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SCHMITT_LA TEORIA DELL'AMICO-NEMICO_Una lettura

Obiettivo di questo elaborato, aldilà dell’approvarla o meno, è cercare una risposta a questi interrogativi, drammatici, e perciò esistenziali, senza neanche azzardarsi a dare una risposta sintetica a un problema vecchio come l’uomo. Occorre divenire esperti, affermiamo con Gadamer, per poter esprimere un giudizio accorto su un tema tanto delicato e problematico. Mi soffermerò, in modo puntuale, su un’opera del corpus schmittiano: Le categorie del nemico (originale tedesco Der Begriff des Politischen), edito per la prima volta nel 1927, riveduto e ripubblicato dallo stesso Carl Schmitt nel 1963, quasi un ventennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. A quest’ultima edizione, in traduzione italiana, noi abbiamo preferito far riferimento. Nel suo apparato complessivo, essa rivela più autenticamente il pensiero del pensatore che viene da molti assai superficialmente definito come il teorico di Hitler e del nazional-socialismo, della teoria della “guerra giusta” e dello “spazio vitale”. Nell’invito ad accettare con consapevolezza le nostre precomprensioni, e a far luce sui nostri pregiudizi circa questo periodo storico tanto oscuro e drammatico, si vuol proporre al lettore una diversa chiave interpretativa, che forse lo porterà a rivedere il giudizio sul teoreta hitleriano e a scoprirne l’attualità del pensiero nel nostro modo di procedere contemporaneo.

PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA Facoltà di Filosofia LA TEORIA DELL’AMICO-NEMICO Una lettura di Carl Schmitt Professore: STEFANO MARCHIONNI Studente: LIVIO CINARDI Matricola: 163902 ROMA 2016 INTRODUZIONE Quando due esseri umani devono agire insieme, e nessuno dei due ha il potere di imporre qualcosa all’altro, occorre che si mettano d’accordo. Si esamina allora la giustizia, perché essa sola ha il poter di far coincidere due volontà. La giustizia è l’immagine dell’Amore che in Dio unisce il Padre e il Figlio, quell’Amore che è il pensiero comune dei pensanti separati. Ma quando ci sono un forte e un debole, non c’è alcun bisogno di unire due volontà. Perché c’è una sola volontà, quella del forte, e il debole obbedisce. SIMONE WEIL, Forme dell’amore implicito di Dio, Scritti. Il dramma, nella sua accezione originaria classica, non aveva nulla a che fare con le attribuzioni che noi oggi conferiamo alla categoria di drammatico. Drammatico è ciò che ci spaventa, ciò che causa in noi sgomento, che ci scuote, e in questo senso paralizza. Nel suo significato originario, dramma è etimologicamente azione. Esso racchiude ogni potenzialità umana di procedere in dinamicità verso una meta, e nel processo attivo ne rappresenta appunto l’iter durativo, il cammino, aldilà di ogni esito. Dramma non è il consummatum est, ma è ciò che si consuma, è l’oggetto che viene dissolto. Se diamo a dramma questi connotati, possiamo denotarlo attualmente come identificazione semantica del nostro tempo. Dramma, nel senso della tragica greca, è l’azione condivisa che tocca il cuore, e proprio perché condivisa ha, formalmente e materialmente, carattere universale. Non esiste un dramma particolare o universale: dramma è tale perché riguarda tutti, perché è dimensione condivisibile, capace essenzialmente di abbracciare tutti. E’ un’esperienza comune. In questa dinamica, paura e sgomento, nostalgia e rimpianto, terrore e angoscia, misericordia e perdono, repulsione e vendetta, sono tutti sentimenti percepiti e partecipati e, oserei dire, di identica natura. 2 IL NEMICO POLITICO In questo elaborato, stimolato dai recenti avvenimenti, provo ad interrogarmi sui fondamenti di uno dei drammi che più ci impauriscono, ma forse non il peggiore: la guerra. Cos’è la guerraς Perché si arriva alla guerraς E’ necessario arrivare ad una guerra? Se sì in quali circostanze vale legittimarla come strumento obbligato? Quali sono gli attori bellici? Quale relazione, se ne esiste una, intercorre tra loro? Per far questo, ho dovuto chiedere ad un autore contemporaneo una risposta, sulla quale non esprimo alcun giudizio. Obiettivo di questo elaborato, aldilà dell’approvarla o meno, è cercare una risposta a questi interrogativi, drammatici, e perciò esistenziali, senza neanche azzardarsi a dare una risposta sintetica a un problema vecchio come l’uomo. Occorre divenire esperti, affermiamo con Gadamer, per poter esprimere un giudizio accorto su un tema tanto delicato e problematico. Mi soffermerò, in modo puntuale, su un’opera del corpus schmittiano: Le categorie del nemico (originale tedesco Der Begriff des Politischen), edito per la prima volta nel 1927, riveduto e ripubblicato dallo stesso Carl Schmitt nel 1963, quasi un ventennio dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. A quest’ultima edizione, in traduzione italiana, noi abbiamo preferito far riferimento. Nel suo apparato complessivo, essa rivela più autenticamente il pensiero del pensatore che viene da molti assai superficialmente definito come il teorico di Hitler e del nazionalsocialismo, della teoria della “guerra giusta” e dello “spazio vitale”. Nell’invito ad accettare con consapevolezza le nostre precomprensioni, e a far luce sui nostri pregiudizi circa questo periodo storico tanto oscuro e drammatico, si vuol proporre al lettore una diversa chiave interpretativa, che forse lo porterà a rivedere il giudizio sul teoreta hitleriano e a scoprirne l’attualità del pensiero nel nostro modo di procedere contemporaneo. E forse su questo a riflettere e argomentare, e auspicabilmente, esprimere giudizi. Carl Schmitt visse il dramma atroce della Germania del suo tempo: sconfitta per tre volte, per tre volte ripudiata, per tre volte considerata come criminale. Violentata e saccheggiata, per la sua pretesa di libertà, che in definitiva, è istanza di riconoscimento di un’identità prigioniera dei forti. In quest’ottica, la teoria dello spazio vitale e della guerra giusta assumono connotati differenti. Ricondotti alla loro mente creatrice, che è mente poiché è vissuto e determinazione di effetti, si ristabiliscono nella loro essenza e finitezza. Manipolazioni avvengono continuamente, e la nostra è spesso definita come società della manipolazione diffusa. La guerra è proprio su questo che fonda le proprie ragioni. Che la ragione stessa rifiuta di conoscere. CAPITOLO I Il nemico politico Nell’opera già citata, Le categorie del politico, Schmitt imposta in modo originale il problema della guerra. Egli lo riduce a determinazione di una dinamica più vasta e generale, in questo senso condivisa e che tocca tutti, appunto universale e esistenziale, che elabora speculativamente come teoria dell’amico-nemico. E’ proprio questa teoria che cercheremo di esplorare, limitatamente alla questione bellica, scoprendo ove tale analisi ci condurrà. 1. Il concetto di politico 1.1 Un nuovo punto di partenza Come in ogni buon ragionamento logico, a Schmitt importa prima di tutto una legge generale, condivisibile nelle sue aspettative dagli attori in guerra, aldilà del loro numero o proprietà, delle loro denotazioni generali e connotazioni specifiche. Il concetto di Stato è perciò di fondamentale rilevanza. Esso racchiude, nella sua essenza, quella dei singoli protagonisti. Il punto di partenza teoretico è un’ affermazione categorica: «Il concetto di Stato presuppone quello di “politico”. Per il linguaggio odierno, stato è lo Status politico di un popolo organizzato in un territorio chiuso»1. Il “rimando” del concetto di stato a quello di politico non è un rimando logico ad una nozione più ampia o originaria. E’ soprattutto il rimando alla sfera dell’esistenza concreta, del divenire storico, della vita dei popoli. Lo Stato rievoca lo status, la situazione, l’esistenzialità. Comprendiamo a tal punto come l’indagine di Schmitt si concentri ora sul politico, su ciò che è politico. Esso sussume lo statuale, come categoricamente affermato, non ne dipende. Il concetto di Stato non può 1 M. NICOLETTI, Trascendenza, 260. 4 IL NEMICO POLITICO dunque imporsi come fondamento nella sua riflessione filosofica, poiché non è originario. Originario è invece il concetto di politico. L’analisi di Schmitt non si pone qui alla ricerca dell’ “essenza” del politico, proprio perché il mondo delle essenze, tradizionalmente inteso, appare secondo lui inattingibile, in piena linea con la scuola fenomenologica del tempo. Si pone piuttosto a livello di “concetto” o “categoria” del politico, dove questi termini hanno smarrito il loro riferimento sostanzialistico e stanno piuttosto ad indicare un “criterio” ermeneutico capace di mettere in luce le strutture storiche dell’esistenza. 1.2 L’essenza del politico A questo livello va ricercata l’essenza del politico. Secondo Schmitt, invece, le definizioni più ricorrenti preferiscono definirla o in modo negativo, contrapponendola ad altre sfere (economia, morale, diritto), o assimilandola alla dimensione dello Stato o qualificandola come un ambito o una dimensione interna allo Stato. Se la definizione del politico mediante la contrapposizione ad altre sfere è insufficiente in quanto non coglie in positivo il nocciolo del politico, le altre due direzioni rimandano alla definizione di Stato. Ma, su questa strada, presupponendo il concetto di Stato a quello di politico, cadremmo in un circolo vizioso che ostacolerebbe una chiara formalizzazione del concetto. Anche storicamente tale riferimento appare immotivato. In passato era infatti possibile equiparare la dimensione politica a quella statuale in quanto lo stato deteneva il monopolio del politico in contrapposizione alla società (economia, religione, cultura) che era politicamente neutrale. Oggi, di fronte ad uno stato totalmente compenetrato con la società, in cui nessun settore sfugge al suo controllo e in cui «tutto è politico, almeno virtualmente»2, identificare il concetto di politico con quello di statuale significa precludersi la comprensione dell’essenza specifica del politico così come della dinamica storica dello Stato: La democrazia deve eliminare tutte le neutralizzazioni e spoliticizzazioni tipiche del XIX secolo liberale e deve accantonare, insieme alla contrapposizione Stato-società (= politico contro sociale), anche le alternative e distinzioni proprie di quest’ultima.3 L’essenza del politico va dunque definita non ricorrendo a concetti tipici di altre sfere, ma attraverso concetti e criteri propriμ come l’etica si definisce a partire dalla distinzione tra buono e cattivo e l’estetica tra bello 2 3 M. NICOLETTI, Trascendenza, 261. C. SCHMITT, Le categorie, 101. IL NEMICO POLITICO 5 e brutto, la politica trova il suo criterio in una propria distinzione specifica, quella tra amico (Freund) e nemico (Feind)4. Essa non è una spiegazione né tantomeno una definizione esaustiva del contenuto. E’ piuttosto una definizione concettuale, che non rimanda pertanto ad una realtà sostanziale, ma ad una dimensione esistenziale. Proprio per questa ragione, Schmitt parla non della “politica” ma di “politico”, intendendo con ciò un criterio di rinvenimento di una categoria, di un “esistenziale”5. Proprio in ciò sta l’autonomia del politicoμ per Schmitt esso ha criteri propri, è originario. La politica si definisce come possibilità dell’esistenza, ove l’essere-con-glialtri assume il carattere di un’amicizia con gli uni e di un’inimicizia con gli altri: Il significato della distinzione tra amico e nemico è di indicare l’estremo grado di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione. […] Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”.6 2. Il concetto di nemico 2.1 La definizione schmittiana Il nemico è l’altro, colui che non ha le mie leggi, che non è sottoposto all’ordine a cui io appartengo e con il quale dunque, in caso di conflitto, non ho nulla di comune a cui appellarmi. Diverse sono le leggi, e non esiste alcuna autorità riconosciuta da entrambi e ad entrambi superiore. Il nemico non è qui definito con connotato etico, estetico o di valore, ma a partire da una situazione esistenziale: è colui che vive una situazione altra rispetto alla mia e non a questa riducibile, è esterno ad essa, estraneo7. 4 Ibidem, 108. M. NICOLETTI, Trascendenza e potere, 262. 6 C. SCHMITT, Le categorie, 109. 7 «Nemico (hostis), poi, è chiunque vive fuori dello Stato, nel senso che non ne riconosce la sovranità né come suddito né come confederatoμ non è l’odio, infatti, ma il diritto dello Stato, quello che crea il nemico; e il diritto dello Stato nei riguardi di colui che non ne riconosce la sovranità con nessuna forma di contratto è il medesimo che verso chi gli abbia recato danno: egli può con qualunque mezzo venir costretto o alla resa o alla confederazione.», in B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, 387. 5 6 IL NEMICO POLITICO In tale dinamica, non vi sono universali a cui appellarsi: non la ragione, perché l’esistenza non può risolversi in essa e la situazione estrema non può essere dalla ragione compresa e spiegata; non la legge, perché essa è sempre relativa ad un ordinamento concreto, a un popolo, un territorio; non un’autorità superiore perché nel conflitto, nell’aut-aut, non si può astrarre dall’esistenza e raggiungere un punto di vista esterno a me. Solo l’approfondimento dell’esistenza, l’essere parte in causa può portare ad una decisione concreta. Epistemologicamente, non c’è una conoscenza neutra, oggettiva, razionale della situazione conflittuale che possa fondare la decisione. Solo chi è esistenzialmente coinvolto può comprendere e decidere, perché in questa decisione “ne va” della sua esistenza. Non si tratta di sciogliere un enigma, di risolvere un problema, ma di decidere dell’esistenza in quanto tale, della propria esistenza messa in discussione dall’altro. L’amicizia e l’inimicizia non vanno qui però intese come relative alla sfera personale, bensì alla sfera pubblica. Non si tratta cioè categorie definite da sentimenti umani di simpatia o antipatia, né semplicemente da una competizione di interessi economici e professionali, ma da un’appartenenza ad un gruppo diversoμ Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso ampio; il πο έ ο e non l’εχ ό 8. L’essenza del politico sta nella distinzione amico-nemico, ma l’essenza dell’inimicizia sta nell’inimicizia pubblica e dunque politica. Si nota dunque una certa circolarità nella definizione concettuale di politico, che rimanda anche al raggruppamento e dunque all’amicizia, a quel tipo di relazione che unisce gli uomini in un gruppo sociale, in un popolo. Nemico è colui che è altro rispetto a questo raggruppamento, che vi si oppone o può farlo potenzialmente. Al centro del criterio politico per Schmitt non vi è pertanto il “nemico”, ma l’“unità politica”. In questa dialettica di reciproci rimandi, l’amicizia si definisce come raggruppamento che include ed escludeμ porta con sé l’inimicizia, come suo correlato necessario e viceversa.  8 C. SCHMITT, Le categorie, 111. IL NEMICO POLITICO 7 2.2 Una giustificazione teologica? La distinzione amico-nemico rivela la politica, ma al tempo stesso è da questa caratterizzata, perché solo nell’orizzonte pubblico essa è da amicizia-inimicizia nel senso specifico, mentre in quello privato essa appartiene alla sfera dei sentimenti. Questa distinzione fra nemico privato e pubblico, Schmitt cerca di giustificarla, secondo alcuni critici, anche da un punto di vista teologico. E’ vero che egli afferma come nel passo evangelico che comanda l’amore per i nemici (Mt 5,44 e Lc 6,27) ci si riferisca solo ai nemici privati e non ai nemici pubblici (agli inimici e non agli hostes). Ciò si riscontra anche nell’uso verbale: diligere e non amare, agapàn e non philéin.9 Nella lotta millenaria fra cristianità ed Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni o i Turchi. Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico, e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio “nemico”, cioè il proprio avversario10. Il piano religioso si mostra per Schmitt come il piano dell’eternità e dell’universalità, mentre il piano politico è quello della contingenza e della particolarità. Sul piano religioso è evidentemente possibile un amore universale, mentre sul piano politico prevale la dimensione conflittuale della distinzione amico-nemico, anche se questa non impone l’obbligo di odiare il nemico. Occorre però precisare che l’esempio suddetto di Schmitt non si riferisce al cristianesimo in quanto dottrina, ma alla cristianità storica del Medioevo. In quest’epoca la cristianità non ha significato puramente religioso, ma rappresenta anche il raggruppamento politico che si identifica con l’Occidente europeo. Su questo piano storico-contingente, e non su quello religioso, anche la cristianità, in quanto società storicamente definita, conosce la contrapposizione amico-nemico, ad esempio, nella lotta con l’Islam. L’inimicizia dunque, secondo tale prospettiva, ha una motivazione puramente storica e non certamente una motivazione teologica. I riferimenti evangelici citati dall’autore non possono essere intesi come un tentativo di fondazione teologica del politico, e in particolare dell’inimicizia, ma esprimono semplicemente la preoccupazione di Schmitt di dimostrare che il politico sì definito non è incompatibile con il teologico. 9 Cfr. nota 1 in C. SCHMITT, Le categorie, 112 C. SCHMITT, Le categorie, 112. 10 CAPITOLO II La possibilità estrema 1. Il politico e lo Stato Se la politica, come è stato già detto, è fondata sulla distinzione amiconemico, la decisione politica per eccellenza – ossia la decisione sovrana – riguarderà necessariamente l’identificazione dell’amico e del nemico. Esattamente attorno a questa decisione, secondo Schmitt, si costituisce lo Stato, ossia l’organizzazione dell’unità politica, che rimanda a sé la decisione fondamentale, la decisione primaria, sovrana, relativa all’esistenza stessa di un raggruppamento umano, di un popolo. Storicamente, lo stato sovrano è emerso quando, di fronte alle guerre civili di religione, tra XVI e XVII secolo, esso ha neutralizzato i conflitti interni in favore di quelli esterni. Quest’ultimi si differenziano dai primi, ne sono superiori. Rispecchiano una conflittualità assoluta, nella misura in cui può sfociare in guerra, poiché non relativizzabili dalla dimensione superiore dello stato, a cui il nemico non è sottoposto, e che, come si è già rilevato, non è da questi riconosciuta. Solo quando lo Stato perde la sua forza di distinguere l’amico dal nemico, e dunque di relativizzare i conflitti interni, questi tendono ad imporsi come più forti della generale unità politica e la situazione può sfociare in guerra civile: non più i raggruppamenti di politica estera, ma quelli di politica interna diventano decisivi per la sopravvivenza. Per Schmitt, lo Stato è dunque dotato di unità politica e giuridica: come ogni raggruppamento è un’esclusione, così ogni legge è una partizione. Ogni pacificazione è una pacificazione interna con conseguente individuazione del nemico esterno. L’esistenza umana, politica, giuridica, storica, appare consegnata alla “parte”, al “limite”, impossibilitata a pervenire all’universalità. Ogni dimensione politica è perciò dimensione polemica, non solo nella sua concreta esistenzialità, ma anche nel suo piano teoretico: 10 LA POSSIBILITÀ ESTREMA Tutti i concetti, le espressioni, i termini politici hanno un senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta, la cui conseguenza estrema è il raggruppamento amico-nemico (che si manifesta nella guerra e nella rivoluzione), e diventano astrazione vuote e spente se questa situazione viene meno. Termini come Stato, repubblica, società, classe e inoltre: sovranità, stato di diritto, assolutismo, dittatura, piano, Stato neutrale o totale e così via sono incomprensibili se non si sa chi in concreto deve venir colpito, negato e contrastato attraverso quei termini stessi.1 La dimensione politica è la dimensione del prender parte, parte che si differenzia dalle altre dialetticamente. Opponendosi alle altre si identifica ed afferma. La politica è perciò essenzialmente dialettica, è opposizione reale e lotta esistenziale piuttosto che puro scontro e differenziazione ideale. Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta. […] I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è negazione assoluta di ogni altro essere. E’ la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato. 2 2. La possibilità estrema 2.1 L’uccisione fisica, dunque, la morte La possibilità dell’uccisione fisica e dunque della morte è ciò che qualifica il conflitto come conflitto politico. E’ la morte come possibilità che definisce l’esistenza politica e che impone la decisione in ordine al rapporto amico-nemico. La decisione politica è decisione di fronte non alla condizione normale, ma alla possibilità estrema, la morte: Ancora oggi il caso di guerra è il caso critico. Si può dire che qui, come anche in altri casi, proprio il caso d’eccezione ha un’importanza particolarmente decisiva, in grado di rivelare il nocciolo delle cose. Infatti solo nella lotta reale si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. E’ da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificatamente politica.3 1 C. SCHMITT, Le categorie, 113. Ibidem, 115-116. 3 Ibidem, 118. 2 LA POSSIBILITÀ ESTREMA 11 Tuttavia, sussiste una differenza non irrilevante fra morte e uccisione fisica: se la morte è la possibilità estrema della vita ma ne costituisce anche l’esito necessario, la seconda è solo la possibilità estrema, e non necessariamente la conclusione della vita politica. E’ il limite radicale (Grenz), forse anche l’orizzonte, lo sfondo, da cui essa prende forma e assume significato. Ma, nella dialettica schmittiana, tale limite non deve mai compiersi in senso assoluto. Per definizione stessa, l’eliminazione fisica assoluta del nemico comporta paradossalmente la fine della politica stessa. Tolto il nemico, è tolto il conflitto e con esso l’identità stessa dei contendenti. Quella di Schmitt è dunque tutt’altro che una teoria dello sterminio giusto, o quantomeno giustificato. Sebbene, nella sua teoria, vi sia un legame intrinseco tra politica e guerra così come tra politica e inimicizia, da un’attenta analisi non si può desumere che la politica porti con sé necessariamente la guerra: Tutto ciò non vuol però assolutamente dire che l’essenza del “politico” non sia altro che guerra sanguinosa e che ogni trattativa politica debba essere una battaglia militare, né che ogni popolo sia ininterrottamente posto, di fronte ad ogni altro, nell’alternativa di amico o nemico, e che la corretta scelta politica non possa consistere proprio nell’evitare la guerra.4 La guerra non è dunque scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico.5 2.2 La guerra contro la guerra La possibilità del conflitto, dunque, appartiene alla dialettica delle parti, dal momento che l’esistenza storica è sempre un’esistenza parziale che si definisce in opposizione ad altro. Eliminare l’opposizione significherebbe sopprimere la stessa dinamica storica e comporterebbe paradossalmente una nuova opposizione, una guerra contro ogni guerra. Per Schmitt, quest’ultima sarebbe la più radicale e crudele di ogni altra, perché negando ogni cittadinanza alle opposizioni e alle inimicizie sopprimerebbe l’alterità togliendo l’identità dell’altro e annientandolo o assimilandolo del tutto a séμ La guerra si svolge allora nella forma di “ultima guerra finale dell’umanità”. Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il “politico”, squalificano il nemico anche sotto il profilo 4 5 C. SCHMITT, Le categorie, 116. Ibidem, 117. 12 LA POSSIBILITÀ ESTREMA morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini.6 Il confine torna ad essere il segno della partizione, della finitezza e parzialità dell’esistenza storica. Oltre il confine c’è l’altro, la presenza minacciosa che può varcare il limite e mettere in forse la nostra esistenza, ma al tempo stesso l’altro è una presenza che rafforza i confini, che ci contiene e dà unità e identità al nostro esistere. 2.3 Il politico come esistenziale Così senza l’altro non vi sarebbe un io identico a se stesso, senza dialettica amico-nemico, nella prospettiva schmittiana, non vi sarebbe identità e soggettività politica. La presenza dell’altro, del nemico, benché minacciosa, va dunque mantenuta aldilà del confine e non eliminata. L’essenza del politico come esistenziale, che caratterizza l’essere-con-glialtri, non è la lotta stessa, che ha piuttosto le sue proprie leggi tecniche, psicologiche e militari, ma in un comportamento determinato da questa possibilità reale, nella chiara conoscenza della situazione particolare in tal modo creatasi e nel compito di distinguere correttamente amico e nemico.7 Gli elementi che costituiscono il politico, dunque, sono: reale possibilità del conflitto, chiara conoscenza della situazione, corretta distinzione amico-nemico. Il politico non partecipa solo ad una situazione di minaccia e alla risposta immediata ad essaμ suo compito è piuttosto un’analisi razionale del contingente che determina una decisione corretta al caso, fosse anche quello estremo della morte. Ciò che differenzia l’unità politica rispetto agli altri tipi di associazione è il fatto che essa garantisce l’esistenza fisica del gruppo stesso, e pertanto la sua stessa identità. La vita o la morte di quella comunità umana in quanto tale dipendono dalla sua unità politica e dunque dall’istanza sovrana che la governa, nell’epoca moderna lo Stato. E’ lo Stato solo che può distinguere l’amico dal nemico e può organizzare la difesa del gruppo umano. Allo scopo di realizzare tale difesa esso può richiedere il sacrificio della vita ai suoi membri. Questo prerogativa, applicata ad esempio nello jus belli, comporta la duplice possibilità di ottenere dagli appartenenti al proprio 6 7 C. SCHMITT, Le categorie, 120. Ibidem, 120. LA POSSIBILITÀ ESTREMA 13 popolo la disponibilità a morire e ad uccidere, e di uccidere gli uomini che stanno dalla parte del nemico.8 L’appartenenza politica si rivela, esistenzialmente, come l’appartenenza delle appartenenzeμ essa abbraccia l’impossibilità di ogni altra possibilità, appunto la morte. E’ vero che anche un’associazione religiosa può richiedere ai propri membri il sacrificio della vita, ma solo al fine della salvezza dell’anima e non certo per la sopravvivenza del gruppo stesso. Questo è compito del politico, innato nella sua essenza e legittimamente richiesto dalla sua realtà esistenziale, la minaccia di morte. 8 C. SCHMITT, Le categorie, 133. CONCLUSIONE La guerra, la disponibilità a morire dei combattenti, l’uccisione fisica di altri uomini che stanno dalla parte del nemico, tutto ciò non ha alcun senso normativo, ma solo uno esistenziale, riferito cioè alla realtà di una situazione consistente nella lotta reale contro un nemico reale, e non ad un qualsiasi ideale, programma o normatività. Non esiste uno scopo razionale, né una norma così giusta, né un programma così esemplare, né un ideale sociale così bello, né una legittimità o legalità che possa far apparire giusto che gli uomini si ammazzino a vicenda. […] Una guerra non può fondarsi neppure su norme etiche e giuridiche1. La distinzione amico-nemico è una distinzione puramente politica e il pretendere di giustificare un’inimicizia o una guerra sulla base di motivazioni morali o religiose non eleva la politica in una sfera ideale, ma trascina piuttosto la morale o la religione sul terreno dello scontro e le trasforma in fattore di intensificazione più che di mitigazione del conflitto. Nell’affermare l’originarietà del politico, intendiamo non solo che vi sono criteri e norme proprie che definiscono il politico, ma anche che qualsiasi elemento, anche esterno alla politica, che entri sul terreno politico si trasforma in elemento politico e deve sottostare a queste leggi. Diviene fattore politico. Un esempio è l’applicazione del concetto di giustizia a quello di guerra operata dalle scienze giuridiche nel XIX secolo. Afferma Schmitt: Che la giustizia non rientri nel concetto di guerra è ormai riconosciuto generalmente da Grozio in poi. Le costruzioni che auspicano una guerra giusta servono abitualmente a loro volta ad uno scopo politico2 più che ad una legittimazione giuridica della guerra. Schmitt visse nella propria vita l’applicazione, a suo parere indebita, di categorie morali al 1 2 C. SCHMITT, Le categorie, 133. Ibidem, 133. 16 CONCLUSIONE diritto internazionale, per esempio nel trattamento inferto alla Germania dopo la prima guerra mondiale. Il giudizio sulla Germania si poggiava allora sul considerarla non più come avversario politico, ma come paese “criminale”. Ciò ha significato togliere ogni dignità politica e la sovranità stessa alla Germania, con conseguenti tensioni ed estremismi del popolo, in cerca di un’identità che appariva perduta, o defraudata. L’indipendenza del politico è dunque precisamente collegata alla problematica della sovranità. La costruzione di una sorta di “super-stato” (non necessariamente con i connotati hobbesiani del Leviatano) da parte di diversi stati del mondo che decidessero tutti mediante un contratto di rinunciare alla propria sovranità, al proprio diritto di muovere guerra e di fare giustizia, ai propri armamenti, per consegnare tutto nelle mani di un’istanza sovranazionale, è impossibile. Ogni unità politica è unificazione di una parte, è pacificazione interna con parallela mobilitazione sul fronte esterno. L’affermazione dello stato è sì neutralizzazione dei conflitti interni, ma è parallelamente anche affermazione di diversità rispetto al nemico esterno. L’umanità in quanto tale non ha nemici, almeno sulla terra, e voler unificare il mondo in nome dell’umanità è impossibile. Questo progetto, per Schmitt, è dannoso, oltre che inutile. Esso rischia di giudicare gli avversari come non-uomini, non appartenenti all’umanità, togliendo loro quella dignità che invece il concetto classico di nemico aveva così fortemente voluto salvaguardare: Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto la pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la-loi e horsl’humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema inumanità.3 In ultima analisi, un “super stato” comporterebbe l’annientamento di ogni confine, e come presupposto, la distruzione dello spazio vitale del nemico. Ciò sarebbe giustificato solo deumanizzandolo, riducendolo a male mostruoso, incarnazione intollerabile di un male da debellare con fermezza. In realtà, per Schmitt, un mondo denotato da tale umanità presunta, si connoterebbe nella sua continua possibilità di implosione. Paradossalmente, nella pretesa di monopolizzare il concetto di umanità, nel richiamarsi ad essa giustificando la fine del nemico, non facciamo altro che prolungare un inconscio processo di deumanizzazione delle nostre azioni e del nostro vivere, che ci condurrebbe a un universale fratricidio suicida. E’ la deriva inconsapevole dell’estrema inumanità. 3 C. SCHMITT, Le categorie, 139. BIBLIOGRAFIA BAUDRILLARD, J., The intelligence of evil or the Lucididy Pact, Oxford 2005. GADAMER, H.G., Verità e Metodo, Milano 2000. NICOLETTI, M., Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt, Brescia 2000. SCHMITT, C., Le categorie del politico, Bologna 1972. WEIL, S., Attesa di Dio, Milano 2011. INDICE GENERALE INTRODUZIONE 1 CAPITOLO PRIMO: Il nemico politico 3 1. Il concetto di politico 1.1 Un nuovo punto di partenza 1.2 L’essenza del politico 2. Il concetto di nemico 2.1 La definizione schmittiana 2.2 Una giustificazione teologica? 3 3 4 5 5 7 CAPITOLO SECONDO: La possibilità estrema 9 1. Il politico e lo Stato 2. La possibilità estrema 2.1 L’uccisione fisica, dunque, la morte 2.2 La guerra contro la guerra 2.3 Il politico come esistenziale 9 11 11 12 13 CONCLUSIONE BIBLIOGRAFIA INDICE GENERALE 14 16 17