Politica “al femminile”
dossier
Interviste a Elsa Fornero e Nadia Urbinati
a cura di
Chiara Tintori
Redazione di Aggiornamenti Sociali,
<chiara.tintori@aggiornamentisociali.it>,
@chiartin
Che cosa hanno da dirci Elsa Fornero, professoressa di Economia politica, già Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali
nel Governo Monti, e Nadia Urbinati, politologa della Columbia
University di New York, sulla leadership femminile in politica?
Elsa Fornero si interroga su come le giovani donne possano impegnarsi in politica, al servizio del proprio Paese e nel rispetto
delle istituzioni, mantenendo uno sguardo attento al sociale.
Per questo ha attinto alla sua decennale esperienza professionale per un impegno politico dallo stile pedagogico, con
un grande senso del dovere e del rispetto per ciascuno. Con
l’esperienza di Nadia Urbinati indaghiamo invece il rapporto tra
donne e politica su un duplice piano. In ambito accademico,
dove nel nostro Paese la filosofia politica era tradizionalmente
riservata agli uomini, e nell’odierno scenario europeo e italiano:
quale contributo possono portare le donne per cambiare un
clima sociale e politico, sempre più populista e improntato alla
logica amico-nemico? Attraverso una leadership attenta alle
differenze, capace di circondarsi di collaboratori coraggiosi e
con un marcato senso del limite, oggi le donne, nelle proprie
culture, religioni e tradizioni, possono essere promotrici di
un’alleanza multietnica tra soggetti svantaggiati. Prosegue così
il dossier sull’empowerment femminile (cfr il riquadro nella
pagina seguente).
Aggiornamenti Sociali febbraio 2018 (133-146)
133
Elsa Fornero: «Servire il proprio Paese,
lontano dai “semplicismi”»
Prima di fare il Ministro nel Governo Monti (2011-2013), quali
altre esperienze di impegno politico ha maturato?
La mia unica esperienza politica precedente alla partecipazione al Governo Monti fu nel Consiglio comunale di Torino, nella
prima giunta Castellani (1993-1997). In quell’occasione fui eletta
nella lista civica Alleanza per Torino. Era il periodo di Mani pulite, con i partiti in gravi difficoltà e i politici quasi vergognosi di
apparire. Torino si aprì alla società civile con una lista formata
quasi interamente da persone al di fuori dei partiti, nella quale
mi fu chiesto di entrare. Feci un minimo di campagna elettorale,
certo in maniera poco “politica” e, con una certa sorpresa, ottenni
un numero abbastanza alto di voti per risultare eletta come terza
in lista. Iniziò così un bel periodo di impegno per il rinnovamento
della città; molte basi della storia di successo della trasformazione
di Torino da città industriale in declino a una delle capitali italiane
di arte e cultura furono poste in quel periodo. C’erano coesione,
entusiasmo e senso civico, una certa visione strategica; il che non
vuol dire che tutto fosse perfetto, ma almeno che esisteva una direzione nella quale i cittadini (o una parte importante di essi) potevano riconoscersi.
Dossier empowerment femminile
Negli ultimi decenni in Italia abbiamo assistito a una crescita della presenza di manager femminili in diverse organizzazioni e
ambiti professionali. Di quale modello di
leadership possono farsi portatrici le donne? Questa è la domanda da cui ha preso
le mosse il dossier sull’empowerment femminile, che prosegue, dopo le interviste ad
Alessandra Viscovi e Alessandra Smerilli
(Aggiornamenti Sociali, 1, 14-26), ascoltando le esperienze di alcune donne che sono
state o sono tuttora ai vertici di istituzioni
imprenditoriali, accademiche, politiche e
culturali. Senza alcuna pretesa di esaustività o validità statistica, indagheremo se e
come queste donne, nei loro ruoli, hanno
potuto esprimere la propria originalità femminile. Il nostro intento non è di rivendicare
forme di parità o di limitarci a riconoscere
una qualche complementarità tra il femmi134
Chiara Tintori
nile e il maschile, anche rispetto a posizioni apicali, per lo più occupate ancora oggi
da uomini. Piuttosto, dando voce alle loro
interessanti storie, ci chiederemo di quali
novità sono portatrici, se incontrano ostacoli e condizionamenti nell’esercizio delle
proprie responsabilità, come conciliano vita
personale, familiare e lavorativa.
Il dossier, frutto di un lungo percorso di
ascolto, confronto e ricerca, si concluderà
con un articolo della redazione di Aggiornamenti Sociali, in cui tracceremo l’orizzonte nel quale si sono inserite le interviste.
Confrontarsi sull’empowerment femminile
sarà un’occasione preziosa per ampliare
lo spazio di riflessione culturale sul valore
della diversità e sul suo senso simbolico:
come far crescere le relazioni sociali nella
differenza, con uno stile attento a integrare
il femminile e il maschile?
dossier
Elsa Fornero è professore
In quale modo il suo essere donna ha
ordinario di Economia poinciso su questa prima esperienza politica?
litica presso l’Università
Presumo che il mio essere donna
di Torino e coordinatore
abbia influito sul mio modo di fare
scientifico del Center for
politica, anche se è difficile dire come.
Research on Pensions and
Dal punto di vista della collocazione Welfare Policies del Collegio Carlo Alberto
nello spazio politico io mi sono sem- (www.cerp.carloalberto.org/it/). Dal novembre 2011 all’aprile 2013 ha fatto parte del
pre definita una persona di centro Governo guidato da Mario Monti, in qualicon sensibilità sociale e, quindi, con tà di Ministro del Lavoro e delle Politiche
lo sguardo rivolto a sinistra. E cre- sociali con delega alle Pari opportunità. A
do di avere dato questa testimonian- lei si debbono la riforma pensionistica del
za anche nella mia attività di consi- dicembre 2011 e la riforma del lavoro del
giugno 2012. La prima è ancora vigente; la
gliere comunale (ero presidente della seconda ha costituito la base per l’evoluzioCommissione bilancio, e mi occupavo ne successiva (Jobs Act).
quindi in prevalenza di temi economici). Ogni tanto, anche lì mi accusavano di essere “professorale”,
intendendo il termine come una critica, ma l’insegnamento universitario ha occupato una parte molto importante nella mia vita
professionale e cercare di non essere “pedagogica” sarebbe rinnegare una parte importante della mia professionalità. Ciascuno di
noi ha un bagaglio di competenze e di esperienze che caratterizzano non soltanto la sfera personale, ma anche quella sociale, e io
ho sempre creduto nel valore sociale dell’insegnamento. In ogni
caso, dopo quell’esperienza, pur interessante e positiva, decisi che
la vita politica non era il mio ambito ideale e tornai all’impegno
universitario.
Come è nata dunque la sua partecipazione al Governo Monti, come
Ministro del Lavoro, delle Politiche sociali e delle Pari opportunità?
Non mi aspettavo la chiamata di Mario Monti. Lo conoscevo
da tempo, essendo lui stato per diversi anni docente a Torino e per
averlo successivamente invitato io stessa per parlare di Europa al fine
di avvicinare le istituzioni europee ai cittadini. Quando fu nominato senatore a vita, nel novembre 2011, e tutti compresero che sarebbe
stato incaricato di formare il Governo, pensai che mi avrebbe coinvolta, come tecnico, in una commissione per la riforma delle pensioni, dato che conosceva i miei studi in materia. Non mi aspettavo
certo la proposta di entrare nel Governo come Ministro del Lavoro,
delle Politiche sociali e delle Pari opportunità, un “portafoglio di
competenze” complesso e assai delicato. Accettai, peraltro avendo
poco più di un’ora per decidere, proprio perché la richiesta veniva
da Mario Monti, nel quale nutrivo grande fiducia.
Politica “al femminile”
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Quali attese ha vissuto rispetto a questo suo nuovo incarico pubblico?
Ho sempre interpretato l’esperienza del Governo tecnico come un’occasione per re-indirizzare il Paese verso una crescita
non soltanto economica, ma anche civile e morale (almeno nel
senso di moralità pubblica, con minore corruzione e maggiore senso delle istituzioni), dopo il lungo, lacerante e anche improduttivo
periodo dello scontro tra berlusconiani e antiberlusconiani. Molti
hanno dimenticato che il relativo declino dell’Italia non è cominciato con la crisi finanziaria del 2008, ma molto prima.
Nei confronti del Governo tecnico ci fu quindi inizialmente un
senso positivo di attesa, forse anche di “catarsi”, che però non riuscimmo a capitalizzare e a trasformare in energia per la crescita. Credo che in una certa misura sia stato inevitabile. Il Governo Monti
era nato per rispondere, con misure immediate e certo non gratificanti, almeno nel breve periodo, al rischio di crisi della finanza pubblica: da tempo ormai la spesa non era compensata dalle
imposte e il mercato finanziario, italiano e mondiale, era sempre più
riluttante ad acquistare titoli del nostro debito pubblico. Bisognava
restituire credibilità al nostro debito sui mercati internazionali e ciò
richiedeva riforme incisive, chiare e applicabili immediatamente o
quasi, non rinviate a un futuro lontano, com’era tradizione. E a
questo compito fui chiamata in qualità di Ministro del Lavoro, con
la richiesta di realizzare in tempi brevissimi la riforma pensionistica
e quella del lavoro.
Le sue precedenti esperienze professionali e personali “al femminile”
che cosa hanno portato in dote al suo servizio, in un momento così
critico?
Essenzialmente il senso del dovere. Sapevo di essere parte di una
squadra e al servizio del Paese e che non stavo correndo per un mio
futuro ruolo politico. Qualcuno può pensare che si tratti di un’affermazione arrogante. Tuttavia, posso dire in coscienza che in tutte
le riunioni di preparazione delle due riforme non ci fu mai un’occasione in cui il nostro specifico interesse non fosse il Paese. Non mi
domandavo se una certa misura potesse essere gradita o meno a
un partito, un sindacato, un gruppo di pressione. La domanda
era sempre se poteva essere utile a risolvere un problema del
Paese. Certo, nessuno poi ha la certezza che le cose funzionino nel
senso desiderato nel mondo reale, molto più complesso di quanto
tutte le nostre analisi possano prevedere. Però la spinta ideale c’era,
eccome. E quanto all’interpretazione generale dei bisogni del Paese,
io ritenevo che dovessimo cercare di rafforzare le politiche a favore
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Chiara Tintori
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dei giovani, fortemente penalizzati nel passato. In tutta onestà, penso di poter dire che questo è l’elemento comune alle due riforme che
portano il mio nome.
Negli anni della sua esperienza governativa, ha avuto anche la possibilità di partecipare a vertici internazionali, specie in Europa. Quali
ricordi custodisce della sua attività europea?
Sì, ho lavorato molto con l’Europa, ma più in generale in ambito
internazionale. Credo fermamente che l’Unione Europea, pur molto
migliorabile, sia il nostro ambito naturale. In Europa noi dobbiamo
esserci non già – o non soltanto – per rimediare ai nostri difetti
storici (come l’eccessiva tendenza al debito), ma per contribuire fattivamente alla costruzione di un’Unione molto più presente nello
scenario internazionale e molto più efficace nel promuovere i suoi
valori fondanti.
La mia prima riunione dei Ministri del Lavoro a Bruxelles si
tenne pochi giorni dopo il nostro insediamento. Il Commissario
europeo al Lavoro, Lazlo Andor, mi invitò a una colazione di buon
mattino per dirmi molto chiaramente che uno dei miei obiettivi
doveva essere di migliorare l’uso dei fondi strutturali per la formazione da parte delle Regioni, risorse europee mal gestite o
addirittura sprecate in un Paese che pure ha un estremo bisogno
di formazione per aiutare i giovani e i non più giovani a trovare
un’occupazione. Lavorai molto con lui anche in seguito, ad esempio
per realizzare la cosiddetta Garanzia giovani 1.
Lavorai molto, e bene, anche con la mia controparte tedesca,
la ministra Ursula von der Leyen, con la quale realizzammo un
importante accordo sull’apprendistato duale, con finanziamenti del
Governo tedesco per il raggiungimento di una conoscenza base di
quella lingua e come molte imprese tedesche pronte ad accogliere
apprendisti italiani. Lo presentammo a Napoli, coinvolgendo scuole
professionali dei quartieri più difficili, ma il programma, che avrebbe richiesto lavoro assiduo e forte cooperazione tra il mondo del lavoro e quello della scuola anche nel nostro Paese, fu lasciato cadere.
In generale, all’estero (ma all’inizio anche in Italia) c’era comunque un atteggiamento positivo verso il nostro Governo e spesso ero
invitata per incontri bilaterali o per visite preparatorie di accordi.
Mi ricordo l’invito a visitare la Cina che mi venne dalla Associazione delle donne di tutta la Cina (circa 700 milioni!), un organismo
politico molto importante nel Paese. Non ero mai stata in Cina e
fu una visita molto istruttiva e nella quale incontrai molti ministri.
Ricordo che a ogni discorso cominciavo con un’osservazione sulla
1 Cfr SORCIONI M. – TERZO G., «Garanzia Giovani in Italia. Politiche per l’occupazione giovanile al vaglio», in Aggiornamenti Sociali, 11 (2017) 718-728.
Politica “al femminile”
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grandezza dei nostri rispettivi Paesi seguita da una frase rassicurante
del tipo “l’Italia onora i suoi debiti”; questo perché è bene ricordare
che la Cina era, e in parte è ancora, un nostro importante creditore,
per conseguenza molto interessato alla solvibilità dello Stato italiano. Ricordo anche che i ministri erano molto interessati alle sorti
di Berlusconi.
Ha avuto anche la delega alle Pari opportunità. Che cosa ha significato per lei?
La parità – e non soltanto di genere – è l’ambito nel quale ho
avuto meno critiche. E non tanto perché a un Governo tecnico non
si chiedono interventi su delicati temi sociali, ma perché credo che
si sia inteso che il principio guida a cui ispirare il mio comportamento da ministro fu quello insegnatomi dai miei genitori: il
rispetto che si deve a ogni persona, indipendentemente dal colore della pelle, dall’orientamento sessuale, dal credo religioso.
È un principio che cancella il senso di superiorità, l’istintiva discriminazione e riduce la paura del “diverso”. Non è facile, ovviamente,
declinare questo principio in norme e più ancora in comportamenti,
ma almeno per me esso è stato il fondamento che ha ispirato la mia
azione in materia di pari opportunità.
Sono orgogliosa, in proposito, della firma da me apposta
a Strasburgo alla Convenzione di Istanbul sulla violenza nei
confronti delle donne e sulla violenza in famiglia. Non fu una
firma facile, perché molti politici italiani erano o apertamente contrari o timorosi di “dare fastidio”, in particolare alle gerarchie ecclesiastiche. Sicuramente un “eccesso di zelo”, dato che non credo
vi fosse alcuna opposizione da parte di queste ultime. A Roma ho
però imparato che molti vogliono (o forse volevano, dati i cambiamenti impressi da papa Francesco) “accreditarsi” come interpreti
autentici degli orientamenti della Curia romana, senza in realtà
averne titolo. In ogni caso riuscii a firmare la Convenzione, in
seguito adottata dal Governo e quindi recepita dal Parlamento nel
nostro ordinamento giuridico. Quello del contrasto alla violenza
di genere è però un percorso lungo che non implica soltanto l’introduzione di norme adeguate, ma richiama in modo fondamentale proprio il rispetto della persona di cui parlavo prima. In ogni
caso, questo ambito della mia attività mi ha insegnato molte cose,
sicuramente allargando le prospettive squisitamente economiche
entro le quali mi dovevo muovere come Ministro del Lavoro, anche in considerazione della grave crisi finanziaria nella quale il
Paese rischiava di precipitare.
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Chiara Tintori
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Talvolta le leggi in Italia non bastano per garantire le pari opportunità: come lavorare sulla dimensione culturale?
Sono convinta che si debba partire proprio dall’insegnamento
del rispetto della persona nelle scuole, a partire da quelle materne
(non è mai troppo presto, basta adottare il linguaggio appropriato).
Credo che questo, unito a un maggiore dialogo tra scuola e famiglia,
possa essere di aiuto anche alle stesse famiglie, oggi in difficoltà
proprio nel ruolo di primi educatori dei figli.
Oltre al rispetto della diversità, va insegnato anche il rispetto
della propria persona. Oggi c’è una tendenza – pericolosa, a mio
avviso – all’esibizione di sé stessi attraverso i social, dove si rischia
di perdere la sincerità, perché si vuole inevitabilmente apparire più
belli, più forti, più importanti, più influenti di quanto in realtà si è.
Credo sia importante recuperare un po’ di “discrezione”, per contrastare la spinta a ritenere che si è qualcuno solo se si appare.
In ogni caso, il lavoro sulla dimensione culturale è ovviamente a 360 gradi, e dovrebbe includere tutte le fasce di età.
Lei è sposata con figli. Come ha potuto conciliare un’ intensa attività
professionale e pubblica con le esigenze della vita familiare?
Non avrei potuto svolgere il mio lavoro di ministro se non avessi
avuto il sostegno convinto della mia famiglia, a cominciare da mio
marito, Mario Deaglio. Le passeggiate nelle domeniche in cui ero
libera – il che capitava, non avendo io alcun impegno “di partito”
– attraverso le campagne del mio paese presso Torino e il pranzo
domenicale con i nostri figli e i cinque nipotini sono state il ricostituente che mi ha permesso di sostenere un ritmo intensissimo
di lavoro. Anche per loro non è stato facile. Mia figlia, in particolare,
è stata ingiustamente attaccata e vittima di fake news, come quella
sul suo pensionamento a 39 anni, che le è costata ingiurie e minacce.
La cosa più dolorosa è stato il vedere trasformati in disvalori tutti i
principi che io e mio marito abbiamo cercato di trasmettere ai nostri
figli, come l’impegno personale trasformato in favoritismo.
Che cosa consiglierebbe a giovani donne che si affacciano alla politica, desiderose di mettersi al servizio del proprio territorio?
Intanto credo sia fondamentale la parte che qualifica la domanda, ossia quel «desiderose di mettersi al servizio del proprio territorio». Oggi (ma non solo oggi) spesso si entra in politica soltanto
per appagare ambizioni personali, se non addirittura per arricchirsi.
Eppure la buona politica richiede “spirito di servizio” e senso
delle istituzioni. Non si è soli, ma si rappresenta qualcuno e si
è dentro un quadro di istituzioni che danno forma, magari imPolitica “al femminile”
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perfettamente, alla nostra democrazia. Purtroppo opportunismo
e cinismo sono presenti ovunque, ma credo che la politica (o forse
la politica dei nostri tempi) ne abbia una dose superiore alla media
delle altre attività, come l’esperienza da ministro mi ha confermato
in modo forte e inequivocabile.
Occorre poi rifuggire dai “semplicismi”, che oggi sfociano troppo
facilmente nel populismo: far credere che le soluzioni ai problemi sociali siano sempre facili e che manchi soltanto la “voglia”
o l’interesse dei politici per realizzarle è pericoloso. I problemi
dell’economia e della società sono sempre complessi e nessuno ha
le chiavi in tasca per risolverli. L’importante è essere pragmatici,
imboccare la strada giusta, monitorare gli effetti delle misure adottate, avere la disponibilità e l’apertura mentale per rivedere ciò che
avrebbe potuto essere fatto meglio. E anche avere coraggio, talvolta
quello dell’impopolarità, altre volte quello del non conformismo.
Molte giovani donne italiane sono sicuramente pronte ad assumersi
importanti responsabilità politiche o di governo, in ambito territoriale, nazionale o anche internazionale. Come ha scritto la poetessa
polacca Wislawa Szymborska, «It’s easy, impossible, toughgoing,
worth a shot» (È facile, impossibile, difficile, ne vale la pena) 2. Un
verso che adottai come mio motto per l’esperienza di governo.
Nadia Urbinati: «Se vince il populismo,
meno spazio per le donne»
Come è nata la sua passione per la teoria della politica? Prima di
approdare alla Columbia University ha avuto altre esperienze professionali?
Mi sono laureata in filosofia a Bologna, interessandomi di positivismo e liberalismo ottocentesco, poi mi sono “convertita” alla
teoria politica, in principio per necessità e subito dopo per piacere.
Quando decisi di concorrere per il dottorato di ricerca, infatti, mi
rivolsi a quello in filosofia politica proposto in Italia dall’Istituto
Universitario Europeo. Ho vinto il concorso e ho iniziato così
un percorso filosofico-politico, che negli Stati Uniti è diventato
poi decisamente teorico-politico. Non è stato facile migrare tra
discipline e tradizioni universitarie, ma con il tempo ci sono riuscita
e mi sono adattata.
Il mio percorso americano è nato per caso: dovevo rimanere negli
Stati Uniti solo un anno con una borsa di studio per terminare la mia
dissertazione sul liberalismo ottocentesco, poi si è aggiunto un altro
2 SZYMBORSKA W., Poems, New and Collected, 1957-1997, Houghton Mifflin Harcourt, Boston 2000, 161.
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Chiara Tintori
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anno e così via, con varie altre borse di
studio, tra le quali quella all’Institute for
Advanced Study di Princeton. Ho così
vissuto un’altra “conversione” professionale e di vita; è stato molto complicato e
relativamente faticoso adattarmi, anche
perché avevo una conoscenza dell’inglese patetica, ma poi ho cominciato a
insegnare negli Stati Uniti e dal 1996
sono alla Columbia University. Inoltre,
rientrare in Italia non era per niente facile: quando ne ho sentito il desiderio e il
bisogno, non sono riuscita a trovare una
soluzione accademica in Italia.
Politologa e giornalista
italiana, Nadia Urbinati è
docente di Teoria politica
alla Columbia University
di New York; insegna anche alla Scuola Superiore
Sant’Anna di Pisa e all’Università Bocconi.
Tra i suoi volumi più recenti: La Vera Seconda Repubblica: l’ideologia e la macchina
(insieme a David Ragazzoni, Cortina, Milano 2016); Democrazia sfigurata. Il popolo
tra verità e opinione (Egea Bocconi, Milano
2014, traduzione dall’inglese); Democrazia
in diretta (Feltrinelli, Milano 2014). Collabora con i quotidiani La Repubblica e Il
Sole 24 Ore e con il Movimento Federalista
Europeo.
Quali sono stati i principali ostacoli alla sua carriera accademica
in Italia?
È difficile dare un giudizio certo, perché le generalizzazioni non
sono mai corrette e l’aspetto emotivo è ineliminabile. Però ricordo
un fatto interessante, folcloristico. Filosofia a Bologna aveva un
maestro, Antonio Santucci, specializzato in filosofia settecentesca
e poi anche in empiristica e pragmatica, ma a dispetto di questa
tendenza teorica che ha ispirato rivoluzioni e politiche egualitarie,
era convinto che la filosofia fosse un “terreno” maschile. Tra il serio
e il faceto, sosteneva che mentre la storia della filosofia potesse
andare bene per le donne, la filosofia teoretica come capacità
logico-riflessiva fosse più adatta alla mente maschile. Tale visione aveva poco a che fare con l’empirismo e il pragmatismo, ma
sappiamo che i pregiudizi non hanno né disciplina né età. In effetti,
almeno negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, nella disciplina di Storia della filosofia c’erano più donne che in altri sottosettori, anche se
nei gradini bassi della carriera. Comunque, il commento di Santucci
mi colpì molto e ha lasciato il segno.
Ci tengo a precisare che questa è la mia esperienza, e da una sola
esperienza non è corretto trarre generalizzazioni, tuttavia ritengo
che questa mentalità non fosse (e non sia) minoritaria. Per secoli le
discipline “nobili” secondo il canone umanistico, come la teologia e
la filosofia, sono state praticate da uomini; con la professionalizzazione universitaria della ricerca e dell’insegnamento, le donne hanno
cominciato ad affacciarsi anche in questi campi, ma hanno faticato
non poco a trovare spazi di espressione adeguati e giusti.
In effetti, la professionalizzazione della filosofia ha aperto le porte
anche alle donne. Tuttavia, nonostante la formazione sia per legge
Politica “al femminile”
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più universalista (per principio e secondo la politica dei diritti, che
si basa sul criterio del merito personale), il sistema dei valori (ideologici-politici-etici) è ancora resistente alla presenza delle donne;
non voglio però pensare che alla base di questo ci sia ancora l’opinione
sulla loro genetica impermeabilità alla riflessione teoretica!
Com’ è l’ambiente accademico americano rispetto alla presenza femminile?
L’università americana è molto preoccupata, in senso positivo, di
includere le donne e le altre “minoranze”. A partire dagli anni ’70
negli Stati Uniti si è perseguita una politica nota come Affermative Action. Prendiamo il caso dell’università: non ci sono concorsi
nazionali e ogni ateneo, privato o pubblico, bandisce concorsi definendo di quale specialità ha bisogno
L’Affermative Action significa legislazioni
nei singoli dipartimenti; laddove il plue regolamenti che richiedono, nei luoghi
ralismo è basso e la presenza maschile è
di lavoro e professionali, un’attenzione poquasi totale, nell’annunciare il concorso
sitiva alle minoranze in caso di parità di
si specifica che si attribuisce particolare
merito, con lo scopo di favorire la pluralità
attenzione alle minoranze e/o al genere.
di genere, gruppi etnici e razze.
Le decisioni in questo senso sono del
singolo dipartimento. Il concorso a cui ho partecipato nel 1995 non
aveva questa caratteristica: all’orale furono ammessi quattro candidati, tre uomini appena dottorati oltre a me, che ero la più anziana.
Le mie condizioni di partenza non erano favorevoli anche perché
ero esterna al percorso di studi statunitense; ma alla Columbia University, che ha un legame consolidato con l’Europa e con il mio tipo
di ricerca, questo non è stato uno svantaggio. Detto ciò, nonostante
il senso di riconoscimento e la cultura dell’inclusione, ancora
oggi le donne sono troppo poche nei dipartimenti americani, in
alcuni più che in altri.
Veniamo alla politica dei nostri giorni. In Europa e in Italia respiriamo un’aria antipartitica, una voglia di riscatto da parte del popolo
contro un’ élite che rischia di degenerare in populismi. C’ è un ruolo per
la donna? Lei intravede uno stile femminile che può dare un contributo
positivo?
I partiti, pur con la loro struttura oligarchica e selettiva, sono stati
un’importante porta aperta per le donne che volevano occuparsi attivamente di politica, anche perché i primi cercavano di intercettare
tutte le fasce possibili dell’elettorato. In Italia e in Europa – in alcuni Paesi meno che in altri – questa è stata un’esperienza importante
nell’età della democratizzazione. Quanto rilievo le donne poi abbiano avuto all’interno dei partiti, dipende dai singoli Paesi. Mi spiego.
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Chiara Tintori
dossier
Nei Paesi cattolici, come Spagna e Italia, dove la cultura eticopolitica e religiosa fa la differenza, le donne faticano ad assumere
ruoli dirigenziali in politica, mentre sono più presenti nell’azione
sociale della solidarietà e nelle associazioni volontaristiche. È una
questione di valori e di cultura etica: la funzione sociale è ritenuta
superiore a quella politica, e questa è un’eredità del mondo cattolico. Abbiamo certamente avuto delle eccezioni, visto che in Italia la
costruzione democratica ha visto un largo protagonismo politico dei
cattolici e della sinistra, a partire dalla Costituente con ventuno donne, di cui nove democristiane: molto brave, presenti e anche incisive.
Secondo me la transizione populista, antipartitica, come l’ha chiamata lei giustamente, costituisce una difficoltà in più per le donne
che vogliono entrare o rimanere in politica, perché quest’ultima è talmente destrutturata e lasciata alle singole personalità, che solo chi ha
capacità molto “testosteroniche”, fatte di sgomitate e arrivismo, ha più
speranza di farcela. È come un’arena di battaglia tra galletti!
Vuole dire che solo le donne “con i pantaloni” riescono ad affermarsi
in politica, secondo uno stile molto vicino a quello della Merkel?
Sì, è proprio così; ma non dimentichiamo che Angela Merkel
è parte di una struttura partitica. La vita politica tedesca, come
quella britannica, è ancora strutturata in partiti e movimenti
organizzati e ramificati sul territorio. In altri Paesi europei che
hanno movimenti populisti di rilievo (come l’Ungheria, la Polonia, l’Olanda, l’Austria, la Spagna e anche l’Italia) i leader sono
generalmente maschi (con l’eccezione di Marine Le Pen in Francia); più complesso è il caso dell’America Latina, con donne capi
di partito e di Governo (in Argentina con Evita Péron e recentemente Cristina de Kirchner, entrambe mogli di leader populisti
prima e poi esse stesse leader, tra l’altro molto amate; in Brasile,
con Dilma Rousseff). Il populismo europeo è fortemente basato
su una rappresentanza personalistica e plebiscitaria, con un
uso del linguaggio che non lesina aggressività e che segue la
logica amico-nemico; qui è più difficile per le donne trovare
spazio, non perché siano più “buone” degli uomini, ma perché lo
stile bellico della politica (in particolare quella populista) ha una
connotazione di genere maschile più marcata.
Il quadro che lei ha tracciato non è molto rincuorante, specie per le
giovani donne che vogliono giocarsi in politica, mettendosi al servizio
anche del proprio territorio.
La dimensione locale e quella extra-istituzionale della politica
hanno interessanti specificità. La politica si è destrutturata e senza
Politica “al femminile”
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i partiti a fare da collante la dimensione locale si è allontanata da
quella nazionale: nel quartiere o nella propria città ci sono forse
più possibilità per le donne di svolgere ruoli pubblici e politici.
È un fatto accertato che in Italia la presenza femminile è inversamente proporzionale alla rilevanza dei ruoli dirigenziali: sono poche
le donne sindaco nelle metropoli e nelle città medio-grandi (con le
recenti eccezioni di Roma e Torino) 3. Si può ipotizzare che con l’elezione diretta dei sindaci e la struttura eccessivamente personalistica
della politica comunale la donna torni a svolgere ruoli pubblici nei
movimenti “dal basso”, legati a situazioni e problemi concreti da
risolvere; a vivere una politica come vita attiva sociale.
In una società multietnica, in cui la sfida principale è quella di
conciliare inclusione e sicurezza, che ruolo possiamo avere noi donne?
Un grande ruolo, perché intravedo una comunanza di condizioni, al di là delle varie ed enormi differenze tra le religioni, le culture
etiche e sociali, le tradizioni. Soffermiamoci sul caso delle religioni.
Le religioni monoteiste, quelle nate nel bacino mediterraneo e che
conosciamo meglio, sono basate sulla centralità del ruolo maschile,
con una posizione ancillare della donna (nella religione cattolica
le donne non possono accedere al sacramento del sacerdozio, un
vulnus che alcune Chiese cristiane riformate hanno corretto). Non ci
sono in queste religioni posizioni “neutre” rispetto alle relazioni tra
i sessi; secondo i filosofi della storia e gli antropologi non c’è da stupirsene perché alla base della religione vi è anche l’esigenza culturale
di controllo delle emozioni e delle pulsioni: il buon governo della società parte dal controllo dei singoli. In alcuni passi del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa (penso a san Paolo o a sant’Agostino)
vi è l’idea che la donna sia portatrice di pulsioni tentatrici di difficile
controllo razionale. In altre religioni, come quella islamica, le donne
devono essere velate in segno di modestia ma anche per contenere la
loro disposizione a indurre in tentazione l’uomo. Non è un azzardo
dire che tra i fattori mondani e culturali che animano le religioni vi
è il controllo della sessualità (e, in effetti, di un genere in particolare). Proprio per questa simile condizione trasversale alle religioni,
le donne si trovano nella condizione migliore per aprire un varco al di là delle loro culture, etnie e tradizioni così da incontrare le altre donne, senza la pretesa di dare e portare chissà quale
emancipazione: incontro di donne che scontano comunque degli
svantaggi. Una sorta di alleanza universale e interreligiosa tra sog3 All’8 marzo 2016, nei Comuni fino a 15mila abitanti vi sono 982 sindaci donna
e oltre 6mila uomini. Invece nei Comuni con popolazione superiore ai 15mila abitanti
sono alla guida dei centri urbani 66 donne contro 600 colleghi maschi [N.d.R.].
144
dossier
getti non dominanti, capaci di vedere le condizioni di comunanza e
non solo le differenze, che pure sono importanti.
Negli ultimi dieci anni in Italia si è avuta una crescita notevole
del management femminile in tutte le organizzazioni e le professioni.
Riesce a individuare tre qualità del modello di leadership al femminile
del quale le donne dovrebbero farsi portatrici?
La prima è l’attenzione alle differenze, non per concedere privilegi, ma per capire che uomini e donne hanno un diverso rapporto
con l’ambiente di lavoro per ragioni sociali e personali che sono le
più svariate e che dovrebbero essere riconosciute e rispettate. Una
buona dirigente aziendale dovrebbe essere attenta a questa specificità
e non barricarsi dietro a un neutralismo che nel mondo del lavoro
non può esserci, anche perché le mansioni non sono state ritagliate su un “umano” generico, ma sul genere dominante. La seconda
qualità che intravedo potrebbe essere quella di circondarsi di collaboratori e collaboratrici liberi e vivaci, capaci di essere autonomi e volitivi invece che subalterni o procacciatori di favori (gli
“yes man”!). Collaboratori coraggiosi, che vogliono rischiare, critici
perché la critica è un tonico per la persona e l’azienda, un volano di
innovazione. Infine, non avere mai di sé un’opinione troppo alta;
essere capaci di praticare la cultura del limite; essere consapevoli
che facciamo parte di un mondo fatto di persone comunque limitate e che sbagliano. Abbiamo bisogno di collaborare proprio perché
ciascuno di noi ha specifiche potenzialità ma non possiede tutta la
gamma dei poteri. Non avere quella spocchia che spesso si vede in
coloro che dirigono mondi aziendali o realtà politiche come se fossero monarchi assoluti. Questo senso di distacco dalla propria professione o dal proprio ruolo è quel che chiamo “senso del limite”, una
sorta di ironia socratica che favorisce il distacco tra sé e il proprio
ruolo, tra il potere che si esercita e la propria limitatezza di potere.
Per quella che è la sua esperienza, come è possibile oggi conciliare
vita personale e lavorativa?
È complicatissimo, noi donne siamo tutte acrobate e la mia acrobazia è stata radicale, tanto che mi ha portato a non avere né famiglia né figli. Quindi nel mio caso vivo sofferenze di altro tipo, legate
alla solitudine, ma non ho problemi nel conciliare tempi di vita
familiare e di lavoro. Però ammiro profondamente le mie giovani
colleghe che scelgono di avere una famiglia, perché sanno gestire
questa complessità, perché riescono a produrre, a scrivere – e non è
facile con dei figli poter passare tanto tempo sui libri – e a conciliare
il lavoro, gli affetti e la funzione domestica di madre. Certo oggi si
Politica “al femminile”
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può contare anche su compagni e mariti collaborativi, più cooperanti e meno dominanti rispetto al passato. Tuttavia questo non è sufficiente; occorrerebbe avere una società più disposta ad accettare
la famiglia nelle sue implicazioni, a organizzare il mondo della
produzione con quello della riproduzione. Le tappe per far carriera nelle professioni molto competitive dovrebbero essere pensate
in relazione ai tempi di vita familiare. Ad esempio, nel mio dipartimento universitario le colleghe che hanno richiesto mesi di congedo
per maternità o per motivi familiari non vengono penalizzate nella
promozione o nel salario se in quei mesi non riescono a produrre.
Se si vuole davvero che la società sia più attenta agli affetti e alla
famiglia, occorre organizzare e ripensare in modo diverso il governo
del tempo e dell’ambiente di lavoro, soprattutto nel caso delle libere
professioni, che sono anche quelle più penalizzanti per le donne.
Organizzare il tempo di lavoro più che limitarsi a monetarizzare con incentivi la maternità: questa mi sembra una buona
strada. Certo il percorso è lungo e richiede molta attenzione alle
condizioni specifiche. Oggi chi riesce a conciliare bene famiglia e
professione è una sorta di eroe; dal mio punto di vista, quella conciliazione non dovrebbe che essere una forma di vita sana, una sanità
quotidiana.
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