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Le pluriformità delle Chiese orientali

Articolo comparso su "Il giornale di Rodafà. Rivista online di liturgia del quotidiano" - n. 310 - 12 aprile 2015

Numeri precedenti > 196 - Aprile 2015 > Numero 310 - 12 aprile 2015 > Pasqua poco professionale Dell’Oriente Cristiano i nostri ambienti parrocchiali, associativi, comunitari, di stretta circumnavigazione italica, spesso non conoscono e non sanno assolutamente nulla. Sì, esistono i cosiddetti “Ortodossi”, ma se ne ha una vaga idea in termini di icone, canti, incensi, barbe e veli su alti copricapi. Tutto il resto è mistero profondissimo. E perché? Perché Cristiani “altri” non sono previsti né ammessi nelle nostre costruzioni angustamente confessionali. Le cose si complicano di molto, di moltissimo, se poi accade – come accade – che anche all’interno della stessa confessione, quella cattolica tanto per capirci, emergano suoi membri “altri”, “diversi”, ancor più ignoti proprio perché uguali, sotto altro aspetto - ed è aspetto peraltro sostanziale –, a tutti i meglio conosciuti correligionari. Che esistano Cattolici “Orientali” è una specie di tabù. Che resta tale anche se il tempo passa. Questa mattina il Papa celebra a Roma la messa per i fedeli di rito armeno, proclamando Gregorio di Narek dottore della Chiesa. Ma, alquanto sorprendentemente (sia detto con ogni rispetto), non celebra in rito armeno. La liturgia non è armena, bensì latina, romana. Sembra come gravare un’ipoteca di impossibile estraneazione cattolica rispetto all’unica identità occidentale. Eppure oggi è la Pasqua delle Chiese d’Oriente. Il Cristianesimo è questione d’Oriente, non d’Occidente. Gesù non viveva a Roma. E diventa per noi difficilissimo, quasi impossibile, cogliere cosa significhi credere, vivere la Chiesa, celebrare, da orientale e non da occidentale. Il discrimine sembra, a me almeno, uno soltanto: la vocazione matrimoniale dell’essere Chiesa ad Est, ad Oriente. Bisogna fare un’ulteriore precisazione, molto importante. Per decenni e decenni dire “Ortodossi” ha significato riferirsi ad eroiche appartenenze ecclesiali al di là della cortina di ferro, nell’area d’influenza sovietica. Quello, e solo quello, era l’ambito di riferimento “ortodosso” per me occidentale, europeo, americano. Quella medesima memoria che conduceva ad identificare l’Ortodossia con la tradizione rituale bizantina aveva espunto – certo non volontariamente – qualunque altra possibile Ortodossia non bizantina. Invece, lo insegna addirittura il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, al can. 28, § 2, esistono Cristiani di Tradizione Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea. Cioè esistono, oltre ai Bizantini, gli Armeni - appunto -, i Copti assieme ai Cristiani del Corno d’Africa, i Siri (non “siriani”, piuttosto Maroniti, o, in India, Malankaresi), gli Assiri assieme ai cattolici Caldei (ed in India i Malabaresi). Sono le Chiese Orientali cosiddette “antiche”, perché riconoscono i Concili fino al quarto, quello di Calcedonia o, nel caso delle Chiese Assire, sino al terzo, quello di Efeso. Alcune comunità di queste Antiche Chiese si sono poi unite alla Sede di Roma, andando a costituire le Chiese Orientali Cattoliche. È vero, c’è in esse potente la dimensione dell’arcaico, ma è un archè, un inizio, o un prototipo, che profuma di meraviglia. Ho davanti agli occhi una coppia che passeggiava assieme alla periferia di Asmara. Lei bellissima donna avvolta nel bianco nezelà. Lui con turbante bianco e croce di legno prensile nella mano. Era il marito, prete della chiesa vicina, il "keshi" amico della gente. La prossimità culturale delle Antiche Chiese Orientali con il mondo ebraico lascia senza fiato, è stupefacente. Si mescolano le emozioni, le paure, i pianti, i sorrisi, i sogni. Altri universi insomma. E ciascuno con il proprio patrimonio spirituale, liturgico, disciplinare ed anche dottrinale. Ma quegli universi extra-bizantini, pur Orientali, stanno in realtà nella parte sud della Terra. Ecco il punto importante. È come se avvenisse una congiunzione tra anelito di liberazione dei poveri e storia bimillenaria di una ricchezza ecclesiale sconosciuta. Vetera et nova. Per comprendere la natura matrimoniale di questa fede cristiana d’Oriente, che s’incrocia con la passione di chi aspetta liberazione, proponiamo – propongo - un esperimento molto semplice. Si collochi, a casa propria, un’icona su un tavolo, adagiandola su un panno colorato. Vi si accenda di fronte un lume che però non sia una candela (o, peggio, un “lumino” rosseggiante). Si faccia silenzio e, dopo un po’, ci si metta ad ascoltare semplicemente un buon cd, qualunque sia il contenuto, purché, per appunto, di buona musica. Si accenda davanti a quell’icona, così semplicemente illuminata, un bastoncino d’incenso, o meglio, si bruci qualche grano d’incenso (non necessariamente con l’ausilio di carboncini, si può bruciare l’incenso anche solo ponendolo ad una certa distanza dal lume). Ora si rimanga fermi lì. Senza dire nulla. Davanti a quell’icona, a quella luce, a quella musica, a quel profumo. Fatto. Sale una passione amorosa tale che vien voglia di baciare per terra. O di sposare ogni amico ed amica che venga alla mente. O di intenerirsi fino alle lacrime verso i propri figli che sono già carne propria, parte di sé. Lo riconosco: l’Oriente Cristiano mi ha insegnato, e non parole, il significato vero del mio matrimonio. Mia moglie, “ortodossa” secondo quel lessico corrente ed approssimativo di cui dicevo, è la manifestazione di un amore che non posso dire a parole, non ci riesco. Si espande, si celebra, si fa musica, diventa profumo, diventa tratto di pennello sacro. Cadono barriere, precisazioni, categorie giuridiche, distinzioni e sofismi. Rimane solo un tale calore d’amore che non si può che rimanerne bruciati. Da noi il trionfo è della coppia. A Sud-Est è possibile comprendere il mondo solo a partire dalla comunità, che non sono due che si guardano negli occhi e tutto il resto fuori. Bensì due che si guardano negli occhi e tutto il resto in mezzo, intorno, che strattona, che s’affolla, che spinge, che bussa, che mangia, che danza, che parla, parlotta, rimbrotta e che ride. Che piange, che sogna, che spera, che chiede. Che ama. Due che si amano perché tutti si amano. Non, come pensiamo noi – partendo da concezioni mononucleari -, tutti che si amano perché due, eroicamente, si amano. Non ci sono primati ed eroi. Non ci sono modelli e testimonianze esemplari a prescindere dal contesto comunitario. Che cosa accade però a proseguire in questo racconto nuziale che probabilmente presenta tratti di folle lucidità, o delirio - me ne rendo conto -? Accade che la messa radicale in discussione della coppia come noi la intendiamo attenti alla “professionalizzazione” della coppia. Fare il marito e fare la moglie è un lavoro. Ci sono codici sociali, giuridici, etici, religiosi, persino letterari (poetici di meno in realtà), da rispettare. Il matrimonio è una specie di dovere civico. Un obbligo professionale. Ma il quadro cade a terra e si frantuma in mille pezzi se al suo posto, al posto del quadro, ci metto un’icona. Un’icona non è un quadro. Il matrimonio non è un lavoro. L’incenso non è un deodorante. La musica non è un hobby. La contemplazione non è dir preghiere. La vita non è una realizzazione personale. Altri universi si presentano davanti alle nostre vite. Ma sono universi sconcertanti che, dunque, abbiamo rifiutato non soltanto per ignoranza, bensì per paura di perdere quel che siamo, di perdere la nostra professionalità esistenziale, di dover divenire artigiani del vivere e non imprenditori di noi stessi. La Pasqua Ortodossa – chiamiamola anche noi così – sta tutta qua. Ci sono parole altre che la nostra lingua non conosce e non ha mai pronunciato. Giovedì scorso si sono celebrati i 70 anni dalla morte di Dietrich Bonhoeffer e l’altro ieri i 60 dalla morte di Pierre Teilhard de Chardin. Non è vero allora che la potenza amorosa dell’ecclesialità d’Oriente non abbia mai trovato parole adeguate in Occidente, devo ricredermi e correggermi. È la dimensione che proprio il gesuita francese designava, ricorrendo ad un neologismo che non mi pare sia stato più riproposto, come “il Cristico” (cfr. ad esempio http://silversaniuan.blogspot.it/2013/01/pierre-teilhard-dechardin-s.html). Prospettiva in Italia assunta anche da Adriana Zarri. Ma è anche l’etica del volto di Lévinas. C’è anche una filosofia che, rinunciando alla forza impositiva del pensiero ed optando piuttosto per la debolezza dell’essere, ha indagato – istruendo più domande che risposte – quel dire dopo ogni dire che non va subito “battezzato” e cristianamente amalgamato, bensì rispettato nella sua provocazione e nel suo silenzio. Un matrimonio ancora da celebrare. Abiti di festa che sostituiscono gli abiti da lavoro. Abiti decisamente domenicali. La Pasqua. Esprimiamo gli auguri in tigrino, la lingua dell’Eritrea: Ruhus Fasika! Buona Pasqua. Ancora. W gli sposi! E buona domenica. Stefano Sodaro