nel mondo della scuola. La seconda e la terza situazione sopra enunciate, che vedono venir meno il contatto diretto con la spinta operaia, ma in alcuni casi non del tutto l’influenza della strategia sindacale, presentano alcune caratteristiche comuni, tra le quali la più evidente è senza dubbio la debolezza delle nuove soggettività che si sviluppano al loro interno e con cui i tecnici entrano in rapporto. Le carceri, gli ospedali psichiatrici, le scuole speciali, gli istituti minorili e quelli per ciechi, soprattutto nel periodo 1968-1974 sono luoghi attraversati da forti movimenti contestativi che esprimono una profonda rottura rispetto alla fase precedente. Detenuti, «pazzi», non-vedenti, minorenni si muovono tuttavia secondo modalità assai diverse rispetto a quelle seguite dal mondo operaio: sono individui con storie di vita tra di loro fortemente eterogenee, soggetti sociali che non hanno alle spalle tradizioni organizzative e culturali paragonabili a quelle del movimento operaio. Essi si trovano inoltre spesso ad agire all’interno di situazioni fortemente costrittive. Anche se nella riflessione degli anni ’70 la fabbrica stessa è considerata un’istituzione totale, assai più estesa è la capacità di controllo da parte di istituzioni con un esplicito mandato repressivo, come nel caso del carcere o degli istituti minorili, o che trovano la propria ragione di essere in un paternalismo assistenziale non privo di elementi di violenza istituzionale. I soggetti sociali che agiscono in quei contesti hanno a che fare con sbarre, muri di cinta, prassi disciplinari brutali, nella più totale assenza di qualsiasi diritto collettivo, nella sistematica negazione anche dei diritti umani più elementari e nell’impossibilità di vivere una propria dimensione privata. La loro capacità di mobilitazione e organizzazione ne risulta fortemente ridotta, come pure la possibilità di garantire una continuità delle lotte. Né si tratta solo di una debolezza legata alle condizioni psicofisiche, pure rilevante ad esempio nel caso di minorenni e di persone con varie disabilità. La marginalità di questi individui rispetto al sistema produttivo li pone permanentemente in una zona di invisibilità che condividono di fatto con le stesse istituzioni che li tengono segregati. Anche le mobilitazioni più radicali e articolate ri171 CHRISTIAN G. DE VITO schiano così di cadere nel vuoto e la loro possibilità di incidere sulla realtà viene dunque a dipendere dal loro collegamento con realtà esterne16. Queste ultime tuttavia, a loro volta, sono spesso organizzativamente deboli, impossibilitate a reggere un impegno continuativo e prive di una strategia di intervento; presentano anche sovente un elevato livello di frammentazione, derivato tra l’altro dalle motivazioni eterogenee e tra di loro anche contrastanti che le muovono: spinte umanitarie, volontà «rieducative», utopie rivoluzionarie. La pressione che questi movimenti riescono ad esercitare sui tecnici è dunque assai relativa e certamente inferiore a quella sviluppata dalla classe operaia. Non sorprende dunque di trovare in questi settori una maggiore presenza di mentalità e prassi professionali di tipo tradizionale. Al riparo di istituzioni tendenzialmente immobili, molti tecnici continuano semplicemente a fare quello che hanno sempre fatto, come nel caso di molti ispettori del lavoro, insegnanti delle scuole speciali, assistenti sociali, infermieri psichiatrici; oppure, di fronte al «disordine» portato dai movimenti, essi accentuano la propria attitudine repressiva, come alcuni procuratori della Repubblica o la maggior parte del personale direttivo e di custodia delle carceri. Cristallizzati nelle loro routine lavorative e nelle loro identità professionali, essi guardano con sarcasmo all’attivismo dei loro colleghi, incapaci di comprenderne le ragioni e pronti ad opporre la propria inerzia, attendendo che i movimenti escano di scena17. Del resto, in presenza di soggettività così frammentate, manifesta profonde ambiguità anche il processo di «dimezzamento» di quei tecnici che accettano di mettere in discussione i propri saperi e i propri ruoli. Che dire ad esempio della posizione degli psichiatri protagonisti del movimento antimanicomiale? Difficilmente si può parlare nell’Italia degli anni ’60 e ’70 di un vero e proprio movimento degli internati degli ospedali psichiatrici, stante la limitata autonomia che questi hanno anche in molte assemblee di reparto e di ospedale. D’altra parte, se un’esplicita rivendicazione dell’importanza del sapere specialistico caratterizza sin dall’origine, ad esempio, l’esperienza perugina e quella reggiana, un limite allo sviluppo dell’autonomia degli internati non è anche implicito già nel progetto di stampo illuministico di una «psichiatria democratica», nel senso di preservare di fatto la centralità del ruolo e dei saperi degli psichiatri? All’interno di questo quadro comune delle esperienze dei tecnici che si sviluppano al di fuori di un contatto diretto con il movimento operaio, una differenza sostanziale emerge in rapporto all’influenza che la strategia sindacale ha sugli specifici ambiti di intervento. Dove questa spinta viene a mancare – come nel caso del carcere o di parte del mondo assistenziale – la strutturale fram- 16 Per una riflessione approfondita su questo aspetto si rinvia soprattutto a T. Mathiesen, The Politics, cit. 17 Si pensi ad esempio all’atteggiamento evidenziato dalle opere letterarie di Mario Tobino, in particolare in: Le libere donne di Magliano, Mondadori, Milano 1990; Id., Per le antiche scale, Mondadori, Milano 1995. 172 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO mentazione delle esperienze dei tecnici e dei movimenti sociali si accentua, e con essa il loro isolamento rispetto ai settori di intervento confinanti. Viceversa, in altri ambiti la strategia delle riforme consente il collegamento e la generalizzazione delle esperienze «avanzate» e fornisce una cornice per una lettura non settoriale di problematiche tradizionalmente considerate marginali o prettamente specialistiche. Così, come le «150 ore» creano una base per l’incontro con gruppi di intellettuali, l’impegno sindacale per il diritto alla casa fornisce un contesto generale entro il quale urbanisti e architetti possono riflettere in termini nuovi sul rapporto tra progettazione, ambiente e bisogni sociali; analogamente, la mobilitazione per il superamento del sistema mutualistico e per la riforma sanitaria favorisce una discussione unitaria nella quale si inseriscono soprattutto gli operatori della medicina del lavoro e dell’assistenza psichiatrica. Questi ultimi due settori evidenziano anzi un processo virtuoso, attraverso il quale, a loro volta, le esperienze avanzate contribuiscono a precisare e ad arricchire la stessa prospettiva riformista del sindacato: le modalità sperimentate in quegli ambiti tenderanno infatti a divenire i punti di riferimento per una riforma sanitaria fondata sui principi della prevenzione, della territorializzazione dell’intervento, del lavoro per équipes multi-professionali, della partecipazione popolare alla costruzione di un sistema di salute. Proposta di comparazione: i tecnici nel movimento antimanicomiale e nei movimenti sul carcere L’importanza della strategia del movimento sindacale nel favorire il processo di «dimezzamento» dei tecnici può essere valutata più nel dettaglio attraverso la comparazione del movimento antimanicomiale e dei movimenti che nel periodo 1968-1974 agiscono attorno alla tematica carceraria e giudiziaria. Un paragone che appare particolarmente significativo perché, se assai diverse sono le caratteristiche di tali movimenti e i loro approdi, appaiono analoghe invece alcune caratteristiche di partenza dei due settori18. Innanzitutto, la legge sull’assistenza psichiatrica del 1904 si fonda sull’istanza di prevenzione rispetto alla «pericolosità sociale del malato di mente», esplicitamente ricollegandosi al discorso dell’ordine pubblico proprio anche del sistema penale e penitenziario. Al contesto strutturale e formale in larga parte 18 Un raffronto sistematico tra il movimento di deistituzionalizzazione in campo psichiatrico e penitenziario, in relazione agli USA e alla Gran Bretagna, è stata condotta da A.T. Scull in Decarceration: Community Treatment and the Deviant. A Radical View, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1977. Il testo, peraltro assai noto, ha tra l’altro il merito di indicare la comune origine dell’istituzione manicomiale e del carcere nelle politiche di assistenza dei poveri sviluppate nell’età moderna – tesi presente anche in M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992 – e di individuare nel processo di differenziazione tra le due istituzioni anche l’origine delle varie figure specialistiche (psichiatri, criminologi, penitenziaristi, ecc.) e dei relativi saperi. 173 CHRISTIAN G. DE VITO comune dell’istituzione carceraria e manicomiale, che la sociologia statunitense sintetizza tra gli anni ’50 e ’60 nel concetto di «istituzioni totali», corrispondono inoltre – nella vita quotidiana all’interno di esse – sovrapponibili prassi di controllo che Michel Foucault definirà nei suoi scritti degli anni ’70 «dispositivi» di un sistema di «potere disciplinare»19. Importanti somiglianze appaiono anche tra il profilo degli infermieri psichiatrici e quello degli agenti di custodia: al livello del mandato di controllo ad essi attribuito, del processo della loro selezione e formazione, dei sistemi che ne regolano rigidamente la disciplina, della strutturazione autoritaria e paternalistica dei rispettivi meccanismi gerarchici. Né mancano elementi per una comparazione tra i profili professionali del personale direttivo degli ospedali psichiatrici e delle carceri. Ciò se non altro per quanto riguarda la marginalità del loro status in rapporto a psichiatri universitari da un lato, magistrati e criminologi dall’altro. Una marginalità che rimanda alla condizione di strutturale invisibilità che caratterizza le due istituzioni, a fronte della forte legittimazione sociale di cui godono invece le ideologie sulle quali esse si fondano. Di questa invisibilità dà testimonianza anche la reticenza con la quale il mondo politico affronta le riforme di entrambi i settori nel corso degli anni ’70 e si affanna poi, nei decenni successivi, a impedire la piena realizzazione delle stesse. È la storia della sostanziale sospensione della riforma penitenziaria del 1975 durante i lunghi anni dell’«emergenza terrorismo». È il senso degli oltre venti anni intercorsi tra la legge 180 del 1978 e l’effettiva chiusura degli ospedali psichiatrici, per giunta costellati di espliciti progetti di controriforma. È infine la ragione del permanere degli ospedali psichiatrici giudiziari, tragica eredità dell’antropologia criminale lombrosiana e monumento del principio di «pericolosità sociale» che la «legge Basaglia» intendeva rimuovere definitivamente20. Le riforme stesse appaiono dunque pressoché interamente ascrivibili, in questi ambiti, alla spinta proveniente dai movimenti sociali e, nel caso della salute mentale, anche dagli amministratori locali e dai tecnici. Come spiegare allora, a fronte di queste somiglianze, l’incidenza incomparabilmente maggiore del movimento antimanicomiale rispetto a quello carcerario? È qui che il collegamento o il mancato collegamento con la strategia politico-sindacale sembrano rivelarsi determinanti. 19 Il riferimento è naturalmente a: E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 2003; M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993. 20 Sugli ospedali psichiatrici giudiziari si vedano in particolare: A. Manacorda, Il manicomio giudiziario. Cultura psichiatrica e scienza giuridica nella storia di un’istituzione totale, De Donato, Bari 1982; V. Andreoli (a cura di), Anatomia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Ufficio Studi DAP Roma, 2002; M. De Simone, M. Caponnetto, I due volti dell’innocenza. Vengo dalla morte, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2006; D.S. Dell’Aquila, Se non t’importa il colore degli occhi. Inchiesta sui manicomi giudiziari, Filema, Napoli 2009. 174 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO Il primo movimento si fonda sull’attivismo degli operatori e attraverso i suoi eterogenei percorsi riesce ad ottenere un testo legislativo che, nonostante le mediazioni politiche, fuoriesce dall’orizzonte di una mera modernizzazione dell’assistenza psichiatrica, eliminando i due pilastri dell’assistenza psichiatrica tradizionale – il principio della «pericolosità sociale» e le istituzioni manicomiali – e proponendosi di tutelare la salute mentale dei cittadini. È evidente il peso che il legame del movimento con la dinamica politico-sindacale ha su questi esiti. È in virtù di esso, ad esempio, che la sperimentazione goriziana può generalizzarsi e la diaspora degli operatori lì attivi produrre non solo altri nuclei avanzati, ma un radicamento degli stessi, con il coinvolgimento di amministratori locali e gruppi di cittadini prima e poi con la fase della mediazione partitica a livello parlamentare. Questa tessitura politica, pur rappresentando un freno alla spontaneità e radicalità del movimento, riesce tuttavia a tenere insieme i vari attori della scena psichiatrica e impedisce che le contraddizioni evidenziate dal movimento stesso si richiudano in un orizzonte di modernizzazione tecnico-organizzativa, senza determinare alcuna rottura epistemologica e politica. Proprio in ciò sta del resto la peculiarità del movimento italiano rispetto alla psichiatria di settore francese e alle esperienze antipsichiatriche nordeuropee e statunitensi. Queste ultime infatti, in assenza di una cornice politica, sono caratterizzate da un elevato livello di frammentazione tra i vari gruppi professionali e restano chiuse in un contesto di mera razionalizzazione: finiscono così per determinare un rafforzamento sia della componente specialistica dei saperi e dei ruoli degli operatori che dello stesso circuito psichiatrico istituzionale, che resta pertanto centrato attorno al manicomio, per quanto esteriormente rinnovato. Opposte sono le dinamiche dei movimenti sul carcere e sul sistema giudiziario, nel contesto di una sistematica sottovalutazione da parte del mondo politico e sindacale delle implicazioni sociali del meccanismo giudiziario e penitenziario, al di là dell’ovvio interessamento in relazione a episodi di criminalizzazione del dissenso politico o degli stessi movimenti sociali. Ciò è evidente anche nell’unico caso di diretta interlocuzione tra movimento dei detenuti e movimento sindacale, che ha luogo nelle periferiche carceri giudiziarie di Reggio Emilia nei mesi centrali del 197121. Un dialogo favorito dalle peculiarità dei movimenti locali, ma che evidenzia comunque il ristretto punto di vista con cui anche la Camera del lavoro reggiana si avvicina al mondo carcerario: l’attenzione è interamente concentrata sul sovra-sfruttamento nelle lavorazioni carcerarie in appalto e i reclusi sono considerati esclusivamente come «lavoratori-detenuti», senza entrare nei processi di selezione classista operanti nel sistema penale, né nella conseguente dimensione sociale della «questione carcere», né infine nelle specifiche dinamiche della vita dietro le sbarre. 21 Per la peculiare esperienza nel carcere reggiano si veda soprattutto: P.G. Valeriani, Scuola e lotta in carcere, De Donato, Bari 1972. 175 CHRISTIAN G. DE VITO È un approccio limitato e per giunta non generalizzabile, stante la posizione strutturalmente marginale che il lavoro carcerario ha storicamente nel sistema penitenziario italiano22. È un angolo troppo stretto di osservazione che verrà tuttavia riproposto dal mondo sindacale, dopo la riforma dell’amministrazione penitenziaria del 1990, in rapporto questa volta agli operatori penitenziari: anche in quel caso l’attenzione sarà posta esclusivamente sull’aspetto lavorativo, quasi che l’intervento sindacale in ambito penitenziario possa risolversi nella contrattazione su organici, salari e progressione di carriera, senza una riflessione sulla funzione sociale dell’istituzione carceraria e sul mandato professionale che da essa deriva23. Del resto, gli altri settori del movimento sindacale italiano, nei primi anni ’70, rinunciano a portare avanti anche quel limitato confronto con la realtà penitenziaria. Lo stesso fa il mondo politico. Le problematiche del sistema giudiziario e carcerario non trovano mai posto nella strategia delle riforme. Il dibattito e l’eventuale trasformazione di questi settori vengono demandati interamente agli «addetti ai lavori», con l’accettazione di fatto di una dimensione specialistica che viene invece apertamente criticata nel caso di altri ambiti di intervento dei tecnici. In assenza di una strategia unitaria, manca ai protagonisti del mondo carcerario, operatori compresi, un terreno comune su cui confrontarsi. Ciascun soggetto sociale procede quindi in modo autonomo e per giunta isolato dalle dinamiche socio-politiche generali. Il movimento dei detenuti, particolarmente forte nella fase 1969-1973, non riesce comunque ad andare oltre alcune conquiste parziali, che la stretta repressiva degli anni successivi in larga parte limiterà, rappresentando anche un permanente ostacolo al processo di politicizzazione e organizzazione dei reclusi24. All’esterno delle carceri, il sostegno alle lotte dei detenuti viene soprattutto dalla sinistra extraparlamentare e segnatamente da Lotta continua. Tale solida22 Si noti che l’approccio «sindacale» è presente anche in alcuni movimenti dei detenuti in altri paesi europei all’inizio degli anni ’70, che si strutturano all’interno del carcere – è il caso della FFF norvegese e del Preservation of the Rights of Prisoners (PROP) britannico – sul modello dei sindacati esterni, in alcuni casi affiliandosi ad essi e ottenendo da questi anche un appoggio diretto nel corso delle loro mobilitazioni. In quei paesi tuttavia tale strategia corrisponde a una rilevante presenza di industrial prisons, ossia di stabilimenti penitenziari organizzati attorno al lavoro industriale. Riguardo all’Italia, va osservato che l’attenzione per i diritti dei detenuti-lavoratori trova una sua traduzione nella riforma penitenziaria del 1975, che si pone anche in continuità con la storica rivendicazione del movimento operaio nel senso della regolamentazione del lavoro carcerario, affinché non generi concorrenza con il lavoro «libero». Dopo la riforma tuttavia, la maggior parte delle imprese private abbandona il campo penitenziario. 23 Ben più complessa appare invece la dinamica che il movimento antimanicomiale e la riforma sanitaria innescano nei sindacati confederali degli infermieri psichiatrici: questi ultimi, pur inizialmente chiusi in una difesa corporativa dei ruoli tradizionali, nella maggior parte dei casi fanno propria in seguito la logica di fondo della riforma intervenendo anche nel complesso processo di riconversione delle professionalità infermieristiche precedentemente impegnate negli ospedali psichiatrici. 24 Si rinvia soprattutto a I. Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Einaudi, Torino 1973. 176 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO rietà, che solo episodicamente riesce a influire in profondità sulla realtà carceraria anche per evidenti carenze di tipo organizzativo, si sviluppa a partire dall’individuazione nei «dannati della terra» di una nuova soggettività rivoluzionaria e nel carcere di una possibile «scuola di rivoluzione» per il sottoproletariato25. L’assolutizzazione della soggettività dei detenuti finisce paradossalmente per accrescere l’isolamento del movimento dei detenuti, tanto più dopo l’abbandono del terreno carcerario da parte della stessa Lotta continua. È nel contrasto tra questa assenza di prospettiva e l’impossibilità di un semplice riflusso nel privato il dramma del movimento dei detenuti in Italia: costretti a continuare a lottare, se non altro per difendersi dalla dilagante repressione, i reclusi procedono sempre più soli in una direzione sempre più vaga. E a nulla varrà da questo punto di vista, nella seconda metà degli anni ’70 e all’inizio del decennio successivo, l’ulteriore innalzamento del livello di scontro posto in atto dalle organizzazioni armate, a partire dai NAP e poi soprattutto dalle Brigate rosse: la sconfitta di quella ipotesi «militare» avviene infatti sullo sfondo della consumata separazione tra i detenuti politici e quelli comuni e dell’inizio di un lungo silenzio da parte di questi ultimi26. Data la matrice ideologica che li caratterizza, nei movimenti che ruotano attorno al carcere in Italia si determina un’esplicita contrapposizione rispetto alle figure professionali che agiscono in carcere. I militanti dei gruppi extraparlamentari non considerano nemmeno la possibilità di esistenza di contraddizioni sociali tra gli operatori, non prestano attenzione all’eterogeneità culturale che attraversa quei mondi professionali e non rivolgono alcun interesse neppure agli assistenti sociali e agli educatori che in quegli anni si inseriscono nelle carceri, né agli insegnanti e ai volontari. Prevale in loro il rifiuto di esercitare una pressione sugli operatori affinché sviluppino una coscienza critica dei propri ruoli e accolgano idee e pratiche alternative, eventualmente anche nel senso della negazione dell’istituzione di cui fanno parte. Un approccio diametralmente opposto a quello del movimento antimanicomiale, del resto animato principalmente da operatori, come pure dei movimenti nordeuropei che si ispirano all’abolizionismo penale, i quali, partendo ugualmente dal riconoscimento della nuova soggettività dei detenuti, accettano tuttavia di addentrarsi sul terreno della formulazione di strategie più articolate di negazione dell’istituzione carceraria e di andare alla ricerca di alleanze con gruppi di operatori27. 25 Questa chiave di lettura fa riferimento anche a idee provenienti da altri contesti, delle quali recano testimonianza in particolare: G. Jackson, Col sangue agli occhi, Einaudi, Torino 1972; Id., I fratelli di Soledad: lettera dal carcere di George Jackson, Einaudi, Torino 1974; F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. 26 Sul movimento dei detenuti appartenenti alle organizzazioni di lotta armata si veda ad esempio: M.R. Prette, Il carcere speciale, Sensibili alle Foglie, Dogliani 2006. 27 Sull’abolizionismo penale si rinvia soprattutto a: T. Mathiesen, The Politics, cit.; S. Scheerer, L’abolizionismo nella criminologia contemporanea, in Dei delitti e delle pene, n. 3, 1983; N. Christie, Abolire le pene?, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1984; H. Bianchi, R. Van Swaaningen (a cura di), Abolition- 177 CHRISTIAN G. DE VITO Nell’insieme, il disinteresse sindacale e l’unilateralismo dei movimenti extraparlamentari finiscono dunque per indebolire la possibilità di una presa di coscienza da parte dei tecnici impegnati nel settore giudiziario e penitenziario. Se molti operatori, posti di fronte ai movimenti di contestazione, sviluppano un atteggiamento difensivo, rafforzano le proprie identità professionali e inaspriscono l’attitudine repressiva, peculiari caratteristiche presentano in questo ambito anche i percorsi di quella parte di tecnici che vanno comunque incontro ad un processo di sensibilizzazione politica28. Non c’è qui infatti una messa in discussione del proprio ruolo professionale e dei propri saperi. Non si sviluppa, ad esempio, una critica dell’essere magistrati, del ruolo della magistratura in rapporto alla società, del carattere classista del sistema giudiziario29. C’è semmai la scoperta di nuove funzioni che la magistratura può assumere, interpretando in maniera estensiva il dettato costituzionale in alcuni suoi passaggi cruciali: ecco allora alcuni procuratori della Repubblica denunciare le violenze e le condizioni igienico-sanitarie all’interno delle carceri; ecco alcuni magistrati di sorveglianza riprendere in termini radicali l’articolo 27 della Costituzione relativamente alla funzione rieducativa del carcere; ecco i «pretori d’assalto» affermare il principio dell’uguaglianza sostanziale sancito dall’articolo 3 della stessa Costituzione, perseguendo soggetti socialmente forti in rapporto all’inquinamento ambientale, imponendo l’applicazione dello Statuto dei lavoratori o intervenendo rispetto alle violenze perpetrate contro i minorenni internati in varie istituzioni assistenziali. È lo stesso limite che mostra la riforma penitenziaria del 1975, se confrontata alla legge 180 sull’assistenza psichiatrica. Promulgata in risposta al movimento dei detenuti, essa ne recepisce alcune richieste immediate, ma si ispira principalmente a un criterio di modernizzazione dell’istituzione carceraria; sciolta da una riforma del codice penale che non arriverà neppure nei decenni successivi, in essa non è presente alcun ripensamento dell’impianto del sistema penale e penitenziario, ma solo un’articolazione operativa della funzione rieducativa della pena già sancita nella Costituzione repubblicana. ism: Towards a Non-Repressive Approach to Crime, Free University Press, Amsterdam 1986; Movimento Abolizionista, Abolire il carcere, ovvero come sprigionarsi, Nautilus, Torino 1990; T. Mathiesen, Perché il carcere?, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996; V. Guagliardo, Dei dolori e delle pene, Sensibili alle foglie, Roma 1999; B. de Célis, L. Hulsman, Pene perdute, cit. 28 Si segnala da questo punto di vista la partecipazione di molti tecnici penitenziari al Coordinamento «Liberarsi dalla necessità del carcere», costituitosi a seguito di un convegno tenutosi a Parma dal 30 novembre al 2 dicembre 1984. La strategia del coordinamento riprendeva sostanzialmente quella del movimento antimanicomiale, alcuni esponenti del quale erano ugualmente presenti al convegno parmense e alle successive iniziative di «Liberarsi». 29 A titolo esemplificativo si rinvia ad esempio ad alcune testimonianze di protagonisti: R. Guariniello, Se il lavoro uccide. Riflessioni di un magistrato, Einaudi, Torino 1985; I. Cappelli, Gli avanzi della giustizia. Diario del giudice di sorveglianza, Editori Riuniti, Roma 1988; A. Margara, Memoria di trent’anni di galera. Un dibattito spento, un dibattito acceso, in Il Ponte, n. 7-9, 1995, pp. 112-146; M. Alberighi, Petrolio e politica, Editori Riuniti, Roma 2006. 178 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO «Vecchi» e «nuovi» movimenti sociali? L’analisi del ruolo dei tecnici nei movimenti sociali degli anni ’60 e ’70 permette di affrontare un nodo teorico sollevato dalla letteratura sociologica30. Proprio in rapporto al passaggio degli anni ’70, quest’ultima postula infatti l’alternatività tra «vecchi» movimenti sociali, fondati sulla centralità dei temi economici e del movimento operaio, e «nuovi» movimenti sociali, coscientemente sciolti da una visione complessiva del mondo sociale e segnati da una base identitaria, focalizzati su singoli soggetti sociali e/o tematiche (le donne, i detenuti, gli omosessuali, gli utenti psichiatrici, la questione ecologica, il pericolo nucleare). Alla luce della dinamicità del rapporto tra il movimento operaio e le altre soggettività sociali evidenziata dallo studio del ruolo dei tecnici, sembra possibile ridefinire anche i termini teorici di tale relazione. In particolare, non pare che il carattere «vecchio» o «nuovo» dei movimenti possa essere dedotto a priori, in base al tipo di protagonisti del conflitto sociale (lavoratori o detenuti, ad esempio). Esso deve piuttosto essere indagato facendo riferimento all’effettivo sviluppo verificatosi in ciascun contesto storico e geografico. Non può forse definirsi «nuovo», se confrontato con i decenni precedenti, lo stesso movimento operaio e sindacale che emerge dalle lotte dell’Autunno caldo? E non è forse possibile individuare proprio nel suo nuovo discorso egualitario e antiautoritario, nelle sue nuove strutture di base e nelle sue nuove strategie alcuni aspetti determinanti non solo per il prodursi di una relazione con le soggettività sociali emergenti, ma talvolta e in alcuni contesti anche per la loro stessa nascita e il loro sviluppo? In questo senso è parso utile organizzare il presente contributo secondo uno schema che, tenendo fermo il riferimento al movimento operaio e sindacale, consentisse di valutare il rapporto di volta in volta creato con esso da parte delle altre soggettività sociali e dai tecnici. Non si è inteso così riaffermare in modo dogmatico la tesi della «centralità operaia», quanto piuttosto sottolineare la rilevanza che, nello specifico, le mobilitazioni operaie e la strategia sindacale 30 Per queste considerazioni si vedano tra gli altri: R.F. Inglehart, The Silent Revolution, Princeton UP, Princeton 1977; Id., Modernization and Postmodernization, Princeton UP, Princeton 1997; M. Foucault, Dits et Écrits, Gallimard, Paris 1994, 4 voll.; S.M. Buechler, Social Movements in Advanced Capitalism, Oxford UP, Oxford 1999; D. Kendall, Sociology in Our Times, Thomson Wadsworth, London 2005. Sullo sfondo di tale impostazione sta la contrapposizione ideologica tra la cultura marxista che afferma la centralità del movimento operaio e il pensiero postmoderno che ispira questi assunti sociologici. La contrapposizione rimanda anche ad una differente concezione del potere: nel pensiero marxista esso è inteso come un fenomeno politico-economico totalizzante, mentre nella teoria postmoderna è visto come fenomeno diffuso. In conseguenza di ciò si produce una visione contrapposta dei movimenti sociali: nel primo caso essi vengono letti attraverso il concetto di «classe sociale», nel secondo sono visti come soggettività collettive capaci di produrre «resistenze locali» (Foucault). Un esempio più recente di quest’ultimo tipo di analisi è anche nei due contributi di A. Negri e M. Hardt, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002, e Moltitudine: guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, Rizzoli, Milano 2004. 179 CHRISTIAN G. DE VITO hanno avuto negli anni 1968-1974 nel creare un terreno comune sul quale si sono sviluppati, anche secondo processi autonomi, gli altri movimenti e le relazioni tra di essi. Sembra del resto che proprio il venir meno di questo terreno comune, nella fase di riflusso che inizia con la metà degli anni ’70, possa spiegare il più accentuato processo di settorializzazione e autoreferenzialità che caratterizza in seguito tutti i movimenti sociali, siano essi definibili come «vecchi» o «nuovi» in base alla teorizzazione sociologica. Sono legami personali che si spezzano, collettivi che si sciolgono, pratiche comuni che si perdono, dentro un rapido processo di trasformazione socioeconomica e culturale che nessuno dei movimenti sociali sembra saper interpretare e sul quale tanto meno essi riescono ad intervenire: il movimento sindacale abbraccia allora una linea difensiva, che lo porta prima ad una lotta di retroguardia in difesa dell’occupazione e dei livelli salariali, poi, con i primi anni ’90, ad accettare quella modalità di rapporto subalterno con la controparte padronale che è la concertazione31; i «nuovi» movimenti sociali degli anni ’70, per effetto della medesima, progressiva marginalizzazione, si incanalano già dalla fine del decennio successivo per la maggior parte nella forma istituzionalizzata del «terzo settore»32 e accentuano le dinamiche identitarie anche nel momento in cui paiono dar luogo ad un processo ricompositivo – come nel caso del movimento dei Social forum tra il 2001 e il 200333. Parallelamente a questa chiusura identitaria da parte dei movimenti sociali, si sviluppa a partire dalla metà degli anni ’70 la tendenza alla riassunzione della delega da parte degli operatori. È un vero e proprio processo di «ritecnicizzazione» dei ruoli e dei saperi, che investe ciascuno dei campi fin qui considerati. Si guardi ad esempio alla realtà dei servizi di salute mentale: alla tendenza di molti protagonisti del movimento antimanicomiale a darsi una formazione di tipo psicoterapeutico nel corso degli anni ’80; alla progressiva strutturazione «forte» dei servizi, in sostituzione dell’originaria tendenza a creare dei «servizi 31 Il ripiegamento dell’azione sindacale deve essere certamente iscritto anche nelle trasformazioni strutturali del quadro produttivo portate dal processo di globalizzazione capitalistica. Tale tendenza non pare tuttavia assolutizzabile, come avviene in gran parte della letteratura sociologica, ipotizzando una definitiva «crisi del sindacato» e una connessa «scomparsa della classe operaia», ma va anch’essa letta in chiave storica, entro un quadro globale. Per un approccio di questo tipo si rimanda soprattutto a: J. Lucassen (a cura di), Global Labour History. A State of Art, Peter Lang, Bern 2008. 32 Per uno sguardo critico sul «terzo settore» si vedano soprattutto: O. De Leonardis, In un diverso welfare: sogni e incubi, Feltrinelli, Milano 1998; G. Marcon, Le ambiguità degli aiuti umanitari: indagine critica sul terzo settore, Feltrinelli, Milano 2002; M. Cerri, Il terzo settore. Tra retoriche e pratiche sociali, Dedalo, Bari 2003. Per alcuni significativi accenni storici sul passaggio dall’approccio comunitario degli anni ’50 all’attuale sistema del Terzo settore: G. De Rita, Le comunità protagoniste di un nuovo ciclo di crescita, Relazione tenuta durante l’Assemblea sulle prospettive dell’impegno sociale Terzo settore: gli errori, il futuro, tenutasi a Roma il 16 e 17 ottobre 2009 (in www.progettouomo.net). 33 Sul «movimento dei movimenti» in Italia si vedano soprattutto: D. Della Porta, I new global. Chi sono e cosa vogliono i critici della globalizzazione, il Mulino, Bologna 2003; P. Ceri (a cura di), La democrazia dei movimenti: come decidono i no global, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 180 L’UOMO A DUE DIMENSIONI. I TECNICI NELL’AUTUNNO CALDO tenda», in grado di rispondere alla domanda di salute mentale senza produrre psichiatrizzazione; all’assenza di attenzione per la soggettività degli utenti e allo scarso sviluppo dei gruppi di auto-aiuto, diversamente da altri paesi che pure non hanno attraversato esperienze così radicali; alla tendenza all’esternalizzazione e privatizzazione di alcuni circuiti connessi alla salute mentale – in particolare i centri diurni e la residenzialità psichiatrica e per gli anziani – in direzione sia del privato sociale che del privato commerciale. Si tratta di fenomeni che influenzano e sono influenzati dalle trasformazioni del welfare: prima in virtù del processo di istituzionalizzazione che investe i nuovi servizi nati dalle riforme degli anni ’70, producendo un passaggio da servizi «militanti» a organizzazioni con ruoli e organici formalmente definiti; poi in ragione della progressiva ristrutturazione che le politiche neoliberiste impongono al campo dei servizi stessi, legandone organici, approcci e prospettive a flussi finanziari sempre più ridotti e selettivi. Basta guardare al processo di aziendalizzazione che investe il Servizio sanitario nazionale a partire dalla metà degli anni ’90 e che ridefinisce in chiave fortemente specialistica e settoriale il mandato dei vari dipartimenti, investendo anche settori che erano stati all’avanguardia del processo di «dimezzamento» dei tecnici, come la medicina del lavoro e la salute mentale. Nella fase di ascesa come in quella di riflusso dei movimenti sociali si evidenzia quindi la peculiare collocazione dei tecnici, che non costituiscono a loro volta una soggettività sociale autonoma, ma restano un insieme eterogeneo di figure professionali unito tuttavia dalla posizione mediana occupata in ciascun ambito di intervento tra movimenti sociali e strutture istituzionali, tra saperi formali e informali, tra mandato professionale e funzione sociale. L’irriducibile contraddittorietà della loro posizione si rivela così un prezioso punto di osservazione per una lettura articolata delle vicende sociali e politiche. 181 La scuola e la fatica di Pietro Causarano La scuola, il lavoro e il 1969 Il titolo che mi è stato assegnato è allettante e stimolante, ma poi è risultato più difficile del previsto da gestire, soprattutto volendo restare ancorati alla specificità del 1969 come anno cardine di quel periodo. Il tentativo di questo intervento è infatti fortemente circoscritto sul piano temporale, cercando di considerare certo le premesse e le conseguenze di quel tumultuoso e simbolico anno senza però troppo farsi trascinare sul terreno delle radici e delle eredità. Il rischio, in effetti, è stato quello di affogare in un oceano di informazioni, sollecitazioni, rimandi che è tipico della complessità di quegli anni in cui – nelle letture che venivano fatte degli eventi in corso – tutto si teneva e tutto si pensava dovesse tenersi. Spero di averlo evitato, senza andare troppo a discapito della profondità di prospettiva analitica. La divisione, che è artificiosa, fra alcune grandi questioni che riguardavano il dibattito politico-istituzionale e ideologico, e temi più concreti, vissuti quotidianamente, può essere utile, ma non rende giustizia alla complessità di approcci e di interazioni caratteristici di quell’anno (ma anche di quelli che lo hanno preceduto e seguito) e le cui conseguenze si vedranno meglio in ogni caso negli anni successivi. In realtà, mi sono accorto – andando a riguardare documenti, fonti, pubblicazioni dell’epoca1 – che questa divisione poteva essere addirittura fuorviante, o almeno che dovesse essere spiegata con ragioni più sostanziali che non fossero la sola mancanza di tempo e di spazio per elaborarla. Una ragione cioè che fosse legata con quanto si può trovare o non trovare nell’anno 1969. E qui emerge la questione di quanto sia complessa e difficile e non lineare la sco1 Oltre alla vasta letteratura a disposizione, ho utilizzato documentazione grigia di produzione sindacale o studentesca, ma anche riviste che, in forma e qualità diversa, si sono occupate fra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 del tema di questo saggio: in particolare, in ambito pedagogico, soprattutto Riforma della scuola e Scuola e Città; in ambito sindacale in particolare Quaderni di rassegna sindacale (CGIL) e Formazione e lavoro (ACLI); dal punto di vista del dibattito culturale e dell’indagine militante, infine, Quaderni rossi, Quaderni piacentini, Problemi del socialismo e Inchiesta. 183 PIETRO CAUSARANO perta della scuola da parte del mondo del lavoro, rispetto all’approccio ideologico di rivolta etica che caratterizza gli studenti del movimento nell’avvicinarsi agli operai e alla loro condizione. Per fare questo lavoro di analisi ritengo che sia utile concentrarsi su tematiche proprie dell’incontro fra studenti ed operai nell’anno 1969, tematiche che magari non erano presenti negli stessi termini anche poco tempo prima e che cambieranno di segno rapidamente, dopo. Sono tematiche che, pur non comprendendo la totalità di suggestioni possibili, pongono alcune basi su cui sarebbero state costruite negli anni immediatamente successivi sia le attività negoziali e le proposte del sindacato in materia, da una parte, sia l’azione del movimento studentesco (o almeno di componenti consistenti di esso), dall’altra. Ma non solo di questo si tratta: queste sono tematiche che derivano inoltre da una reciproca «scoperta», anche generazionale ma non solo, e da un’evoluzione nei reciproci atteggiamenti attorno ad un quadro comune di cambiamento nei comportamenti e nei codici comunicativi, da intendersi come radicale e definitiva «rottura della deferenza» che è propria dei fatidici anni alla fine del decennio2. È un’attitudine nuova che esplode a sorpresa allora in forma capillare e di massa, pubblica e non solo privata, che non c’era prima nella stessa misura e che, saldandosi nell’egualitarismo e ideologizzandosi, diverrà invece normale dopo, negli anni ’703, nei termini di una vera e propria «crisi di un principio di autorità»4. D’altro canto, questo avviene – anche e soprattutto per gli studenti universitari – sostanzialmente spostando l’asse dell’attenzione e dell’azione dal sistema formativo superiore, in cui hanno costruito la loro identità di movimento fra il 1967 e il 1968, in favore delle questioni politiche e sociali esterne, mobilitandosi su argomenti sempre più generali già nel 19695. Essi così incontrano, o almeno ritengono di incontrare, la classe operaia e il movimento operaio; o ancora meglio incontrano gli operai, usciti poco a poco di nuovo allo scoperto fra il 1968 e il 1969 occupando in maniera dirompente il centro della scena sociale e politica, per la prima volta con questa intensità e con sorpresa inebriante: gli 2 G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2003, p. 332. Cfr. B. Trentin, Il secondo biennio rosso, 1968-1969, intervista a cura di G. Liguori, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 63-67. 4 T. Codignola, Una crisi rivelatrice, in Scuola e Città, n. 3, 1968, pp. 111-115. 5 La questione universitaria, dopo gli eventi del 1967-68, per il movimento studentesco (e i nascenti «gruppi») diventa solo uno dei temi all’interno della più generale questione della riproduzione sociale, come confermato già da attenti osservatori coevi, oltre che dalla stessa documentazione prodotta dai protagonisti. Si pensi agli interventi scritti in quei mesi quali le Tesi della Sapienza dell’Università di Pisa (la «contestazione dell’organizzazione universitaria del potere come contestazione globale del sistema» e poi «l’individuazione nella divisione capitalistica del lavoro del tema di fondo su cui organizzare la discussione e la rivolta») oppure a L’Università come produzione di merci della Facoltà di Sociologia a Trento. Cfr. la documentazione riportata in E. Canettieri, Il movimento studentesco, 1966-1968. Germania, Francia, Italia, D’Anna, Messina 1974. Questo approccio è recepito, insieme con fascino e preoccupazione, dalla riflessione pedagogica più aperta; cfr. A. Visalberghi, Motivi comuni e diversità locali della protesta studentesca, in Scuola e Città, n. 7-8, 1968, pp. 349-357. 3 184 LA SCUOLA E LA FATICA operai si percepiscono sempre più – ma soprattutto cominciano ad essere percepiti – come un attore collettivo che aspira ad un’egemonia culturale generale, proprio per il rapporto di fascinazione che si viene instaurando con il movimento degli studenti e mentre si rendono conto di non essere più trasparenti per la società nel suo complesso e per i mass media in particolare6. Assai più sfumato, anche perché meno conosciuto, risulta invece il fenomeno degli «studenti medi» delle scuole secondarie superiori, che tuttavia esplode con forza proprio nel 1969 a costituire poi la vera spina dorsale del movimento studentesco, pur con elementi velleitari e talvolta goliardici, attorno alla rivendicazione della partecipazione e della collegialità (istituzionalizzate poi con i Decreti delegati del 1974) e almeno fino alla crisi del 1977-787. In particolare negli istituti tecnici e professionali in costante crescita quantitativa, questa mobilitazione – anche violenta – sosterrà il carattere di massa dell’incontro fra studenti e operai negli anni seguenti alla crisi del 1968-69, così tipico del caso italiano ben oltre i meccanismi identitari delle sottoculture giovanili. Ma il tema dell’incontro fra scuola e lavoro si pone anche in altri termini, più opachi, meno netti che sul piano ideologico e memorialistico, più ambigui. Il problema è che, per questi studenti del movimento, soprattutto universitari, e per questi futuri intellettuali, spesso il lavoro è ancora solo un concetto astratto, una formula libresca, un futuro indefinibile cui si arriva attraverso il presente scolastico e universitario8. L’incontro fra scuola e lavoro allora è molto meno chiaro e limpido di quanto ci si possa immaginare, pur essendo uno dei temi centrali di quegli anni e proprio del 1969 in particolare. Gli studenti nel 1969 (in realtà già dalla seconda metà del ’68) cominciano a conoscere il lavoro concreto. ma soprattutto scoprono gli operai e scoprono che per la gran massa di essi e dei lavoratori, giovani e meno giovani, la scuola è altrettanto astratta ed estranea di quanto lo sia il lavoro per gli studenti, non foss’altro per il fatto che solo un’esigua minoranza di essi ha avuto un rapporto poco più che episodico con l’una o l’altro. Chi lavora, se ha studiato, ha studiato prima. Chi studia, non sa ancora, se non intituivamente, cosa sia il lavoro. Il 1969 è quindi prima di tutto un incontro fra studenti e operai, fra categorie fin ad allora esistenzialmente separate, territori incogniti, e fra cui solo i lavoratori-studenti costituivano un fragile ponte, fortemente emarginato da una 6 Su questi aspetti si sofferma particolarmente A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma 2006. Antonio Santoni Rugiu, già nel 1971, è consapevole del fatto che anche nella scuola «niente si muoverà […] se i lavoratori attraverso le loro organizzazioni non assumeranno come proprio e urgente il problema»; a.s.r., Lavoratori e riforme scolastiche, in Scuola e Città, n. 4, 1971, pp. 125-126. 7 M. Marcucci, Movimento studentesco medio: storia, problemi, prospettive, in La riforma della scuola, n. 10, 1969, pp. 10-17. A titolo di esempio, cfr. la documentazione sull’azione dei collettivi di studenti medi romagnoli riportata in Inchiesta, n. 13, 1974, pp. 22-38. 8 Si rileggano, a questo proposito, le pagine iniziali di S. Vassalli, Archeologia del presente, Einaudi, Torino 2001. 185 PIETRO CAUSARANO parte e dall’altra. Questo intervento, allora, cercherà di parlare di un difficile, controverso, incompiuto incontro, quello fra scuola e lavoro nell’anno 1969, in un senso limitato e modesto che voglio spiegare e che vorrebbe distanziarsi dalla simbologia e dalla retorica di quel periodo. Un incontro per di più poco governato né sufficientemente regolato, dopo la crisi politica verticale del Centrosinistra e delle sue prospettive ottimistiche di riformismo economico e sociale, in particolare proprio sulla scuola9. Cosa è stato prima Vi sono alcuni elementi, dunque, che intendo enucleare preliminarmente. Prima di tutto, quali sono state le conseguenze dell’esplosione della scuola secondaria di massa già nella seconda metà degli anni ’60, soprattutto negli istituti tecnici e professionali, a seguito delle aspettative suscitate dalla scuola media unica del 1962? In altri termini, cosa ha comportato e quale legame c’è fra l’esplosione della ribellione alla fine degli anni ’60 e l’ingresso – temporalmente di poco precedente – di studenti provenienti da gruppi sociali tradizionalmente esclusi dall’istruzione prolungata in una scuola inadeguata, per strutture, personale e metodologie, ad accoglierli? Ragazzi provenienti per di più da contesti in cui la relazione con la scolarizzazione è stata limitata, se non episodica, ma ove invece la dimestichezza anche familiare con il lavoro, manuale od esecutivo, con la fatica di tutti i giorni, rappresenta parte integrante della socializzazione individuale, a costituire quasi un’antropologia quotidiana alquanto lontana dalla filosofia idealistica e gentiliana che ancora permeava l’insegnamento, soprattutto secondario, e il suo ideale di studente. La scuola come istituzione è estranea al lavoro, sia per la storica limitata accessibilità garantita agli studenti provenienti da certi contesti sociali e culturali, sia per l’incapacità di rispondere alle nuove necessità formative dei lavoratoristudenti, la figura emergente del decennio, o comunque delle nuove generazioni uscite dalla scuola media unica. Il IV Rapporto del CNEL per il 1969 mette bene in evidenza questa opposizione fra scuola e lavoro: in agricoltura ancora il 43% degli addetti è analfabeta o senza titoli di studio e ben quasi il 54% ha solo la licenza elementare, cioè quasi la totalità di chi lavora la terra non ha compiuto l’obbligo scolastico (che per inciso è tale a 14 anni fin dal 1923); nell’industria ben il 67% degli addetti ha solo la licenza elementare (più un altro 11% senza titoli o analfabeta), arrivando a tre quarti dei lavoratori industriali senza titolo dell’obbligo; solo il 17% ha il diploma di scuola media inferiore; senza 9 M. Baldacci, F. Cambi, M. Degl’Innocenti, C.G. Lacaita, Il Centrosinistra e la riforma della scuola media (1962), Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2004. In generale, C. Pinto, Il riformismo possibile. La grande stagione delle riforme: utopie, speranze, realtà (1945-1964), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2008. 186 LA SCUOLA E LA FATICA considerare i disoccupati (dove però si addensano già significativamente percentuali superiori alla media di diplomati alla secondaria inferiore e superiore), anche nel terziario chi non ha finito la scuola dell’obbligo raggiunge comunque la ragguardevole percentuale del 54%, prevalentemente con la sola licenza elementare10. Se la scuola è estranea al mondo del lavoro e della produzione (ma anche alla «vita» in genere, come sostenuto da più voci ancora nel corso degli anni ’60 e non solo dai giovani «ribelli»), allora – dopo il 1962 – per la prima volta paradossalmente entrano a scuola in gran numero i figli di questo mondo produttivo escluso, che ben conoscono il loro destino professionale, la loro «vita» futura, ma sperano di sfuggirlo magari proprio grazie alle opportunità di studio. Alle crescenti distanze culturali dal lavoro manuale ed esecutivo percepito in maniera diversa dalle vecchie generazioni, alla diffusa e crescente disaffezione verso di esso tanto più se subordinato11, alle aspettative anche solo strumentali riposte nella formazione, farà da reagente e collante la scolarizzazione di massa prolungata, già negli anni ’60 e ancor più negli anni ’7012. Accanto a questo fenomeno, nello stesso tempo esplode il problema dei lavoratori-studenti, una forma di scolarizzazione indiretta e ritardata in espansione fra la fine degli anni ’50 e tutti gli anni ’60, sia nella scuola secondaria che all’università e che proseguirà intensa anche nel decennio successivo, legandosi alle prospettive del nascente lifelong learning e alla regionalizzazione della formazione professionale13. In questo caso, lo studio e la crescita culturale individuale entrano in rotta di collisione con l’incapacità del sistema d’impresa di costruire sistemi equi e aperti di valorizzazione e mobilità professionali in azienda e nel lavoro14, ma contemporaneamente evidenziano anche i limiti del rapporto fra studio e lavoro a livello sociale15. La questione è talmente rilevante che fi10 L. Balbo, G. Chiaretti, Le classi subordinate nella scuola di massa, in Inchiesta, n. 6, 1972, p. 32. Cfr. le pagine «operaiste» di N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971, e poi la sua riflessione, meno letteraria, fatta in Id., Prendiamoci tutto. Conferenza per un romanzo. Letteratura e lotta di classe, Feltrinelli, Milano 1972, dove emerge – al di là dell’ideologia – la percezione di una irriducibilità diversa, se non nuova, del lavoratore al suo lavoro. Cfr. anche Gli operai non vogliono più lavorare, in Potere operaio, n. 29, 1970. 12 Il che non impedisce affatto che la scuola funzioni sempre come canale di controllo della mobilità sociale e della riproduzione culturale; M. Dei, Cambiamento senza riforma: la scuola secondaria superiore negli ultimi trent’anni, in S. Soldani, G. Turi (a cura di), Fare gli italiani. Scuola e cultura nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 1993, pp. 87-127. 13 Alla fine degli anni ’60 sarebbero arrivati a 700.000, più del doppio rispetto all’inizio del decennio; Lavoratori-studenti, dossier in Formazione e lavoro, n. 38, 1969. Sulla formazione professionale, Regione e formazione professionale, dossier in Formazione e lavoro, n. 52-53, 1972, e S. Fadda, Formazione professionale e sviluppo regionale, in Annali della Fondazione Pastore, vol. X (1981), pp. 27-66. 14 CENSIS, Evoluzione e prospettive del sistema di formazione professionale in Italia, in INAPLI-CENSIS (a cura di), I problemi attuali della formazione professionale, INAPLI, Roma 1966, pp. 19-71 (il relatore è un giovane Giuseppe De Rita). 15 G. Alasia et al. (a cura di), I lavoratori studenti: testimonianze raccolte a Torino, Einaudi, Torino 1969. Cfr. anche M. Isnenghi, I lavoratori studenti tra integrazione e insubordinazione, in Problemi del so11 187 PIETRO CAUSARANO nanche padre Agostino Gemelli se ne occupa in un discorso inaugurale all’Università Cattolica di Milano, dedicato proprio al diritto allo studio e pronunciato in qualità di rettore nell’autunno 195616. Nel 1962-63, a Milano nasce la specifica associazione di rappresentanza promossa dalla CISL (l’AILS) e l’anno seguente quella della CGIL (l’ANSS). Dal 1964, una circolare ministeriale avvia inoltre la sperimentazione dei corsi serali presso gli istituti tecnici e professionali industriali e dal 1966 anche in altri, in particolare commerciali (corsi di sei anni, molto pesanti, all’interno di curricula e modalità didattiche analoghi a quelli ordinari diurni)17. Ne consegue che in quel decennio la pressione sociale diretta e indiretta sulle scuole superiori si fa molto forte; il fenomeno poi negli anni ’70 tenderà a crescere ulteriormente, anche all’università, grazie alla liberalizzazione degli accessi nel 1969 che trascina con sé l’esplosione definitiva della popolazione studentesca degli istituti tecnici e professionali18. Tutti questi elementi mostrano come le attività di studio, chiudendo davvero il lungo dopoguerra della miseria contadina e della ricostruzione morale e materiale del paese, si presentino allora e per la prima volta nei termini di una richiesta di massa – non solo della società urbana – per una effettiva mobilità sociale: un vero e proprio bisogno di trasformazione molecolare che necessitava di risposte istituzionali e politiche sistemiche che, in quegli anni, il riformismo bloccato del centro-sinistra non era in grado di assicurare in maniera adeguata, se si esclude la scuola media unica del 1962, che anzi funzionerà quasi da detonatore della crisi, nella scuola e nel lavoro. Aris Accornero, nel suo Il lavoro come ideologia del 1980, ricorda come, per l’operaio, accanto all’«ascesa professionale» nel processo produttivo quale forma di mobilità sociale limitata, l’unica fuoriuscita possibile da un destino individuale legato al lavoro manuale fosse tradizionalmente o la militanza politica e sindacale (la «missione») o lo studio, sorta di «emancipazione parallela»19. Negli anni ’60, per le mutate condizioni economiche e culturali delle famiglie, per i cambiamenti nella mentalità diffusa, piano piano l’istruzione diviene così un bene strategico su cui investire in ma- cialismo, n. 44, 1976, pp. 60-68. Vittorio Foa, a questo proposito, ricorda la «doppia fatica» che opprimeva queste figure operaie, di solito le più giovani, di fatto ignorate anche dal sindacato; V. Foa, Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Einaudi, Torino 1991, pp. 280-284. 16 Ristampato in A. Cova (a cura di), Storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti, vol. I, Discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola, 1921-22/1997-98, Vita & Pensiero, Milano 2007, pp. 424-450. 17 Circolari MPI n. 147/1964, n. 411 e n. 1760/1966. 18 Nell’anno scolastico 1950-51, gli iscritti agli istituti tecnici e professionali sono il 41% del totale degli iscritti alla scuola secondaria superiore, nel 1971-72 sono già quasi il 58%, al 1980-81 oltre il 63%. La crescita totale degli iscritti alla secondaria superiore raddoppia fra gli anni ’50 e i primi anni ’60, per divenire esponenziale successivamente. Il tasso di scolarità passa dal 10% dei primi anni ’50 al 35% del 1966 e poi al 53% del 1975; M. Dei, Cambiamento senza riforma, cit., pp. 88-89, 93. 19 Ma proprio per questo, se «l’istruzione è promozione», in Italia questo avviene «in un crescente distacco dal lavoro»; A. Accornero, Il lavoro come ideologia, il Mulino, Bologna 1980, pp. 63-65. 188 LA SCUOLA E LA FATICA niera generalizzata20. Ciò non toglie che i limiti di adattamento al nuovo contesto da parte del sistema scolastico (ad es. la famosa questione della selezione classista e del carattere «dicotomico» della scuola, per usare un’espressione di Franco Ferrarotti) molto spieghi della forza dirompente della rivolta finale del decennio, benché non tutto ovviamente21. Crescono inoltre le aspettative che spesso però non si traducono in opportunità, anche a causa del mutato atteggiamento nei confronti del lavoro esecutivo e manuale da parte delle nuove generazioni scolarizzate22. Non a caso proprio negli anni seguenti Marzio Barbagli pubblicherà la sua famosa ricerca sulla disoccupazione intellettuale quale elemento costante, strutturale, del rapporto fra istruzione e mercato del lavoro in Italia23. In connessione indiretta con quanto detto finora, troviamo pure i mutamenti nel mondo del lavoro e nelle condizioni in cui si lavora. Diamo per scontata la «grande trasformazione» economica, sociale, antropologica di quei decenni. In questo contesto, il tema delle qualifiche e della classificazione del lavoro diventa centrale già nella prima metà degli anni ’60, proprio perché è uno dei punti di congiunzione fra processi formativi e mercato del lavoro, oltre che uno dei principali elementi di dibattito sociale e politico nel decennio – in particolare sui ritardi del sindacato – in quanto locus simbolico delle conseguenze derivanti dalle trasformazioni organizzative del lavoro stesso, soprattutto industriale, nel secondo dopoguerra24. In questo caso, al centro viene posto il problema della riapertura di una mobilità professionale sul lavoro, di come essa si possa legare 20 M. Rusconi, C. Saraceno, Il lavoro dei bambini, in S. Musso (a cura di), Operai, Rosenberg & Sellier, Torino 2006, in particolare pp. 251-255. Ma si ricordi che, ancora nel 1965, Dina Bertoni Jovine scrive un articolo dal significativo titolo di Il ragazzo fra scuola e mestiere, su Scuola e Città, n. 4, 1965, pp. 265-271. 21 F. Ferrarotti, Studenti scuola sistema, Liguori, Napoli 1976, pp. 84-87. In quegli anni l’aspettativa di fallire nella scolarizzazione dell’obbligo è inversamente proporzionale allo status sociale e culturale familiare, mentre il livello professionale raggiunto è direttamente dipendente dall’età in cui si è smesso di studiare; P. Braghin, D. Giori, Scuola, organizzazione e mercato del lavoro, in AA.VV., Scuola e divisione del lavoro, ISEDI, Milano 1979, p. 218. Cfr. anche M. Miegge, Sviluppo capitalistico e scuola lunga, in Inchiesta, n. 1, 1971, pp. 23-35, e L. Balbo, G. Chiaretti, Le classi subordinate nella scuola di massa, cit., pp. 23-38. Si guardi anche A. Quazza, Scuola, selezione, mercato del lavoro, in Rivista di storia contemporanea, n. 2, 1973, pp. 240-256. 22 Cfr. i dati in P.G. Corbetta, Istruzione tecnica e mercato del lavoro, in Inchiesta, n. 11, 1973, pp. 44-63. Sulle mutate rappresentazioni del lavoro nel corso degli anni ’70, G. Romagnoli, G. Sarchielli (a cura di), Immagini del lavoro. Una ricerca tra i lavoratori manuali, De Donato, Bari 1983. 23 M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), il Mulino, Bologna 1974. 24 Si pensi al convegno dell’Istituto Gramsci del 1956, stampato come I lavoratori e il progresso tecnico, Editori Riuniti, Roma 1956. Il tema viene sistematizzato, nel fuoco degli anni decisivi di fine decennio, da un protagonista e insieme osservatore attento come Bruno Trentin; cfr. Da sfruttati a produttori. Lotte operaie e sviluppo capitalistico dal miracolo economico alla crisi, De Donato, Bari 1977, in particolare pp. 288-317. Per la tradizionale concezione difensiva della qualifica come patrimonio professionale, propria della CGIL, cfr. G.P. Cella, B. Manghi, R. Pasini, La concezione sindacale della CGIL: un sindacato per la classe, ACLI - Collana ricerche n. 9, Roma 1969, in particolare pp. 89-94. 189 PIETRO CAUSARANO all’addestramento e alla formazione professionale e poi al progresso culturale e civile più generale della classe operaia, di fronte a quella che – di contro – allora veniva efficacemente sintetizzata nell’immagine della «fine della carriera operaia», chiusa nelle rigidità gerarchiche dell’impresa25. Dall’osservatorio torinese, Sergio Garavini nel 1964, su Quaderni di rassegna sindacale, conferma il tradizionale approccio sindacale al tema: da una parte, la denuncia della funzionalità della formazione professionale e in parte dell’istruzione tecnico-professionale alle logiche di governo del mercato del lavoro determinate dai bisogni dell’impresa, che possono essere contrastate solo evitandone la completa privatizzazione e la completa subordinazione all’organizzazione produttiva26; dall’altra, la riproposizione del binomio umanesimo-cultura, quasi un’immagine allo specchio della società classista (la scuola speculare alle gerarchie nelle qualifiche); la soluzione starebbe nel modello politecnico caro alla tradizione marxista, e in particolare gramsciana, quale via d’uscita27. Nei primi anni ’70, questa tradizionale impostazione si salderà, dal punto di vista negoziale, con il gran tema della «professionalità» e della «polivalenza» che – attorno all’inquadramento unico operai-impiegati28 – riprenderà sul piano lavorativo tematiche tipiche del dibattito pedagogico degli anni precedenti, dalla «multilateralità» della personalità individuale alla sua «onnilateralità» in termini di formazione29. Franco Frabboni, nel 1967, non a caso parlava già esplicitamente, a proposito di formazione professionale, della possibile costruzione di 25 È tema complesso e fortemente condizionato dalle letture legate alle grandi industrie a produzione di serie (soprattutto la metalmeccanica fordista), ma in realtà molto più sfumato e frastagliato; cfr. M. Paci, Mercato del lavoro e classi sociali in Italia. Ricerche sulla composizione del proletariato, il Mulino, Bologna 1973, pp. 149-165; cfr. anche Le qualifiche, in Quaderni di rassegna sindacale, n. 30, 1971, e R. Fontana, Ristrutturazione del lavoro e iniziativa sindacale. Processo produttivo, qualifiche, salari nell’industria italiana (1969-1979), Franco Angeli, Milano 1981, in particolare pp. 77-89. Non entro invece nel merito dell’altro versante della questione, cioè quello dell’egualitarismo salariale in rapporto al superamento delle tradizionali forme di incentivazione individuale (a cominciare dal cottimo), che così centrale sarà nel 1969-70, e di come poi troverà una mediazione nelle nuove forme di inquadramento dopo il 1973; M. Dal Co, Qualifiche, età e anzianità dei lavoratori dell’industria, in G. Pinnarò (a cura di), Lavoro e redditi in Italia, 1978-79, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 73-109, e A. Di Gioia et al., Le retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Dal costo del lavoro alla retribuzione netta, Ediesse, Roma 1989. 26 Un tema già sviluppato da Vittorio Rieser nel 1962 sul n. 2 di Quaderni rossi (in Note sulla classificazione del lavoro, in particolare pp. 163-164). 27 S. Garavini, Per un nuovo rapporto tra i valori della scuola e i valori professionali del lavoro, in Quaderni di Rassegna sindacale, n. 5, 1964, pp. 5-11. Lo stesso Garavini lo ripropone anche su Scuola e Città con un articolo dal titolo Il rapporto scuola-produzione (n. 6-7, 1965, pp. 390-392). 28 Sulle origini dell’inquadramento unico, cfr. il saggio di Lettieri in questo volume. Mi permetto anche di rinviare alla prima parte del mio volume P. Causarano, La professionalità contesa. Cultura del lavoro e conflitto industriale al Nuovo Pignone di Firenze, Franco Angeli, Milano 2000. 29 Cultura e professionalità, dossier in Formazione e lavoro, n. 42, 1970; M. Corda Costa, A. Visalberghi, Formazione generale e formazione professionale, in Scuola e Città, n. 7-8, 1973, pp. 291-297. Ho sviluppato la questione in una relazione dal titolo Dal lavoro astratto al lavoro concreto: pedagogia, scuola e società dal ’68 al ’69, al convegno CIRSE, L’eredità del ’68: tra pedagogia e comunicazione. Per un bilancio, quarant’anni dopo (mimeo, Firenze, 23-24 ottobre 2009; in corso di stampa). 190 LA SCUOLA E LA FATICA una «mentalità scientifica, base per ottenere una polivalenza come atteggiamento operativo, e non come semplice attitudine materiale»30. Nel 1965 Gennaro Acquaviva, all’epoca nelle ACLI e vicino a Livio Labor e poi successivamente socialista, scrive ottimisticamente che la qualifica non va intesa «come fine dell’attività scolastica, ma come applicazione, concreta e multilaterale, della formazione ricevuta», rilevando inoltre la scarsa sensibilità di norma mostrata per questi temi dalle organizzazione sindacali tradizionali e in particolare dalla CGIL31. Nel fervore riformatore del centro-sinistra, invece, la formazione tecnico-professionale [dovrebbe essere] un insieme organico di attività pratico-culturali-formative che annulla le antiche distinzioni tra addestramento, apprendistato e istruzione e crea un quadro unitario il cui aspetto fondamentale è dato dalla formazione professionale di base a carattere scolastico, intesa come complesso di attività destinate a creare le condizioni che consentono al giovane di acquisire una o più qualifiche di lavoro nell’ambito di una molteplicità di scelte personali possibili ed economicamente utili32. Negli stessi anni, più prosaicamente Gino Giugni elabora un approccio che successivamente avrà grande successo, centrando l’attenzione critica sui sistemi di classificazione basati sui «mansionari» aziendali derivati dalla concreta organizzazione del lavoro industriale e sulla loro incapacità a valorizzare la «qualifica soggettiva» del lavoratore, il suo potenziale evolutivo in termini di ruoli e funzioni ricoperti e di eventuale formazione33. Cosa sarà dopo Voglio invece lasciare sullo sfondo, in termini di inquadramento generale e indiretto, altri temi più vasti che verranno a maturazione negli anni successivi al 1969 e che, pur affondando le radici in quell’anno, se ne distanziano compli30 F. Frabboni, La formazione culturale nei corsi per apprendisti, in Scuola e Città, n. 7-8, 1967, pp. 395-402. 31 Nel 1962, il piombinese Masetti (della FIOM aziendale Italsider, appoggiato poi dal genovese Rossi di Cornigliano) lamenta dall’interno – di fronte alle sperimentazioni di job evaluation avviate a partire da Genova nella siderurgia pubblica – «un ritardo [sindacale e politico] nella impostazione di una […] politica delle qualifiche», al fine di superare la tradizionale classificazione del lavoro; Convegno nazionale dei comunisti dell’Italsider, Tip. Nava, Roma 1962, pp. 37-38. 32 G. Acquaviva, Gli obiettivi di riforma della formazione professionale, in Scuola e Città, n. 6-7, 1965, pp. 387-390. Nello stesso numero della rivista, si parla esplicitamente di «polivalenza» in termini formativi e non solo produttivi in F. Golzio, La preparazione polivalente, ivi, pp. 392-395. Cfr. anche M.A. Manacorda, Marx e la pedagogia moderna, Editori Riuniti, Roma 1966. Il tema del superamento della distinzione storica fra addestramento professionale e formazione tecnica è ripreso poi sempre da S. Garavini, Il rapporto scuola-produzione, cit., pp. 390-392. 33 G. Giugni, Mansioni e qualifiche nel rapporto di lavoro, Jovene, Napoli 1963. Sul tema del ruolo, un’evoluzione teorica rilevante per la riflessione del movimento consiliare post-1969 sarà legata ai lavori di Federico Butera, ricompresi poi nel classico La divisione del lavoro in fabbrica, Marsilio, Venezia 1977. 191 PIETRO CAUSARANO cando enormemente il panorama, le aspettative, le possibilità. In fondo, chi si trova coinvolto attivamente o passivamente nella confusione di quell’anno non sa quanto essa sarà produttiva di lì a poco, in che misura porterà alla «formazione di una nuova identità collettiva»34. È un humus di cui ancora si possono solo intuire i frutti perché l’esito del conflitto sociale e politico in corso non è ancora acquisito, le nuove leadership non si sono ancora affermate, la forza contestativa e rivendicativa dimostrata non è ancora consolidata e istituzionalizzata, come è tipico dei movimenti allo «stato nascente»35. In estrema sintesi, non toccherò – se non per brevi e sommari cenni – i seguenti temi, pur così importanti negli anni ’70 nel mettere in discussione il nesso tradizionale fra scuola e lavoro. Per primo, il dibattito sulla scuola e sulla riforma della scuola. È ovvio che qui si tiene conto delle trasformazioni e delle parziali riforme di sistema, ma appunto sullo sfondo (dalla scuola media unica del 1962 alla scuola materna statale nel 1968 e poi alle politiche per gli asili nido dei primi anni ’70 rispetto alla femminilizzazione del lavoro, dalla liberalizzazione degli accessi universitari e dei piani di studio nel 1969 alle «150 ore», poi il tempo pieno, i Decreti delegati con la collegialità e la partecipazione, ecc.)36. Un secondo tema riguarda le trasformazioni del lavoro e della sua organizzazione in rapporto alla formazione (si pensi a tutto il dibattito delle riviste operaiste degli anni ’60 sul neocapitalismo oppure della sinistra storica e del sindacato su tecnologia e scienza dalla metà degli anni ’50, il tema dei tecnici e della loro «proletarizzazione» introdotto in questo volume da De Vito, il problema del nesso fra sapere e potere e della «scienza operaia», il protagonismo e la nuova soggettività operaia e studentesca, ecc.)37. Il tradizionale riformismo della sinistra storica è in ogni caso profondamente sollecitato dall’estremizzazione del ’68 e non a caso, ancora nel 1969 e nel 1970, Lucio Lombardo Radice ripropone, come via di uscita a quello che lui considera un concreto rischio di velleitarismo rivoluzionario (espresso ad es. nel famoso numero-dossier de Il Manifesto con Le tesi sulla scuola uscite nel 1970), la tradizionale distinzione fra istanze riformatrici – «una riforma della scuola che non sia riformistica», autenticamente liberatoria di energie e potenzialità inespresse, ora e qui e senza attese palingenetiche, in quanto la scuola, come la fabbrica, è 34 A. Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, il Mulino, Bologna 1978, p. 13. 35 Secondo la definizione di F. Alberoni, Statu nascenti, il Mulino, Bologna 1968, e Movimento e istituzioni, il Mulino, Bologna 1977. 36 Una cronaca stringente di quegli anni tumultuosi si ha in M. Gattullo, La politica scolastica del Centrosinistra negli anni 1968-1972, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1973, pp. 74-113. Cfr. anche M. Gattullo, A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, La Nuova Italia, Firenze 1986. 37 Rimando, senza pretesa di completezza, a libri storici come L. Libertini, Tecnici impiegati classe operaia. Inquadramento unico e 150 ore, Editori Riuniti, Roma 1974; R. D’Andrea, Scienza operaia e organizzazione del lavoro. Cultura, professionalità e potere dei gruppi operai di fronte al processo produttivo, Marsilio, Venezia 1976. In generale, G. Crainz, Il paese mancato, cit., cap. X. 192 LA SCUOLA E LA FATICA «terreno di scontro delle classi antagonistiche» e «ogni riforma autentica è elemento di disintegrazione del sistema di potere capitalista» – e istanze appunto meramente riformistiche (razionalizzatici del sistema)38. Tenendo conto di questi grandi problemi di sfondo, mi voglio concentrare invece su un’esperienza, richiamata anche in altri saggi di questo volume, per spiegare quanto i frutti del 1969 siano successivi a quell’anno e quanto siano magari ancora solo intuibili – e soprattutto dall’esito non scontato – nel fuoco di quelle vicende. Le «150 ore» – la grande sperimentazione di formazione operaia di massa promossa e ottenuta collettivamente dal mondo del lavoro italiano negli anni ’70, esempio anche a livello europeo39 – nel 1969 in realtà non ci sono ancora. Appaiono come idea seppur vaga nel 1971 a livello negoziale e poi come oggetto sempre più definito di piattaforma sindacale solo fra il 1972 e il 1973 e si affermano infine con la tornata contrattuale industriale del 1973-74, collegandosi alla questione dell’inquadramento unico operai-impiegati40. Ancora nel 1969 e nel 1970, quando si parla di queste questioni (la formazione non è per altro uno dei temi della negoziazione decentrata più diffuso, come ci ricordano gli studi di quegli anni della nascente moderna sociologia italiana del lavoro industriale)41, si parla ancora di lavoratori-studenti (scuole serali) e di permessi (non sempre retribuiti) per esami42. Lo stesso art. 10 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (legge 300/1970) si ferma a questo aspetto, in particolare cercando di tutelare i lavoratori-studenti sul piano dei turni e degli straordinari43. 38 L. Lombardo Radice, Scuola e lotta di classe, in Riforma della scuola, n. 1, 1969, pp. 3-5, e Id., I termini della dialettica scuola-società, ivi, n. 3, 1970, pp. 15-19. 39 L. Pagnoncelli (a cura di), Tornare a scuola in Europa. Sistemi formativi a confronto, Unicopli, Milano 1985. Cfr. anche L. Dore, Fabbrica e scuola. Le 150 ore, ESI, Roma 1975, e N. Delai, Tra scuola e lavoro, Marsilio, Venezia 1977. 40 Nuova domanda formativa del lavoratore metalmeccanico, in Formazione e lavoro, n. 67-68 e n. 69-70, 1973-74; F. Roscini, Corsi per lavoratori, in Scuola e Città, n. 9, 1973, p. 459; P. Ricci, 150 ore per un diploma di scuola media, ivi, n. 9, 1974, pp. 385-387; FLM, Primo bilancio delle 150 ore, in Inchiesta, n. 13, 1974, pp. 19-22. 41 A parte i diritti e la rappresentanza, i temi negoziali centrali sono da una parte l’egualitarismo salariale e dall’altra il controllo sulle condizioni di lavoro (passaggi collettivi di qualifica, premi collettivi vs. cottimi individuali, orari e ritmi, ambiente di lavoro, ecc.). Cfr. M. Regini, E. Reyneri, Lotte operaie e organizzazione del lavoro, Marsilio, Venezia 1971; G.P. Cella, Divisione del lavoro e iniziativa operaia, De Donato, Bari 1972; A. Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato, cit. (in particolare pp. 16-20), volume preceduto dai cinque dedicati a singole realtà aziendali. 42 La piattaforma unitaria FIOM-FIM-UILM, oggetto di consultazione nell’estate 1969 e di cui parla Loreto in questo libro, ad esempio prevede «l’avvicinamento normativo fra operai e impiegati» (infortuni, malattia, scatti, ferie), ma – a proposito delle «rivendicazioni specifiche per giovani» – prevede di chiedere solo «permessi per partecipazione a corsi sindacali» (non retribuiti), «permessi per esami» (retribuiti) e la «riduzione» di un terzo degli «scaglioni apprendistato». Il testo consultato è in Archivio FIOM Firenze, f. LIII, b. 2, cc. 4-6, 25 luglio 1969. 43 Lo scarso peso delle tematiche formative nella contrattazione, in particolare aziendale, riemergerà poi negli anni ’80 e ’90, fino ad anni recenti, ed è direttamente speculare al dimensionamento delle imprese italiane, notoriamente assai livellato verso il basso; cfr. G. Della Rocca (a cura di), La formazione professionale e la ristrutturazione economica in Italia e in Germania, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1999, e F. Farinelli, S. Vaccaro, La contrattazione della formazione continua e i Fondi interprofessionali, in R. Pette- 193 PIETRO CAUSARANO Il tema dei permessi retribuiti per il diritto allo studio (inteso come frequenza scolastica o universitaria e non solo come prove di profitto) comincia ad apparire diffusamente solo nel 1971, nelle prime piattaforme unitarie dei metalmeccanici, accompagnando ancora non in modo chiaro la crescente pressione negoziale in favore della revisione delle vecchie forme di inquadramento del lavoro industriale e della classificazione unica operai-impiegati (a cominciare dagli accordi aziendali sull’inquadramento unico operai-impiegati all’Italsider e al Nuovo Pignone, gruppi industriali in cui la configurazione del lavoro operaio metallurgico e meccanico non corrisponde però alla canonica esperienza del conflitto esploso con l’Autunno caldo)44. Il caso FIAT, da questo punto di vista e come spesso succede, è emblematico, anche quando non sia all’avanguardia. Nell’aprile 1970, si svolge a Torino la conferenza nazionale unitaria del gruppo. Nei documenti preparatori discussi in tutti gli stabilimenti a livello nazionale (su qualifiche, salario, ambiente di lavoro) la tematica formativa è ancora scarsamente presente, ma tuttavia emerge ad esempio là dove collega, nella rivendicazione della classificazione unica, uno dei «criteri generali» di valutazione al grado di scolarità pregressa o all’istruzione via via raggiunta. Questa strategia vuole ottenere almeno un parziale controllo del «riconoscimento professionale» e quindi anche un «collegamento con la politica della scuola nella società e nella fabbrica»45. Nel marzo 1971, l’ipotesi unitaria di piattaforma rivendicativa per gli stabilimenti produttivi FIAT, mentre delinea ormai esplicitamente la richiesta della classificazione unica fra operai e impiegati, prevede l’obiettivo della «ricomposizione delle mansioni», il «riconoscimento della polivalenza, nel quadro della mobilità interna, come uno dei profili di valutazione professionale»; tuttavia, come conseguenza, si limita ancora a chiedere il «diritto di partecipazione a corsi di formazione professionale interni e/o esterni all’azienda». Nel capitolo rivendicativo specificamente dedicato ai lavoratori-studenti si chiede però – in più – la congruità delle mansioni svolte rispetto al titolo di studio «in via di conseguimento»; la «fissazione dell’entità dei permessi non retribuiti» per esami e corsi, scaglionabili nel tempo; la «fissazione dell’entità dei permessi retribuiti» per la frequenza nello (a cura di), La formazione dei lavoratori, il sindacato e la contrattazione. I Fondi per la formazione continua: un primo bilancio. Analisi ed esperienze, Ediesse, Roma 2006, pp. 195-222. 44 Il saggio di Loreto in questo libro sulla piattaforma unitaria dei metalmeccanici del 1969 e poi quello di Lettieri sulla siderurgia pubblica mostrano le origini di questa dinamica successiva al 1968-69, ma anche quanto essa fosse ancora assente nel 1969 rispetto alla consapevolezza e maturità che acquisirà successivamente. Sempre di A. Lettieri, Note su qualifiche, scuola e orari di lavoro, in Problemi del socialismo, n. 49, 1970, pp. 802-816; cfr. anche, per il settore pubblico che in questo caso fa da apripista, M.P. Camusi, La politica contrattuale dell’Intersind dal 1969 al 1979, in Annali della Fondazione Pastore, vol. XI (1982), pp. 293-325, e P. Causarano, Sindacato e cultura del lavoro: qualità, qualificazione e inquadramento del lavoro, in FIOM (a cura di), Dalle Partecipazioni Statali alle politiche industriali. Storie industriali e del lavoro, Meta Edizioni, Roma 2003, pp. 25-57. 45 Archivio FIOM Firenze, f. LXII, b. 27, FIAT. Conferenza unitaria di gruppo. Materiali preparatori, cc. 35-32 [3-5 aprile 1970]. 194 LA SCUOLA E LA FATICA di «seminari collettivi» o per sostenere esami, prove di laboratorio o prove pratiche in genere; l’entità del rimborso per le spese nell’acquisto dei libri di testo; «agevolazioni nell’assegnazione dei turni di lavoro»46. Solo con lo sviluppo dell’esperienza della FLM (cfr. convegno dell’ottobre 1972 a Bologna sulla democrazia a scuola e in fabbrica) e la piattaforma per il rinnovo contrattuale del medesimo anno (seguita da specifiche iniziative a Genova, Milano, Roma, Torino, preparatorie di quella di Bologna)47, la prospettiva del diritto allo studio retribuito si diffonde e diventa generalizzata e si salda chiaramente con la richiesta di inquadramento unico operai-impiegati che poi caratterizzerà la successiva tornata contrattuale48. Così diviene evidente il nesso per cui, nelle strategie sindacali, il diritto allo studio si lega al governo della mobilità professionale in azienda (la ricostruzione della carriera operaia, la polivalenza, la mobilità verticale e non solo orizzontale, ecc., temi tipici del dibattito sindacale e dell’azione sindacale e, come abbiamo visto, non solo degli anni seguenti). Tutto questo – e non c’è tempo di soffermarcisi – mette in gioco la funzione della scuola pubblica, come è organizzata, come funziona, nel momento in cui per il diritto allo studio retribuito ci si rivolge ad essa (e così sarà fino agli anni ’80) non per fini professionalizzanti, esclusi esplicitamente all’epoca per i corsi delle «150 ore», ma per il recupero dell’obbligo d’istruzione, per la formazione culturale generale o per la formazione sindacale delle nuove élites di fabbrica49. Il sindacato maggioritario, la CGIL, alla fine di questo percorso inconsapevolmente iniziato nel 1969 e seppure in ritardo, a partire dai problemi del lavoro e attraverso il suo farsi moderno sindacato industriale si trova ad occuparsi quindi anche di scuola ben oltre le tradizionali tematiche connesse al mercato del lavoro o della formazione e addestramento al lavoro, cosa del tutto nuova nella sua storia50. 46 Archivio FIOM Firenze, f. LXVI, b. 15, FIAT. Piattaforma contrattuale unitaria, cc. 1-11, 21 gennaio 1971. Su Torino, L. Lanzardo, Note sui corsi per le 150 ore. Il caso di Torino, in Rivista di storia contemporanea, n. 4, 1975, pp. 611-622. 47 La documentazione è ampiamente riportata in I metalmeccanici, la scuola, le lotte sociali, in Inchiesta, n. 7, 1972, I, pp. 45-56, e ivi, n. 8, 1972, II, pp. 45-47. 48 Non a caso l’archivio più consistente e in grado di dare un panorama nazionale dello sviluppo delle «150 ore» negli anni ’70 è quello della FLM, conservato a Roma presso la Biblioteca centrale CISL; 150 ore per il diritto allo studio. Il fondo FLM (http://online.cisl.it/e-book/I0351F499.0/150ORE ~1.PDF); P. Causarano, Lavorare, studiare, lottare. Fonti sull’esperienza delle «150 ore» negli anni ’70, in Historied. Fonti e risorse per la storia dell’educazione, n. 1, marzo 2007 (http://www.historied.net/portal/ index.php?option=com_content&view=article&id=9&Itemid=13). 49 D. Demetrio (a cura di), 150 ore e diritto d’alfabeto. Alfabetizzazione degli adulti e realtà operaia, Guaraldi, Rimini-Firenze 1977; M.L. Tornesello, I corsi 150 ore negli anni Settanta: una scuola della classe operaia?, in Storia e problemi contemporanei, n. 40, 2005 (dossier: Istruzione formazione); P. Causarano, La construction d’une conscience ouvrière du risque dans l’Italie des années 1960-1970 : luttes sociales, formation syndicale et 150 heures, in C. Omnès, L. Pitti (sous la direction de), Cultures du risque au travail et pratiques de prévention, PUR, Rennes 2009, pp. 203-216. 50 La CGIL nazionale, ancora nell’autunno 1968, nel documento preparatorio della conferenza nazionale delle grandi imprese (Ariccia, 15-17 novembre 1968), non scrive niente sulle questioni 195 PIETRO CAUSARANO Indagini del centro studi CISL, o l’azione delle ACLI come può essere ricostruita nella rivista Formazione e lavoro, mostrano a contrario impietosamente il ritardo della CGIL in questi campi, a fronte di un interesse di area cattolica, tipico del personalismo, che però viene gradatamente mutando di significato nel tempo, all’interno di una trasformazione più generale del modello associativo cislino51. In ogni caso, se nella documentazione congressuale della CGIL nel dopoguerra l’unico riferimento costante è all’apprendistato, anche nella documentazione contrattuale delle categorie si nota questa assenza o almeno la marginalità delle questioni formative: nei contratti collettivi nazionali dei lavoratori metalmeccanici, dal 1948 fino al 1968, non si parla mai ad es. di formazione professionale; uniche eccezioni rilevanti, nel panorama contrattuale fino agli anni ’60, sono le scuole professionali a gestione paritetica previste nei contratti del dopoguerra per edili e grafici52. Nel 1969, però, Sergio Garavini, parlando di qualifiche e qualificazione del lavoro, sposta per la prima volta la questione dalla dimensione industriale dell’organizzazione del lavoro verso la questione formativa, oltre la semplice alfabetizzazione: secondo lui, il problema va spostato verso la scuola superiore e l’università («la scuola di chi non lavora»), perché invece la scuola sia pensata e strutturata in maniera aperta e inclusiva, «una scuola fondamentalmente per giovani che lavorano e non viceversa, organizzata dal lato del lavoro e dal lato della scuola per consentire lo studio ai giovani che lavorano e non viceversa»53. Insomma, le premesse di quella che poi sarebbe stata definita negli anni ’70 – oltre la tradizionale «scuola delle tute blu» – la «scuola di noi operai»54. Nel settembre 1969, non a caso la FIOM nazionale segnala, nel campo dei della scuola o della formazione in genere, limitandosi a rivendicare i diritti sindacali e in particolare il riconoscimento della sezione sindacale aziendale (istituto di lì a poco travolto dalla rivolta operaia, ancor più della commissione interna), il diritto di assemblea, l’unità sindacale, ad approfondire la questione della «contrattazione articolata» e aziendale in rapporto agli altri livelli; sui contenuti rivendicativi di ordine sociale più generale, si limita ancora alle pensioni, all’occupazione, alle ristrutturazioni organizzative (la «disoccupazione tecnologica»). La formazione appare, quando appare, per lo più come strumento compensativo e per il reinserimento (aggiornamento professionale), non come strategia strutturale; Archivio FIOM Firenze, f. L, b. 9, Carteggio CGIL-FIOM, cc. 8-10, Conferenza nazionale Grandi Imprese, 25 settembre 1968. 51 Anche voci interne alla CGIL, pur accampando le attenuanti legate alla repressione antisindacale, ammettono i pesanti ritardi culturali del maggior sindacato, soprattutto rispetto a CISL; I. Pisoni Glisenti, Azione sindacale e intervento nelle strutture extra-scolastiche della formazione professionale, in Quaderni di Rassegna sindacale, n. 5, 1964, pp. 15-18. 52 Nello stesso periodo, alcuni contratti tuttavia cominciano a prevedere prime facilitazioni per i lavoratori-studenti a partire dalla fine degli anni ’50, inizi ’60; cfr. P.A. Varesi, La contrattazione collettiva in materia di formazione professionale, in Annali della Fondazione Pastore, vol. XII (1983), in particolare pp. 111-126. 53 S. Garavini, La qualità della forza-lavoro, in Riforma della scuola, n. 12, 1969, pp. 11-15. Le consonanze fra culture diverse crescono in quei mesi; M. Carboni, La rivendicazione formativa, in Formazione e lavoro, n. 40, 1969, pp. II-IV. 54 U. Trivellato, L. Bernardi, La scuola delle tute blu. Scuola, formazione professionale e mercato del lavoro, Padova, Venezia 1974; P. Causarano, Lavorare, studiare, lottare, cit. 196 LA SCUOLA E LA FATICA corsi residenziali o serali per l’educazione degli adulti (organizzati dallo Stato o da enti e associazioni finanziate direttamente dallo Stato, previa autorizzazione), il mutamento di indirizzo avvenuto a livello governativo con una maggiore apertura a tematiche riguardanti gli interessi sindacali55. Per il sindacato, peraltro, questi corsi (residenziali o serali) per «l’elevazione culturale dei lavoratori» già nel 1970 sono diventati dei «normali corsi sindacali, anche se nelle domande la terminologia ministeriale va opportunamente rispettata»56. Questi corsi per certi versi anticipano, almeno sul piano di alcuni contenuti, le principali direttrici dei futuri corsi delle «150 ore»57. Nel 1971, il ministro Misasi emana un’ordinanza ministeriale (datata 26 luglio) sulle Attività di educazione degli adulti per l’anno 1972, in cui ormai è acquisita chiaramente l’attenzione prevalente all’«aggiornamento culturale» e al fatto che questi corsi devono essere «uno strumento […] di attiva e consapevole integrazione sociale» (sviluppo della cultura generale, escludendo esplicitamente qualsiasi riferimento professionalizzante e tecnico-pratico)58. Il 1969 come collettore e come incubatore Il 1969, abbiamo detto, sedimenta un humus comune, che già emerge a tratti nelle vicende della fine del 1967 e nel 1968, e che maturerà pienamente solo successivamente, come abbiamo visto or ora. Il terreno comune, nella convulsione delle vicende quotidiane che si accavallano, è costituito dall’antiautoritarismo, dalla domanda di democrazia sostanziale, dalla ridefinizione dell’idea stessa di cittadinanza attorno alla partecipazione59. Con gli occhi del dopo, con la distanza che permette di filtrare l’orgia di identità collettive e sulla falsariga della lettura che Bruno Trentin ha dato del secondo «biennio rosso», emerge anche la centralità – spesso inconsapevole anticipazione del contributo dato all’individualizzazione tipica del periodo successivo – dei diritti personali, della 55 Archivio FIOM Firenze, f. LIV, b. 1, c. 158, 10 settembre 1969. Archivio FIOM Firenze, f. LIX, b. 3, c. 35, 3 settembre 1970. 57 Ad esempio la Camera del lavoro di Firenze, nel settembre 1970, presenta un progetto per corsi serali al Provveditorato agli studi il cui programma prevede: «storia dell’umanità, del sindacato e della sua funzione sociale»; le tematiche dell’ambiente, della salute e dell’organizzazione del lavoro; educazione sociale e alla cittadinanza (diritti sociali); tempo libero e tempo di lavoro; innovazioni tecnologiche e organizzative; Stato sociale; ecc.; Archivio FIOM Firenze, f. LIX, b. 1c, c. 172, [settembre 1970]. È uno schema didattico già evidente, con qualche variante, a livello nazionale e che si consoliderà successivamente nell’esperienza delle «150 ore»; cfr. «l’itinerario pedagogicodidattico» proposto alle sperimentazioni in corso da Formazione e lavoro, dossier su Cultura e professionalità, cit., pp. 87-89. 58 In Bollettino Ufficiale del Ministero della Pubblica istruzione, parte I, n. 80-81, 21 luglio - 5 agosto 1971, pp. 7-22. 59 Cfr. F. Fortini, Il dissenso e l’autorità, in Quaderni piacentini, n. 34, 1968, pp. 91-95, in cui – distinguendo autoritarismo e autorità e pur restando all’interno di un giudizio positivo e di adesione – mette in luce anche limiti e ambiguità, semplificazioni presenti nel movimento studentesco. 56 197 PIETRO CAUSARANO persona «dietro la classe»60. Nel ricostruire quegli anni nella sua «storia di un paese mancato», Guido Crainz ad esempio evidenzia quel cortocircuito fra sapere e potere che Peppino Ortoleva aveva già messo in luce vent’anni fa come uno degli elementi centrali e vitali della cultura del 196861. Crainz richiama come esempio qualificante l’esperienza della salute e della sicurezza in quanto uno dei momenti significativi in cui le esperienze pilota degli anni 1966-68 (in particolare a Torino) si saldano alla grande questione della prevenzione, in cui la lotta operaia e sindacale alla nocività si affianca alle prime emergenze ambientali, incontrando la riflessione sul ruolo sociale e politico del tecnico e dell’esperto e in genere dell’intellettuale62. Qualità del lavoro e dello studio e qualità della vita si incrociano, attraverso l’esperienza di studenti e operai, non nei termini di compensazione (come nella riflessione del dopoguerra sui consumi, tempo libero e stili di vita nella affluent society, da Friedmann a Marcuse), ma piuttosto nei termini di possibile correlazione a partire proprio dal benessere individuale quale premessa del benessere collettivo63. Lucio Del Cornò, su Riforma della scuola nel 1968, a proposito dei «controcorsi» universitari intesi come «l’altra scuola» che «non […] si descrive [,] si fa», ricorda come queste esperienze si propongano di ridurre o addirittura annullare il distacco della scuola dalla realtà sociale, la sua astrattezza, la sua estraneità alla vita. «La scuola tradizionale è lo strumento attraverso il quale si dovrebbe apprendere ‘molto di poco’ (licei) o ‘poco di molto’ (istituti), ma sempre assolutamente niente della realtà»64. Ma contemporaneamente, nel 1969, cresce anche una distanza di senso fra nuovi movimenti, istituzioni e organizzazioni politiche tradizionali, sindacato compreso (almeno nei confronti del movimento studentesco, perché molto più complesso mi pare il tema della «nuova classe operaia»), proprio attorno all’idea di lavoro e di scuola in rapporto ad esso. Prima ancora che una incomunicabilità politica o una problematica possibilità di scambio culturale (maggiore è la permeabilità reciproca sul piano ideologico), vi è una diversità di percezione antropologica, di significato e di senso, anche su base generazionale, di vera e propria collocazione sociale, di fronte a quanto sta accadendo: la politicità e la socialità intrinseche agli eventi sono ben presenti agli occhi di tutti, sia delle organizzazioni storiche, sia del movimento dei delegati operai, sia del movimento studentesco; soprattutto in quest’ultimo caso, però, questa consapevolezza è filtrata da una prospettiva di cambiamento 60 B. Trentin, Il secondo biennio rosso, cit., pp. 69-72. P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988. 62 F. Carnevale, P. Causarano, La santé des travailleurs en Italie: acteurs et conflits. Une perspective historique, in Revue française des affaires sociales, n. 2-3, 2008, pp. 185-204, oltre al saggio contenuto in questo volume. 63 G. Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 241-251. Cfr. anche M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), in L. Bertucelli, A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008, pp. 141-142. 64 L. Del Cornò, La condizione degli studenti, in Riforma della scuola, n. 3, 1968, pp. 22-24. Cfr. anche i suoi tre interventi su Studenti oggi, nei numeri 3, 4 e 5 della stessa rivista nel 1969. 61 198 LA SCUOLA E LA FATICA esistenziale, di formazione individuale, fortemente condizionata da elementi di vitalismo e di spontaneismo che creano dei veri e propri décalages percettivi e linguistici. In ogni caso, è filtrata dalla consapevolezza della provvisorietà della condizione studentesca e dall’incapacità di collegarla – al di là delle esperienze individuali – alle trasformazioni del lavoro65. A volte si ha l’impressione che pur parlando delle stesse cose, degli stessi problemi, vi siano degli slittamenti nella comunicazione, che manchi una piena lingua comune anche quando le parole e gli slogan siano gli stessi o molto simili. Come ha ricordato Silvio Lanaro, siamo di fronte ad «un nuovo idioma». Che poi il tutto, già fra il 1969 e il 1970, sia rifluito nella codificazione tradizionale delle formule dell’operaismo consiliare, del marxismo-leninismo o del maoismo, che in queste formule infine si sia «corrotto», è altra questione, che paradossalmente – attraverso l’adesione a linguaggi codificati altri – accentuerà le difficoltà comunicative di un movimento come quello studentesco che invece proprio della relazione interpersonale, della sua ridefinizione comunicativa, faceva il contenuto principe della politica fra 1967 e il 196866. Questo significa che spesso categorie come quelle prima segnalate diventavano una reiterazione stereotipata che non coglieva appieno i fenomeni, li affiancava, li nascondeva, li velava, o comunque non ne rendeva la pienezza complessa sul versante del lavoro. In ogni caso, questa proiezione sistemica, che passa attraverso il recupero ideologico della tradizione fraseologica rivoluzionaria del movimento operaio, porta naturalmente a far incrociare le vicende degli studenti e degli operai attorno al tema della lotta di classe, con un parallelismo nel leggere la reciproca condizione sociale sostanziale che è molto presente nel dibattito del movimento studentesco67. Dal punto di vista del lavoro, però, la questione pare meno diretta e semplice, o meglio pare che – attorno alla formazione in rapporto al lavoro – le culture istituzionali del movimento operaio siano state trascinate dall’entusiasmo studentesco e dal coinvolgimento generazionale di giovani studenti e di giovani operai nel florilegio di comitati unitari e comitati popolari sorti un po’ dappertutto nelle grandi realtà industriali del CentroNord e del Sud (si pensi a Napoli) dal 1968-6968. 65 Come ricorda Foa, egli allora aveva l’impressione che gli studenti si occupassero «moltissimo dei conflitti di lavoro» e vedessero «nel proletariato il vero soggetto rivoluzionario», ma che il lavoro «come esperienza pratica» non incontrasse «il loro interesse», ma fosse piuttosto l’oggetto astratto attorno a cui, quasi esistenzialmente, «completare la loro elaborazione teorica» attorno alla società; V. Foa, Il cavallo e la torre, cit., p. 284. 66 Cioè della «creazione di uno spazio politico destinato non alla conquista del comando sulla società ma al libero esercizio della comunicazione intersoggettiva»; S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Marsilio, Venezia 1992, p. 348. 67 Un esempio per tutti, la questione lungamente dibattuta dell’alienazione; cfr. A. Benvenuti, Sull’alienazione scolastica, in Scuola e Città, n. 6, 1973, pp. 238-242. 68 Nel giugno 1968, ad es. La voce dei lavoratori, bollettino della Camera del lavoro di Bologna, dà spazio all’ intervento di uno studente, intitolato I problemi dell’unità fra studenti e operai, in cui l’autore cerca di spiegare il senso dell’avvicinamento alle fabbriche e agli operai. Cfr. anche, sempre a Bolo- 199 PIETRO CAUSARANO Il tema del rapporto fra scuola e lavoro pare cioè essere effettivamente il luogo dove l’incontro fra operai e studenti è stato particolarmente produttivo, il che è paradossale nel momento in cui le organizzazioni politiche della sinistra extraparlamentare, pur essendo la scuola e l’università il bacino sociale prioritario della loro militanza, in realtà si staccheranno da esse, o meglio si proietteranno fuori di esse (un po’ come a livello sindacale, ci si proiettava fuori della fabbrica nella società). Questa ricchezza, questa complessità sono spesso velate dal linguaggio ideologizzato; il problema è che è molto difficile renderle anche per noi, a distanza di tanto tempo. Tuttavia, l’incontro c’è stato ed è stato ricco, fecondo, dalle multiformi influenze69. Un esempio emblematico è costituito dalla «Comune» evangelica di Cinisello Balsamo nell’hinterland milanese, composta da studenti impegnati nel movimento, fondata nell’ottobre 1968 e durata a lungo70. La «testimonianza» religiosa si accompagna alla militanza politica nella sinistra extraparlamentare, attirando diffidenze e indifferenze di vario genere nelle istituzioni di una comunità locale periferica e dalla difficile integrazione (dalle amministrazioni locali ai carabinieri, dalla parrocchia cattolica alle «bande giovanili»). La «Comune» persegue un’azione «di tipo sociale», che deve «svolgersi all’interno degli strati proletari e soprattutto di quelli di nuova formazione, […] non ancora integrati nella società borghese o inseriti nei tradizionali strumenti di opposizione». La «Comune» promuove una «scuola serale» per giovani lavoratori (fra i 16 e i 18 anni in media, in maggioranza immigrati meridionali), tra mille difficoltà organizzative e pedagogiche e con l’appoggio del solo sindacato, convinto quello di fabbrica, più oscillante quello territoriale. I suoi obiettivi «vanno oltre il mero risultato scolastico», per costruire consapevolezza e autostima personali e coscienza civile e politica. La scuola negli anni diviene un vero e proprio centro politico-culturale che educa e opera sui problemi della fabbrica, della scuola, del quartiere. Alla pratica assembleare tipica di un approccio comunitario antiautoritario si accompagnano sperimentazioni didattiche e interdisciplinari, procedurali, valutative, talvolta ingenue, che però sono significative perché anticipano molti contenuti che saranno poi diffusi con l’esperienza delle «150 ore»71. L’incontro fra scuola e lavoro nel 1969, in ogni caso, avviene sulla base di una opposizione storica fra scuola e lavoro72, che viene percepita come ingiustigna, il resoconto di un’assemblea unitaria fra studenti e operai nel marzo 1969, riportata sul giornale FIOM L’informatore metallurgico (i documenti sono ora ripubblicati in http://www.comune.bolo gna.it/iperbole/asnsmp/documenti68bologna.html). 69 B. Trentin, Il secondo biennio rosso, cit., pp. 73-77. 70 T. Bouchard, «Via Monte Grappa 62/b». La Comune di Cinisello negli anni ’70 tra scuola popolare e lotte, Marsilio, Venezia 2010 (ringrazio Claudio Lombardi per la segnalazione di questo testo). 71 T. Bouchard, Una scuola serale e una testimonianza all’interno del proletariato, in Inchiesta, n. 5, 1972, pp. 60-72. 72 Riprodotta, talvolta, anche nell’immagine del lavoro mediata dalla scuola; L. Ribolzi, I mestieri inventati. Lavoro manuale e lavoro intellettuale nei libri di testo della scuola dell’obbligo, Fondazione Einaudi, Torino 1978. 200 LA SCUOLA E LA FATICA zia o come privilegio, negli studenti del movimento studentesco, appena attenuata dal fatto di essere inseriti all’interno di quello che considerano un processo di mercificazione e standardizzazione funzionale del sapere, sulla scorta di Bourdieu73. Contro il lavoro come fatica, contro la scuola come sacrificio La fatica è intrinsecamente legata alla categoria del lavoro, fin dal suo contenuto «etimografico» per riprendere una definizione e un’analisi di Mario Alinei, per quanto datata e legata alle esperienze di quegli anni, svolta in un numero di La ricerca folklorica del 1980. Il lavoro e le parole ad esso connesse, nelle lingue europee sia nordiche e slave che neolatine (come in molte varianti dialettali), almeno per una parte dell’origine storica dei loro significati semantici, rimandano alla fatica, alla privazione (in particolare dello status di uomo libero), alla sofferenza, ecc. Hanno cioè un’accezione negativa, legata al suo carattere diviso nella «società classista», una sorta di dannazione irrimediabile74. Quando invece ad es. i pedagogisti parlano della scuola, se debbono collegare la fatica al processo educativo lo fanno – lo si fa anche oggi nel dibattito attuale – agganciandola al «sacrificio» (non c’è studio né apprendimento senza sacrificio), differendo nel tempo però la ricompensa morale o materiale connessa a questo «sacrificio», in una sorta di investimento che comunque riguarda un periodo più o meno limitato del corso di vita individuale. Lo studio, la scuola costituiscono così un momento transitorio che un attento osservatore come Antonio Santoni Rugiu segnalava già nel 1968, sulla rivista Scuola e Città, quale specifico elemento anche psicologico caratterizzante il movimento75. Il lavoro no, il lavoro ancora nella percezione che se ne ha negli anni ’60-70 invece fissa ab aeterno la personalità individuale in maniera difficilmente rimediabile, anche grazie al tipo di studio o all’assenza di studio che l’hanno preceduto, ai meccanismi del credenzialismo curriculare e all’agganciamento con i sistemi di classificazione del lavoro. Questa specializzazione del corso di vita, quando prima la conoscenza è staccata dal lavoro e dalla vita e poi il lavoro e la vita, nella gran parte dei casi, si allontanano dalla conoscenza e dallo studio formalizzati pur essendone condizionati come eredità, rappresenta certamente 73 P. Bourdieu, L’école conservatrice. Les inegalités devant l’école et devant la culture, in Revue française de sociologie, n. 3, 1966, pp. 325-347. 74 Indubbiamente vi sono anche significati semantici positivi, in cui il nodo della libertà e dell’autonomia nel lavoro sono evidenti e che, sempre secondo Alinei, derivano dalla cultura arcaica delle società preclassiste; M. Alinei, Lavoro classista e preclassista. Gli sviluppi etimografici di alcune lingue europee, in La ricerca folklorica, n. 9, 1980, pp. 71-80. 75 A. Santoni Rugiu, Adesso e dopo contro il sistema, in Scuola e Città, n. 7-8, 1968, pp. 359-360. Cfr. A. Ballone, Le due logiche della scuola. Per una storia dell’autonomia giovanile, in Rivista di storia contemporanea, n. 1, 1990, pp. 100-133. 201 PIETRO CAUSARANO uno degli elementi esistenziali centrali nella rottura della fine degli anni ’60, in forme e modalità diverse. Uno degli elementi dell’incontro fra scuola e lavoro nel 1969 (ma già nel 1967-68) sta dunque qui: nel rifiuto di una predeterminazione per via scolastica dei destini personali, sociali, culturali e professionali, il rifiuto di una burocratizzazione della vita, un rifiuto che «quindi ha come unica controparte reale le forze economiche, che attribuiscono all’università questa funzione» (aprendo così le porte all’incontro con il nemico storico del sistema capitalistico, il movimento operaio)76. Sono gli anni in cui si scopre la scuola come elemento centrale della riproduzione culturale e sociale (da Bourdieu ad Althusser), sono gli anni in cui questa logica conformatrice viene contestata fino a prospettare la «descolarizzazione della società» (come in Illich). Tornando alla fatica e al sacrificio, un esempio evidente di questo stacco semantico e antropologico nella percezione si ha, a mio giudizio, in un classico della contestazione studentesca e della scoperta della «logica di classe» insita nei sistemi scolastici, cioè la Lettera a un professoressa (1967) della Scuola di Barbiana e di Don Milani, un testo ricordato come centrale da molti dei protagonisti di quelle vicende. È noto e discusso in ambito pedagogico il fatto che nell’esperienza educativa di Barbiana la ricreazione, il divertimento ed in particolare il gioco avessero scarsa cittadinanza77. La serietà dell’impegno entrava in contrasto con approcci che – gradatamente – dall’Ottocento in poi avevano allargato le modalità e la diffusione di nuove tecniche didattiche (e che per esempio erano discusse rispetto alla scuola ordinaria), maggiormente empatiche e attente più all’apprendimento che all’insegnamento; o meglio, Don Milani declinava in maniera diversa esperienze e sperimentazioni che già da tempo tendevano a legare il lavoro come gioco alla pratica educativa (il «clima ludico» comunque presente nel processo educativo milaniano). È anche nota però la lapidaria sentenza, presente nel libro ma anche altrove nella riflessione di Don Milani, che segna questo tema, in cui si oppone la diversa fatica che si pratica a scuola da quella che segna i contesti di vita e quindi l’importanza di non contaminare le due diverse esperienze con il gioco. «Non c’era ricreazione», si stava a scuola dieci ore filate, «non era vacanza nemmeno domenica». Ma «nessuno […] se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto». Di fronte alle rimostranze di un «professorone» in visita che ricordava l’importanza pedagogica ad esempio di tenere in conto le necessità fisiche-psicologiche dei ragazzi, «Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: ‘La scuola sarà sempre meglio della merda’»78. 76 L. Bobbio, Le lotte nell’università. L’esempio di Torino, in Quaderni piacentini, n. 30, 1967, pp. 54-60. R. Nesti, Un’assenza rivelatrice: il ludico nell’esperienza educativa di Don Milani. Note, in C. Betti (a cura di), Don Milani fra storia e memoria. La sua eredità quarant’anni dopo, Unicopli, Milano 2009, pp. 273-277. 78 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1967, pp. 12-13. 77 202 LA SCUOLA E LA FATICA Il lavoro di cui si parla in questo famoso libro è però un lavoro per larga parte ormai estraneo alla modernizzazione italiana, soprattutto nella sua variante industriale ma anche rurale, o meglio è un lavoro che precede quella razionalizzazione neocapitalista e tecnocratica degli anni ’60, per riprendere le formule dell’epoca, che in una zona marginale come il Mugello sono ancora un’astrazione di cui si vedono solo i primi timidi segni alla metà del decennio. Tuttavia, la forza evocativa di questo libro sarà proprio quella di collegare una proposta pedagogica ed educativa di rottura, per quanto irripetibile in un contesto sistematico e non solo sperimentale, alla condizione lavorativa, mostrando che, al fondo, il problema della scuola era prima di tutto di dover competere con il lavoro che allontanava dall’istruzione. Il fatto che in realtà il lavoro era in opposizione con la scuola. Il fatto cioè che per l’Italia la questione del rapporto fra lavoro e scuola si poneva ancora prima di tutto come scolarizzazione di base e solo poi, in prospettiva, come prospettiva di crescita culturale e professionale più generale. Nell’esperienza delle «150 ore», questo passaggio – cioè l’approfondimento del «rapporto fra studio e lavoro» – già all’inizio degli anni ’70, comincia ad emergere come dato problematico e irrisolto, soprattutto a fronte della consapevolezza che esso è ancora «marginale», comunque «indiretto». Si tratta prevalentemente di un intervento che, quando c’è, risponde a bisogni civili quando non a esigenze politiche, lo stesso problema che per altri versi si erano trovati di fronte qualche anno prima i giovani di Cinisello citati prima. Finora infatti le iniziative di studio che abbiamo promosso con le 150 ore sono una risposta immediata alle esigenze di cultura così come emerge tra i lavoratori: da un lato il recupero della cultura di base per coloro che ne sono privati, dall’altra l’approfondimento di alcuni temi culturali che interessano i lavoratori per le loro implicazioni politiche. […] La nostra proposta per il futuro deve metterci in condizioni di aderire, o meglio anticipare, la domanda di cultura e di conoscenza che lo sviluppo delle forze produttive sollecita senza saper risolvere79. 79 FLM, Primo bilancio delle 150 ore, cit., pp. 21-22. 203 Il 1969 a Torino: il conflitto industriale nella città-fabbrica di Stefano Musso I caratteri di Torino Quali peculiarità presenta il 1969 a Torino, nel panorama italiano? Per rispondere a questa domanda occorre ricordare alcuni dati di contesto, già oggetto di un’ampia letteratura1. La Torino della fine degli anni ’60 merita infatti la definizione di città-fabbrica: per l’estensione enorme delle parti del territorio comunale occupate da stabilimenti industriali, perché ancora al censimento nel 1971 oltre il 50% della popolazione attiva risultava addetta al settore secondario – una quota che non aveva eguali negli altri capoluoghi di regione e nelle città di dimensioni comparabili. Ma Torino era anche una company town, per il peso enorme della FIAT, che da sola dava lavoro alla metà degli addetti all’industria metalmeccanica della provincia, mentre oltre l’80% della produzione industriale locale era legata al ciclo dell’automobile. Ma era anche la capitale della produzione di serie: non solo l’automobile, ma i cuscinetti a sfera (Riv-Skf), gli elettrodomestici (Indesit), le macchine per ufficio (Olivetti) e, innovando la tradizionale presenza di attività legate all’antico ruolo di capitale, la produzione in serie di cioccolato (Venchi Unica) e di confezioni (la sartoria del Gruppo Finanziario Tessile). Torino ospitava il più grande stabilimento industriale d’Italia, Mirafiori, che con il suo gigantismo contava 50.000 addetti, una vera e propria città del lavoro, che non a caso sarebbe stata al centro delle agitazioni dell’Autunno caldo. Torino era la città tipica del compromesso keynesiano/fordista, con welfare aziendali di prim’ordine che, offerti dalla FIAT e dalla Olivetti ai dipendenti e alle loro famiglie, interessavano quote rilevanti della popolazione. Torino infine era una delle capitali del miracolo economico, che vide negli anni ’50-60 giganteschi flussi di immigrazione: la popolazione del capoluogo piemontese au- 1 Per tutti, A. Bagnasco, Torino. Un profilo sociologico, Einaudi, Torino 1986; V. Castronovo, Torino, Laterza, Roma-Bari 1987; S. Musso, Il lungo miracolo economico. Industria, economia e società a Torino 1950-1970, in Storia di Torino, vol. IX, Gli anni della repubblica, a cura di N. Tranfaglia, Einaudi, Torino 1999. 205 STEFANO MUSSO mentò del 42,5% tra il 1951 e il 1961 raggiungendo il milione di abitanti (e superando l’aumento registrato dalle altre grandi città italiane, ferme al 32,5% di Roma, al 30,5% di Bologna, al 25,2% di Milano, al 16,5% di Firenze, al 14% di Genova), mentre tra il 1961 e il 1971 l’aumento sarebbe stato solo del 14,5%. L’esaurimento degli spazi all’interno dei confini comunali spinse gli immigrati a riversarsi nei comuni della cintura, che nel ventennio videro crescere la popolazione di cinque-sei volte, con alcuni casi di città che diventarono prevalentemente abitate da meridionali. Il capoluogo avrebbe visto poi crescere ancora la sua popolazione fino a 1.200.000 abitanti nel 1974, mentre dopo si ebbe una lenta diminuzione a favore della cintura, con l’avvio di processi di rifunzionalizzazione del centro connessi all’espansione del terziario. Capitale del miracolo, Torino fu anche uno dei centri in cui più si fecero sentire le contraddizioni e gli squilibri dello sviluppo, per il sovraccarico demografico cui andò soggetta l’area, con le amministrazioni locali e le classi dirigenti economiche attente a inseguire le opportunità dello sviluppo, a provvedere piuttosto strade e infrastrutture per il trasporto commerciale che non servizi, destinati a restare intasati dalla crescita troppo rapida della popolazione, cui non tennero dietro l’edilizia abitativa, il trasporto pubblico, i servizi sanitari, l’edilizia scolastica. Dopo il raddoppio di Mirafiori nella seconda metà degli anni ’50, la costruzione, nei primi anni ’60, dei nuovi stabilimenti della Olivetti a Scarmagno, della Lancia a Chivasso, della Riv ad Airasca, portò l’area a livelli di congestione tali che l’anno precedente l’inaugurazione della FIAT Rivalta, un ulteriore nuovo impianto per 17.000 addetti, i sindacalisti torinesi iniziarono a chiedere a gran voce il decentramento degli investimenti. La brusca accelerata dello sviluppo insinuò dunque a Torino e nelle città della cintura fattori di tensione sociale destinati a sommarsi a quelli provocati all’interno delle fabbriche dal lavoro monotono e ripetitivo del taylor-fordismo. Torino nel ciclo lungo della mobilitazione operaia La fase dell’alta conflittualità, tra l’autunno «caldo» del 1969 e l’autunno «freddo» del 1980 alla FIAT, non coincise con il ciclo della mobilitazione operaia, il cui inizio va collocato assai prima, nel 1960, con le lotte degli elettromeccanici e la tenda del Natale in Piazza Duomo. A partire dal 1960 il pieno impiego nel triangolo industriale, unito a una opinione pubblica prevalentemente favorevole agli operai (sulla base della convinzione diffusa che essi ricevessero meno del loro contributo allo sviluppo)2, aveva dato fiato al potere con2 A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma 2006. Sul cambiamento delle opinioni dominanti su lavoratori dipendenti e sindacato tra la fase del compromesso keynesiano/fordista e il revival neoliberista si veda G. Baglioni, L’accerchiamento. Perché si riduce la tutela sindacale tradizionale, il Mulino, Bologna 2008. 206 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA trattuale dei lavoratori, innescando una ripresa delle mobilitazioni che superava la debolezza sindacale degli anni ’50. Come si colloca Torino in questo ciclo? A Torino la conflittualità fino al 1969 fu meno accentuata che a Milano o a Porto Marghera. Nella città della FIAT la sconfitta del 1955 si fece sentire più che altrove, con una «legge del pendolo», vale a dire un alternarsi di vittorie e sconfitte nei conflitti di lavoro, più nettamente operante che altrove. La vittoria di Valletta alla metà degli anni ’50 era stata netta, e ancora nei primi anni ’60 aveva imposto una disciplina produttiva assai rigida nei reparti, una disciplina cui la massa dei nuovi operai si adattava anche in ragione dei vantaggi in termini di welfare aziendale e di stabilità dell’impiego di cui potevano ancora godere. Lo scoppio del 1962, con i fatti di Piazza Statuto, fu frenato bruscamente dalla «congiuntura» del 1964-65, che ridusse l’occupazione negli stabilimenti torinesi della FIAT di oltre 2.000 unità e bloccò i flussi migratori in città. Il sindacato, infine, restò debole nella più grande fabbrica d’Italia, con pochi iscritti e vaste aree di consenso elettorale per il SIDA, il sindacato aziendale. Tuttavia, seppur meno accentuata che altrove, la ripresa delle mobilitazioni si ebbe anche a Torino. Nel luglio 1960, a neppure un anno di distanza dalla firma del contratto nazionale del 1959 e due anni prima dei fatti di Piazza Statuto, mentre nel paese erano in corso le agitazioni contro il governo Tambroni, la locale associazione degli industriali metallurgici e meccanici, l’AMMA, si trovò a fronteggiare diverse agitazioni aziendali, in cui la posizione dei datori di lavoro non era facile, pressati com’erano dalle esigenze produttive e in presenza di tensioni sul mercato del lavoro, ora tendenzialmente favorevole all’offerta. Nell’ottobre 1961 il clima rivendicativo si risvegliò nuovamente, e gli industriali cercarono di fare fronte unito per impedire che le concessioni in qualche azienda scatenassero processi emulativi: in ogni caso, l’AMMA invitò le ditte aderenti a non trattare mai con i rappresentanti locali della Camera del lavoro, ma solo ed esclusivamente con le commissioni interne, la cui maggioranza era ancora in molti casi prevalentemente moderata. Agitazioni si verificarono alle Fonderie Sangone, alla F.lli Morando, alla CIMAT, alla S. Ambrogio, alla Di Palo, alla Rabotti, alla Lancia e alle Officine Moncenisio, e si conclusero in molti casi con accordi aziendali con le commissioni interne, nel tentativo padronale di tenere il sindacato fuori dalle fabbriche. In ogni caso, il ruolo del sindacato nella contrattazione aziendale non avrebbe tardato ad affermarsi. Nel corso del 1962, con le agitazioni connesse al rinnovo del contratto nazionale di lavoro, si creò un clima di tensioni crescenti che sfociarono nella ripresa degli scioperi alla FIAT, dove erano scomparsi ormai da un decennio, e nell’assalto del 7 luglio alla sede della UIL «colpevole», assieme al SIDA, dell’accordo separato alla FIAT. Nell’autunno successivo, FIOM, FIM e UILM predisposero uno schema di protocollo per accordi «precontrattuali di acconto» sul futuro contratto nazionale, fatto pervenire alle singole ditte, e ottennero la firma di tali accordi in alcune grandi imprese, tra le quali Indesit, FIAT e Olivetti. Contro l’accordo precontrattuale l’AMMA si adoperò per 207 STEFANO MUSSO costruire una barriera, anche a sostegno delle trattative nazionali, per le quali la contrattazione articolata era già stata un punto di rottura. L’accordo precontrattuale, infatti, nella visione dell’organizzazione imprenditoriale, scavalcava e svuotava le commissioni interne perché siglato dalle imprese con i sindacati; a questi ultimi l’AMMA attribuiva inoltre l’obiettivo del distacco delle aziende firmatarie dalla Confindustria, poiché quest’ultima si era dichiarata contraria all’ammissione dei sindacati nelle fabbriche3. Il contratto nazionale portò la data del 17 febbraio 1963, quando furono definite le soluzioni di massima, ma fu firmato solo il 4 ottobre, a un anno e mezzo dall’inizio delle trattative e dopo numerosi rinvii per la messa a punto del testo. Fu considerato dagli industriali molto oneroso, a causa degli aumenti retributivi, della riduzione dell’orario di lavoro, della fase finale della parificazione delle paghe femminili a quelle maschili; ma più che per gli aspetti economici, gli industriali erano preoccupati per le importanti novità riguardanti i versamenti dei contributi sindacali, la comunicazione dei cottimi e la contrattazione aziendale dei premi di produzione. In particolare, era quest’ultimo punto a produrre nervosismo: il contratto prevedeva, con decorrenza 1° gennaio 1964 e validità fino al 1° gennaio 1965, l’introduzione, a livello aziendale, di un premio di produzione collegato a elementi obiettivi, di carattere collettivo e non direttamente incentivante, di importo oscillante tra valori percentuali, riferiti alla somma delle paghe minime tabellari, varianti a seconda delle dimensioni delle imprese tra il 2% e il 7%. Per le imprese con meno di 200 dipendenti era prevista la possibilità di sostituire al premio una indennità pari al 2%. Il contratto nazionale prevedeva la contrattazione aziendale del premio; a Torino, tuttavia, l’AMMA si adoperò per trattare la materia centralmente, convincendo gli industriali a rimettere all’AMMA le questioni relative all’applicazione del contratto. I sindacati, invece, tentarono di portare le trattative per i premi nelle singole sedi aziendali e dichiararono lo stato di vertenza, avanzando qua e là, di fronte alle resistenze padronali, «richieste ultimative» e indicendo scioperi aziendali. Investirono delle loro richieste 133 aziende, con non pochi contrasti sulle modalità di applicazione e il calcolo dei premi. La pressione 3 I piccoli industriali erano i più preoccupati di fronte alla prospettiva del «sindacato in fabbrica». Anche l’AMMA temeva la contrattazione articolata, come un sistema potenzialmente pericoloso, non solo sul piano tattico nella conduzione delle agitazioni, ma per lo stesso ruolo dell’associazionismo imprenditoriale. Ne è dimostrazione la preoccupazione con cui si commentava, nel giugno 1965, l’andamento di incontri interconfederali per la discussione di richieste sindacali di modifica dell’accordo 8 maggio 1953 sulla costituzione e il funzionamento delle commissioni interne. Il tentativo delle organizzazioni dei lavoratori di introdurre in forma ufficiale, e con l’esplicito riconoscimento industriale, il sindacato a livello dell’azienda andava assolutamente respinto, perché le trattative dirette tra sindacati e azienda comportavano il disconoscimento del vincolo di rappresentanza che le aziende conferivano alla propria organizzazione all’atto dell’adesione. Sulla posizione dell’AMMA si veda S. Musso, «Allo scopo di incrementare la produzione attraverso un maggior rendimento del lavoro». Cottimi e premi, in P.L. Bassignana, G. Berta (a cura di), La metalmeccanica torinese nel secondo dopoguerra, 1945-1972, Samma, Torino 1997. 208 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA sindacale venne però smorzata dagli effetti della crisi, la «congiuntura» negativa legata alla stretta creditizia con la quale le autorità monetarie intendevano riportare in equilibrio la bilancia dei pagamenti e contrastare le spinte inflattive verificatesi all’apice del boom economico; tuttavia, i contrasti in merito ai premi di produzione aziendali ripresero anche nel 1965, con nuove richieste per ottenere miglioramenti dei premi precedentemente concordati e modifiche ai congegni di calcolo. Poiché però la scadenza dei premi era stata fissata al 1° gennaio 1965, gli industriali non avevano intenzione di accettare la riproposizione, all’inizio di ciascun anno, di nuove trattative sui premi, così che l’esito delle richieste sindacali variò in relazione alle singole situazioni: alcune aziende accettarono la trattativa, altre no, limitandosi a incontri di carattere puramente informativo. La congiuntura del 1964-65 frenò il nuovo istituto della contrattazione aziendale e indusse anche i sindacati alla moderazione nelle richieste per il contratto nazionale del 1966. Tuttavia, la speranza padronale di confinare il sindacato fuori dalla fabbrica era ormai svanita, anche perché la ripresa delle agitazioni nei primi anni ’60 aveva trasformato di fatto le commissioni interne nel sindacato di fabbrica. Significativa fu, nel contratto del 1966, l’istituzione delle commissioni paritetiche aziendali in materia di cottimi e qualifiche, organi che avevano il compito di facilitare e rendere più rapido il decorso delle vertenze4. Nel corso delle trattative per il contratto, i premi di stabilimento avevano costituito il più importante ostacolo da superare, perché la delegazione industriale si era opposta alla richiesta sindacale di decentrare alle sedi aziendali la soluzione della questione, puntando invece alla definizione di una contrattazione periodica che potesse assicurare la pace sindacale per un certo lasso di tempo. Fu infine operata una distinzione tra premi fissi in cifra e premi variabili collegati a indici di produzione o di produttività: per quelli variabili fu concordato che restassero in vigore fino al 30 giugno 1968, con possibilità di proroga fino al termine del contratto; quanto ai premi fissi, che i sindacati avrebbero voluto trasformare in premi variabili, si giunse a una mediazione che, tenendo conto della situazione delle piccole e medie imprese, prevedeva, in caso di mancata trasformazione, la contrattazione di un aumento dell’importo del premio senza ricorso ad azioni di lotta. Grazie a questa soluzione la questione dei premi si appianò in provincia di Torino, tanto che all’inizio del 1967 si riscontrò una sola agitazione su questo problema, all’Aspera-Frigo, dove peraltro la questione compariva accanto ad altre richieste relative al lavoro alle linee meccanizzate e alla riduzione d’orario5. Tuttavia, la diminuzione delle ore di sciopero riscontrata dopo la definizione del contratto fu solo temporanea. A partire dal settembre 1967 si assistette a una ri4 Non erano tenute a tale istituzione le aziende al di sotto dei 350 dipendenti. Cfr. Relazione sulla situazione sindacale, allegata al verbale del Consiglio direttivo dell’AMMA, 15 febbraio 1967, in Archivio storico AMMA. 5 209 STEFANO MUSSO presa delle agitazioni aziendali, con richieste avanzate dalle commissioni interne o direttamente dai sindacati, incentrate sulla regolamentazione dei cottimi, sui premi di produzione, sulle qualifiche e sulle paghe di posto, oltre che su aumenti salariali. Tanto le semplici minacce che i ricorsi agli scioperi non ottennero risultati per la ferma posizione tenuta dalle aziende, almeno fino agli inizi del 1968; in seguito, però, dopo il grande sciopero per le pensioni del marzo 1968, le agitazioni andarono intensificandosi, in un crescendo di rivendicazioni non più solo intorno al premio di produzione, ma che investivano il cottimo e i ritmi di lavoro: erano questi ultimi gli argomenti che davano luogo a notevoli fenomeni di tensione, con la tendenza dei sindacati ad ampliare le competenze delle commissioni paritetiche oltre i limiti imposti dal contratto. La conflittualità rendeva ormai chiaramente anacronistica la proposta di accordo quadro sulla contrattazione, lanciata dalla Confindustria nell’autunno del 1967: a distanza di un anno da quella proposta, tesa a rendere più ordinati e meno conflittuali i rapporti di lavoro, iniziò la presenza di gruppi di studenti ai cancelli delle fabbriche, alla quale gli industriali torinesi guardavano con apprensione, perché, a loro detta, i gruppi «sembravano ormai costituire una delle componenti delle agitazioni sindacali più acute»6. Nel 1968 in provincia di Torino le ore perse per sciopero, contro le 264.739 nel 1967, furono 2.406.290, di cui 400.000 per lo sciopero sulle pensioni del 7 marzo, il resto per agitazioni aziendali. Si era ormai aperta, un anno prima dell’Autunno caldo del 1969, una convulsa stagione dei rapporti di lavoro, in un periodo nuovamente caratterizzato dall’aumento dell’occupazione (con l’apertura della FIAT Rivalta) e dalle relative tensioni sul mercato del lavoro. I problemi dei tempi di lavorazione mantennero una notevole importanza tra i nuovi contenuti delle rivendicazioni sindacali, ma erano ormai affrontati in un’ottica molto diversa che in passato: ampiamente sganciati dai problemi retributivi, si legavano alle tematiche dell’ambiente di lavoro e dei ritmi, in un approccio rivendicativo che iniziava a mostrare insofferenza per la «monetizzazione». Cottimi e premi perdevano di importanza sia sotto il profilo dello stimolo al maggior rendimento, dato il prevalere di situazioni tecniche e organizzative in cui i tempi erano sempre più predeterminati, sia in quanto parte accessoria del salario, in conseguenza delle rivendicazioni di aumenti salariali in paga base (l’incidenza dei premi alla FIAT si ridusse dal 30% della retribuzione operaia nel 1962 al 15% nel 1968, all’11% nel 1973). I premi furono sempre più sganciati dagli indici della produttività per essere contrattati in cifra, mentre la questione dei cottimi si ridusse sempre più a quella dei ritmi, che sarebbe stata affrontata con la contrattazione «a lato linea», per evitare che la catena fosse «tirata» più veloce in presenza di intoppi alla produzione o organici ridotti per assenteismo, una pratica, quest’ultima, applicata senza limiti dai capi fino al 1962 ma non certo scomparsa negli anni seguenti. 6 Così nel verbale del Consiglio direttivo dell’AMMA del 23 luglio 1968; si veda anche il verbale del 20 novembre, in Archivio storico AMMA. 210 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA Una conflittualità inattesa Le vicende che abbiamo riassunto mostrano che il 1969 non si spiega nelle sue specifiche dinamiche, quanto ai contenuti rivendicativi, se non viene letto nel ciclo lungo degli anni ’60. Tuttavia, lo scoppio di conflittualità del 1969 segnò una discontinuità e colse di sorpresa tanto le imprese che i sindacati. Tra le peculiarità di Torino, e di Mirafiori in particolare, spicca la debolezza dell’organizzazione sindacale. I massicci innesti di nuove forze di lavoro nel gigantesco stabilimento negli anni del «miracolo economico» avevano determinato una composizione frastagliata della compagine operaia, reclutata in svariati ambiti sociali, fatta di contadini pendolari dalle campagne circostanti (anche tra gli operai torinesi vi erano i «metalmezzadri»), lavoratori torinesi o immigrati di lunga data ormai integrati nei tradizionali quartieri operai, nuove leve di migranti recenti provenienti dalla più disparate esperienze lavorative (dagli artigiani dei servizi delle città meridionali ai braccianti pugliesi). Molti tra i neoassunti impiegavano tempo a capire e far eventualmente propri gli abiti della cultura operaia organizzata, andando per lo più, almeno in fase iniziale, a rafforzare le componenti collaborative e moderate tra le maestranze FIAT, che trovavano un riferimento nel sindacalismo aziendale degli anni ’50, e al quale avrebbero garantito un seguito significativo anche negli anni della grande conflittualità7. Nonostante la ripresa delle agitazioni nel 1962 e l’assalto alla sede della UIL, lo spostamento di consensi a favore di CGIL e CISL, nelle elezioni di commissione interna alla FIAT non fu di grande rilievo, poiché UIL e SIDA, sommati, mantennero nel 1963 la maggioranza assoluta: la FIOM conquistò bensì un risicata maggioranza relativa con il 29%, ma perse di lì a poco nuovamente il momentaneo primato (tab. 1). FIOM e FIM, protagoniste di quella ripresa, restarono deboli in particolare a Mirafiori. Tab. 1. Elezioni di commissione interna negli stabilimenti FIAT di Torino (percentuale dei voti tra il 1950 e il 1963) Anni 1950 1953 1955 1958 1960 1962 1963 CGIL 70 65 38 25 22 23 29 CISL 23 24 40 13 16 15 17 UIL 7 11 22 28 28 33 25 SIDA CISNAL 31 33 30 26 2 2 2 La FIOM registrò un avanzamento alla FIAT nelle elezioni di commissione interna del 12 dicembre 1968, conquistando la maggioranza relativa con il 7 G. Fissore, Dentro la FIAT. Il SIDA-FISMIC, un sindacato aziendale, Edizioni Lavoro, Roma 2001. 211 STEFANO MUSSO 31,4%, ma a quella data contava solo 1.500 iscritti in tutta la FIAT e 600 a Mirafiori. Se si guarda alla media di ore di sciopero pro capite alla FIAT, nel 1962 si ebbero 31 ore, scese a mezz’ora nel 1963 e tre quarti d’ora nel 1964 e 1965; nel 1966, con il rinnovo del contratto si risalì un po’, a 17 ore, per ridiscendere a tre quarti d’ora nel 1967; nel 1968 si fecero 19 ore, restando al di sotto del 1962, ma nel 1969 si ebbe l’impennata a 127 ore, vale a dire sei volte e mezzo il 1968, senza contare gli effetti indiretti delle fermate che in pochi reparti bloccavano intere produzioni, data la rigidità del ciclo8. Secondo Giuseppe Berta, uno dei motivi dello scoppio di conflittualità spontanea e inaspettata derivò dal fatto che né l’azienda né il sindacato conoscevano più la grande fabbrica. Inoltre, mentre nella FIAT di Valletta i lavoratori venivano assunti per lo più dopo un tirocinio di un paio di anni nei cantieri e nelle piccole officine, cioè dopo un apprendistato alla società industriale di cui si voleva assorbissero regole e mentalità, con l’apertura di Rivalta ogni filtro sulle assunzioni era scomparso, e la manodopera veniva immessa nei reparti senza le tradizionali mediazioni personali e le relative forme di controllo, tanto indirette quanto efficaci. Uno dei motivi per cui la fabbrica non era più conosciuta era che le rappresentanze interne non erano più in grado, sul finire degli anni ’60, di fungere da terminali sensibili per cogliere i problemi della massa operaia, né a vantaggio dei sindacati né dell’impresa9. I 20 commissari interni non potevano certo rappresentare i 50.000 di Mirafiori10. Se la dirigenza FIAT, concentrata nello sforzo di accrescere la produzione per cogliere le opportunità dei mercati, trascurò il campanello d’allarme di Piazza Statuto e tralasciò ogni attenzione alle problematiche sociali nella fabbrica nella convinzione che sarebbe bastata la crescita dei redditi conseguente allo sviluppo a sciogliere le tensioni11, dal canto loro i sindacati, la FIOM in particolare, erano condizionati da una cultura sindacale debitrice della tradizionale convinzione dello stretto rapporto tra professionalità operaia, capacità contrattuale e coscienza di classe, tanto da incontrare difficoltà a rapportarsi con i lavoratori comuni, provenienti da realtà sociali arretrate, estranei alla cultura del movimento operaio, e inclini a lasciarsi suggestionare dai miti del neocapitalismo12. Sta di fatto che nell’anno di Piazza Statuto la ricerca di Giuseppe Bonazzi analizzava gli atteggiamenti operai secondo le categorie dell’alienazione e dell’anomia13. Rico- 8 C. Damiano, P. Pessa, Dopo lunghe e cordiali discussioni. La storia della contrattazione sindacale alla FIAT in 600 accordi dal 1921 al 2003, Ediesse, Roma 2003. 9 G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, 1919-1979, il Mulino, Bologna 1998; Id., Mirafiori, il Mulino, Bologna 1998. 10 Si veda anche L. Gianotti, Gli operai della FIAT hanno cento anni, Editori Riuniti, Roma 1999. 11 S. Musso, Gli operai di Mirafiori. Tra ricostruzione e miracolo economico. Un’analisi quantitativa, in C. Olmo (a cura di), Mirafiori, Allemandi, Torino 1997. 12 D. Giachetti, M. Scavino, La FIAT in mano agli operai. L’Autunno caldo alla FIAT, BFS, Pisa 1999. 13 G. Bonazzi, Alienazione e anomia nella grande industria. Una ricerca sui lavoratori dell’automobile, Edizioni Avanti!, Milano 1964. 212 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA nosciuto il buon margine di sorpresa (specie per Mirafiori) con il quale furono vissute le agitazioni della primavera-estate del 1969, non credo vadano sovrastimate la portata della spontaneità e le difficoltà incontrate dal sindacato nel riprendere le redini del movimento14. Una breve ed essenziale cronologia degli avvenimenti tra 1968 e 1969 consente di individuare alcuni meccanismi del montare della mobilitazione. 1968 e 1969: dalle pensioni al rinnovo contrattuale Lo sciopero nazionale sulle pensioni del 7 marzo 1968 si innestò nel clima delle vertenze aziendali sui premi ripartite nell’autunno 1967. Preceduto dall’accordo del 28 febbraio firmato con riserva dalla CGIL, che dopo la consultazione ritirò la firma, e indetto dalla sola CGIL, lo sciopero vide a Torino l’adesione della FIM provinciale, della camera sindacale UIL e del SIDA15. Il tema delle pensioni era vivido perché molti lavoratori in gioventù avevano lavorato in nero; inoltre gli operai sapevano che con i loro contributi si pagavano le pensioni di commercianti e coltivatori diretti. Lo sciopero ebbe una riuscita clamorosa a Torino e segnò, secondo Giovanni De Stefanis e Renato Lattes, un vero spartiacque tra due stagioni16. Sull’onda del successo, nello stesso mese di marzo, le quattro formazioni sindacali aprirono unitariamente alla FIAT una vertenza aziendale su orario e cottimo17, con scioperi riusciti il 30 marzo, il 6 e l’11 aprile. L’accordo, raggiunto il 31 maggio 1968, fu un successo: previde, oltre a riduzioni d’orario e miglioramenti su sabati e turni notturni nel quadro di una regolazione annuale dell’orario non più subordinata agli andamenti stagionali, aumenti tariffari sul cottimo e la garanzia della disponibilità di rimpiazzi per gli assenti, nonché l’affissione in tabellone delle informazioni su produzione media oraria, organici e rimpiazzi. La nuova strada unitaria dei sindacati non era tuttavia priva di difficoltà ed emerse nel corso delle trattative intorno alle modalità di conduzione delle vertenze. A luglio la FIOM, con l’appoggio della FIM, aprì la questione della libertà di movimento dei commissari interni, contro le discriminazioni e i 14 Pur nell’ambito di giudizi articolati e sostanzialmente equilibrati mi sembrano inclini a sottolineare spontaneità e difficoltà sindacali D. Giachetti e M. Scavino, La FIAT in mano agli operai, cit. 15 L’adesione della FIM si ebbe in tutte le province; cfr. M. Dellacqua, Luigi Macario, Edizioni Lavoro, Roma 2003. 16 D. Antoniello, D. Giachetti, V. Rieser, G. De Stefanis, R. Lattes, M. Rosolen, Emilio Pugno, 1922-1995, Lupieri Editore, Torino s.d. (ma 2007), cap. 3, Emilio Pugno 1969-1975, di G. De Stefanis e R. Lattes. 17 Il pacchetto di richieste prevedeva, quanto agli orari, 44 ore settimanali invece di 49, la soppressione dell’alternarsi di settimane di 50 e 44 ore, a seconda della stagione e del mercato, derivante da un accordo separato del 1955, il sabato festivo alternato per i turnisti, l’abolizione del turno di notte; quanto al cottimo, la rinegoziazione delle tariffe, ferme dal 1960, che consentiva di intervenire sui ritmi. Cfr. L. Gianotti, Gli operai della FIAT hanno cento anni, cit. 213 STEFANO MUSSO favoritismi a seconda dell’organizzazione di appartenenza. I rappresentanti FIOM e FIM presero a spostarsi nei reparti, con una «pratica dell’obiettivo» ante litteram, fino a ottenere, dopo un braccio di ferro con sospensioni e multe, una procedura concordata per i movimenti. Il 1968 avrebbe peraltro visto il primo sciopero generale unitario dopo vent’anni dalla fine della CGIL unitaria, proclamato il 14 novembre sulle pensioni. Nonostante il clima di tensione crescente negli stabilimenti, fomentato dall’azione dei gruppi ai cancelli, il 1969 partì in sordina, con difficoltà nella partecipazione dei lavoratori FIAT alle mobilitazioni di carattere extra-aziendale, quali lo sciopero di protesta per i morti di Avola il 3 dicembre 1968 e quello contro le gabbie salariali del 12 febbraio 196918. Nei primi mesi del 1969 i sindacati vennero peraltro a trovarsi in una posizione non facile nei confronti dei lavoratori sulla questione delle mutue aziendali, in procinto di passare all’INAM. Non potendo opporsi all’uniformazione dei trattamenti, finirono per accettare, con forti resistenze del SIDA, la decisione della FIAT di chiudere la MALF (Mutua aziendale lavoratori FIAT), con l’accordo del 3 marzo 1969, anche se in un primo tempo ne avevano contrattato la persistenza. I sindacati recuperarono peraltro influenza in quei mesi attraverso l’azione confederale a livello nazionale: l’accordo del 13 febbraio 1969 sulla nuova legge di riforma pensionistica e l’accordo del 18 marzo 1969 per l’eliminazione delle gabbie salariali entro tre anni segnarono punti a vantaggio del sindacato nei confronti della propaganda dei gruppi19. L’azione sindacale riprese impulso con la nuova vertenza aziendale sulla questione delle mense, dell’indennità di trasferimento da Mirafiori a Rivalta e sui passaggi di categoria, che si svolse tra aprile e giugno. L’11 aprile, nello sciopero di protesta per i due morti di Battipaglia, si vide una grossa novità: i lavoratori sfilarono in corteo interno davanti ai capi e poi ai guardiani fino a uscire dallo stabilimento. Fu «il prototipo dei futuri numerosissimi cortei interni», ricco di elementi rituali e favorito dalla smisuratezza della fabbrica20. Nella vertenza aziendale, a partire per prima con l’agitazione fu l’officina 27 di Mirafiori, la sala prova motori, con la richiesta della seconda categoria per tutti, che fu accettata dalla FIAT dopo tre fermate indette dal sindacato; la lotta si estese poi agli operai delle officine ausiliarie, seguiti dai carrellisti e dagli addetti alle grandi presse, con la richiesta di contrattazione dei passaggi di categoria e dei superminimi. Le linee di montaggio arrivarono per ultime. Nelle ausiliarie erano inquadrati 8.000 lavoratori qualificati, dai manutentori agli attrezzisti, distribuiti in tutte le officine, che con la loro ramificazione produssero un effetto volano. Se il 1969 non fu solo la rivincita dei vecchi operai sugli anni duri 18 Ibidem. M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta (1963-1972), in L. Bertucelli, A. Pepe, M.L. Righi, Il sindacato nella società industriale, Ediesse, Roma 2008. 20 B. Bongiovanni, Il Sessantotto studentesco e operaio, in Storia di Torino, vol. IX, cit., p. 822. 19 214 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA della FIAT21, furono tuttavia i lavoratori qualificati ad aprire la strada ai giovani operai comuni. Costretta ad accettare la trattativa a sciopero in corso – venendo meno a un principio ferreamente imposto in passato – la FIAT sottoscrisse il 28 maggio un accordo per carrellisti, ausiliarie e grandi presse, che prevedeva la perequazione delle paghe individuali a parità di anzianità (superando la discrezionalità dell’azienda sui «superminimi»), i passaggi di categoria senza «capolavoro» (anche il «capolavoro», più che controllare l’abilità professionale, era utilizzato in chiave discriminatoria22), la concessione dell’indennità di posto e la riduzione del turno di notte. Il risultato positivo di questo accordo contribuì a moltiplicare le vertenze e le fermate con scioperi spontanei incentrati su richieste salariali. La cedevolezza della direzione nei confronti dei primi reparti scesi in lotta alimentò un effetto imitativo, secondo la convinzione, agitata specialmente dai gruppi, che «la lotta paga»: e in effetti, data la concatenazione delle lavorazioni, con un limitato numero di ore di sciopero in alcuni reparti si poteva infliggere un danno notevole all’azienda. Le agitazioni si estesero agli altri stabilimenti FIAT: Grandi motori, Spa centro, Lingotto, Rivalta, Materferro. Spesso l’iniziativa passò dalle mani del sindacato a quelle di singoli gruppi operai. Le cause della conflittualità sono ovviamente riassumibili nel lavoro monotono, nei ritmi estenuanti, nell’ambiente nocivo, nella mancanza di soldi e, al di fuori delle fabbriche, di abitazioni e servizi. Il controllo aziendale incentrato sulla paura della perdita del posto di lavoro non funziona più, in una situazione di sostanziale pieno impiego. Il salario sicuro, che nei primi tempi faceva passare sopra a tutto, non basta più. I sindacati dovettero correggere il tiro rispetto alla tendenza iniziale a mantenere unitaria la vertenza e intervennero per concludere le agitazioni nei reparti: in complesso le vertenze assommarono a 83. La conclusione definitiva fu il cosiddetto «accordone» del 26 giugno 1969, che raccolse le intese varie dei giorni e delle settimane precedenti. Nella pubblicistica sindacale la data dell’accordo è il 30, a differenza di tutti i documenti aziendali: evidentemente i sindacati, inaugurando una nuova prassi, prima firmarono al termine della trattativa, poi sottoposero l’accordo all’approvazione dei lavoratori, che arrivò il 30. Fu prevista l’istituzione della terza categoria super e indennità varie di mansione per fatica e nocività; il rapporto tra organici presenti e produzione giornaliera sulle linee fu regolamentato più rigidamente: le informazioni sul tabellone rispetto all’accordo del 1968 furono arricchite, la saturazione massima individuale fu fissata al 96%, con pausa individuale del 4% per «fisiologia». Infine, e soprattutto, fu istituito il comitato di linea, con un membro di commissione interna per ciascuna organizzazione sindacale più un esperto ogni mille operai: ne risultarono 56 esperti, cui erano riconosciuti permessi retribuiti. 21 E. Pugno, S. Garavini, Gli anni duri alla FIAT. La resistenza sindacale e la ripresa, Einaudi, Torino 1974. Devo questa considerazione alla testimonianza di Paolo Franco. Si veda anche C. Damiano, P. Pessa, Dopo lunghe e cordiali discussioni, cit., p. 125. 22 215 STEFANO MUSSO Qui, intorno agli esperti, si sarebbe giocata la partita del recupero sindacale della gestione delle agitazioni: gli esperti, stando all’accordo, avrebbero dovuto essere nominati dalle organizzazioni sindacali, le quali, invece, fecero eleggere dai lavoratori 200 delegati di «gruppo omogeneo» che poi scelsero i 56. Su 199 delegati, avrebbe detto Garavini, solo 70 erano iscritti al sindacato, e di essi 28 alla CGIL. Mentre i gruppi contestavano la natura negoziale e non conflittuale che l’accordo intendeva attribuire alle nuove rappresentanze, l’elezione diretta su scheda bianca da parte dei lavoratori costituì un passo fondamentale per il recupero sindacale sulla spontaneità, anche in rapporto al rinnovo del contratto nazionale che si profilava. Il 3 settembre, alla ripresa dopo le ferie, partì uno sciopero improvviso in una officina secondaria, la 32, che ancora non si era mossa. La FIAT sospese migliaia di lavoratori in un crescendo che portò a quota 40.000. Lo sciopero in risposta, indetto dai sindacati provinciali, non ebbe successo. Dopo frenetiche consultazioni tra Torino e le segreterie nazionali, queste ultime decisero di anticipare la vertenza per il rinnovo del contratto nazionale, la cui piattaforma era già stata unitariamente definita in luglio, con ampie consultazioni che avevano indotto il sindacato ad accettare gli aumenti uguali per tutti, facendo proprie, nonostante le resistenza della FIOM e in particolare del suo segretario Trentin, le spinte egualitaristiche provenienti dagli operai comuni. La cronaca dell’Autunno caldo torinese può essere qui ridotta agli episodi salienti. Il 25 e 26 settembre, due scioperi di 24 ore videro la manifestazione nazionale del metalmeccanici a Torino, con comizi di Benvenuto, Carniti e Trentin al termine di cinque imponenti cortei confluiti dalle fabbriche e dai quartieri operai verso il centro. Sempre a settembre, a Mirafiori si formò il consiglio dei delegati, il «consiglione», che ai primi di ottobre decise una serie di scioperi interni articolati. Il 18 ottobre, in una intervista a La Stampa, il leader cislino Macario definì il salario una «variabile indipendente». Il 29 ottobre, in seguito ad alcuni episodi di violenza, la FIAT operò denunce e sospese senza paga gli operai inattivi a valle degli scioperi. Il 15 novembre altri 30 lavoratori furono sospesi e denunciati. Il 18 novembre al Palasport una folta assemblea di delegati organizzò un «processo alla FIAT». Il rientro dei sospesi venne posto dai metalmeccanici nazionali come pregiudiziale per la ripresa delle trattative. La FIAT dovette cedere e il rinnovo contrattuale si chiuse, con la mediazione del ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, il 16 dicembre con l’Intersind, il 23 con l’industria privata. Delegati e democrazia sindacale La questione della riforma delle rappresentanze interne giocò un ruolo centrale nella capacità del sindacato di intercettare la conflittualità spontanea e «cavalcare la tigre», non per domarla ma per stare nel movimento e guidarlo a sbocchi concreti. Contro la tendenza dei gruppi a trascinare le vertenze in una 216 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA conflittualità senza limiti e fine a se stessa, il maggior leader sindacale torinese dell’epoca, il segretario della Camera del lavoro Emilio Pugno, fece almeno parzialmente propria la concezione, espressa da Vittorio Foa, secondo cui un accordo sindacale era sì la fine di una lotta, ma anche una nuova base, più avanzata, per la vertenza successiva23. La dirigenza locale dei sindacati pensò i delegati come struttura portante del sindacato, ma l’affermarsi di queste posizioni non fu semplice né lineare. Nel gennaio 1969 al congresso della federazione del Partito comunista tenuto nella Casa del Popolo di Collegno, i sindacalisti comunisti sostennero la necessità di dar vita a istituti di democrazia diretta per estendere il potere contrattuale in fabbrica, criticando la delega ai partiti e al loro gioco politico; ma furono rintuzzati dai funzionari del PCI, che volevano puntare al consolidamento degli istituti esistenti, specie dopo il rafforzamento della FIOM nelle elezioni di commissione interna di fine 1968. Fino all’estate 1969 anche i congressi sindacali proponevano piuttosto le sezioni sindacali d’azienda, di cui si discuteva da anni, quali rappresentanze dei sindacati nei luoghi di lavoro. Inizialmente, la proposta dei delegati di reparto ebbe per il sindacato il senso di una articolazione organizzativa all’interno di un sistema che doveva ruotare intorno alle sezioni sindacali aziendali. Nella primavera del 1969 gli accordi aziendali stipulati alla Castor, alla Singer, alla Impes, alla Indesit, che prevedevano rappresentanze dei lavoratori di una determinata fase di lavorazione, rientravano nel quadro della prospettiva di assegnare la direzione dei nuovi organismi alle sezioni sindacali: non a caso, in qualche realtà, i delegati erano chiamati «capi cottimo»24. La proposta dei delegati alla FIAT maturò alle officine ausiliarie dove era forte il PSIUP che, richiamandosi alle tesi sul controllo operaio già elaborate da Lucio Libertini e Sergio Garavini negli ambienti dei primi Quaderni rossi, proponeva di evitare ogni distinzione tra iscritti e non iscritti. Nell’ottobre 1969, in un convegno del PSIUP a Grugliasco, i consigli dei delegati furono addirittura proposti come «fondamento di un nuovo Stato»25, come strumento di una radicale trasformazione delle istituzioni con la democrazia diretta: e in questa direzione erano pensati i consigli di zona, non destinati solo a portare le vertenze sul territorio. I rimbrotti dell’apparato del Partito comunista, che accusò queste posizioni, non senza ragioni, di pansindacalismo, finirono per cedere il passo: alla fine, nonostante le accese discussioni, anche nel PCI divenne maggioritaria la linea favorevole ai delegati. Il sindacati, insomma, seppero individuare le potenzialità del nuovo strumento organizzativo e lo fecero proprio, mettendo in difficoltà i gruppi che reclamavano: «Siamo tutti delegati», anche perché non pochi leader «naturali» della spontaneità accettarono di entrare nel consiglio. Il recupero sullo spontaneismo 23 G. De Stefanis, R. Lattes, Emilio Pugno, cit., p. 126. D. Giachetti, M. Scavino, La FIAT in mano agli operai, cit. 25 L. Gianotti, Gli operai della FIAT hanno cento anni, cit., p. 181. 24 217 STEFANO MUSSO avvenne anche attraverso due livelli di slittamento del centro focale delle vertenze: in primo luogo, il superamento dei conflitti reparto per reparto – che nella visione sindacale potevano ingenerare rivalità tra i lavoratori – attraverso la condotta unitaria della lotta per il rinnovo del contratto nazionale; in secondo luogo, la supplenza sindacale nei confronti dei partiti politici da parte delle confederazioni che, nel condurre la lotta per le riforme assumendo come controparte il governo, si muovevano su un terreno sul quale i gruppi poco o nulla potevano. I consigli dei delegati servirono dunque ad affrontare con successo le contraddizioni tra sindacato e operai comuni. «Un problema – secondo Giachetti e Scavino – che certo non esisteva solo alla FIAT e che, anzi, altrove si era manifestato anche prima e in forme più evidenti sotto il profilo politico (per esempio alla Pirelli di Milano); ma che qui assunse dimensioni e caratteristiche tali da provocare effetti decisamente maggiori»26. Ciò non solo per le dimensioni quantitative del fenomeno o per il fatto simbolico che la FIAT fosse la più grande e più influente impresa privata italiana ma anche perché «le trasformazioni intervenute nella composizione della classe operaia si presentavano in forme particolarmente radicali, più marcate che in altre fabbriche, con una concentrazione fortissima al montaggio e alle macchine automatiche». In un’ottica che sottolinea l’importanza della spontaneità, le lotte del 1969 sono considerate una rottura, una rivoluzione culturale all’interno della fabbrica che trasforma una classe operaia considerata passiva e subalterna nei confronti dell’azienda nella protagonista di una conflittualità dalle modalità e dall’intensità del tutto inaspettate. In tale contesto, a differenza che a Milano, la rivolta degli operai comuni si sviluppò in una situazione di debolezza sindacale, che costrinse il sindacato a recepire in una certa misura le spinte ribellistiche della base per legittimarsi e conquistare la rappresentatività che non aveva27. Qualora invece si consideri meno netta la rottura del 1969, come mi sembra mostri la continuità dei contenuti rivendicativi intorno a cottimo e ritmi tra il 1963 e il 1969, si può sostenere che a Torino non si riscontrò la nascita dei CUB perché la spontaneità incontrò «il favore consapevole delle organizzazioni storiche»28, e perché nei grandi impianti FIAT l’obsolescenza delle commissioni interne era più netta che altrove, e dunque vi era meno interesse e convenienza a difenderle. Nelle lotte spontanee dell’estate 1969 furono certo in prevalenza gli operai giovani immigrati alle catene di montaggio a ribaltare i rapporti di forza in fabbrica, e non solo nei confronti della gerarchia d’impresa ma anche nei confronti dei lavoratori qualificati (interessati non alla seconda categoria per tutti, ma alla parità normativa con gli impiegati), riuscendo a imporre il proprio punto di vista o a condizionare le grandi manifestazioni sindacali e il tenore stesso delle piattaforme con l’egualitarismo; tuttavia, la ricezione sindacale dei loro obiettivi 26 D. Giachetti, M. Scavino, La FIAT in mano agli operai, cit., p. 133. Ivi, p. 134. 28 L. Gianotti, Gli operai della FIAT hanno cento anni, cit., p. 179. 27 218 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA non fu priva della capacità di imporre, di lì a breve, torsioni in direzione di un recupero della tradizionale cultura sindacale. Del resto, la parola d’ordine del controllo operaio, lanciata a Torino dai dirigenti psiuppini Gianni Alasia e Pino Ferraris, era legata alla tradizione del consiliarismo gramsciano, particolarmente viva a Torino, ed era del tutto interna all’educazionismo di antica tradizione e all’ideologia del lavoro; tra le opzioni del «potere operaio», invece, della «rude razza pagana» dell’operaio massa, stava il rifiuto del lavoro29. Il sindacato non poté risolvere contraddizioni anche di carattere generazionale tra gli operai, come quella tra i giovani che «facevano la produzione» in fretta per ritagliarsi tempo da spendere nel gioco delle carte o per prendere il sole nei piazzali, rimbrottati dai vecchi militanti adusi alla tradizionale pratica della limitazione concordata dei rendimenti per non dare adito ai tagli dei tempi. L’egualitarismo trovò nella dirigenza sindacale torinese un’accoglienza prudente, perché gli aumenti salariali erano passibili di essere recuperati dal padrone, dal quale, oltre ai soldi, occorreva ottenere un potere di controllo che fosse fondato sul riconoscimento delle capacità professionali, sul controllo dei ritmi, sulla contrattazione dei «superminimi», altrimenti utilizzati discrezionalmente dal padrone per dividere. Fu questa cultura sindacale a prendere il sopravvento nelle rivendicazioni degli anni successivi, quando la radicalità dell’azione rivendicativa fu indirizzata all’inquadramento unico, ai passaggi di qualifica corrispondenti alla ricomposizione e arricchimento delle mansioni, alla riappropriazione della scuola da parte dei lavoratori con le «150 ore», al nuovo modo di fare l’automobile, al rifiuto della monetizzazione della salute, agli investimenti al Sud, alla contrattazione dei servizi nel territorio. Si entra qui nel tema dei lasciti del 1969. L’eredità del 1969 I giudizi sugli anni ’70 sono per lo più caratterizzati da un duplice pessimismo, uno di destra, uno di sinistra: a destra si demonizzano i danni all’economia e alla società causati dall’iperconflittualità; a sinistra si rimpiange l’occasione perduta sulla strada della costruzione di nuovi equilibri politico-sociali e si legge tutto il periodo nella prospettiva della sconfitta finale. Il pessimismo va superato tenendo conto di una serie di considerazioni di seguito schematicamente proposte. Dopo il 1969 e dintorni, la FIAT non sarebbe più stata la stessa, nemmeno dopo la svolta dei «quarantamila». In particolare, la vertenza aziendale integrativa del 1971, incentrata su cottimo, qualifiche e ambiente, si concluse con l’accordo del 5 agosto 1971, destinato a fungere da fulcro delle relazioni industriali alla FIAT per tutti gli anni ’70, e da punto di riferimento anche nella contratta29 M.L. Righi, Gli anni dell’azione diretta, cit. 219 STEFANO MUSSO zione aziendale successiva30. Il sindacato ottenne vincoli all’utilizzo della forza lavoro, con la riduzione delle saturazioni massime, la riduzione dell’ambito di variazione del cottimo, la fissazione di pause individuali; l’insieme dei vincoli comportò un incremento occupazionale significativo sulle linee. Vennero inoltre costituiti i comitati, oltre che per i cottimi, per l’ambiente e le qualifiche; i comitati, privi di potere negoziale ma con compiti di verifica tecnica dell’applicazione dell’accordo, erano formati da rappresentanti dell’azienda e rappresentanti sindacali cui erano affiancati i delegati, che l’accordo continuava a chiamare «esperti» a causa del rifiuto della FIAT di riconoscere esplicitamente il consiglio di fabbrica. In compenso, con gli esperti fu raddoppiato il numero di rappresentanti sindacali aziendali previsto dalla legge, e concesso un notevole monte ore di permessi sindacali, di tre ore annue per dipendente. Nell’insieme degli stabilimenti FIAT in Italia nacquero 226 comitati: 60 per i cottimi, 83 per le qualifiche, 83 per l’ambiente di lavoro. Complessivamente i rappresentanti dei lavoratori, tra rappresentanti sindacali aziendali ed «esperti», erano 1.800 per l’insieme di CGIL, CISL, UIL, SIDA e CISNAL; nel 1977 sarebbero diventati, stando a dati forniti dalla FIAT, ben 4.100, di cui solo 140 membri di commissione interna. Il coordinamento nazionale del gruppo fu formato da 90 rappresentanti, due terzi dei quali provenienti dagli stabilimenti di Torino31. Si trattò di un notevole balzo in avanti nella configurazione delle rappresentanze interne, tale da rendere la situazione imparagonabile a quella di pochi anni prima. Ne fu influenzata la «stagione delle cento vertenze», con 177 accordi interni tra il 1975 e il 1979, di cui 18 al Lingotto, 63 a Rivalta, 96 a Mirafiori. La conflittualità ebbe alla FIAT, in quello che può essere considerato un caso da manuale, effetti propulsivi sull’innovazione tecnologica. Introdotta dapprima là dove pesantezza e nocività fomentavano il conflitto, come alla lastroferratura e in verniciatura, l’innovazione fu spinta, dopo il ripristino dell’autorità gerarchica, alla ricerca parossistica di soluzioni labour saving, perseguite da una dirigenza che voleva farla finita con l’incubo della fabbrica popolata di operai arrabbiati32, fino a dar vita a soluzioni ipertecnologiche dalle quali dovette recedere dopo aver sperimentato i limiti della tecnologia di fronte delle esigenze di aumento dei mix produttivi33. Tuttavia, un’esperienza quale il LAM, la lavorazione asincrona motori, mostra che alcuni tentativi furono compiuti, e contrattati, con successo in direzione del superamento della divisione taylorista del lavoro, benché l’automobile fosse troppo grande per permettere soluzioni tipo le isole di montaggio della Olivetti. 30 T. Dealessandri, M. Magnabosco, Contrattare alla FIAT. Quindici anni di relazioni industriali, a cura di C. Degiacomi, Edizioni Lavoro, Roma 1987; S. Musso, Le relazioni industriali alla FIAT, in C. Annibaldi e G. Berta (a cura di), Grande impresa e sviluppo italiano, vol. II, il Mulino, Bologna 1999. 31 C. Damiano, P. Pessa, Dopo lunghe e cordiali discussioni, cit., pp. 157-158. 32 C. Annibaldi, Impresa, partecipazione, conflitto. Considerazioni dall’esperienza FIAT. Dialogo con Giuseppe Berta, Marsilio, Venezia 1994. 33 G. Bonazzi, Il tubo di cristallo. Modello giapponese e fabbrica integrata alla FIAT Auto, il Mulino, Bologna 1993. 220 IL 1969 A TORINO: IL CONFLITTO INDUSTRIALE NELLA CITTÀ-FABBRICA Furono così compiuti i primi passi verso gli sviluppi successivi dell’organizzazione postfordista, nei quali le tecnologie hanno reso il lavoro meno faticoso, e gli ambienti di lavoro meno sporchi e rumorosi. L’innovazione tecnologica avrebbe ridotto notevolmente i livelli occupazionali nell’auto, e la cassa integrazione per 23.000 lavoratori imposta dalla FIAT nel 1980 costituì certo un evento drammatico per molti operai colpiti dal provvedimento; ma se si considera il risultato di quella vertenza sul lungo periodo e nel quadro più generale dei mutamenti della distribuzione della popolazione attiva in direzione del terziario, si può concordare con Galli e Pertegato che la resa sindacale dell’autunno 1980 fu in qualche misura aggravata da una non del tutto giustificata «sindrome della sconfitta»34. Se a Torino il trauma fu grave (con una metà abbondante dei lavoratori che accettarono le pressioni e il denaro offerto dalla FIAT per andarsene, un 10% che fu posto in pensionamento anticipato, un 3% rientrato in mobilità nel gruppo FIAT e un terzo rientrato in FIAT Auto nell’arco di sei anni), tale da determinare una grave crisi della capacità contrattuale del sindacato, a Milano la cesura fu meno netta35. Infine, persino per la FIAT ci fu qualche risvolto positivo del conflitto: secondo quanto osservato da Giuseppe Berta, il conflitto spinse infatti a rinnovare il management, sostituendo i vecchi addetti al personale, che erano conoscitori delle regole ed esperti della loro applicazione ma non mediatori efficaci: il ricambio avrebbe favorito lo sviluppo nei nuovi funzionari di competenze operative in contesti instabili determinati dal conflitto, e gli stessi funzionari sarebbero passati negli anni successivi a posti di responsabilità gestionale, applicando utilmente le capacità acquisite negli anni ’70 ai mercati idiosincratici e altalenanti del postfordismo36. Da un punto di vista più generale, gli anni ’70 rappresentarono bensì un rallentamento dei ritmi della crescita economica, ma incrementi medi annui del PIL del 3,5%, quali quelli degli anni ’70, oggi sarebbero accolti con giubilo. Ciò che più conta, però, è che senza il ’68 e il ’69 la straordinaria stagione di riforme degli anni ’70, che ha avvicinato il paese alle democrazie occidentali più avanzate e di cui beneficiamo ancora oggi, non avrebbe preso avvio, o non sarebbe stata incisiva37. Quanto alla scuola, come non ricordare le «150 ore» conquistate nel 1972, destinate a diventare il ceppo sul quale sarebbe stato posto il problema della formazione continua in Italia? E che dire del tempo pieno, un passo fondamentale per le donne e per i più alti tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro, che restano uno dei principali obiettivi per l’inno34 P. Galli, G. Pertegato, FIAT 1980. Sindrome della sconfitta, Ediesse, Roma 1994. I. Regalia, Sulla contrattazione aziendale in Lombardia negli anni Settanta e Ottanta. Ovvero sugli esiti imprevisti di uno sviluppo normativo interrotto, in Milano operaia dall’800 a oggi, a cura di M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Canapini, Rivista milanese di economia, serie quaderni, n. 22, 1992, vol. II. 36 G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla FIAT, cit. 37 Un utile elenco delle riforme degli anni ’70 è in L. Baldissara, Il conflitto ai tempi della crisi. I «lunghi anni Settanta» come problema storico, in L. Baldissara (a cura di), Tempi di conflitti, tempi di crisi. Contesti e pratiche del conflitto sociale a Reggio Emilia nei «lunghi anni Settanta», L’Ancora, Napoli-Roma 2008. 35 221 STEFANO MUSSO vazione del sistema economico odierno? Gli investimenti al Sud presero nuovo impulso proprio grazie alle pressioni sindacali, rese esplicite a Torino sin dal 1966: nel 1971 erano già in costruzione gli stabilimenti FIAT di Cassino, Termoli, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò: certo la FIAT puntava agli incentivi statali e ad aree a minor conflittualità e a bassa sindacalizzazione, ma intanto ne beneficiavano l’occupazione e i redditi delle zone interessate. Alle leggi di riforma a livello nazionale vanno aggiunte le battaglie condotte localmente dai sindacati, nei territori, che hanno ampliato welfare e servizi locali. A Torino, la strategia delle vertenze sui problemi sociali del territorio, orizzontali rispetto alle categorie e legati alla condizione dei lavoratori, fu favorita dallo stretto rapporto tra la Camera del lavoro di Emilio Pugno e l’unione territoriale CISL di Cesare Del Piano. La casa, la scuola, gli asili nido e le materne, la sanità e gli ospedali, i manicomi, i trasporti, le aree verdi, gli impianti sportivi e ricreativi erano altrettanti temi che facevano il paio con le riduzioni d’orario, il tempo libero e la qualità della vita. Questa strategia partì nel 1969 ed ebbe sviluppi notevoli negli anni ’70, contribuendo a migliorare la qualità urbana38. Ancora a Torino, le mobilitazioni di quegli anni determinarono l’avvento delle giunte di sinistra, che a cavallo tra anni ’70 e anni ’80 si dedicarono ad affrontare i problemi sociali lasciati insoluti dallo sviluppo incontrollato degli anni ’60: il degrado delle periferie e la carenza di servizi e di abitazioni39. Da ultimo, ma forse ciò che più conta, senza la conflittualità degli anni ’70, con il protagonismo dei vecchi e dei nuovi operai saldato dall’azione sindacale, il processo di integrazione delle masse di immigrati dal Mezzogiorno e il superamento degli steccati culturali e dei razzismi interni non sarebbe stato altrettanto rapido e profondo: senza il ’68 e il ’69 l’epopea della migrazione interna, che ebbe dimensioni bibliche e costituì di gran lunga il maggior mutamento sociale vissuto dall’Italia nella seconda metà del Novecento, non potrebbe essere riguardata oggi come una storia di sacrifici in buona misura ripagati e, in ultima analisi, come una storia di sostanziale successo per il paese. 38 La vertenza casa, ad esempio, fu al centro delle prime mobilitazioni. L’urgenza del problema era stata aggravata dall’intensa migrazione dopo l’apertura della FIAT Rivalta, che aveva indotto speculazioni sul caro affitti. Le controparti furono individuate nel governo, nell’amministrazione locale, ma anche nell’Unione industriale e nella FIAT, la cui responsabilità stava nell’aver continuato a investire in provincia di Torino anziché al Sud. La vertenza fu avviata unitariamente a Torino sin dal giugno 1969, con una lettera delle tre segreterie provinciali a deputati e senatori della provincia nella quale si rivendicava il blocco di affitti e sfratti, l’equo canone, un piano straordinario di costruzione case, lo sviluppo dell’edilizia popolare. Lo sciopero di 24 ore sulla casa indetto per il 3 luglio fu l’occasione per i fatti di Corso Traiano. Il sindacato torinese penserà che il corteo dei gruppi avesse dato adito a strumentalizzazioni antisindacali, compreso un tentativo di assalto della polizia alla V Lega FIOM di Mirafiori, ma rileverà anche con soddisfazione gli episodi di solidarietà degli abitanti del quartiere nei confronti dei dimostranti. Cfr. G. De Stefanis, R. Lattes, Emilio Pugno, cit. 39 Forse trascurando le esigenze di ammodernamento delle infrastrutture a sostegno dell’incombente processo di terziarizzazione, a partire dalla questione della metropolitana, e compiendo in un certo senso un errore speculare al quello degli amministratori centristi degli anni del miracolo. 222 Il Nord-est delle grandi imprese familiari: Marzotto, Zanussi e Zoppas di Giorgio Roverato Premessa Il taglio di questo intervento dipende dalla disciplina che pratico, ovvero la Storia economica e dell’impresa. Per cui il mio intervento è più mirato alla struttura e alle problematiche dell’impresa che non a quelle dei lavoratori in essa impiegati. È certamente un limite, ma credo che ognuno possa parlare con cognizione di causa solo di ciò che studia e sa, anche se – ovviamente – le ragioni dei lavoratori nel conflitto con l’impresa sono dal punto di vista storiografico non facilmente scindibili. E vengo al punto: il Nord-est industriale della fine degli anni ’60 presenta una singolare (e irripetibile) tripartizione, segnato come era da tre distinti fattori: a) una crescente diffusione della piccola-piccolissima impresa; b) il consolidarsi/riposizionarsi di tre grandi aziende a esclusivo controllo familiare e a forte insediamento territoriale; c) il prepotente affermarsi delle produzioni ad alta intensità di capitale rappresentato dal Porto industriale di Venezia (Porto Marghera) incentrato sulla cantieristica e sul ciclo petrolchimico. Vale la pena di ricordare come il Petrolchimico veneziano, controllato dall’ENI, costituisse all’epoca la maggiore concentrazione europea in tali tipologie produttive. L’Autunno caldo investì in modo differenziato queste tre distinte realtà; pressoché irrilevante nelle imprese minori, salvo qualche media impresa (ad esempio le Fonderie Peraro di Padova, dove il movimento antagonista di Potere operaio sperimentò già nel 1968 alcune pratiche di lotta poi estese a Marghera), esso si manifestò in modo estremamente conflittuale sia al Petrolchimico che alla Fincantieri veneziana, ma lambì anche, pur con esiti contraddittori, le isole «felici» della grande impresa familiare della quale in questo contributo si intende parlare. Va da sé che l’espressione «isole felici» è riferita, dal punto di vista del padronato, a una lunga pratica paternalistica che aveva di fatto contenuto, pur non riuscendo a eliminarle del tutto, le occasioni di contrasto tra capitale e lavoro. Le aziende familiari di cui qui parliamo sono un’antica impresa laniera, la Marzotto di Valdagno (Vicenza), e due imprese attive nella meccanica «leggera» 223 GIORGIO ROVERATO (l’industria degli elettrodomestici), vale a dire la Zanussi di Pordenone, all’epoca appartenente alla provincia di Udine, e la Zoppas di Conegliano (Treviso). Quest’ultima fu acquisita dalla Zanussi nel corso del 1970, ad Autunno caldo ormai concluso, in una logica di concentrazione produttiva coerente con le strategie del settore tese a conseguire più efficaci (e competitive) economie di scala. Profilo delle tre aziende La Marzotto, la prima di cui qui si tratterà, è l’impresa di più antica origine. La tradizione aziendale data il suo inizio nel 1836, quando un Luigi Marzotto – capostipite della dinastia imprenditoriale valdagnese – accentrò in un unico luogo (la «Fabbrica», come venne a lungo chiamata dai suoi stessi operai) le attività di trasformazione laniera che da anni egli esercitava – come mercante-imprenditore, vale a dire come organizzatore «capitalistico» della produzione – presso il domicilio di un variegato, e variabile, numero di lavoranti alle sue dipendenze. Si trattava di persone che costituivano il prototipo del classico «lavoratore salariato», dato che esse percepivano un corrispettivo per ogni unità di prodotto, fosse esso un chilogrammo di filato o un metro di tessuto. Si trattava, in sostanza, di una sorta di retribuzione a cottimo, più tardi replicata nei primi sistemi di fabbrica, poi variabilmente superata dalla retribuzione oraria: anche se più tardi non mancarono forme miste (in parte paga oraria, in parte retribuzione «per cottimo», dove questo rappresentava in embrione quello che oggi chiameremmo premio di produttività). L’azienda crebbe lentamente fino agli anni ’80 dell’Ottocento, quando (con ormai circa 800 dipendenti) fece un salto di qualità entrando – con un nuovo stabilimento, a pochi chilometri da quello originario – nel più profittevole segmento del filato pettinato. Da lì la crescita fu esponenziale, fino a quando l’azienda divenne (1933) il principale produttore laniero italiano, coprendo una quota tra il 50 e il 55% dell’intera esportazione laniera italiana. Un primato che l’azienda, pur tra le difficoltà delle varie crisi «tessili» che investirono il settore dopo il secondo conflitto mondiale, manteneva ancora alle soglie del 1968, anno cruciale di cui si dirà per gli eventi che la sconvolsero, pur costituendo tali eventi premessa essenziale per un radicale cambiamento nel suo sistema di relazioni industriali, e financo nella sua evoluzione da impresa tradizionale in player internazionale del tessile-abbigliamento e del fashion1. Grazie anche allo scossone subito non per le lotte dell’Autunno 1 Sulla Marzotto esiste ormai una cospicua letteratura. Mi limito a citare il mio studio I Marzotto. Una casa industriale, Franco Angeli, Milano 1986, che fu tra l’altro una delle prime storia d’impresa italiane, nonché un volume giubilare (P. Bairati, Sul filo di lana. Cinque generazioni di imprenditori: i Marzotto, il Mulino, Bologna 1986) promosso dall’azienda per i 150 anni della sua fondazione. Di tematica più specificamente legata a temi aziendalistici, e tuttavia di non poco interesse, è poi il testo di G. Brunetti, A. Camuffo, Marzotto. Continuità e sviluppo, ISEDI-UTET, Torino 1994. Per ulteriori spunti, cfr. www.giorgioroverato.eu/A/Marzotto&Valdagno_scritti.htm. 224 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS caldo, bensì per il duro, durissimo conflitto sindacale che si sviluppò tra la fine del 1967 e i primi mesi del 1969, la Marzotto divenne nel volgere di un ventennio leader europeo nelle produzioni laniere e liniere, nonché uno dei protagonisti mondiali nell’abbigliamento formale maschile. La Zanussi fu costituita nel 1916, in piena Grande guerra, come Officina Fumisteria Antonio Zanussi. Si trattò di un avvio stentato, stentatissimo, che tuttavia trovò un abbrivio nella fabbricazione di stufe a legna, grazie alla quale l’azienda si ricavò negli anni ’30 qualche profittevole spazio di mercato. Ciò fu in non poca parte dovuto a una geniale idea-marketing, ovvero la tempestiva registrazione (1933) del marchio Rex applicato ad una nuova linea di «cucine economiche», con ciò sfruttando la grande notorietà acquisita dal transatlantico Rex – fiore all’occhiello della marina mercantile italiana – che proprio in quell’anno aveva conseguito il mitico «Nastro Azzurro» per la più veloce traversata dell’Atlantico. Fu un’idea vincente: il marchio proiettò la piccola azienda al di fuori del proprio ristretto insediamento commerciale. Quando nel 1946 la morte di Antonio Zanussi portò i figli Guido e Lino alla guida dell’impresa, essa occupava ormai un centinaio di dipendenti. Fu Lino, creando una efficace rete distributiva, e soprattutto esponendo i prodotti dell’azienda alla Fiera di Milano (1949), a determinare un decisivo salto di qualità: in un breve volgere di tempo, i prodotti Zanussi si diffusero in quasi tutto il paese, soprattutto dopo la messa a punto nel 1951 di fornelli a gas metano che coglieva le opportunità offerte dalla crescita esponenziale della rete distributiva della SNAM. Il nuovo prodotto costituì un vero e proprio successo di mercato, replicato con le prime cucine elettriche che consentivano di coprire le aree di recente elettrificazione, e non ancora raggiunte dalla rete metanifera. Nel 1954 venne avviata la costruzione a Porcia, una cittadina a pochi chilometri da Pordenone, di un nuovo (e modernissimo per l’epoca) stabilimento, dove venne messo a punto il primo elettrodomestico «bianco» della ditta, la lavatrice. I dipendenti erano ormai saliti a settecento unità. Seguirono in pochi anni nuovi prodotti: i frigoriferi Tropic System innanzitutto, il cui design fece scuola in Europa, poi (1960) i primi televisori e infine la nuova linea marcata «Naonis». Da poco era peraltro iniziata l’espansione in Europa, dapprima con una capillare rete distributiva, presto seguita da una testa produttiva in Spagna, attraverso la consociata Ibelsa, che consentiva di contenere una crescente tensione salariale in Italia. L’azienda peraltro, con una scelta strategica, si era nel frattempo resa autosufficiente nella componentistica, uno dei punti cruciali nel comparto degli elettrodomestici: era infatti stato costruito a Vallenoncello, una frazione di Pordenone, uno stabilimento adibito alla produzione di componenti elettriche, meccaniche ed elettromeccaniche. Questo impianto divenne il punto di forza di quello che nel 1962 già appariva un grande gruppo integrato che, con oltre quattromila dipendenti, era ormai capace – grazie alle economie di scala conseguite – non solo di lavorare per il mercato finale, ma anche di saturare le potenzialità dei propri impianti con commesse assunte presso primarie aziende straniere, tra le quali la 225 GIORGIO ROVERATO blasonata AEG, che nella Zanussi trovò un partner dagli elevati livelli negli standard di qualità. Nel 1967 il gruppo si allargò con l’acquisizione di alcune aziende concorrenti in crisi: dapprima la Becchi di Forlì, poi la STICE di Firenze2, ed infine la Castor di Rivoli (Torino). Fu la crisi di sovrapproduzione che – nei tornanti della congiuntura economica negativa seguita al boom economico, aveva investito il comparto degli elettrodomestici – a spingere ad un accelerato processo di concentrazione produttiva teso a ottimizzare le economie di scala e a contrarre, attraverso la standardizzazione della componentistica, il costo del prodotto finito. Ma tale processo cominciò anche a confrontarsi con le tensioni sindacali e la lievitazione del costo del lavoro, di cui l’Autunno caldo del 1969 fu segno emblematico. Lino Zanussi non visse, tuttavia, quegli eventi. Morto tragicamente nel 1968 in un incidente aereo, alla guida del gruppo gli successe come amministratore delegato un manager, Lamberto Mazza, che da un lato gestì in prima persona lo scontro sindacale, e dall’altro proseguì – con larga autonomia rispetto alla proprietà – la politica delle acquisizioni, la più rilevante della quale fu, nel 1971, l’assorbimento della Zoppas di Conegliano. Se alla morte di Lino il gruppo operava in 13 stabilimenti con una occupazione complessiva di 13.000 persone, al momento (1984) in cui la famiglia decise di uscire dalla proprietà cedendo tutto alla svedese Electrolux3, il gruppo – ulteriormente cresciuto anche per vie interne, soprattutto grazie all’irrobustimento della Zanussi Grandi Impianti, una delle ultime felici diversificazioni avviate da Lino – presentava una occupazione complessiva di 35.000 addetti e costituiva, con un vasto portafoglio di marchi, il più grande conglomerato europeo nella produzione di apparecchiature domestiche per la cucina. La Zoppas era invece nata nel 1925 a Conegliano, in provincia di Treviso, come piccola officina per la costruzione di cucine economiche, quindi in modo non dissimile (in quanto a idea-business povera, poverissima) dalle prospettive che si era posto poco meno di dieci anni prima Antonio Zanussi in quel di Pordenone. Anche per la Zoppas, guidata dai fratelli Augusto e Gino, il decollo arrivò tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50. Era un momento cruciale, quello della ricostruzione postbellica: il paese aveva bisogno di tutto, anche di cose semplici come le cucine. Anche in questo caso il passaggio fu dalle cucine a legna a quelle a gas metano, che andava a rapidamente sostituire il gas liquido delle classiche bombole GPL, e infine a quelle elettriche. Poi, è noto, vi fu un rapido ritorno al metano, dato il crescente costo dell’energia elettrica. Nel passaggio tra le cucine a gas e quelle elettriche iniziò anche per la Zoppas l’avventura 2 Sulla fiorentina STICE, cfr. L. Falossi, G. Silei, Qui STICE Libera. Cronache e storia dalla fabbrica che non c’è. La STICE Zanussi di Scandicci dalle origini agli anni Settanta, Lalli, Poggibonsi 1999. 3 È solo un dettaglio, ma è interessante annotare come la cessione da parte della famiglia Zanussi alla Electrolux fu «trattata» da Consortium Spa, una società promossa da Mediobanca in accordo con Confindustria e che riuniva i nomi più prestigiosi dell’imprenditoria italiana. Guidata da Pietro Marzotto, il leader dell’omonima azienda valdagnese, essa già aveva positivamente condotto in porto il risanamento della SNIA Spa. 226 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS degli elettrodomestici: frigoriferi, in questo caso prima delle lavatrici, ma anche diversificazioni che invece la Zanussi non perseguì: ad esempio le vasche da bagno, frutto di un ottimo reparto di smalteria ceramica, e i condizionatori. Conviene notare come il business degli elettrodomestici fosse ritenuto dagli economisti, italiani come stranieri, un comparto proibitivo per una fragile manifattura quale quella nazionale. E invece, proprio tra gli anni ’50 e ’60, esso crebbe esponenzialmente posizionando l’Italia come importante competitore europeo, e non solo sull’ovvio fronte della struttura dei costi, ma anche su quello di crescenti (e tendenzialmente) ottimi standard di qualità. La crescita occupazionale fu nei primi anni ’50 più rilevante alla Zoppas che alla Zanussi: a metà del decennio la prima presentava già, tra operai ed impiegati, oltre 1.300 addetti, mentre la seconda ne aveva poco più di 700. Poi il trend si rovesciò: nel 1962 alla Zoppas gli occupati erano poco al di sotto dei 2.400, mentre la Zanussi – lo abbiamo ricordato – viaggiava già sui 4.000. La differenza stava nella diversa struttura tecnico-organizzativa; la Zanussi puntava rapidamente a una crescente standardizzazione di prodotto giocando su favorevoli economie di scala, di cui la quota di componentistica autoprodotta fu parte fondamentale, mentre la Zoppas tendeva a posizionarsi in aree di nicchia, mirando ad una maggiore qualificazione, per certi versi più stilistica che tecnologica: ma le minori quantità prodotte non impedirono il conseguimento di una buona, a volte elevata redditività d’impresa. Anche la Zoppas arrivò, dopo la saturazione del mercato interno, ai mercati stranieri, ma non costituendo tuttavia postazioni produttive all’estero. Come dire che la sua internazionalizzazione fu tutta commerciale. Fino al suo ricordato assorbimento nel 1971 nella Zanussi, che evitò così l’acquisizione del suo principale concorrente, fortemente indebitato, da parte dell’americana Westinghouse, intenzionata ad aggredire i mercati europei proprio dalla testa di ponte coneglianese. C’era un altro motivo che spinse la Zanussi all’acquisizione: il timore che l’arrivo di una multinazionale così prestigiosa determinasse una emorragia dei propri quadri migliori, attratti da contratti di lavoro potenzialmente più vantaggiosi. I distinti contesti socioeconomici Prima di delineare le diverse dinamiche del conflitto nelle tre aziende indicate, conviene soffermarci sui distinti contesti socioeconomici nelle quali esse si trovarono ad operare. Valdagno con Schio, nell’alto vicentino, appartiene a uno dei luoghi della prima industrializzazione continentale, situabile grosso modo nei primi due-tre decenni dell’Ottocento. Il sistema di fabbrica incentrato sulla produzione laniera si innestò in quell’area su un lungo passato di manifattura tradizionale, quella a lungo definita casalinga, e poi più efficacemente chiamata «protoindustriale», lì insediatasi nel corso del Seicento. Si trattava di aree ad agricoltura 227 GIORGIO ROVERATO povera, di mera sussistenza, dove le tradizionali produzioni per autoconsumo – in questo caso dei «pannilana», ovvero di tessuti atti al confezionamento di abbigliamento comune – si dilatarono nel tempo trovando, grazie alla intermediazione dei cosiddetti mercanti-imprenditori (e alla vera e propria organizzazione del lavoro da essi messa in campo), profittevole sbocco nei mercati limitrofi, e in non pochi casi anche lontani. Da integrazione dello scarso, scarsissimo reddito agricolo, questa attività manifatturiera divenne presto forma stabile di sostentamento per interi nuclei familiari, originando – tramite i saperi taciti trasmessi da padre in figlio – generazioni di lavoratori stabilmente addette a determinate lavorazioni, come alcuni cognomi locali (ad es. «Tessaro» o «Lanaro») ancor oggi testimoniano. Tra questi mercanti-imprenditori presto emerse il menzionato Luigi Marzotto. I suoi discendenti, a partire dal figlio Gaetano Sr, il vero iniziatore della dinastia imprenditoriale valdagnese, divennero presto i pressoché unici datori di lavoro in quella stretta vallata dell’alto vicentino, originando di fatto una struttura economica a monocultura industriale, che tale rimase fino alla fine degli anni ’60 del Novecento: epoca nella quale cominciò a manifestarsi l’emergere di una piccola imprenditoria in grado di attenuare tale monocoltura, e quindi il «monopolio» datoriale. Rimane il fatto che quando scoppiò il conflitto sindacale del 1967-69, originato dalla severa quanto inefficace ristrutturazione organizzativa cui la grande azienda laniera diede mano per tentare di risalire la china di una progressiva perdita di peso sul mercato, lo scenario sul fronte del lavoro appariva quello di una classe operaia consolidata, da generazioni estraniata sia dall’agricoltura povera della vallata, che dal lavoro artigianale. Si trattava di una classe operaia moderata, moderatissima, da sempre abituata ad una struttura di potere rigidamente gerarchica, in grado di esercitare – anche attraverso uno stretto rapporto con la chiesa locale, peraltro canale privilegiato per l’assunzione nell’impresa laniera – un forte controllo sociale, solo parzialmente attenuato dall’incrinatura che la Democrazia Cristiana portò nel secondo dopoguerra al primato politico che la famiglia imprenditoriale aveva a lungo detenuto nella zona. Con tuttavia la contraddizione che, fortissimo nel voto per le amministrazioni locali, il partito cattolico non riusciva a replicare il suo successo nelle elezioni parlamentari, tanto che in quelle che si tennero tra il 1953 e il 1968 il consenso elettorale si spostò regolarmente (e in massa) sul partito liberale, o meglio su un esponente della famiglia laniera, Vittorio Emanuele Marzotto, che riuscì a replicare in età repubblicana la rappresentanza politica della vallata esercitata nel Parlamento regio dal bisnonno Gaetano Sr (1876-1882, 1890-97) e dal nonno Vittorio Emanuele (1900-1919). Il controllo sociale saldamente esercitato dalla Marzotto, a volte anche in modo invasivo, non poggiava però tanto sul ruolo parlamentare del deputato di famiglia, invero di poco peso, o sull’incontestabile legame con la chiesa locale, quanto su quel particolare (ed invero costoso) sistema paternalistico che l’azienda era andata costruendo tra la metà degli anni ’20 e il secon228 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS do conflitto mondiale, poi facendolo evolvere negli anni ’50 in un più evoluto welfare aziendale. Paternalismo, e welfare, rivolto peraltro non solo alle maestranze ma anche a buona parte della comunità locale4 nel tentativo, riuscito, di esercitare un’azione di surroga rispetto agli enti territoriali, incapaci per scarsità di risorse a far fronte ai bisogni collettivi. Ed anche su questo poggiarono le fortune della famiglia imprenditoriale, almeno fino alla crisi del ’67-69. Di Pordenone (situato sulla riva destra del Piave) e di Conegliano (a sinistra del Piave): se Valdagno rappresentava un luogo di antica industrializzazione, ben diverso era il contesto di queste cittadine, che – accanto a una variegata agricoltura (più tradizionale nel primo caso, a prevalente specializzazione vitivinicola nel secondo) – vedeva la presenza di variegate attività mercantili e di un vivace artigianato, sia meccanico che di lavorazione del legno, al servizio delle produzioni agricole. La struttura sociale era perciò quella tipica dei capoluoghi di mandamento usi a interagire con un retroterra nel quale la coltivazione della terra costituiva la risorsa principale. Il proletariato era rappresentato dai lavoranti agricoli e da chi prestava la propria opera nelle botteghe e/o nei laboratori artigiani urbani, all’interno di circuiti relazionali nei quali la contiguità, anche fisica, tra lavoratori e «padroni» replicava gli schemi tipici di una società rurale: scarsa o nulla conflittualità, valori condivisi pur tra classi sociali diverse, stabile ruolo di mediazione/moderazione rappresentato dalla fitta rete delle parrocchie e dalle istituzioni cooperative, ad esempio le latterie sociali, promosse dal movimento cattolico a favore della piccola proprietà contadina. In tali luoghi, la rapida, rapidissima industrializzazione innescata dalla produzione di elettrodomestici non provocò traumi o rotture visibili con il mondo preesistente, ma determinò un lento – e tuttavia progressivo – crescere di contraddizioni, di cui fu segno l’emergere di una consapevolezza antagonistica di una manodopera che via via transitava dal lavoro agricolo, o di bottega, alla serializzazione della moderna grande impresa. Il ’68 alla Marzotto: anticipazione dell’Autunno caldo? La stagione dell’Autunno caldo fu in realtà preceduta nell’industria manifatturiera italiana da diverse vertenze, non poche volte significative. Lo si vide nel biennio 1961-62 sia alla FIAT che a Porto Marghera, dove i lavoratori conseguirono qualche risultato di peso. Una qualche turbolenza, pur su temi minori, si presentò all’epoca anche nell’industria veneta degli elettrodomestici. Ma fu il conflitto alla Marzotto di Valdagno, che ebbe i suoi prodromi nel 1967 e un 4 Su questo secondo aspetto comunitario, cfr. G. Roverato, Valdagno e la «città sociale» di G. Marzotto. Tra utopia conservatrice e moderno «welfare» aziendale, in Annali di storia dell’impresa, vol. 13, 2002. Si veda anche G. Roverato, Gaetano Marzotto Jr: le ambizioni politiche di un imprenditore tra fascismo e postfascismo, ivi, vol. 2, 1986. 229 GIORGIO ROVERATO (primo) traumatico esito nell’aprile del 19685, a segnare una nuova stagione di lotte, poi spesso emblematicamente – pur con non poche forzature – considerata una sorta di anticipazione dei più duri scontri che investirono l’industria manifatturiera italiana negli ultimi mesi del 1969. Conviene però una premessa: che l’esito di quel conflitto (e questa sì fu una anticipazione di quanto poi avvenne nell’Autunno caldo, e fu successivamente codificato nello Statuto dei Lavoratori, cioè la legge 300 del 1970) si risolse nella piena legittimazione del sindacato a contrattare non solo salari e condizioni di lavoro, ma anche i processi di riorganizzazione tecnico-produttiva degli impianti. Il conflitto alla Marzotto partiva da lontano, grosso modo dalle difficoltà che il comparto laniero – che già aveva conosciuto una prima grave crisi nel dopoguerra – si trovò ad affrontare nei primi anni ’60. Esse derivavano dagli effetti combinati di una serie di fattori: a) una sostanziale stagnazione (se non caduta) della domanda tessile, cui si accompagnava una propensione dei consumatori a sostituire le fibre tradizionali con le fibre artificiali e sintetiche che si andavano imponendo sia per un prezzo più contenuto sia per la versatilità di applicazioni che sembravano maggiormente rispondere alle esigenze di una evoluzione della moda; b) l’obsolescenza degli impianti causata dall’innovazione tecnologica che, dopo decenni di stasi, stava rivoluzionando l’industria meccano-tessile; c) l’irrompere nel prodotto laniero di paesi terzi a basto costo del lavoro. Contrastare questi fattori significava per l’azienda valdagnese recuperare da un lato produttività attraverso nuovi investimenti impiantistici, tendenti a contenere gli accresciuti costi salariali, ed innovare dall’altro i prodotti per rispondere alla concorrenza di fibre altre dalla lana stimolando così una domanda in decremento. Alla Marzotto tale situazione risultava aggravata dai limiti di una struttura organizzativa che, formatasi tra gli anni ’30 e ’40 del Novecento, appariva ormai superata. Il «gigantismo» dell’azienda, con l’irrisolto nodo di insistere con i suoi due principali stabilimenti in una vallata praticamente monoindustriale, e cioè quasi esclusivamente incentrata sull’attività dell’azienda laniera, rendeva problematico il compito di competere con le più flessibili strutture dei concorrenti biellesi e, in parte, pratesi. La sfida che la Marzotto si trovò ad affrontare coincise, pur con qualche sfasatura temporale, con il ricambio generazionale rappresentato dalla graduale uscita di scena di G. Marzotto Jr e dall’assunzione della leadership imprenditoriale dei suoi figli, in particolare di Giannino Marzotto che dal 1956 aveva assunto l’incarico di consigliere delegato. Questa stagione fu segnata dall’avvio di una timida spersonalizzazione dell’impresa, grazie alla quotazione sul mercato borsistico (1960) di una emissione di azioni privilegiate. L’operazione era finalizzata a fornire all’azienda la liquidità necessaria ad affrontare un primo intervento sul piano del rinnovo impiantistico. A ciò si accompagnò, 5 Si veda il volume collettaneo O. Mancini (a cura di), La statua nella polvere. 1968. Le lotte alla Marzotto, con prefazione di N. Tranfaglia, Ediesse - Fondazione Di Vittorio, Roma 2008. 230 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS opportunamente dato l’ingresso di capitali terzi, la separazione delle attività assistenziali dall’azienda, anche perché esse si erano andate dilatando nel tempo dalla tipologia classica del welfare riservato alle maestranze a una più complessiva azione filantropica nel territorio. Questo scorporo aveva portato alla nascita della Fondazione Marzotto, dotata da Gaetano Marzotto come privato cittadino di un consistente patrimonio ritenuto idoneo a soddisfarne le finalità. Questo consentiva di liberare l’azienda dai pesi extraziendali per affrontare le nuove sfide, la prima delle quali era il recupero di produttività. L’inizio degli anni ’60 fu perciò segnato da uno strisciante (ed empirico) incremento dei carichi di lavoro, accompagnato dall’avvio degli interventi impiantistici. Questi ultimi, tuttavia, procedettero a rilento, stante l’impossibilità – per i rammentati vincoli monoindustriali della vallata – di operare massicciamente sugli esuberi, come una logica puramente aziendalista avrebbe razionalmente imposto. I nuovi carichi di lavoro a fronte di ritmi produttivi non più compatibili con le mutate condizioni di mercato, e gli interventi impiantistici, peraltro rinviati nel tempo, si sommarono alla necessità di mettere mano alla struttura organizzativa di comando. Storicamente l’azienda era cresciuta con una formazione del management tutta interna al gruppo. Se ciò in passato aveva costituito una formidabile motivazione per segmenti importanti del personale amministrativo e tecnico, un tale percorso sembrava non più percorribile, od almeno non nelle posizioni di vertice. La rapida innovazione che aveva colto il settore tessile sembrava imporre la necessità di reperire all’esterno quelle professionalità che all’interno faticavano ad emergere. La riorganizzazione del gruppo dirigente della Direzione generale e dei reparti fu perciò l’obiettivo cogente che la leadership imprenditoriale si pose. Il ricorso a management esterno, avviato nel 1961, ebbe un esito contraddittorio. Il personale arruolato, in gran parte proveniente dalla concorrente Lanerossi, se presentava caratteristiche innovative (ed in taluni casi anche di elevata professionalità) rispetto al chiuso mondo dell’impresa valdagnese, di questa non conosceva la specificità. In particolare non conosceva quella miscela di legami personali che univa le maestranze alla famiglia imprenditoriale, la pratica di un paternalismo intelligente che per lungo tempo era riuscito a coniugare modernità ed arretratezza nel ciclo produttivo, la peculiarità di alcune figure di operai di mestiere restie a farsi fagocitare in strutture impersonali. Per cui l’incomprensione tra chi era chiamato a mutare l’organizzazione interna e chi di una tale trasformazione era oggetto si rese subito evidente, con la classica resistenza alla collaborazione che chi studia le strutture complesse ben conosce. L’interruzione della linea di formazione interna della dirigenza venne in particolare vissuta, forse più alla base che non nei quadri intermedi, come insanabile frattura. A questa palpabile «antipatia» al nuovo gruppo dirigente, probabilmente dalla leadership imprenditoriale non valutata negli effetti dirompenti che, se non corretta, poteva innescare, si aggiunsero le scelte che tale gruppo – coerentemente 231 GIORGIO ROVERATO con il mandato ricevuto – iniziò ad operare. Esse da un lato riguardarono diversificazioni di prodotto non sempre felici, od innovazioni (poi rivelatesi inefficaci) che tendevano a dare valore aggiunto al prodotto tradizionale (ad esempio l’acquisizione di un invero fallimentare procedimento «antimacchia» per i tessuti), e dall’altro il tema degli esuberi. Se le responsabilità sulle fallite diversificazioni hanno un che di opinabile, stante che per uscire dalla perdita di competitività bisognava comunque inventarsi percorsi nuovi, e come tali non preventivamente valutabili nel loro effettivo esito, è certo che l’impatto occupazionale determinato dalle scelte del gruppo dirigente di provenienza esterna creò una tensione ed una instabilità difficilmente governabili. Tra il 1962 ed il 1968 l’azienda si ridimensionò nei vari stabilimenti di circa 2.000 addetti, in parte con licenziamenti diretti ed in parte col blocco del turnover. Il recupero di produttività che tale azione tendeva a realizzare non si limitò comunque alla sola manovra sugli esuberi, ma passò attraverso l’introduzione di più efficaci strumenti di controllo sul lavoro operaio, culminati nel 1966 con l’istituzione dell’Ufficio tempi e metodi, incaricato di elaborare, in termini «scientifici», le linee della definitiva ristrutturazione aziendale. Questa azione «ricognitiva» e di elaborazione progettuale culminò nel gennaio 1967 con la presentazione da parte dell’azienda alle organizzazioni sindacali di una piattaforma contrattuale, denominata «accordo globale», il cui punto fondamentale poneva come essenziale la «massima saturazione del macchinario e della forza lavoro». Ciò imponeva l’avvio «in tutti reparti, a mezzo di un servizio appositamente preparato dalla società […], una generale operazione di misura della saturazione, delle efficienze della utilizzazione degli impianti e di ritrovamento dei metodi di lavoro ottimali per i singoli accoppiamenti macchina/articolo». Questa «riscoperta» dell’organizzazione scientifica del lavoro di marca taylorista – invero tardiva, anche se ciò era comune alla gran parte delle imprese italiane – fu in un primo momento accettato dalla CISL e UIL aziendali, che tuttavia poco dopo, assieme alla rappresentanza della CGIL, ne sottoscrissero il rigetto denunciando: a) il maggior carico di lavoro che l’aumento dei macchinari assegnati per addetto implicava; b) l’eccessiva saturazione dei tempi; c) l’inaccettabile esubero di personale che così si sarebbe determinato. Mentre le ostilità apparivano appena iniziate, e di fatto si apriva una logorante trattativa tra le parti, nel settembre-ottobre 1967 la Direzione aziendale decise di avviare comunque la «sperimentazione», incrementando da subito i macchinari affidati in alcuni reparti «pilota». La conseguenza fu in molti reparti la sospensione a zero ore di un non esiguo numero di lavoratori. La risposta sindacale scattò immediata, con una piattaforma rivendicativa unitaria che chiedeva: 1) il blocco di nuove sospensioni ed il rientro dei lavoratori già sospesi; 2) l’esame preventivo e concordato delle «saturazioni» di organico; 3) l’immediato aumento delle tariffe di cottimo, stante un lamentato (e ritenuto già eccessivo) carico di lavoro. A sostegno della richiesta, tra il 20 e il 24 ottobre vennero attuate 24 ore di sciopero. L’agitazione risultò insolitamente compatta 232 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS e fu accompagnata dalla minaccia di estendere l’agitazione anche alle Confezioni di Maglio e al Copertificio di Trissino, pur non direttamente intaccati dal nuovo sistema. Dopo un nuovo sciopero di 48 ore, il 27 ottobre e il 3 novembre 1997, l’azienda accettò di riprendere le trattative. Che, tuttavia, il 4 novembre si aprirono con la pregiudiziale aziendale di un preliminare riconoscimento della fondatezza dei principi ispiratori della ristrutturazione, base essenziale per entrare nel merito dei problemi sollevati dalla contesa. La richiesta della Marzotto provocò l’abbandono del tavolo di discussione da parte della FILTEA-CGIL. La CISL e la UIL, che invece decisero di accettare la pregiudiziale, rimasero a trattare, concludendo – l’8 novembre – un «accordo separato». I punti fondamentali erano: a) blocco dei licenziamenti; b) scelta dei lavoratori da sospendere a zero ore effettuata dall’azienda tenendo conto delle possibilità di reimpiego diretto ed indiretto, e sulla base di valutazioni dell’efficienza sul lavoro dimostrata dal dipendente durante il periodo trascorso in azienda; c) iniziative comuni tese a sollecitare l’approvazione parlamentare della cosiddetta «Legge tessile», il cui iter era da tempo bloccato, al fine di garantire posti di lavoro alternativi nelle aree in crisi; d) riconoscimento di 15.000 lire di integrazione mensile (per non più di cinque mesi) per i lavoratori sospesi, cui si aggiungevano 3.000 lire per ogni familiare a carico; e) riesame, entro quattro mesi dalla ristrutturazione, dei carichi di lavoro, degli organici e delle formule remunerative. La CGIL, autoesclusasi dall’accordo, ne denunciò polemicamente i punti deboli. E soprattutto il fatto che esso autorizzava l’azienda ad espellere, senza alcuna garanzia di reimpiego, centinaia di lavoratori e le consentiva altresì di scegliere a suo arbitrio chi sospendere. Perciò la CGIL rilanciava la richiesta di una contrattazione preventiva dei carichi, nonché la costituzione di idonei «comitati tecnici paritetici» che verificassero l’andamento della ristrutturazione. Alla dura posizione del sindacato socialcomunista, CISL e UIL risposero l’una sostenendo che l’accordo era solo una tappa intermedia e che sarebbero state necessarie «dure battaglie» per contrattare al meglio su organici, carichi e cottimo, mentre la seconda tagliava corto ritenendo le sospensioni (ed il conseguente ridimensionamento occupazionale) ormai inevitabili, e che l’unica via d’uscita era l’attivazione di posti di lavoro alternativi, in ciò affidandosi alla (di là da venire) «Legge tessile». Forte dell’«accordo separato», l’azienda procedette spedita nel suo programma, avviando già nell’ultimo scorcio di novembre le sospensioni a zero ore, che riguardarono numerosi reparti. Agli inizi del 1968, preoccupate – più che dal pressing della CGIL – dalle proteste dei propri iscritti, sempre più insoddisfatti dell’andamento della ristrutturazione, e in particolare del nuovo sistema di cottimo che vedeva la maggior parte degli operai interessati dalla sperimentazione non raggiungere gli standard fissati, CISL e UIL divennero più caute nel difendere il nuovo sistema. Esso stava causando una perdita media di 6/8 mila lire al mese secondo alcune fonti, da 7 a 15 mila secondo altre, il che equivaleva ad 233 GIORGIO ROVERATO una diminuzione di circa il 10% del salario di fatto. I due sindacati tentarono perciò di accelerare la verifica dell’accordo con l’azienda, puntando più che su una rivisitazione del piano di ristrutturazione (ciò che invece chiedeva la minoritaria CGIL) su un aumento dei cottimi. Nel marzo-aprile 1968, dopo vari incontri con la Direzione mirati a rivedere cottimi e carichi di lavoro, la CISL e la UIL furono costrette loro malgrado a prendere atto dell’«atteggiamento sostanzialmente negativo» della Marzotto. Premute dalla base, esse proclamarono lo stato di agitazione, alla fine allineandosi sulle posizioni della concorrente CGIL, e denunciarono in un volantino i sempre meno numerosi operai occupati, la maggior saturazione, il minor cottimo. Il tema del cottimo era del resto la vera questione dirompente. Il cottimo a Valdagno era più di un semplice incentivo economico, era il modo con cui l’operaio si inseriva nel sistema produttivo e vi veniva coinvolto. Esso aveva una rilevanza psicologica forse superiore allo stesso salario, in quanto diversificava l’operaio pur all’interno delle stesse mansioni ed evitava un eccessivo appiattimento retributivo. Si riallacciò a questo punto l’iniziativa unitaria delle forze sindacali, con una serie di scioperi che caratterizzarono tutto il mese di marzo e buona parte di quello di aprile, coinvolgendo dal 26 marzo anche le Confezioni del Maglio. Si trattò di circa 130 ore a marzo e di 15 ore ad aprile (fino al giorno 10), variamente suddivise tra reparti e turni o coinvolgenti tutto lo stabilimento di Valdagno o quello del Maglio. Pur non quantificabile in termini di ore complessivamente non lavorate, si trattò di una agitazione tra le più rilevanti avvenute in Italia tra il 1968 ed il 1969, tanto da meritare – l’agitazione di Valdagno – il ricordato appellativo di «anticipazione dell’Autunno caldo» del 1969. Il 19 aprile, la data che rimase poi a simbolo della lunga vertenza, era invece indetto uno sciopero generale di 24 ore di entrambi gli stabilimenti, e quindi di tutti i reparti. I gravi incidenti accaduti in quel giorno, culminati con l’abbattimento della statua del fondatore della dinastia imprenditoriale6, ed il trauma che ne derivò all’intera comunità, con i suoi strascichi di fermi, arresti, alterazione della convivenza civile, polemiche postume, non fermarono – come è noto – la lotta sindacale. Uno sciopero totale di 24 ore ripropose infatti il 24 aprile la piattaforma rivendicativa basata su tre punti fondamentali: a) no al taglio dei cottimi; b) mantenimento dei livelli occupazionali; c) contrattazione dei carichi di lavoro. A ciò si aggiunse la pressante richiesta del rilascio degli arrestati e quindi di interventi – anche dell’azienda – atti ad ottenerlo, al fine di ristabilire un clima che consentisse la ripresa delle trattative tra le parti. Prima di riannodare le fila del confronto, il 30 aprile il consigliere delegato, 6 Da cui l’emblematico titolo del già citato volume La statua nella polvere, invero ripreso da una pregevole tesi di laurea (W. Cocco, Una statua nella polvere. Industria capitalistica e classe operaia alla Marzotto di Valdagno dalle origini al 1969, discussa all’Università Ca’ Foscari di Venezia nell’a.a. 19992000. Di essa si veda una efficace sintesi alla pagina www.centrostudiluccini.it/pubblicazioni/quaderni/ quad4.htm). 234 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS Giannino Marzotto, ritenne utile fare il punto – in un incontro con dirigenti, funzionari ed impiegati – del motivo del contendere, sottolineando gli aspetti di ordine tecnico-economico che avevano spinto all’introduzione del nuovo sistema organizzativo. Essi possono riassumersi nei punti che qui richiamo: 1) l’occupazione nel comparto tessile era passata tra il 1953 e il 1967 da 471.763 a 286.000 unità, con una diminuzione del 39,3%. Nello stesso periodo la Marzotto era scesa da 12.400 unità a 10.185 (-17,9%): a Valdagno il decremento era stato però solo dell’8% (da 7.936 a 7.300 addetti), mentre a Schio la Lanerossi nel quinquennio 1962-67 aveva eliminato ben 3.000 posti di lavoro. A fronte della riduzione complessiva, gli impiegati si erano tuttavia incrementati di 489 unità (+77%, a fronte di un -44% negli altri stabilimenti). La crisi settoriale non poteva che essere risolta nell’ambito della «Legge tessile», in discussione dal 1963, con l’obiettivo di realizzare strumenti per creare occupazione alternativa al tessile attraverso una specifica politica di incentivazione a nuove attività produttive; 2) l’orario di lavoro e l’impegno psicofisico in azienda era di gran lunga inferiore agli standard dei mercati internazionali sui quali la Marzotto competeva; 3) l’incidenza del cottimo sulla remunerazione totale annua non superava il 10-12%; 4) il nuovo sistema organizzativo rispondeva al principio di retribuire il lavoratore in funzione dell’effettivo impegno e della sua abilità ad utilizzare il macchinario, e questo indipendentemente dalla quantità assoluta. Solo che i carichi di lavoro alla Marzotto erano inferiori a quelli di altre aziende, e ciò aveva reso indifferibile la necessità di riequilibro, pena l’esclusione dal mercato. Certamente esisteva la necessità di una messa a punto del sistema, che tuttavia i sindacati non avevano accettato rifiutando specifici «premi di rodaggio»; 5) la dimensione reale del problema sul tappeto non riguardava a Valdagno che 1.500 persone sulle 7.000 complessivamente occupate. Di queste, 600 avevano superato il periodo di prova e presentavano ora rendimenti medi superiori al precedente cottimo, pur avendo perso il premio di rodaggio rifiutato dai sindacati a compensazione della caduta di cottimo nella prima fase. Altre 600, pur operanti col nuovo sistema, prendevano i cottimi precedenti. Solo 300 persone risultavano perciò – ad opinione dell’azienda – effettivamente penalizzate, anche in questo caso a causa del rifiuto dei sindacati del «premio di rodaggio». Tale versione aziendale veniva ovviamente contrastata dai sindacati, per i quali era la quasi totalità dei lavoratori «in sperimentazione» ad essere danneggiata, mentre si paventavano gli esiti di una futura estensione del sistema a quanti ancora lavoravano coi vecchi cottimi. Il dialogo appariva impossibile, tanto più che il 9 maggio lo sciopero totale dei reparti venne con successo replicato. La durezza dello scontro convinse l’azienda (o meglio, la proprietà) ad offrire subito un tavolo di trattativa. Ormai era evidente che nella vicenda erano entrate in gioco questioni che travalicavano il solo fattore economico, ad esempio la non esplicita lamentela della caduta del rapporto storico tra famiglia imprenditoriale e maestranze. Si evidenziava una lesione sociale tra un ceto operaio tradizionalmente moderato e proprietà, 235 GIORGIO ROVERATO che imponeva soluzioni tali da riannodare la convivenza civile, salvaguardandola prima ancora delle questioni di principio. Va a mio avviso letta in questo senso la rapidità con cui, tra il 10 ed il 12 maggio la questione arrivò a soluzione, anche se poi essa si rivelò effimera. La ripresa del dialogo si scontrò infatti, dopo un acceso confronto sulla parte economica e normativa per la quale si giunse ad una convergenza tra l’azienda e le tre parti sindacali, su una dichiarazione preliminare che la CGIL si rifiutò di sottoscrivere, ritenendo che essa snaturasse – in quanto ideologica – il significato delle conquiste che pure l’accordo teoricamente comportava, dato che essa tendeva ad attribuire gli eventi valdagnesi (anche l’abbattimento della statua di G. Marzotto Sr) alla presenza di elementi esterni – ad esempio i «violenti» studenti della Facoltà di sociologia di Trento, peraltro effettivamente convenuti a Valdagno in quella giornata – pur di negare che la «rivolta» valdagnese fosse effettivamente opera dei lavoratori della Marzotto. Fu un estremo tentativo per salvaguardare l’idea dell’indissolubilità del rapporto tra famiglia imprenditoriale e lavoratori7: estremo, e inefficace, stante la posta in gioco. Tralascio i vari passaggi temporali e «tecnici», che videro CGIL e CISL-UIL più volte riavvicinarsi e dividersi: fino all’inizio del 1969, quando – dopo un considerevole monte ore di sciopero, e l’erosione di consenso che il sindacato cattolico stava avendo – la CISL decise di riprendere l’iniziativa e di smarcarsi da una certa immagine di sindacato «padronale» che, causa il suo moderatismo e non poche incertezze tattiche, si stava radicando nella sua stessa base operaia, e anche all’interno dei ristretti strati sindacalizzati delle categorie impiegatizie. E «rilanciò» proponendo l’occupazione dei due stabilimenti valdagnesi, con non poche perplessità da parte di una CGIL improvvisamente timorosa del possibile esito; certo, in ciò giocava lo «spiazzamento» che la CISL innescava, ma anche il timore che l’occupazione si risolvesse in un boomerang. Non fu così: anzi i quasi due mesi di occupazione si rivelarono un successo, imponendo di fatto il mutamento del comando aziendale. Il ricambio generazionale che ne seguì portò a trattative serrate, che alla fine gettò le basi di nuove relazioni industriali che poggiavano sulla piena legittimazione del sindacato a trattare e concordare l’inevitabile processo di ristrutturazione, dando vita a un processo che, come ricordato, di fatto anticipò i postulati dello Statuto dei lavoratori, creando non pochi problemi al rapporto tra azienda e vertici confindustriali. Da lì iniziò una storia nuova per la Marzotto, fino a farla uscire dalla crisi e a proiettarla nel ruolo di maggior produttore europeo nei manufatti lanieri, e poi in quelli linie7 Questa dichiarazione preliminare affermava: «Le parti concordemente deplorano i noti episodi di facinorosa violenza compiuti la sera del 19 aprile da gruppi estranei all’ambiente del lavoro; episodi vandalici che sono giunti a colpire valori morali che fanno parte del patrimonio storico della città di Valdagno e che hanno offuscato la dura ma responsabile lotta sindacale rendendo più difficile e ritardando le positive soluzioni dei problemi; si danno reciprocamente atto del ristabilito clima di normalità di rapporti e di conseguente collaborazione, premessa indispensabile per un progresso economico e sociale». 236 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS ri: una sorta di dimostrazione da manuale che il conflitto, se ben condotto da una parte e dall’altra, può essere il volano della crescita e dei salti tecnologici ad essa connessi. La storia della Marzotto subì poi altre (e non positive) evoluzioni, che non è qui il caso di ripercorrere8. Rimane il fatto di quel successo sindacale che, a partire dal marzo 1969, rese l’azienda altra e diversa, e – appunto – un modello «alto» nel rapporto con le sue maestranze. Le lotte operaie a Pordenone Va subito detto che se la Marzotto di Valdagno riuscì per molto tempo a giocare un ruolo politico, che non derivava tanto dalla carica parlamentare di Vittorio Emanuele Marzotto, quanto dal peso di maggiore industriale laniero del padre Gaetano M. Jr9, ben diversamente si sviluppò il rapporto tra l’industria degli elettrodomestici pordenonese e il territorio. La Zanussi, o meglio i Zanussi, non intrattennero rapporti politici privilegiati con il partito che deteneva la maggioranza della loro città, la Democrazia Cristiana, ma piuttosto privilegiarono un qualche legame con la rete delle parrocchie, che fungevano – qui, come altrove in Veneto – da canale privilegiato per le assunzioni. Il rapporto con la politica era molto mediato, anche se è evidente che l’ampliamento degli insediamenti produttivi implicò nel tempo una 8 Qualcosa conviene comunque dire. La Marzotto, a partire dall’accordo che pose fine alla occupazione, perseguì una ristrutturazione e un «dimagrimento» occupazionale concordati con le tre sigle sindacali, quest’ultimo essenzialmente giocato sui prepensionamenti e sul blocco del turnover. Cui seguì un innovativo accordo-quadro (1984), con il quale l’azienda si impegnava a concorrere – fino a un miliardo annuo – agli oneri finanziari (ovvero in conto interessi) per quegli imprenditori che creassero nuova occupazione nell’area. Accordo rivoluzionario, e perciò duramente criticato da Confindustria. L’azienda, grazie a queste nuove relazioni industriali, crebbe a livello europeo mediante linee esterne, acquisendo dapprima il Linificio e Canapificio Nazionale, poi la Lanerossi, quindi la Hugo Boss, e infine la Valentino, divenendo così un grande gruppo del tessile e del fashion. Nel 2004 Pietro Marzotto, l’artefice del successo, e azionista di maggioranza relativa, uscì dall’azienda non riuscendo a contrastare le scelte dell’azionariato familiare, che impose la scissione tra fashion e tessile nonché lo spostamento della sede da Valdagno a Milano. Pochi anni dopo il fashion, raggruppato nella società Valentino Group, fu «scalato» da un fondo di private equity inglese, compromettendo così la storia quasi bicentenaria dell’antica impresa valdagnese, oggi quasi totalmente delocalizzata nella sua parte tessile nella Repubblica Ceca e in Lituania. 9 Il peso «politico» di Gaetano M. Jr, in un paese nel quale il rapporto economia/politica è sempre stato anomalo, o meglio ambiguo, si irrobustì attraverso due diversificazioni che egli intraprese sul finire degli anni ’40 del Novecento, ma che giunsero a maturazione all’inizio degli anni ’60. La prima fu la trasformazione agro-industriale della tenuta che egli aveva acquistato a metà degli anni ’30 a Portogruaro, nel veneziano, con l’avvio delle attuali IZ - Industrie Zignago, oggi per lo più focalizzate sul business del vetro cavo, all’origine di mero servizio alle trasformazioni agroalimentari. La seconda, più rilevante come impatto nazionale, e quindi come peso «pubblico», fu la creazione dal nulla di una catena di alberghi turistici – la prima nel paese – nei piccoli centri d’arte del Meridione (50 in dieci anni), che precedette nel suo avvio la costruzione della rete dei Motel AGIP dell’ENI di Mattei. La catena di Marzotto, che poi assunse la denominazione di Compagnia dei Jolly Hotels, rappresentò un deciso contributo allo sviluppo del turismo di massa in Italia. 237 GIORGIO ROVERATO qualche necessità di mediazione. Ma l’azienda non era ancora in grado di condizionare gli equilibri della politica cittadina, anche perché ancora priva di un peso nazionale. Con la chiesa locale fu diverso: la fame di lavoro era tanta nel Veneto della ricostruzione, e il rapporto con la chiesa si sviluppò presto in modo biunivoco: l’azienda traeva da tale rapporto una manodopera ideologicamente affidabile, come dire «senza grilli» per la testa, e le parrocchie riuscivano a risolvere più di qualche caso difficile. Per di più – contrariamente alla riva sinistra del Piave di Conegliano dove esisteva una articolata, ancorché non maggioritaria, presenza del sindacalismo di sinistra – a Pordenone il sindacato era sostanzialmente rappresentato dalla collaborativa CISL, tesa più a tutelare i posti di lavoro esistenti, o in formazione, che a creare problemi sulla rigida applicazione dei contratti nazionali. Il che apparteneva alla logica di un tessuto occupazionale ancora tutto in divenire. Fu proprio la crescita della Zanussi, in un contesto di piccole e piccolissime imprese, a determinare anche nella CISL locale un cambio di mentalità, anche per la graduale, e poi rapidissima, presa di coscienza dei suoi quadri più giovani che divennero gli interpreti di un rivendicazionismo a vasto spettro. All’inizio esso riguardò la disciplina nei reparti ed i ritmi di lavoro, giudicati sempre più oppressivi, poi temi apparentemente più banali come la mensa o le pause, fino ad aggredire il regime salariale e la rivendicazione di una concreta ed equa ripartizione degli incrementi di produttività che la (ormai) grande fabbrica andava realizzando. Ma c’era altro: ad esempio la crescente insofferenza al paternalismo aziendale avviato da Lino Zanussi, che – seppure soft – veniva vissuto dai quadri aziendali cislini, ma anche da fasce crescenti di lavoratori, come invasivo. Certo, i benefit aziendali servivano a integrare il reddito, ma perché non metterli in bustapaga? Vecchia questione, presente un po’ in tutte le aziende italiane use a tali pratiche. Ma che alla Zanussi aveva una contraddizione in più: Lino Zanussi, pur indulgendovi, si era più volte pronunciato contro il paternalismo, da lui inteso non come vero e proprio welfare aziendale, e quindi utile prima di tutto all’azienda per depotenziare il conflitto tra capitale e lavoro coinvolgendo i lavoratori nelle sorti dell’impresa, bensì come semplice atto di liberalità da parte del datore di lavoro. Con la controindicazione, a suo parere, che il lavoratore (ed il sindacato) aveva la tendenza a considerare invece il ripetersi nel tempo di tali elargizioni come irreversibile, e per certi versi contrattualizzabile. Hanno sostenuto due suoi biografi che Lino Zanussi non condivideva «la politica di quelle aziende che al personale forniscono praticamente tutto, abitazioni comprese, garantendo una sorta di ‘assistenza dalla culla alla tomba’ che, nelle intenzioni, dovrebbe rafforzare il senso di appartenenza»10. E ciò perché tale politica rischiava, sempre ad opinione del leader dell’azienda pordenonese, di venire percepita «come una sorta di beneficenza (come in effetti accadrà anni dopo alla Marzotto dove, nei momenti caldi della fine degli anni ’60, tutto sarà 10 P. Martinuzzi, N. Nanni, Lino Zanussi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1993, p. 43. 238 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS dimenticato e si arriverà ad abbattere la statua del conte Gaetano collocata nel cortile dello stabilimento di Valdagno11). In altre parole, non si deve attribuire valore salariale a prestazioni ‘accessorie’, la busta paga deve contenere un compenso rapportato al lavoro, e non a situazioni di disagio sociale, di cui in nessun caso l’azienda deve essere ritenuta responsabile. Potrebbe essere definita la ‘politica della pertinenza’ o della ‘centralità del lavoro’: non fare o dare nulla che non sia in rapporto diretto con lo scopo che l’impresa si prefigge o con la prestazione lavorativa. Dal punto di vista strettamente monetario, questa scelta controcorrente ha anche il vantaggio di consentire una grande agilità nella gestione delle retribuzioni: perché il non dover sostenere oneri impropri mette a disposizione risorse per eventuali interventi sulla busta paga»12. Pensiero apparentemente lucido, ma che contrastava con l’agire concreto dell’imprenditore pordenonese, in realtà in ciò portato da una lunga tradizione paternalista di quella vasta area in tempi più recenti definita come Nord-est. Il tema della contrattualizzazione dei benefit, che pure la CISL cercò di affrontare, trovando una risposta negativa dell’azienda, fu in realtà poca cosa rispetto agli altri punti di scontro sindacale, il primo dei quali riguardò la ripartizione tra le parti degli incrementi di produttività. Da questo punto di vista, il sindacato cislino manifestava una visione più moderna di quella aziendale: la sua cultura «produttivistica» si fondava, peraltro, sulle esperienze maturate nel ruolo che la CISL nazionale ebbe nella contrattazione all’interno di un gruppo pubblico, l’ENI di Enrico Mattei, che proprio sulla gestione «retributiva» della produttività aveva costruito un elemento fondamentale del consenso tra i lavoratori, ad esempio destrutturando e riducendo quasi a zero le capacità di interlocuzione del sindacato di sinistra, la CGIL. Esiste, a mio parere, una rappresentazione emblematica del ’69 alla Zanussi che sta tutta in questa lunga citazione: Lino Zanussi ebbe due successori: Mazza13 e il sindacato. L’influenza del primo, avvolta all’inizio da un prudente riserbo, non fu subito molto avvertita. Il secondo invece si impose presto, e in modo rumoroso, all’attenzione dei dipendenti. L’onda tu11 Non è dato di capire, nel libro di Martinuzzi e Nanni, se l’attribuzione del titolo comitale a quel Gaetano Marzotto Sr (defunto nel 1910) la cui statua fu abbattuta nella rivolta operaia del 19 aprile 1968 sia degli autori o di Zanussi. Conviene tuttavia rilevare che di tale dignità non fu egli ad essere insignito bensì, nel 1939, il nipote Gaetano Jr; e – cosa più importante – che la statua abbattuta non si trovava all’interno dello stabilimento, ma apparteneva (appartiene) ad un complesso monumentale (dove la statua, peraltro, fu subito ricollocata) situato in una piazza della cittadina valdagnese. Monumento quindi non «privato», ma «pubblico». Ciò rileva nella misura in cui il sito della statua testimoniava della celebrazione corale di un protagonista della vita della comunità, ed il cui abbattimento assunse proprio per questo un simbolismo che andava ben al di là del semplice conflitto lavoratori-azienda. Una annotazione: nell’errore di retrodatare il titolo comitale dei Marzotto al capostipite della dinastia imprenditoriale valdagnese è incorso, in tempi più recenti, anche Nicola Tranfaglia nella sua prefazione al già citato La statua nella polvere. 1968. Le lotte alla Marzotto. 12 P. Martinuzzi, N. Nanni, Lino Zanussi, cit., p. 43. 13 Lamberto Mazza, il già citato amministratore delegato cui la famiglia Zanussi affidò la gestione dell’impresa dopo la morte di Lino. 239 GIORGIO ROVERATO multuosa della ribellione sessantottesca era arrivata alla Zanussi. Davanti ai cancelli del grande stabilimento di Porcia gli altoparlanti dettavano a gettito continuo istruzioni per gli scioperi, intercalate da parole grosse all’indirizzo dei padroni vecchi e nuovi. «Sfruttatori, tiranni, sanguisughe» erano le più frequenti. Si alzava la ventata libertaria per tanti anni soffocata nelle fabbriche. Ma vi era dell’altro; la rabbia che vi si sprigionava aveva i suoi conti da saldare anche con la classe politica. Il centro-sinistra di Moro che aveva tenuto il fiato in sospeso e alimentata la speranza nel Paese si era chiuso con un fallimento; le riforme promesse erano rimaste sulla carta; quindici anni di programmazione, dal piano Vanoni ai progetti sociali di G. Ruffolo, pubblicizzati come la formula scientifica che avrebbe risolto i mali atavici dell’Italia, si erano rivelati un espediente miserevole per anestetizzare l’impazienza operaia. I lavoratori dipendenti, messi di fronte al quotidiano spettacolo dei figli della borghesia che mettevano a soqquadro le università, che esigevano la promozione senza studiare; di fronte a industriali e professionisti che evadevano scandalosamente le tasse, mentre loro le pagavano fino all’ultima lira; fatti sempre più edotti che sul loro lavoro viveva un esercito crescente di ladri e speculatori, cominciarono a porsi alcuni interrogativi. E la collera montò lentamente. Nelle sedi dei partiti, dei sindacati, negli incontri ad ogni livello, si frequentavano giovani che erano decisi a cambiare, a fare tabula rasa del passato. Era viva in tutti l’esigenza di rivoluzionare anzitutto i rapporti di lavoro nelle fabbriche, e passare in seguito a occuparsi delle istituzioni. Erano concordi nella volontà di demolire la plastica facciale della democrazia e di viverla invece concretamente, con i suoi vantaggi ed i suoi rischi. Non avevano un programma. Erano uniti da una vaga dichiarazione d’intenti, fitta di sottintesi. Tra loro vi erano militanti delle più svariate provenienze: cattolici, socialisti, laici, apprendisti terroristi14. Del supposto «apprendistato» terroristico, in realtà a Pordenone c’era ben poco, a meno che non si voglia intendere per tale l’emergere anche nella grande fabbrica «fordista» di Porcia dell’estremismo extraparlamentare, tra cui quello – minimale – del Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista) con il corollario della stentata diffusione ai cancelli del suo giornale, Nuova Unità. E tuttavia la citazione, tratta dal libro scritto da un ex quadro commerciale della Zanussi, ben rende il clima dell’epoca, e l’incertezza nella quale l’azienda si trovava a vivere una difficile fase di transizione, complicata dall’esplodere della contestazione operaia. Certo, l’estremismo covava in fabbrica, ma più che dalle discussioni sui massimi sistemi della inevitabile rivoluzione comunista esso traeva piuttosto alimento dai ritmi massacranti del lavoro e dal clima insalubre, anzi nocivo15, di non pochi reparti di lavorazione. E andava a toccare il sindacato, che vide una crescita vistosa dei propri tesserati: tutti giovani, e tutti portatori di una decisa visione antagonista che contrastava clamorosamente con il tradizionale pragmatismo 14 R. Diemoz, Dal decollo industriale alla crisi dello sviluppo. Il caso della Zanussi, il Mulino, Bologna 1984, pp. 59-60. 15 A questo proposito è interessante, anche se di qualche anno successivo, il Rapporto elaborato nell’aprile 1971 dall’Istituto di Medicina del lavoro dell’Università di Padova in collaborazione con la FIOM-FIM-UILM. Di tale gruppo di ricerca faceva parte anche Franco Carnevale: cfr. il suo contributo, con Pietro Causarano, in questo stesso volume sullo sviluppo della medicina del lavoro durante l’Autunno caldo. 240 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS cislino. E proprio la CISL, più che la minoritaria CGIL, fu «vittima» di quello che (erroneamente) venne poi considerato un preciso disegno di infiltrazione da parte di gruppi «eversivi». Si trattò invece di una voglia di protagonismo operaio che trovò nel sindacato maggioritario occasione e stimolo per esprimersi: con caratteristiche nuove, combattive, a volte estremistiche, che trovavano alimento anche dalla rapida crescita per vie esterne che la Zanussi andava conoscendo, in una sorta di amalgama/conflitto non solo di distinte culture produttive, ma anche di diverse culture operaie, come ben presto si resero conto i dirigenti sindacali della CGIL delle aziende via via acquisite dalla Zanussi, primi fra tutti quelli della forlivese Becchi e della fiorentina STICE. A Pordenone il tema centrale delle lotte che esplosero nel corso del 1969 non era tanto il salario, quanto il controllo operaio sulla produzione, o meglio sulla sua organizzazione, e sulle condizioni di lavoro. Ciò era in parte la conseguenza dell’irruzione di una nuova generazione di lavoratori, restii a introiettare le logiche del lavoro fordista, ma anche il portato dell’antiautoritarismo che era esploso in varie parti d’Europa: si pensi al maggio francese, e alla stessa rivolta studentesca che aveva percorso anche il nostro paese. Si è spesso dibattuto del rapporto tra il ’68 studentesco e il ’69 operaio: se è certo che nelle fabbriche la «solidarietà» degli studenti, e più ancora la loro presunzione di rappresentare – con una presenza «militante» di fronte alle fabbriche in lotta – l’avanguardia rivoluzionaria del proletariato, non furono spesso gradite, è altrettanto vero che l’antiautoritarismo espresso dal movimento studentesco fu in qualche modo introiettato dalla contestazione operaia. Che proprio alla destrutturazione del potere aziendale mirava, non dissimilmente da quanto gli studenti facevano nei confronti del potere baronale nelle università… Con esiti tuttavia diversi: il potere baronale si ristrutturò più velocemente di quanto non riuscirono a fare i gruppi di comando delle imprese, stante la rigidità dell’organizzazione fordista della produzione. Per cui – nelle more di una riorganizzazione del processo lavorativo attraverso il decentramento di taluni processi produttivi, e la flessibilizzazione di quelli che rimanevano all’interno del ciclo – essi dovettero cedere alle richieste operaie. Fu così anche alla Zanussi. Del resto, la «fame» di manodopera delle grandi fabbriche non consentiva alternative, a meno di non subire duri fermi delle linee di produzione. Per il movimento dei lavoratori si trattò di un’occasione irripetibile: aveva scoperto la debolezza del «fordismo» nostrano, troppo rigido perché le aziende potessero reggere a lungo lo scontro. Questo valeva per il più grande complesso industriale del paese, la FIAT, ma anche per la periferica Zanussi… La vittoria operaia a Pordenone galvanizzò i dipendenti del gruppo, facendo breccia anche su parte del ceto impiegatizio, solitamente ostile alle rivendicazioni operaie16. A Porcia, e negli altri stabilimenti, l’Autunno caldo non si esau16 Una ostilità peraltro presente in tutte le grandi imprese, e – per rimanere a Nord-est – anche alla Marzotto. Anche se a Pordenone, come precedentemente a Valdagno, gli operai («estremisti» o 241 GIORGIO ROVERATO rì, come altrove, nei primi mesi del 1970, ma continuò per almeno un altro anno, causando gravissime difficoltà al management. Al termine dell’ultimo grande sciopero della primavera del 1971, così Lamberto Mazza sintetizzò la situazione aziendale in un articolo dall’emblematico titolo Vertenza chiusa e problemi aperti: Durata della vertenza: cinque mesi. Tre milioni e mezzo di ore di lavoro perdute. Due miliardi e mezzo di perdite di salari. Dimensioni pericolose della vertenza, tali da mettere a rischio la stabilità dell’azienda. La necessità inderogabile dei NO detti alla piattaforma sindacale per difendere il difficile equilibrio economico aziendale e salvare i livelli di occupazione. L’adesione aziendale alla mediazione ministeriale, all’esclusivo fine di evitare danni più gravi all’azienda ed al personale. L’aumento del costo del lavoro complessivo di oltre il 75 per cento negli ultimi tre anni, e di un altro 6 per cento per gli ulteriori aumenti conseguenti alla vertenza. Diminuzione della produttività del lavoro. Consumo anticipato del reddito futuro dell’azienda. Poco più di un anno dopo (luglio 1972), Mazza dichiarava in una intervista al settimanale L’Espresso raccolta da G. Turani: Non siamo riusciti a riorganizzare la società […] perché non ce ne hanno lasciato la possibilità. Ci hanno duramente contestato, e questo è il risultato. Le agitazioni sindacali che hanno colpito la Zanussi ci sono costate direttamente almeno dieci miliardi di lire. Ma ci sono poi tutti i costi indiretti (la mancata realizzazione dei programmi aziendali) che nessuno di noi è in grado di calcolare. Non sappiamo esprimerli in una cifra. È logico però pensare che si tratti di una cifra con molti, moltissimi zeri. In queste condizioni nessuno è in grado di mandare avanti un’azienda, nemmeno la Zanussi. A chi si occupa di storia d’impresa, questa affermazione appare singolare: la Zanussi all’epoca aveva ripreso a crescere, nonostante le perdite del 1971 (diciotto miliardi di lire, di cui otto in capo al marchio Zoppas), e – soprattutto – a rivedere l’organizzazione fordista in direzione di una accentuata flessibilità. Come dire che, ormai, il potere contrattuale era tornato nella sua quasi totalità meno che fossero) tentarono di coinvolgere nelle lotte il ceto impiegatizio. Brutto termine, quello di «ceto»: ma tale si sentiva, anche per ragioni retributive e normative, la categoria degli impiegati. A Pordenone, tuttavia, il tentativo operaio di «sfondare» tra gli impiegati passò attraverso una intensa propaganda, svolta soprattutto attraverso la diffusione di volantini. Conviene ricordarne almeno uno, distribuito a fine 1969: «IMPIEGATO DELLA REX! guardati bene! quando tu non scioperi gli operai ti chiamano servo del padrone, ma l’azienda ti considera e ti tratta come un servo, proprio perché tu non scioperi. IMPIEGATO DELLA REX! Tu oggi sei sfruttato dall’azienda, anche se il colletto bianco ti dà l’illusione di essere diverso dall’operaio. È la tattica dei padroni quella di vestirti bene, di darti una scrivania, magari anche un telefono, perché tu non ti accorga di nulla. MA GUARDATI BENE! Cosa sei in azienda? Cosa conti nelle scelte? Che libertà possiedi? Sei sfruttato anche peggio dell’operaio, perché lui lo opprimono nel fisico e nella salute, ma te ti condizionano nella mente, nel cervello, nella forza morale. Credi che bastino le diecimila lire in più dell’operaio (e ci sono impiegati e impiegate che prendono meno di diversi operai) per farti accettare la condizione di schiavo?». 242 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS in mano alla direzione aziendale: che certo non procedette ad epurazioni punitive, ma che senza dubbio aveva riacquisito il pieno potere dell’azienda. Il che sta a dire che l’Autunno caldo, a Nord-est come a Nord-ovest, aveva esaurito la sua grande stagione. Con tuttavia alcune non effimere conquiste: lo Statuto dei lavoratori e la contrattazione sui processi di ristrutturazione e, almeno teoricamente, sulla salubrità degli ambienti di lavoro. La Zoppas di Conegliano Come ho già anticipato, la Zoppas acquisì all’inizio un più veloce assetto industriale rispetto alla concorrente Zanussi. E quindi essa dovette affrontare più presto una articolata conflittualità sindacale, anche se dapprima limitata a questioni marginali, e tuttavia di un qualche rilievo per i suoi dipendenti, e che ancora una volta atteneva più alle condizioni di lavoro che a questioni salariali. Le quali si posero invece nella seconda metà degli anni ’60. Il che è comprensibile: l’approdo del Veneto al cosiddetto «miracolo economico», e quindi alle tensioni salariali connesse a una virtuale piena occupazione, si manifestò più o meno sette-otto anni dopo, vale a dire nella seconda metà degli anni ’6017. Pur avendo studiato abbastanza bene l’industrializzazione veneta, e per riflesso i suoi conflitti di classe, non mi ero mai direttamente confrontato con le vicende della Zoppas. E così, accanto alla consultazione della poca bibliografia esistente, ho pensato di fare qualche interrogazione sui motori di ricerca, digitando «Zoppas+lotte+1969». Mi ha incuriosito una risposta del listato che mi è apparso su Google: in esso, riferito a un sito della diocesi di Vittorio Veneto, compariva una sorta di «rassegna stampa» d’epoche passate. All’interno di una notizia intitolata «E Albino Luciani diede la pensione ai sacrestani», fatto d’inizio 1969 quando Luciani era titolare di quella diocesi comprendente anche Conegliano, appariva la menzione – riportata a ricordo di una pregressa sensibilità sociale del vescovo, il futuro (e sfortunato) papa Giovanni Paolo I – del suo personale versamento di lire 40.000 al fondo di solidarietà degli operai della Zoppas durante il cosiddetto «sciopero dei 40 giorni» del 1960-61, che costituì l’avvio locale delle lotte per un nuovo e più equo contratto dei lavoratori metalmeccanici. Cui seguì, qualche anno dopo, il suo rifiuto a celebrare la tradizionale messa natalizia presso il locale Calzaturificio De Nardi, in evidente condivisione delle rivendicazioni dei suoi 250 operai in lotta contro un duro (e apparentemente incongruo) taglio dell’occupazione. Non ho simpatia né per i papi, né per l’alto clero: e tuttavia quella piccola cronaca mi ha indotto a una qualche riflessione; vale a dire che la condizione 17 Per un profilo della storia industriale del Veneto, rimando ad una mia monografia che, ahimè, rimane ancora l’unico studio di sintesi sull’argomento: L’industria nel Veneto. Storia economica di un «caso» regionale, Esedra editrice, Padova 1996. 243 GIORGIO ROVERATO operaia (e non solo per l’egemonia cislina in quelle fabbriche, come fu cislino l’accordo sui sacrestani!) stava determinando in alcuni ambienti ecclesiastici non pochi elementi di preoccupazione… Orbene, questa sollecitudine del capo di una piccola diocesi, che anticipava l’epoca delle Pastorali del lavoro, si ripeté nel tempo. Un po’ per il quadro di riferimento (la transizione di un vecchio mondo agricolo al processo di industrializzazione), un po’ per la devozione cristiana della famiglia imprenditoriale: da cui il ruolo di mediazione impropria che la gerarchia ecclesiastica si sentiva in qualche modo obbligata ad esercitare. Ma cos’era la Zoppas dello «sciopero dei 40 giorni»? Era un’azienda che già presentava una buona verticalizzazione della produzione grazie a forti investimenti tecnologici, che si irrobustirono proprio nella prima metà negli anni ’60 con l’ingresso – in ciò replicando la scelta della Zanussi – nell’autoproduzione di buona parte della componentistica. Ciò favorì una crescita dimensionale, nella quale la modernità della ricerca di maggiori economie di scala si coniugò, tuttavia, con l’arretratezza – per le produzioni meno qualificate – del ricorso, in talune fasi anche spinto, al «terzismo» presso piccoli laboratori, cui poi seguì una fase di assorbimento di alcuni di essi nel perseguimento di un latente processo di concentrazione produttiva. Le lavorazioni «terziste» furono in parte, anche se non solo, una risposta alle tensioni salariali innescate con i ricordati quaranta giorni di sciopero che, tra la fine del 1960 e il gennaio del ’61, bloccarono le linee di produzione coneglianesi. Quella vertenza si concluse con una vittoria dei lavoratori, che innescò le premesse di successive rivendicazioni. Essi, infatti, ottennero – oltre a non trascurabili miglioramenti normativi – l’accettazione aziendale di un graduale superamento del «cottimo»18, che andava a rivoluzionare il sistema retributivo esistente grazie ad una progressiva valorizzazione della parte fissa del salario. L’aumento salariale nella parte fissa significò, per la struttura stessa della busta-paga, lo svilupparsi di successive lotte tutte incentrate sul tema delle qualifiche, o meglio delle categorie nei quali i lavoratori erano inquadrati. Il risultato fu, in tempi abbastanza rapidi, una revisione verso l’alto di tutte le qualifiche esistenti nello stabilimento più vecchio, la Zoppas Centrale. L’una e l’altra cosa determinò una rapida crescita del salario di fatto, rendendolo mediamente superiore a quanto in essere nell’intero settore meccanico della provincia19. Come dire che la conflittualità di linea, in questo caso guidata anche da CGIL e UIL pur rimanendo la CISL sindacato maggioritario, andò a creare una sorta di «aristocrazia» operaia tendenzialmente tesa, oltre che al miglioramento produttivo, al controllo della produzione. La risposta della Zoppas non tardò: aprendo il nuovo impianto a (relativamente) alta automazione nel comune di Susegana, a pochi chilometri da Conegliano, vi trasferì dallo stabilimento principale solo pochi lavoratori, preferendo 18 19 CGIL-CISL-UIL, Accordi aziendali Zoppas, Treviso 1961-62. CGIL-CISL-UIL, Tabelle salariali Zoppas e meccanica generale in provincia di Treviso, Treviso 1969. 244 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS invece concentrarvi una manodopera molto giovane e di primo impiego, assunta ai livelli più bassi di qualifica. Il tentativo di contenere per tale via il costo del lavoro, all’inizio conseguito, naufragò velocemente: ben presto a Susegana il tasso di sindacalizzazione dei lavoratori – già alto a Conegliano – raggiunse livelli anche più elevati, con il conseguente replicarsi dello scontro, sempre mirato al superamento dell’inquadramento e perciò all’incremento della retribuzione. Del resto ciò era inevitabile, stante la contiguità dei due impianti, e troppo simile essendo per origine sociale e territoriale (quello di una campagna in via di rapida – e disastrosa! – urbanizzazione) il nuovo proletariato di fabbrica rispetto a quello antico. Qualche dato può servire a meglio rappresentare la situazione con la quale l’azienda e la sua classe operaia arrivarono all’appuntamento dell’Autunno caldo. Alla fine del 1968, contrariamente a quasi tutte le altre fabbriche metalmeccaniche del paese, il salario alla Zoppas era un salario «fisso» – e in questo senso le lotte che lì si svilupparono risultano più interessanti di quanto avvenne alla Zanussi – cui si aggiungeva una parte variabile costituita dal premio di produzione computato su base annua. Le lotte pre-1969 (quelle che si svolsero nel corso del 1968) determinarono un aumento considerevole del premio di produzione, nonché accordi relativi alle pause, ai rimpiazzi, alla mensa. All’inizio dell’anno che qui interessa, gli occupati risultavano poco più di 3.200, con un sensibile incremento delle figure impiegatizie, ma, per contrappunto, con un numero infimo di operai inquadrati nella categoria più bassa (l’1%) mentre si erano di molto incrementate le categorie mediane, naturale esito delle lotte dei lavoratori di linea20. Le agitazioni dell’autunno seguono lo stesso schema dell’antiautoritarismo sindacale già visto alla Zanussi, e del tentativo di assumere il controllo del ciclo produttivo e dei processi di ristrutturazione. Le rivendicazioni salariali passano in secondo piano, non tanto per il (relativo) buon livello raggiunto nel tempo, quanto perché lo scontro con la parte datoriale è ormai tutto politico, perseguito anche – qui come alla Zanussi – con il tentativo di coinvolgere le categorie impiegatizie, nel coneglianese peraltro meno incidenti nel numero complessivo delle maestranze di quanto non fosse nel colosso pordenonese. Un altro tema che ricomparve netto nelle lotte fu quello dell’ambiente di lavoro e della salute21. Anche su questo, come su nuove concessioni normative e salariali, la direzione aziendale dovette alla fine nuovamente cedere: se non altro per scongiurare il permanere di un virtuale, ancorché a singhiozzo, blocco delle linee di produzione. Anche per i danni economici che, comunque, il rinnovarsi dell’antagonismo operaio provocò all’azienda, la famiglia imprenditoriale decise nel 1971 di usci20 CGIL-CISL-UIL, Accordi aziendali Zoppas, Treviso 1969. Per alcuni aspetti delle condizioni del lavoro nel complesso coneglianese, si veda G. Mastrangelo, Indagine sulle condizioni ambientali in un’industria meccanica del trevigiano, Istituto di medicina del lavoro dell’Università di Padova, Padova 1969. 21 245 GIORGIO ROVERATO re di scena22 preferendo l’offerta della Zanussi a quella, come accennato, precedentemente avanzata dalla Westinghouse. Da quel momento la conflittualità sindacale dell’azienda andò di pari passo con quella del gruppo di Pordenone, e tuttavia con (variabili) segni di maggiore intensità. Una (brevissima) conclusione Le storie delle tre aziende di cui ho tracciato le vicende di conflitto operaio non sono, ovviamente, tra loro simili. Non solo per i diversi settori di appartenenza (il tessile-laniero per la Marzotto; quello meccanico per le altre due), ma anche per le risposte che esse diedero alle (diverse) crisi che le colpirono. La Marzotto si trovò ad affrontare, con impianti invecchiati, una fase di declino che cercò di contrastare non con il rinnovo tecnologico, troppo oneroso, bensì con una impraticabile «saturazione» dei macchinari, ovvero con una intensificazione oltre misura dell’utilizzo (o, se vogliamo, dello sfruttamento) della manodopera. La reazione dei lavoratori (e del sindacato) fu all’inizio lenta e contraddittoria, ma alla fine durissima. La famiglia imprenditoriale tentennò non poco, dando poi vita a un ricambio generazionale che salvò l’impresa, rilanciandola sul mercato internazionale come una multinazionale «tascabile» del tessile-abbigliamento e del fashion. Le due imprese degli elettrodomestici erano invece in una fase di piena espansione: ma si trovarono a vivere drammaticamente la crisi del modello fordista di produzione. Fortissimo nei volumi di produzione che la catena di montaggio consente, il fordismo ha bisogno di coniugare economie di scala e basso costo del lavoro, ovviamente possibile, quest’ultimo, in una situazione di alta offerta di forza-lavoro, e quindi nell’esistere (permanere) di un vasto «esercito di riserva» di marxiana memoria. Il modello entra in crisi (e a Pordenone e a Conegliano entrò drammaticamente in crisi, ma anche, e in dimensioni ben più rilevanti, ciò successe alla FIAT) man mano che si arriva a una situazione di virtuale piena occupazione. Ed è quando i lavoratori si accorgono che sono in grado, proprio per l’esaurimento dell’«esercito di riserva», di bloccare – senza conseguenze per il proprio individuale posto di lavoro – il ciclo produttivo, imponendo le proprie condizioni ad una azienda che non è più in grado di contrattarle o contrastarle. O accetta, o chiude! Così successe nell’Autunno caldo della meccanica del Nord-est. 22 Vale la pena di ricordare che gli Zoppas non scomparvero dalla scena imprenditoriale, ma presto si cimentarono in nuove sfide, da un lato nello sviluppo di tecnologie le più svariate (e nella produzione dei macchinari per la loro applicazione), e dall’altro entrando nel profittevolissimo (in Italia) settore delle acque minerali con il marchio San Benedetto. Per il quale non solo hanno prodotto le linee di imbottigliamento, ma anche i macchinari (venduti anche ai marchi concorrenti) per la produzione delle bottiglie in polietilene tereftalico (PET) con le quali l’acqua viene commercializzata. 246 IL NORD-EST DELLE GRANDI IMPRESE FAMILIARI: MARZOTTO, ZANUSSI E ZOPPAS Certo, quella dei lavoratori fu una vittoria temporanea. Come alla FIAT, anche la Zanussi e la Zoppas, ormai inglobata nella prima, intrapresero – rispetto al rigido modello fordista, debole se non debolissimo in condizioni di piena occupazione – rapide (e per loro vincenti) politiche di decentramento e flessibilizzazione dei cicli di produzione. Con ciò ponendo fine a quel potere contrattuale enorme che le masse operaie avevano conquistato. Una conquista effimera, quindi, quella dei lavoratori? Forse, ma fu una conquista che – comunque, ed anche alla Marzotto – rappresentò un traguardo sì extra-economico, ma cruciale, dato che significò (grazie anche allo Statuto dei lavoratori) il raggiungimento della dignità della manodopera nel posto di lavoro, e la possibilità – attraverso il sindacato – di contrattare i processi di ristrutturazione dei cicli produttivi. Da allora in poi nulla fu più come prima, nel bene più che nel male, e nonostante le ripetute crisi congiunturali che hanno attraversato, e che ancora attraversano, l’economia del nostro paese. 247 L’Italsider da Taranto a Genova di Antonio Lettieri * Questa iniziativa sul 1969 mi pare molto interessante e pregiata. È un convegno molto ricco, al quale partecipo senza una visione storica o storiografica, ma semplicemente perché ci sono stato un po’ dentro, ho delle memorie e un po’ di racconti. Posso dire che sono una persona informata dei fatti. Ho sentito negli interventi – e condivido – che non ci si può limitare al 1969, perché era un crinale dopo il quale cominciano nuovi spazi, nuovi tempi, fino a formare un paesaggio complesso. Il 1969 non si chiude con l’Autunno caldo o al 31 dicembre: è un’apertura e molto importante. Questa è una grande novità; il 1968-69 non è una stagione di grandi movimenti soltanto in Italia, ma in Europa e negli Stati Uniti. Basta ricordare la Francia (le lotte italiane non sono le uniche e le più straordinarie), basta pensare alle lotte della Renault a Parigi, per rendersi conto che non sono molto diverse dalle lotte della FIAT a Torino. Però una grande differenza c’è – e sarebbe bello studiarla – perché negli altri paesi il movimento comincia dagli studenti, il «maggio» francese, poi c’è Berlino e c’è l’America; prosegue con le lotte operaie, ma a un certo punto si chiude: sono stagioni che si chiudono. In Italia non si chiude; l’Autunno caldo ha sia un retroterra straordinario che una grande proiezione: tutti gli anni ’70 sono in qualche modo dominati da un aspetto egemonico, intellettuale e culturale, delle organizzazioni del movimento, con il cambiamento straordinario del sindacato e con l’emergere di una nuova classe dirigente operaia che investe le città. È di questo che bisogna parlare perché è una delle ragioni principali di questa continuità. Allora, mi avete proposto l’Italsider (probabilmente perché qualcuno si è ricordato che lì dentro ci ho passato un po’ di anni e direi anche molto bene), però l’Italsider ha a che fare con gli anni immediatamente successivi, a cominciare dal ’70. Esisteva e aveva molta importanza anche durante l’Autunno caldo, quando ho cominciato a frequentare i grandi centri siderurgici. Devo confessare che come sindacalista ho avuto molte fortune e forse la più straordinaria fu che il 1° settem* Viene qui pubblicato – opportunamente rivisto, ma mantenendone il tono colloquiale – l’intervento orale presentato come testimonianza al convegno. 249 ANTONIO LETTIERI bre del 1969 entrai nella FIOM. Non ero del tutto nuovo e vergine perché venivo da molti anni di lavoro nella confederazione nell’Ufficio studi economici della CGIL. Era un lavoro normale, non particolarmente intelligente ma sicuramente fortunato, perché da lì il 1° settembre del 1969 entro in FIOM e mi trovo ad avere a che fare con quelle cose che avete letto nel racconto di Stefano Musso sulla FIAT in questo volume: uno non fa in tempo a ragionare sulla piattaforma contrattuale, che la FIAT fa un grande blitz, come avete sentito. Nella divisione dei compiti a me viene assegnato il negoziato dell’Intersind (facente parte delle Partecipazioni statali), che fu una buona fortuna, non perché fossero più importanti della FIAT o della Zanussi, ma perché tutto sommato Torino era il centro di tutto, diciamo la verità; quindi io ero un po’ esterno e così imparai a conoscere questi mondi – che a dire la verità, mi erano del tutto sconosciuti – perché bisognava andare di giorno in giorno nei grandi centri siderurgici a raccontare come stava il negoziato e bisognava raccontarlo con chiarezza perché le lotte erano dure e complicate e andavano gestite dai lavoratori a livello degli stabilimenti. Adesso tutto sembra semplice, allora non era affatto così, era molto più complicato. Ricordo che imparai a conoscere i centri siderurgici d’Italia: Bagnoli lo conoscevo già per altre ragioni; Piombino (in provincia di Livorno) di cui nessuno si ricorda ma era interessante; poi l’Oscar Sinigaglia, questo splendido centro siderurgico che, appunto, risaliva all’ingegner Sinigaglia, e così via. Non era sicuro che la lotta riuscisse, e non erano nemmeno le fabbriche più importanti e più forti. Quando andavo a Taranto mi trovavo di fronte a un mostro – l’Italsider – il più grande centro siderurgico d’Europa, 14-15 mila dipendenti, che però era fuori dalla città, non tanto topograficamente ma perché era fin troppo grande rispetto a Taranto. Poi quando si andava a Genova – l’Oscar Sinigaglia sta proprio lì – anche in quel caso si scopriva che non era il punto centrale del conflitto perché c’erano altre storie. Il punto decisivo era un altro, cioè una storia di grande militanza, di grandi lotte, lì trovavi i compagni che avevano fatto la Resistenza – che erano i compagni della commissione interna –, lì avevi l’idea di cosa succedeva, di come funzionava la «piattaforma», cominciando via via ad incrociare le cose, si cominciava a tendere l’orecchio: cosa succede all’Oscar Sinigaglia? E quando le cose andavano bene eravamo tutti contenti: così io imparai a conoscere cose che non conoscevo affatto, nonostante che allora non si potesse entrare nelle fabbriche e nei centri siderurgici, ma insomma, diciamo che nel mio lavoro di esplorazione del mondo sindacale e del lavoro fino ad allora avevo imparato molte cose: sulle catene di montaggio, sull’auto, su Ford, ma ero proprio scarso di informazioni e di cultura su quello che era la siderurgia, che però era importante. Così imparai a conoscere questi grandi centri. Bagnoli la conoscevo già per altre ragioni, perché ho trascorso tutta la mia giovinezza e adolescenza a Napoli. Bagnoli era un posto stupendo, è uno dei posti più belli al mondo; adesso il centro siderurgico non esiste più, adesso è ground zero, ma era un posto bellissimo. Ci andavo da studente con la sotterranea – come la chiamavamo – che arrivava a Bagnoli centro e poi bisognava fare un’ora di cammino a fianco del250 L’ITALSIDER DA TARANTO A GENOVA l’Italsider, sotto il sole, e dall’Italsider veniva l’odore acre del fumo. Le acque lì erano bellissime, anche se probabilmente erano assolutamente inquinate: ma insomma, quando uno era giovane quarant’anni fa non pensava all’inquinamento delle acque. Tutto questo per dirvi come imparai a conoscere la siderurgia e i centri siderurgici. Ma la cosa si sarebbe fermata lì se il 1969 fosse solo l’Autunno caldo, e non fosse invece una grande proiezione, perché all’inizio del 1970 ero passato da una generica attribuzione d’incarico di occuparmi delle Partecipazioni statali, ad essere responsabile della siderurgia; tra l’altro mi accorgevo di non avere le physique du role, come si dice, perché ero magrissimo e non riuscivo a bere o a mangiare sufficientemente mentre tra i compagni si facevano dei pranzi pantagruelici. La novità, la cosa importante, era che bisognava rinnovare la contrattazione aziendale dell’Italsider, cercando e definendo una piattaforma. In parte c’era già qualcosa di obbligato: voi sapete che un punto decisivo e discriminante della piattaforma del 1969 erano gli aumenti salariali uguali per tutti. Adesso non se ne discute più, c’è la sensazione che sia stata un po’ una vergogna del sindacato; ma allora, quando bisognava elaborare la «piattaforma», questo era uno dei punti centrali, ed erano 6.000 lire al mese uguali per tutti. E poi bisognava rinegoziare anche il premio: in verità era una «piattaforma» abbastanza semplice e in qualche modo ripetitiva. A dire il vero, io avevo delle idee personali piuttosto astratte; ero convinto – eppure ero stato a favore degli aumenti salariali e ci si batté a lungo, chi pro e chi contro – che l’aumento salariale uguale per tutti fosse qualcosa di particolare, di contingente o di legato a una congiuntura. Si trattava di ridare dignità di lavoro alla grande massa dei lavoratori deprofessionalizzati comuni, che tra l’altro erano quelli che sopportarono maggiormente il peso della lotta e rinnovarono il sindacato. Quindi l’aumento salariale uguale per tutti andava bene, ma non poteva essere una strategia. Quando tu dai 65 lire di aumento orario a tutti, in quel momento va bene; però stai facendo qualcosa che non puoi reiterare nel tempo, perché le 65 lire orarie sono il 20% circa per l’operaio comune, ma diventano l’8%, il 10% per l’operaio qualificato e per il tecnico; in quel momento andava bene, era una cosa straordinaria che andava fatta, ma non potevi continuarla. Siccome dovevi intervenire sul salario, in realtà non potevi sfuggire al fatto che il salario è legato alla qualifica, all’inquadramento. Fin qui c’era un accordo generale; però io mi ero fatto un’altra idea, che il salario non potesse essere legato alla qualifica professionale e basta, anche se era una cosa talmente ovvia e diffusa che sembrava difficile contrastarla; avevo elaborato un’idea, avevo anche scritto un articolo molto fortunato – forse il più fortunato di quanti ne abbia scritti – nel senso che era capitato nelle mani di André Gorz che in Francia lo tradusse in un suo libro che fu poi a sua volta tradotto in italiano1. Qual era l’idea? L’idea 1 A. Lettieri, Note su qualifiche, scuola e orari di lavoro, in Problemi del socialismo, n. 49, 1970, pp. 802-816; A. Gorz (sous la direction de), Critique de la division du travail, Seuil, Paris 1973 [n.d.c.]. 251 ANTONIO LETTIERI era che bisognava uscire da una concezione della qualifica e della professionalità tradizionale, perché è chiaro che prima c’è l’operaio comune, poi l’operaio qualificato o specializzato, poi dopo cominciano gli impiegati, i tecnici; era perfetto per tutto quello che era successo nei decenni precedenti, ma dopo l’aggressione fordista, la trasformazione e la metamorfosi delle fabbriche, dove era finita la professionalità? C’era una deprofessionalizzazione universale e generale, e se si continua a legare il salario alla professionalità espressa nella qualifica, si sta semplicemente rafforzando e consolidando una storia di divisione fra la grande massa dei lavoratori che aumenta continuamente e il piccolo stato elitario di operai specializzati e qualificati, divisi ovviamente da impiegati e tecnici. Questa era la cosa che io avevo in mente. Arrivo all’Italsider e scopro che non c’è soltanto l’inquadramento classico, ma c’è un altro inquadramento, che era stato inventato in America ed era stato trasportato in Italia, in primo luogo nei centri siderurgici: è la job evaluation, cioè il massimo di sofisticazione del taylorismo. È una formidabile scoperta in cui la professionalità quasi svanisce, si analizza il posto di lavoro e nel posto di lavoro si analizzano i vari criteri con i quali un lavoratore interviene sulla produzione, e questi criteri sono molti. Uno di questi è la professionalità, ma ha uno scarsissimo valore; le cose che più contano diventano la pesantezza del lavoro, la responsabilità nel lavoro, la condizione ambientale. Ciascuno di questi criteri viene articolato in punteggi, si sommano i punti e alla fine un lavoratore si trova con un’attribuzione di punti, dentro una grande divisione che non è più una divisione di tipo tradizionale, operaio comune, seconda categoria e così via, ma al contrario è una divisione «scientifica». In realtà si hanno 24 caselle per metterci gli operai, 24 classi diciamo, poi ce ne sono 10 per le posizioni intermedie, categorie specialiste, e 16 per i tecnici e gli impiegati. Quindi avete la massa dei lavoratori non più divisa arbitrariamente per categorie, ma divisa scientificamente: il lavoratore non sapeva perché, però uno aveva un punteggio che lo portava alla classe 4, uno alla classe 5, e così via, poi finalmente arrivava un «super operaio» e andava nella classe 24. Il centro siderurgico in Italia, il più avanzato d’Europa, era fatto dai giapponesi, che in realtà erano in grado – al di là di tutte le tecnologie di quell’epoca – di sapere quando l’altoforno era al punto giusto. Ma dalla parte dei lavoratori avevi una divisione in 50 classi, e nessun lavoratore sapeva perché stava da una parte o dall’altra; così ci venne l’idea, «rivoluzionaria», di abolire l’inquadramento, di abolire la job evaluation, la job analysis. Ovviamente non era facile, si trattava di abolire 50 classi: decidemmo che ne bastavano 6 di «aree professionali», non solo per gli operai, ma per operai, impiegati, tecnici, classe intermedia, fino agli ingegneri. Per far passare una cosa di questo genere non solo ci vuole qualche elaborazione teorica ben fatta, cosa che in qualche modo si può fare, ma bisognava convincere i lavoratori (erano 70.000 i lavoratori siderurgici, una parte nel settore pubblico e un’altra nel settore privato), bisognava andare nei centri siderurgici, nelle fabbriche, spiega252 L’ITALSIDER DA TARANTO A GENOVA re che il tutto poteva essere compattato, che quelli che stavano nella parte alta della classificazione potevano perdere questo privilegio, questa caratteristica, e soprattutto bisognava dirlo agli impiegati, ai tecnici e agli ingegneri, che non era facilissimo. Infatti bloccammo la «piattaforma»: invece di essere presentata al tempo giusto ci si lavorò ancora sei mesi. Poi si presentò, ci furono quattro mesi di conflitto e poi si uscì con l’inquadramento unico. Ecco, adesso tutti sanno che c’è l’inquadramento unico, ma non lo so quanti sanno che l’inquadramento unico è dovuto alle lotte dei siderurgici. Poi l’inquadramento unico fu generalizzato ai metalmeccanici con il contratto nazionale nel 1973 e poi a tutta l’industria, fino persino al pubblico impiego. Ma in questa forma l’inquadramento esiste soltanto in Italia completato con la mensilizzazione e con forme di parificazione di trattamenti tra diverse categorie. Bene, ho voluto raccontare questi episodi sia perché sono interessanti di per sé, ma anche per dire che queste fabbriche e questi centri siderurgici, attraverso questo tipo di lotte, conquistarono una posizione di egemonia rispetto alla produzione, al settore e alle grandi controparti (l’Italsider, la Finsider). Del resto quelle lotte e quei risultati furono studiati da una grande quantità di studiosi di queste cose (italiani e stranieri) negli anni successivi per informarsi di cosa era successo. In più la lotta uscì dalla fabbrica e investì le città. Così accadde all’Italsider di Bagnoli – che era stata costruita sessant’anni prima e che era separata da Napoli – con quelle lotte, che furono molto dure e che durarono molti mesi e coinvolsero pezzi di classe politica, compresi i partiti della sinistra, cioè il Partito comunista. Mi ricordo che Petrilli, che era presidente dell’IRI, scrisse a Colombo, che era presidente del Consiglio, dicendo che o si interveniva politicamente a bloccare quel tipo di lotta o la siderurgia rischiava di finire sulla strada, affermando che avevano perduto 100 milioni, che a quell’epoca probabilmente erano tanti. Ricordo che andarono da Luciano Lama per dire che nel 1962 aveva firmato la job evaluation e accusarlo poi di rovesciare tutto. Questi interventi dimostrano che fu una lotta complicata. Però l’Oscar Sinigaglia, che era una fabbrica nuova dove arrivavano giovani, soprattutto quelli raccomandati dal parroco, e iscritti alla CISL (forse non tutti i militanti erano interessati alla CISL, ma – insomma – vi erano iscritti), non era un grande centro di militanza, ma lo divenne in quell’anno 1970 e gli scioperi divennero importanti per Genova. Così successe a Napoli, gli operai diventarono dirigenti sindacali, ma erano dirigenti sindacali che si occupavano anche della città. Andare a parlare con loro significava parlare della condizione della città, a volte piaceva discutere con loro perché discutevi i piani urbanistici della città. Non era nemmeno del tutto casuale che diventarono dirigenti operai, ma qualche mese dopo diventarono anche dirigenti della FIOM nazionale, entrarono nel comitato centrale; questo è un ingresso nella classe dirigente napoletana importante e non senza effetti politici, perché fra il 1973 e il 1975 tutte le grandi città italiane erano di sinistra, in particolare del Partito comunista. Bassolino veniva con me all’Italsider: devo dire che allora era più a sinistra di oggi. Io ero considerato di sinistra, 253 ANTONIO LETTIERI Bassolino lo era ancora di più. Però quello era un momento straordinario in cui l’operaio diventava delegato della fabbrica, aveva grande rispetto nella fabbrica, entrava nel sindacato nazionale, diventava membro del comitato centrale della FIOM o della FLM: questa è la straordinaria novità di quell’epoca. Stamattina sono state citate le «150 ore»: credo che sarebbe utile approfondire ulteriormente, perché il sindacato ha inventato le «150 ore» in base a una ragione profonda, cioè ad una critica della divisione del lavoro manuale e intellettuale (che è poi la ragione per cui l’inquadramento unico mette insieme l’operaio con il tecnico, l’impiegato e l’ingegnere senza una classificazione) e non furono soltanto le «150 ore» per la licenza media, che è una cosa importantissima, perché decine di migliaia di giovani lavoratori che venivano a Sesto San Giovanni o a Torino arrivarono da soli, dalle campagne, sì e no con la scuola elementare ed entrarono nella scuola. Ricordo che contrattavo con il ministro Malfatti – che era il ministro della Pubblica istruzione – se dovessero o meno entrare nelle scuole pubbliche: loro impazzivano all’idea che in una scuola pubblica potessero entrare gli operai, perché la scuola media è fatta per i ragazzini e non per gente di trenta o quarant’anni. Ottenemmo questa cosa, che non fu l’unica, perché nei due o tre anni successivi tutte le università italiane inventarono i seminari di 30, 25, 40 ore in cui si discuteva… E le «150 ore», badate bene, non erano per la formazione professionale, erano un altro capitolo del contratto. Quando si negoziò – mi ricordo sempre questo aneddoto, il negoziato più difficile era in questo caso quello con la Confindustria – Mortillaro ci chiedeva che cosa volessimo con queste «150 ore». Se dovevano fare la formazione, scriviamo formazione, ma noi si diceva che non si poteva scrivere «formazione». Invece era un modo di lasciare campo aperto alla cultura operaia, ché il saper fare non è qualcosa di definitivo perché si acquisisce nel tempo, all’interno e fuori dalla fabbrica. Mortillaro ebbe il talento – suo malgrado – di poter chiudere definitivamente la partita, dicendo: «Ma, non è proprio possibile, voi vorreste che gli operai imparassero a suonare il clavicembalo», e io dissi: «Guardi, lei è stato meraviglioso» (io il negoziato lo accettavo solo se c’erano 100 delegati dietro), «io non ci sarei mai arrivato a spiegare fino in fondo, in modo chiaro, che questo non ha a che fare con la formazione professionale, ha a che fare con la storia della tecnologia, con la storia del sindacato, però potrebbe capitare che uno vuole imparare la musica classica dell’inizio del Settecento, come si può fare a dire no?». Chiudo con un’osservazione sui tempi che viviamo: ma questa roba è tutta morta? Gigi Falossi, in qualità di presidente di ABB, ha mandato in giro uno schema, cosa è vivo e cosa è morto del 1969, crocianamente. Forse è quasi tutto morto, nel senso che nessuno studia ancora queste cose, anche se sono le più grandi lotte della seconda parte del secolo, il crinale che ha cambiato la storia. In realtà pare tutto morto, ma io credo che ci sia qualcosa di vivo e di molto importante. Innanzi tutto, l’unità dei lavoratori, abbiamo detto Taranto, Bagnoli, Napoli, Torino, passando per Genova, Sesto San Giovanni: l’unità dei la254 L’ITALSIDER DA TARANTO A GENOVA voratori. Oggi bisogna ancora discutere sulle zone salariali, cose volgari e triviali. Ma ci sono altre cose, tipo: contrattazione aziendale o contrattazione nazionale? La mia idea? Io per principio non seguo le cose sindacali nel loro divenire politico – io nel sindacato ci sono stato abbastanza, ora sono fuori e mi preoccupo di altro. Però sento questa grande discussione – contrattazione aziendale o contrattazione nazionale? – anche se non viene mai detta così, viene detta in un altro modo: se fai la contrattazione aziendale e prendi 50 euro, io ti faccio pagare fiscalmente il 10%; se sei così sciocco da prendere 50, 100 euro nella contrattazione nazionale, ti freghi, perché a quel punto paghi il 29, il 33, o il 39%, cioè, come dire, basta con la contrattazione nazionale, si fa la contrattazione aziendale, che è una grande cosa, e i salari sono collegati alla produttività, una cosa razionale, meravigliosa e idiota al tempo stesso, la produttività non dipende dal lavoratore in quanto tale. Taylor ha spiegato, il secolo scorso, e Ford di seguito, che dipende dall’organizzazione del lavoro, che, come noto, è nelle mani dell’impresa e non del lavoratore (salvo discutere l’organizzazione del lavoro e riuscire a condizionarla). Si dicono delle cose senza senso che forse, studiando il 1969, permetterebbero di non dare spazio a tecnocrati – badate, non parlo di quelli di destra, quelli vanno benissimo, ma tecnocrati della sinistra, giuristi della sinistra – a gente che viene messa in lista e che viene eletta, che va in Parlamento e che dice di essere di sinistra. Quello che mi disturba è il fatto che alcuni dicono che sono della CGIL; siccome anche io sono stato della CGIL, questo è fastidioso. Qualcuno dice contrattazione aziendale sì, contrattazione nazionale no (non si dice proprio «no», però la si discute). Ma il 1969 nasce dalla contrattazione aziendale degli anni prima, ed è la confluenza sintetica di tutto quello che la classe operaia aveva immaginato, discusso, teorizzato, non un anno prima, almeno dieci anni prima: i Quaderni rossi, Vittorio Foa, ecc. Contrattazione aziendale e contrattazione nazionale: la contrattazione nazionale rilancia la contrattazione aziendale; inquadramento unico è aziendale, ma ridiventa, se necessario, contrattazione nazionale. Come si fa a dire ai giovani sindacalisti di adesso che bisogna andare a studiare un po’ di storia, che il 1969 non è finito esattamente il 31 dicembre di quell’anno e che non è all’origine del terrorismo? Voi che siete professori, inventate dei seminari su queste cose, oppure sulla flessibilità e la rigidità. Prima c’era la rigidità, e qualche volta sento dire «negozio della rigidità», «negozio del fordismo» di qualcosa che ha distrutto l’identità delle persone, adesso se ne fa l’elogio? Adesso non si può fare niente perché c’è la flessibilità? Ma cosa stiamo dicendo? Il fordismo non ha mica favorito la lotta operaia; quelli che se ne occupano sanno che il fordismo appartiene per eccellenza alle fabbriche di Henry Ford, per definizione. Insomma: il sindacato non è mai entrato nelle fabbriche di Henry Ford fino al 1943-44, quando c’era la guerra e c’erano 120.000 lavoratori che dovevano lavorare. Voglio dire che non è perché c’è il fordismo che ci sono le lotte operaie. E poi, siccome c’è la flessibilità non si possono fare le lotte operaie! La flessibi255 ANTONIO LETTIERI lità c’è per ovvie ragioni, ma va controllata e contrattata, e questa cosa si può fare partendo dal fatto che si è in una situazione nuova. Naturalmente questo significa occuparsi del mercato del lavoro in modo diverso e significa anche non seguire i consigli che ci vengono dai tecnocrati di sinistra, che mi sembrano molto peggiori di quelli di destra. 256 PARTE QUARTA Spigolature Sì, anche il diritto di suonare il clavicembalo! * di Catia Sonetti ** Dal nostro presente Il 1969 è lontano. È forse più lontano il 1969 del 1909, quando Giuseppe Di Vittorio costruiva il Circolo giovanile socialista a Cerignola di cui poi diventerà leader indiscusso1. È più lontano perché quel giovane pugliese sostanzialmente analfabeta riusciva ad organizzare migliaia di braccianti sfruttati in modo bestiale e ad indicare loro un percorso insieme di lotta e di riscatto. Oggi invece, 8 gennaio 2010, è scoppiata la rivolta a Rosarno, in Calabria2. Migliaia di braccianti stagionali che lavorano nella raccolta degli agrumi, la stampa parla di 5.000 uomini, per lo più neri, per lo più clandestini, si sono ribellati all’ennesimo sopruso subito e si sono ribellati con lo stile della jacquerie più classica: violento, debordante, disperato. E chi è intervenuto sui fatti? Il segretario pontificio all’immigrazione, il ministro degli Interni Maroni, il segretario dei DS Bersani, il ministro dell’Istruzione (non più pubblica), il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini. Non abbiamo sentito una voce sindacale, non abbiamo visto su quelle strade di Rosarno una bandiera, né della CGIL né della * Il titolo è la citazione di una battuta di Bruno Trentin nel DVD, Con la furia di un ragazzo. Un ritratto di Bruno Trentin, La storia di un uomo simbolo dell’Autunno caldo, regia di F. Giraldi, Ediesse l’Unità, Roma 2009. ** Questo che presento è semplicemente un ampliamento del mio intervento al convegno organizzato da ABB e dalla CGIL. Non ha pertanto la pretesa di avere una sistematicità organica. Si tratta di riflessioni maturate nel corso del tempo e in parte suggerite dal convegno stesso che qui propongo all’attenzione dei lettori. 1 A. Carioti, Di Vittorio, il Mulino, Bologna 2004, p. 38. 2 L’8 gennaio 2009 a Rosarno, in seguito al ferimento di un lavoratore nero addetto alla raccolta delle arance negli agrumeti, è scoppiata una rivolta che ha visto coinvolti tutti questi braccianti, per lo più lavoratori al nero, provenienti sia dall’Africa che da altre parti del mondo, in gran parte clandestini. Con bastoni, sassi, spranghe, hanno distrutto decine di auto e di vetrine della cittadina calabrese. La rivolta è stata alimentata da anni di abbandono, di sopraffazioni, di ingiustizie palesi subite senza poter reagire, alloggiati in alcune ex cisterne in condizioni disumane nel territorio di un comune sciolto per infiltrazioni mafiose. Tutta la stampa, non solo quella nazionale, vi ha dato grande risalto. 259 CATIA SONETTI CISL né della UIL. Quei lavoratori, la cui condizione si può paragonare solo a quella degli schiavi, erano ancora più schiavi in quella loro cornice perché maledettamente soli. Ecco perché il 1969 è così lontano, più lontano del 1909! Come scriveva Bruno Ugolini a proposto delle immagini rinviateci dagli schermi televisivi: «Non c’erano (non le ho viste nelle assordanti sequenze televisive) associazioni sindacali e politiche in grado di svolgere un ruolo autorevole, magari per guidare una lotta giusta e civile e non un disperato e controproducente assalto»3. La grande fabbrica metalmeccanica nella ricostruzione del discorso storiografico e problemi connessi Ora, poiché è dal presente che scaturiscono le domande sul passato, io credo che sia necessario partire da questo presente così disperato per porre le domande che ci sono utili al 1969, o detto in altro modo, all’Autunno caldo. E se vado in questa direzione mi trovo abbastanza a disagio con le proposte di lettura emerse. Non è neppure il problema di trovarsi in accordo o disaccordo con quella o quell’altra tesi, con quella scelta interpretativa o con la sua opposta. Il problema per me è un altro e deriva soprattutto dal senso di fastidio di trovarmi quasi sempre davanti ad un déjà-vu. L’accento viene posto quasi unanimemente sulla grande fabbrica, e soprattutto sulla grande fabbrica metalmeccanica e poi sulla FIAT, in particolare Mirafiori. In una specie di cannocchiale costretto a guardare sempre lo stesso oggetto! Eppure, se le lotte operaie fossero state solo torinesi, il nostro parlarne avrebbe tutt’altro tono. E quando poi ci si allontana dal gruppo FIAT, nel migliore dei casi si arriva a Milano. Eppure studi, anche approfonditi, su altre realtà non sono mancati. Ma non si capisce se per pigrizia, o per una coazione a ripetere, si torna sempre lì. Eppure tutti noi che ci occupiamo o ci siamo occupati di storia del movimento operaio, siamo tutti consapevoli che l’Italia, l’Italia operaia, quella che lottava e costruiva quegli anni straordinari di lotte e di rivendicazioni realizzate, si concretizzava a Torino ma anche a Piombino, a Gioia Tauro ma anche a Marghera, nelle fabbriche di Santa Croce in Toscana, così come nei calzaturifici delle Marche, alla Max Mara dell’Emilia così come alla Lebole di Arezzo e in cento altre località, in parte uguali ma in parte anche profondamente diverse dal grande agglomerato piemontese. Parole d’ordine e comportamenti, conflittualità spontanea e mediazione sindacale non si realizzavano nello stesso modo, anche se erano simili e spesso quasi sovrapponibili. Le differenze però c’erano e come. Ed erano legate alla grandezza della fabbrica, al suo inserimento dentro un tessuto più o meno urbanizzato, alle tradizioni politiche ed associative di quel tessuto. Occorrerebbe 3 B. Ugolini, Rosarno non basta una giornata d’indignazione, in L’Unità, 11 gennaio 2009, p. 13. 260 SÌ, ANCHE IL DIRITTO DI SUONARE IL CLAVICEMBALO! cioè fare storia comparata dentro l’Autunno caldo e gli anni immediatamente successivi. Il quadro si farebbe più complicato ma avremmo più possibilità di comprensione e meno scivoloni nella retorica, anche quella della narrazione. Può sembrare vero che il movimento operaio fu fermato a Piazza Fontana, come sostiene Gabriele Polo4, ma credo che se questa affermazione produce un effetto a leggerla, sia una lettura del tutto sbagliata. Anzi, fu proprio la grande forza del movimento operaio che rimase certamente scioccato e sconvolto dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura, ma non frantumato, né tanto meno distrutto, evaporato, a salvarci da una deriva golpista. Come racconta Giuseppe De Lutiis5, fu proprio quella Piazza del Duomo a Milano traboccante di lavoratori, a far retrocedere Rumor dalla voglia di compiacere l’«ala nera» dello Stato. Con quella piazza, il colpo di Stato non si poteva fare6. La grande mobilitazione operaia dell’Autunno caldo si chiuderà invece su se stessa per ragioni molteplici e concentriche e gli spari del terrorismo non giocheranno un ruolo secondario ma agiranno insieme alla crisi petrolifera e alla successiva politica di austerity, alla incapacità per quella grande mobilitazione di trovare o darsi referenti parlamentari e politici capaci di interpretarla e tradurla, e non da ultimo per ragioni tutte interne a quel movimento stesso. L’idea poi della forza della conflittualità operaia legata ai «nuovi operai», immigrati, incazzati, venuti dal Sud, portatori di una primitività e di una aggressività immediatamente in conflitto con il vecchio quadro sindacale, credo che sarebbe l’ora di archiviarla perché è solo una specie di leggenda metropolitana la cui persistenza nel panorama attuale è il segno dell’incapacità di scavare. Ma è un’idea che continua a trovare ascolto. Lo stesso Polo, nel brano già citato, la riproponeva7. Non basta però ripetere un messaggio perché il contenuto di quel messaggio diventi vero. Questi anni di berlusconismo inducono molti a crederlo, ma è solo uno slittamento dei piani nella comunicazione. Perché questa è un’idea sbagliata? Anche qui la risposta è articolata. Al primo posto metterei la considerazione, in parte fuori testo, che leggere gli immigrati meridionali come «primitivi» e per questo innovativi sia anche una posizione intrinsecamente razzista. Gli immigrati provenivano da terre dove altissima era stata la conflittualità negli anni ’50 per la riforma della terra, per una richiesta di diritti. Erano stati capaci di mettere su lotte straordinarie e di pagare prezzi altissimi ed è difficile parlarne come dei primitivi, come soggetti senza storia 4 G. Polo, Centralità operaia, in supplemento a Il Manifesto, dal titolo Autunno caldo. Quarant’anni fa le lotte operaie che hanno trasformato le fabbriche e l’Italia. Un’esplosione di libertà che cambia la vita di milioni di persone, impatta sulla politica, fa traballare i potenti. E che, dopo il ’68 studentesco, avvia il lungo maggio italiano. Durerà un decennio. Il potere doveva essere operaio, novembre 2009, p. 1. 5 G. De Lutiis, Attacco allo Stato, Sperlig & Kupfer, Milano 1982. 6 Cfr. la trasmissione RAI di S. Zavoli, La notte della repubblica del 1989. 7 G. Polo, Centralità, cit., scrive: «I ‘nuovi operai’» – prodotto dell’immigrazione meridionale e del taylorismo estremo dell’industria italiana – «divennero protagonisti di un processo di formazione politica in un incontro-scontro con la tradizione del movimento operaio organizzato» (p. 2). 261 CATIA SONETTI alle spalle. In una mia ricerca recente sugli edili – uno dei settori completamente assenti dalla narrazione sull’Autunno caldo – ne ho incontrati diversi di questi personaggi e ho constatato senza difficoltà quanto sopra. Provenienti dalla Basilicata, dalla Sicilia o dalla Puglia, o da qualsiasi altro luogo del Sud, nessuno di loro saliva su al Nord sprovvisto di un punto di vista sul mondo, anzi. O per esperienza personale o per esperienza familiare, erano tutti portatori di esperienze conflittuali e di una visione politica del mondo. A conferma di ciò credo che sia utile leggere le recenti raccolte di saggi sull’emigrazione, come quella curata da Angiolina Arru e Franco Ramella8, o l’ormai classico testo di Goffredo Fofi9 per verificare come, a fronte di ricerche analitiche, certi stereotipi si dimostrino per ciò che sono: semplificazioni, al massimo di natura ideologica. Un mio intervistato mi raccontava, rispetto alla sua formazione politica, che «a casa mia […] fuori c’era la bandiera del partito. Le assemblee di partito [PCI] e del sindacato [CGIL] si facevano a casa mia»10. Ricordo che, a caldo, già nel 1969, Vittorio Foa aveva scritto a questo proposito che «l’apporto degli immigrati meridionali alle lotte del nord non è frutto […] di una disaggregata spontaneità ma che la tradizione leghista del mezzogiorno è una ricca tradizione organizzativa»11. E questa peculiarità o meglio ricchezza, io stessa ho avuto modo di riscontrarla più di una volta ed ho potuto verificare che non solo occorre tenerne conto, ma occorre anche considerare che non solo l’ambiente agisce sui meridionali immigrati e li trasforma, ma loro stessi agiscono su quell’ambiente e lo modificano. Scrive Ramella: Un’idea molto diffusa negli studi è che gli immigrati devono adattarsi alla società che li accoglie, che è quindi pensata come qualcosa di strutturato indipendentemente dagli individui che la compongono […] il problema che nasce è come gli immigrati rimodellano la società in cui arrivano12. I due elementi del quadro andrebbero studiati insieme mentre questa carenza di studi produce disagio e non aiuta a risolvere il come e il perché, dalle punte alte di mobilitazione, consapevolezza, contenuti agitati, pluralità di voci, proposte di soluzione e contrattazione, si sia arrivati a questa specie di vuoto silenzioso, disperato, apparentemente irrisolvibile. E non mi convince utilizzare solo il tema della globalizazzione come chiave interpretativa, anzi. Ci sono paesi, senza uscire dalla vecchia Europa, altrettanto toccati dalla mondializzazione, dalla delocalizzazione, dalla finanziarizzazione e non per questo caduti, rispetto alle capacità di costruire relazioni sindacali, risposte contrattuali, lettu8 A. Arru, F. Ramella, L’Italia delle migrazioni interne, Donzelli, Roma 2003. G. Fofi, L’immigrazione meridionale a Torino, Feltrinelli, Milano 1975 (ed. ampliata). 10 C. Sonetti, Gente di frontiera. Gli edili tra arretratezza e innovazione, 1963-1983, Università di Teramo, Facoltà di Scienze politiche, tesi di dottorato, 2007, p. 45. 11 V. Foa, Note sui gruppi estremisti e le lotte sindacali, in Problemi del socialismo, n. 41, 1969, p. 273. 12 F. Ramella, L’Italia delle migrazioni interne, cit., p. 385. 9 262 SÌ, ANCHE IL DIRITTO DI SUONARE IL CLAVICEMBALO! re convincenti, nel baratro con il quale, oggi, in Italia, si potrebbe raffigurare il mondo del lavoro. Una strada da percorrere potrebbe essere quella di gettare lo sguardo sul tema della burocratizzazione della figura del delegato, verificare lo scemare della forza contrattuale e conflittuale e vedere come questo fosse dovuto a diverse ragioni. Una credo vada ritrovata nella stessa originalità e forza della figura del delegato stesso nel consiglio di fabbrica, originalità e forza che però erano destinate a diventare ripetitività e difesa della propria posizione. Ci sono alcune riflessioni di Vittorio Foa, di molti anni fa, che ci possono ancora risultare utili. Io ricordo di aver letto […] Otto Khan-Freund, un grande giurista del lavoro inglese che era in realtà un comunista tedesco che aveva dovuto andarsene nel 1933 ed era stato uno dei più attivi nei consigli. Quest’uomo raccontava, anche in base alla propria esperienza dei consigli di fabbrica, che ad un certo punto il rappresentante non solo pensa di fatto con la sua testa, ma ha il dovere di farlo. Il rappresentante cessa di essere rappresentante proprio perché non può non essere quello che è. Io ci ho pensato molte volte, è una ragione profonda dei limiti della democrazia13. Non si può vivere in uno stato di assemblea permanente e non si può prescindere dalla consapevolezza elementare che mentre gli anni passano, dentro a quegli stessi anni, gli uomini invecchiano. I soggetti protagonisti dell’Autunno caldo non potevano fare eccezione! Poi occorre anche fare i conti con il fatto che il delegato del gruppo abbia capacità di autonomia rispetto al gruppo stesso perché le situazioni che si trova ad affrontare non vanno mai esattamente come lui e i suoi compagni se le sono immaginate. Possiamo riprendere le riflessioni di Pino Ferraris14 sulle due interpretazioni, quella di Alessandro Pizzorno con quella di Guido Romagnoli e Ida Regalia, sulla nascita dei consigli di fabbrica e sulla figura del delegato. Da una parte troviamo la convergenza di due spinte che si sorreggono a vicenda nel caso di Pizzorno, che vi legge l’emergere della figura dell’operaio fordista e la necessità per il sindacato di controllare, attraverso i delegati e i consigli, le dinamiche rivendicative. Dall’altra, possiamo leggere entrambi questi elementi, come fanno Romagnoli e Ida Regalia, come strumenti completamente esterni alla cultura e all’esperienza del sindacato. Il problema però anche così non è risolto. E ha ragione Ferraris a scrivere che si realizza «una sorta di democrazia di mandato» che riduce al minimo la distanza tra partecipazione diretta e delega, tra movimento e organizzazione. Il problema però non è tanto di verificare quanto di questo c’era già nelle culture politiche della sinistra socialista libertaria o nel personalismo cattolico partecipativo; il problema a mio parere, in completo accordo con Ferraris, è che quella esperienza avrebbe richiesto una «ridefinizione del ruolo del partito e […] 13 14 V. Foa, C. Ginzburg, Un dialogo, Feltrinelli, Milano 2003, p. 128. P. Ferraris, C’era una volta la classe generale. Parabola del lavoro, in Autunno caldo, cit., p. 4. 263 CATIA SONETTI della forma tradizionale del sindacato»15. Altrimenti sarebbe successo che il sindacato, cambiato profondamente al suo interno, non sarebbe riuscito a trovare fuori soggetti alleati con cui confrontarsi. In sostanza per il sindacato, al di là della solidarietà umana espressa dai dirigenti davanti ai cancelli, magari non solo alle tornate elettorali come accade oggi, c’era solo la pratica del conflitto con la controparte. Ricordo che lo Statuto dei lavoratori del 1970, quindi proprio a ridosso dell’Autunno caldo, passò con l’astensione del PCI in Parlamento! Comunque non credo che il tema si possa risolvere con poche riflessioni perché il problema nella sua complessità, dal punto di vista storiografico e sociologico, è ancora completamente aperto e inevaso. Non abbiamo cioè strumenti per capire come mai quegli individui in carne ed ossa che si formarono negli anni della conflittualità operaia, come minimo direi dal 1969 al 1973, e che hanno costituito fino a pochi anni fa, da ultracinquantenni ed oltre, l’ossatura del sindacato, i suoi quadri dirigenti, siano anche i principali protagonisti e non solo spettatori della involuzione della CGIL, del suo chiudersi su se stessa, della sua incapacità di intrecciarsi con i nuovi lavori e tanto meno a rappresentarli. Considerazioni simili si possono verificare anche in casa CISL, come minimo. Sarebbe l’ora di cominciare a ragionarci sopra. Come mai quei giovani, entrati con lo spirito della partecipazione diretta, sono poi diventati impiegati che hanno imparato a gestire l’esistente, per poi spesso rinchiudersi nel sindacato pensionati? Perché loro, che furono i protagonisti di una grande presa di parola collettiva, tacciono quasi sempre, scansano il confronto, soprattutto quello con gli intellettuali che ostinatamente continuano a girargli intorno. Come in qualche modo facciamo anche noi, in questa occasione. Ricordo che il dirigente della Camera del lavoro di Firenze ha presenziato all’apertura del convegno all’interno del quale si inserisce anche questo intervento e poi se n’è andato in perfetto silenzio. Sottolineo che questa mia è solo una riflessione senza alcun accenno moralistico. Il fatto però è che negli ultimi, dieci, quindici anni mi è capitato spesso di partecipare a dibattiti sul lavoro e poi di trovarmi senza l’interlocutore diretto al momento opportuno. Può darsi che la fase dirompente fosse già esaurita prima della metà degli anni ’70; in ogni caso, il processo involutivo della figura del delegato è cominciato abbastanza presto ed ha ricevuto un’accelerazione con i contratti del 1980 e del 1981 (mi riferisco soprattutto a quelli del settore metalmeccanico-siderurgico). Le direzioni aziendali si trovavano di fronte una controparte indebolita dagli anni trascorsi, dalla «marcia dei quarantamila» alla FIAT, ma anche dai danni della cosiddetta «disaffezione» al lavoro o dell’assenteismo diffuso. Era difficile trattenere in fabbrica in quegli anni un giovane ex studente sedotto molto più dalla cultura del ’77 che non da quella del ’69. Qualcuno ricorderà che per queste ragioni e per altre di natura diversa, anche più strettamente economica, venne introdotta la figura del «leader» e quella della «cellula operativa» che presupponeva il superamento dei livelli costituiti dalle «famiglie professionali». 15 Ivi, p. 5. 264 SÌ, ANCHE IL DIRITTO DI SUONARE IL CLAVICEMBALO! Il posto di «leader» era un tetto nella gerarchia operaia acquisibile non più ad un certo livello di professionalità e di anzianità di servizio, che per quanto astratto e formale garantiva una certa meccanicità degli scatti di livello, ma era dato dal fatto che un certo operaio potesse acquisire durante lo svolgimento di particolari mansioni un livello superiore a quello dei suoi compagni di squadra, livello legato più al grado di responsabilità sul lavoro che a capacità tecnica o manuale che una certa mansione comportava. Terminata tale mansione, il leader ritornava operaio di 5° livello, e tutto si svolgeva come prima senza che ne derivasse alcun automatismo di scatti retributivi o altro. Questa soluzione diminuiva il peso del reparto e aumentava quello della squadra, cioè di un elemento più piccolo e di conseguenza forse meno conflittuale e più facile da controllare. Non solo, quella decisione aprì spazi di discrezionalità enormi alle direzioni aziendali. E tutto questo accadeva mentre era nella sua parte conclusiva il processo per le schedature FIAT16. Ripensando oggi a queste considerazioni che sviluppavo più o meno uguali contemporaneamente a quelle trasformazioni, mi pare più importante il fatto che così facendo si toglieva la sicurezza del proprio futuro sul posto del lavoro, si metteva incertezza sulla propria collocazione che diveniva altalenante e si cominciava a generare ansia da prestazione e incertezza psicologica. Il lavoro con contratto a termine ha estremizzato tutto ciò, dalla precarietà dell’impiego all’aleatorietà della maturazione salariale; cioè ha distrutto dall’interno la possibilità concreta di una visione solidale e condivisa tra lavoratori, ha svuotato la figura del rappresentante sindacale e ha spinto ciascuna confederazione, a mio parere a torto, ad inoltrarsi sulla strada di organizzazione che eroga servizi e non più sindacato di contrattazione e di lotta. La storiografia e le altre discipline che avrebbero potuto documentare tutto ciò si sono dimostrate incapaci di costruire una narrazione stimolante e in parte condivisibile. Alla ricerca sui temi del lavoro, specie in Italia, sono mancati i fondi, è mancato il sostegno accademico. Occorre però anche dire che quando si è verificata qualche eccezione in questo panorama non c’è stata capacità di coglierla ed anche le celebrazioni del centenario della CGIL che hanno promosso ed edito numerose ricerche, spesso di grande valore (ma ancora più spesso solo celebrative o approssimate), non sono state condivise né dentro il sindacato, né nel mondo degli studiosi. Ciascuno qui pensi alle proprie responsabilità. Il rapporto con i partiti C’è un altro problema poco affrontato e di difficile soluzione perché avrebbe bisogno di una serie comparata di studi, magari anche indiretti, sul rapporto tra sindacati e rappresentanze politiche, il rapporto cioè tra il sindacato, o sarebbe 16 B. Guidetti Serra con Santina Mobilia, Bianca la rossa, Einaudi, Torino 2009, pp. 178-196. 265 CATIA SONETTI meglio dire, i sindacati, e i soggetti politici. Mi pare che a questo proposito non sia sufficiente, a quarant’anni di distanza dal 1969, parlare solo di «supplenza politica» da parte dei sindacati e ridurre questa supplenza al tentativo, lanciato dalle confederazioni, di vere e proprie battaglie «per le riforme». Non credo che si possa continuare a pensare a quella scelta di obiettivi e di temi di agitazione come a qualcosa che era destinato a fallire perché estraneo alla storia confederale. Il fallimento, o meglio le ragioni del fallimento, stanno secondo me da un’altra parte. Stanno tutte o quasi tutte nell’incapacità da parte dei partiti storici del movimento operaio di intercettare quelle richieste, di tradurle in disegni di legge, di mediarle con la classe politica al potere considerando anche che la stessa classe politica era in parte stata scossa da ciò che il suo sindacato «naturale» di riferimento gli sottoponeva all’attenzione, e mi riferisco alla componente democristiana e cislina. Eppure quella classe politica non è riuscita a costruire un ponte, anzi, a guardarla a posteriori, pare anche che talvolta abbia fatto del suo meglio per affossare quei legami che si potevano e dovevano costruire tra lotte sindacali e rappresentanza politica. Allora per provare a capirci qualcosa mi pare che manchi dalle nostre riflessioni un altro soggetto, soggetto a mio parere imprescindibile, per comprendere come e perché è successo quello che è successo e perché e come ha prodotto quello che è venuto dopo. E mi riferisco al rapporto che è intercorso tra i soggetti politici della sinistra e i soggetti sindacali e operai che operavano sulla scena come protagonisti e non come comprimari. L’unica riflessione seria che, a mio parere, ha provato a mettere insieme nella sua ricerca questi due attori, è stata quella di Cesco Chinello, probabilmente non solo per la sua lucidità ma anche per il suo percorso biografico. E ho trovato utile per capire qualcosa soprattutto il suo ultimo lavoro, comparso postumo, Un barbaro veneziano17. Mi sono parse particolarmente indicative le sue considerazioni sul fatto che i sessantaquattro giorni di occupazione della facoltà di Architettura a Venezia non si meritarono neppure un articolo su Rinascita e che i gruppi legati alle riviste che faranno la storia dentro il successivo 1968-69, come La Sinistra, Quaderni rossi, Quaderni piacentini, venivano etichettati come «nemici», contro i quali conveniva: condurre una lotta aperta, senza incertezze e tolleranze, contro tutte le attività e le manifestazioni di frazionismo, la organizzazione del dissenso, l’azione torbida e provocatoria, la permanente rimessa in discussione dei principi e della linea politica del partito18. 17 C. Chinello, Un barbaro veneziano. Mezzo secolo da comunista, Il Poligrafico, Padova 2008. Dello stesso autore, e però ancora capace di suscitare riflessioni e proporci domande, è la sua lunga ed articolata ricostruzione del sindacato e non solo, Sindacato, PCI, movimenti negli anni Sessanta. Porto Marghera - Venezia, 1955-1970, Franco Angeli, Milano 1996. 18 Ivi, p. 205. 266 SÌ, ANCHE IL DIRITTO DI SUONARE IL CLAVICEMBALO! Quella incomprensione, a Porto Marghera, il 27 giugno 1968, portò ad un rovesciamento anche simbolico della realtà. I dirigenti della Camera del lavoro, completamente egemonizzati dal PCI, rifiutarono la proposta di una lotta articolata anche se l’idea era passata a larga maggioranza dentro l’assemblea operaia perché a fare quella proposta erano stati alcuni esponenti di Potere Operaio. Si giunse così all’assedio da parte degli operai del petrolchimico della Camera del lavoro, difesa dalla polizia! 19 Con molta intelligenza, Chinello commenta come comunque: se non fosse esistito quel momento radicale di clima politico e sociale in quel tardo autunno 1969 non sarebbe stata possibile quella che è stata la vera e propria resa della Confindustria, la sua accettazione praticamente in toto delle rivendicazioni contrattuali dei metalmeccanici come mai si era verificato nella storia sindacale. Tale accettazione comportava la conquista storica delle 40 ore a parità di salario – cioè pagate 48 –; l’aumento salariale uguale per tutti di 65 lire. Eppure i dirigenti comunisti chiusi dentro il loro partito restavano chiusi anche alla realtà esterna risultando alla fine sordi e ciechi. E in una situazione completamente diversa, lontana centinaia di chilometri, si potevano riscontare elementi di resistenza simili nella provincia pisana e fiorentina della fine degli anni ’60, in pieno Autunno caldo. Alcuni dirigenti locali della CGIL spingono per la regolarizzazione del lavoro delle donne a domicilio, e si trovano nella necessità di combattere su due fronti, uno dei quali però del tutto imprevisto. Contro i contenuti di quelle mobilitazioni non solo si schierarono i diversi padroncini e le ditte appaltatrici ma le sezioni del PCI. Raccontava Giovanni Faraoni: Senti, io ti dico una cosa sola. Le maggiori difficoltà dal punto di vista della sindacalizzazione delle fabbriche degli operai, io le ho trovate con i compagni segretari di sezione. Quelli che facevano più votare i coglioni per dirla proprio terra terra, nelle concerie, nei calzaturifici, erano i segretari di sezione perché se c’era uno che era ciccia e pappa, ad esempio, era più facile trova’ il segretario di sezione di Sticcio, che quando lavorava alla Nema, dove era un caporeparto, rompeva più le scatole, perché il sindacato rompe soltanto i coglioni20. Queste resistenze, questi atteggiamenti conservatori sono ovviamente differenziati da territorio a territorio, sono legati anche agli uomini intesi proprio come individui singoli capaci di maggiore o minore autonomia di fronte alle novità che avanzano. Come mi faceva osservare con grande acume misto a grande amarezza una ex dirigente de Il Manifesto, nelle città operaie a salda egemonia comunista, finito il biennio 1968-69, i gruppi dirigenti tirarono un sospiro di sollievo, e rievoca amara: 19 Ivi, p. 255. C. Sonetti, Il lavoro nascosto. Lavoranti a domicilio nella seconda metà del Novecento, in E. Fasano Guarini, A. Galoppini, A. Peretti (a cura di), Fuori dall’ombra. Studi di storia delle donne nella provincia di Pisa (secoli XIX e XX), Plus edizioni, Pisa 2006, p. 382. 20 267 CATIA SONETTI Oh finalmente son finiti i collettivi, finalmente sono finiti i casini nelle scuole, finalmente sono arrivati gli organismi dei delegati, come le chiamavano allora. Le lezioni, si ritorna all’organizzazione! È finito il casino! È stato vissuto proprio come un disordine prima e come un senso di ritorno all’attività seria, ma non solo in campo studentesco, ma anche in campo operaio. Cioè lo svuotamento dei consigli, dei consigli operai, anche quelli son stati vissuti alla stessa stregua delle assemblee studentesche, come un momento di confusione, come un momento in cui non venivano riconosciuti gli elementi, come dire, burocratici, non so se ti ricordi. Nell’esecutivo si doveva star sei mesi, un anno al massimo e poi di nuovo al lavoro. Invece essere ritornati a questo modo per cui gente che c’era nel ’70, c’è sempre, che non capisce più niente, perché pensa te cosa è successo dagli anni ’70 ad oggi nella fabbrica, è successo il finimondo21. Ci furono anche luoghi dove militanti comunisti interpretarono il meglio della stagione dei consigli. Serva ad esempio la vicenda di Vittorio Sparàti ricostruita da Alberto Papuzzi. Sparàti, delegato di fabbrica, di fronte ad una contestazione sulla perequazione delle paghe, così più o meno argomentava: Mi ricordo un contrasto con uno della FIAT, un operaio manutentore […] io lo accusavo di essere un individualista, un arretrato. Diceva: «ci ho messo dieci anni a imparare ’sto mestiere, adesso l’ultimo che viene assunto dopo due anni ha la mia stessa paga». Io rispondevo: «fatti furbo, se tu ci hai messo dieci anni, perché devono metterceli tutti»? Una volta vinte queste resistenze, si doveva elaborare una proposta seria, che potesse passare alle assemblee e studiare le forme di lotta per farla passare22. E di fronte alla resistenza di un dirigente di partito che ancora molti anni più tardi gli opponeva che anche l’esperienza deve contare, anche il merito, Sparàti ribatteva: Non puoi lasciare ai padroni questo strumento, quest’arma. Bisogna fare la battaglia per la perequazione per azzerare la situazione. Capisci? In officina lo vedi bene che c’è chi lavora meglio, chi peggio, chi lavora di più, chi di meno, ma non può essere il padrone che decide chi premiare e come premiarlo. Bisogna rovesciare la frittata, bisogna cambiare i meccanismi. Il primo passo è ripartire da zero: tutti uguali23. Ma nello stesso brano Sparàti osserva, ragionando sui consigli, che: «Quando si sono fatti i consigli, non ce n’era per nessuno. In fabbrica si comandava noi. Però poi il meccanismo è diventato sempre più una cosa dall’alto. Per capirci è stato assorbito dal centralismo democratico24. Il tema però anche messo così si sposta di poco e tale resta. 21 C. Sonetti, Giovani a Piombino negli anni della rivolta, in Movimenti cattolici e sociali a Piombino e Follonica nel dopo Concilio Vaticano II, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2006, p. 136. 22 A. Papuzzi, Quando torni. Una vita operaia, Donzelli, Roma 2007, p. 103. 23 Ivi, p. 104. 24 Ivi, p. 102. 268 SÌ, ANCHE IL DIRITTO DI SUONARE IL CLAVICEMBALO! Quello con le donne Un altro segno distintivo della debolezza delle analisi storiografiche sul sindacato è dato dalla quasi totale assenza delle donne dentro ai quadri ricostruiti su quelle vicende. La concentrazione, quasi assoluta e pervasiva, della nostra attenzione sul settore metalmeccanico, ha comportato altre conseguenze, di non poco rilievo, prima tra tutte la pressoché totale scomparsa delle donne dal nostro quadro, penso alle lavoratrici e non alle donne in senso lato. Chi ha provato o prova a verificare cosa ha fatto e cosa non ha fatto il 1969, per molti versi così dirompente, sia nei contenuti che nei confronti dello «stile», sia linguistico che comportamentale, per riformulare i rapporti interni alla fabbrica e al lavoro tra uomini e donne, cosa ha provato a fare e a capire il sindacato nei confronti delle richieste femminili, si trova di fronte a ben poca cosa. E questo non perché non ci fossero donne dentro le fabbriche metalmeccaniche, ma perché queste erano minoranze ben definite o impiegate – e in quel caso scattava anche uno speciale astio di classe. Per questo raccomando a tutti il bellissimo video di Giovanna Boursier, Signorina FIAT 25. Per quanto sono andata verificando da alcuni anni a questa parte occupandomi sia di lavoro a domicilio nel tessile26 che di lavoro femminile in una grande fabbrica metalmeccanica, la SPICA di Livorno, l’onda della grande contestazione operaia ha fatto poco, quasi niente. Può anche apparire curioso a pensarci, ma le conquiste care alle donne, come il divorzio o la legge sull’aborto, così come il nuovo diritto di famiglia o la legge sulla violenza sessuale, sono conquiste fatte grazie all’onda dirompente di trasformazioni che riuscivano ad uscire dalla fabbrica e ad entrare nella società, così come la legge Basaglia o la legge Gozzini. Non furono però conquiste maturate a partire dal luogo di lavoro. Nei luoghi di lavoro la situazione restò schiacciata dentro un’egemonia sindacale e politica completamente governata dai maschi. La sofferenza, lo sfruttamento, la diversità dei punti di vista, la diversità dei bisogni furono intercettati solo in misura molto fievole. Lo spazio restò occupato dagli uomini sia simbolicamente che materialmente. C’è una fotografia scattata a Santa Croce nel 1970 circa, sul retro della quale qualcuno ha scritto: «assemblea sui problemi delle donne della FILTEA». Nella foto si vede una platea completamente femminile che ascolta un gruppo di delegati sindacali seduti al tavolo… tutti uomini! Oggi può anche fare un certo effetto, ma dal volto di quelle donne sedute sembrava accettato come normale o, come mi dicevano alcune intervistate, «con rassegnazione». I problemi erano 25 G. Boursier, Signorina FIAT, Gege’ Produzioni - Archivio Audiovisivo del Movimento operaio e democratico, Milano 2001. 26 Cfr. C. Sonetti, Il lavoro nascosto, cit.; C. Repek, La confezione di un sogno. La storia delle donne della Lebole, Ediesse, Roma 2003, soprattutto capitoli 2 e 3; M.L. Righi, Il lavoro delle donne e le politiche del sindacato: dal boom economico alla crisi degli anni Settanta, in G. Chianese (a cura di), Mondi femminili in cento anni di sindacato, Ediesse, Roma 2008, vol. II, pp. 123-161. 269 CATIA SONETTI quelli delle lavoratrici ma a parlarne erano gli uomini. Alla fine degli anni ’70 le cose, sempre ricorrendo all’archivio fotografico, non sembrano cambiate. E questa non era solo la rappresentazione di una diversità di ruoli simbolica. Era anche una questione direttamente materiale. Quelli seduti al tavolino sono distaccati dal lavoro, quelle sedute nelle poltroncine davanti sono lavoratrici che di lavori ne fanno come minimo due, uno a casa e uno in fabbrica. Qualche volta a questi impegni va aggiunto anche il lavoro sindacale che si somma ai precedenti. Si è taciuto molto, anzi moltissimo, sulla utilizzazione delle donne nei lavori peggiori all’interno dell’organizzazione della fabbrica27. Non si è ancora riflettuto abbastanza sulle esperienze dei coordinamenti e degli intercategoriali, né del loro incontro-scontro con il gruppo dirigente dentro la CGIL28. Di sicuro poi, se il 1968 studentesco e il 1969 operaio sono stati anche una grande «presa di parola», le donne questa esperienza l’hanno sostanzialmente mancata. L’aspetto drammatico però è che, con il prevalere della burocratizzazione del sindacato, con il passare degli anni e le sconfitte subite, con la vittoria del mercato e del profitto su tutto il resto, anche gli uomini hanno perso la parola. Forse si potrebbe ripartire da qui per ricominciare con fatica e passione una ripresa del discorso stavolta a due voci, una femminile e una maschile. Quel movimento, quello dell’Autunno caldo, come ricordava B. Trentin in un’intervista, si era posto l’obiettivo di praticare anche il «diritto di suonare il clavicembalo». Era un obiettivo molto alto, pieno di dignità e di voglia di futuro, non lasciamo che svanisca nel vuoto. 27 Dalla mia ricerca, ancora in corso, sulla presenza femminile alla SPICA di Livorno è emerso un quadro drammatico. I lavori peggiori, quelli più nocivi per l’ambiente o per la fatica e la ripetitività delle operazioni, legati sostanzialmente solo al cottimo, erano tutti demandati alle donne, che, quasi sempre, per dimostrare di essere all’altezza, tacevano e subivano. E questo era perfettamente valido fino a tutti gli anni ’80 inoltrati. I miglioramenti non sono avvenuti per presa di coscienza o lotte rivendicative ma per soluzioni tecnologiche più avanzate. 28 Cfr. E. Guerra, Una nuova presenza delle donne tra femminismo e sindacato. La vicenda della CGIL, in Gloria Chianese (a cura di), Mondi femminili, cit., vol. II, pp. 217-265. 270 Cipputi + Cipputi = Cipputi di Paolo Franco Intanto devo confessare che mi fa impressione intervenire su una cosa a cui si è partecipato quarant’anni fa. Quando nel ’69 noi discutevamo con i nostri vecchi di quelli che avevano fatto la Resistenza, era una roba di 23 o 24 anni prima: qui siamo arrivati a quaranta e quindi fa abbastanza impressione. Voglio dirvi grazie per aver organizzato un convegno che fruga, che discute, che vuole ricostruire alcuni elementi chiave del ’69, anche perché nella vulgata corrente molti di questi aspetti sono stati in qualche modo cancellati: c’è il ’68 e l’estremismo, c’è la violenza e tutto finisce lì. Gran parte delle battaglie e delle conquiste che in quegli anni ci sono state è in qualche modo cancellata. Secondo me varrebbe anche la pena, considerando i tanti professori che sono presenti in queste giornate, di pensare a come dare continuità a questo sforzo di approfondimento, magari attraverso dei seminari più che altri convegni. Seminari che siano capaci di coinvolgere al tempo stesso i ragazzi giovani e i protagonisti di allora, anche locali, per vedere le diverse esperienze di lotta, anche condotte su singoli temi, perché vi sono dei temi che, come abbiamo appreso dalla discussione che abbiamo avuto fino ad ora, vanno sicuramente approfonditi. Alcune osservazioni che mi vengono in mente per le cose che ho sentito. La prima è: per quello che riguarda il sindacato e il ’69 operaio, intanto si deve dire che noi siamo arrivati a quegli anni preparati, non è una cosa che è successa di colpo nel ’68 e nel ’69. Tutta l’elaborazione delle strategie rivendicative, dei temi su cui sviluppare la capacità di ascolto dei lavoratori, fuori e dentro le fabbriche, nelle assemblee, in qualsiasi covo possibile e immaginabile, si è sviluppata negli anni, attraverso una discussione pesante e politicamente anche feroce. Pensiamo allo scontro interno alla CGIL sulla contrattazione articolata e al congresso del ’55, ai litigi con la CISL e alla ricomposizione successiva. Pensiamo a quello che è successo negli anni che vanno dal ’62 fino al ’69 in termini di frattura dello stesso mondo industriale con la formazione dell’Intersind1; pensiamo al fatto che c’è stato il contratto del ’62 e quello del ’66, e pensiamo al 1 Associazione tra aziende a Partecipazione statale. 271 PAOLO FRANCO fatto che ci sono state una serie di vicende contrattuali emblematiche e significative, penso agli elettromeccanici di Milano, e altre vertenze di settore. Tutte cose che hanno coinvolto progressivamente altri soggetti, come la medicina del lavoro, come agli esperti che ci hanno aiutato a costruire un approccio che poi è diventato in qualche modo forte, strutturato e sistematico per le rivendicazioni che ci sono state nel contratto ma che hanno preceduto e pure seguito la vicenda contrattuale: la non delega, il gruppo operaio omogeneo, le cose da chiedere sulle qualifiche, l’organizzazione del lavoro eccetera. Tutte cose che bisogna avere presenti perché nel ’69 ci sentivamo abbastanza forti e preparati, poi c’è stata anche la scelta delle Segreterie nazionali dei metalmeccanici di utilizzare molti giovani, operai e no, in modo anche abbastanza fuori dalle righe, che ha contribuito al ringiovanimento delle strutture, neanche tanto vecchie come erano allora, forse sono più vecchie adesso. Ma tutto questo significa che abbiamo cominciato il ’69 con una strategia sulla capacità di ascolto dei lavoratori sulla quale sicuramente ha influito il ’68. A Torino noi conoscevamo tutti, aziende, militanti e lavoratori, ma ci sono realtà che hanno costruito in un certo tempo una capacità di elaborazione, di risposta nella fabbrica, e altre che sono arrivate dopo. Ad esempio c’erano grandi differenze tra Milano - Sesto San Giovanni, con 50.000 operai in varie fabbriche, e Mirafiori, dove c’erano 60.000 lavoratori. Qualcuno di voi citava il fatto che alla fine dell’anno precedente c’erano diverse elezioni di commissioni interne; noi alla FIAT a queste elezioni siamo arrivati ancora nelle condizioni «vallettiane», senza presenza organizzata in fabbrica e dovendo andare a cercare nelle valli del Piemonte la firma delle persone che sostenevano la lista di commissione interna, senza la quale sarebbero state invalidate le elezioni. Mi ricordo ancora certe scene patetiche a casa di vecchi e distrutti compagni, stramazzati dalle segregazioni nei reparti confino ed ai quali alla presenza del nonno, del padre, della moglie e dei figli eccetera dovevi chiedere la firma per sostenere la lista, anche perché non potevi farlo in fabbrica né nelle vicinanze. Questo era un percorso obbligato, non tanto lontano nel tempo, perché è durato fino ad un anno prima del ’69. Quindi ci sono delle differenze significative che andrebbero esaminate, studiate, capite, anche per capire le mentalità differenti che c’erano. Nel corso della lotta contrattuale di Sesto San Giovanni, Antonio Pizzinato riuniva una volta la settimana i capi fabbrica della FIOM e gli dava la linea. A Mirafiori tutto questo veniva fatto in un’assemblea di 800 delegati e vari, con discussioni complicatissime, nel pieno di vicende che cambiavano, come anche voi avete detto, la testa, l’orientamento della gente, dei singoli. Il problema non era l’operaio massa, erano tutti singoli che avevano certo la consapevolezza del collettivo, ma in corso era anche questa forza di un cambiamento individuale. Andrebbero ricostruite e capite questa articolazione e questa differenza, anche attraverso per esempio dei seminari paralleli, e così è successo a Mirafiori, e così è successo a Sesto San Giovanni. Andrebbe fatto un lavoro fra università parallele per cercare di ricostruire questi pezzi di storia: vale per Firenze, per Venezia, per Genova, per Taranto o per 272 CIPPUTI + CIPPUTI = CIPPUTI Napoli. Sono tutte cose che andrebbero fatte, forse andavano fatte prima, ma intanto andrebbero fatte ora approfittando del fatto che c’è ancora qualcuno dei protagonisti del tempo capace di interloquire, di dire delle cose, di dare delle risposte, di partecipare a questi incontri. Terza osservazione: io non credo che noi siamo stati sulla difensiva, e non credo che abbiamo avuto dei problemi nel rapporto con le città e con la gente. In fondo, a partire da quella esperienza operaia del ’69 c’è stata la manifestazione di Reggio Calabria, la prima parte dei contratti con tutto quello che significava, le 150 ore e il rapporto con la scuola, la capacità di discutere delle forme di solidarietà più efficaci con, per esempio, la guerra del Vietnam, sono tutti pezzi di una forte presenza sociale. Tutti noi allora abbiamo conosciuto questi rappresentanti vietnamiti che facevano parte della delegazione a Parigi, perché nel corso di iniziative si concretizzava una forma di aiuto concreta e specifica, come le sale operatorie mobili o cose del genere. Oggi ricordare queste cose credo sia abbastanza impressionante, ma fanno parte della storia di quel periodo. E neanche va dimenticato che questo processo di recupero di identità e di dignità non solo dei delegati ma dell’insieme dei lavoratori è stato un processo non soltanto rapidissimo ma impressionante. Io ricordo ancora delle assemblee dopo gli scioperi all’interno di quel mostro che era e che è ancora Mirafiori, in cui c’era il delegato che veniva dalla Basilicata che ti raccontava di Carmine Crocco e perché lui, capo dei briganti, era quello che si era opposto all’esercito piemontese. Come un altro che ci raccontava della storia di Bronte, come gliel’aveva raccontata il nonno e ce la raccontava con i suoni, i rumori, eccetera. L’insieme di queste cose delineava senza dubbio una realtà fatta di recupero di identità, di personalità, di dignità, che nella fabbrica fordista, con una certa organizzazione del lavoro, con lo strapotere dei capi ignoranti, si era perduta. Non c’è dubbio che sia la vicenda contrattuale sia gli accordi aziendali abbiano consolidato dentro la fabbrica un potere che pesava di più dell’aumento salariale in senso stretto, perché nell’autunno del ’69, già durante la vicenda contrattuale, ogni giorno, per l’applicazione dell’accordo sulle linee, la FIAT perdeva a Mirafiori la quantità di produzione che veniva fatta ogni giorno all’Alfa Romeo. Perché prima dell’accordo, anche se mancavano tre operai sulla linea, la produzione veniva fatta lo stesso, mentre con il rispetto di quell’accordo ciò non accadeva più. In tutta questa storia, con la generalizzazione della presenza dei delegati, che era un’altra cosa rispetto alle tradizionali forme di rappresentanza, non c’è dubbio che si fosse di fronte a una prospettiva nella quale le risposte dovevano venire su un duplice terreno: il primo, quello dell’unità del sindacato, perché il consiglio di fabbrica, in quanto costituito da delegati eletti liberamente da tutti i lavoratori che esercitano questo potere all’interno della fabbrica, sta in piedi e si consolida nel momento in cui anche le strutture interne ed esterne si uniscono. E qui c’è stato uno dei blocchi, dovuto ai partiti, al sindacato, a tante cose su cui adesso non abbiamo tempo di discutere, ma errori ne sono stati fatti anche dall’interno del movimento e degli stessi metalmeccanici. A ripensarci adesso 273 PAOLO FRANCO anch’io non credo che la parola d’ordine dell’«unità con chi ci sta» poteva di per sé risolvere il problema, cioè «ci facciamo la nostra confederazione unitaria». Ma non c’è dubbio che la scelta di bloccare tutto, di dire «basta, l’unità non si fa più» – perché così avvenne – anche questo è stato un errore ben più grave. Probabilmente bisognava avere la fantasia o la forza politica di dare un minimo di prospettiva diversa, di rendere questa unità, questa capacità di mischiare le carte, le anime, le origini, più incisiva, più capace di incidere sugli equilibri sindacali e su quelli politici. Meglio Carniti che Rutelli: per fare una battuta, se io devo mischiarmi, preferisco mischiarmi in una situazione nella quale c’è un rapporto con la gente e con il movimento. La seconda questione è quella del rapporto fra politiche industriali, organizzazione del lavoro e politiche economiche, perché questa forza dentro la fabbrica o diventa protagonista di un cambiamento del modo di lavorare oppure non ce la fa, e magari ripiega su forme che alla lunga diventano prepotenza, si inaridiscono, diventano incapaci anche del controllo per cui il delegato era nato. Da questo punto di vista insomma c’è stata, come dire, la Resistenza vera, il diniego del padrone; non è vero che non era possibile perché in quegli anni, nei primi anni ’70, noi abbiamo sperimentato una serie di accordi, penso al caso dell’Olivetti, che hanno avuto assolutamente la capacità di rinnovare l’organizzazione della cultura. E l’Olivetti ha trattato con il sindacato, ha discusso, ha progettato insieme questa nuova organizzazione; però c’è anche da dire che l’Olivetti già era stata liquidata politicamente: la destra, la sinistra, la DC, insomma tutti avevano detto basta, liquidiamo questa esperienza industriale, è pericolosa. La FIAT, anche se messa di fronte a lotte che sono state micidiali (le vertenze del ’75 credo che siano costate più di tutti gli altri contratti integrativi messi insieme, anche se non se ne parla mai), non ha mai accettato di imbarcarsi su questa strada, cioè del costruire assieme un’organizzazione del lavoro; voleva farsela da sola dopo aver sconfitto il movimento operaio. Da questo punto di vista, io dico che forse il punto di svolta delle strategie del padrone c’è stato proprio nel ’75 dopo l’accordo sulla contingenza, perché quando Agnelli, Carli e non mi ricordo chi era il ministro del Tesoro di allora fecero l’intesa sulla svalutazione competitiva, da cui deriva tanta parte dei problemi che ancora oggi abbiamo (come l’aumento del debito pubblico) conclusero un accordo che in qualche modo copriva le spalle al padrone, che diceva: rifiuta, pensa ad altro, aspetta momenti migliori, ma non devi stare lì a pensare tanto a che cosa devi fare sull’organizzazione del lavoro perché c’è questo sfogatoio, questa via d’uscita. È una delle spiegazioni: io dico che anche su questa bisognerebbe pensarci un po’ di più e bisognerebbe riflettere, perché troppo spesso rischiamo di dare la colpa a estremismi che fino a un certo punto ci sono stati, ci sono stati ovviamente, ma alla fine quello che conta sono le scelte politiche. In questo non c’è dubbio che non siamo stati aiutati da nessuno, né sulle politiche economiche, né sulla prima parte dei contratti, né su queste scelte qui in cui nessuno ci ha fatto chiarezza anche se ne avremmo avuto assolutamente bisogno. 274 Il 1969 degli economisti di Riccardo Bellofiore * Ho seguito il convegno per intero e sono rimasto colpito dalla ricchezza delle relazioni. Sono venuto essenzialmente per ascoltare, e non so quanto possa esservi utile quello che vi dirò, ma mi fa piacere essere stato invitato a un convegno sul 1969. Ho partecipato ad un convegno sul ventennale del ’68, organizzato da Luisa Passerini, più di vent’anni fa, e quindi è trascorso un bel po’ di tempo. I relatori erano tutti protagonisti, io ero forse l’unico non protagonista. Nel ’68 – nel settembre, se ricordo bene – mio padre, funzionario di polizia, si trasferiva a Torino da Taormina; nel ’68 non c’ero dunque per ragioni anche geografiche. Il ’69 l’ho vissuto come lo poteva vivere uno studente di prima liceo. In questo convegno, invece, ho visto che le relazioni principali sono state di giovani, che hanno detto cose molto sensate e utili. Il ’69, anche se appunto l’ho vissuto un po’ di sbieco, ha però segnato molto di quello che poi sono diventato. Per dirne una, ho fatto il mestiere che ho fatto, l’economista, in modo decisamente poco usuale, soprattutto oggi, anche per colpa del ’69 e del segno che ha impresso agli inizi degli anni ’70, quando studiavo all’università. Ciò mi ha dato anche un imprinting per cui qui dentro forse sono culturalmente molto più vecchio di tanti altri, quasi tutti, e quindi da questo punto di vista sono quasi un reperto. Le cose che vi dirò sono molto legate a quello che è stato per me il 1969 – e dirò fra un attimo che cosa intendo per 1969. In questo bel convegno ci sono delle assenze tematiche, ne nomino solo tre. La prima, l’ha osservato Petrini in un intervento nel dibattito, è la dimensione internazionale. Il 1969 è stato un ciclo di lotte operaie eccezionali in Italia: noi ci siamo molto concentrati sull’eccezionalità del caso italiano, che però è difficile valutare se non si vede la dimensione internazionale. Le altre due assenze mi coinvolgono di più, appunto perché faccio l’economista. Non sono quasi mai state pronunciate la parola capitalismo e la parola crisi. Capitalismo l’hanno usato un paio di relatori, mi pare. Giovannini quando ha fatto riferimento al * L’intervento che segue è la trascrizione rivista del contributo presentato alla tavola rotonda finale, di cui è stato mantenuto il carattere discorsivo. 275 RICCARDO BELLOFIORE «capitalismo straccione», e poi ancora Petrini, il quale, quando ha usato l’espressione capitale, ha aggiunto: «se ancora si può dire». Evidentemente, si è molto parlato di lavoratori e si è molto parlato di padronato. Non è però esattamente la stessa cosa su cui voglio concentrare l’attenzione io. La terza parola che è stata dimenticata pressoché completamente è la parola crisi; l’ha nominata Stefano Musso quando ha fatto riferimento ai pessimisti di destra che hanno definito gli anni ’70 come periodo di crisi. Il mio intervento si gioca proprio sull’incrocio fra il capitalismo come modo di produzione e la crisi di questo modo di produzione. Il 1969 va collocato in questo discorso perché segnò una messa in discussione radicale del modo di produzione capitalistico. Ovviamente, so benissimo che quando si usa il termine crisi, tanto più allora, è (era) facile scivolare in una visione «crollista». Qui sto parlando di un’altra cosa, parlo della crisi di una forma particolare che ha assunto il modo di produzione capitalistico. Crisi sistemica, dunque, ma non crollo. Il convegno si intitola 1969/2009. Il 2009 è stato presente molto poco in questi due giorni, ma un rapporto secondo me può essere delineato tra l’allora e l’oggi. Il 1969 segna una tappa fondamentale, se non centrale, del venire a termine del cosiddetto fordismo-keynesismo, cioè della forma particolare che aveva assunto il capitalismo nel secondo dopoguerra. Il 2009 sta dentro una crisi altrettanto radicale che probabilmente segna il venire a termine del neoliberismo così come lo abbiamo conosciuto. Ma lo conosciamo davvero? Secondo me si è trattato di una fase complicata e segnata da fratture. Dobbiamo dunque chiederci in che senso la crisi del neoliberismo si riallaccia alla risposta del capitale alla crisi del fordismo, di cui il 1969 è un momento centrale. Ma prima dobbiamo chiederci: cos’è stato il 1969? Tutti hanno fatto riferimento alle lotte specifiche del 1969, altri lo hanno di fatto esteso alle lotte che vanno dal 1969 al 1971, molti sono sostanzialmente scivolati in una estensione del 1969 a tutti gli anni ’70. Per me il ’69 va sostanzialmente dalla fine del 1968, inizio del 1969 fino al 1973, l’anno, se ricordo bene, dell’occupazione della FIAT. Ed evidentemente – dico l’ovvio, ma qualcuno l’ha pur contestato – il 1969 segue il 1968. C’è stata una stretta continuità, anche se problematica, del ’69 con il ’68, su cui tornerò. Ma il ’69 sta anche dentro un ciclo lungo delle lotte operaie che percorre tutti gli anni ’60. La fine del neoliberismo sta al termine di un processo che ha camminato su due gambe, frammentazione del lavoro e finanziarizzazione dell’economia, e questa finanziarizzazione ha assunto forme inedite che costituiscono una vera e propria sussunzione reale del lavoro nella finanza. Frammentazione del lavoro e sussunzione reale del lavoro nella finanza sono proprio gli aspetti fondamentali del modo con cui il capitalismo è uscito dalla crisi del fordismo e dunque dagli effetti del 1969, anche se devo ancora spiegare perché lego la crisi del fordismo-keynesismo al 1969. Comincio a farlo adesso, inquadrando il periodo 1969-73 dentro il ciclo lungo degli anni ’60. In Italia questo ciclo lungo nasce con le lotte degli elettromeccanici. Si potrebbe leggere il 1968 dentro questo ciclo lungo come un movimento «dalla fab276 IL 1969 DEGLI ECONOMISTI brica alla società». È un po’, se volete, l’interpretazione operaista. Se invece si guarda il 1969 come prolungamento del 1968, il movimento è «dalla società alla fabbrica», in conflitti e antagonismi che si estendono anche a figure sociali che vanno ben oltre studenti e operai. Sono veri entrambi i movimenti, in realtà. E nella eccezionalità italiana sta proprio il fatto che essi si rinforzano l’un l’altro. Se noi guardiamo attraverso la lente del ciclo lungo vediamo che le lotte alla fine degli anni ’60 sono state anticipate da un forte conflitto salariale e normativo, dall’inizio degli anni ’60 al termine del miracolo economico. Ho un qualche dissenso con una interpretazione la cui eco si è sentita anche in questo convegno, una interpretazione che troppo linearmente riconduce le lotte del 1969 ad una situazione di piena occupazione. Direi piuttosto che è la crisi del 1963-64 a discendere da aumenti di salario in eccesso alla produttività, per una situazione di pieno impiego nel mercato del lavoro del «triangolo industriale». Vi fu certo anche altro, ma la determinante della crisi fu allora una lotta prevalentemente distributiva. Seguì una risposta abbastanza classica da parte della politica economica, prima inflattiva (per erodere gli aumenti di salario nominale) e poi deflattiva (per attaccare l’occupazione). Questa risposta portò ai contratti del 1966 con un tasso di disoccupazione più elevato ed un mondo del lavoro più debole. Nel 1969 la cosa diventa più complicata, c’è ancora un tasso di disoccupazione abbastanza significativo, eppure le lotte sono molto più forti e violente che all’inizio degli anni ’60, con contenuti molto più vasti e che toccano direttamente la stessa prestazione di lavoro. Le ragioni sono molte, ma fra queste ragioni c’è il fatto che la risposta italiana ai conflitti sociali di inizio anni ’60 fu una risposta che, come si disse all’epoca, si condensava in una «ristrutturazione senza investimenti». Questa realtà è stata già richiamata nella relazione di Giorgio Roverato, cioè la situazione per cui il padrone non investe ma spinge sui ritmi, sulla «saturazione dei tempi» e così via, rendendo ancora più vulnerabile il sistema produttivo fordista. Qui si dovrebbe aprire una parentesi sul rapporto tra fordismo e taylorismo: che non solo sono due cose diverse, ma non stanno in una relazione sequenziale per la quale dal primo si passerebbe al secondo quasi naturalmente e meccanicamente. Il fordismo non fu l’estensione del taylorismo, l’organizzazione scientifica del lavoro incorporata nella macchina. Il taylorismo in senso stretto fu in qualche modo un fallimento, perché rendeva trasparente lo sfruttamento (aumentava l’intensità di lavoro a tecnica data). È semmai il fordismo che vinse, e che poté recuperare dentro di sé alcuni dei principi di nuova organizzazione del lavoro di Taylor, ma anche di altri, perché cambiava il sistema organico di macchine (aumentava l’intensità del lavoro insieme alla forza produttiva del lavoro rivoluzionando il modo di produzione). In qualche misura la sequenza logica è opposta a quella cronologica. Questa digressione mi serve per dire che ciò che avviene a metà degli anni ’60 è semmai una regressione dal fordismo al taylorismo, con uno Stato che allora non risponde al conflitto se non in modo puramente reattivo e totalmente conservatore, salvo forse gli investimenti pub277 RICCARDO BELLOFIORE blici per l’industria nel Mezzogiorno e le «cattedrali nel deserto» della metà degli anni ’60. La regressione dal fordismo al taylorismo, la ristrutturazione senza investimenti, determinò una concentrazione della domanda di lavoro su particolari segmenti che rese particolarmente vulnerabile quel modello produttivo. Dovrei certo fare un discorso ben più articolato, ma ridotta ai minimi termini la mia posizione è la seguente. Il caso italiano della fine degli anni ’60 è una situazione per certi versi più arretrata rispetto ad altrove, ma proprio per questo rende più trasparente quello che sta succedendo su scala globale nel capitalismo avanzato. Il fordismo-keynesismo è stato caratterizzato da una gestione della domanda di tipo statale, in parte di keynesismo militare, in parte di sostegno generico della domanda che ha esteso l’area del lavoro non direttamente produttivo di valore. Tutto ciò richiede un aumento della tensione dello sfruttamento sui lavoratori direttamente produttivi di valore. È questo che incontra delle difficoltà crescenti dalla metà degli anni ’60 in poi. Conflitti sull’intensità di lavoro si verificano un po’ dappertutto, a partire dagli Stati Uniti della metà degli anni ’60. In Italia ciò assume un carattere decisamente estremo. Il film La classe operaia va in paradiso è la fotografia della condizione del lavoro di allora nella grande fabbrica. A questo punto permettetemi di leggere una citazione, da un’intervista del Corriere della Sera ad alcuni operai, registrata durante l’Autunno caldo del 1969 e mai pubblicata, e che fu resa disponibile da Pino Ferraris su Il Manifesto, in occasione del ventennale del 1968. Un operaio, Sergio Gaudenti, dice: «Io voglio spiegare i punti decisivi di queste lotte, gli scioperi selvaggi, la lotta contrattuale che la FIAT ha cercato di fermare sospendendo 30.000 operai» – cose che ritroviamo in interventi di questo convegno – «il padrone con il salario crede di comprare un operaio come si compra un chilo di mele: tu ti vendi e io ti pago, poi ti consumo come voglio. La mela la tagliuzzo, la lascio cuocere, la faccio marcire, la mordo. Il destino della merce è infatti quello di lasciarsi consumare. Ma l’operaio è una merce un poco speciale; non basta vendersi ad un buon prezzo, non vuole più lasciarsi consumare come piace al padrone. È una merce questa che vuole avere il potere di controllare ogni giorno il modo del suo consumo, per questo ora si fanno le lotte interne sul lavoro per il controllo operaio». È evidente la presenza di alcuni dei temi del 1968 come l’antiautoritarismo, l’autodeterminazione, in potenza l’egualitarismo, e potrei andare avanti. Questo rapporto, questa comunicazione tra 1968 e 1969 c’è, senz’altro e, secondo me, c’è in modo molto forte. Ma c’è anche qualcos’altro. Qualcuno ha parlato qui al convegno di «dignità del lavoro». In molte testimonianze si è ricordato che nel 1969 questo era un tema ricorrente. Ancora qui qualcuno ha ricordato che Gallino l’altro ieri su La Repubblica ha richiamato il concetto di lavoro «decente»; è un tema su cui il sociologo torinese insiste da molto tempo e giustamente. Ma la dignità del lavoro di cui stiamo parlando per il 1969 è qualcosa di diverso, o meglio è qualcosa di più. Perché il lavoro «decente» sta in qualche modo e in qualche misura in un’ottica (sacrosantamente) difensiva. 278 IL 1969 DEGLI ECONOMISTI Il punto è radicale. Il capitalismo, checché ne pensasse Marx, ha una intrinseca tendenza totalitaria. La democrazia, il rispetto delle persone, la non distruzione degli esseri umani e della natura, glieli si può imporre soltanto socialmente. Ma nell’intervista che vi ho citato c’è qualcosa di più: c’è la dignità del lavoro come controllo del lavoro sul lavoro, e come diretta espressione di potere. Questo colpisce al cuore la valorizzazione nei processi capitalistici di lavoro. Quel capitalismo in particolare ne viene ferito in modo mortale, ma qualsiasi capitalismo lo troverebbe intollerabile. In Italia credo che questo si sia visto più che altrove. Il fordismo-keynesismo va in crisi per tante cose, fra cui ci sono la guerra del Vietnam, la conflittualità intercapitalistica e così via; il problema è che però il necessario sostegno allo sfruttamento, alla valorizzazione, derivante da una crescente pressione sul lavoro vivo, a un certo punto viene meno. In quella citazione impressiona anche la semplicità con cui si coglie la lezione di Marx, quel Marx per cui il capitalismo è quel rapporto sociale in cui al capitalista interessa la forza lavoro come merce, perché il suo uso è il lavoro vivo, il lavoratore vivente a cui quella merce è attaccata è un accidente; ma purtroppo la forza lavoro è appiccicata ad un corpo, e il lavoro vivo è l’attività di quel lavoratore anche dopo che ha alienato la capacità lavorativa. Nel momento in cui il lavoratore riesce a far valere, come figura sociale, che la forza lavoro e il lavoro sono anche suoi, che come venditore di quella merce è interessato a cosa se ne fa, questo è un bel problema per il capitale. Per quanto riguarda gli intellettuali, qual era la cultura del 1968, e come il 1969, questo lungo ’69, modifica il quadro? Il ’68 come cultura ha essenzialmente dietro di sé la Scuola di Francoforte, la critica all’imperialismo, il terzomondismo. La classe operaia non è un soggetto rivoluzionario. Gli studenti, più o meno in tutto il mondo, stanno dentro questa cultura, ma contraddittoriamente e un po’ astrattamente si riferiscono alla centralità dei lavoratori. Nel 1969 questa centralità comincia a vedersi davvero, e in Italia ciò accade persino più velocemente di quanto gli studenti si attendessero. Cosa si deve fare, allora? Questa è la questione che inevitabilmente si pose. Confesserò che il problema per me non è il 1968, il problema sono i «sessantottini». I «sessantottini» hanno vissuto il ’68, poi hanno fatto l’intervento nelle fabbriche, la fase che va dal 1969 al 1976-77. Dopo, dal 1978 in poi, come storici o nelle loro memorie, hanno spesso lamentato l’innocenza perduta. Il ’68 era buono, il ’69 forse, dopo abbiamo fatto dei disastri: questo è un po’ il giudizio che ne danno, ridotto ai minimi termini. Se non ho inteso male Flores, ma anche molti altri in questi due giorni, ci hanno detto che lo Stato non si è riformato. È mancato un riformismo radicale, è mancata la modernizzazione. Bisogna, oggi, difendere la Costituzione. Il problema è che le lotte del lungo 1969 hanno sicuramente prodotto riforme, ma queste non erano affatto riconducibili al riformismo. E allora la Costituzione era anche criticata: da sinistra, non da destra. In effetti un intervento ha mostrato che vi era una tensione nel richiamo a parti diverse della Costituzione, alcune rivendicate, altre contestate, e comunque il movimento reale 279 RICCARDO BELLOFIORE andava oltre quell’orizzonte giuridico. A ben vedere, in quegli anni abbiamo avuto la «classe senza Lenin» e «riforme senza (anzi contro il) riformismo». Quando emerge questo conflitto radicale, che meglio sarebbe chiamare antagonismo, quando viene al pettine questo nodo strutturale, dai protagonisti fu preso quello che si aveva a portata di mano, e nel peggiore dei modi. Qualcuno si reinventò anche Stalin. Altri si accontentarono della lotta alle rendite, fantasticarono di riforme del consumo e così via. Dopo il 1973 i giochi cominciano sostanzialmente a chiudersi. Si pone un problema di sbocco politico, di come rispondere a questa crisi strutturale, ma la coscienza che questa è la sfida non c’è e, se c’è, è alquanto rudimentale e marginale. Dal 1973 al 1975 c’è l’avanzata politica della sinistra. C’è anche una risposta del capitale, nella fabbrica e fuori dalla fabbrica, che è in grado di aggirare la forza operaia, con il decentramento, la svalutazione differenziata, la ristrutturazione tecnologica nella grande fabbrica. Abbiamo anche, dalla metà degli anni ’70, il punto unico di contingenza, che qui mi è parso molto criticato, e non ho capito bene perché. Il vero problema della scala mobile allora fu che, in un contesto in cui svalutazione e inflazione procedevano insieme, l’aumento nominale dei redditi dei lavoratori faceva aumentare le imposte a loro carico; questo consentì di aumentare la spesa pubblica mantenendo il bilancio pubblico in pareggio: una spesa pubblica che sostenne potentemente, direttamente e indirettamente, quella ristrutturazione che andava segando il tronco dell’albero su cui poggiava la forza operaia. È per questo che dalla metà degli anni ’70 in poi siamo dentro una fase di modificazione radicale della composizione di classe gestita dall’alto, dalla politica economica. Molte altre sono le questioni che dovrebbero essere affrontate, ma mi limito ad aggiungerne una sola. Si è molto parlato in quegli anni di «centralità operaia», ma c’è un paradosso che va sottolineato. In quegli anni le lotte dichiarano la indisponibilità del corpo dei lavoratori. Sono lotte che pongono in modo radicale temi come quello della salute, del rispetto dell’ambiente. La centralità del lavoro non è la centralità dell’industria, intesa all’interno di una logica produttivista. È in un certo senso una centralità del lavoro contro la centralità della produzione. Anche se la coscienza di tutto ciò non fu del tutto limpida, questo era il nodo. Dalla fine degli anni ’70 in poi, la controffensiva capitalistica non si gioca solo sul terreno della ristrutturazione e della politica economica. Vi è anche il fatto che la soggettività del lavoro viene contestata all’interno stesso dei movimenti. La questione «verde» e la questione di genere non solo rivendicano una loro specificità, ma si separano dalla questione del lavoro, e in qualche modo si pongono contro la tradizione del movimento operaio (è un fatto, per esempio, che la questione del genere fu poco presente, e in questo stesso convegno è stata presente solo in un intervento). È stata un’occasione mancata per un incontro, perché il problema assolutamente nuovo e inedito che la centralità del lavoro in quegli anni avanzava era quello di lotta contro lo sfruttamento che fosse insieme lotta contro la centralità 280 IL 1969 DEGLI ECONOMISTI della produzione. Una centralità degli operai dentro le lotte contro la valorizzazione, certo, ma una pari dignità nel blocco sociale alternativo. È un tema che attende di essere ripreso, in condizioni molto più difficili. Adesso i lavoratori dipendenti sono frantumati, e in questa frantumazione si deve pur essere capaci di ricostruire una connessione e una ricchezza, uscendo dal sogno di ripetere vecchi moduli. Dentro le imprese che stanno in rete, il destino dei lavoratori dei moduli più avanzati non è più davvero separabile dai tronconi più deboli della catena transnazionale dell’impresa o dal destino dei lavoratori migranti. La ricostruzione del soggetto sociale «lavoro» nella sua articolazione, fuori da un orizzonte «lavoristico», è una sfida che abbiamo ancora davanti ed è una delle eredità irrisolte degli anni ’70. 281 Postfazione I giovani e l’Autunno caldo quarant’anni dopo di Matteo Baragli Si narra che nel maggio parigino il maturo Jonesco, infastidito dalle manifestazioni studentesche nei viali sotto la sua abitazione, si fosse affacciato alla finestra ed avesse gridato l’invettiva: «Diventerete tutti bancari!». La profezia si rivelò in parte sbagliata, ma evidenziava la differenza di prospettive che corre, ieri come oggi, fra chi «fa movimento» e chi lo osserva. E proprio questo è l’interrogativo che ci poniamo al termine di questo volume: come guardano a quegli anni coloro che non li hanno vissuti? E in particolare: cosa pensano e cosa sanno i giovani, oggi, di quegli eventi? Che sia difficile «leggere» e «trasmettere» il biennio 1968-69 da una generazione all’altra, aprire sull’evento una discussione sensata fra chi lo ha vissuto e chi è venuto dopo, è innegabile. Non aiutano la mitizzazione del movimento studentesco o operaio, né il revival dei simboli, delle musiche e degli slogan che assumono la forma ciclica del gusto, non quella della consapevolezza storica, e non favoriscono quindi un dialogo fra generazioni diverse. Piuttosto che di memoria degli «anni ’68» sarà quindi opportuno parlare di «rappresentazioni» che i giovani hanno di quegli eventi, dai quali emergono due tratti: l’uno legato alla rievocazione, in termini mitici, del gesto libertario e trasgressivo, dell’affermazione ideale e dell’inseguimento del sogno; l’altro che si condensa nel sentimento del disinganno e nella consapevolezza dell’irripetibilità di un tempo in cui pure sarebbe piaciuto vivere. Un recente lavoro di Michele Grossi studia le modalità con cui i manuali di storia delle scuole superiori affrontano il 1968. L’esposizione è di norma affrontata con un taglio nozionistico e storico-politico, inserita nei capitoli relativi allo scontro bipolare Est-Ovest o alla storia politica dell’Italia repubblicana negli anni ’60 e ’701. Nei testi scolastici è poi generalmente trascurato l’aspetto antropologico-culturale, cosicché la conoscenza dell’evento ’68 risulta assai parziale. 1 M. Grossi, Insegnare la storia del 1968 nella scuola media superiore: storiografia, manuali, strumenti multimediali, tesi di laurea in Scienze dell’educazione, Università degli studi di Bologna, aa. 20012002. Ringrazio l’autore per avermi messo a disposizione il testo e il dossier didattico. 283 MATTEO BARAGLI Difficilmente il giovane lettore vi è coinvolto, vi sono per lo più assenti quelle fonti e quelle riflessioni (sui simboli, le musiche, i testi delle canzoni e le memorie dei protagonisti) che potrebbero appassionare lo studente e proiettarlo «in empatia» con i giovani che hanno vissuto l’evento, in modo tale che inizi un percorso di ricerca, di comprensione delle cause, del perché di certe scelte, che renda lo studente di oggi protagonista del processo di apprendimento2. Paradossalmente quindi, per i liceali, la maggior difficoltà consiste nel cogliere proprio l’elemento generazionale, culturale, di spinta dal basso che accomunò i diversi movimenti di protesta e ne costituì l’innesco. Esperienze alternative non mancano: esistono moduli didattici, strumenti didattici multimediali, ipertesti e ipermedia destinati e in alcuni casi prodotti dagli stessi studenti3; ciò non toglie che l’argomento «1968 - Autunno caldo», svolto per di più negli ultimi mesi dell’ultimo anno scolastico, a ridosso dell’esame di Stato, sia nel complesso insegnato piuttosto male. La didattica del biennio 1968-69 risente poi certamente della difficile condivisione che si cominciò ad avvertire già negli anni immediatamente successivi. Basti ricordare che la difficoltà di comunicazione tra i militanti «che avevano fatto il ’68» e quelli più giovani fu già un’esperienza dilacerante per i gruppi italiani della Nuova sinistra a partire dal 1972-73. Da allora la sensazione di avere a che fare con una «storia separata», che riguarda solo una parte limitata della società, si è rinnovata sempre più. Lo sforzo di storicizzazione da parte di alcuni studiosi ha prodotto importanti contributi di riflessione e di approfondimento, ma le ricorrenti iniziative intraprese anche in occasione dei decennali da molti vengono percepite come sterili autocelebrazioni di una generazione che, in fondo, non avrebbe poi molto di cui vantarsi4. Nonostante tutto ciò il dibattito sul biennio 1968-69 è ancora molto vivo – ciò che qui interessa notare – fra i giovani e gli studenti, come dimostrano i forum e le discussioni che si sviluppano durante le occupazioni e le autogestioni nei licei, i dibattiti a margine delle lezioni universitarie. Qualche anno fa, all’Università di Firenze, Paul Ginsborg, docente di Storia dell’Europa contemporanea, tenne proprio un bellissimo corso monografico sul biennio 1968-1969. Benché le lezioni si svolgessero nella vasta aula magna del Dipartimento, una folla incontenibile di studenti si assiepava ad ogni lezione ai piedi della cattedra ed in terra tutto torno torno le pareti. Al termine del corso – fatto abbastanza inconsueto – dopo che il professore ebbe letto le date degli appelli estivi, scattò, improvviso, un applauso di ringraziamento; un gruppo di studenti lottò contro le restrizioni materiali e mentali della direzione del Dipartimento per avere le 2 Ivi, pp. 49-94. Ivi, pp. 95-114. 4 P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1988 (II ed. 1998); A. De Bernardi, M. Flores, Il Sessantotto, il Mulino, Bologna 1998; 1969, la parola, le interpretazioni, le storie, i luoghi, i modelli, n.s. Parolechiave, n. 18, 1998. 3 284 I GIOVANI E L’AUTUNNO CALDO QUARANT’ANNI DOPO attrezzature necessarie per gestire un cineforum sul 1968. Il corso fu costantemente accompagnato dalla partecipazione degli studenti e la discussione più appassionata verteva proprio sull’eredità e gli esiti di quella stagione, che il professore giudicava storicamente sconfitta. Noi invece continuavamo ad andare agli esami con un’opinione diversa sul «biennio rosso ’68-69», sostenendo che i risultati, sedimentati nel tempo, non erano così irrisori. Il professore argomentava che il fallimento storico ed epocale della visione del ’68 era ammesso da altre scienze sociali5 ed anche in interventi più recenti è nuovamente tornato a precisare la propria linea6, che trova diversi punti di contatto con le posizioni di coloro che, come Marcello Flores in questo volume, evidenziano come il ’68-69 italiano abbia avuto, fra le proprie peculiarità, anche quella degli scarsissimi effetti politici. Ma gli studenti insistevano nel negare che si trattasse di un fallimento storico, ed il professore terminava gli esami domandando, sempre più incuriosito: ma secondo te il ’68 ha vinto o ha perso? La posizione prevalente fra noi studenti era quella della «sedimentazione positiva», separando in pratica le motivazioni ideologiche dei soggetti storici dai risultati conseguiti nel medio-lungo periodo. Certo, argomentavamo, è difficile negare che se si misurano gli esiti a partire dalle minacce o dagli intenti razionalmente o idealmente perseguiti (il «Cosa vogliamo? Tutto!» o «Agnelli, l’Indocina ce l’hai in officina!»), il progetto del movimento non si è realizzato. Ma esso, anche suo malgrado, ne aveva realizzati altri nella società, nei comportamenti collettivi, nei rapporti fra i sessi e così via. Una tesi fatta propria da Sidney Tarrow e sulla quale pare sostanzialmente concordare Vittorio Foa7. Anche Gian Primo Cella ha individuato nell’Autunno caldo un passo in avanti, come introduzione stabile del pluralismo, nella sua logica di azione e di rappresentanza, per consolidare il cammino ed il progresso degli assetti liberal-democratici8. Un 1968 che «non si scusa, ma accusa» emerge dalla Lettera a mio figlio sul Sessantotto di un leader non pentito come Mario Capanna, un libro destinato proprio alla giovane generazione protagonista della «Primavera dei movimenti» dell’inizio degli anni 2000. Capanna difende l’attualità di quegli anni che considera «un processo di formazione inestinguibile» e la rilevanza dei risultati conseguiti che, a suo avviso, le giovani generazioni possono vedere ancora oggi e 5 Cfr. Tra modernismo e modernità. A proposito di Timothy J. Clark. Interventi di Paul Ginsborg, Alberto M. Banti, Marco Fagioli, in Passato e Presente, n. 70, 2007, pp. 15-34, a proposito di un modernismo risultato poi sconfitto dalla modernità neoliberista. 6 P. Ginsborg, I due bienni rossi: 1919-1920 e 1968-1969. Comparazione storica e significato politico, e Id., Conclusioni, in ABB - Fondazione Di Vittorio (a cura di), I due bienni rossi del Novecento, 19191920 e 1968-1969. Studi e interpretazioni a confronto, Ediesse, Roma 2006, pp. 34-35, 485-486. 7 S.G. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-75, Laterza, Roma-Bari 1990; V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino 1996. 8 G.P. Cella, Autunno caldo trent’anni dopo, convegno AIS-ELO, Università Cattolica, Milano, 16 aprile 1999. 285 MATTEO BARAGLI che ci parlano di un «Sessantotto [che] continua e continuerà a parlare». «Unica rivoluzione del Novecento non consumata», il biennio 1968-69 era una rivoluzione «di tipo nuovo»: «non la ‘presa del potere’, ma la presa di coscienza della necessità di essere diversi rispetto a chi detiene il potere: questo l’aspetto fondamentale»9. Il revival cinematografico del ’68, specialmente nel pubblico dei giovanissimi, pare confermarne la natura di movimento «sempreverde»: The dreamers di Bernardo Bertolucci (2003), La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (2003), I diari della motocicletta di Walter Salles (2004), Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti (2007), Che di Steven Soderbergh (2008), sono solo alcune fra le recenti pellicole che hanno riscosso grande successo fra i giovani, grazie anche ad attori sex-symbol come Gael García Bernal o Riccardo Scamarcio. Eppure, in quelle rappresentazioni cinematografiche, l’ottimismo pare conoscere alcune zone di ambiguità; è comune una persistente nota di nostalgia ed alla fine ciò che sembra prevalere è il mito romantico della sconfitta. Probabilmente, per le giovani generazioni, il solo aver dato luogo ad un movimento e ad una contestazione di tali proporzioni – indipendentemente dagli esiti – costituisce già un risultato mirabile. O forse, come direbbe ironizzando un mio amico ex preteoperaio della comunità di base di dom Franzoni, a San Paolo fuori le Mura, prevale nei giovani un «ottimismo della volontà e della fede», un «ottimismo escatologico». Ma il lascito dell’escatologia difficilmente può essere «pesato» in termini storici. Ed allora si riaffaccia il dubbio se non avesse infine ragione il professor Ginsborg a parlare di sconfitta. Se prendiamo in considerazione la sordità del sistema politico nei confronti dei giovani, tutto suggerirebbe che nulla sia cambiato: la nostra politica è probabilmente quella caratterizzata, ancora oggi, dalla maggior retorica della «giovinezza», ma – ahimè – anche dai minori indici di spesa (scuola pubblica, inserimento nel mondo del lavoro, investimenti per la ricerca ecc.). Dei giovani si rimprovera l’individualismo a fronte del solidarismo di allora, un sostanziale disimpegno politico e partecipativo contro un alto livello di partecipazione degli anni ’70, un vuoto di utopie e di progettualità in paragone alle istanze di cambiamento di quarant’anni fa. Ma quando i giovani, ogni tanto, si scollano dalla play-station e scendono in strada, la classe dirigente si mostra assai distratta o addirittura sprezzante, com’è avvenuto per il movimento dell’«Onda» di appena due anni fa. Nei giovani, sia giovani studenti che giovani operai, è stata individuata la spina dorsale del movimento del 1969. Le istanze di rinnovamento giovanili permisero di uscire, citando dall’intervento di Flores, non tanto organizzativamente, ma mentalmente, culturalmente e come valori, al di fuori delle università e delle fabbriche e di investire con le proprie problematiche, con le proprie istanze, con le proprie esigenze, con le proprie modalità di comportamento, 9 M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Baldini e Castoldi, Milano 2005 (II ed.), p. 175. 286 I GIOVANI E L’AUTUNNO CALDO QUARANT’ANNI DOPO tutta quanta la società. Ed in effetti, forse ancor più che la nascita di una vera e propria «cultura giovanile», l’effetto più significativo fu obbligare l’intera società ad interrogarsi ed osservare se stessa attraverso le domande che venivano poste dalla generazione più giovane. L’istanza di cambiamento fu affidata alla mediazione di una cultura politica troppo «vecchia» rispetto al mondo che era cambiato, che non riusciva ad elaborare un progetto politico autorevole nei confronti dell’intera società. Eppure sarebbe inesatto affermare che tutto ciò non produsse effetti. L’Autunno caldo, come pure il 1968 studentesco, si caratterizzò per una forte presa di coscienza generazionale che generò una fortissima cultura diffusa, una mentalità nuova, che maturò ed arrivò all’intera società. Essa, veicolata dalle giovani generazioni, non riuscì a divenire anche rinnovamento politico, ma contribuì, assieme all’egualitarismo elevato a perno di ogni discorso su diritti e salari, a ridurre ai minimi termini le distanze tra obiettivi «sindacali» e «politici». Parlare di Statuto dei lavoratori, di divorzio, di diritto di famiglia, di diritti delle lavoratrici, di movimento per la casa, di aborto non è parlar d’altro rispetto all’argomento di questo volume. Si sono riaffacciati cioè nella mentalità collettiva, nei comportamenti familiari e nel privato quelle tendenze al cambiamento ed alla trasformazione che sull’arena pubblica non erano riuscite ad imporsi. E non è un caso che le date delle conquiste nel campo del lavoro e dei diritti civili vadano finalmente di pari passo. Gli attori principali del movimento dell’Autunno caldo e del ’68, i giovani, come sostenuto nell’introduzione, ne furono non solo i protagonisti, ma anche i «fecondatori». I ragazzi del ’68 avevano acceso il cerino, ma erano marxisticamente consapevoli – e lo dimostravano coi loro volantinaggi agli ingressi delle fabbriche – che una rivoluzione «seria» non si sarebbe mai potuta fare senza la classe rivoluzionaria per eccellenza, il proletariato di fabbrica. Tornano qui in mente le perplessità di coloro che individuano le basi ideologiche dell’Autunno caldo più nell’Ottocento che nella situazione del 1969; e si comprende anche l’imbarazzo di Foa che giudicava una «contraddizione» la ricerca degli operai da parte degli studenti, quasi che «la casa fosse già pronta e che bastasse andarla ad abitare portandole un po’ di freschezza». In questo modo «straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero. In questo senso il Sessantotto, dopo aver fatto la critica più acuta al vecchio mondo, vi è restato dentro»10. Dunque, pare suggerire Foa, vi era da parte dei giovani una mitizzazione anche ingenua della funzione rivoluzionaria della classe operaia; ma tale convinzione si nutriva della fiduciosa convinzione che la sua direzione di marcia coincidesse con quella della storia. L’identità operaia era quindi caratterizzata da un’indiscussa capacità attrattiva e di creare cultura, di incidere sulla storia del paese e rappresentare, o almeno pretendere di farlo, l’intera so10 V. Foa, Questo Novecento, cit., pp. 307-308. 287 MATTEO BARAGLI cietà. Va da sé che anche l’identità operaia era frutto di costruzione, perfino di scontro rispetto alle sue naturali e storiche rappresentanze. Tuttavia il prestigio operaio era reale, tangibile anche in termini di successo con le ragazze, come ricorda un operaio torinese del quartiere popolare di Borgo Sanpaolo: i compagni «beneficiavano del mito dell’operaio massa, che faceva un gran colpo» sulle studentesse universitarie e liceali11. Ho provato a domandare (oggi, gennaio 2010) ad alcuni studenti di un liceo classico cosa sono per loro gli operai: si sono fatti ripetere la domanda, quasi non avessero capito bene. Mi hanno descritto una classe di vecchi, in via d’estinzione, degna di protezione e in ogni caso priva di attrattiva sulle loro aspettative future. Di operai, ed in genere dei lavoratori, hanno sentito parlare solo in relazione alla crisi economica, alla disoccupazione, alla precarietà degli impieghi, all’aumento della cassa integrazione, sempre in funzione «difensiva», quasi essi costituiscano una riserva indiana di Sioux, destinati a sopravvivere a se stessi rievocando i bisonti e le verdi praterie del passato. In un recente spot televisivo di una casa automobilistica tedesca, del resto, il processo di fabbricazione di un’auto pare un’avveniristica autocreazione, all’interno di una fabbrica priva di operai, con la macchina sospesa nell’aria all’interno di un prisma trasparente, mentre una musica fantascientifica ne accompagna l’auto-assemblaggio12. In effetti la modernizzazione di cui era portatore il movimento operaio della fine degli anni ’60 appare profondamente diversa da quella sognata dai giovani del 2009; allora era orientata verso la produzione industriale di massa, il lavoro fordista, col suo appello all’ordine ed alla disciplina. Mentre l’economia cresceva, cresceva anche il mito dello sviluppo industriale, con i suoi addentellati industrialisti che accomunavano, al di là dei contrapposti paesi guida a cui si guardava, tanto cattolici che comunisti. La modernizzazione che ha prevalso oggi, e che s’impone alle giovani generazioni, appare piuttosto intesa come trend rivolto al consumo ed alla liberalizzazione dei consumi, alla loro differenziazione, alla produzione griffata, diversificata piuttosto che seriale. Il 1969 condusse all’evidenza un’intensa e nitida identità operaia, un’identità oggi soggetta a decostruzione e non solo per il processo di destrutturazione e smagrimento delle grandi concentrazioni del lavoro dipendente, bensì per il fatto che i caratteri dell’identità nella società presente sono letti in negativo e per sottrazione. Quali sono i criteri per distinguere, oggi, i giovani lavoratori industriali dai loro coetanei impiegati nel terziario o studenti? Quali i caratteri distintivi che consentano, oggi, di riempire l’involucro che separava e distingueva l’universo operaio dal resto della società? Un tempo essi potevano essere indicati nella differenza nel modo di vita e nei consumi, poi per l’aura che la militanza e la mobilitazione sociale proiettavano, magari surrettiziamente, su coloro che facevano parte di questo mon11 12 P. Bricco, Quanti errori e amori in quell’autunno ’69, in Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2009. http://www.youtube.com/watch?v=CDnfoxm-kXI&feature=related. 288 I GIOVANI E L’AUTUNNO CALDO QUARANT’ANNI DOPO do. Oggi invece, come ha affermato Giuseppe Berta, «il modificarsi dei processi di lavoro, che sempre più rompono la dicotomia fra lavoro manuale e lavoro non manuale, la maggiore scolarizzazione degli addetti, la presenza più cospicua e avvertibile delle donne nelle fabbriche, l’allentarsi delle forme gerarchiche più aspre insite nelle nuove forme di organizzazione del lavoro sono fenomeni che si sono congiunti all’integrazione sociale nel determinare la progressiva obsolescenza di un’identità operaia sorretta dall’omogeneità e dalla coesione di massa»13. Forse l’affievolimento dell’identità operaia è il segno del successo rivendicativo di quelle istanze di eguaglianza e cittadinanza sociale, che finalmente hanno appianato le ragioni della differenza, della minorità, dell’esclusione sociale e civile del mondo del lavoro? O piuttosto non è stata la palma della vittoria di un capitalismo che è in breve riuscito a «digerire» ed integrare i suoi critici e ad annichilire la sua contestazione? Di fronte al rapido declino del movimento studentesco, l’innesto con il movimento del 1969 incrocia un terzo attore, che è il sindacato. Sul legame fra 1968 e 1969, si sa, le opinioni sono divergenti: c’è chi dice che non c’entra «niente» (Pierre Carniti), chi «un po’», chi «tanto» (Guglielmo Epifani). È opinione prevalente che il 1969 sia legato al 1968 dal momento che l’azione collettiva agì indubbiamente su spinta della base; ma fu il sindacato che, tentando di governarla, mise per così dire la farina necessaria all’impasto. Il sindacato, mostrando «notevole capacità di adattamento alle mutate condizioni» seppe, per usare un’espressione dell’epoca, «cavalcare la tigre», riprendendo gradualmente il controllo di un indistinto protagonismo di massa14. E lo fece, come nota Federico Mancini, rilegittimando nella spontaneità la propria egemonia. La spinta che partiva dalla base, dagli operai non qualificati, dal movimento dei delegati, vivificò un sindacato che, beneficiando di una parziale autonomia rispetto ai partiti, si comportò con intelligenza, rimodulando strategie, obiettivi e metodi di lotta, con un rinnovamento generazionale dei quadri e dei dirigenti, con una cooptazione dei giovani leader del 1969, esprimendo una classe dirigente di qualità e di cultura. Ma, come nota Emilio Reyneri, le contraddizioni tra movimento e logica organizzativa non erano scomparse. Più semplicemente, si erano trasferite all’interno del sindacato. E se è vero che nei decenni successivi il sindacato seppe guardare oltre i propri iscritti ed assumere responsabilità nazionali (la lotta al terrorismo, la politica dei redditi, la concertazione degli anni ’90), occorre ricordare anche che le resistenze, i ridimensionamenti ed i contraccolpi furono notevoli (il 1980, il 1985, i «bulloni» del 1992…). Oggi la situazione appare delicata, di divisione sindacale assai pronunciata; l’autorevolezza del sindacato odierno, si fa notare da parte di alcuni, pare radicata nelle procedure della concertazione più di quanto non lo sia nella sfera 13 G. Berta, A trent’anni dall’autunno caldo, in Il Mulino, n. 6, 1999, pp. 1096-1105. Citazione a p. 1100. 14 P. Ginsborg, Storia d’Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato, Einaudi, Torino 1998, p. 380. 289 MATTEO BARAGLI delle relazioni sociali. Anche questo è un lascito della forza conseguita dal sindacato a partire dall’Autunno caldo, che ha promosso il sindacato a soggetto politico riconosciuto nel sistema istituzionale democratico-repubblicano. Per contro è abbastanza scoperto il tentativo di ridurlo ad ente erogatore di servizi, o al massimo a soggetto negoziale cui concedere un minimo spazio politico – specialmente la politica concertativa – mentre si tende a soffocare la sua identità di soggetto attivo e dinamico, a cui certo non si riconosce il ruolo di cambiare la società a partire dal mondo dei lavoratori. Le critiche della stampa liberale, di ministri in carica o di ex sindacalisti come Giuliano Cazzola15 sono ben note ed anche nell’anno del quarantennale si sono fatte sentire; nell’Autunno caldo alcuni individuano opportunità storiche non colte16, altri errori epocali di cui ancora pagheremmo il prezzo17, o ancora un modello positivo a cui guardare in riferimento alle lotte del presente18. Guido Baglioni, sociologo vicino alla CISL, coglie forse nel segno laddove imputa al movimento dell’Autunno l’«elemento contro» di una certa sottovalutazione dei meccanismi propri del capitalismo. Esso era avvertito come «un barile senza fondo», un sistema che più o meno avrebbe sempre funzionato, disponendo di un’invisibile inossidabilità. Di conseguenza la questione della compatibilità fra rivendicazioni e realtà economica non sussisteva. Il tranquillo ottimismo sulla domanda di lavoro, sul problema dell’occupazione – vista, al pari del salario, come «variabile indipendente» – lasciava molto tiepidi riguardo alle necessità ed al rilievo delle funzioni imprenditoriali così come, occorre pur dirlo, riguardo al riconoscimento della legittimazione e delle funzioni della controparte (il capitale di rischio, l’imprenditore, il management, la competitività, l’efficienza)19. Ma prendere sotto piede queste dinamiche, lo si è capito poi, era come fare i conti senza l’oste. E l’oste i suoi conti sapeva farli molto bene: il capitalismo, simile all’Idra di Lerna, è rispuntato con due teste laddove il movimento dell’Autunno caldo pensava d’averlo decapitato. Il gigante, per usare un’immagine icastica, «ha imparato a ballare»20, dimostrando così, come direbbe Giorgio Ruffolo, che il capitalismo non ha i giorni, bensì i secoli contati. La corsa degli imprenditori al decentramento produttivo, alla demassificazione del lavoro, alla sua segmentazione, alla ristrutturazione del modo di pro15 G. Cazzola, L’eredità del 1969. Il sindacato ieri e oggi, in Il Mulino, n. 6, 1999, pp. 1106-1117. Cfr. la riflessione sull’eredità dell’operaismo, con l’intervista a Steve Wright in Il Manifesto, 8 febbraio 2009. Si veda anche S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008. 17 P. Bricco, Quanti errori e amori in quell’autunno ’69, cit. 18 Cfr. l’intervista a Sergio Cofferati di Riccardo Gianola, Come nel ’69 il mondo del lavoro deve difendere i suoi diritti, in L’Unità, 12 settembre 2009. 19 G. Baglioni, La cometa dell’autunno caldo, in Il Mulino, n. 4, 2000, pp. 697-705, ora in Id., Fare sindacato oggi. La regolamentazione della diversità, Edizioni Lavoro, Roma 2004, pp. 180-190. 20 L’integrazione delle critiche, l’assimilazione capacità metamorfica e la sua abilità nel reinventare nuovi «spiriti capitalistici» sono l’oggetto del volume di L. Boltanski, E. Chiapello Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999. 16 290 I GIOVANI E L’AUTUNNO CALDO QUARANT’ANNI DOPO durre hanno trasformato visibilmente il volto del mondo industriale. Come dire che l’Autunno caldo ha influenzato in maniera diametralmente opposta l’impresa e il sindacato. L’impresa è corsa a liberarsene al più presto col ricorso a tutte le risorse che davano le nuove tecnologie applicate alla produzione. E mentre si avviava verso un sistema di produzione post-industriale il sindacato induriva il suo background industrialista, persuaso che esso fosse un elemento costitutivo del suo codice genetico anziché un prodotto della storia. Si è andato così delineando, come efficacemente ha descritto Umberto Romagnoli, un capitalismo in cui l’industria è meno centrale, anche se non meno essenziale. Un mondo in cui «il lavoro si declina al plurale, erodendo le basi materiali del predominio politico e culturale del lavoro salariato a tempo pieno e indeterminato nelle macro-strutture della produzione standardizzata, ossia delle tute blu dell’epoca fordista, e l’operaio-massa inchiodato alla catena di montaggio è la figura-simbolo di un universo che tramonta»21. Il capitalismo rinnovava se stesso all’insegna della flessibilità e della diversificazione, ma la traiettoria sindacale faticava ad accorgersene, come se – è l’amaro commento di Aris Accornero – alla nave fosse stato inchiodato il timone. E siamo così, nuovamente, all’oggi. Una recente ricerca condotta dall’IRES su commissione del Dipartimento per le Politiche giovanili della CGIL ha tentato di fotografare la situazione lavorativa dei giovani ed il loro rapporto col sindacato22. Nel 1969 proprio i giovani operai erano quelli che meno conoscevano la logica organizzata e meno delegavano al sindacato la propria rappresentanza. Non senza visibile impaccio, il sindacato cercò di cavalcare la protesta popolare, con una base che continuava a parlare per conto suo senza farsi intimidire dal suo prestigio. Ne contestava la lontananza dai suoi bisogni primari, in particolare in merito alle condizioni, ai ritmi, ai diritti del lavoro. Oggi la situazione non è molto diversa. Ma il principale motivo di contestazione – rivela la ricerca – è divenuta la precarietà, che si fa non più solo condizione contrattuale, ma dimensione esistenziale di insicurezza e incapacità nell’immaginare il proprio futuro. Circa l’80% dei giovani si dichiara oggi pessimista rispetto alle prospettive di carriera, mentre le classi d’età medie percepiscono la propria situazione come peggiore rispetto a quella dei loro genitori (il 60% fra i 33-40enni). Inoltre la metà dei trentenni dichiara di non sapersi immaginare la propria condizione economica di vita futura. Sono specialmente i giovani, impiegati nel terziario avanzato, nei call-center, nel settore delle forniture e dei servizi a sperimentare status professionali incerti, carriere lavorative frammentate e con un forte tasso di disoccupazione, fatte di rapide ascese, ma anche bruschi crolli, specialmente nell’ultimo decennio. Il lavoro precario ob- 21 U. Romagnoli, L’autunno caldo prima e dopo, in Il Mulino, n. 6, 2009, pp. 940-950. M. Carrieri, A. Megale, P. Nerozzi, L’Italia dei giovani al lavoro. Sicurezza, tutele e rinnovamento del sindacato, Ediesse, Roma 2006, con prefazione di Guglielmo Epifani. 22 291 MATTEO BARAGLI bliga a fasi di transizione fra un impiego e l’altro, periodi di disoccupazione non coperti, un accesso alla cittadinanza tramite il lavoro che diventa a singhiozzo. Ciò determina tutta una serie di effetti a cascata che colpiscono soprattutto la classe di età più esposta: quella appunto dei giovani o giovanissimi. Sono loro che manifestano un maggior tasso di insoddisfazione per il proprio impiego, soprattutto quando il lavoratore precario è un giovane qualificato, con alto livello di istruzione e di specializzazione. Le scarse tutele ed il basso livello di reddito sono pure particolarmente gravi fra i giovani che, in quanto precari, denunciano un reddito inferiore ai lavoratori più anziani, i quali, pur possedendo un titolo di studio più basso, in quanto titolari di lavori a tempo indeterminato, fruiscono di salari più consistenti. Il livello di insoddisfazione rivela peraltro che il part-time non è scelto, ma imposto come forma di lavoro; il carico di lavoro per contro non è sostanzialmente minore rispetto ai lavoratori con orario pieno, obbligando così a un’accelerazione dei ritmi, condensando molto lavoro in poco tempo. Non è un caso quindi che alla domanda «vorresti che il tuo lavoro fosse…?», il 56,2% dei lavoratori a tempo determinato risponda: «vorrei che fosse più stabile» e così il 49,8% degli atipici. I lavoratori già stabili invece vorrebbero un lavoro più pagato o meno stressante. La stabilità è quindi, fra i giovani, l’aspirazione più diffusa, tanto che solo chi già ce l’ha può permettersi il «lusso» di aspirare ad un lavoro meglio pagato o meno stressante. Interrogati sulla flessibilità, però, i giovani danno un giudizio, se si vuole, più complesso o più maturo di quello che ci attenderemmo: essa solo per il 9,4% è un’opportunità; per il 34,5% è causa di insicurezza. Ma il 21,2% accetta la flessibilità purché limitata ad una sola fase della propria vita ed il 34,9% la ritiene un’opportunità se coniugata a maggiori diritti e tutele. In particolare fra i collaboratori ed i lavoratori a progetto la flessibilità viene percepita come un’opportunità, purché inserita all’interno di un sistema di tutele e circoscritta al periodo di inserimento nel mondo del lavoro. Vivere la flessibilità e sperimentarne concretamente gli effetti induce nei giovani una visione meno ideologica, valorizzandone ad esempio alcuni aspetti non negativi, come la maggior disponibilità di tempo libero; chi deve fare i conti con la flessibilità nella vita quotidiana, insomma, sviluppa meccanismi di adattamento e accettazione utili a sopportarla meno faticosamente. Il lavoro precario riduce di conseguenza, fra i giovani, il tasso di iscrizione ai sindacati: fra i giovanissimi è iscritto solo il 22,9%; fra i 25 e i 40 anni lo è il 44,7%; fra i 41 e i 48 anni il 65,5%; fra gli over 50 il 73,6%. Inoltre fra i giovani si riscontra la quota più elevata di ex iscritti (6,4% giovanissimi, 5% fra i giovani, 3,4% fra i trentenni e 0,8% fra i quarantenni). Ed anche questo dato registra la delusione da parte dei giovani rispetto alle capacità del sindacato di dar voce alle proprie esigenze. Emerge quindi la difficoltà del sindacato di intercettare gli atipici, ma emerge anche la difficoltà di dare rappresentanza e risposte efficaci a quei lavoratori. E tuttavia la realtà si dimostra più complessa della lectio facilior che descrive i giovani come totalmente disinteressati al movimento sin292 I GIOVANI E L’AUTUNNO CALDO QUARANT’ANNI DOPO dacale. Più che la sordità del sindacato, sembra pesare la distanza, fisica ancor prima che mentale, del sindacato storico da un mondo del lavoro che cambia, e che cambia in modo particolarmente accelerato per i più giovani. Il rapporto coi giovani lavoratori non si struttura perché l’insediamento organizzativo dei sindacati riesce a lambire solo in modo marginale i mondi produttivi nei quali si trovano i giovani lavoratori (piccole imprese, società di servizi, imprese fluide e immateriali, segmenti scorporati e decentrati di aziende maggiori). Per converso, da parte dei giovani, l’approccio con cui ci si volge al sindacato appare più pragmatico, legato ad aspetti materiali ed aziendali, alla capacità del sindacato di incidere positivamente sulla propria realtà di lavoro e meno identitario, meno disponibile all’adesione come appartenenza «politica». Concludo questa forse troppo lunga postfazione con il caso di due miei coetanei (Veronica, 25 anni, Federico, 28)23, impiegati a Pistoia presso il call-center Answer del gruppo Omega. Il gruppo Omega, come è ampiamente noto alle cronache economiche di questo inizio 2010, è andato in crisi nell’estate 2009, lasciando i miei due giovani intervistati, insieme a tutti i loro colleghi di Agile, Phonemedia, ex Eutelia, senza stipendio da ormai 5 mesi. Dall’ottobre 2009, i 560 lavoratori della Answer di Pistoia, assieme ai circa 2.000 del gruppo Omega sparsi per l’Italia, sono entrati in sciopero, che si è trasformato a novembre in assemblea permanente, con occupazione dell’edificio sede del call-center di Sant’Agostino24. La loro lotta, avevo letto sui loro blog, è coordinata dallo SLCCGIL e mi è parso giusto chiudere il mio articolo domandando loro – che sulla loro pelle stanno conducendo una battaglia difficilissima – cosa pensano del sindacato e, dopo quarant’anni, della stagione di lotte del 1969. La vicenda del capitalismo finanziario appare difficilmente intelligibile a chi è abituato a ragionare con le categorie del 1969: la precarietà, oggi, non è più solo nel lavoro, ma anche del lavoro, fatto di terziarizzazioni, appalti, frantumazioni, affidamento a terzi, scatole cinesi, società con un euro di capitale ma centinaia di lavoratori alle proprie dipendenze. E sul ruolo del sindacato la risposta è abbastanza netta, e lascia un po’ spiazzati: «CGIL e CISL vanno dalla parte dell’azienda». I confederali, spiega Veronica, che pur non essendo né estremista né attivista politica ha apprezzato nella sua vicenda l’azione dei CUB, sono apparsi come gruppi a cui appoggiarsi per ottenere una sponda di negoziazione con le istituzioni e con la dirigenza, ma le idee ce l’hanno i lavoratori: «Se non ci muovevamo noi…». Mi spiega: sebbene le preoccupazioni dei lavoratori fossero vive fin dal luglio 2009, quando la Answer Spa fu acquisita da Omega, i lavoratori hanno cominciato ad apprezzare il lavoro della CGIL solo a novembre, un mese dopo che le maestranze avevano proclamato lo sciopero. Da 23 Ringrazio Veronica, Federico e Gianluca per la chiacchierata, avvenuta a Pistoia il 13 gennaio 2010. 24 Sulla vicenda, ancora in corso, cfr. il blog http://call-center-pistoia.blogspot.com/ e la rassegna stampa http://www.rassegna.it/tag/answers-pistoia. 293 MATTEO BARAGLI parte dei lavoratori c’era consapevolezza della situazione di Omega fin dal momento dell’acquisto; tutti sapevano che il fratello di Liori era già stato condannato25, soggiunge Federico, ma i sindacati non sono intervenuti. La CISL poi, sorride Veronica, è proprio al di fuori di tutto: si è vista per la prima volta in azienda solo all’assemblea permanente, dicendo che non dovevamo assolutamente occupare, che piuttosto dovevamo fare uno sciopero a scacchiera: «Cioè, ti rendi conto? Era quello che avevamo fatto fino a quel momento!». E ride. Federico, che proprio in questa vicenda si è iscritto alla CGIL (ma principalmente per non pagare la vertenza, confessa), corregge un po’ il tiro, e riconosce l’importanza di avere una sponda istituzionale. È grato alla CGIL per aver assistito l’ingiunzione di pagamento che 128 lavoratori hanno singolarmente presentato al tribunale di Pistoia; ciò ha permesso di ottenere due mensilità arretrate direttamente dalle imprese committenti, tramite un accordo fra ENEL, che aveva una importante commessa, Regione Toscana e Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia. Eppure anche lui giudica il sindacato poco incisivo, a tratti evanescente, rigido sui principi di politica sindacale, ma poco incline all’ascolto della situazione dei lavoratori, ad interpretarne la rabbia, ad organizzarne la lotta. «A che vale insistere con la dirigenza della società per stipulare cento contratti a tempo indeterminato ad ottobre – mi dice – quando noi già eravamo senza stipendio?» Da parte della città, c’è stata una grande risposta alla nostra crisi, dice Veronica, elencando le iniziative di solidarietà e di sostegno. Il vescovo di Pistoia monsignor Mansueto Bianchi si è recato due volte a dire messa fra i tavoli del call-center; le scuole, le aziende, la Camera del lavoro, il Comune hanno contribuito al fondo di solidarietà. Fra i lavoratori in sciopero si è creato un clima di convivenza: dormono, mangiano assieme ed il rapporto coi colleghi è sereno: «Non è bello andare in azienda e giocare a carte, per cui evito – dice Veronica. – Ognuno se la vive come gli pare. C’è circolazione, c’è ricambio fra chi occupa e chi sta a casa», ma l’esperienza serve a crescere. Federico confessa di avere riconsiderato il ruolo del lavoro nella propria vita. Già non gli piaceva in partenza, prima della crisi. «E del resto come può piacere ad un ragazzo di 28 anni un impiego in un call-center – mi spiega – ripetitivo, alienante, schematico, facile da fare, ma stancante, stancante di testa?». Lo si fa per avere dei soldi, ma finisce lì. La vita è fuori: fuori ci sono gli amici, la musica, la sua associazione culturale, la possibilità di fare qualche lavoretto in nero, ad esempio nel giardinaggio, dove si sta all’aria aperta, senza la caporeparto 25 Arcangelo Liori fu condannato nel 2005 per bancarotta fraudolenta, patteggiando un anno e otto mesi di carcere. Cfr. la lettera di Liori al presidente del Consiglio Berlusconi e, soprattutto, i commenti dei lavoratori in http://www.wikio.it/article/lettera-aperta-presidente-silvio-151368719. Sugli spaventosi curricula di Marcello Massa, amministratore delegato unico delle società Agile, Omega, Libeccio e Omega Finance, e di Sebastiano Liori, consigliere di amministrazione e vicepresidente di Omnia Network Spa e direttore commerciale di Agile cfr. Il Fatto, 24 ottobre 2009, e Il Mondo, 9 ottobre 2009. 294 I GIOVANI E L’AUTUNNO CALDO QUARANT’ANNI DOPO che ti controlla, e sei libero di pensare… Muta, mi pare di cogliere, la concezione della centralità del lavoro nella formazione dell’identità, della coscienza civile e sociale, del ruolo primario nel formare gli orientamenti dei giovani. Una rimozione, questa, certo aiutata dall’ostracismo che le tematiche del lavoro hanno sui mezzi di comunicazione di massa, nelle imprese, nella cultura dominante. Ma anche dalle delusioni concrete, dalle mancate risposte alle aspirazioni di carriera, alle aspettative di futuro. Certo si prova un qualche sconcerto nel vedere che la retorica secondo cui la maggiore qualificazione della forza-lavoro possa più facilmente conseguire il successo economico – individuale e collettivo – si scontra con una realtà in cui invece non si è in grado di assorbire o valorizzare adeguatamente la generazione più qualificata della storia europea neanche nelle proprie più elementari aspirazioni. La differenza fra giovani lavoratori ed i cinquantenni è talmente evidente da non meritare neanche più una denuncia. I coetanei di coloro che nel 1969 fecero l’Autunno caldo si trovano nell’impossibilità di rappresentare se stessi come lavoratori, piuttosto che come consumatori. Si arriva a trent’anni in una transizione permanente, in un processo formativo senza fine, in cui si accumulano qualifiche, master, specializzazioni, ma l’accesso al mondo del lavoro – in ogni caso precario e dequalificato – sembra allontanarsi ad ogni stadio sempre più. Ideologia e utopia, dicono le ricerche dei centri studi sindacali, cedono il posto a frustrazione ed angoscia individuale, che investono ormai anche i giovani delle classi medie, non solo delle banlieues o della classe operaia. Ne consegue una sensibilità che non è necessariamente antisindacale, ma è resa diffidente nei confronti di un sindacato avvertito, suo malgrado e nonostante gli sforzi di modernizzazione, come lontano e lento. L’incontro col sindacato è avvenuto, negli anni del liceo o nei primi anni di università, con le manifestazioni della primavera del 2002 (mio padre mi portò il 23 marzo 2002 al Circo Massimo con il pullman dei suoi colleghi), con la mobilitazione a fianco del movimento per la pace nel 2003, passando per i girotondi e le rivendicazioni per il diritto allo studio. Ma adesso la generazione che ha letto del ’68 solo su (noiosi) libri di storia, che non ha alcun ricordo né del muro di Berlino né di Tangentopoli, che ha cominciato a votare quando Berlusconi era già saldamente al potere, è giunta ai «cancelli» del mondo del lavoro. Vi guarda attraverso, aspettandosi di vederlo per ciò che realmente è: siamo al postmoderno hic Rhodus, hic salta del capitalismo, del riformismo e del sindacato. Si tratta di costruire i frutti concreti di quella stagione, se l’Autunno caldo non è stato soltanto (la battuta è di Vauro, credo) «il frutto del riscaldamento climatico globale». 295 Le autrici e gli autori FRANCA ALACEVICH, Università di Firenze. LUCA BALDISSARA, Università di Pisa. MATTEO BARAGLI, perfezionando nella Scuola Normale di Pisa. RICCARDO BELLOFIORE, Università di Bergamo. LORENZO BERTUCELLI, Università di Modena. FRANCO CARNEVALE, medico e storico della Medicina del lavoro. PIETRO CAUSARANO, Università di Firenze. GIAN PRIMO CELLA, Università di Milano. CHRISTIAN DE VITO, ricercatore free lance. LUIGI FALOSSI, pensionato metalmeccanico, presidente dell’Associazione Biondi - Bartolini. MARCELLO FLORES, Università di Siena. PAOLO FRANCO, segretario nazionale della FIOM in pensione. PAOLO GIOVANNINI, Università di Firenze. ANTONIO LETTIERI, presidente del CISS. FABRIZIO LORETO, Università di Teramo. MARIA PAOLA MONACO, Università di Firenze. STEFANO MUSSO, Università di Torino. FRANCESCO PETRINI, Università di Padova. GIORGIO ROVERATO, Università di Padova. ANDREA SANGIOVANNI, Università di Teramo. CATIA SONETTI, insegnante, presidente dell’Istituto Storico della Resistenza di Livorno. 325 Indice dei nomi Accornero, Aris, 38, 146, 188, 291 Acquaviva, Gennaro, 191 Adorno, Theodor W., 162 Agnelli, Gianni, 65, 66, 67, 68, 146, 274, 285 Alacevich, Franca, 17, 19, 23, 85, 89, 95, 159, 297 Alasia, Franco, 164 Alasia, Gianni, 187, 219 Alberighi, Mario, 178 Alberoni, Francesco, 192 Alfano, Angelino, 31 Alinei, Mario, 201 Althusser, Louis, 202 Amendola, Giorgio, 80 Andreoli, Vittorino, 174 Andrews, Janice, 168 Annibaldi, Cesare, 64, 67, 68, 220 Anselmi, Sergio, 143 Antoniello, Donato, 213 Antonioli, Maurizio, 221 Apostoli, Pietro, 114 Arrighetti, Alessandro, 61 Arrighi, Giovanni, 61 Arru, Angiolina, 262 Artières, Philippe, 168 Asproni, Paola, 38 Assennato, Giorgio, 122 Attorresi, Ines, 66, 68 Audisio, Michel, 163 Avonto, Giovanni, 38 Baglioni, Guido, 20, 37, 45, 125, 206, 290 Bagnara, Sebastiano, 113, 118, 122 Bagnasco, Arnaldo, 205 Bairati, Piero, 224 Balbo, Laura, 187, 189 Baldacci, Massimo, 186 Baldissara, Luca, 24, 59, 71, 161, 221, 297 Baldissera, Alberto, 146 Balducci, Ernesto, 165 Balestrini, Nanni, 108, 187 Ballone, Agostino, 201 Banti, Alberto, 285 Baragli, Matteo, 15, 17, 283, 297 Barbagli, Marzio, 189 Barile, Giuseppe, 100 Basaglia, Franco, 162, 166, 168, 174, 269 Bassignana, Pier Luigi, 208 Bassolino, Antonio, 253 Baussano, Giancarlo, 162 Bellocchio, Alberto, 39 Bellofiore, Riccardo, 15, 23, 59, 275, 297 Bendix, Reinhard, 85 Bentivegna, Rosario, 106, 117 Benvenuti, Antonio, 199 Benvenuto, Giorgio, 40, 132, 216 Bergamaschi, Myriam, 100, 221 Berggren, Lars, 100 Berlinguer, Enrico, 145 Berlinguer, Giovanni, 115, 116, 122 Berlusconi, Silvio, 34, 294, 295 Bernal, Gael Garcia, 286 Bernardi, Lorenzo, 196 Bernat de Celis, Jacqueline, 163 Bersani, Pier Luigi, 259 Berta, Giuseppe, 63, 64, 66, 97, 100, 144, 208, 212, 220, 221, 289 Bertazzi, Pier Alberto, 103 327 INDICE DEI NOMI Berti, Lapo, 59 Bertolucci, Bernardo, 286 Bertoni Jovine, Dina, 189 Bertucelli, Lorenzo, 21, 41, 47, 49, 52, 53, 54, 143, 144, 145, 149, 198, 214, 297 Betti, Carmen, 202 Bianchi, Herman, 177 Bianchi, mons. Mansueto, 294 Bianchi, Sandro, 53 Bini, Giorgio, 170 Biocca, Marco, 122 Blok, Gemma, 168 Bobbio, Luigi, 202 Bocca, Giorgio, 139, 140 Bodini, Laura, 122 Boltanski, Luc, 23, 290 Bonazzi, Giuseppe, 212, 220 Bonelli, Franco, 60 Bongiovanni, Bruno, 214 Boni, Piero, 38 Borghi, Bruno, 165 Bouchard, Tito, 200 Boullant, François, 168 Bourdieu, Pierre, 201, 202 Boursier, Giovanna, 269 Bozzini, Federico, 62, 86 Braga, Alfonso, 148, 149 Braghin, Paolo, 189 Bratina, Darko, 58 Brežnev, Leonid, 33 Bricco, Paolo, 288, 290 Briziarelli, Lamberto, 117 Brodolini, Giacomo, 91, 92, 133, 134 Brunetti, Giorgio, 224 Bruni, Attila, 164 Bruni, Luigi, 39 Brusco, Sebastiano, 62, 63 Buccarelli, Filippo, 157 Buechler, Steven M., 179 Butera, Federico, 113, 191 Cacioppo, Maria, 163 Cafagna, Luciano, 63 Calogero, Guido, 164 Camaioni Bocchini, Bruna, 165 Cambi, Franco, 186 Camuffo, Alberto, 224 Camusi, Maria Pia, 194 Canapini, Luigi, 221 Candura, Francesco, 114 Canettieri, Enrico, 184 Canonica, Agostino, 65 Capanna, Mario, 285, 286 Capitini, Aldo, 163 Caponnetto, Michelangelo, 174 Cappelli, Igino, 145, 178 Carboni, Mauro, 196 Carioti, Antonio, 259 Carli, Guido, 57, 59, 66, 67, 68, 274 Carnevale, Franco, 22, 24, 103, 112, 113, 114, 117, 122, 157, 165, 198, 240, 297 Carniti, Pierre, 99, 146, 216, 274, 289 Carrieri, Domenico (Mimmo), 148, 149, 291 Castegnaro, Alessandro, 143 Castronovo, Valerio, 63, 205 Catarsi, Enzo, 163 Causarano, Pietro, 17, 21, 22, 24, 100, 103, 157, 165, 183, 190, 194, 195, 196, 198, 240, 297 Cazzola, Giuliano, 290 Cefis, Eugenio, 68 Cella, Gian Primo, 21, 38, 45, 87, 97, 101, 129, 189, 193, 285, 297 Ceri, Paolo, 180 Cerri, Marco, 180 Cesana, Gian Carlo, 118 Chianese, Gloria, 269, 270 Chiapello, Eve, 290 Chiaretti, Giuliana, 187, 189 Chiattella, Maria Orsola, 297, 308 Chierici, Maurizio, 147 Chinello, Cesco, 266, 267 Christie, Nils, 168, 177 Ciampani, Andrea, 45 Ciarciaglino, Nico, 139 Cocco, Walter, 234 Codignola, Tristano, 184 Cofferati, Sergio, 290 Collidà, Ada, 62 Colombo, Emilio, 59, 60, 253 Colucci, Mario, 166 Comandini, Maria, 164 Comito, Vincenzo, 64 Corbetta, Pier Giorgio, 189 328 INDICE DEI NOMI Corda Costa, Maria, 190 Corti, Bruno, 40 Cortili, Gabriele, 118 Costa, Angelo, 132 Costa, Carlo, 63 Cottone, Catia, 38 Cova, Alberto, 188 Crainz, Guido, 52, 53, 78, 143, 147, 148, 184, 192, 198 Craveri, Pietro, 45, 60 Crisafulli, Vezio, 75 Cristofori, Cecilia, 149 Crocco, Carmine, 273 Crouch, Colin, 21, 87 Cutini, Rita, 163, 164 D’Andrea, Rita, 192 Dahrendorf, Ralf, 154 Dal Co, Mario, 190 Dalla Costa, Elia, 165 Damiano, Cesare, 212, 215, 220 Daum, Susan M., 114 De Bernardi, Alberto, 18, 53, 284 De Cecco, Marcello, 61 De Gaulle, Charles, 32 De Giacomi, Carlo, 64 De Leonardis, Ota, 180 De Lutiis, Giuseppe, 261 De Martino, Ernesto, 164 De Martino, Francesco, 130 De Mauro, Tullio, 170 De Rita, Giuseppe, 180, 187 De Simone, Mimmo, 174 De Stefanis, Giovanni, 213, 217, 222 De Vito, Christian, 24, 161, 192, 297 Deaglio, Enrico, 62 Dealessandri, Tom, 64, 68, 220 Dei, Marcello, 177, 187, 188, 286 Del Cornò, Lucio, 198 Del Piano, Cesare, 222 Delai, Nadio, 193 Dellacqua, Mario, 213 Dell’Aquila, Dario Stefano, 174 Della Porta, Donatella, 180 Della Rocca, Giuseppe, 193 Demetrio, Duccio, 195 Devolder, Conny, 100 Di Gioia, Angelo, 190 Di Vittorio, Giuseppe, 126, 259 Di Vittorio, Pierangelo, 162, 166, 169 Diemoz, Roberto, 240 Dolci, Danilo, 164 Donat Cattin, Carlo, 92, 132, 216 Donolo, Carlo, 18 Dore, Lorenzo, 193 Epifani, Guglielmo, 289, 291 Fadda, Sebastiano, 187 Fagioli, Marco, 285 Falossi, Gigi, 7, 13, 21, 157, 226, 254, 297 Fanelli, Serena, 170 Fanon, Franz, 177 Faraoni, Giovanni, 267 Farinelli, Fiorella, 193 Ferraris, Pino, 45, 48, 219, 263, 278 Ferraro, Giuseppe, 125 Ferrarotti, Franco, 189 Fini, Gianfranco, 259 Fiocca, Giorgio, 66 Fissore, Giampaolo, 211 Flores, Marcello, 18, 24, 29, 53, 279, 284, 285, 286, 297 Fo, Dario, 117 Foà, Vito, 106, 117 Foa, Vittorio, 47, 79, 99, 131, 143, 147, 149, 188, 199, 217, 255, 262, 263, 285, 287 Fofi, Goffredo, 163, 164, 262 Fontana, Renato, 34, 132, 190, 261 Ford, Henry, 250, 255 Fortini, Franco, 197 Foucault, Michel, 162, 168, 173, 174, 179 Franchi, Maura, 147 Franco, Paolo, 15, 38, 60, 62, 65, 67, 100, 103, 125, 129, 145, 149, 159, 163, 164, 166, 168, 189, 190, 215, 224, 240, 262, 266, 271, 297 Franzoni, dom Giovanni, 286 Frey, Luigi, 62 Friedmann, Georges, 198 Galli, Pio, 38, 53, 221 Gallino, Luciano, 61, 92, 149, 278 329 INDICE DEI NOMI Galoppini, Annamaria, 267 Gambino, Antonio, 142 Garavini, Sergio, 128, 164, 190, 191, 196, 215, 216, 217 Gattegno Mazzonis, Danielle, 122 Gattullo, Mario, 192 Gaudenti, Sergio, 278 Gemelli, Agostino, 188 Giacché, Piergiorgio, 163 Giampaglia, Giuseppe, 101 Giannotti, Renzo, 130 Gianola, Riccardo, 290 Gianotti, Lorenzo, 212, 213, 217, 218 Gigliobianco, Alfredo, 59 Ginsborg, Paul, 46, 48, 131, 284, 285, 286, 289 Giachetti, Diego, 212, 213, 217, 218 Giordana, Marco Tullio, 286 Giori, Danilo, 189 Giovannini, Elio, 39, 43, 117 Giovannini, Paolo, 17, 22, 90, 93, 153, 157, 159, 275, 297 Girardi, Franco, 144 Girardi, Giulio, 144 Giugni, Gino, 90, 92, 135, 191 Gloria, Sandra, 117, 270 Gobo, Giampietro, 164 Goffman, Erving, 174 Goldman, Rose H., 122 Golzio, Francesco, 191 Gorz, André, 251 Gozzini, Mario, 165, 269 Gramsci, Antonio, 58, 59, 64, 146, 189 Grandi, Mario, 107, 114, 125, 196, 215, 226 Granzotto, Maria Luciana, 164 Graziani, Augusto, 60, 61 Grieco, Antonio, 103, 106, 117, 118 Grossi, Michele, 283 Guagliardo, Vincenzo, 178 Guariniello, Raffaele, 178 Guerra, Eda, 161, 270 Gui, E., 127 Guidetti Serra, Bianca, 265 Guidi, Eugenio, 39, 125, 127 Hatzfeld, Nicolas, 100 Höbel, Alexander, 54 Hofmann, Jorg, 100 Hogstedt, Christer, 122 Hulsman, Couk, 163, 168, 178 Hyman, Richard, 100 Illich, Ivan, 202 Imazio, Alberto, 63 Incatasciato, Benito, 170 Inglehart, Ronald F., 179 Ingrao, Francesco, 106 Invernizzi, Irene, 176 Isnenghi, Mario, 187 Jackson, George, 177 Jonesco, Eugene, 283 Kalecki, Michal, 57 Kendall, Diane, 179 Kohl, Eribert, 100 La Bella, Gianni, 163 La Pira, Giorgio, 165 Labor, Livio, 191 Lacaita, Carlo Giacomo, 186 Lama, Luciano, 52, 53, 54, 253 Lanaro, Silvio, 50, 199, 228 Lanzardo, Liliana, 195 Lattes, Renato, 41, 213, 217, 222 Laurell, Asa Cristina, 122 Lavista, Fabio, 66 Legnani, Massimo, 75 Lenin, Vladimir, 280 Lettieri, Antonio, 21, 190, 194, 249, 251, 297 Levi, Carlo, 164 Libertini, Lucio, 192, 217 Lichtner, Maurizio, 170 Liguori, Guido, 101, 102, 141, 184, 189 Liori, Arcangelo, 294 Liori, Sebastiano, 294 Loewenson, René, 122 Lombardi, Claudio, 200 Lombardo Radice, Lucio, 170, 192, 193 Loreto, Fabrizio, 19, 37, 45, 50, 52, 193, 194, 297 Lucassen, Jan, 180 330 INDICE DEI NOMI Luchetti, Daniele, 286 Luciani, Albino, 243 Macario, Luigi, 40, 132, 213, 216 Maccacaro, Giulio, 117, 120 Magelli, Leopoldo, 121 Maggi, Bruno, 118 Magnabosco, Maurizio, 64, 68, 220 Magno, Michele, 102 Malfatti, Franco Maria, 254 Mallet, Jean-Olivier, 122 Manacorda, Alberto, 174 Manacorda, Mario Alighiero, 191 Mancini, Federico, 289 Mancini, Giorgio, 129, 133 Mancini, Oscar, 230 Manghi, Bruno, 38, 45, 129, 189 Mantelli, Brunello, 144 Maraschini, Walter, 170 Marcon, Giulio, 180 Marcucci, Marco, 185 Marcuse, Herbert, 161, 198 Margara, Alessandro, 165, 178 Maroni, Giuseppe, 259 Marri, Gastone, 103, 105, 106, 107, 110, 111, 113, 114, 117, 297, 304 Marroni, Marcello, 106, 117 Martinelli, Alberto, 58 Martinuzzi, Piero, 238, 239 Marx, Karl, 24, 191, 279 Marzotto Caotorta, Antonio, 142 Marzotto, Gaetano jr, 230, 237, 239 Marzotto, Gaetano, 228, 231, 236, 239 Marzotto, Giannino, 230, 235 Marzotto, Luigi, 224, 228 Marzotto, Pietro, 226, 237 Marzotto, Vittorio Emanuele, 228, 237 Massa, Marcello, 294 Mastrangelo, Giuseppe, 245 Masucci, Mario, 128 Mathiesen, Thomas, 168, 172, 177 Mattei, Enrico, 237, 239 Mattei, Franco, 60 Mazza, Lamberto, 226, 239, 242 Megale, Agostino, 291 Melocchi, Luigi, 118 Meloni, Franca, 60 Mengoni, Luigi, 130 Merli Brandini, Pietro, 98 Merluzzi, Franca, 106 Mershon, Carol, 159 Messori, Marcello, 61 Meucci, Giampaolo, 165 Michels, Roberto, 159 Miegge, Marco, 189 Mietto, Marco, 47 Milana, Fabio, 165 Milani, don Lorenzo, 165, 202 Milanaccio, Alfredo, 297, 317 Misiti, Raffaello, 105, 117, 118 Monaco, Maria Paola, 15, 19, 123, 297 Montaldi, Danilo, 164 Moriani, Gianni, 112, 121 Moro, Aldo, 124, 144, 240 Mortillaro, Felice, 254 Mosca, Mario, 51 Mosconi, Antonio, 63 Mossetto, Gabriella, 66 Muntzer, Thomas, 24 Musatti, Cesare, 162 Musso, Stefano, 22, 64, 67, 189, 205, 208, 212, 220, 250, 276, 297 Nanni, Nico, 238, 239 Nardozzi, Giangiacomo, 60, 61 Navarro, Vicente, 122 Negri, Antonio, 179 Nelson, Richard R., 62 Nenni, Pietro, 124, 126 Nerozzi, Paolo, 291 Nesti, Romina, 202 Neve, Elisabetta, 163, 166 Novara, Francesco, 118, 162 Obama, Barack, 32 Oddone, Ivar, 104, 106, 107, 113, 117, 297, 308, 317 Odescalchi, Caio Plinio, 110 Olivetti, Adriano, 44, 101, 162, 164, 205, 206, 207, 220, 274 Olmo, Carlo, 164, 212 Omnès, Catherine, 195 Ortoleva, Peppino, 198, 284 Ottaviani, Gelmino, 86, 87, 89, 90, 93 331 INDICE DEI NOMI Paci, Massimo, 100, 101, 154, 190 Pagnoncelli, Lucio, 193 Pandolfi, Filippo M., 61 Pansa, Giampaolo, 64 Paolini, Marco, 86 Papuzzi, Alberto, 268 Pasini, Roberto, 45, 189 Pasqual, Claudio, 164 Pasquinelli, Carla, 164 Passerini, Luisa, 275 Pastore, Giulio, 45, 187, 194, 196 Pastorino, Elio, 39 Pasture, Patrick, 20 Peira, Paolo, 129 Pellicanò, Carmelo, 165 Pellicanò, Giuseppe Pepe, Adolfo, 41, 49, 53, 198, 214 Pepino, Livio, 166 Peretti, Alessandra, 267 Pertegato, Giancarlo, 221 Pesatori, Angela C., 121 Pescetto, Giorgio, 64 Peschiera, Filippo, 66 Pessa, Piero, 212, 215, 220 Petrilli, Giuseppe, 253 Petrini, Francesco, 18, 57, 60, 275, 297 Pettenello, Roberto, 193 Pettini, Aldo, 163 Piantoni, Achille, 63 Pigenet, Michel, 20, 99 Pinnarò, Gabriella, 190 Pinto, Carmine, 186 Pisoni Glisenti, Ida, 196 Pitti, Laure, 195 Piva, Paola, 38, 129 Pizzinato, Antonio, 272 Pizzorno, Alessandro, 21, 50, 53, 87, 88, 90, 139, 142, 164, 192, 193, 263 Polo, Gabriele, 139, 261 Porta, Gianfranco, 4, 145, 146 Prette, Maria Rita, 177 Provasi, Giancarlo, 66, 68, 123 Pugno, Emilio, 103, 164, 213, 215, 217, 222 Quaroni, Ludovico, 164 Quazza, Antonia, 189 Quéro, Laurent, 168 Raimondi, Giuseppe, 66 Ramella, Francesco, 262 Ravel, Emilio, 138 Reagan, Ronald, 35 Regalia, Ida, 88, 128, 139, 142, 148, 221, 263 Regini, Marino, 88, 138, 139, 140, 142, 193, 168 Reisch, Michael, 168 Renga, Salvatore, 112 Repek, Claudio, 269 Revelli, Marco, 38, 49, 53, 54, 55, 58, 61, 121, 144, 146 Reyneri, Emilio, 38, 50, 88, 139, 142, 193, 289 Ribolzi, Luisa, 200 Ricci, Paolo, 193 Ricolfi, Luca, 297, 312 Ridolfi, Maurizio, 52, 54 Rieser, Vittorio, 147, 190, 213 Righi, Maria Luisa, 41, 49, 51, 52, 53, 54, 115, 198, 214, 219, 269 Robert, Jean Louis, 20 Robertson, Martin, 168 Rogari, Sandro, 130 Romagnoli, Guido, 128, 189, 263, 291 Romagnoli, Umberto, 126, 128, 291 Romani, Mario, 45 Romiti, Cesare, 64, 69, 70, 146 Roscini, Franco, 193 Rosolen, Mariangela, 213 Rossi, Salvatore, 58, 106, 165, 191 Roverato, Giorgio, 22, 223, 229, 277, 297 Rozzi, Renato A., 118, 162 Rubini, Gino, 121 Ruffolo, Giorgio, 63, 240, 290 Ruggerini, Maria Grazia, 47 Rullani, Enzo, 63 Rumor, Mariano, 261 Rusconi, Maddalena, 189 Russo, Giovanni, 145 Salles, Walter, 286 Saluggia, Albino, 101 Salvati, Michele, 59 Sangiovanni, Andrea, 19, 23, 49, 137, 138, 142, 185, 206, 297 332 INDICE DEI NOMI Santi, Ettore, 49, 138, 140 Santoni Rugiu, Antonio, 185, 201 Saraceno, Chiara, 189 Sarchielli, Guido, 189 Sasso, Chiara, 108 Scalfari, Eugenio, 57, 68, 145 Scamarcio, Riccardo, 286 Scamuzzi, Sergio, 146 Scavino, Marco, 212, 213, 217, 218 Scheerer, Sebastian, 177 Scotellaro, Rocco, 164 Scotti, Pier Giovanni, 106 Scull, Andrew T., 173 Serafini, Umberto, 164 Serafino, Adriano, 41 Setti, Paolo, 122 Silei, Gianni, 226 Silver, Beverly J., 61, 88 Simoni, Carlo, 145, 146 Smits, Hans, 168 Soldani, Simonetta, 187 Soderbergh, Steven, 286 Sonetti, Catia, 15, 22, 259, 262, 267, 268, 269, 297 Sparati, Vittorio, 268 Stalin, Joseph, 280 Stellman, Jeanne M., 114 Stewart, Paul, 100 Stolfi, Emanuele, 124 Storti, Bruno, 40 Surdo, Antonio, 107 Traù, Fabrizio, 61 Trentin, Bruno, 38, 39, 40, 43, 44, 55, 102, 132, 140, 141, 142, 184, 189, 197, 198, 200, 216, 259, 270 Treu, Tiziano, 125, 126, 128 Trevisan, Carlo, 162, 163 Trivellato, Ugo, 196 Trotta, Giuseppe, 165 Turani, Giuseppe, 145, 242 Turi, Gabriele, 187 Turone, Sergio, 38 Tambroni, Ferdinando, 207 Tamburrano, Giovanni, 124 Tarello, Giovanni, 128, 129 Tarrow, Sidney, 87, 285 Taylor, Frederick, 255, 277 Tentori, Tullio, 164 Terracini, Benedetto, 120 Thatcher, Margaret, 35 Tobino, Mario, 172 Tognetti Bordogna, Mara, 163 Tomatis, Renzo, 120 Toniolo, Gianni, 61 Tornesello, Maria Luisa, 195 Tranfaglia, Nicola, 205, 230, 239 Wintersberger, Helmut, 118 Wright, Gavin, 62 Wright, Steve, 290 Ugolini, Bruno, 102, 260 Vaccaro, Salvo, 193 Vaiani, Silvia, 161 Vais, Marco, 124 Valeriani, Piergiorgio, 175 Valletta, Vittorio, 65, 146, 207, 212 Valsecchi, Massimo, 121 Van Swaaningen, René, 177 Vanoni, Ezio, 123, 240 Varesi, Pier Antonio, 196 Varsori, Antonio, 60 Vassalli, Sebastiano, 185 Vauro, 295 Vicinelli, Gian Carlo, 117 Visalberghi, Alberto, 184, 190, 192 Visco, Vincenzo, 61 Vitali, Giampaolo, 63 Volponi, Paolo, 101 Zancarini-Fournel, Michelle, 168 Zanussi, Antonio, 225, 226 Zanussi, Guido, 225 Zanussi, Lino, 225, 226, 238, 239 Zavoli, Sergio, 261 Zedda, Sergio, 106, 117 Zincone, Giuliano, 116, 117 Zoppas, Augusto, 226 Zoppas, Gino, 226 Zucconi, Angela, 163, 164 333 Finito di stampare nel mese di settembre 2010 dalla Tipografia Empograph, Via Venezia Tridentina, 1 Villa Adriana - Roma