PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA
Facoltà di Filosofia
LA TEORIA DELL’AMICO-NEMICO
Una lettura di Carl Schmitt
Professore: STEFANO MARCHIONNI
Studente: LIVIO CINARDI
Matricola: 163902
ROMA 2016
INTRODUZIONE
Quando due esseri umani devono agire insieme,
e nessuno dei due ha il potere di imporre qualcosa all’altro,
occorre che si mettano d’accordo.
Si esamina allora la giustizia,
perché essa sola ha il poter di far coincidere due volontà.
La giustizia è l’immagine dell’Amore
che in Dio unisce il Padre e il Figlio,
quell’Amore che è il pensiero comune dei pensanti separati.
Ma quando ci sono un forte e un debole,
non c’è alcun bisogno di unire due volontà.
Perché c’è una sola volontà, quella del forte,
e il debole obbedisce.
SIMONE WEIL, Forme dell’amore implicito di Dio, Scritti.
Il dramma, nella sua accezione originaria classica, non aveva nulla a che
fare con le attribuzioni che noi oggi conferiamo alla categoria di
drammatico. Drammatico è ciò che ci spaventa, ciò che causa in noi
sgomento, che ci scuote, e in questo senso paralizza. Nel suo significato
originario, dramma è etimologicamente azione. Esso racchiude ogni
potenzialità umana di procedere in dinamicità verso una meta, e nel
processo attivo ne rappresenta appunto l’iter durativo, il cammino, aldilà di
ogni esito. Dramma non è il consummatum est, ma è ciò che si consuma, è
l’oggetto che viene dissolto. Se diamo a dramma questi connotati,
possiamo denotarlo attualmente come identificazione semantica del nostro
tempo.
Dramma, nel senso della tragica greca, è l’azione condivisa che tocca il
cuore, e proprio perché condivisa ha, formalmente e materialmente,
carattere universale. Non esiste un dramma particolare o universale:
dramma è tale perché riguarda tutti, perché è dimensione condivisibile,
capace essenzialmente di abbracciare tutti. E’ un’esperienza comune.
In questa dinamica, paura e sgomento, nostalgia e rimpianto, terrore e
angoscia, misericordia e perdono, repulsione e vendetta, sono tutti
sentimenti percepiti e partecipati e, oserei dire, di identica natura.
2
IL NEMICO POLITICO
In questo elaborato, stimolato dai recenti avvenimenti, provo ad
interrogarmi sui fondamenti di uno dei drammi che più ci impauriscono,
ma forse non il peggiore: la guerra.
Cos’è la guerraς Perché si arriva alla guerraς E’ necessario arrivare ad una
guerra? Se sì in quali circostanze vale legittimarla come strumento
obbligato? Quali sono gli attori bellici? Quale relazione, se ne esiste una,
intercorre tra loro?
Per far questo, ho dovuto chiedere ad un autore contemporaneo una
risposta, sulla quale non esprimo alcun giudizio.
Obiettivo di questo elaborato, aldilà dell’approvarla o meno, è cercare una
risposta a questi interrogativi, drammatici, e perciò esistenziali, senza
neanche azzardarsi a dare una risposta sintetica a un problema vecchio
come l’uomo. Occorre divenire esperti, affermiamo con Gadamer, per poter
esprimere un giudizio accorto su un tema tanto delicato e problematico.
Mi soffermerò, in modo puntuale, su un’opera del corpus schmittiano:
Le categorie del nemico (originale tedesco Der Begriff des Politischen),
edito per la prima volta nel 1927, riveduto e ripubblicato dallo stesso Carl
Schmitt nel 1963, quasi un ventennio dopo la fine della Seconda Guerra
Mondiale. A quest’ultima edizione, in traduzione italiana, noi abbiamo
preferito far riferimento. Nel suo apparato complessivo, essa rivela più
autenticamente il pensiero del pensatore che viene da molti assai
superficialmente definito come il teorico di Hitler e del nazionalsocialismo, della teoria della “guerra giusta” e dello “spazio vitale”.
Nell’invito ad accettare con consapevolezza le nostre precomprensioni, e
a far luce sui nostri pregiudizi circa questo periodo storico tanto oscuro e
drammatico, si vuol proporre al lettore una diversa chiave interpretativa,
che forse lo porterà a rivedere il giudizio sul teoreta hitleriano e a scoprirne
l’attualità del pensiero nel nostro modo di procedere contemporaneo.
E forse su questo a riflettere e argomentare, e auspicabilmente,
esprimere giudizi.
Carl Schmitt visse il dramma atroce della Germania del suo tempo:
sconfitta per tre volte, per tre volte ripudiata, per tre volte considerata come
criminale. Violentata e saccheggiata, per la sua pretesa di libertà, che in
definitiva, è istanza di riconoscimento di un’identità prigioniera dei forti.
In quest’ottica, la teoria dello spazio vitale e della guerra giusta
assumono connotati differenti. Ricondotti alla loro mente creatrice, che è
mente poiché è vissuto e determinazione di effetti, si ristabiliscono nella
loro essenza e finitezza.
Manipolazioni avvengono continuamente, e la nostra è spesso definita
come società della manipolazione diffusa. La guerra è proprio su questo
che fonda le proprie ragioni. Che la ragione stessa rifiuta di conoscere.
CAPITOLO I
Il nemico politico
Nell’opera già citata, Le categorie del politico, Schmitt imposta in modo
originale il problema della guerra. Egli lo riduce a determinazione di una
dinamica più vasta e generale, in questo senso condivisa e che tocca tutti,
appunto universale e esistenziale, che elabora speculativamente come teoria
dell’amico-nemico. E’ proprio questa teoria che cercheremo di esplorare,
limitatamente alla questione bellica, scoprendo ove tale analisi ci condurrà.
1. Il concetto di politico
1.1 Un nuovo punto di partenza
Come in ogni buon ragionamento logico, a Schmitt importa prima di
tutto una legge generale, condivisibile nelle sue aspettative dagli attori in
guerra, aldilà del loro numero o proprietà, delle loro denotazioni generali e
connotazioni specifiche. Il concetto di Stato è perciò di fondamentale
rilevanza. Esso racchiude, nella sua essenza, quella dei singoli protagonisti.
Il punto di partenza teoretico è un’ affermazione categorica: «Il concetto
di Stato presuppone quello di “politico”. Per il linguaggio odierno, stato è
lo Status politico di un popolo organizzato in un territorio chiuso»1. Il
“rimando” del concetto di stato a quello di politico non è un rimando logico
ad una nozione più ampia o originaria. E’ soprattutto il rimando alla sfera
dell’esistenza concreta, del divenire storico, della vita dei popoli. Lo Stato
rievoca lo status, la situazione, l’esistenzialità.
Comprendiamo a tal punto come l’indagine di Schmitt si concentri ora
sul politico, su ciò che è politico. Esso sussume lo statuale, come
categoricamente affermato, non ne dipende. Il concetto di Stato non può
1
M. NICOLETTI, Trascendenza, 260.
4
IL NEMICO POLITICO
dunque imporsi come fondamento nella sua riflessione filosofica, poiché
non è originario. Originario è invece il concetto di politico.
L’analisi di Schmitt non si pone qui alla ricerca dell’ “essenza” del
politico, proprio perché il mondo delle essenze, tradizionalmente inteso,
appare secondo lui inattingibile, in piena linea con la scuola
fenomenologica del tempo. Si pone piuttosto a livello di “concetto” o
“categoria” del politico, dove questi termini hanno smarrito il loro
riferimento sostanzialistico e stanno piuttosto ad indicare un “criterio”
ermeneutico capace di mettere in luce le strutture storiche dell’esistenza.
1.2 L’essenza del politico
A questo livello va ricercata l’essenza del politico. Secondo Schmitt,
invece, le definizioni più ricorrenti preferiscono definirla o in modo
negativo, contrapponendola ad altre sfere (economia, morale, diritto), o
assimilandola alla dimensione dello Stato o qualificandola come un ambito
o una dimensione interna allo Stato. Se la definizione del politico mediante
la contrapposizione ad altre sfere è insufficiente in quanto non coglie in
positivo il nocciolo del politico, le altre due direzioni rimandano alla
definizione di Stato. Ma, su questa strada, presupponendo il concetto di
Stato a quello di politico, cadremmo in un circolo vizioso che
ostacolerebbe una chiara formalizzazione del concetto.
Anche storicamente tale riferimento appare immotivato. In passato era
infatti possibile equiparare la dimensione politica a quella statuale in
quanto lo stato deteneva il monopolio del politico in contrapposizione alla
società (economia, religione, cultura) che era politicamente neutrale. Oggi,
di fronte ad uno stato totalmente compenetrato con la società, in cui nessun
settore sfugge al suo controllo e in cui «tutto è politico, almeno
virtualmente»2, identificare il concetto di politico con quello di statuale
significa precludersi la comprensione dell’essenza specifica del politico
così come della dinamica storica dello Stato:
La democrazia deve eliminare tutte le neutralizzazioni e spoliticizzazioni
tipiche del XIX secolo liberale e deve accantonare, insieme alla
contrapposizione Stato-società (= politico contro sociale), anche le alternative
e distinzioni proprie di quest’ultima.3
L’essenza del politico va dunque definita non ricorrendo a concetti tipici
di altre sfere, ma attraverso concetti e criteri propriμ come l’etica si
definisce a partire dalla distinzione tra buono e cattivo e l’estetica tra bello
2
3
M. NICOLETTI, Trascendenza, 261.
C. SCHMITT, Le categorie, 101.
IL NEMICO POLITICO
5
e brutto, la politica trova il suo criterio in una propria distinzione specifica,
quella tra amico (Freund) e nemico (Feind)4. Essa non è una spiegazione
né tantomeno una definizione esaustiva del contenuto. E’ piuttosto una
definizione concettuale, che non rimanda pertanto ad una realtà sostanziale,
ma ad una dimensione esistenziale. Proprio per questa ragione, Schmitt
parla non della “politica” ma di “politico”, intendendo con ciò un criterio di
rinvenimento di una categoria, di un “esistenziale”5. Proprio in ciò sta
l’autonomia del politicoμ per Schmitt esso ha criteri propri, è originario. La
politica si definisce come possibilità dell’esistenza, ove l’essere-con-glialtri assume il carattere di un’amicizia con gli uni e di un’inimicizia con gli
altri:
Il significato della distinzione tra amico e nemico è di indicare l’estremo grado
di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una
dissociazione. […] Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente
cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve necessariamente presentarsi
come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso
concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der
Fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso
particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel
caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né
attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo
“disimpegnato” e perciò “imparziale”.6
2. Il concetto di nemico
2.1 La definizione schmittiana
Il nemico è l’altro, colui che non ha le mie leggi, che non è sottoposto
all’ordine a cui io appartengo e con il quale dunque, in caso di conflitto,
non ho nulla di comune a cui appellarmi. Diverse sono le leggi, e non esiste
alcuna autorità riconosciuta da entrambi e ad entrambi superiore. Il nemico
non è qui definito con connotato etico, estetico o di valore, ma a partire da
una situazione esistenziale: è colui che vive una situazione altra rispetto
alla mia e non a questa riducibile, è esterno ad essa, estraneo7.
4
Ibidem, 108.
M. NICOLETTI, Trascendenza e potere, 262.
6
C. SCHMITT, Le categorie, 109.
7
«Nemico (hostis), poi, è chiunque vive fuori dello Stato, nel senso che non ne
riconosce la sovranità né come suddito né come confederatoμ non è l’odio, infatti, ma il
diritto dello Stato, quello che crea il nemico; e il diritto dello Stato nei riguardi di colui
che non ne riconosce la sovranità con nessuna forma di contratto è il medesimo che
verso chi gli abbia recato danno: egli può con qualunque mezzo venir costretto o alla
resa o alla confederazione.», in B. SPINOZA, Trattato teologico-politico, 387.
5
6
IL NEMICO POLITICO
In tale dinamica, non vi sono universali a cui appellarsi: non la ragione,
perché l’esistenza non può risolversi in essa e la situazione estrema non
può essere dalla ragione compresa e spiegata; non la legge, perché essa è
sempre relativa ad un ordinamento concreto, a un popolo, un territorio; non
un’autorità superiore perché nel conflitto, nell’aut-aut, non si può astrarre
dall’esistenza e raggiungere un punto di vista esterno a me.
Solo l’approfondimento dell’esistenza, l’essere parte in causa può
portare ad una decisione concreta. Epistemologicamente, non c’è una
conoscenza neutra, oggettiva, razionale della situazione conflittuale che
possa fondare la decisione. Solo chi è esistenzialmente coinvolto può comprendere e decidere, perché in questa decisione “ne va” della sua esistenza.
Non si tratta di sciogliere un enigma, di risolvere un problema, ma di decidere dell’esistenza in quanto tale, della propria esistenza messa in discussione dall’altro.
L’amicizia e l’inimicizia non vanno qui però intese come relative alla
sfera personale, bensì alla sfera pubblica. Non si tratta cioè categorie
definite da sentimenti umani di simpatia o antipatia, né semplicemente da
una competizione di interessi economici e professionali, ma da
un’appartenenza ad un gruppo diversoμ
Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure
l’avversario privato che ci odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo
un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una
possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello
stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si
riferisce ad un simile raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo,
diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in senso
ampio; il πο έ ο e non l’εχ ό 8.
L’essenza del politico sta nella distinzione amico-nemico, ma l’essenza
dell’inimicizia sta nell’inimicizia pubblica e dunque politica. Si nota
dunque una certa circolarità nella definizione concettuale di politico, che
rimanda anche al raggruppamento e dunque all’amicizia, a quel tipo di
relazione che unisce gli uomini in un gruppo sociale, in un popolo. Nemico
è colui che è altro rispetto a questo raggruppamento, che vi si oppone o può
farlo potenzialmente. Al centro del criterio politico per Schmitt non vi è
pertanto il “nemico”, ma l’“unità politica”.
In questa dialettica di reciproci rimandi, l’amicizia si definisce come
raggruppamento che include ed escludeμ porta con sé l’inimicizia, come suo
correlato necessario e viceversa.
8
C. SCHMITT, Le categorie, 111.
IL NEMICO POLITICO
7
2.2 Una giustificazione teologica?
La distinzione amico-nemico rivela la politica, ma al tempo stesso è da
questa caratterizzata, perché solo nell’orizzonte pubblico essa è da
amicizia-inimicizia nel senso specifico, mentre in quello privato essa
appartiene alla sfera dei sentimenti.
Questa distinzione fra nemico privato e pubblico, Schmitt cerca di
giustificarla, secondo alcuni critici, anche da un punto di vista teologico. E’
vero che egli afferma come nel passo evangelico che comanda l’amore per
i nemici (Mt 5,44 e Lc 6,27) ci si riferisca solo ai nemici privati e non ai
nemici pubblici (agli inimici e non agli hostes). Ciò si riscontra anche
nell’uso verbale: diligere e non amare, agapàn e non philéin.9
Nella lotta millenaria fra cristianità ed Islam, mai un cristiano ha pensato che
si dovesse cedere l’Europa, invece che difenderla, per amore verso i Saraceni
o i Turchi. Non è necessario odiare personalmente il nemico in senso politico,
e solo nella sfera privata ha senso amare il proprio “nemico”, cioè il proprio
avversario10.
Il piano religioso si mostra per Schmitt come il piano dell’eternità e
dell’universalità, mentre il piano politico è quello della contingenza e della
particolarità. Sul piano religioso è evidentemente possibile un amore
universale, mentre sul piano politico prevale la dimensione conflittuale
della distinzione amico-nemico, anche se questa non impone l’obbligo di
odiare il nemico.
Occorre però precisare che l’esempio suddetto di Schmitt non si riferisce
al cristianesimo in quanto dottrina, ma alla cristianità storica del Medioevo.
In quest’epoca la cristianità non ha significato puramente religioso, ma
rappresenta anche il raggruppamento politico che si identifica con
l’Occidente europeo. Su questo piano storico-contingente, e non su quello
religioso, anche la cristianità, in quanto società storicamente definita,
conosce la contrapposizione amico-nemico, ad esempio, nella lotta con
l’Islam.
L’inimicizia dunque, secondo tale prospettiva, ha una motivazione
puramente storica e non certamente una motivazione teologica.
I riferimenti evangelici citati dall’autore non possono essere intesi come
un tentativo di fondazione teologica del politico, e in particolare
dell’inimicizia, ma esprimono semplicemente la preoccupazione di Schmitt
di dimostrare che il politico sì definito non è incompatibile con il teologico.
9
Cfr. nota 1 in C. SCHMITT, Le categorie, 112
C. SCHMITT, Le categorie, 112.
10
CAPITOLO II
La possibilità estrema
1. Il politico e lo Stato
Se la politica, come è stato già detto, è fondata sulla distinzione amiconemico, la decisione politica per eccellenza – ossia la decisione sovrana –
riguarderà necessariamente l’identificazione dell’amico e del nemico.
Esattamente attorno a questa decisione, secondo Schmitt, si costituisce lo
Stato, ossia l’organizzazione dell’unità politica, che rimanda a sé la
decisione fondamentale, la decisione primaria, sovrana, relativa
all’esistenza stessa di un raggruppamento umano, di un popolo.
Storicamente, lo stato sovrano è emerso quando, di fronte alle guerre
civili di religione, tra XVI e XVII secolo, esso ha neutralizzato i conflitti
interni in favore di quelli esterni. Quest’ultimi si differenziano dai primi, ne
sono superiori. Rispecchiano una conflittualità assoluta, nella misura in cui
può sfociare in guerra, poiché non relativizzabili dalla dimensione
superiore dello stato, a cui il nemico non è sottoposto, e che, come si è già
rilevato, non è da questi riconosciuta.
Solo quando lo Stato perde la sua forza di distinguere l’amico dal
nemico, e dunque di relativizzare i conflitti interni, questi tendono ad
imporsi come più forti della generale unità politica e la situazione può
sfociare in guerra civile: non più i raggruppamenti di politica estera, ma
quelli di politica interna diventano decisivi per la sopravvivenza.
Per Schmitt, lo Stato è dunque dotato di unità politica e giuridica: come
ogni raggruppamento è un’esclusione, così ogni legge è una partizione.
Ogni pacificazione è una pacificazione interna con conseguente
individuazione del nemico esterno. L’esistenza umana, politica, giuridica,
storica, appare consegnata alla “parte”, al “limite”, impossibilitata a
pervenire all’universalità.
Ogni dimensione politica è perciò dimensione polemica, non solo nella
sua concreta esistenzialità, ma anche nel suo piano teoretico:
10
LA POSSIBILITÀ ESTREMA
Tutti i concetti, le espressioni, i termini politici hanno un senso polemico; essi
hanno presente una conflittualità concreta, la cui conseguenza estrema è il
raggruppamento amico-nemico (che si manifesta nella guerra e nella
rivoluzione), e diventano astrazione vuote e spente se questa situazione viene
meno. Termini come Stato, repubblica, società, classe e inoltre: sovranità,
stato di diritto, assolutismo, dittatura, piano, Stato neutrale o totale e così via
sono incomprensibili se non si sa chi in concreto deve venir colpito, negato e
contrastato attraverso quei termini stessi.1
La dimensione politica è la dimensione del prender parte, parte che si
differenzia dalle altre dialetticamente. Opponendosi alle altre si identifica
ed afferma. La politica è perciò essenzialmente dialettica, è opposizione
reale e lotta esistenziale piuttosto che puro scontro e differenziazione
ideale.
Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta. […] I
concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto
che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica.
La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è negazione assoluta di ogni
altro essere. E’ la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha bisogno di
essere qualcosa di quotidiano o di normale, e neppure di essere vista come
qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità
reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il suo significato. 2
2. La possibilità estrema
2.1 L’uccisione fisica, dunque, la morte
La possibilità dell’uccisione fisica e dunque della morte è ciò che
qualifica il conflitto come conflitto politico. E’ la morte come possibilità
che definisce l’esistenza politica e che impone la decisione in ordine al
rapporto amico-nemico. La decisione politica è decisione di fronte non alla
condizione normale, ma alla possibilità estrema, la morte:
Ancora oggi il caso di guerra è il caso critico. Si può dire che qui, come anche
in altri casi, proprio il caso d’eccezione ha un’importanza particolarmente
decisiva, in grado di rivelare il nocciolo delle cose. Infatti solo nella lotta reale
si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e
nemico. E’ da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua
tensione specificatamente politica.3
1
C. SCHMITT, Le categorie, 113.
Ibidem, 115-116.
3
Ibidem, 118.
2
LA POSSIBILITÀ ESTREMA
11
Tuttavia, sussiste una differenza non irrilevante fra morte e uccisione
fisica: se la morte è la possibilità estrema della vita ma ne costituisce anche
l’esito necessario, la seconda è solo la possibilità estrema, e non
necessariamente la conclusione della vita politica. E’ il limite radicale
(Grenz), forse anche l’orizzonte, lo sfondo, da cui essa prende forma e
assume significato.
Ma, nella dialettica schmittiana, tale limite non deve mai compiersi in
senso assoluto. Per definizione stessa, l’eliminazione fisica assoluta del
nemico comporta paradossalmente la fine della politica stessa. Tolto il
nemico, è tolto il conflitto e con esso l’identità stessa dei contendenti.
Quella di Schmitt è dunque tutt’altro che una teoria dello sterminio giusto,
o quantomeno giustificato. Sebbene, nella sua teoria, vi sia un legame
intrinseco tra politica e guerra così come tra politica e inimicizia, da
un’attenta analisi non si può desumere che la politica porti con sé
necessariamente la guerra:
Tutto ciò non vuol però assolutamente dire che l’essenza del “politico” non sia
altro che guerra sanguinosa e che ogni trattativa politica debba essere una
battaglia militare, né che ogni popolo sia ininterrottamente posto, di fronte ad
ogni altro, nell’alternativa di amico o nemico, e che la corretta scelta politica
non possa consistere proprio nell’evitare la guerra.4 La guerra non è dunque
scopo e meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto
sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il
pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento
politico.5
2.2 La guerra contro la guerra
La possibilità del conflitto, dunque, appartiene alla dialettica delle parti,
dal momento che l’esistenza storica è sempre un’esistenza parziale che si
definisce in opposizione ad altro. Eliminare l’opposizione significherebbe
sopprimere la stessa dinamica storica e comporterebbe paradossalmente
una nuova opposizione, una guerra contro ogni guerra. Per Schmitt,
quest’ultima sarebbe la più radicale e crudele di ogni altra, perché negando
ogni cittadinanza alle opposizioni e alle inimicizie sopprimerebbe l’alterità
togliendo l’identità dell’altro e annientandolo o assimilandolo del tutto a séμ
La guerra si svolge allora nella forma di “ultima guerra finale dell’umanità”.
Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane
poiché, superando il “politico”, squalificano il nemico anche sotto il profilo
4
5
C. SCHMITT, Le categorie, 116.
Ibidem, 117.
12
LA POSSIBILITÀ ESTREMA
morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano
che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè
non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini.6
Il confine torna ad essere il segno della partizione, della finitezza e
parzialità dell’esistenza storica. Oltre il confine c’è l’altro, la presenza
minacciosa che può varcare il limite e mettere in forse la nostra esistenza,
ma al tempo stesso l’altro è una presenza che rafforza i confini, che ci
contiene e dà unità e identità al nostro esistere.
2.3 Il politico come esistenziale
Così senza l’altro non vi sarebbe un io identico a se stesso, senza
dialettica amico-nemico, nella prospettiva schmittiana, non vi sarebbe
identità e soggettività politica. La presenza dell’altro, del nemico, benché
minacciosa, va dunque mantenuta aldilà del confine e non eliminata.
L’essenza del politico come esistenziale, che caratterizza l’essere-con-glialtri, non è la lotta stessa, che ha piuttosto le sue proprie leggi tecniche,
psicologiche e militari, ma
in un comportamento determinato da questa possibilità reale, nella chiara
conoscenza della situazione particolare in tal modo creatasi e nel compito di
distinguere correttamente amico e nemico.7
Gli elementi che costituiscono il politico, dunque, sono: reale possibilità
del conflitto, chiara conoscenza della situazione, corretta distinzione
amico-nemico. Il politico non partecipa solo ad una situazione di minaccia
e alla risposta immediata ad essaμ suo compito è piuttosto un’analisi
razionale del contingente che determina una decisione corretta al caso,
fosse anche quello estremo della morte.
Ciò che differenzia l’unità politica rispetto agli altri tipi di associazione è
il fatto che essa garantisce l’esistenza fisica del gruppo stesso, e pertanto la
sua stessa identità. La vita o la morte di quella comunità umana in quanto
tale dipendono dalla sua unità politica e dunque dall’istanza sovrana che la
governa, nell’epoca moderna lo Stato. E’ lo Stato solo che può distinguere
l’amico dal nemico e può organizzare la difesa del gruppo umano. Allo
scopo di realizzare tale difesa esso può richiedere il sacrificio della vita ai
suoi membri. Questo prerogativa, applicata ad esempio nello jus belli,
comporta la duplice possibilità di ottenere dagli appartenenti al proprio
6
7
C. SCHMITT, Le categorie, 120.
Ibidem, 120.
LA POSSIBILITÀ ESTREMA
13
popolo la disponibilità a morire e ad uccidere, e di uccidere gli uomini che
stanno dalla parte del nemico.8
L’appartenenza politica si rivela, esistenzialmente, come l’appartenenza
delle appartenenzeμ essa abbraccia l’impossibilità di ogni altra possibilità,
appunto la morte. E’ vero che anche un’associazione religiosa può
richiedere ai propri membri il sacrificio della vita, ma solo al fine della
salvezza dell’anima e non certo per la sopravvivenza del gruppo stesso.
Questo è compito del politico, innato nella sua essenza e legittimamente
richiesto dalla sua realtà esistenziale, la minaccia di morte.
8
C. SCHMITT, Le categorie, 133.
CONCLUSIONE
La guerra, la disponibilità a morire dei combattenti, l’uccisione fisica di altri
uomini che stanno dalla parte del nemico, tutto ciò non ha alcun senso
normativo, ma solo uno esistenziale, riferito cioè alla realtà di una situazione
consistente nella lotta reale contro un nemico reale, e non ad un qualsiasi
ideale, programma o normatività. Non esiste uno scopo razionale, né una
norma così giusta, né un programma così esemplare, né un ideale sociale così
bello, né una legittimità o legalità che possa far apparire giusto che gli uomini
si ammazzino a vicenda. […] Una guerra non può fondarsi neppure su norme
etiche e giuridiche1.
La distinzione amico-nemico è una distinzione puramente politica e il
pretendere di giustificare un’inimicizia o una guerra sulla base di
motivazioni morali o religiose non eleva la politica in una sfera ideale, ma
trascina piuttosto la morale o la religione sul terreno dello scontro e le
trasforma in fattore di intensificazione più che di mitigazione del conflitto.
Nell’affermare l’originarietà del politico, intendiamo non solo che vi
sono criteri e norme proprie che definiscono il politico, ma anche che
qualsiasi elemento, anche esterno alla politica, che entri sul terreno politico
si trasforma in elemento politico e deve sottostare a queste leggi. Diviene
fattore politico. Un esempio è l’applicazione del concetto di giustizia a
quello di guerra operata dalle scienze giuridiche nel XIX secolo. Afferma
Schmitt:
Che la giustizia non rientri nel concetto di guerra è ormai riconosciuto
generalmente da Grozio in poi. Le costruzioni che auspicano una guerra giusta
servono abitualmente a loro volta ad uno scopo politico2
più che ad una legittimazione giuridica della guerra. Schmitt visse nella
propria vita l’applicazione, a suo parere indebita, di categorie morali al
1
2
C. SCHMITT, Le categorie, 133.
Ibidem, 133.
16
CONCLUSIONE
diritto internazionale, per esempio nel trattamento inferto alla Germania
dopo la prima guerra mondiale. Il giudizio sulla Germania si poggiava
allora sul considerarla non più come avversario politico, ma come paese
“criminale”. Ciò ha significato togliere ogni dignità politica e la sovranità
stessa alla Germania, con conseguenti tensioni ed estremismi del popolo, in
cerca di un’identità che appariva perduta, o defraudata.
L’indipendenza del politico è dunque precisamente collegata alla
problematica della sovranità.
La costruzione di una sorta di “super-stato” (non necessariamente con
i connotati hobbesiani del Leviatano) da parte di diversi stati del mondo
che decidessero tutti mediante un contratto di rinunciare alla propria
sovranità, al proprio diritto di muovere guerra e di fare giustizia, ai propri
armamenti, per consegnare tutto nelle mani di un’istanza sovranazionale, è
impossibile. Ogni unità politica è unificazione di una parte, è pacificazione
interna con parallela mobilitazione sul fronte esterno. L’affermazione dello
stato è sì neutralizzazione dei conflitti interni, ma è parallelamente anche
affermazione di diversità rispetto al nemico esterno.
L’umanità in quanto tale non ha nemici, almeno sulla terra, e voler
unificare il mondo in nome dell’umanità è impossibile. Questo progetto,
per Schmitt, è dannoso, oltre che inutile. Esso rischia di giudicare gli
avversari come non-uomini, non appartenenti all’umanità, togliendo loro
quella dignità che invece il concetto classico di nemico aveva così
fortemente voluto salvaguardare:
Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare
questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto la pretesa che al nemico
va tolta la qualità di uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la-loi e horsl’humanité e quindi che la guerra dev’essere portata fino all’estrema
inumanità.3
In ultima analisi, un “super stato” comporterebbe l’annientamento di
ogni confine, e come presupposto, la distruzione dello spazio vitale del
nemico. Ciò sarebbe giustificato solo deumanizzandolo, riducendolo a male
mostruoso, incarnazione intollerabile di un male da debellare con fermezza.
In realtà, per Schmitt, un mondo denotato da tale umanità presunta, si
connoterebbe nella sua continua possibilità di implosione.
Paradossalmente, nella pretesa di monopolizzare il concetto di umanità,
nel richiamarsi ad essa giustificando la fine del nemico, non facciamo altro
che prolungare un inconscio processo di deumanizzazione delle nostre
azioni e del nostro vivere, che ci condurrebbe a un universale fratricidio
suicida. E’ la deriva inconsapevole dell’estrema inumanità.
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C. SCHMITT, Le categorie, 139.
BIBLIOGRAFIA
BAUDRILLARD, J., The intelligence of evil or the Lucididy Pact, Oxford 2005.
GADAMER, H.G., Verità e Metodo, Milano 2000.
NICOLETTI, M., Trascendenza e potere. La teologia politica di Carl Schmitt,
Brescia 2000.
SCHMITT, C., Le categorie del politico, Bologna 1972.
WEIL, S., Attesa di Dio, Milano 2011.
INDICE GENERALE
INTRODUZIONE
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CAPITOLO PRIMO: Il nemico politico
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1. Il concetto di politico
1.1 Un nuovo punto di partenza
1.2 L’essenza del politico
2. Il concetto di nemico
2.1 La definizione schmittiana
2.2 Una giustificazione teologica?
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CAPITOLO SECONDO: La possibilità estrema
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1. Il politico e lo Stato
2. La possibilità estrema
2.1 L’uccisione fisica, dunque, la morte
2.2 La guerra contro la guerra
2.3 Il politico come esistenziale
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CONCLUSIONE
BIBLIOGRAFIA
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