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L'esilio della Chiesa Ortodossa:
L’ortodossia in occidente dopo la caduta di Costantinopoli.
Di Filippo Becherucci
Sia Roma che Costantinopoli accettavano, ed accettano tuttora, i dettami dei primi sette
concili ecumenici1, fino al 1054 erano in comunione e si pensavano come parte della stessa
chiesa che condivideva un’unica fede in Gesù Cristo, benché ognuna delle due metà avesse
potuto sviluppare il proprio patrimonio liturgico, la sua spiritualità e teologia.
La conquista di Roma da parte delle popolazioni Germaniche nel V secolo inevitabilmente
portò i due rami della chiesa a seguire strade diverse che alla fine condussero allo scisma
del 10542, le cui conseguenze divennero irreversibili con la conquista latina di Costantinopoli
nel 12043
Nel corso della sua lunghissima storia Bisanzio vide cambiare moltissimo il mondo
attorno a sé e raramente l’impero potè assumersi l’onore di azioni militari o di una politica
espansiva, ma perlopiù dovette concentrarsi sulla difesa dei confini, se si eccettua l’era della
dinastia Macedone.
Lo sviluppo delle potenze occidentali, combinato con la pressione dei nomadi
turco-altaici, che portarono alla nascita dell’impero Ottomano, alla fine si dimostrarono fatali
per l’impero; tra l’altro la caduta di Costantinopoli fornì al Papato, libero dal controllo degli
stati occidentali, la possibilità di cercare di assumere il controllo sulle chiese orientali4.
Bisanzio aveva dimostrato una forte resistenza dovuta anche e forse soprattutto, alla
convinzione di aver un ruolo particolare nel disegno di Dio, comunque, nonostante i successi
degli imperatori della dinastia Comnena e la resistenza dei Paleologi, la fine non poté essere
evitata, ed il 29 maggio 1453 le truppe del sultano ottomano Maometto II conquistarono
Costantinopoli mettendo fine alla millenaria storia dell’impero e ponendo il Patriarcato di
Costantinopoli, sotto la protezione della Sublime Porta5.
In cerca di aiuto contro la minaccia ottomana Giovanni VIII decise di giocare la carta
definitiva per la salvezza dell’Impero, ovvero la riunificazione delle chiese, togliendo ogni
pretesto all’occidente latino per non venire in aiuto alla scismatica Bisanzio.
Dopo attenti negoziati con il Papa Eugenio IV, il sovrano ed il suo seguito di dignitari laici
ed ecclesiastici, guidati dal Patriarca Giuseppe II, si imbarcarono per Ferrara.
Fra i delegati bizantini c’erano alcune delle personalità più in vista del mondo ortodosso
come il metropolita di Kiev Isidoro o Bessarione di Nicea6, Giorgio Scolario capo della
cancelleria imperiale ed il noto filosofo Giorgio Gemisto Pletone.
Dopo aver sostato a Venezia l’imperatore ed il suo seguito proseguirono per Ferrara e poi
per Firenze dove la sede del concilio era stata spostata.
L’unione delle chiese, siglata a Firenze il 6 Luglio 1429, trovò forte resistenza nel clero e
nel popolo benchè nel 1443 riuscisse ad ottenere lo scopo che si era prefissata con una
crociata che prese avvio dall’Ungheria e che si concluse nel 1444 con la terribile disfatta di
Varna7.
Nicea I, Costantinopoli I, Efeso I, Calcedonia, Costantinopoli II, Costantinopoli III, Nicea II
La più grave divergenza tra le due confessioni riguardava la processione dello Spirito Santo dal
padre e dal figlio, accettata in occidente ma considerata lesiva della Trinità in oriente.
3
AAVV, The Oxford Handbook of Byzantine Studies,Oxford University press, 2008. pag 593
4
The Oxford Handbook, Cit, pag 939
5
The Oxford Handbook, Cit. pag 953
6
Entrambe poi cardinali della chiesa cattolica
7
I Greci a Venezia, Cit. pp 36-37
1
2
2
Quasi naturalmente, visto il legame di antica data tra Venezia e Bisanzio8, mentre la
montante marea ottomana rischiava di sommergere quello che restava dell’impero, i
bizantini guardarono a Venezia verso la quale si accentuò il fenomeno migratorio che aveva
preso avvio già nel 1204 ,con l’arrivo di nobili famiglie e l’invio come ambasciatori o legati di
vescovi o eruditi monaci9, infatti nel 1478 la comunità greca veneziana era arrivata a contare
circa quattromila membri10, su una popolazione totale di circa centodiecimila abitanti.
La maggior difficoltà che incontrarono fu, ovviamente, dovuta alla diversità di rito
religioso. Benché accomunati dalla comune fede cristiana, la diversità di tradizioni teologiche
e di rito, aggravata come sostiene Fedalto, dal ricordo dell’assedio di Costantinopoli del
120411, creava conflitti con il Papato ed il clero locale, che impediva un pieno
riconoscimento, tanto che alcuni greci ebbero, per altro non sbagliando, l’idea di essere
emarginati sul piano sociale ed economico12.
David Jacoby, nel suo saggio I greci e altre comunità tra Venezia e Oltremare13
suggerisce che il governo veneziano, anche per garantire la pace dei suoi possedimenti
dalmati ed albanesi, fosse tollerante permettendo alla popolazione greca di celebrare messa
in alcune chiese della città, anche se in modo discontinuo.
Fu solamente nel 1456 che i greci ottennero dal senato il permesso, ottenuto
probabilmente in malafede, facendo credere che fossero unionisti quando invece erano
pervicacemente ortodossi, di edificare una loro chiesa; tuttavia, siccome il governo non
aveva completa fiducia nei suoi sudditi greci questo permesso fu revocato varie volte e solo
grazie all’abilità ed alla tenacia della comunità, nel 1498 ottennero di poter edificare una
scuola e nel 1514 erigere la chiesa di San Giorgio, detta dei Greci, che verrà completata nel
157314.
Sotto l’aspetto politico, Venezia si interessava poco alla religione dei suoi sudditi e la
chiesa lagunare, come quella cattolica in generale, si rifacevano al concilio di
Ferrara-Firenze per regolare i rapporti con la chiesa Greca15, che però era meno avvertito in
oriente di quanto non lo fosse in occidente, specialmente dagli anti-unionisti e dal clero
russo16.
Con la controriforma, conseguente al concilio di Trento, aumentò anche il controllo di
Roma sulla dottrina, sulle nuove idee e la loro circolazione in modo da contrastare la nuova
riforma protestante, trovandosi d’accordo in questo con le chiese ortodosse che, sebbene
abbastanza all’oscuro dei problemi che travagliavano la chiesa romana ed il cristianesimo
latino, dovevano affrontare il grave problema della scomparsa delle diocesi dalle compagne,
8
M.F. Tiepolo e E. Tonetti a cura di, Atti del convegno I Greci a Venezia, Istituto veneto di scienze
lettere ed arti, 2002. pp 26-27
9
Il vescovo Niceforo di Candia, per esempio, o il rinomato erudito Massimo Planude
10
Comunità molto coesa al suo interno, come dimostrano i pochissimi matrimoni misti,nonostante la
sua dispersione nel territorio della città lagunare. cfr. I Greci a Venezia. Cit. pag 48
11
I Greci a Venezia. Cit. pp 84-85
12
I Greci a Venezia. Cit. pag 46
13
In I Greci a Venezia, Cit. pp 41-82
14
I Greci a Venezia. Cit. pag 40.
15
Anche se restavano irrisolti i problemi pratici di attuare i decreti conciliari nelle terre ortodosse
controllare dall’impero Ottomano
16
I Greci a Venezia. Cit. pp 90-91
3
mentre l’impero ottomano avanzava portando con se l’islam17, e non aveva quindi nessun
desiderio di veder diffondere le dottrine protestanti per non crearsi ulteriori problemi18.
Alla comunità greca della città, poi, interessavano poco gli scontri dottrinali quanto
piuttosto trovare collocamento in una città di limitata estensione e che purtroppo aveva
rapporti non sempre pacifici con i vicini.Per questo, e per i rapporti tra la repubblica e Roma
che non furono sempre tranquilli19, non era detto che la chiesa locale potesse garantire gli
esuli greci più di quanto potesse farlo la Chiesa Romana.
La comunità greca, quindi, viveva un triplice rapporto dovendo dipendere dal governo
veneziano e mantenere rapporti sia con Roma che con Costantinopoli20.
Il governo della serenissima appoggiava ed aiutava la comunità greca, ma sempre
cercando di non urtarsi con Roma21.
Per Roma, all’inizio del XVI secolo, la posizione dottrinale degli ortodossi era irrilevante22,
per il Papato era più urgente la lotta contro la riforma protestante, tanto che Leone X, figlio
del celebre Lorenzo il Magnifico, emise due bolle 23, autorizzando la comunità greca a
costruire un campanile e la chiesa di San Giorgio con un cappellano che potesse officiare
secondo i loro riti; addirittura sottoponendo quest’ultimo, non all’autorità del Patriarca
veneziano, ma direttamente a quella del Santo Padre, decisione dalla quale non era assente
lo spirito del rinascimento e dell’umanesimo e che poneva il clero greco sullo stesso piano
del clero locale.
Ovviamente il patriarcato veneziano dovette piegarsi, com’è uso nella chiesa cattolica,
alla superiore autorità del Pontefice, ma già nel 1515 il Patriarca, Antonio Contarini si
appellò a Roma per far revocare le bolle. Appello che sortì l'effetto contrario perchè il Papa
emise una nuova bolla che confermava le precedenti ed anzi aumentava l’autonomia della
comunità greca, ricordando come essi fuggissero davanti alla minaccia dell'odiato turco.
La repubblica, anche vista la continua espansione del dominio turco nel Mediterraneo, si
vide costretta ad applicare nuove politiche nei confronti dei greci, generalmente
appoggiando gli ortodossi contro il patriarcato. Interessante a tal riguardo è la relazione del
nunzio Alberto Bolognetta, il quale riserva un posto notevole alle chiese del levante. Egli
sottolinea che pur esistendo pochissima differenza a livello dottrinale, tra chi viveva nel
dominio ottomano e chi invece in quello della repubblica, evidenzia appunto come il governo
veneto cercasse più la ragion di stato che non il bene della religione, come ad esempio a
Candia dove per “Non disgustar quei popoli”24 il governo proibì all’arcivescovo latino di
procedere ad una visita pastorale nelle chiese greche dell’isola che avevano espresso
dissenso nei confronti di questa iniziativa25; inoltre fa notare ancora Fedalto, che essendo il
cristianesimo una religione sovranazionale, Venezia, come Bisanzio, aveva la tendenza ad
imporre il proprio controllo su religione e chiesa come teorizzava Fra Paolo Sarpi nel XVI
ed almeno all’inzio una maggiore tolleranza ed una fiscalità più leggera e meno rapace
I Greci a Venezia. Cit, pp 89-90
19
Secondo una politica improntata sul principio <<Prima siamo Veneziano, poi Cristiani>>
20
I Greci a Venezia. Cit. pag 91
21
I Greci a Venezia. Cit. pag 94
22
Pochissimi furono i processi intentati contro scismatici.
23
18 maggio e 3 giugno 1514
24
I Greci a Venezia. Cit. pag 99
25
I Greci a Venezia. Cit. pp94-100
17
18
4
secolo e sostenendo anche che Venezia avesse ereditato il giuspatronato sugli ortodossi nel
1204, per cui i sudditi greci avrebbero dovuto ubbidirle come avevano ubbidito a Bisanzio26.
Tuttavia mentre la controriforma procedeva, secondo Birthacas, anche per il timore di una
diffusione del luteranesimo tra la comunità ortodossa, specialmente dopo i contatti tra il
sinodo di Tubinga ed il patriarca costantinopolitano Geremia II, si osserva uno sforzo per
sottomettere la chiesa greca.
Nel 1560 Roma aveva reso valide le disposizione tridentine anche nei possedimenti
d’oltremare della repubblica e nel 1564 Pio IV aveva invalidato i privilegi concessi dai suoi
predecessori27
La crisi fu così grave che, per evitare le peggiori conseguenze del concilio tridentino,
alleandosi alla Repubblica, la comunità greca sotto l’impulso del ricco mercante Leoninos
Serviros ottenne prima l’autocefalia e poi la portò sotto il controllo del patriarcato
costantinopolitano, ottenendo addirittura un vescovo consacrato, quello che Birthacas
chiama il <<secondo vescovo di Venezia>>, nella persona del metropolita di Filadelfia28.
Roma non cessò mai di chiedere che San Giorgio e la sua comunità tornassero sotto il
controllo pontificio, una prima volta nel 1638 e poi ripetendo la richiesta nel 1686 dopo che il
nuovo metropolita di Filadelfia, Maletios Tipaldos si era scontrato con la comunità di San
Giorgio su una questione di competenze. Conflitto evidentemente così feroce che nel 1709,
alla fine, indusse i tribunali veneti a ripristinare gli antichi decreti a favore del pontefice
romano che tornava, in questo modo, ad essere il capo spirituale dei greci della laguna.
Essi si appellarono alla Russia di Pietro I, che aveva interessi in Dalmazia29, ma
nonostante le pressioni russe la Serenissima non modificò la sua decisione, pur
acconsentendo a scambi commerciali con San Pietriburgo ed un occhio di riguardo per la
comunità greca cittadina.
Il patriarcato di Costantinopoli rimase inoperoso fino al 1712 quando nel giugno di
quell’anno, Cirillo IV ed il Sinodo, deposero Meletios.
Alla morte del metropolita, l’anno seguente, Venezia si dimostrò di parola e confermò al
pontefice il controllo sulla comunità greca di san Giorgio ed addirittura una cinquantina
d’anni dopo ordinò al metropolita di Filadelfia di adeguarsi ai canoni di Ferrara-Firenze
accettando l’unione delle due chiese
A queste condizioni la comunità greca decise di non nominare un nuovo metropolita
ottenendo l’appoggio di Costantinopoli che non volle accettare un prelato uniate,
costringendo la repubblica a nominare un provveditore che si occupasse degli affari della
medesima.
Solamente più tardi, Venezia si accorse dei deleteri effetti che le sue scelte avevano
portato nei confronti dei sudditi ortodossi30 e nel 1780 annullò tutte le decisioni prese in
materia 31.
I Greci a Venezia. Cit. pp 101-102
I Greci a Venezia. Cit. pag 108
28
La questione è più complessa di come da noi riportato, ma per ragioni di spazio rimandiamo al testo
dell’articolo in I Greci a Venezia, Cit. pp 103-121
29
Che dipendeva, spiritualmente, dal metropolita di Filadelfia.
30
Moltissimo greci veneziani emigrarono verso altre città, come Livorno o Trieste ed anche nel
levante la politica veneziana risultò danneggiata poiché non ci si poteva aspettare fedeltà dai greci
d’oltremare
31
I Greci a Venezia, Cit. pp 110-117
26
27
5
Per Venezia lo stanziamento del metropolita di Filadelfia sul suo territorio, addirittura nella
sua stessa capitale, non andava intesa come la presenza di un secondo vescovo, come
invece sosteneva la Santa Sede, ma semplicemente come la presenza del capo religioso
dei suoi sudditi di religione ortodossa. La Serenissima non si sentì turbata
dall’emancipazione della chiesa greca da Roma, dato che in ogni caso il metropolita era un
suddito veneziano e per altro posto sotto l’assoluto controllo delle magistrature repubblicane
attraverso il quale poteva meglio controllare la comunità ortodossa e allentare i rapporti con
Costantinopoli, che comunque si trovava sotto il dominio dell’impero Ottomano e che bene o
male era perciò da esso influenzabile32.
Per la comunità greca il metropolita, invece, era un’arma contro le ingerenze romane e
rappresentava un potente bastione di difesa per la loro confessione33.
Con la caduta della repubblica nel 1797 si ebbe anche la fine della carica di metropolita,
considerata particolarmente prestigiosa nel mondo ortodosso di allora34 ed il metropolita
ritrovò la sua sede a Filadelfia in Asia Minore. Solamente nel 1991 un nuovo metropolita
ortodosso tornò a Venezia: Il Metropolita d’Italia35
L’attenzione rivolta verso la comunità greca era dovuta, specialmente nel XVIII secolo,
anche alle necessità di governare la Dalmazia che specialmente nell’interno, una volta
lasciate le città latine della costa, diventava, si sarebbe tentati di dire degenerava, in una
borderline dove si incrociavano varie forme di fedeltà, dove le pratiche sociali traversavano
le delimitazioni territoriali36, dove vi erano fitte relazioni sociali ed alta disponibilità al conflitto.
Molteplici le possibilità di manipolare i popoli e le fedi37.
Il duplice possedimento di Dalmazia ed Albania costituiva dunque una realtà fluida di
popoli con lingue e religioni diverse determinatosi con le conquiste medievali e
rinascimentali e ridefinita a tavolino dagli accordi di pace di Passarowitz38.
Sebbene la Dalmazia avesse un importante valore in fatto di prestigio per l’antica
repubblica, andava infatti a compensare il crollo delle ambizioni territoriali in Grecia,
complicava la posizione veneziana in politica estera, specialmente nei confronti della
potente monarchia Asburgica e costringeva la Dominante a rivedere le sue politiche di
giustizia e di governo,a causa della complessa e conflittuale società che si venne a trovare
per le mani
Venezia tentò una politica coloniale, alternata a battute d’arresto e spinte propulsive, con
lo scopo di volgere gli assetti locali e periferici alle necessità del centro, colonizzando terre
ritenute spopolate e di pacificare territori e comunità sconvolte da secoli di scontro etnico e
confessionale39
Il cambiamento di politica di Venezia deve essere interpretato come un segno di dipendenza
economica da Roma, più che come una rivisitazione delle tradizionali politiche religiose venete.
33
I Greci a Venezia. Cit. pp 119-120
34
Un Ex Patriarca costantinopolitano vi fu eletto e un patriarca di Alessandria vi si candidò.
35
I Greci a Venezia. Cit. pp 120-121
36
Anch’esse non chiare, basti pensare che la zona di confine tra la Morlacca austriaca e quella
veneta, nei pressi di Lucovo, era delimitata da un semplice muro di mattoni.
37
F.M.Paladini, <<Un Caos che spaventa>>: poteri, territori e religioni di frontiera nella Dalmazia della
tarda età veneta. Marsilio 2002. pag 288
38
La pace di Passarowitz(attuale Pozarevac, in Serbia), tolse alla Repubblica i territori greci ottenuti a
Carlowitz, concedendo in cambio alcune aree dell’Albania e soprattutto un più largo entroterra in
Dalmazia.
39
<<Un caos che spaventa>>. Cit. pp 14-15
32
6
Il periodo che va dalla caduta di Canea(1645) alla guerra di Morea (1714-1718)
rappresentò per Venezia uno dei momenti più critici della sua storia, in cui fu messa a dura
prova, l’essenza stessa della venezianità, legata al mare, sovranazionale e mediterranea40.
Il futuro Doge, Carlo Ruzzini(1731-1735), osservò che l’acquisto Dalmata poteva essere
difeso poiché: “Non mancavano condizioni oneste per venderla, a fronte di una guerra
sfortunada, con figura de dignità e de vantaggio”.
Lo scambio con la Morea sembrava vantaggioso, infatti accentuava la vocazione terrestre
dello Stato Da Mar nella prospettiva di un allargamento commerciale nei Balcani e nella
speranza di produrre, nelle regioni ultramarine, quanto bastasse all'autosufficienza della
repubblica41.
Come già detto, la situazione dei confini Dalmati era nebulosa, almeno dai tempi della
guerra di Candia ed i termini dei trattati confliggevano con la reale presenza veneta e agli
scontri con le comunità turche, che profilavano nuove lotte tra Venezia ed impero Ottomano,
si credette di poter intervenire con spostamento e deportazione delle popolazioni, anche se i
governanti marciani si volsero alla Dalmazia solamente nella seconda metà del XVIII secolo,
in considerazione della natura strategica di quelle terre, ma soprattutto alla luce del
fallimento dell’esperienza in Morea.42
Paladini fa notare come si tenda a considerare il “sistema veneziano” come “un’area
culturale e tecnica” dove si seppero fondere gli elementi della città dominante e la cultura
delle terre soggette, senza mai “cercare di imporre le proprie tecniche in nome di una
superiore civiltà”43, ma studi recenti hanno invece rivisto, sostenendo che almeno la
Dalmazia andasse definita, più che un blocco monolitico, come un aggregato di città, di corpi
e di ordini, di signori, di comunità rurali, ognuna dotata dei suoi particolari privilegi44.
Lo scontro con il Turco e la pressione continua esercitata dallo stato di guerriglia tra le
comunità frontaliere, fece sì che fin da subito l’organizzazione del territorio avesse una forte
caratterizzazione militare45.
Ne è un esempio il termine Craina, il cui significato rimase ambiguo fino alla metà del
XVIII secolo, quando venne a significare semplicemente territorio e non più “ordinanza di
gente rurale posta in ranghi sotto ufficiali militari”46; o l’utilizzo del termine serdaria, a
significare un vasto distretto posto sotto il controllo di un Serdar e copiato senza variazioni
dal modello turco47.
La struttura giurisdizionale dalmata era travagliata, dunque, da numerosi e molteplici
conflitti di potere e varie tensioni comunitarie e religiose e possiamo leggere Nell’opinione su
come debba governarsi internamente ed esternamente la repubblica veneziana, falsamente
attribuito a Paolo Sarpi, che mentre i Greci di Candia andavano “custoditi come fiere
selvagge”, per governare i Morlacchi di Dalmazia andasse usata “arte più recondita”48
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pag 25
<Un caos che spaventa>>, Cit. pp 26-27
<
42
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pp 27-31
43
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pag 32
44
<<Un caos che spaventa>>,Cit. pag 34
45
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pag 36
46
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pag 39
47
<<Un caos che spaventa>>,Cit. pag 40
48
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pp 41-48
40
41
7
Le aree costiere erano economicamente sviluppate, diverso il discorso per l’interno,
specialmente nei territori di nuovo acquisto, dove per altro la popolazione, come nel caso di
del villaggio di Bigliane, era quasi interamente greca, vale a dire, ortodossa.
Per alleviare la situazione la Dominante decise per una riforma agraria, parte importante
della quale passava attraverso la ridistribuzione delle terre dei parroci visto che erano, a
causa della scarsità di risorse, “ministri sacri più di nome che di fatto”. Poiché sul territorio
convivevano famiglie ortodosse e cattoliche, il progetto di riforma passava necessariamente
attraverso l’unione tra le due chiese49
Ovviamente la popolazione ortodossa, ferocemente attaccata alla sua tradizione, ed
incoraggiata dalla Russia che in quegli anni si stava ritagliando un più ampio spazio nei
Balcani, resistette appoggiandosi sempre di più al clero cosiddetto “Servita”, ovvero facente
capo al patriarca Serbo in esilio nel Banato Austriaco, tanto che sull’indefinito confine
dalmata, il reclutamento da parte austriaca di intere ville avveniva appunto attraverso i pope
serviti ed ortodossi.
Ciò comportò un irrigidimento delle posizioni cattoliche costringendo la repubblica ad una
riflessione sull’integrazione delle masse ortodosse, pressate dalle gerarchie romane le
posizioni si radicalizzavano e si attizzavano controversie aperte almeno dall'epoca del
patriarca Fozio (cioè almeno dal IX° secolo d.c)50.
La normativa veneziana, come abbiamo visto, aveva sempre cercato di sfumare il
contrasto, cercando di mantenere la popolazione ortodossa in stato di solidale quiete,
evitando scontri di natura confessionale, per le isole Ionie, ancora negli anni ottanta del XVIII
secolo è ribadito il controllo repubblicano sulla disciplina del rito greco, ed in generale si
cercava di favorire i privilegi e le prerogative locali che meglio potevano garantire la
coesione sociale e creare fedeltà alla repubblica.
I sudditi greco-slavi di Dalmazia ed Albania, per contro, rimasero privi di un loro vescovo
e mancavano di una gerarchia formalmente riconosciuta dallo stato Veneto. La nomina di un
vescovo serviano a capo di tutta la comunità divenne un forte punto di scontro, non solo con
le comunità Dalmate, ma anche con le potenze confinanti: l’impero Ottomano, che pur
musulmano, si atteggiava a protettore della confessione ortodossa ed ovviamente la Russia.
Nel 1720, si osservò, che senza la nomina di un vescovo, e con una popolazione
pressoché totalmente contraria all’unione, in molti preferirono emigrare nell’impero
Ottomano in modo da poter ricevere almeno i sacramenti basilari51.
Dal lato cattolico, però si temeva, che concedere ai popoli ortodossi un loro clero di rito
serviano, avrebbe diffuso lo scisma, se non l’eresia e che in ogni caso sarebbe andato a
detrimento dei sudditi cattolici.
Roma si avvaleva anche di un vecchio decreto emesso dalla Serenissima il 20 agosto del
1578, nel quale pur accordando ai sudditi greci il mantenimento dei propri riti, cercava di
favorire la diffusione del rito latino. Roma riteneva che questo autorizzasse ad imporre al
popolo greco l’unione delle chiese, lo dimostra la denuncia del 1760 del vescovo di
Sebenico Gerolamo Bonacich, nella quale veniva ribadita la proibizione di abbandonare il
rito latino per quello greco commettendo il reato di apostasia, crimine di cui spesso veniva
accusata l’intera ecumene ortodossa52.
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pp 104-110
<<Un caos che spaventa>>. Cit. pp 165-166
51
<<Un caos che spaventa>>. Cit, pp 167-168
52
<<Un caos che spaventa>>. Cit. pp 173-174
49
50
8
Inoltre si poteva obbligare la chiesa ortodossa a seguire in materia di matrimoni il concilio
di Trento, scoraggiando attivamente i matrimoni misti tra donne latine e maschi ortodossi e
favorendo altresì l’opposto; così da ridurre i numeri della comunità serviana ed aumentare
quelli delle famiglie latine53; benché, in generale, ci si limitasse a più sincretiche disposizioni
cercando di mantenere l’ordine nelle terre dalmate.
In molti casi il censimento dava prova di una comunità cattolica maggioritaria e perciò si
procedette ad erigere chiese cattoliche anche in territorio abitato dagli slavi ortodossi, anche
se il provveditore Grimani stigmatizzava il comportamento dei vescovi i quali denunciavano i
membri del clero ortodosso che non volevano riceverli in visita, suscitando discordia e
alienando le simpatie verso la repubblica, non solo da parte dei religiosi, ma anche tra i capi
delle ville54 che non volevano sottomettersi al controllo spirituale romano, talvolta giungendo
a opposti fanatismi come l’uso di lavare gli altari dopo una messa latina, o evitando l’incontro
con i vescovi romani in visita pastorale55.
In Dalmazia ed Albania esistevano oltre cento chiese di rito orientale e l’unica possibilità,
secondo il clero cattolico, per sconfiggere l’eresia era di chiuderle tutte con il rischio di
alienarsi la simpatia della popolazione locale e quella degli stati vicini, dove vivevano ampie
masse ortodosse. Il governatore Nani avrebbe volentieri copiato il sistema del millet
ottomano per preservare la lealtà della popolazione, non potendo si limitò ad alcune misure
cautelative come l’autorizzazione, in certi luoghi, ad esempio la chiesa del paese di
Scarbona, a celebrare secondo il rito serviano.
Posizione decisamente più radicale fu assunta dalle gerarchie cattoliche, nella persona di
Matteo Caraman, arcivescovo di Zara il quale, approfittando di una discussione interna alla
chiesa ortodossa. dove il vescovo di Sebenico aveva accusato i pope slavi di non utilizzare il
greco per celebrare le messe, ma lingue slave tra cui il russo56, denunciò l’ambiguità che
regnava tra greci e serviani, questi ultimi agenti dell’impero russo in incognito, e colpevoli
secondo Caraman, della più spregevole eresia da estirpare senza tante cerimonie come si
era fatto con ebraismo e islam.
Caraman era anche contrario ad ogni concessione al rito serviano perchè il patriarca
serbo era suddito dell’impero ottomano e ciò avrebbe potuto danneggiare la tenuta dell stato
poichè “I Morlacchi professori di rito greco serviano in Dalmazia, sono come tanti ruscelli
sparsi per le diocesi dei vescovi latini. Uniti sotto d’un capo, o sia vescovo o sia
archimandrita, o sia procuratore, formerebbero un torrente capace d’irruzione”57
Il generale Alvise Contarini, più propenso ad ascoltare il clero cattolico, e meno portato
all’uniatismo che invece pervadeva le alte sfere del governo veneziano, lamentava in effetti
che in molte chiese vi fossero libri stampati in russo e riteneva che non fosse il caso di far
entrare in Dalmazia persone capaci di istruire i sudditi “di inferiore condizione”, perchè ciò
avrebbe inevitabilmente fatto penetrare negli scolari il rito serviano58 .
Quanto fosse necessario trovare un accordo con la comunità ortodossa, lo dimostrarono
le rivolte esplose nel 1768 in Montenegro ed Albania a seguito di attività Russe in
Infatti venivano registrati come appartenenti alla comunità cattolica o ortodossa i soli capifamiglia
Insediamenti di campagna, piccoli villaggi. Il termine Villa è impiegato dai funzionari veneziani
secondo un antico uso italiano.
55
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pp 174-176
56
O <<Moscovito>>, come riportano i dispacci dell’epoca.
57
<<Un caos che spaventa>>. Cit. pag 179
58
<<Un caos che spaventa>>. Cit. pp 177-179
53
54
9
Montenegro59, che dovettero essere sedate militarmente, arrivando ad occupare chiese e
monasteri serviani e dando una caccia spietata a quelli che venivano ritenuti agenti segreti
russi; tutto ciò per dare ai sudditi una dimostrazione di forza, nella speranza di bloccare
l’emorragia di abitanti ed imporre, specialmente in Albania, altri referenti religiosi alle
popolazioni soggette60.
Non migliore era la situazione in Istria, un territorio da sempre facente parte della
repubblica, ed una delle sua più antiche acquisizioni.
Qui, durante il XVIII, si ebbe un confronto aspro, spesso conclusosi con degli omicidi, tra
gli abitanti vecchi e quelli nuovi61, per la giurisprudenza veneta ciò si poteva ridurre ad uno
scontro religioso, che precedeva ogni altra motivazione, inclusa quella dei molteplici
problemi di ripartizione del bene pubblico che anzi diventano solo l’espressione di una
precostituita alterità religiosa ed etnica62.
Una parola va spesa anche per la cosiddetta frontiera militare austriaca, istituita nel 1522
su richiesta del bano croato Luigi II Jagellone. Dapprima, l’arciduca Ferdinando ne autorizzò
l’istituzione a difesa dell’Ungheria asburgica tra l’Adriatico e la Drava, ma nel corso del XVIII
secolo si estese lungo tutto il confine con l’impero ottomano, formando un esteso limes in cui
mancava completamente l’autorità civile essendo governata direttamente dalla corona
austriaca con severe leggi militari.
La terra era divisa in piccoli lotti affidati a coloni a cui l’Austria fece molte concessioni per
incoraggiare la colonizzazione; era loro concesso il sollevamento dagli obblighi feudali,
potevano eleggere, previa autorizzazione asburgica, i propri capi e, soprattutto godevano di
un'ampia libertà di professare il credo ortodosso, creando un'alternativa praticabile al
governo veneto e danneggiando la politica coloniale della Serenissima63
Per la sua prossimità geografica, anche il meridione italiano fu interessato dalla
colonizzazione greca64 ed albanese. A partire dalla seconda metà del XV secolo numerosi
contingenti di Albanesi giunsero nel regno di Napoli, su invito dei sovrani, per essere
utilizzati come mercenari; il primo a chiamarli fu Alfonso I d’Aragona, che nel 1448 gli utilizzò
per sedare una rivolta in Calabria.
Poi durante la rivolta dei baroni, e la guerra contro gli Angioini mosse in aiuto degli
Aragonesi Giorgio Castriota Skanderberg, che come ricompensa ottenne molti feudi in
Puglia dove molti soldati albanesi si stabilirono in permanenza, specialmente dopo la morte
del loro generale, nel 1467, per sfuggire alle rappresaglie ottomane.
La migrazione tra le due sponde dell’Adriatico portò con sé anche numerosi santi, il cui
culto si trova su entrambe le sponde dell'Adriatico. la cattedrale della città albanese di
Alessio era dedicata a San Nicola protettore di Bari; San Trifone era protettore di Cattaro e
di Canneto, oggi nel comune di Adelfia65.
Nonostante la conquista ottomana avesse fatto diventare l’Albania la base dalla quale
partivano i predoni ed i pirati musulmani, la chiesa cattolica non si era scordata dell’attività
In realtà non necessariamente rivolte contro Venezia, ma semmai contro il Turco
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pag 183
61
Si intende con questo gli abitanti di confessione ortodossa, e di lingua prevalentemente slava
installatisi in Istria a partire dal XVII secolo in avanti.
62
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pag 193
63
<<Un caos che spaventa>>, Cit. pp 223-226
64
Lo era stato fin dall’antichità.
65
A. Spagnoletti. Un mare stretto ed amaro. Viella 20114. pag 78
59
60
10
missionaria in quella terra e vi inviava missionari francescani o basiliani che cercavano di
mantenere la popolazione fedele alla fede cattolica66.
Il paese delle aquile aveva una complessa geografia religiosa ben prima della conquista
ottomana. Le chiese latina e greca si erano confrontate aspramente, ognuna avendo alle
spalle poteri temporali non meno agguerriti67 e fino al XVI secolo si ebbe una leggera
preponderanza della chiesa cattolica68.
Meno chiara è l’origine della comunità greca nel sud italia69, che si fa risalire
all’insurrezione della piazzaforte di Corone contro la dominazione ottomana.
Con l’aiuto di Andrea Doria i Coronei riuscirono a scacciare la guarnigione turca, ma
poiché Carlo V d’Asburgo non riteneva proficuo “Controllare si piccola città in sito così
distante dagli stati suoi”70, ai circa ottomila ribelli non rimase che la fuga, e seguendo il
consiglio del metropolita della città, Benedetto, decisero di rifugiarsi a Napoli ed in Sicilia71.
La situazione, nel regno, era meno florida di quello che avrebbe sperato il metropolita
poiché a causa di numerose denunce per furto e ruberie, gli albanesi erano stati oggetto di
numerose restrizioni72, ma tuttavia ai Coronei andò meglio ottenendo la concessione di
alcuni privilegi e molti scelsero di arruolarsi nelle milizie.
Nella città di Napoli scelsero di stabilirsi nella zona detta Piccola Genova e Largo de’
Fiorentini73, divenuta poi la cosiddetta Strada de’ Greci, diventando anche un luogo di un
certo prestigio, se nel 1614 l’arcivescovo di Napoli, Acquaviva ordinò di porre una lapide con
la quale si proibiva a “Meretrici e studenti” di prendervi in affitto od acquistare case “Nella
strada de’ Greci”, segno che la si riteneva troppo elevata per certe categorie di persone74.
La scelta del luogo non era casuale, ma dovuta alla presenza di una piccola cappella
costruita nel 1518 dal signor cavaliere Tommaso Asan Paleologo.
Intanto l’aumento della popolazione ortodossa, dovuto alla fuga di altri profughi dai
Balcani75, portò ad un aumento delle molestie da parte dei vescovi e dei baroni del regno,
che già vessavano le più antiche comunità impedendo la celebrazione dei loro riti.
Il metropolita Benedetto chiese allora a Papa Paolo III d’intervenire affinché fosse protetto
il rito greco, per altro autorizzato dal concilio di Ferrara-Firenze76.
Nel 1536, con una bolla, Papa Farnese permise alla comunità ortodossa di avere un
tempio “senza disturbo o irrisione”, in modo che potessero officiare “secondo il rito orientale
di loro nazione”77
Un mare stretto ed amaro. Cit. pag 10
Nel XV secolo Roma era spalleggiata, per esempio, da Venezia e l’Ungheria, mentre i patriarcati
ortodossi si appoggiavano ora all’impero Bizantino, a quello Bulgaro o ai potentati serbi succeduto
all’impero Serbo
68
Un mare stretto ed amaro. Cit. pag 10
69
Nella quale vanno inserite anche popolazioni di lingua slava, perciò si deve intendere in senso
religioso e non etnico, tanto che i termini greco, slavo ed albanese sono usati del tutto
indifferentemente nei documenti dell’epoca.
70
V. Giura, Storie di minoranze, Ebrei, Greci, Albanesi nel regno di Napoli, Edizioni scientifiche
italiane, 1984. pag 121
71
Storie di minoranze, Cit. pp 119-122
72
Ad esempio dovevano vivere in città murate e non potevano possedere cavalli sellati.
73
Quindi già un area interessata da immigrazione straniera.
74
Storie di minoranze. Cit. pag 129
75
Provenienti dalle fortezze di Medone e Patrasso.
76
Storie di minoranze. Cit. pp 124-125
77
Storie di minoranze. Cit. pag 135
66
67
11
Grazie all’aiuto del pontefice la comunità greca potè vivere tranquilla e scegliendo
liberamente con che professione sostentarsi; a differenza dei greci di venezia, che scelsero
il commercio, i coronei ed i nuovi profughi si diedero al mestiere delle armi ed all’intrigo.
L’odio antiturco di questa gente trovava facile sfogo nella politica antiottomana della Spagna
e la minaccia dei pirati musulmani contribuiva a tenere il regno in stato di guerra costante
per cui erano necessarie numerose forze di terra e di mare.
Un’altra occasione era fornita dallo spionaggio, poichè la Spagna aveva bisogno di
informazioni sulla macchina bellica ottomana, e nel caso colpire con sabotaggi o
fomentando rivolte ed insurrezioni, specialmente nelle zone montuose dell’Albania come
Maina o Chimaria, persone che conoscessero la lingua ed i costumi di quelle terre erano
ben accette78.
A partire dal 163379 le notizie sulla comunità si fanno più rade, probabilmente
contribuirono in modo determinante la rivolta di Masaniello e la peste. La comunità prese
nuovo slancio grazie alla decisione durante il regno di Carlo di Borbone, nel 1735, di istituire
il “Reggimento Real Macedone”, arruolando “Greche truppe d’Albania”, il quale dando buona
prova di sé raccolse numerose adesioni di greci e slavi, i quali potettero anche godere
“Dell’asilo di religione” offerto dalla chiesa napoletana in cambio del servizio militare80
La rinascita della comunità durante il regno borbonico provocò però una discussione tra i
vecchi immigrati e quelli nuovi, provenienti dall’impero ottomano, riguardo al patronato sulla
cappella che entrambe, con differenti ragioni, reclamavano. Per evitare dissidi la camera di
santa Chiara pose la cappella sotto la protezione del re.
Nel 1732 fu fondato Il monastero di San Benedetto Ullano da Clemente XII, a lungo
sollecitato dal nobile coroneo Stefano Rodotà per porre fine “allo stato deplorabile
d’ignoranza ed abusi” in cui, secondo il nobile si trovava la maggior parte della comunità
greco-Alabanese, in materia di fede religiosa81 soprattutto nel modo di recitare i sacri riti
anche a causa dei libri scismatici stampati a venezia di cui, evidentemente, facevano uso i
vari parroci greci.
Cosi come nella somministrazione dell’eucarestia, a volte sotto una, a volte sotto entrambe
le specie ma comunque sempre con pane fermentato.
Nelle intenzioni del pontefice, benché non dovesse trattarsi di un istituto atto alla formazione
della classe dirigente, almeno doveva certamente essere di una qualche qualità poiché
l’influenza dei chierici sulla comunità Albanese era senza dubbio molto forte(pag 158)
Oltre che ad un podere, di rendite e pensioni, il Papa dotò’ il monastero anche di un vescovo
greco-cattolico per regolare le ordinazioni sacerdotali visto che fino ad allora i preti dovevano
recarsi a Roma per ricevere i voti.
Nel monastero venivano insegnati parimenti greco e latino anche se il greco era insegnato
solo il sabato, dopo la lezione in canto greco, da un professo nella lingua82
Il direttore del collegio sceglieva come amministratore, un sacerdote latino che abitava nel
collegio ed che alla fine del suo mandato doveva rendere conto ai razionali scelti dal preside
che di solito era il vescovo di rito greco nominato all’uopo83.
Storie di minoranze. Cit. pp 125-126
Tra queste poche notizie riportiamo la sentenza del Cardinale Filomarino, nella quale si proibiva la
nomina di cappellani che non fossero di rito greco.
80
Storie di minoranze. Cit. pp 129-131.
81
Storie di minoranze. Cit. pag 158.
82
Storie di minoranze. Cit. pag 161.
83
Storie di minoranze. Cit. pag 172.
78
79
12
Durante gli anni della rivoluzione, quando la flotta Russa era ancorata a Napoli, sorse un
ennesimo scontro all’interno della comunità greca: la vicinanza dei cappellani russi della
flotta spinse una parte degli ortodossi napoletani all'adozione del rito orientale anziché di
quello greco cattolico. Il cardinale Luigi Ruffo, a cui nel 1804, il re sottopose la questione,
respinse la richiesta della comunità greca adducendo ed illustrando tutta una serie di mali
che ne sarebbero venuti, inclusa l’ira di San Gennaro84.
Sotto il governo napoleonico la comunità greca godette di un ampia libertà ed autonomia,
facendone lamentare il nunzio apostolico che, restaurati i Borboni, nel 1829 chiese
l'intervento del sovrano, il quale rinnovò da parte sua l’ordine di aderire all’uniatesimo e
prescrisse che i cappellani avrebbero dovuto essere scelti o tra i greco-cattolici o tra i
membri della comunità di Napoli.
In quegli anni si ebbe anche l’indipendenza della Grecia, portando una ventata di
nazionalismo anche tra i Greci italiani, tanto che si era potuto appurare che ormai il clero
greco era di fatto scismatico, facendo seguire al battesimo la cresima, come era uso nelle
chiese orientali.
Nel corso del tempo la cappella era diventata una piccola chiesa dedicata agli Apostoli
Pietro e Paolo, che dopo l’unità italiana, in un clima di ritrovata libertà di culto, nonostante
alcune liti, decise di adottare il rito greco-orientale, che tutt’oggi conserva85.
Poiché si trattava dell’unica chiesa ortodossa in un mare di chiese cattoliche essa
divenne il punto di riferimento di quelli ortodossi, che per un motivo o per un altro, si
trovassero a passare, o abitassero, all’interno dei domini del regno di Napoli86, rendendo
difficile lo studio della demografia della comunità greca, complicato anche dal fatto che SS.
Pietro e Paolo non aderì ai dettami del concilio di Trento e non tenne mai dei registri chiari
ed aggiornati, adeguandosi solamente nel 1736 per i battesimi e nel 1778 per i matrimoni87.
Quel poco che riusciamo a leggere, comunque, ci mostra una comunità tendenzialmente
chiusa, dove i matrimoni si contraevano perlopiù tra sposi entrambi ortodossi88.
In generale, sostiene Giura, la comunità sembrò integrarsi bene ed avere un buon
rapporto con la popolazione latina maggioritaria, suscitando al limite qualche apprensione
nella curia, che temeva un infiltrazione dell’eresia e vedersi sfuggire fedeli tra le mani89.
Dalla caduta di Costantinopoli fino alla rivoluzione Francese, e nel caso di Napoli fino
all’unità d’Italia, la chiesa ortodossa è una minoranza, quasi sempre tollerata, grazie agli
antichi legami che l’impero bizantino aveva condiviso con l’Italia e con la costa dalmata90,
mai veramente accettata, se non in ottica di subordinazione al potere papale.
I casi di Venezia e Napoli, ed anche quello qui solamente accennato dell’impero
Austriaco, ci mostrano che, comunque, il potere civile aveva una relazione più complessa
con questi cristiani, considerati scismatici da Roma.
Quest’ultima era stata invocata anche quando il regno aveva tentato un'apertura verso la comunità
giudaica del regno
85
Storie di minoranze Cit. pp 140-143
86
Nei registri troviamo i nomi di alcuni membri di un reggimento albanese aveva abbandonato
dall’Islam, o i decessi di un console russo o di marinai di passaggio.
87
Storie di minoranze. Cit. pag 146.
88
Una tendenza che va a diminuire nel corso del tempo, probabilmente per evitare matrimoni
endogamici.
89
Storie di minoranze. Cit. pag 156
90
i greci a venezia, Cit. pag 18
84
13
Per Venezia e Vienna essi rappresentavano una parte cospicua della propria
popolazione, e se lo stesso non si poteva dire per il regno di Napoli, è indubbio che il
reggimento real macedone, e prima ancora le cavallerie leggere albanesi, furono un
importante elemento per l’esercito napoletano.
Per gli stati del XVII e del XVIII secolo, che governavano su vaste e composite masse di
popolazione, il rispetto e la tolleranza etnica e religiosa, erano necessari, anche se magari
non condivisi.
Come molti provveditori della repubblica veneta sottolineano91, l’esistenza stessa della
Serenissima come potenza è legato al buon rapporto con le popolazioni greche e slave di
Dalmazia, un rapporto che passa inevitabilmente attraverso la tolleranza del rito greco,
anche di fronte alle pressioni del Papato che, specialmente dopo Trento, aspirava al totale
controllo spirituale di quello che restava dell’Europa cattolica dopo che la riforma protestante
le aveva sottratto buona parte della Germania ed il Nord Europa.
Il regno di Napoli, meno pressato da necessità amministrative, si dimostrò molto più ligio
al volere Romano, senza tuttavia appiattirsi sulle scelte dell'arcivescovado napoletano.
Se le gerarchie cattoliche furono molto spesso intransigenti, i pontefici invece avevano un
atteggiamento più conciliante, pur sempre nell’ottica del concilio di Ferrara-Firenze e
dell’unione delle chiese.
Per parte loro, i Greci e gli Slavi che scelsero di fuggire in Europa occidentale man mano
che avanzava l’ondata conquistatrice dell’impero ottomano, fecero di tutto per diventare
parte integrante della società in cui si trovavano92, pur senza mai dimenticare le loro
tradizioni ed anzi, cercando di coltivarle e difenderle con tutti i metodi a loro disposizione.
Il continuo afflusso di popolazioni greco-slave di rito ortodosso, che in qualche modo, con
le migrazioni attuali, non è mai cessato, ha mantenuto viva in tutta l’Italia la fiamma del
credo ortodosso che era stata presente nella penisola con i Bizantini.
Vedi supra
A Venezia molti divennero commercianti o scelsero di servire nella flotta, così come nel regno di
Napoli.
91
92
14
Bibliografia
AAVV, The Oxford Handbook of Byzantine Studies,Oxford University press, 2008
M.F. Tiepolo e E. Tonetti a cura di, Atti del convegno I Greci a Venezia, Istituto veneto di
scienze lettere ed arti, 2002.
F.M.Paladini, <<Un caos che spaventa>>: poteri, territori e religioni di frontiera nella
Dalmazia della tarda età veneta. Marsilio 2002.
V. Giura, Storie di minoranze, Ebrei, Greci, Albanesi nel regno di Napoli, Edizioni scientifiche
italiane, 1984.
A. Spagnoletti. Un mare stretto ed amaro. Viella, 2014
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