Estratto dal saggio:
Sul concetto di sincronicità: Jung tra psicanalisi e
quantismo.
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CreateSpace Publishing, Seattle 2014.
ISBN-10: 1502878941
Copyright, Lucio Giuliodori 2014.
www.luciogiuliodori.net
La coscienza è il teatro, e precisamente l’unico teatro su cui si rappresenta tutto
quanto avviene nell’Universo, il recipiente che contiene tutto, assolutamente
tutto, e al di fuori del quale non esiste nulla.
Erwin Schrödinger
1. Inconscio, sincronicità, quantismo.
«Mentre nel regno quantico Wolfgang Pauli scoprì che le leggi ultime
della natura non sono soggette al principio di causalità, ma non sono
altro che un mandala di forme che sincronizzano la materia e la
interconnettono in tutte le sue parti, nel regno psicologico e cognitivo
Carl Jung scoprì l’esistenza dell’inconscio collettivo come realtà
oggettiva e substrato di base, il cui scopo è quello di unire assieme
sincronicamente sia la psiche che la materia»1.
Jung stesso puntualizza: «Come l’individuo non è assolutamente un
essere unico e separato dagli altri, ma è anche un essere sociale così la
psiche umana non è un fenomeno chiuso in sé e meramente
individuale, ma è anche un fenomeno collettivo» 2.
Le evidenti implicazioni con la meccanica quantistica ineriscono ai
precipui concetti junghiani di inconscio personale e inconscio
collettivo3. Secondo Jung quando scordiamo qualcosa in realtà non la
scordiamo affatto, essa esce dalla sfera del nostro conscio per entrare
nell’inconscio4. «La sua carica di energia è talmente diminuita che la
M. TEODORANI, Sincronicità, cit., p. 75.
C. G. JUNG, La psicologia dell’inconscio, cit., p. 110.
3 Il primo era per Jung una sorta di ricettacolo che sussiste e agisce fuori del nostro
controllo: esso è una grande parte di noi stessi di cui siamo all’oscuro. Non ne siamo
consapevoli, è appunto inconscio, ossia risiede ed opera al di là del livello della nostra
attenzione.
4 Anche se difficile stabilire «dove» visto che i concetti relativi alla località si
autoescludono a priori nel momento in cui si parla di inconscio. Probabilmente più
che dentro di noi, i ricordi si accumulano in una zona al di là dello spazio-tempo a cui
noi però possiamo avere accesso in virtù della realtà non locale nella quale viviamo.
«Non locale» non significa che non è «ubicata» ma che funziona trascendendo ogni
1
2
cosa non può più manifestarsi nella coscienza, ma, per quanto sia
andata perduta per la coscienza, non è perduta per l’inconscio» 5. A
riprova di ciò lo psichiatra svizzero riporta il calzante esempio della
lettura:
«Supponiamo che vi siano due persone delle quali una non ha mai letto
un libro, mentre l’altra ne ha letti mille. Sopprimiamo dalla mente di
entrambe ogni ricordo degli ultimi dieci anni, durante i quali la prima
persona semplicemente viveva, mentre la seconda leggeva i suoi mille
libri. A questo momento tutte e due saranno ugualmente ignoranti,
però chiunque sarà in grado di capire quale dei due ha letto i libri e, si
badi bene, li ha capiti.
L’esperienza della lettura quantunque
dimenticata da molto tempo, lascia dietro di sé delle tracce nelle quali si
possono ravvisare le vestigia del passato. Questa durevole influenza
indiretta dipende da una fissazione delle impressioni che sono tutte
conservate, anche quando non sono più in grado di emergere nella
coscienza»6.
È dunque questo il territorio dell’inconscio personale, al quale Jung
aggiunge il ben noto inconscio collettivo in quanto nell’interiorità
dell’individuo sussistono anche idee che non appartengono alla sua
storia privata: «Di che genere di idee si tratta? Si tratta in breve di
fantasie mitologiche, che non corrispondono ad alcun avvenimento o
esperienza della vita personale dell’individuo, bensì solo a dei miti»7.
La deduzione di Jung è ovviamente la seguente: «Se queste idee non
scaturiscono dall’inconscio personale, e quindi dalle esperienze della
vita individuale, da dove dunque proverranno?»8 L’inconscio collettivo
va dunque ad operare quale atavico corifeo di tutte quelle irretite
potenzialità che se riacquisite estendono icasticamente la
consapevolezza del singolo che trova innate facoltà creative di
definizione del reale. Jung per spiegarsi accenna alle categorie kantiane
anche se sappiamo che la differenza è sostanziale in quanto queste
ultime svolgevano una funzione di ordinamento e costruzione del
mondo fenomenico fornendo un sapere fisico naturale di tipo scientifico
mentre per lo psichiatra svizzero è proprio il mondo noumenico, per
usare il linguaggio kantiano, ad essere interessato dalle categorie della
possibile ubicazione seppur oggettiva essa possa apparire. Ma essa tale appare in
quanto non possediamo strumenti descrittivi adeguati ad un modello non
meccanicista e non dualista: un modello sincronico. Ciò rimanda ai celebri campi
morfici di Rupert Sheldrake e al cervello olografico di Karl Pribram come vedremo a
breve.
5 C. G. JUNG, La psicologia dell’inconscio, cit., p. 141
6 Ibidem. Lo stesso Zolla afferma: «Così in una mente meditativa e curiosa le tante
letture non ricadono inerti e ammucchiate, ma si connettono orchestrandosi, creando a
poco a poco: la letteratura». E. ZOLLA, Auree, cit., p. 14.
7 C. G. JUNG, La psicologia dell’inconscio, cit., p. 141.
8 Ibidem.
sua psicanalisi. Jung stesso usa addirittura il termine «noumeno» quale
sinonimo di «inconscio» 9.
Lo stesso «Pauli aveva intuito in maniera profonda e sicura che quella
matrice invisibile in grado di tenere assieme il mondo è proprio
l’inconscio
collettivo,
a cui l’inconscio
personale
accede
occasionalmente attraverso sogni carichi di significato e tramite le
sincronicità»10.
Riassumendo:
«Jung sapeva già che l’inconscio non si situa nello spazio conosciuto,
bensì in una specie di dimensione iperspaziale con sue leggi ben
differenziate da quelle di causalità note alla scienza standard. Il
sincronismo tra lo stato psichico di un individuo e un evento del mondo
della materia dimostrava fin troppo bene che oltre alle leggi conosciute
dalla fisica, ne esistono altre che ancora non conosciamo bene»11.
Tale dimensione ipersapziale appartiene all’inconscio collettivo, una
sorta di iperuranio platonico dove esistono «le idee delle cose» o, in
termini junghiani appunto, gli archetipi delle cose12. Tutti siamo
connessi a tale a priori della realtà e il modo in cui ci connettiamo ad
esso è il simbolo. I sogni, le sincronie e tutti i fenomeni paranormali
rientrano in quella che per Jung è una comunicazione simbolica che
permette al soggetto di interagire con l’inconscio collettivo.
«Il legame con l’inconscio sovrapersonale o collettivo rappresenta un’estensione
dell’uomo al di là di se stesso; significa morte per il suo essere individuale ma
rinascita in una nuova dimensione, quale era letteralmente rappresentata negli antichi
misteri. […] Non si deve assolutamente immaginare che esista alcunché di simile a
delle idee ereditarie. Su questo non vi può essere discussione. Però esistono possibilità
innate di idee, condizioni a priori per la produzione di determinate fantasie, in certo
senso affini alle categorie kantiane. Sebbene queste condizioni innate non producano
in sé alcun contenuto, pure conferiscono una forma definita ai contenuti già acquisiti».
Ivi, p. 142.
10 M. TEODORANI, cit. p. 64.
11 Ivi, p. 21
12 Interessante l’analogia con l’Akasha proposta da Teodorani: «Le vere scoperte
scientifiche nascono innanzitutto come intuizione di una realtà superiore. L’unico
modo per accedervi è quello di collegarsi al regno degli archetipi, che non è altro che
un’immensa biblioteca contenente in forma simbolica tutto lo scibile dell’universo. In
fondo questo regno al di là del tempo e dello spazio e quella misteriosa e mitica
“Akasha”, di cui si tramanda nelle tradizioni orientali, sono esattamente la stessa
cosa». Ivi, p. 69.
L’iperuranio platonico tuttavia non è una “semplice realtà superiore” bensì il
presupposto dello stesso mondo sensibile il quale per Platone nemmeno esisterebbe
senza la sua aprioristica matrice ontologica. «L’idea platonica non è un concetto, un
pensiero, una rappresentazione mentale, non è un dato psicologico; anzi, questi dati
per Lui sono “ombre”, sono opinioni. L’Idea è il fondamento metafisico di tutto ciò
che esiste ed è, è la struttura-essenza ontologica di tutte le cose. L’Idea è un
intelligibile e senza di essa il mondo sensibile non potrebbe sussistere. L’Idea è Essere
in quanto è e non diviene, è la costante su cui poggia il divenire, è il sole centrale
intorno a cui roteano tutti i sensibili, è l’arché, il principio da cui dipendono tutti gli
enti». RAPHAEL, Iniziazione alla Filosofia di Platone, Edizioni Asram Vidya, Roma 1996.
p. 22.
9
«Come l’individuo non è assolutamente un essere unico e separato
dagli altri, ma è anche un essere sociale, così la psiche umana non è un
fenomeno chiuso in sé e meramente individuale, ma è anche un
fenomeno collettivo. […] L’universale somiglianza dei cervelli umani
comporta la possibilità universale di un funzionamento psichico
uniforme. Tale funzionalità è la psiche collettiva»13.
Inconscio, memoria, cervello e psiche collettiva… Alla luce delle
scoperte della fisica odierna, sembra davvero tutto connesso. Il
neurochirurgo Karl Pribram, ha avvalorato la teoria bohmiana della
natura olografica della realtà grazie a numerosi studi condotti su ratti a
cui veniva asportata una parte di cervello. Nonostante diverse e
successive asportazioni i ratti continuavano a conservare i ricordi,
riguardo ai quali dunque, in seguito all’esito degli esperimenti, era
impossibile ammettere un’esistenza localizzata. La stessa capacità
umana di attingere all’istante, ad un qualsiasi ricordo, tra miliardi e
miliardi di informazioni non fa che avvalorare la non-localizzazione dei
ricordi, e quindi la non catalogabilità del tempo. Secondo la teoria del
cervello olografico di Pribram, i ricordi si troverebbero in una
dimensione esterna al cervello alla quale però quest’ultimo sembra
possa avere accesso.
Anche la teoria dei campi morfici del biologo e filosofo Rupert
Sheldrake avvalora queste tesi. Dopo che un gruppo di scimmie che
vivevano in un’isola giapponese aveva acquisito la capacità di lavare le
patate dolci prima di mangiarle, si era scoperto che in precedenza un
altro gruppo di scimmie viventi in un’altra isola aveva acquisito la
stessa tecnica. I due gruppi ovviamente non erano mai venuti in
contatto fisicamente ma l’informazione, secondo la teoria dei campi
morfici, aveva viaggiato non localmente e sincronicamente
raggiungendo altri membri della stessa specie.
In un’intervista televisiva di parecchi anni fa tutt’ora visibile su
Youtube, chiesero a Franco Battiato cosa pensasse di quegli asceti che si
ritirano dal mondo per vivere in solitudine e meditare, un
atteggiamento che a tutta prima sembra concretare una fuga dal mondo
più che un impegno in favore di un suo miglioramento. In sostanza a
persone ritenute generalmente sagge si potrebbe contestare un ovvio e
totale disimpegno nei confronti del reale.
Battiato disse all’intervistatore che non si poteva minimamente
immaginare quanto bene all’umanità potessero fare quelle persone col
loro atteggiamento di fuga «apparente». Con la teoria dei campi morfici
infatti la tesi di Battiato è facilmente spiegabile e comprensibile: se
l’asceta raggiunge un alto grado di sviluppo spirituale, tramite
risonanza morfica, sincronicamente anche gli altri membri della sua
specie ne risentirebbero - anche se inconsapevolmente ovviamente, in
13
C. G. JUNG, La psicologia dell’inconscio, cit., pp. 110-111.
quanto la modifica va ad inficiare l’inconscio più che il conscio14.
Cambiare il mondo cambiando noi stessi dunque, una ben nota verità
esoterica15.
Per tornare alla memoria, già le stesse tecniche bruniane erano fini a un
miglioramento della realtà proprio a partire dal singolo, dall’iniziato:
«Bruno non intende solo potenziare il muscolo mnemonico, vuole
mutare il cosmo. Ovvero – lo ribadiamo ancora - modificare la struttura
stessa della mente di ogni iniziato e quindi, attraverso di esso, il mondo,
tramite l’interdipendenza micro-macrocosmo, cioè mente-universo.
Questa è l’opera del «suo» ermetismo, modificare l’uomo nella mente,
mutarne l’intima essenza e quindi, attraverso lui-uomo-nuovo,
rivoluzionare il mondo»16.
Essendo microcosmo e macrocosmo indissolubilmente uniti, l’uomo
stesso è sia oggetto che soggetto della stessa realtà: se cambia lui
sincronicamente cambia anche la realtà.
Nella meccanica quantistica l’osservatore modifica l’osservato. Se noi
infatti effettuiamo in laboratorio una misurazione della traiettoria di
una particella molto minuta come per esempio un fotone, un elettrone
o un atomo, la nostra misurazione modifica la posizione della particella,
cioè la misura non presuppone
una procedura deterministica.
Nell’ambito dell’infinitamente piccolo il modello meccanicista viene
clamorosamente contraddetto, ecco perché si parla di «probabilismo» in
meccanica quantistica, perché tutto ciò che possiamo fare è considerare
una serie di probabilità riguardo alla posizione della particella17. A tale
Un’alternativa teoria dell’evoluzione dunque, un tema caro non solo allo stesso
Battiato ma a gran parte della tradizione esoterica occidentale, pensiamo per esempio
a Steiner e alla Teosofia ma anche allo stesso Gurdjieff o agli italiani Evola e Assagioli,
tutti impegnati nella definizione di un sistema sia pratico che speculativo in grado di
apportare un miglioramento alla «macchina biologica» per dirla nei termini del maestro
armeno. Come si è già evidenziato in precedenza, la stessa Grande Opera alchemica
non è altro che la storia di un miglioramento: trasmutare l’essere mortale e deificarlo,
superarlo in un processo fatto e pensato ad arte: Arte Regia.
15 Non è un caso che le varie tradizioni esoteriche pongono l’attenzione all’evoluzione
del singolo più che su quella della comunità, il concetto di «Individuo Assoluto» in
Evola è particolarmente indicativo al riguardo, come indicativa è la feroce critica
zolliana all’ «uomo-massa», in opposizione qualitativa al modello dell’iniziato.
Riguardo a quest’ultimo punto si veda il paragrafo “L’odio della contemplazione” in
E. ZOLLA, Che cos’è la Tradizione, Adelphi, Milano 1998, pag. 95.
Rimando inoltre a J. EVOLA, Fenomenologia dell’individuo assoluto, 3 ed., Mediterranee,
Roma 2007.
16 G. LA PORTA, Giordano Bruno. Vita e avventure di un pericoloso maestro del pensiero,
Bompiani, Bologna 2001, p. 195.
17 «La teoria della relatività generale di Einstein è probabilmente una delle due
massime conquiste intellettuali del ventesimo secolo. Rimane però incompleta, perché
è quello che si dice una teoria classica, nel senso che non ingloba il principio di
indeterminazione dell’altra grande scoperta del secolo: la meccanica quantistica. Il
principio di indeterminazione stabilisce che certe quantità appaiate, come la posizione
e la velocità di una particella, non possono essere determinate simultaneamente con
precisione arbitraria elevata. Maggiore è la precisione con cui si determina la
posizione di una particella, minore è quella con cui si potrà determinare la velocità, e
14
proposito è stata creata un’apposita funzione matematica che stabilisce
la possibile posizione della particella: la funzione d’onda. Si parla di
funzione d’onda perché tra una possibile misurazione e un’altra la
particella si dissolve in una sovrapposizione di onde di probabilità ed
essa è dunque potenzialmente presente simultaneamente in una serie di
luoghi differenti; solo l’atto della misurazione fa collassare la particella
in un determinato luogo. Tale assurdo comportamento delle particelle è
stato esposto nel celebre paradosso del gatto di Schröedinger rinchiuso
nella scatola: in essa il gatto è sia vivo che morto e solo l’atto
dell’apertura (misura) determina l’effettiva vita o morte del gatto, la
quale dunque è «nelle mani» dell’osservatore.
Come sostiene il fisico Pascual Jordan: «Non solo le osservazioni
disturbano ciò che deve essere misurato, ma esse lo producono… Noi
costringiamo un elettrone ad assumere una posizione definita… Ma
siamo noi stessi che produciamo i risultati della misurazione»18. In
parole molto semplici: noi siamo coinvolti nella misurazione che non è
solo «una misurazione» ma è un atto stesso di modifica del reale.
Questo significa oltretutto che non possiamo nemmeno vedere la realtà
oggettiva, per quello che è, possiamo solo vedere una nostra
interpretazione di essa, dal momento che siamo noi a modificarla.
Fritjof Capra approfondisce ulteriormente:
«Le particelle subatomiche non hanno significato come entità isolate,
ma possono essere comprese soltanto come interconnessioni tra la fase
di preparazione di un esperimento e le successive misurazioni. La
meccanica quantistica rivela quindi una fondamentale unità
dell’universo: mostra che non possiamo scomporre il mondo in unità
minime dotate di esistenza indipendente»19.
Più ci si addentra nella materia dunque, più essa appare come una
complessa rete di relazioni tra la parti e il tutto ma l’aspetto
fondamentale è che queste relazioni includono sempre l’osservatore
quale elemento essenziale e imprescindibile.
«Ciò significa che l’ideale classico di una descrizione oggettiva della
natura non è più valido. Quando ci si occupa della materia a livello
atomico, non si può più operare la separazione cartesiana tra l’io e il
mondo, tra l’osservatore e l’osservato. Nella fisica atomica, non
possiamo mai pararle della natura senza parlare, nello stesso tempo, di
noi stessi»20.
L’entanglement quantistico dunque conferma l’interconnessione della
realtà a livello profondo e sembra poter rappresentare una palese
viceversa». S. HAWKING, Inizio del tempo e fine della fisica, Mondadori, Milano 1992,
pp. 60-1.
18 Citato in M. TEODORANI, Entanglement, Macroedizioni, Cesena 2007, p. 9.
19 F. CAPRA, op. cit. pp. 81-2.
20 Ivi, p. 82.
cornice di significato al fenomeno della sincronicità, in quanto se noi
trasliamo lo stesso concetto di interconnessione alla realtà macroscopica
(anche se ancora non possiamo dimostrarlo in termini matematici)
possiamo facilmente dedurre che si riproduca lo stesso fenomeno
esperito nella micro realtà:
«E’ poi importante tener presente che se tutto quello che sappiamo di
entanglement riguarda il comportamento delle particelle elementari,
allora nulla impedisce di pensare che lo stesso possa accadere quando si
mettono assieme le particelle elementari per formare organismi
viventi»21.
Infatti Teodorani, approfondendo ancora, asserisce che:
«Il processo della Vita è intimamente connesso con il processo
dell’osservatore che guarda la realtà. Una particella probabilmente non
è in grado di osservare in maniera cosciente la realtà. Sicuramente una
particella interagendo con la realtà, la modifica, ma non lo fa in maniera
cosciente. La psiche propria di un bio-sistema invece è in grado di
interagire come «osservatore» con l’osservato in maniera pienamente
cosciente. La ragione per la quale i misteriosi fenomeni di sincronicità
di Jung capitano solo a noi essere biologici sofisticati, non è un caso»22.
Coscientizzare tale potere a noi intrinseco farà probabilmente parte di
una delle tante sfide che la scienza del Ventunesimo secolo si appresta
ad affrontare. Ma ciò che ha provocato Jung è proprio una rottura degli
argini tra scienza e mistica, tra archetipo e oggetto, tra conscio e
inconscio e la scienza dovrà riconoscersi parte di questo più ampio
spettro dello scibile, uno scibile che includa l’uomo innanzitutto,
rivalutandone l’imprescindibile aspetto interiore: a priori di
un’oggettualità fenomenica che non ne è che lo specchio (magico).
A tale proposito risulta interessante la riflessione di Marie-Louise Von
Franz concernente il concetto di unus mundus in Jung e la relativa idea
di inconscio, così onnicomprensiva da toccare il mondo inorganico23:
«L’insospettato parallelismo delle idee nel campo della fisica e in quello
della psicologia, suggerisce, come ha ben visto Jung, la possibilità di
una fondamentale unicità dei due campi reali che formano oggetto degli
21
22
M. TEODORANI, Entanglement, op. cit., p. 105.
Ivi, p. 130.
E tra l’altro è lo stesso Jung ad ammettere che: «L’inconscio personale, immanente
nell’intera struttura cerebrale, è come uno spirito onnipervadente, onnipossente,
onnisciente. Conosce l’uomo qual è stato da sempre, non qual è in questo istante; lo
conosce come un mito. Anche per questo il legame con l’inconscio sovrapersonale o
collettivo rappresenta un’estensione dell’uomo al di là di se stesso; significa morte per
il suo essere individuale, ma rinascita in una nuova dimensione, quale era
letteralmente rappresentata in alcuni antichi misteri». C. G. JUNG, La psicologia
dell’inconscio, op. cit., p. 142.
23
studi della fisica e della psicologia cioè, una unicità psicofisica di tutti i
fenomeni della vita. Jung era convinto del fatto che ciò che egli chiama
įnconscio è in qualche modo connesso con la struttura della materia
inorganica – una connessione alla quale sembra riferirsi il problema
della cosiddetta malattia «psicoso-matica». Il concetto di una idea
unitaria della realtà (che è stato seguito da Pauli e da Erich Neumann)
era definito da Jung il concetto dell’unus mundus (il mondo unico, nel
quale psiche e materia non si differenziano, o non si attuano
separatamente). Egli preparò la strada verso un simile concetto unitario,
osservando che un archetipo rivela un aspetto «psicoide» (cioè, non
puramente psichico, ma quasi materiale) quando si rivela in un evento
sincronicistico perché un evento del genere, in effetti, è una
concordanza significativa di fatti psichici e di fatti esteriori.
In altre parole, gli archetipi non soltanto si adattano a situazioni
esteriori (come gli schemi del comportamento degli animali si
adeguano all’ambiente circostante); ma tendono a manifestarsi secondo
«sistemi» sincronicistici che includono così il regno della materia come
quello della psiche»24.
A tale riguardo, un allievo della Von Franz, Jaffrey Raff, citando
l’alchimista Gerald Dorn25 fa risalire il processo di sviluppo del Sé,
culminante nell’approdo all’unus mundus, proprio a una sincronicità:
«Con la formazione del Sé, il processo di individuazione entra in una
fase dinamica ma stabile. Dorn, così come Lambsprinck, descrive anche
un terzo livello di coniuncto, ove il Sé individuale che si è formato si
congiunge con un livello di realtà che lo trascende, ossia il mondo
divino che Dorn chiama unus mundus. Dorn si riferisce qui al mondo
indiviso, precedentemente alla separazione tra spirito e materia. […]
Secondo Dorn, l’alchimista prima porta il Sé a manifestazione, e poi lo
unisce col mondo originale della creazione – il mondo dello spirito e
della sincronicità»26.
Ma per arrivare – o meglio tornare - così lontano, ossia a quello che
Dorn chiama “sincronicità” o “mondo dello spirito” coincidente con la
formazione del Sé, è necessario farsi guidare dalla stessa sincronicità la
quale non va mai letta fine a se stessa ma piuttosto quale indicatrice di
un percorso, di una via da seguire, quale messaggera dunque. Detto
altrimenti, non va letta meccanicisticamente ma semmai esotericamente:
non il perché ma il che del fenomeno, per dirla in termini
schopenhaueriani. La Von Franz è perentoria al riguardo:
M. L. VON FRANZ, op. cit. pp. 314-5.
Jung si è soffermato a lungo sull’allievo di Paracelso Gerlad Dorn, soprattutto per
ciò che riguarda il concetto di coniunctio, ripreso dallo psichiatra svizzero nel suo
Mysterium Coniunctionis. Cfr. C. G. JUNG, Mysterium coniunctionis. Ricerche sulla
separazione e composizione degli opposti psichici nell’alchimia, Bollati Boringhieri, Torino
2017.
26 J. RAFF, Jung e l’immaginario alchemico, Mediterranee, Roma 2008, p. 108.
24
25
«Come esempio finale dello sviluppo di psicologia e microfisica,
potremmo considerare il concetto junghiano di significato. Mentre gli
uomini hanno sempre cercato una spiegazione causale (cioè razionale)
dei fenomeni, Jung ha affermato che si deve ricercare, dei fenomeni, il
significato (o, come anche si potrebbe dire il fine). Ciò comporta che ci
si debba chiedere non tanto perché qualcosa è accaduto (cioè quale ne è
stata la causa) ma a qual fine è accaduto. Questa stessa tendenza si
palesa nel campo della fisica: molti fisici moderni si preoccupano più di
appurare le connessioni naturali, che non le leggi causali
(determinismo).
Pauli riteneva che la nozione dell’inconscio avrebbe straripato oltre i
“ristretti margini della pratica terapeutica”, e avrebbe influenzato le
scienze naturali che si interessano dei fenomeni generali della vita»27.
Fondamentale qui è il concetto di significato: come sostiene Jung, non
bisogna solo soffermarsi sul perché accade una sincronicità ma
soprattutto su quale è il suo fine, ossia cosa realmente ci sta dicendo…
Molte sincronicità infatti ci parlano, vogliono parlarci, vogliono aiutarci.
Proprio come le personificazioni che Jung incontrava nel suo inconscio
attraverso la tecnica dell’immaginazione attiva: figure che letteralmente
parlavano con lo psichiatra svizzero il quale aveva finito per avere dei
veri e propri rapporti con esse.
Nel Libro rosso Jung descrive accuratamente i suoi incontri con le
personificazioni dell’inconscio, uno di loro, Elijah, gli dice chiaramente:
«siamo reali, non siamo simboli»28.
Nel prossimo paragrafo userò un esempio, un evento realmente
accadutomi, per dimostrare quanto realmente le sincronicità ci parlano,
sempre che vogliamo ascoltarle, sempre che sappiamo ascoltarle.
M. L. VON FRANZ, op. cit. pp. 314.
Cfr. C. G. JUNG, Il libro rosso. Liber novus, a cura di S. Shamdasani, Bollati
Boringhieri, Torino 2012.
A tale proposito rimando anche al mio saggio su Dino Valls, il grande pittore
junghiano contemporaneo che usa proprio l’immaginazione attiva come metodo di
ispirazione creativa e il cui intento dichiarato è proprio quello di “fotografare”
l’inconscio.
Cfr. Psicanalisi della pittura: Dino Valls e l’immagine attiva dell’inconscio, Create Space,
Seattle 2015.
27
28