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Politica "al femminile". Interviste a Elsa Fornero e Nadia Urbinati

Che cosa hanno da dirci Elsa Fornero, professoressa di Economia politica, già Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel Governo Monti, e Nadia Urbinati, politologa della Columbia University di New York, sulla leadership femminile in politica? Elsa Fornero si interroga su come le giovani donne possano impegnarsi in politica, al servizio del proprio Paese e nel rispetto delle istituzioni, mantenendo uno sguardo attento al sociale. Per questo ha attinto alla sua decennale esperienza professionale per un impegno politico dallo stile pedagogico, con un grande senso del dovere e del rispetto per ciascuno. Con l'esperienza di Nadia Urbinati indaghiamo invece il rapporto tra donne e politica su un duplice piano. In ambito accademico, dove nel nostro Paese la filosofia politica era tradizionalmente riservata agli uomini, e nell'odierno scenario europeo e italiano: quale contributo possono portare le donne per cambiare un clima sociale e politico, sempre più populista e improntato alla logica amico-nemico? Attraverso una leadership attenta alle differenze, capace di circondarsi di collaboratori coraggiosi e con un marcato senso del limite, oggi le donne, nelle proprie culture, religioni e tradizioni, possono essere promotrici di un'alleanza multietnica tra soggetti svantaggiati. Prosegue così il dossier sull'empowerment femminile (cfr il riquadro nella pagina seguente). dossier Politica "al femminile" 135

Politica “al femminile” dossier Interviste a Elsa Fornero e Nadia Urbinati a cura di Chiara Tintori Redazione di Aggiornamenti Sociali, <chiara.tintori@aggiornamentisociali.it>, @chiartin Che cosa hanno da dirci Elsa Fornero, professoressa di Economia politica, già Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel Governo Monti, e Nadia Urbinati, politologa della Columbia University di New York, sulla leadership femminile in politica? Elsa Fornero si interroga su come le giovani donne possano impegnarsi in politica, al servizio del proprio Paese e nel rispetto delle istituzioni, mantenendo uno sguardo attento al sociale. Per questo ha attinto alla sua decennale esperienza professionale per un impegno politico dallo stile pedagogico, con un grande senso del dovere e del rispetto per ciascuno. Con l’esperienza di Nadia Urbinati indaghiamo invece il rapporto tra donne e politica su un duplice piano. In ambito accademico, dove nel nostro Paese la filosofia politica era tradizionalmente riservata agli uomini, e nell’odierno scenario europeo e italiano: quale contributo possono portare le donne per cambiare un clima sociale e politico, sempre più populista e improntato alla logica amico-nemico? Attraverso una leadership attenta alle differenze, capace di circondarsi di collaboratori coraggiosi e con un marcato senso del limite, oggi le donne, nelle proprie culture, religioni e tradizioni, possono essere promotrici di un’alleanza multietnica tra soggetti svantaggiati. Prosegue così il dossier sull’empowerment femminile (cfr il riquadro nella pagina seguente). Aggiornamenti Sociali febbraio 2018 (133-146) 133 Elsa Fornero: «Servire il proprio Paese, lontano dai “semplicismi”» Prima di fare il Ministro nel Governo Monti (2011-2013), quali altre esperienze di impegno politico ha maturato? La mia unica esperienza politica precedente alla partecipazione al Governo Monti fu nel Consiglio comunale di Torino, nella prima giunta Castellani (1993-1997). In quell’occasione fui eletta nella lista civica Alleanza per Torino. Era il periodo di Mani pulite, con i partiti in gravi difficoltà e i politici quasi vergognosi di apparire. Torino si aprì alla società civile con una lista formata quasi interamente da persone al di fuori dei partiti, nella quale mi fu chiesto di entrare. Feci un minimo di campagna elettorale, certo in maniera poco “politica” e, con una certa sorpresa, ottenni un numero abbastanza alto di voti per risultare eletta come terza in lista. Iniziò così un bel periodo di impegno per il rinnovamento della città; molte basi della storia di successo della trasformazione di Torino da città industriale in declino a una delle capitali italiane di arte e cultura furono poste in quel periodo. C’erano coesione, entusiasmo e senso civico, una certa visione strategica; il che non vuol dire che tutto fosse perfetto, ma almeno che esisteva una direzione nella quale i cittadini (o una parte importante di essi) potevano riconoscersi. Dossier empowerment femminile Negli ultimi decenni in Italia abbiamo assistito a una crescita della presenza di manager femminili in diverse organizzazioni e ambiti professionali. Di quale modello di leadership possono farsi portatrici le donne? Questa è la domanda da cui ha preso le mosse il dossier sull’empowerment femminile, che prosegue, dopo le interviste ad Alessandra Viscovi e Alessandra Smerilli (Aggiornamenti Sociali, 1, 14-26), ascoltando le esperienze di alcune donne che sono state o sono tuttora ai vertici di istituzioni imprenditoriali, accademiche, politiche e culturali. Senza alcuna pretesa di esaustività o validità statistica, indagheremo se e come queste donne, nei loro ruoli, hanno potuto esprimere la propria originalità femminile. Il nostro intento non è di rivendicare forme di parità o di limitarci a riconoscere una qualche complementarità tra il femmi134 Chiara Tintori nile e il maschile, anche rispetto a posizioni apicali, per lo più occupate ancora oggi da uomini. Piuttosto, dando voce alle loro interessanti storie, ci chiederemo di quali novità sono portatrici, se incontrano ostacoli e condizionamenti nell’esercizio delle proprie responsabilità, come conciliano vita personale, familiare e lavorativa. Il dossier, frutto di un lungo percorso di ascolto, confronto e ricerca, si concluderà con un articolo della redazione di Aggiornamenti Sociali, in cui tracceremo l’orizzonte nel quale si sono inserite le interviste. Confrontarsi sull’empowerment femminile sarà un’occasione preziosa per ampliare lo spazio di riflessione culturale sul valore della diversità e sul suo senso simbolico: come far crescere le relazioni sociali nella differenza, con uno stile attento a integrare il femminile e il maschile? dossier Elsa Fornero è professore In quale modo il suo essere donna ha ordinario di Economia poinciso su questa prima esperienza politica? litica presso l’Università Presumo che il mio essere donna di Torino e coordinatore abbia influito sul mio modo di fare scientifico del Center for politica, anche se è difficile dire come. Research on Pensions and Dal punto di vista della collocazione Welfare Policies del Collegio Carlo Alberto nello spazio politico io mi sono sem- (www.cerp.carloalberto.org/it/). Dal novembre 2011 all’aprile 2013 ha fatto parte del pre definita una persona di centro Governo guidato da Mario Monti, in qualicon sensibilità sociale e, quindi, con tà di Ministro del Lavoro e delle Politiche lo sguardo rivolto a sinistra. E cre- sociali con delega alle Pari opportunità. A do di avere dato questa testimonian- lei si debbono la riforma pensionistica del za anche nella mia attività di consi- dicembre 2011 e la riforma del lavoro del giugno 2012. La prima è ancora vigente; la gliere comunale (ero presidente della seconda ha costituito la base per l’evoluzioCommissione bilancio, e mi occupavo ne successiva (Jobs Act). quindi in prevalenza di temi economici). Ogni tanto, anche lì mi accusavano di essere “professorale”, intendendo il termine come una critica, ma l’insegnamento universitario ha occupato una parte molto importante nella mia vita professionale e cercare di non essere “pedagogica” sarebbe rinnegare una parte importante della mia professionalità. Ciascuno di noi ha un bagaglio di competenze e di esperienze che caratterizzano non soltanto la sfera personale, ma anche quella sociale, e io ho sempre creduto nel valore sociale dell’insegnamento. In ogni caso, dopo quell’esperienza, pur interessante e positiva, decisi che la vita politica non era il mio ambito ideale e tornai all’impegno universitario. Come è nata dunque la sua partecipazione al Governo Monti, come Ministro del Lavoro, delle Politiche sociali e delle Pari opportunità? Non mi aspettavo la chiamata di Mario Monti. Lo conoscevo da tempo, essendo lui stato per diversi anni docente a Torino e per averlo successivamente invitato io stessa per parlare di Europa al fine di avvicinare le istituzioni europee ai cittadini. Quando fu nominato senatore a vita, nel novembre 2011, e tutti compresero che sarebbe stato incaricato di formare il Governo, pensai che mi avrebbe coinvolta, come tecnico, in una commissione per la riforma delle pensioni, dato che conosceva i miei studi in materia. Non mi aspettavo certo la proposta di entrare nel Governo come Ministro del Lavoro, delle Politiche sociali e delle Pari opportunità, un “portafoglio di competenze” complesso e assai delicato. Accettai, peraltro avendo poco più di un’ora per decidere, proprio perché la richiesta veniva da Mario Monti, nel quale nutrivo grande fiducia. Politica “al femminile” 135 Quali attese ha vissuto rispetto a questo suo nuovo incarico pubblico? Ho sempre interpretato l’esperienza del Governo tecnico come un’occasione per re-indirizzare il Paese verso una crescita non soltanto economica, ma anche civile e morale (almeno nel senso di moralità pubblica, con minore corruzione e maggiore senso delle istituzioni), dopo il lungo, lacerante e anche improduttivo periodo dello scontro tra berlusconiani e antiberlusconiani. Molti hanno dimenticato che il relativo declino dell’Italia non è cominciato con la crisi finanziaria del 2008, ma molto prima. Nei confronti del Governo tecnico ci fu quindi inizialmente un senso positivo di attesa, forse anche di “catarsi”, che però non riuscimmo a capitalizzare e a trasformare in energia per la crescita. Credo che in una certa misura sia stato inevitabile. Il Governo Monti era nato per rispondere, con misure immediate e certo non gratificanti, almeno nel breve periodo, al rischio di crisi della finanza pubblica: da tempo ormai la spesa non era compensata dalle imposte e il mercato finanziario, italiano e mondiale, era sempre più riluttante ad acquistare titoli del nostro debito pubblico. Bisognava restituire credibilità al nostro debito sui mercati internazionali e ciò richiedeva riforme incisive, chiare e applicabili immediatamente o quasi, non rinviate a un futuro lontano, com’era tradizione. E a questo compito fui chiamata in qualità di Ministro del Lavoro, con la richiesta di realizzare in tempi brevissimi la riforma pensionistica e quella del lavoro. Le sue precedenti esperienze professionali e personali “al femminile” che cosa hanno portato in dote al suo servizio, in un momento così critico? Essenzialmente il senso del dovere. Sapevo di essere parte di una squadra e al servizio del Paese e che non stavo correndo per un mio futuro ruolo politico. Qualcuno può pensare che si tratti di un’affermazione arrogante. Tuttavia, posso dire in coscienza che in tutte le riunioni di preparazione delle due riforme non ci fu mai un’occasione in cui il nostro specifico interesse non fosse il Paese. Non mi domandavo se una certa misura potesse essere gradita o meno a un partito, un sindacato, un gruppo di pressione. La domanda era sempre se poteva essere utile a risolvere un problema del Paese. Certo, nessuno poi ha la certezza che le cose funzionino nel senso desiderato nel mondo reale, molto più complesso di quanto tutte le nostre analisi possano prevedere. Però la spinta ideale c’era, eccome. E quanto all’interpretazione generale dei bisogni del Paese, io ritenevo che dovessimo cercare di rafforzare le politiche a favore 136 Chiara Tintori dossier dei giovani, fortemente penalizzati nel passato. In tutta onestà, penso di poter dire che questo è l’elemento comune alle due riforme che portano il mio nome. Negli anni della sua esperienza governativa, ha avuto anche la possibilità di partecipare a vertici internazionali, specie in Europa. Quali ricordi custodisce della sua attività europea? Sì, ho lavorato molto con l’Europa, ma più in generale in ambito internazionale. Credo fermamente che l’Unione Europea, pur molto migliorabile, sia il nostro ambito naturale. In Europa noi dobbiamo esserci non già – o non soltanto – per rimediare ai nostri difetti storici (come l’eccessiva tendenza al debito), ma per contribuire fattivamente alla costruzione di un’Unione molto più presente nello scenario internazionale e molto più efficace nel promuovere i suoi valori fondanti. La mia prima riunione dei Ministri del Lavoro a Bruxelles si tenne pochi giorni dopo il nostro insediamento. Il Commissario europeo al Lavoro, Lazlo Andor, mi invitò a una colazione di buon mattino per dirmi molto chiaramente che uno dei miei obiettivi doveva essere di migliorare l’uso dei fondi strutturali per la formazione da parte delle Regioni, risorse europee mal gestite o addirittura sprecate in un Paese che pure ha un estremo bisogno di formazione per aiutare i giovani e i non più giovani a trovare un’occupazione. Lavorai molto con lui anche in seguito, ad esempio per realizzare la cosiddetta Garanzia giovani 1. Lavorai molto, e bene, anche con la mia controparte tedesca, la ministra Ursula von der Leyen, con la quale realizzammo un importante accordo sull’apprendistato duale, con finanziamenti del Governo tedesco per il raggiungimento di una conoscenza base di quella lingua e come molte imprese tedesche pronte ad accogliere apprendisti italiani. Lo presentammo a Napoli, coinvolgendo scuole professionali dei quartieri più difficili, ma il programma, che avrebbe richiesto lavoro assiduo e forte cooperazione tra il mondo del lavoro e quello della scuola anche nel nostro Paese, fu lasciato cadere. In generale, all’estero (ma all’inizio anche in Italia) c’era comunque un atteggiamento positivo verso il nostro Governo e spesso ero invitata per incontri bilaterali o per visite preparatorie di accordi. Mi ricordo l’invito a visitare la Cina che mi venne dalla Associazione delle donne di tutta la Cina (circa 700 milioni!), un organismo politico molto importante nel Paese. Non ero mai stata in Cina e fu una visita molto istruttiva e nella quale incontrai molti ministri. Ricordo che a ogni discorso cominciavo con un’osservazione sulla 1 Cfr SORCIONI M. – TERZO G., «Garanzia Giovani in Italia. Politiche per l’occupazione giovanile al vaglio», in Aggiornamenti Sociali, 11 (2017) 718-728. Politica “al femminile” 137 grandezza dei nostri rispettivi Paesi seguita da una frase rassicurante del tipo “l’Italia onora i suoi debiti”; questo perché è bene ricordare che la Cina era, e in parte è ancora, un nostro importante creditore, per conseguenza molto interessato alla solvibilità dello Stato italiano. Ricordo anche che i ministri erano molto interessati alle sorti di Berlusconi. Ha avuto anche la delega alle Pari opportunità. Che cosa ha significato per lei? La parità – e non soltanto di genere – è l’ambito nel quale ho avuto meno critiche. E non tanto perché a un Governo tecnico non si chiedono interventi su delicati temi sociali, ma perché credo che si sia inteso che il principio guida a cui ispirare il mio comportamento da ministro fu quello insegnatomi dai miei genitori: il rispetto che si deve a ogni persona, indipendentemente dal colore della pelle, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso. È un principio che cancella il senso di superiorità, l’istintiva discriminazione e riduce la paura del “diverso”. Non è facile, ovviamente, declinare questo principio in norme e più ancora in comportamenti, ma almeno per me esso è stato il fondamento che ha ispirato la mia azione in materia di pari opportunità. Sono orgogliosa, in proposito, della firma da me apposta a Strasburgo alla Convenzione di Istanbul sulla violenza nei confronti delle donne e sulla violenza in famiglia. Non fu una firma facile, perché molti politici italiani erano o apertamente contrari o timorosi di “dare fastidio”, in particolare alle gerarchie ecclesiastiche. Sicuramente un “eccesso di zelo”, dato che non credo vi fosse alcuna opposizione da parte di queste ultime. A Roma ho però imparato che molti vogliono (o forse volevano, dati i cambiamenti impressi da papa Francesco) “accreditarsi” come interpreti autentici degli orientamenti della Curia romana, senza in realtà averne titolo. In ogni caso riuscii a firmare la Convenzione, in seguito adottata dal Governo e quindi recepita dal Parlamento nel nostro ordinamento giuridico. Quello del contrasto alla violenza di genere è però un percorso lungo che non implica soltanto l’introduzione di norme adeguate, ma richiama in modo fondamentale proprio il rispetto della persona di cui parlavo prima. In ogni caso, questo ambito della mia attività mi ha insegnato molte cose, sicuramente allargando le prospettive squisitamente economiche entro le quali mi dovevo muovere come Ministro del Lavoro, anche in considerazione della grave crisi finanziaria nella quale il Paese rischiava di precipitare. 138 Chiara Tintori dossier Talvolta le leggi in Italia non bastano per garantire le pari opportunità: come lavorare sulla dimensione culturale? Sono convinta che si debba partire proprio dall’insegnamento del rispetto della persona nelle scuole, a partire da quelle materne (non è mai troppo presto, basta adottare il linguaggio appropriato). Credo che questo, unito a un maggiore dialogo tra scuola e famiglia, possa essere di aiuto anche alle stesse famiglie, oggi in difficoltà proprio nel ruolo di primi educatori dei figli. Oltre al rispetto della diversità, va insegnato anche il rispetto della propria persona. Oggi c’è una tendenza – pericolosa, a mio avviso – all’esibizione di sé stessi attraverso i social, dove si rischia di perdere la sincerità, perché si vuole inevitabilmente apparire più belli, più forti, più importanti, più influenti di quanto in realtà si è. Credo sia importante recuperare un po’ di “discrezione”, per contrastare la spinta a ritenere che si è qualcuno solo se si appare. In ogni caso, il lavoro sulla dimensione culturale è ovviamente a 360 gradi, e dovrebbe includere tutte le fasce di età. Lei è sposata con figli. Come ha potuto conciliare un’ intensa attività professionale e pubblica con le esigenze della vita familiare? Non avrei potuto svolgere il mio lavoro di ministro se non avessi avuto il sostegno convinto della mia famiglia, a cominciare da mio marito, Mario Deaglio. Le passeggiate nelle domeniche in cui ero libera – il che capitava, non avendo io alcun impegno “di partito” – attraverso le campagne del mio paese presso Torino e il pranzo domenicale con i nostri figli e i cinque nipotini sono state il ricostituente che mi ha permesso di sostenere un ritmo intensissimo di lavoro. Anche per loro non è stato facile. Mia figlia, in particolare, è stata ingiustamente attaccata e vittima di fake news, come quella sul suo pensionamento a 39 anni, che le è costata ingiurie e minacce. La cosa più dolorosa è stato il vedere trasformati in disvalori tutti i principi che io e mio marito abbiamo cercato di trasmettere ai nostri figli, come l’impegno personale trasformato in favoritismo. Che cosa consiglierebbe a giovani donne che si affacciano alla politica, desiderose di mettersi al servizio del proprio territorio? Intanto credo sia fondamentale la parte che qualifica la domanda, ossia quel «desiderose di mettersi al servizio del proprio territorio». Oggi (ma non solo oggi) spesso si entra in politica soltanto per appagare ambizioni personali, se non addirittura per arricchirsi. Eppure la buona politica richiede “spirito di servizio” e senso delle istituzioni. Non si è soli, ma si rappresenta qualcuno e si è dentro un quadro di istituzioni che danno forma, magari imPolitica “al femminile” 139 perfettamente, alla nostra democrazia. Purtroppo opportunismo e cinismo sono presenti ovunque, ma credo che la politica (o forse la politica dei nostri tempi) ne abbia una dose superiore alla media delle altre attività, come l’esperienza da ministro mi ha confermato in modo forte e inequivocabile. Occorre poi rifuggire dai “semplicismi”, che oggi sfociano troppo facilmente nel populismo: far credere che le soluzioni ai problemi sociali siano sempre facili e che manchi soltanto la “voglia” o l’interesse dei politici per realizzarle è pericoloso. I problemi dell’economia e della società sono sempre complessi e nessuno ha le chiavi in tasca per risolverli. L’importante è essere pragmatici, imboccare la strada giusta, monitorare gli effetti delle misure adottate, avere la disponibilità e l’apertura mentale per rivedere ciò che avrebbe potuto essere fatto meglio. E anche avere coraggio, talvolta quello dell’impopolarità, altre volte quello del non conformismo. Molte giovani donne italiane sono sicuramente pronte ad assumersi importanti responsabilità politiche o di governo, in ambito territoriale, nazionale o anche internazionale. Come ha scritto la poetessa polacca Wislawa Szymborska, «It’s easy, impossible, toughgoing, worth a shot» (È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena) 2. Un verso che adottai come mio motto per l’esperienza di governo. Nadia Urbinati: «Se vince il populismo, meno spazio per le donne» Come è nata la sua passione per la teoria della politica? Prima di approdare alla Columbia University ha avuto altre esperienze professionali? Mi sono laureata in filosofia a Bologna, interessandomi di positivismo e liberalismo ottocentesco, poi mi sono “convertita” alla teoria politica, in principio per necessità e subito dopo per piacere. Quando decisi di concorrere per il dottorato di ricerca, infatti, mi rivolsi a quello in filosofia politica proposto in Italia dall’Istituto Universitario Europeo. Ho vinto il concorso e ho iniziato così un percorso filosofico-politico, che negli Stati Uniti è diventato poi decisamente teorico-politico. Non è stato facile migrare tra discipline e tradizioni universitarie, ma con il tempo ci sono riuscita e mi sono adattata. Il mio percorso americano è nato per caso: dovevo rimanere negli Stati Uniti solo un anno con una borsa di studio per terminare la mia dissertazione sul liberalismo ottocentesco, poi si è aggiunto un altro 2 SZYMBORSKA W., Poems, New and Collected, 1957-1997, Houghton Mifflin Harcourt, Boston 2000, 161. 140 Chiara Tintori dossier anno e così via, con varie altre borse di studio, tra le quali quella all’Institute for Advanced Study di Princeton. Ho così vissuto un’altra “conversione” professionale e di vita; è stato molto complicato e relativamente faticoso adattarmi, anche perché avevo una conoscenza dell’inglese patetica, ma poi ho cominciato a insegnare negli Stati Uniti e dal 1996 sono alla Columbia University. Inoltre, rientrare in Italia non era per niente facile: quando ne ho sentito il desiderio e il bisogno, non sono riuscita a trovare una soluzione accademica in Italia. Politologa e giornalista italiana, Nadia Urbinati è docente di Teoria politica alla Columbia University di New York; insegna anche alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e all’Università Bocconi. Tra i suoi volumi più recenti: La Vera Seconda Repubblica: l’ideologia e la macchina (insieme a David Ragazzoni, Cortina, Milano 2016); Democrazia sfigurata. Il popolo tra verità e opinione (Egea Bocconi, Milano 2014, traduzione dall’inglese); Democrazia in diretta (Feltrinelli, Milano 2014). Collabora con i quotidiani La Repubblica e Il Sole 24 Ore e con il Movimento Federalista Europeo. Quali sono stati i principali ostacoli alla sua carriera accademica in Italia? È difficile dare un giudizio certo, perché le generalizzazioni non sono mai corrette e l’aspetto emotivo è ineliminabile. Però ricordo un fatto interessante, folcloristico. Filosofia a Bologna aveva un maestro, Antonio Santucci, specializzato in filosofia settecentesca e poi anche in empiristica e pragmatica, ma a dispetto di questa tendenza teorica che ha ispirato rivoluzioni e politiche egualitarie, era convinto che la filosofia fosse un “terreno” maschile. Tra il serio e il faceto, sosteneva che mentre la storia della filosofia potesse andare bene per le donne, la filosofia teoretica come capacità logico-riflessiva fosse più adatta alla mente maschile. Tale visione aveva poco a che fare con l’empirismo e il pragmatismo, ma sappiamo che i pregiudizi non hanno né disciplina né età. In effetti, almeno negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, nella disciplina di Storia della filosofia c’erano più donne che in altri sottosettori, anche se nei gradini bassi della carriera. Comunque, il commento di Santucci mi colpì molto e ha lasciato il segno. Ci tengo a precisare che questa è la mia esperienza, e da una sola esperienza non è corretto trarre generalizzazioni, tuttavia ritengo che questa mentalità non fosse (e non sia) minoritaria. Per secoli le discipline “nobili” secondo il canone umanistico, come la teologia e la filosofia, sono state praticate da uomini; con la professionalizzazione universitaria della ricerca e dell’insegnamento, le donne hanno cominciato ad affacciarsi anche in questi campi, ma hanno faticato non poco a trovare spazi di espressione adeguati e giusti. In effetti, la professionalizzazione della filosofia ha aperto le porte anche alle donne. Tuttavia, nonostante la formazione sia per legge Politica “al femminile” 141 più universalista (per principio e secondo la politica dei diritti, che si basa sul criterio del merito personale), il sistema dei valori (ideologici-politici-etici) è ancora resistente alla presenza delle donne; non voglio però pensare che alla base di questo ci sia ancora l’opinione sulla loro genetica impermeabilità alla riflessione teoretica! Com’ è l’ambiente accademico americano rispetto alla presenza femminile? L’università americana è molto preoccupata, in senso positivo, di includere le donne e le altre “minoranze”. A partire dagli anni ’70 negli Stati Uniti si è perseguita una politica nota come Affermative Action. Prendiamo il caso dell’università: non ci sono concorsi nazionali e ogni ateneo, privato o pubblico, bandisce concorsi definendo di quale specialità ha bisogno L’Affermative Action significa legislazioni nei singoli dipartimenti; laddove il plue regolamenti che richiedono, nei luoghi ralismo è basso e la presenza maschile è di lavoro e professionali, un’attenzione poquasi totale, nell’annunciare il concorso sitiva alle minoranze in caso di parità di si specifica che si attribuisce particolare merito, con lo scopo di favorire la pluralità attenzione alle minoranze e/o al genere. di genere, gruppi etnici e razze. Le decisioni in questo senso sono del singolo dipartimento. Il concorso a cui ho partecipato nel 1995 non aveva questa caratteristica: all’orale furono ammessi quattro candidati, tre uomini appena dottorati oltre a me, che ero la più anziana. Le mie condizioni di partenza non erano favorevoli anche perché ero esterna al percorso di studi statunitense; ma alla Columbia University, che ha un legame consolidato con l’Europa e con il mio tipo di ricerca, questo non è stato uno svantaggio. Detto ciò, nonostante il senso di riconoscimento e la cultura dell’inclusione, ancora oggi le donne sono troppo poche nei dipartimenti americani, in alcuni più che in altri. Veniamo alla politica dei nostri giorni. In Europa e in Italia respiriamo un’aria antipartitica, una voglia di riscatto da parte del popolo contro un’ élite che rischia di degenerare in populismi. C’ è un ruolo per la donna? Lei intravede uno stile femminile che può dare un contributo positivo? I partiti, pur con la loro struttura oligarchica e selettiva, sono stati un’importante porta aperta per le donne che volevano occuparsi attivamente di politica, anche perché i primi cercavano di intercettare tutte le fasce possibili dell’elettorato. In Italia e in Europa – in alcuni Paesi meno che in altri – questa è stata un’esperienza importante nell’età della democratizzazione. Quanto rilievo le donne poi abbiano avuto all’interno dei partiti, dipende dai singoli Paesi. Mi spiego. 142 Chiara Tintori dossier Nei Paesi cattolici, come Spagna e Italia, dove la cultura eticopolitica e religiosa fa la differenza, le donne faticano ad assumere ruoli dirigenziali in politica, mentre sono più presenti nell’azione sociale della solidarietà e nelle associazioni volontaristiche. È una questione di valori e di cultura etica: la funzione sociale è ritenuta superiore a quella politica, e questa è un’eredità del mondo cattolico. Abbiamo certamente avuto delle eccezioni, visto che in Italia la costruzione democratica ha visto un largo protagonismo politico dei cattolici e della sinistra, a partire dalla Costituente con ventuno donne, di cui nove democristiane: molto brave, presenti e anche incisive. Secondo me la transizione populista, antipartitica, come l’ha chiamata lei giustamente, costituisce una difficoltà in più per le donne che vogliono entrare o rimanere in politica, perché quest’ultima è talmente destrutturata e lasciata alle singole personalità, che solo chi ha capacità molto “testosteroniche”, fatte di sgomitate e arrivismo, ha più speranza di farcela. È come un’arena di battaglia tra galletti! Vuole dire che solo le donne “con i pantaloni” riescono ad affermarsi in politica, secondo uno stile molto vicino a quello della Merkel? Sì, è proprio così; ma non dimentichiamo che Angela Merkel è parte di una struttura partitica. La vita politica tedesca, come quella britannica, è ancora strutturata in partiti e movimenti organizzati e ramificati sul territorio. In altri Paesi europei che hanno movimenti populisti di rilievo (come l’Ungheria, la Polonia, l’Olanda, l’Austria, la Spagna e anche l’Italia) i leader sono generalmente maschi (con l’eccezione di Marine Le Pen in Francia); più complesso è il caso dell’America Latina, con donne capi di partito e di Governo (in Argentina con Evita Péron e recentemente Cristina de Kirchner, entrambe mogli di leader populisti prima e poi esse stesse leader, tra l’altro molto amate; in Brasile, con Dilma Rousseff). Il populismo europeo è fortemente basato su una rappresentanza personalistica e plebiscitaria, con un uso del linguaggio che non lesina aggressività e che segue la logica amico-nemico; qui è più difficile per le donne trovare spazio, non perché siano più “buone” degli uomini, ma perché lo stile bellico della politica (in particolare quella populista) ha una connotazione di genere maschile più marcata. Il quadro che lei ha tracciato non è molto rincuorante, specie per le giovani donne che vogliono giocarsi in politica, mettendosi al servizio anche del proprio territorio. La dimensione locale e quella extra-istituzionale della politica hanno interessanti specificità. La politica si è destrutturata e senza Politica “al femminile” 143 i partiti a fare da collante la dimensione locale si è allontanata da quella nazionale: nel quartiere o nella propria città ci sono forse più possibilità per le donne di svolgere ruoli pubblici e politici. È un fatto accertato che in Italia la presenza femminile è inversamente proporzionale alla rilevanza dei ruoli dirigenziali: sono poche le donne sindaco nelle metropoli e nelle città medio-grandi (con le recenti eccezioni di Roma e Torino) 3. Si può ipotizzare che con l’elezione diretta dei sindaci e la struttura eccessivamente personalistica della politica comunale la donna torni a svolgere ruoli pubblici nei movimenti “dal basso”, legati a situazioni e problemi concreti da risolvere; a vivere una politica come vita attiva sociale. In una società multietnica, in cui la sfida principale è quella di conciliare inclusione e sicurezza, che ruolo possiamo avere noi donne? Un grande ruolo, perché intravedo una comunanza di condizioni, al di là delle varie ed enormi differenze tra le religioni, le culture etiche e sociali, le tradizioni. Soffermiamoci sul caso delle religioni. Le religioni monoteiste, quelle nate nel bacino mediterraneo e che conosciamo meglio, sono basate sulla centralità del ruolo maschile, con una posizione ancillare della donna (nella religione cattolica le donne non possono accedere al sacramento del sacerdozio, un vulnus che alcune Chiese cristiane riformate hanno corretto). Non ci sono in queste religioni posizioni “neutre” rispetto alle relazioni tra i sessi; secondo i filosofi della storia e gli antropologi non c’è da stupirsene perché alla base della religione vi è anche l’esigenza culturale di controllo delle emozioni e delle pulsioni: il buon governo della società parte dal controllo dei singoli. In alcuni passi del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa (penso a san Paolo o a sant’Agostino) vi è l’idea che la donna sia portatrice di pulsioni tentatrici di difficile controllo razionale. In altre religioni, come quella islamica, le donne devono essere velate in segno di modestia ma anche per contenere la loro disposizione a indurre in tentazione l’uomo. Non è un azzardo dire che tra i fattori mondani e culturali che animano le religioni vi è il controllo della sessualità (e, in effetti, di un genere in particolare). Proprio per questa simile condizione trasversale alle religioni, le donne si trovano nella condizione migliore per aprire un varco al di là delle loro culture, etnie e tradizioni così da incontrare le altre donne, senza la pretesa di dare e portare chissà quale emancipazione: incontro di donne che scontano comunque degli svantaggi. Una sorta di alleanza universale e interreligiosa tra sog3 All’8 marzo 2016, nei Comuni fino a 15mila abitanti vi sono 982 sindaci donna e oltre 6mila uomini. Invece nei Comuni con popolazione superiore ai 15mila abitanti sono alla guida dei centri urbani 66 donne contro 600 colleghi maschi [N.d.R.]. 144 dossier getti non dominanti, capaci di vedere le condizioni di comunanza e non solo le differenze, che pure sono importanti. Negli ultimi dieci anni in Italia si è avuta una crescita notevole del management femminile in tutte le organizzazioni e le professioni. Riesce a individuare tre qualità del modello di leadership al femminile del quale le donne dovrebbero farsi portatrici? La prima è l’attenzione alle differenze, non per concedere privilegi, ma per capire che uomini e donne hanno un diverso rapporto con l’ambiente di lavoro per ragioni sociali e personali che sono le più svariate e che dovrebbero essere riconosciute e rispettate. Una buona dirigente aziendale dovrebbe essere attenta a questa specificità e non barricarsi dietro a un neutralismo che nel mondo del lavoro non può esserci, anche perché le mansioni non sono state ritagliate su un “umano” generico, ma sul genere dominante. La seconda qualità che intravedo potrebbe essere quella di circondarsi di collaboratori e collaboratrici liberi e vivaci, capaci di essere autonomi e volitivi invece che subalterni o procacciatori di favori (gli “yes man”!). Collaboratori coraggiosi, che vogliono rischiare, critici perché la critica è un tonico per la persona e l’azienda, un volano di innovazione. Infine, non avere mai di sé un’opinione troppo alta; essere capaci di praticare la cultura del limite; essere consapevoli che facciamo parte di un mondo fatto di persone comunque limitate e che sbagliano. Abbiamo bisogno di collaborare proprio perché ciascuno di noi ha specifiche potenzialità ma non possiede tutta la gamma dei poteri. Non avere quella spocchia che spesso si vede in coloro che dirigono mondi aziendali o realtà politiche come se fossero monarchi assoluti. Questo senso di distacco dalla propria professione o dal proprio ruolo è quel che chiamo “senso del limite”, una sorta di ironia socratica che favorisce il distacco tra sé e il proprio ruolo, tra il potere che si esercita e la propria limitatezza di potere. Per quella che è la sua esperienza, come è possibile oggi conciliare vita personale e lavorativa? È complicatissimo, noi donne siamo tutte acrobate e la mia acrobazia è stata radicale, tanto che mi ha portato a non avere né famiglia né figli. Quindi nel mio caso vivo sofferenze di altro tipo, legate alla solitudine, ma non ho problemi nel conciliare tempi di vita familiare e di lavoro. Però ammiro profondamente le mie giovani colleghe che scelgono di avere una famiglia, perché sanno gestire questa complessità, perché riescono a produrre, a scrivere – e non è facile con dei figli poter passare tanto tempo sui libri – e a conciliare il lavoro, gli affetti e la funzione domestica di madre. Certo oggi si Politica “al femminile” 145 può contare anche su compagni e mariti collaborativi, più cooperanti e meno dominanti rispetto al passato. Tuttavia questo non è sufficiente; occorrerebbe avere una società più disposta ad accettare la famiglia nelle sue implicazioni, a organizzare il mondo della produzione con quello della riproduzione. Le tappe per far carriera nelle professioni molto competitive dovrebbero essere pensate in relazione ai tempi di vita familiare. Ad esempio, nel mio dipartimento universitario le colleghe che hanno richiesto mesi di congedo per maternità o per motivi familiari non vengono penalizzate nella promozione o nel salario se in quei mesi non riescono a produrre. Se si vuole davvero che la società sia più attenta agli affetti e alla famiglia, occorre organizzare e ripensare in modo diverso il governo del tempo e dell’ambiente di lavoro, soprattutto nel caso delle libere professioni, che sono anche quelle più penalizzanti per le donne. Organizzare il tempo di lavoro più che limitarsi a monetarizzare con incentivi la maternità: questa mi sembra una buona strada. Certo il percorso è lungo e richiede molta attenzione alle condizioni specifiche. Oggi chi riesce a conciliare bene famiglia e professione è una sorta di eroe; dal mio punto di vista, quella conciliazione non dovrebbe che essere una forma di vita sana, una sanità quotidiana. 146 © FCSF - Aggiornamenti Sociali