LA TENDA CELESTE
Studio teologico di Ebrei 8,1-5; 9,11-12
LUPU CORNELIU BENONE
LUGANO 2016
1
1. IL TESTO E LE SUE RADICI
1.1. Introduzione
Il tema del santuario celeste, trattato ampiamente nell’epistola agli
Ebrei, è di fondamentale importanza per comprendere il ruolo di Gesù
nella storia della salvezza. Sfortunatamente, nonostante il suo
evidentissimo valore cristologico, non gli è stato permesso di svolgere,
nell’ambito della Chiesa cristiana, la funzione che avrebbe dovuto avere.
È vero che ha attratto l’attenzione di diversi studiosi, ma storicamente, e
per diverse ragioni, è stato molto depotenziato e sostanzialmente
contraddetto nell’ambito di molta parte della teologia, ed è praticamente
nullo a livello della pietas popolare. Bisogna dunque compiere ogni
sforzo per riscoprirlo e rivalorizzarlo, non solo tra i teologi, ma anche tra
i pastori e i credenti.
Trattandosi di un argomento complesso che sfugge ai metodi
interpretativi tradizionali, lo esamineremo usando ancora gli strumenti
tradizionali dell’esegesi e dell’analisi retorica, ma lasceremo anche che
sia lo stesso testo a generare le sue proprie categorie interpretative, sullo
sfondo della prospettiva soteriologica di tutto il libro.
Per l’autore dell’epistola agli Ebrei, la dottrina del santuario celeste
non è qualcosa di nuovo. Egli vede tutto il suo insegnamento come
profondamente radicato nell’AT, compresa l’idea fondamentale che il
«vero» santuario è nel cielo (Eb 8,1-2.5), dove Cristo Gesù svolge la
funzione di «sommo sacerdote» (Eb 2,17; 3,1; 4,14; 5,5.10; 6,20; 7,1.26;
8,2.4; 9,11;10,21). Di conseguenza, in questo primo capitolo, considere-
2
remo la lettera agli Ebrei nei suoi rapporti con l’AT sotto l’aspetto
letterario, storico, tematico e tipologico.
1.2. Il contesto letterario
Non è scopo di questo studio approfondire i dettagli strutturali
dell’epistola agli Ebrei: ne parliamo quindi solo in estrema sintesi. Tra i
modelli suggeriti, due hanno ricevuto un consenso significativo. Il primo
è quello tripartito: a. il Figlio di Dio (Eb 1,1-4,13); b. il Sacerdozio di
Cristo (Eb 4,14-10,31); c. il cammino dei credenti (Eb 10,32-13,17)1. Il
secondo articola invece il testo dell’epistola in cinque parti. Lo riportiamo
qui nella versione offerta da Vanhoye:
L’intervento divino nella storia umana (1,1-4). Prima Parte: Cristologia
generale (1,5-2,18). Seconda parte: Cristologia sacerdotale, aspetti
fondamentali (3,1-5,10). Terza parte: Sacerdozio di Cristo, aspetti
specifici (5,11-10,39). Quarta parte: Adesione a Cristo, mediante la fede
perseverante (11,1-12,13). Quinta parte: Esortazione alla carità e santità
(12,14-13,19) Postscritto: Augurio conclusivo e commiato (13,20-25)2.
È questo il modello che, pur con le diverse varianti proposte da
altri, ci sembra il più valido3.
1.2.1. Brevi considerazioni sul testo epistolare
Dal punto di vista letterario ci troviamo di fronte ad un testo
complesso cui non è facile attribuire uno stile esattamente determinabile.
Nell’800 gli studiosi si chiedevano se il nostro scritto fosse una lettera
oppure un’omelia, e migliaia di pagine sono state scritte per rispondere
1
Un esponente di primo piano di questa comprensione è Louis Dussaut. Vedi
L. DUSSAUT, Synopse structurelle de l’Epître aux Hébruex, Paris 1981, 202.
2
VANHOYE, La lettera agli Ebrei, 434.
3
Per un studio dettagliato: A. VANHOYE, La lettera agli Ebrei, 434; ID.,
Discussions sur la structure de l’épître aux Hébreux, in Bib 55 (1974) 349-380; ID.,
La Structure littéraire de l’épître aux Hébreux, Bruges-Paris 19762, 56.
3
alla domanda. Sfortunatamente, i tanti tentativi di risposta hanno fatto
soltanto sorgere nuove domande: Possiamo parlare di una semplice
omelia oppure abbiamo un sermone di carattere teologico-apologetico? È
una parola di esortazione o un trattato midrashico? 4 Una dissertatio
epidittica? Un sermone polemico? Una collezione di oracoli? Una
raccolta di pensieri? Un’opera letterario–teologica? Filosofico-religiosa?
Queste e altre domande ancora esigono una risposta sicura, ma quale5?
Non si può rispondere frettolosamente. Ebrei manca di una
introduzione con i soliti inizi protocollari caratteristici delle lettere:
presentazione dell’autore, riferimenti ai destinatari, saluti. Potremmo
quindi pensare a un’orazione. Questa impressione sembra ulteriormente
rafforzata dal fatto che non si fa mai riferimento alla stesura o all’invio di
una lettera, ma si menziona solamente il «discorso» (Eb 5,11; 8,1), o il
«parlare» (Eb 6,9; 9,6). Segni di uno stile retorico6 si colgono anche nella
presenza di frasi che ritornano costantemente (Eb 1,1-4; 2,1-4; 5,7-10
7,26-28; 10,19-25), di strutture chiastiche (Eb 5, 1-10; 7,18), di rime
interne (Eb 5,8; 6,20)7, di ripetizioni (anafore)8 (Eb 5,6; 6,20; 7,11), di un
4
L’uso ripetuto di forme in contrasto (synkrisis) è stato interpretato da Zuntz
(G. ZUNTZ, The Text of the Epistles: A Disquisition Upon the Corpus Paulinum in The
Schweich Lectures of The British Academy 1946, London 1953, 286) come
argomento per sostenere l’idea che si tratti di un trattato midrashico. Anche Buchanan
parla di una «omelia midrashica fondata sul Salmo 110»: G.W. BUCHANAN, The
document entitled «To the Hebrews» is a homiletical midras based on Ps.110, in To
the Hebrews, New York 1972, 19.
5
Serie di domande diversamente formulate in C. MARCHESELLI - CASALE,
Lettera agli Ebrei, Milano 2009, 40.
6
Per lo stile retorico vedi lo studio di G.L. COCKERILL, The Epistle to the
Hebrews, Grand Rapids 2012, 72-77. Importante anche lo studio di M.D. MORRISON,
Who Needs a New Covenant? Eugene (Or) 2008, 170-176
7
COCKERILL, Hebrews, 11.
8
MARCHESELLI - CASALE, Lettera agli Ebrei, 65.
4
linguaggio logico, pedagogico (Eb 5,11-18; 12,4-11), a volte metaforico9
(Eb 5,13-14).
Allo stesso tempo troviamo degli elementi che fanno pensare ad
una lettera. Il finale ha, ad esempio, tutte le caratteristiche dello stile
epistolare: un cenno al «fratello» Timoteo (Eb 13,23), una richiesta di
preghiera (Eb 13,18), le consuete benedizioni, qualche informazione,
l’auspicio di poter rivedere i destinatari, l’invio di saluti cordiali. Tutti
elementi molto conosciuti e presenti nelle lettere paoline. Potremmo
dunque parlare di una lettera10?
Ci sono però varie prove a favore di un sermone liturgico,
un’omelia cristiana, un «discorso» tematizzato. Giuseppe De Virgilio in
una presentazione generale della Lettera agli Ebrei sostiene che la
maggioranza degli studiosi conferma che abbiamo un «discorso di
esortazione» (Eb 13,22), che prova a unire l’aspetto dottrinale con quello
parenetico11. Il testo alterna costantemente i due generi in tutto il corso
della riflessione: alla dimostrazione dottrinale segue l’esortazione
pastorale (Eb 2,1-4; 3,7-4,16; 5,11- 6,20; 10,19-39; 12,1-13,18). Moffat,
Spicq, Pagano sono favorevoli a questa interpretazione. Moffat vede in
πολύς l’apertura retorica di tutto il libro e specifica che troviamo qui, «la
stessa forma che troviamo in vari autori antichi, ad esempio in Sirach:
9
L. HERMUT, Reflection of Rhetorical Terminology in Hebrews, in Hebrews:
Contemporary Methods-New Insights, a cura di G. Gelardini, Atlanta 2005, 199-2010;
C.C. BLACK II, The Rhetorical Form of the Hellenistic Jewish and Early Christian
Sermon: A response to Lawerence Wills, in HTR 81 (1988) 1-18.
10
Per F.D. Nichol e Jimmi Swaggart è una lettera scritta dall’apostolo Paolo:
The Epistle of Paul the Apostle to the Hebrews, in F.D. NICHOL, Seventh-day
Adventist Bible Commentary, 19802, VII, 387; J. SWAGGART, Hebrews, Baton Rouge
2001, 167. Woschitz, Teodorico e Barbaglio credono che sia una lettera: K.M.,
WOSCHITZ, Christus und der selbe in alle Ewigkeit, in Renovatio 56 (2000) 79. P.
TEODORICO DA CASTEL DI S. PIETRO, L’Epistola agli Ebrei, in La Sacra Bibbia a
cura di S. Garofalo, Torino-Roma, 1952, 20. G. BARBAGLIO, Le lettere di Paolo,
Roma 19902, II, 513.
11
G. DE VIRGILIO, Lettera agli Ebrei: presentazione generale in Parole di
Vita Padova 2014, 10-17.
5
πολλῶν καὶ µεγάλων 12 . La paronomasia introduttiva, πολυµερῶς καὶ
πολυτρόπως (Eb 1,1) è considerata una prova importante dello stile
retorico dell’epistola. Per Pagano i due avverbi sono accoppiati «senza
dubbio [in maniera] intenzionale [e], si può considerare una specie di
dichiarazione
iniziale
dello
stile
(magniloquente
e
retorico)
dell’esposizione».13
Craig Koster, elenca vari teologi favorevoli a considerare Ebrei
come espressione di uno stile retorico omiletico: Attridge, Grässer,
Hagner, Lane, Long, Pfitzner, Übelacker, Backhaus, Cody, Vanhoye,
Wray 14 e Swetnam 15 Aggiungiamo i ricercatori attuali Gareth L.
Cockerill 16 , Johnson Timothy 17 , F.F. Bruce 18 , R.P. Gordon 19 ,
Craig
Koster e Hermut Lör20.
Molto elegantemente, Marcheselli-Casale, dopo avere elencato il
parere di diversi studiosi, raccoglie le varie possibilità stilistiche ma
12
J. MOFFAT, Exegetical Commentary, 2. Anche James Thompson vi vede
una forma omiletica: J. THOMPSON, The Beginnings of Christian Philosopy,
Washington DC 1982, 112.
13
A. PAGANO, Ad Ebrei, Roma, 2008, 58. Per la natura orale di Ebrei: D.
AUNE, The New Testament in Its Literary Environment, Philadelphia-Westminster
1987, 212-214; S. STANLEW, The Structure of Hebrews from Three Perspectives, in
TynBul 45 (1994), 240-250.
14
Elenco presente in C.R. KOESTER, Hebrews: A New Testament Translation
with Introduction and Commentary, in AB 36, New York 2001, 81.
15
J. SWETNAM, On the Literary genere of the “Epistle“ to the Hebrews, in
NovT 11 (1969) 261-269.
16
COCKERILL Hebrews, 11-15; ID., Hebrews: A Bible Commentary in the
Wesleyan Tradition, Indianapolis 1999, 45.
17
L.T. JOHNSON, The Scriptural World of Hebrews, in Int 57 (2003) 237250; ID., Hebrews: A Commentary, Louisville 2006, 33-38.
18
F.F. BRUCE, The Epistles to the Colossians, to Philemon, and to the
Hebrews, Grand Rapids 1990, 26.
19
Gordon vi vede una «omiletica sinagogale»: R.P. GORDON, Hebrews, in A
New Biblical Commentary, Sheffield, 20082, 658.
20
H. LÖR, Reflection of Rhetorical Terminology in Hevrews, in Hebrews:
Contemporary Methods – New Insigts, a cura di G. Gelardini, Atlanta 2005, 199-210;
K. SCHENCK, Understanding the Book of Hebrews: The Story Behind the Sermon,
Louisville 2003, 78.
6
conferma, alla fine, «il mistero letterario» 21 dello scritto citando la
convinzione di Valkenaer, che era anche nostra già prima di ritrovarla nei
commentari di Moffat 22 : non è possibile attribuire a Ebrei uno stile
precisamente definito perché è un’opera dal volto proteiforme.
1.2.2. Elementi stilistici
Il testo, con le sue «figure di linguaggio» accompagnate dalle
«figure di pensiero»23, è stato scritto originariamente in un greco molto
elegante e raffinato. È pieno di ornamenti retorici 24 che lasciano
intravedere una struttura complessa composta da elementi ritmici e
chiastici elaborati con molta cura 25 (Eb 5,1-10; 7,18), assonanze (Eb
13,4), inclusioni (Eb 2,10), endiadi (Eb 8,5; 7,25), paronomasie (Eb 1,1;
2,1426), perifrasi (Eb 7,26.27; 12,24-26), prosopopea27, antitesi (Eb 7,1822) e climax ascendente (Eb 8,1)28.
21
Il termine «mistero letterario» è stato utilizzato da Grässer nel suo
commentario a Ebrei. E. GRÄSSER, «Neue Kommentare zum Hebräerbrief»,
Theologische Rundschau 56 (1991) 113-139; An die Hebräer 1. Teilband: Hebr 1 - 6
(Evangelisch-Katholischer Kommentar zum Neuen Testament 17), Zürich Neukirchen 1990, 13-38 cit. in N. CASALINI, Per un commento a Ebrei, in LA 41
(1991) 125. GRÄSSER è citato anche da P. GARUTI, Due cristologie nella lettera agli
Ebrei? in LA 49 (1999) 237. Garuti parla di un «triplice mistero» (il primo in
riferimento alle coordinate concrete [occasione, mittente, destinatari]; il secondo è il mistero
letterario e il terzo è il mistero teologico).
22
MOFFAT, Exegetical Commentary, 27.
A. STROBEL, La lettera agli Ebrei, in Nuovo Testamento a cura di P.
Stuhlmacher – H. Weder, Brescia 19972, 18.
24
Un ampio studio in SPICQ, Hébreux, I, 361-366.
25
Il testo greco conferma che l’Autore conosceva molto bene le forme
stilistiche, soprattutto i ritmi e i chiasmi, molto popolari al tempo di Isocrate, e li usa
liberamente.
26
Celebra «carne è sangue» (αἵµατος καὶ σαρκός - Eb 2,14).
27
Figura retorica che consiste nell’atribuzione delle qualità umani agli
oggetti. Di particolare rilievo lo studio di P. GARUTI, Alle origini dell’omiletica
cristiana, La lettera agli Ebrei, Jerusalem 1995, 24.
28
Attridge elenca alcune figure retoriche. H.W. ATTRIDGE, La lettera agli
Ebrei. Commento storico- esegetico, trad. di F. Ruggeri, Città del Vaticano 1999, 65.
23
7
L’introduzione del testo è stata costruita con un’assonanza,
πολυµερῶς καὶ πολυτρόπως 29 , che rispecchia la forma classica del
peone30. Come dice Marcheselli-Casale, nell’apertura del testo,
l’avverbio, πολυµερῶς, richiama l’altro avverbio πολυτρόπως,
puntando, sui verbi finiti in posizione enfatica (ἔθηκεν... ἐποίησεν…
ἐκάθισεν [Eb 1,1-3]), si prosegue con frasi ritmicamente identiche
(λαλήσας τοῖς πατράσιν ἐν τοῖς προφήταις / ἐλάλησεν ἡµῖν ἐν υἱῷ), (Eb
1,1-2) e si chiude con un anapesto e uno spondeo31.
Per Moffat questo tipo di apertura «suggerisce che l’Autore è
favorevole al ritmo come, ad es., quello che si riscontra in ὅθεν, ἀδελφοὶ
(Eb 3,1); ἔτι γὰρ ἐν τῇ (Eb 7,10); βλέπετε µὴ (Eb 12,25) ὁ δὲ θεὸς (Eb
13,20)»32.
Il volto poliedrico, sfaccettato, dell’epistola, oltre che con le figure
stilistiche, è realizzato anche con un diadema di ben 150 hapax
legomena33, dodici dei quali sono vocaboli usati in assoluto per la prima
volta34.
29
Alla conclusione del testo abbiamo un’altra assonanza: τίµιος e ἀµίαντος
(Eb 13,4).
30
Peone: metro dell’antica poesia greca, ripartito in una sillaba lunga e tre
brevi. Nel nostro caso specifico si tratta di un peone quarto, con la sillaba lunga in
quarta posizione.
31
Marcheselli – Casale afferma che il passo biblico «si chiude con un
anapesto e uno spondeo» MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 47. In colloqui
personali, il Prof. Paximadi ha fatto notare che abbiamo soltanto lo spondeo. Il testo
conferma la sua opinione.
32
Nell’introduzione alla sua opera, Moffat riporta tantissimi esempi di
strutture grammaticali ben curate: MOFFAT, Exegetical Commentary, 56.
33
Craig Koester (citato in T.L. SZINK, Authorship of the Epistle to the
Hebrews, a cura di K.P. Jackson e F.F. Judd Jr., Salt Lake City 2006, 243–259) nota
che ci sono 154 hapax legomena. Westcott ha la stessa opinione: B.F. WESTCOTT, The
Epistle to the Hebrews, London 19282, 64. Pirot invece, ne dà 168. L. PIROT,
Hébreux, in Supplément au Dictionaire de la Bible, Paris 1938, III, 1427.
34
Dei 150 hapax legomena, soltanto 74 appartengono alle testo dei LXX o al
NT. Tutti gli altri sono ritrovabili presso i classici greci o nella letteratura greca
posteriore: E. JACQUIER, Histoire des livres du Nouveau Testament, Paris 1924, I,
8
Ci sono alcuni termini che sembrano presi in prestito dal
linguaggio filosofico neo-platonico. Diversi teologi come Moffat,
Attridge, Marcheselli-Casale, notano una certa affinità di linguaggio e di
dialettica con Filone. Il neoplatonismo e la presenza o meno
dell’influenza filoniana35 è stata ed è ancora oggetto di un lungo dibattito.
Le divergenze sono più che formali. Basti pensare all’approccio letterale
o metaforico, una questione molto seria che influenza radicalmente la
comprensione dell’epistola. I teologi che vedono il testo in chiave
metaforica e che cercano quindi di tradurne il significato in un linguaggio
e in una mentalità moderni, negano la sostanzialità del santuario celeste e
di tutte le sue componenti. Mackie, in uno studio recente all’Università di
Oxford, afferma, ad esempio, che Ebrei non è soltanto una «versione
aggiornata e ampliata della tradizione antica», ma un approccio mistico
avente lo scopo di «suscitare l’immaginazione della comunità»36, per
condurla realmente nel luogo sacro celeste.
Altri37 vedono invece in Ebrei la descrizione di un santuario celeste
concreto, con riferimenti a persone, servizi di culto ed elementi strutturali
tangibili, reali nella forma e nella sostanza.
461- 464. George Howard afferma che il ruolo di LXX è stato meno importante di
come si è creduto. Lui evidenzia le fonti dell’AT e fa riferimento anche a fonti
sconosciute (probabilmente a parti della letteratura greca). G. HOWARD, Hebrews and
Old Testament Quotations, in NovT 10 (1968) 208-216. Grässer (An die Hebräer,
Zürich, 1990, cit. in CASALINI, Commento a Ebrei, in LA, 130-133), crede chi che le
fonti sconociute siano di origine gnostica, ma Casalini, nel suo articolo lo nega.
CASALINI, Commento a Ebrei, in LA,134.
35
R. WILLIAMSON, Philo and the Epistle to the Hebrews, New York 1970,
409-434.
36
D.S. MACKIE, Heavenly Sanctuary Mysticism in the Epistle to Hebrews, in
JThS 62 (2011) 77-117.
37
, J. WHITE, Review and Herald, 17 febbraio 1852, 8; J.N. ANDREWS,
Review and Herald, 3 febbraio 1853,12.
9
1.2.3. Sintesi sugli elementi testuali e letterari
Prima di analizzare i testi che ci interessano, abbiamo notato che ci
troviamo di fronte a un testo molto complesso, dal volto moltiforme,
impossibile da collocare all’interno di uno stile specifico. Questa
complessità, da un lato ci invita ad approfondire scientificamente la
ricerca in termini critici per approfondirne il significato; dall’altro ci
obbliga, in quanto credenti, ad un atteggiamento spiritualmente umile che
conti sull’aiuto di Dio, quale ispiratore del suo messaggio.
1.3. Il testo e la sua critica.
La
ricerca
di
una
comprensione
non
condizionata
dalle
interpretazioni passate, ci obbliga anche a risalire al testo così come ci
appare nella sua spoglia ed immediata naturalezza. Proponiamo quindi
una nostra traduzione dei capitoli 8 e 938.
Capitolo 8
1. Punto capitale, però, delle cose che vengono dette: noi abbiamo un
sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della
Maestà nei cieli,
2. ministro del santuario e della vera tenda che ha realizzato il Signore e
non un uomo.
3. Ogni sommo sacerdote, infatti, è costituito per offrire doni e sacrifici:
era di conseguenza necessario che anch’egli avesse qualcosa da offrire.
38
In seguito alla nostra analisi possiamo notare che il testo, oggetto del
nostro studio, è ben confermato in tutti i manoscritti. Nel suo insieme riporta solo
piccole varianti come sostituzioni di parole o gruppi di parole, mentre sono rare le
trasposizioni e le omissioni e per queste ragioni abbiamo scelto di non dedicare uno
spazio particolare all’apparato critico ma di riportare, se necessario, in nota eventuali
osservazioni.
10
4. Se dunque fosse sulla terra, egli non sarebbe neppure sacerdote,
poiché vi sono coloro che offrono i doni secondo legge.
5. Questi servono in una immagine ombreggiata delle realtà celesti come
fu detto a Mosè, quando stava per costruire la tenda: «Guarda, disse, di
fare ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte».
6. Ora invece ha ottenuto un ministero tanto più eccellente quanto più
eccellente è l’alleanza di cui è mediatore, giacché questa è costituita su
migliori promesse.
7. Se la prima, infatti, fosse stata perfetta, non si sarebbe cercato il posto
per la seconda.
8. Rimproverandoli dice: «Ecco vengono i giorni, dice il Signore, in cui
io porterò a buon fine con la casa d’Israele e con la casa di Giuda una
nuova alleanza,
9. non come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li
afferrai per mano per farli uscire dall’Egitto; poiché essi non sono
rimasti fedeli alla mia alleanza, anch’io mi sono disinteressato di loro,
dice il Signore.
10. Perché questa è l’alleanza che io concluderò con la casa d’Israele
dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le
inciderò nei loro cuori; e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
11. E nessuno dovrà istruire il suo concittadino né il proprio fratello
dicendo: “Conosci il Signore!” Perché tutti conosceranno me, dal più
piccolo al più grande di loro,
12. perché io sarò misericordioso con le loro ingiustizie e non mi
ricorderò più dei loro peccati».
13. Parlando di una nuova, rende antiquata la prima; perciò diventata
antica e invecchiata è prossima alla scomparsa.
11
Capitolo 9
1. Certo anche la prima [alleanza] aveva disposizioni per il culto, e
anche un santuario terreno.
2. Fu preparata la prima tenda, nella quale vi erano il candelabro, la
tavola e i pani di presentazione, questa (tenda) era detta «santo».
3. Dietro il secondo velo, vi era una tenda detta «santo dei santi»,
4. che conteneva l’altare d’oro per l’incenso e l’arca dell’alleanza, tutta
ricoperta d’oro, nella quale si trovavano un’urna d’oro, che conteneva la
manna, e la verga di Aronne, che era fiorita, e le tavole dell’alleanza,
5. sopra di questa [l’arca] vi erano i cherubini di gloria che coprivano
con la loro ombra il propiziatorio. Di queste cose non è momento di
parlare ora dettagliatamente.
6. Perciò essendo le cose così disposte, nella prima tenda entrano sempre
i sacerdoti, per compiere i servizi del culto,
7. nella seconda invece, entra solo il sommo sacerdote, una volta
all’anno, e non senza sangue, che egli offre per i peccati involontari del
popolo.
8. Lo Spirito Santo voleva rivelare che non era ancora aperta la via del
santuario, mentre regge in piedi la prima tenda.
9. La quale è parabola del tempo presente, vi si offrono doni e sacrifici
incapaci di rendere perfetta la coscienza l’adoratore;
10. essendo solo cibi, bevande e varie abluzioni: disposizioni carnali,
imposti fino al tempo in cui sarebbero state rettificate.
11. Cristo invece, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, per una
tenda più grande e più perfetta, non fatta da mano umana, cioè non di
questa creazione,
12
12. non mediante sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio
sangue, è entrato una volta per tutte, nel santuario, procurandoci
redenzione eterna.
13. Infatti se il sangue dei capri e dei tori e la cenere di una giovenca
cosparsi sui contaminati li santificano, purificandoli nella carne,
14. quanto più il sangue di Cristo, il quale mediante Spirito eterno offrì
se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle
opere morte per servire al Dio vivo!
15. Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza, perché, a causa
della morte per la espiazione dei peccati commessi sotto la prima
alleanza, i chiamati ricevessero la promessa dell’eredità eterna.
16. Dove infatti vi è un testamento, è necessario che venga confermata
la morte del testatore,
17. il testamento, infatti è valido solo in caso di morte, non ha nessuna
forza finché è in vita il testatore.
18. Per questa causa neppure il primo fu inaugurato senza sangue.
19. Infatti, proclamata ogni prescrizione seconda la legge, a tutto il
popolo da parte di Mosè, preso il sangue dei vitelli [e dei capri], con
acqua e con lana scarlatta e con issopo asperse il libro stesso e tutto il
popolo
20. dicendo: Questo è il sangue dell’alleanza che Dio ha prescritto per
voi.
21. Similmente con il sangue asperse il tabernacolo e tutti gli oggetti del
culto,
22. e, secondo la legge, quasi tutto viene purificato col sangue, e senza
effusione di sangue non vi è remissione.
13
23. Da un lato era necessario che le copie delle realtà39 che sono nei cieli
fossero purificate con tali mezzi; dall’altro le realtà celesti stesse con
sacrifici più perfetti di questi.
24. Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mano d’uomo,
antitipo del vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora
davanti alla faccia di Dio per noi,
25. non per offrire se stesso varie volte, come il sommo sacerdote entra
nel santuario ogni anno col sangue di un altro,
26. altrimenti egli avrebbe dovuto soffrire varie volte fin dalla creazione
del mondo. Ora invece, si è rivelato una volta sola, nella pienezza dei
tempi, per l’annullamento del peccato, con sacrificio di se stesso.
27. E come è stabilito per gli uomini di morire una volta sola, dopo di
che viene il giudizio,
28. così anche Cristo è stato offerto una volta sola per levar via i peccati
di molti, apparirà una seconda volta, senza peccato, per quelli che lo
aspettano, per la salvezza.
1.4. Il contesto tematico di Eb 8,1-5; 9,11-12
1.4.1. Anticipazioni tematiche
L’autore di Ebrei, prende in prestito quattro immagini chiave del
Pentateuco: «Sinai», «Esodo», «Santuario» e «Terra Promessa»40, per
introdurre i temi fondamentali del libro: Sacrificio, Sacerdozio, Alleanza
e Santuario. La parte centrale dell’epistola, costruita con l’immagine
39
Termine preso in prestito da MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei,
365.
40
Altri preferiscono un visione tripartitica. G.L. COCKERILL, The Epistle to
the Hebrews, Grand Rapids, 2012, 71, per costruire la sua Sinfonia in tre atti, propone
una struttura in tre immagini: Terra promessa, Sinai e Tenda mosaica. In Symphony in
Three Movements (Eb 8,1-10,18) riprende la struttura base, triadica, cambiando però
le immagini: Patto, Santuario, Sacrificio: ID. Structure ad Interpretation in Hebrews
8,1-10,18; A Symphony in Three Movements in BBR 11 (2001) 179-201. Concetti
simili sono espressi da F.F. BRUCE, The Epistles to the Colossians, to Philemon, and
to the Hebrews, Grand Rapids 1990, 180. Swaggart vede i seguenti tre ruoli: Profeta,
Sacerdote e Re. J. SWAGGART, Hebrews, Baton Rouge 2001, 3.
14
«Santuario» (Eb 4,14-10,18, è la colonna portante di tutto il libro. Le
immagini «Sinai celeste», «Esodo» e «Terra Promessa» sostengono
questo pilastro centrale. Senza entrare nei dettagli strutturali-tematici
possiamo tracciare una linea tematica che mostra la sua centralità.
Linea tematica
Sinai celeste
Esodo
Terra Promessa
SANTUARIO
Esodo
Terra Promessa
Sinai celeste
Nota finale
1,1- 2,18
3,1- 4,13
4,14-10,18
10,19- 12,17
12,18-29
13,1-14
Immagine «Sinai celeste»
La nostra lettura di Ebrei 1,1-2,18 e 12,18-29 come riferentesi ad
immagini derivate dall’esperienza del monte Sinai41 è basata su una serie
di corrispondenze. La prima fa riferimento alla rivelazione: la descrizione
teofanica della presentazione di Dio sul monte Sinai42 trova nei primi
versetti in epistola agli Ebrei il suo specchio43. Il Padre, che sul monte ha
parlato attraverso suo Figlio sul monte Sinai, ritorna in Eb 1 con
l’affermazione che «nei tempi antichi aveva parlato […] per mezzo dei
profeti» (Eb 1,1), oggi invece «ha parlato [“ultimamente in questi
giorni”] per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2,18) 44 . Il Padre dunque,
«presenta»45 il Figlio e grazie al Padre il Figlio incontra l’umanità.
41
Cockerill usa l’immagine del monte Sinai: «Dio ha parlato sul monte»:
COCKERILL, Hebrews, 63.
42
Possiamo notare «l’antropomorfismo di un Dio che prima scende sul Sinai
(9,20) sulla cima del monte». W. BINNI – B.G. BOSCHI, Cristologia primitiva: dalla
teofania del Sinai all’Io sono giovanneo, Milano 2004, 32.
43
Anticipiamo il rito di passaggio spazio-temporale che analizziamo più in
dettaglio al capitolo tre.
44
«Eb 1,1 è base per la dottrina della rivelazione […] “Dio ha parlato“
richiama l’attenzione su “quello che abbiamo sentito” (Eb 2,1-4)». J.W. THOMPSON,
Hebrews, in Paideia: Commentaries on the New Testament, Grand Rapids 2008, 61.
45
Non si tratta di una revelazione ontologica ma di una dinamica di
passaggio nel suo divenire sacerdote.
15
Nell’ ultima immagine «Sinai celeste» che troviamo nell’epistola
agli Ebrei, il Figlio «presenta» (rivela) il Padre (Eb 12,23-24) e adesso,
grazie al Figlio, l’umanità ritorna al Padre nel santuario celeste. Abbiamo
un doppio processo di rivelazione: il Padre rivela il Figlio e il Figlio il
Padre.
Importante da notare un altro doppio binario che prova la nostra
opinione. Mosè è invitato a «salire sul monte» (Es 19,3; 24,1,9,12,15),
per
incontrare il Signore
(Es 34,28) e ricevere le due tavole della
Testimonianza, subito dopo è invitato a scendere dalla montagna per
portare la Legge al suo popolo: «Mosè scese dal monte Sinai» (Es 34,29).
Da notare in epistola agli Ebrei lo stesso doppio binario riferito a Cristo,
però con movimento che si svolge al contrario: «Gesù, che fu fatto di
poco inferiore agli angeli» (Eb 2,9) scende «per rendersi in tutto simile ai
fratelli» (Eb 2,17) e «liberare così quelli che, per timore della morte,
erano soggetti a schiavitù» (Eb 2,14-15) e sale in seguito, «coronato di
gloria e di onore» (Eb 2,9) sul «trono che sta nei secoli dei secoli» (Eb 1,
8). Mentre Mosè sale per conoscere Dio e scende per farlo conoscere agli
altri, Gesù discende per rivelare Dio e ascende portando l’umanità al Suo
trono. Il luogo d’incontro nel AT è il monte/santuario mentre nel NT è il
santuario celeste/monte, dove invita l’umanità a «accostarsi al monte
Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di
angeli, all'adunanza festosa» (Eb 12,22).
L’immagine Sinai celeste trova supporto anche nel uso della parola
λαλέω. La parola λαλέω è l’elemento che mira maggiormente alla
somiglianza con il monte Sinai. Inizialmente sul monte «il Signore disse
(λέγω) a Mosè» (Es 19,10)46 e «pronunciò (λαλέω) tutte queste parole»
46
Mosè è chiamato sul monte per riferire le parole di Dio al popolo: «Mosè
andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore» (Es 24,3). Allo stesso modo
Gesù é la Parola vivente (Eb 1,1-2).
16
(Es 20,1), allo stesso modo Dio che «ha parlato (λαλέω) anticamente […]
in molti modi e in molte maniere»(Eb 1,1)47, «ultimamente, in questi
giorni, ha parlato (λαλέω) a noi per mezzo del Figlio». Non solo la prima
immagine nell’epistola agli Ebrei ma tutte le quattro immagini sono
attraversate da questo filo rosso tematico, composto dalle parole λόγος e
λαλέω. Se λαλέω è la parola della rivelazione (Eb 8,1) il λόγος è la parola
[dell’alleanza sinaitica] «trasmessa per mezzo di angeli» (Eb 2,2) e che
pure si è mostrata «valida», diventa il «messaggio annunziato»48. Come
parte della buona novella (Eb 4,2) è la parola di Dio «viva, efficace» (Eb
4,12), la «parola del giuramento», pronunciata «dopo la Legge», che
«costituisce sacerdote il Figlio reso perfetto per sempre» (Eb 7,28).
L’immagine «Sinai celeste» in Eb 8,1 anticipa il concetto del dire,
del parlare, nella famosa introduzione alla dottrina del santuario celeste
come, «il punto capitale delle cose che stiamo dicendo, κεφάλαιον δὲ ἐπὶ
τοῖς λεγοµένοις (Eb 8,1); e infine, nell’ultima immagine «Sinai celeste»,
è ripreso e ampliato il discorso già fatto sul Sinai terreno, dove Dio parlò,
con grande potenza e gloria «dalla terra» per mezzo dei suoi angeli, alla
conclusione finale del discorso sul santuario celeste - ἀπ᾽ οὐρανῶν - dal
quale il Figlio parla per l’ultima volta nell’epistola (Eb 12,18-24). In
quest’ultimo ambito, come en passant, un’altra occasione per introdurre il
concetto del parlare, ci viene dall’immagine del sangue di Cristo - grazie
al quale Egli è stato costituito «mediatore dell’alleanza nuova» - che
«parla meglio di quello di Abele» (Eb 12,24)49.
In nessuno di questi testi Gesù è definito direttamente come λόγος
ma è evidente, almeno nei testi che lo riguardano, come la sua funzione
47
La Nuova Riveduta - NRV (1994).
Edizioni Paoline (1995). Nella versione CEI (2008), in Eb 4,2, abbiamo
«parola udita».
49
Il testo di Eb 12, 24 nelle Edizioni Paoline (1995). Il verbo «parlare» è
riportato nel testo.
48
17
sia del tutto paragonabile al λόγος descritto in Giovanni 1,1-14, dove il
Figlio «diventa carne» per rivelare il Padre50. Sia il Padre sia il Figlio si
fanno parola51, e grazie a questa parola dai toni e dalla potenza crescenti
possiamo conoscerli e conoscere il progetto di salvezza che hanno
preparato per noi.
Ci sono altri elementi di corrispondenza tra l’immagine «Sinai
celeste» in Ebrei e il monte Sinai. La parola di Dio rivelata a Mosè è
ratificata con il sangue dei giovenchi che Mosè prese e «la mise in tanti
catini né versò l'altra metà sull'altare» (Es 24, 5-7), nell’immagine del
Sinai nell’epistola agli Ebrei il Figlio parla e ratifica attraverso «il suo
sangue» (Eb 12,24).
Il «Sinai» non è soltanto luogo di rivelazione ma anche luogo
d’incontro: l’appuntamento tra Mosè e Dio52 diventa modello per ogni
appuntamento/incontro con Dio. Il «Sinai», qui inteso come espressione
della «Casa di Dio» celeste, diventa il modello per la tenda di Mosè –
«Casa di Dio» terrestre, e la tenda di Mosè diventa il typos per il
santuario celeste. «Sinai» come Casa di Dio, domina la prima e l’ultima
parte del libro (Eb 1.1-2, 12-18).
Immagine «Esodo/Terra promessa»
La seconda e terza immagine, «Esodo»/«Terra promessa»,
compongono la struttura portante sulla quale «poggia» l’edificio centrale,
il «Santuario». La loro relazione è così stretta che potrebbero coesistere
nell’unica immagine dell’«Esodo». Nella prima parte di «Esodo/Terra
promessa» (Eb 3,7-4,13) è presentato il viaggio di Israele verso la Terra
50
La grande diferenza con Filone che vede nell λόγος solo il mondo delle
idee, il λόγος giovanno è personificato in Gesù Cristo. Cfr. M.E. ISAACS, Sacred
space, An Aproach to the Theology ot the Epistle to the Hebrews, in JSNT 73 (2004)
198.
51
G. CROCETTI, La lettera agli Ebrei, Bologna 2005, 22.
52
Vedi Bet Mosè nel capitolo 2.
18
promessa («la Canaan terrestre»), nell’ultima parte (Eb 10,19-12,3) il
viaggio del popolo della fede verso «la Canaan celeste».
Mosè, il condottiero dell’Esodo «degno di fede in tutta la sua casa
come servitore» (Eb 3,5-6) condusse «tutti quelli che erano usciti
dall'Egitto … per quarant'anni» (Eb 3,17-18). Lui è il tipo di Cristo e
della sua missione liberatrice53 : «E la sua casa siamo noi, se conserviamo
la libertà e la speranza di cui ci vantiamo» (Eb 3,6). Nella seconda parte
dell’immagine «Esodo/Terra promessa» (Eb 10,19-12,17) troviamo al
posto dell’Esodo oltre al «viaggio» dei credenti verso la terra promessa
anche diverse esortazioni e promesse: «manteniamo senza vacillare la
professione della nostra speranza»(Eb 10,23), «non abbandonate dunque
la vostra franchezza, alla quale è riservata una grande ricompensa» (Eb
10,35.36). La Terra cananaica (Eb 4,1-8) rispecchia la Nuova Terra
celeste, verso quali i credenti sono in cammino (Eb 11,1-40).
Il riposo della terra di Canaan, (Es 33,14) è costruito su una
dinamica spazio-temporale54 , Canaan/sabato (Eb 4, 1-8) ed è carico di
prospettive «passate è future»55. Nel capitolo quattro, epistola agli Ebrei
richiama l’immagine del passato per costruire il riposo futuro. Il riposo
di sabato (il tempo) nel santuario (lo spazio) s’incontrano in un rito
spazio-temporale che analizzeremo più in dettaglio al capitolo tre.
53
«In verità Mosè fu degno di fede in tutta la sua casa come servitore, per
dare testimonianza di ciò che doveva essere annunciato più tardi» (Eb 3,5).
54
Termine utilizzato da G. Mazza. Per dinamica di passagio intendiamo
ripropore in maniera analogica l’esperienza di separazione, transizione e
incorporazione
55
Cfr. Christopher Rowland, The Open Heaven, citato in J.C. CALAWAY,
The Sabbath and the Sanctuary. Access to God in the Letter to the Hebrews and its
Priestly Context, Tübingen 2013, 17.
19
Immagine: «Il santuario»
Queste immagini sono elementi strutturali sui quali l’autore edifica
l’immagine centrale di tutto il libro: «il Santuario» (Eb 4,14-10,18). Ad
ogni passaggio, da un’immagine ad altra, abbiamo un riferimento al
sacerdozio di Cristo e al santuario celeste:
La prima immagine «Sinai celeste» è introdotta con la prima
allusione: «alla purificazione dei peccati» e «alla destra della maestà
nell'alto dei cieli» che troviamo in Eb 1,3. La seconda e terza immagine
«Esodo/Terra promessa» sono introdotti con nuovi
riferimenti al
sacerdozio di Cristo e al suo servizio espiatorio: «sommo sacerdote
misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo
di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17).
All’inizio dell’immagine «Santuario» abbiamo ancora una volta
riferimento a Gesù il nostro «sommo sacerdote […] messo alla prova in
ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15) e appello di accostarci
con «piena fiducia al trono della grazia» (Eb 4,16). Con Eb 10,19 cambia
nuovamente l’immagine ed è richiamata il tema del sacerdozio e
santuario: «abbiamo piena libertà di entrare nel santuario» (Eb 10,19-22),
dove «abbiamo un sacerdote grande (Eb 10,21) e segue lo stesso appello
«accostiamoci con cuore sincero» (Eb 10,19-22). Notiamo che
l’immagine «Santuario» è affiancata non solo dalla dichiarazione che
Cristo è in nostro sacerdote ma soprattutto dell’invito di entrare nel
santuario.
L’ultimo cambio d’immagine «Terra promessa» e «Sinai celeste»,
riporta un nuovo riferimento: «Voi invece vi siete accostati al monte
Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste […] Gesù,
mediatore dell'alleanza nuova, e al sangue purificatore, che è più
eloquente di quello di Abele» Eb 12, 22-24).
Alla conclusione
20
dell’Epistola abbiamo un altro riferimento a
Gesù, che santifica «il
popolo con il proprio sangue» Eb 13,12) e un appello di uscire «verso di
lui fuori dell'accampamento, portando il suo disonore» e di camminare
verso la nuova «città stabile […] quella futura» (Eb13,12-14)
Tornando ora più direttamente alla linea tematica e mettendo a
fuoco il messaggio dato dai capitoli 4,14-10,18, scopriamo a livello
formale una struttura, organizzata sui quattro temi fondamentali già
presentati: sacrificio, patto, sacerdozio e santuario.
4,14-5,14 Sommo sacerdote
7,1 Sommo sacerdote
6,13 Abramo
7,2-10 Melchisedek/Abramo
6,14-19 Giuramento/Patto
7,20-21 Giuramento/Sacerdote
6,18 Promessa
7,22 Patto
6,19-20 Tenda celeste
7,26-28 Sacerdote «sopra i cieli»56
8,1-2a Santuario celeste
8,2b Tenda celeste
9,1-5 Tenda terrestre
8,3a Sacerdoti ebrei
9,6-7 Sacerdoti ebrei
8,3b Sacrifici
9,9,19;10,1-5 Sacrifici
8,3c-4 Cristo Sacerdote
9,8-12,24 Tempio celeste
8,3d Cristo / Sacrificio
9,14;25-28 Cristo / Sacrificio
8,5 Tempio celeste
9,12 Sacerdote celeste
8,6-13 Patto
9,13-20;10,6-18 Patto
Eb 8,1-2 è il vero «cuore teologico» di tutta l’Epistola, e qui il
sacerdozio di Cristo nel santuario celeste è presentato come colonna
portante di tutto il discorso fatto 57 . Ai fini dello studio che stiamo
56
Un concetto simile si trova in Eb 1,3: «sedette alla destra della maestà
nell'alto dei cieli». Ma vedi anche in Fil 2,9; Col 1,18; Eb 2,9; 8,1; Ap 5,12: M.
STUART, A Commentary on the Epistle to the Hebrews, 1828, II, 178.
57
Guthrie dice che Eb 8,1-2 svolge un ruolo di mediazione tra Eb 5,1-7,28 e
Eb 8,3-10-18: G.H. GUTHRIE, The Structure of Hebrews: A Text-Linguistic Analiysis,
Leiden - New York - Köln 1994, 108.
21
portando avanti, alla centralità di questo testo bisogna associare anche Eb
9,11-12. Come a sottolineare la centralità di questi due testi, notiamo la
presenza di diverse anticipazioni e posticipazioni che fanno loro da
cornice e che raggruppiamo in tre categorie: dirette, con riferimenti
inequivocabili allo spazio sacro celeste; indirette, con riferimenti
collaterali; e frammentarie58. Le presentiamo qui appresso insieme ad
alcune posticipazioni che contribuiscono a sottolineare l’importanza
dell’argomento.
1.4.2. Santuario celeste riflesso nelle sue anticipazioni e
posticipazioni principali.
Garuti nel suo articolo Due cristologie nella lettera agli Ebrei
afferma che il santuario celeste in epistola agli Ebrei «è identificato con
differenti espressioni quasi sinonime: attraverso i cieli, attraverso il velo,
santuario»59. Questi espressioni «quasi sinonime» sono le anticipazioni e
posticipazioni che abbiamo individuato, in rapporto a Eb 8,1-5. Notiamo
le anticipazioni e posticipazioni dirette: 1. «alla destra della maestà» (Eb
1,3; 11,13; 8,1; 12,2); 2. il velo nel luogo santissimo (Eb 6,19); 3. il
«luogo santissimo» (Eb 10,19; 13,11), 4. «la città che ha le vere
fondamenta» (Eb 11,10); 5. il monte Sion (Eb 12,22); 6. la città del Dio
vivente e la Gerusalemme celeste (Eb 12,22); 7. il santuario non fatto da
mano umano (Eb 9, 24-25). Considereremo qui solo le prime cinque. Le
altre due saranno esaminate nell’ambito dello studio sugli elementi
tipologici.
58
Anticipazioni frammentarie. Consideriamo tali quei riferimenti che non
sono parte intenzionale di un discorso sul santuario, ma che pure, vi fanno
riferimento. A volte vengono inseriti nel discorso come «en passant», senza volerli
caricare di un significato teologico specifico: «la gloria» (Eb 1,3), «lo scettro» (Eb
1,8), l’«olio di esultanza» (Eb 1,9), «la tromba» (Eb 12,19) e il «fuoco» (Eb 12,29).
Non ne discutiamo qui perché lo faremo nell’ambito dello studio sulle anticipazioni
dirette e indirette che troviamo in Eb 1,3; 6,18-19; 7,18-26; 10,22-23.
59
P. GARUTI, Due cristologie nella lettera agli Ebrei? in LA 49 (1999) 245.
22
1.4.2.1. Prima anticipazione: «alla destra della maestà» Eb 1,3
Testo
Ὃς ὢν ἀπαύγασµα τῆς δόξης καὶ χαρακτὴρ τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ,
φέρων τε τὰ πάντα τῷ ῥήµατι τῆς δυνάµεως αὐτοῦ, καθαρισµὸν τῶν
ἁµαρτιῶν ποιησάµενος ἐκάθισεν ἐν δεξιᾷ τῆς µεγαλωσύνης ἐν ὑψηλοῖς.
Eb 1.3.
Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto
sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione
dei peccati, sedette alla destra della maestà nell'alto dei cieli. Eb 1,3.
Questo testo fa parte dal Poema di gloria60 Exultate, con il quale
inizia l’epistola agli Ebrei.
Struttura del testo
Questo verso sfiora i grandi temi del libro con tre riferimenti al
santuario celeste: «la gloria», «l’espiazione dei peccati», e «la destra della
maestà». Insieme al vv 1- 4, contiene una catena di sette affermazioni
messianico-escatologiche 61 costruite sul rapporto Padre–Figlio–Padre62 .
60
La tesi che si tratti di un frammento innico protocristiano è diffusamente
sostenuta: S. CIPRIANI, Le lettere di Paolo, Assisi 19917, 744-746; MARCHESELLICASALE, Lettera agli Ebrei, Milano 2005,106-107; D.J. EBER, The Chiastic Structure
of the Prologue to Hebrews, in Trinity Journal 13 (1992) 175-176S; G.W.
BUCHANAN, The Present State Scholarship on Hebrews in Judaism, Christianity and
Other Greco-Roman Sects, a cura di J. Neusner, Leiden 1975,I,10; P. ELLINGWORTH,
Reading through Hebrews 1-7. Listening especially for the Theme of Jesus as High
Priest, in Epworth Review 12 (1985) 80-87; ID. The Epistle to the Hebrews: A
Commentary on the Greek Text, Grand Rapids 1993, 96-97; R. FABRIS, Lettere di
Paolo, Roma 1980, III, 549-555.
61
Marcheselli-Casale propone «sette designazioni» costruite su «tre pronomi
e due participi presenti in posizione strutturale polare». Ecco il suo prospetto: «v.2b
Dio costituisce erede il suo Figlio; v.2c Dio, mediante il Figlio, crea i mondi; v.3a Il
Figlio è irradiazione della gloria (presenza) del Padre; v.3b Il Figlio è impronta della
23
Tutte e sette affermano la divinità di Cristo, però con riferimenti
«temporali» diversi: le prime tre sono in relazione alla sua opera prima
della storia del peccato, mentre le ultime tre sono in rapporto al suo
intervento dopo il peccato; quella di mezzo esprime ciò che Cristo è nella
sua essenza eterna. Nelle prime tre è il Padre che decide, invece nelle
ultime tre è il Figlio. Questa duplicità di soggetti è costruita
sull’assonanza tra ἔθηκεν (Eb 1,2) e ἐκάθισεν (Eb 1,3) che mette in
relazione il Figlio col Padre. La struttura formale è inserita nel contesto
del santuario celeste richiamato in modo particolare dalla frase ἐν δεξιᾷ
τῆς µεγαλωσύνης ἐν ὑψηλοῖς (Eb 1,3c ), che ritorna praticamente identica
all’inizio del capitolo 8 (ἐκάθισεν ἐν δεξιᾷ τοῦ θρόνου τῆς µεγαλωσύνης
ἐν τοῖς οὐρανοῖς - Eb 8,1) congiungendo questi due capitoli in un unico
discorso teso a sottolineare la regalità del sacerdozio di Cristo.
Ecco le sette affermazione con i titoli di eccellenza:
Testo biblico
Affermazione su Cristo
v.2a Dio ha parlato […] per mezzo del Figlio
- Figlio
v.2b (Dio) ha stabilito erede
- Erede
v.2c (Dio) mediante il quale ha fatto anche il mondo - Creatore
v.3a Il Figlio è
- Irradiazione della sua
gloria (del Padre) e
impronta della sua
sostanza63
sostanza del Padre; v.3c Il Figlio compie la purificazione dei peccati; v.3d Il Figlio
siede alla destra della Maestà nei cieli»: MARCHESELLI - CASALE, Lettera agli Ebrei,
97.
62
Un altro rapporto può essere: Dio-Uomo-Dio, con riferimento
all’incarnazione di Cristo.
63
Si è parlato a lungo di una «copia ontologica», però non abbiamo la
conferma che l’Autore abbia inteso questo. Il testo continua con la frase «tutto
sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,3b), come conseguenza al fatto che è
«irradiazione della gloria» (Eb 1,3°).
24
v.3c (Figlio) aver compiuto purificazione dei peccati - Sacerdote
v.3d (Figlio) sedette alla destra della maestà
nell’alto
- Mediatore
v.4 (Figlio) superiore agli angeli quanto più
eccellente del loro è il nome che ha ereditato.
- Re dei cieli
Il testo inizia con un inaspettato participio ὢν (Eb 1,3a) 64 ,
contornato da forme verbali all’aoristo e al perfetto. L’uso di ὢν è molto
suggestivo perché richiama, tra tante, due famose dichiarazioni sulla
persona di Dio: la prima che citiamo (in Es 3,14) è ἐγώ εἰµι ὁ ὤν (LXX);
la seconda in Gv 1,1865.
Questo gioiello estetico si sposa con una densità di contenuto così
ricca da permetterci di concentrare il testo in poche parole 66 . La
composizione è realizzata in due tempi, uno prima della storia del peccato
secondo dopo. All’interno di questa bipolarità distica, le affermazioni
procedono abbinate in parallelismo. Tra le prime tre frasi del testo e le
ultime tre abbiamo una tensione ontologica: è la tensione tra «l’Essere
Eterno» (delle prime tre affermazioni), contrapposte «all’Essere
64
Ὢν è stato visto da vari ricercatori come «uno switch temporale», un
commutatore nella «linea del tempo». Molto bello il lavoro di Attridge che vede in ὢν
un continuo passaggio «dall’esistenza senza tempo (protologia), nel tempo
(gesuologia), oltre il tempo (escatologia)»: H.W. ATTRIDGE, La lettera agli Ebrei,
102. Vedi anche ELLINGWORTH, The Epistle to the Hebrews, 98.
65
Ci sono vari testi dove l’uso di εἶµι (LXX) e collegato alla rivelazione della
divinità, ad esempio (Es 6,3).
66
Harold Attridge (La lettera agli Ebrei, 113), vede in tutto questo un
movimento dialettico analettico-prolettico strutturato in sei passi:
«v.2a analessi (regressione) - ha parlato a noi nel Figlio, (dalla protologia
alla
gesuologia);
v.2b prolessi (progressione) – quel Figlio è erede dell’universo;
v.2c analessi (regressione) – è mediatore nella creazione;
v.3a prolessi (progressione) – è da sempre in relazione eterna con Dio;
v.3b analessi -prolessi (posizione speculare) - sta sostenendo i mondi;
v.3c analessi (regressione) – compie la purificazione renditiva;
v.3d prolessi (progressione) – si è assiso alla destra della Maestà nelle
altezze».
25
Temporale» (le ultime tre affermazioni). Questa tensione ontologica trova
soluzione nella «coppia-ontologica», Cristo-Padre: ἀπαύγασµα 67 τῆς
δόξης καὶ χαρακτὴρ 68 τῆς ὑποστάσεως αὐτοῦ (Eb 1,3) della frase
centrale, che è l’asse tematico portante di tutta l’epistola agli Ebrei69: «La
centralità assoluta di Cristo, Figlio del Padre è, a partire da questo
rapporto filiale, l’architrave di tutto quanto esiste»70.
Nella prima sezione, le due metafore ἀπαύγασµα e χαρακτήρ
rapresenta le fondamenta della missione di Cristo nel santuario. Le due
metafore simmetriche le troviamo solo nel v.3. Sul loro significato si è
parlato a lungo71 però, a nostro parere, il senso completo deve essere
trovato soltanto nell’abbinamento con i genitivi femminili di δόξα e
ὑπόστασις, che diventano anch’esse in tal modo elementi di sostegno per
una «teologia del santuario». L’insieme di questi quattro termini
contribuisce a sottolineare la natura divina del Cristo grazie alla quale
Egli può essere sacerdote-mediatore tra l’uomo e Dio.
67
G. KITTEL, Apaugasma, in TDNT, I, 507-508. Vedi anche H.G. LIDDELL
– R. SCOTT, Greek-English Lexicon, New York 19969,181. Notiamo anche lo studio
di O. HOFIUS, Apaugasma, in Exegetical Dictionary of the New Testament, a cura di H
Blaz- G. Schneider, Grand Rapids 1990, I, 117.
68
Molto interesante lo studio di M. ZERWICK – M. GROSVENOR, A
Grammatical Analysis of the Greek New Testament, Roma 19965, 654.
69
L’espressione non intende dire che nel «Figlio, Dio sia palese solo
approssimativamente, bensì che proprio in lui è visibile pienamente e secondo la sua
sostanza»: STROBEL, La lettera agli Ebrei 30. «Io credo, diceva Origene, che il Figlio
sia irradiazione della gloria di Dio […] Da questa irradiazione derivano riflessi
parziali verso le altre creature razionali»: ORIGENE, Commento al Vangelo di
Giovanni 32, 18, 353.
70
E. BORGHI, La Lettera agli Ebrei: linee introduttive, in La Lettera agli
Ebrei, Lectio divina anno pastorale 2007-2008, a cura di Diocesi di Lugano, Lugano
2007, 4.
71
Alcuni hanno visto nel termine ἀπαύγασµα (hapax in NT) un significato
passivo– «riflesso», altri attivo, «splendore», «irradiazione». Il verbo base αὐγάζω
«brillare» può avere entrambi significati, mentre i termini che finiscono in –µα hanno
normalmente un senso passivo. Vanhoye è favorevole al significato attivo: A.
VANHOYE, Le Christ est notre Prêtre, Toulouse 1969, 71. Lo stesso troviamo in W.
BAUER, Griechisch-Deutsches Wörterbuch zu den Schriften des N.T., Berlin 1937, 67.
Vedi anche TEODORICO, L’Epistola agli Ebrei, 46.
26
Riferimenti al santuario celeste
Un breve sguardo al testo greco ci conferma che sono diversi gli
elementi di corrispondenza letterale tra Eb 1,3c ed Eb 8,1:
1,3bc
8,1
κεφάλαιον δὲ ἐπὶ τοῖς λεγοµένοις,
καθαρισµὸν τῶν ἁµαρτιῶν
τοιοῦτον ἔχοµεν ἀρχιερέα,
ποιησάµενος ἐκάθισεν
ὃς ἐκάθισεν
ἐν δεξιᾷ
ἐν δεξιᾷ
τῆς µεγαλωσύνης
τοῦ θρόνου τῆς µεγαλωσύνης
ἐν ὑψηλοῖς
ἐν τοῖς οὐρανοῖς
a. Il primo riferimento al santuario celeste è δόξα. Questo
vocabolo è importante per il nostro studio perché, nel suo concetto
«tecnico» di «gloria di Dio», implica, nei LXX, una descrizione della
«casa» celeste (Sal 25,8; Is 6,1-3; Ez 1,26-28; 10,1-4). Il termine centrale
nel testo di Eb 3,1 ha sempre suscitato l’interesse dei teologi e, nella
maggioranza degli studi, è stato posto in relazione con kābôd anche se lo
studio del testo greco dei LXX non rende questa relazione univoca.
Portiamo come esempio la descrizione di Isaia 6,1, quando si parla della
gloria di Dio, altre a «onore», «gloria», «potenza» e «altezza». In Is 6,1
LXX traduce con δόξα anche il termine šûl «mantello» (Is 6,1). La nostra
ricerca personale assegna comunque il primato a kābôd, ricorrente e
27
tradotto con δόξα nella sua grande maggioranza72. Approfondiremo il suo
significato nel capitolo 4.
b. Il secondo riferimento al santuario si trova nell’espressione
καθαρισµὸν τῶν ἁµαρτιῶν «la purificazione dei peccati» (Eb 1,3b).
Quest’affermazione fa di Cristo colui che finalmente pone le basi per
superare il problema del peccato e del male che ne consegue. La frase
può essere intesa come sintesi di tutta l’attività messianica, che trova nel
sacrificio della croce la sua maggiore espressione. Tuttavia, la centralità
della croce non chiude l’opera del Cristo all’interno di una ambientazione
esclusivamente terrena. Come dice Thompson, «la purificazione dei
peccati ci introduce direttamente il punto più importante di tutta la lettera:
l’espiazione operata da Cristo nel tempio celeste (Eb 8,1-2)»73.
Il riferimento al santuario è molto preciso, sia perché era nel
santuario israelitico terreno che il processo di purificazione dei peccati
avveniva (ad es. Lv 4), sia perché la stessa Epistola fa del Cristo sommo
sacerdote nel santuario celeste l’autore unico e assoluto della
purificazione o espiazione dei peccati (Eb 9,24-26).
Il modo in cui vediamo il rapporto tra croce, purificazione dei
peccati, sacerdozio di Cristo nel santuario, non è privo di conseguenze: se
l’espiazione dei peccati si fosse conclusa definitivamente alla croce
costringerebbe a chiedersi che senso avrebbe la teologia del nuovo
sacerdozio di Cristo? Sostenere invece che il processo di espiazione,
cominciato sulla croce, debba essere «completato» con la mediazione di
Cristo nel tempio celeste, consente di comprendere l’espiazione celeste di
Cristo «alla destra di Dio», ma rischia di diminuire il ruolo sacrificale
72
G.J. BOTTERWECK – H. RINGGREN – H.-J. FABRY, Theological Dictionary
of The Old Testament, Grand Rapids 1995, VII, 24, elenca 177 volte. E. HATCH –
H.A. REDPATH, A Concordance to the Septuagint, Oxford, 1897, 341-343 elenca 180
volte.
73
THOMPSON, Hebrews, 167.
28
della croce. La risposta a questo dilemma si trova nel capitolo 9 di Ebrei,
e in questo senso il nostro verso è una sua anticipazione74. oblazione
c. Il terzo riferimento al santuario è il sintagma «alla destra»
(ἐν δεξιᾷ - Eb 1,3). «Alla destra» è un tema che deriva dal Sal 110 ed è
largamente usato (Eb 1,13; 8,1; 10,12; 12,2), anche al di fuori di Ebrei:
Stefano prima del suo martirio vede i cieli aperti e «il Figlio dell’uomo
che sta alla destra di Dio» (At 7,56). Paolo esprime lo stesso concetto
appellandosi alla medesima immagine (Ef 1,2075; Col 3,1), connessa
all’intercessione di Cristo nel santuario celeste (Rm 8,34)76.
Attridge conferma il legame tra Eb 1,3 ed Eb 8,1 affermando che
Eb 8,1 «non citi il testo dal salmo ma ritorna alla parafrasi usata
nell’esordio (Eb 1,3)» 77. Mantenendo questa sua visione, Eb 1,3 è la
prima descrizione anticipata e un riferimento al servizio di Cristo nel
santuario celeste. Il fatto che Cristo si trovasse e torni ora, nell’economia
cristiana, «alla destra» di Dio, presuppone un suo «spostamento spaziotemporale»78, e questo sottintende l’esistenza di tempi diversi. La sua
74
Si potrebbe obbietare che distinzione «cronologica» non tiene conto del
fatto che il Mistero pasquale è molto più complesso e la croce, proprio in quanto
sacrificio, contiene necessariamente in sé la prospettiva sacerdotale, altrimenti non
sarebbe un sacrificio. Cristo non è sacerdote solo quando si asside alla destra del
Padre, ma il suo sacerdozio inizia con la sua morte sulla croce. La nostra osservazione
non nega l’importanza della croce ma non crediamo che i testi ci consentano di
recchiudere in essa tutto il discorso sul sacerdozio di Cristo, altrimenti Ebrei, con
l’importanza che dà al santuario celeste in cui Cristo «entra» dopo la sua morte, non
avrebbe senso. Sarebbe interessante capire quando per Ebrei Gesù è diventato, e in
che senso, sacerdote. A noi sembra che il sacrificio della croce rappresenti già, in
qualche modo, un atto sacerdotale di Gesù che offre liberamente se stesso come
sacrificio, ma Ebrei sottolinea soprattutto il fatto che Gesù offre i benefici della croce
una volta risorto di fronte al Padre (Eb 9,24) in un atto di continua intercessione.
75
«Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere
alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni
Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente
ma anche in quello futuro» (Ef 1,20.21).
76
S. ZEDDA, Lettera agli Ebrei, Roma 1967, 28.
77
ATTRIDGE, Ebrei, 368.
78
Un analisi più accurata nel capitolo Spatium Christi.
29
incarnazione è collegata alla sua umanità e al mondo terreno, mentre la
sua esaltazione, lo connette al mondo celeste, dove si è seduto alla destra
del Padre.
In conclusione riteniamo che Eb 1,3 anticipi il discorso di Eb 8,1-5 ed
espressioni come, «gloria», «purificazione dei peccati» e «la destra del
trono» siano riferimenti al santuario celeste, dov’è il Trono di Dio (ad es. 1Re
8,27; Sal 11,4; 103,19) che una concezione popolare colloca nella parte più
elevata del cielo79.
1.4.2.2. Seconda anticipazione: il vello del santuario. Eb 6,19
Testo
Ἣν ὡς ἄγκυραν ἔχοµεν τῆς ψυχῆς ἀσφαλῆ τε καὶ βεβαίαν καὶ
εἰσερχοµένην εἰς τὸ ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος. Eb 6,19.
In essa (speranza) infatti abbiamo come un’àncora sicura e salda per la
nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario. Eb 6,19.
Appellandosi alla promessa fatta da Dio ad Abramo (Eb 6,13),
Ebrei punta su «due atti irrevocabili» (Eb 6,18) 80 che assicurano
l’ingresso dei credenti «al di là del velo» - εἰς τὸ ἐσώτερον τοῦ
καταπετάσµατος (Eb 6,19). Notiamo tre elementi particolarmente
significativi: il primo è la struttura letteraria costruita su ἐλπίς, il secondo
è l’enigmatico καταπέτασµα il cui riferimento oggettivo va chiarito; il
terzo consegue comunque dal secondo, perché qualunque velo sia quello
79
TEODORICO, L’Epistola agli Ebrei, 47.
La prima è la promessa fatta ad Abramo, la seconda il giuramento col
quale Dio si rese garante.
80
30
a cui si pensa, esso indica comunque l’ingresso nel santuario di Cristo e,
attraverso lui che ci rappresenta, anche del nostro.
Analisi del testo
Esaminando il nostro testo a livello strutturale notiamo che è
preceduto da una breve introduzione che fa appello alla storia passata:
«affinché, grazie a due atti irrevocabili» (v 18a); e da uno sviluppo (v 20)
che esplicita quanto solamente accennato con l’espressione «al di là del
velo». La similitudine marittima dell’ancora, che si sviluppa nella
metafora del πρόδροµος (Eb 6,20), è il cuore del passo e sostiene il peso
della struttura di quasi tutto Ebrei 6,18-20 organizzato in forma chiastica
sulla base di ἐλπίς esplicitamente o implicitamente espresso:
A. (v.18) Affinché «noi che abbiamo cercato rifugio81 in lui
B. abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci saldamente
alla speranza che ci è proposta
C. (v 19) In essa [speranza] infatti abbiamo come un’àncora sicura
e salda, per la nostra vita:
B’. [speranza] essa entra fino al di là velo del santuario
A’. (v. 20) dove Gesù è entrato, come precursore».
La prima proposizione A, che indica un luogo di rifugio,
corrisponde a A’ dove si esplicita il luogo che offre rifugio, cioè il
santuario celeste che comincia a svolgere questa funzione grazie alla
81
La perifrasi οἱ καταφυγόντες dà l’idea di un pericolo al quale il credente
deve sfuggire (SPICQ Hébreux, II, 163). Per Attridge ha il senso di «rifugiarsi»,
«esiliarsi», «fuggire verso». L’idea platonica della fuga a Dio, Attridge la definisce
locus classicus (ATTRIDGE, La Lettera agli Ebrei,182). Garuti crede che la frase possa
essere letta in due modi: «κρατῆσαι (Eb 6,18) letto come infinito epesegetico e la
frase correrebbe “abbiamo la potente certezza di (poterci) aggrappare alla speranza“,
oppure in connessione con καταφυγόντες, “noi che siamo sfuggiti per (poterci)
aggrappare a”» (GARUTI, Ebrei, 97).
31
presenza di Gesù. Sia la B sia la B’ propongono il concetto di ἐλπίς,
«speranza», la prima volta in modo esplicito, la seconda in modo
sottointeso. Nella proposizione centrale abbiamo «un’àncora sicura e
salda, per la nostra vita» (Eb 6,19), per esprimere le ragioni profonde
della fiducia dei credenti e il motivo per cui Cristo è così importante per
loro, al di sopra di ogni nostalgia per i sacerdoti e i rituali caratteristici
dell’antica alleanza e del vecchio santuario terreno. Nella parte centrale
del chiasmo (B, C, B’) compare un trittico di affermazioni centrate su
ἐλπίς: 1. siamo incoraggiati ad aggrapparci alla speranza postaci davanti,
2. speranza che costituisce la nostra àncora sicura, 3 speranza che penetra
(e ci porta) in Cristo oltre il velo [alla stessa presenza di Dio]. Amiamo
riferirci a questo trittico come al triangolo della speranza.
Riferimenti al santuario celeste
L’immagine marittima82 potrebbe sembrare fuori contesto. Però,
per gli antichi ebrei, elemento acqua è strettamente collegato al trono di
Dio. Riferimento al mare, di un vetro trasparente come il cristallo, che si
stende all’infinito davanti al trono di Dio (Ap 4,6), ha una dimensione
cosmica. In fiume della vita in Ap 21,1 che «scaturiva dal trono di Dio e
dell'Agnello» e la visione di Ezechiele dove acque escono «dal lato destro
del tempio» (Ez 47,1) riferiscono a Dio come Fonte della vita. Il trono di
Dio, sospeso sull’ acqueo, in Salmo 104 vuole intendere la sovranità del
82
Il termine «àncora per l’anima» è metaforico ed è molto diffuso nella
letteratura cristiana. Preso in prestito dal mondo nautico, ha valore tipologico con il
significato di sicurezza e speranza. Lo si trova nel I secolo: vedi EURIPIDES, Hec. 78
(80); HELIODORUS vii., 25; EPISTET, Fragm., xxx, 89; FILONE, Somniis., i. 39;
APPIANO, Historia romana, xi, 9,56 in H. WHITE, Appian’s Roman History I-IV,
Cambridge-London 1962, II, 209; MOFFAT, Exegetical Commentary, 89; M. HENRY,
Matthew Henry’s Commentary, Chicago, 199017, 1984. Vari studi moderni riprendono
il tema dell’«àncora per l’anima». Ad esempio: R. PRITCHARD, An Ancor for the Soul,
Chigago 2011, 89.
32
Signore sulla creazione: «Egli costruisce le sue alte stanze sulle acque»
(Salmo 104, 3).
Spicq conferma l’accostamento tra il mare è trono di Dio:
Il mare era al di sopra del firmamento: in tal caso il percorso mentale,
che l’autore ci obbligherebbe a fare sarebbe del tipo: oltre il velo →
santuario → cielo → zona sopra il firmamento → al di là delle acque
→ come il fondo marino (su cui si posa l’àncora), con inversione dei
concetti d’alto e di basso83.
L’àncora si posa oltre il καταπέτασµα, il velo, che è elemento
chiave nel discorso del santuario. Καταπέτασµα, «velo», «cortina»84 ha
radici non molto chiare ma, seguendo Erodoto, «καταπετάννυµι καταπετάννυ-µι (e -ύω, f. -πετάσω) potrebbe riferirsi a quello che è disteso in
basso»85.
Il termine compare sei volte nel NT: tre volte si trova nei Vangeli
in riferimento alla tenda del tempio strappata alla morte di Cristo (Mt
27,51; Mc 15,38; Lc 23,45); gli altre tre riferimenti sono in Ebrei (Eb
6,19; 9,3; 10,20). Tutti questi testi pongono καταπέτασµα in rapporto al
santuario86, ma solo Eb 9,3 indica a quale dei tre veli ipotizzabili in
rapporto al santuario potrebbe riferirsi. Negli altri, anche in quello di Eb
6,19, oggetto particolare della nostra riflessione, bisogna cercare di
dedurlo sulla base di altri dati noti.
La LXX usa καταπέτασµα in rapporto a:
a. il velo che separava il santo dal santissimo (Es 26,31.33)
83
SPICQ, Hébreux, II, 164,156.
C. SCHNEIDER, Katapètasma in TDNT III, 628-30. Vedi anche G. KITTEL
– G. FRIEDRICH, Theological Dictionary of the NT: Abridge in One Volume, a cura di
G.W. Bromiley, Grand Rapids 1985, 420.
85
J.H. THAYER, A Greek- English Lexicon of the New Testament, New-York
– Cincinnati – Chicago 18892, 335. Stessa opinione anche in SCHNEIDER,
Katapètasma in TDNT, III, 628.
86
S. LÉGASSE, Les voiles du temples de Jérusalem, in RB 87 (1980) 560-589.
84
33
b. il velo della porta del tabernacolo (Es 26,36.37)
c. il velo della porta del recinto (Es 38,18).
A quale di questi tre veli pensava l’autore di Ebrei? Qual era il suo
antecedente veterotestamentario? Sfortunatamente i dati terminologici
veterotestamentari non forniscono indicazioni univoche.
La LXX, per rendere il concetto di «velo», usa i termini
καταπέτασµα, κάλυµµα e ἐπίσπαστρον. Il più usato, e quello che ci
interessa particolarmente, è καταπέτασµα. Tra i vari studi fatti a questo
proposito ci limitiamo a riferire quello di George Rice, una voce
importante all’interno della Chiesa Avventista87 negli anni 70.
Riprendendo i dati offerti sa Hatch e Redpath88, Rice individua nei
LXX, pur con qualche errore formale, 42 referenze a un possibile velo. Il
nostro studio personale ha rivelato 43 referenze. Nei sei testi che fanno
riferimento al velo d’ingresso nel cortile, cinque volte troviamo
καταπέτασµα (Es 37,16 [38,18]; 39,19 [40]; Nm 3,26; 4,32; 1Re 6,36 e
una volta κάλυµµα (Es 27,16) 89 . Negli undici riferimenti alla prima
cortina, quella di ingresso nel santo, abbiamo καταπέτασµα cinque volte
(Es 26,37; 37,5; Lv 21,23; Nm 3,10; 18,7) κατακάλυµµα90 tre volte (Nm
3,25; 4,31 che lo ripete due volte), κάλυµµα καταπετάσµατος una volta
87
Il nostro studio ha tra i suoi scopi anche quello di valutare la dottrina del
santuario nella Chiesa Cristiana Avventista del 7° Giorno.
88
Edwin Hatch e Henry Redpath sono citati da G. RICE, Heb. 6,19 Analysis
of Some Assumptions Concerning Katapetasma in Issues in the Book of Hebrews, a
cura di F.B. Holbrook, Spring 1989, 231. Lo stesso studio è stato pubblicato in AUSS
25, Silver Spring (1987) 1, 65-71. Riferimenti allo studio di Rice anche in D.L.
ALLEN, Hebrews, in The New American Commentary, New York 2010, 399-404.
Abbiamo cosultato anche lo studio di E. HATCH – H.A. REDPATH, A Concordance to
the Septuagint, Oxford 1906.
89
Κάλυµµα è usato anche per «copertura alla tenda», «la coperta di pelle» in
Nm 4,10.14 (2 volte), 25 (3 volte); «velo sul volto»: Es 34,33.
90
Kαταπέτασµα è usato anche come «copertura alla tenda» Es 26,14; 40; Nm
4,6.
34
(Es 40,5), κάλυµµα una volta (Nm 4,25) e ἐπίσπαστρον una volta (Es
26,36). Nei ventisette riferimenti alla cortina interna, che separava il
santo dal santo dei santi, abbiamo καταπέτασµα ventitré volte 91 ,
κατακάλυµµα τοῦ καταπετάσµατος una volta (Es 40,21) e κατακάλυµµα
due volte (Es 36,36 [38,19]; Nm 3,31)92. La tabella seguente sintetizza
questi dati:
κάλυµµα
καταπετάσµατος
C
S
κάλυµµα
1
1
1
SS
Totale
κατακάλυµµα
1
2
καταπέτασµα
ἐπίσπαστρον
κατακάλυµµα τοῦ
καταπετάσµατος
5
3
5
2
23
5
33
Totale
6
1
1
11
1
26
1
43
La nostra analisi dei vari testi contenenti καταπέτασµα nelle sue
varie declinazioni, ci mostra che tale termine viene usato soprattutto per
indicare la cortina che separa il santo dal santo dei santi93. Possiamo
perciò affermare che Eb 6,19 si riferisce alla cortina interna del
tabernacolo? La risposta dev’essere probabilmente favorevole anche se
non si può ignorare che il termine possa avere in sé anche altre
applicazioni. Καταπέτασµα è infatti utilizzata anche per descrivere
91
Es 26,31, 33 (tre volte), 34, 35; 27,21; 30,6; 35,12; 37,3 (36,35); 36,35
(38,18); 39,4 (38,2); 40,3.22.26; Lv 4,6, 17; 16,2.12.15; 24,3; Nm 4.5; 2Cr 3,14. Vedi
RICE, Katapetasma 231, nota 11.
92
Nella descrizione degli arredi che dovevano essere portati dai leviti nel
testo di Nm 3,31, κατακάλυµµα fa riferimento alla cortina interna della tenda, mentre
lo stesso termine designa l’ingresso del cortile al v. 25. Al v. 26, la cortina d’ingresso
al santo è chiamata invece καταπέτασµα.
93
Opinione prevalemente in P. BILLERBECK, Καταπέτασµα, in BDAG, 10431046.
35
l’ingresso nel cortile o alla tenda94. Opinione confermata anche da Lust
nell’A Greek-English Lexicon of the Septuagint 95 . Questo fatto è per
Rice96 la «prova certa che καταπέτασµα si riferisce, senza il minimo
dubbio, non solo alla cortina interna ma anche all’entrata alla tenda e
addirittura all’entrata nel cortile» 97 . In questo modo, Rice supera la
problematica della distinzione tra santo e santissimo. Non possiamo
negare totalmente il valore della sua opinione sul significato di
καταπέτασµα, però il numero dei riferimenti alla cortina che divide il
santo dal santissimo è più del doppio rispetto ai riferimenti alle altre, e
non è un fatto trascurabile.
Una seconda conferma, deriva da uno studio molto interessante
fatto da R. Gane, che ha analizzato la frase ἐσώτερον τοῦ
94
Victor Hamilton conferma: «La stessa parola è utilizzata nei LXX per
descrivere le due cortine»: V.P. HAMILTON, Exodus: An Exegetical Commentary,
Grand Rapids 2011, 474.
95
J. LUST – E. EYNIKEL – K. HAUSPIE, A Greek-English Lexicon of the
Septuagint, Stuttgart 20032, II, 241.
96
Un’altra prova per G. Rice è l’analisi del termine ἐσώτερον in Lv 16,2 e
Eb 6,19 in rapporto all’omissione di ἅγιον:
εἰς τὸ ἅγιον ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος
Lv 16, 2 LXX
εἰς τὸ
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος
Eb 6,19
In Levitico, τὸ ἅγιον è un aggettivo nominale accusativo neutro, retto dalla
preposizione εἰς. Ἐσώτερον, preposizione di luogo, è seguita dal genitivo τοῦ
καταπετάσµατος. «L’omissione di τὸ ἅγιον porta», dice Rice, «come hanno segnalato
Braun e Rice (H. BRAUN, An die Hebräer, in Handbuch zum Neuen Testament 14,
Tübingen 1984, 191), in εἰς τὸ ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος (Eb 6,19), ad un
cambiamento di sintassi: ἐσώτερον prende il «ruolo mancate» di sostantivo
all’accusativo, retto dalla preposizione εἰς, mentre τοῦ καταπετάσµατος resta come
nome comune al genitivo»: RICE, Katapetasma, 69. La sua argomentazione continua:
«Nel primo testo (Lv 16,2), si parla del luogo santissimo. Nella frase εἰς τὸ ἅγιον
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος, ἅγιον è il santo dei santi dove si trovava l’arca del
patto: per questo τοῦ καταπετάσµατος è il velo davanti all’arca. In Ebrei l’omissione
di ἅγιον cambia la sintassi portando ad un cambiamento di significato. Senza nessun
elemento di riferimento al santo dei santi, la traduzione “secondo velo” potrebbe
essere vista come una forzatura e per questo ἐσώτερον può essere inteso
semplicemente come “dentro”»: Id., Katapetasma, 229-232.
97
RICE, Katapetasma, 232. La stessa opinione ha M. VICENT, Word Studies in
the New Testament, New York 1918, 4: 453. Vedi anche R.E. GANE, Re-Opening
Katapetasma in Hebrews 6:19, AUSS 25, Silver Spring (2000) 1, 6.
36
καταπετάσµατος (Eb 6,19) nei LXX alla luce dell’espressione ebraica
mibbêt lappārōket. La frase compare quattro volte nell’AT: Es 26,33; Lv
16,2.12.15. In ognuno di questi testi abbiamo ἐσώτερον τοῦ
καταπετάσµατος, mibbêt lappārōket, «oltre il velo», con riferimento alla
cortina interna 98 . Pārōket, «cortina», era il termine specifico per
descrivere la tenda che si trovava di fronte al santo dei santi (Es
35,12;39,34; 40,21; Lv 4,6; Nm 4,5)99.
Gane afferma che pārōket era così importante che gli oggetti del
santuario venivano posizionati solo in rapporto a tale cortina 100 . Ad
esempio, mentre la tavola dei pani, il candelabro e l’altare dell’incenso
dovevano essere collocati «fuori del velo» (Es 26,33; 26,35; 27,21; 30,6),
l’Arca del patto era disposta «oltre il velo». Il testo biblico è molto
chiaro: «Porrai l’altare davanti al velo che nasconde l’arca della
Testimonianza, di fronte al propiziatorio che è sopra la Testimonianza,
dove io ti darò convegno» (Es 30,6).
L’identificazione della LXX tra pārōket101 e καταπέτασµα è un
indizio importante per comprendere Eb 6,19 come riferentesi alla cortina
interna 102 , e un’anticipazione chiave per il santuario celeste. Il gran
98
GANE, Re-Opening Katapetasma, 5. L’argomento è stato presentato anche
da A.F. BALLENGER, Cast out for the Cross of Christ, Tropico (Ca) 1911, 28, citato in
W.G. JOHNSSON, Day of Atonement Allusion in Issues in the Book of Hebrews, a cura
di F.B. Holbrook, Spring 1989, 112.
99
«Paroket era il velo che divideva il luogo santo dal santissimo»: A. BERLIN,
The Oxford Dictionay of the Jewish Religion, New York 2011, 553; «Una tenda
decorosamente fabbricata […] che copriva l’Arca del Patto e che separava il santo dei
santi dallo spazio pubblico del tempio»: J.R. BASKIN, The Cambridge Dictionary of
Judaism and Jewis Culture, Cambridge-New York-Mebourne-Madrid-Cape TownSingapore-Delhi-Rokyo-Mexico City 2011,97. La stesssa opinione hanno J. NEWMAN
- G. SIVAN - A. TOMASCHOFF, Judaism A-Z: Lexicon of Terms and Concepts,
Jerusalem 1980, 263.
100
GANE, Re-Opening Katapetasma, 7.
101
Identificazione in O. HOFIUS, καταπέτασµα, in EDNT, II, 265.
102
Gane conclude: «Quando studiamo i LXX abbiamo prove serie per
credere che Eb 6,19 indichi il fatto che Gesù è entrato nella parte interna del santuario
celeste»: GANE, Re-Opening Katapetasma, 8.
37
numero di riferimenti alla cortina 103 è la causa per la quale diverse
edizioni della Bibbia hanno tradotto il καταπέτασµα di Eb 6,19 come
«cortina interna»104.
L’ultima conferma per la nostra tesi deriva dall’analisi dei testi
menzionati sopra fatta da Albion F. Ballenger105, G.W. Buchanan106, P.
Ellingworth107 Attridge e altri108. Paragonando tra loro i cinque testi di Es
26,33; Lv 16,2;12,15 LXX e Eb 6,19, hanno scoperto la stessa
fraseologia:
εἰς τὸ
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος Eb 6,19
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος Es 26,33 LXX
εἰς τὸ ἅγιον ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος Lv 16, 2 LXX
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος Lv 16,12 LXX
ἐσώτερον τοῦ καταπετάσµατος Lv 16,15 LXX
Eb 6,19 copia sostanzialmente Lv 16,2 e questo potrebbe indicare
«che il velo di Ebrei fa riferimento alla tenda interna nel santuario»109.
103
HATCH – REDPATH, A Concordance to the Septuagint, II, 741.
Alcuni esempi: Vulgata latina: «In interiora velaminis»; Vulgata
Clementina 1598: «Ad interiora velaminis»; la French Bible en Français courant
1997: «Du temple céleste jusque dans le sanctuaire intérieur»; la Reina-Valera 1909:
«Hasta dentro del velo»; la Castilian Bible Version: «dentro»; La Geneva Bible 1599
nella traduzione inglese moderna: «Which is within the veil») come altre varie
edizioni inglesi che usano l’avverbio di luogo «within»; The Complete Jewish Bible
1998: «inside the parokhet».
105
BALLENGER, Cast Out for the Cross of Christ, in W.G. JOHNSSON, Day of
Atonement Allusions, 108. Per dettagli vedi A.V. WALLENKAMPF, A Brief Review of
Some of the Internal and External Challengers to the Seventh-day Adventist
Teachings on the Sanctuary and the Atonement, a cura di – W.R. Lesher, Washington
DC 1981, 582-603.
106
G.W. BUCHANAN, To the Hebrews: Translation, Comment and
Conclusions, New York 1792, 115-116.
107
P. ELLINGWORTH, The Epistle to the Hebrews, Grand Rapids 1993, 347.
108
«Attridge, 184; Hagner, 98; Lane, 154; Schneider, 629-630», citati in
GANE, Re-Opening Katapetasma, 8, nota 10.
109
MOFFAT, Exegetical Commentary, 89.
104
38
Affermazione in linea con Filone e Giuseppe Flavio, che propongono una
distinzione tra il primo velo, all’entrata del tabernacolo, chiamato
κάλυµµα110, e il secondo che divideva le due stanze, chiamato καταπέτασµα111.
In conclusione riprendiamo le possibili interpretazioni per il
termine καταπέτασµα in Eb 6,19-10 aggiungendo la nostra opinione:
a. Il semplice velo di ingresso nel santuario. Il termine è stato
utilizzato diverse volte dalla LXX per descrivere l’ingresso al santuario.
In Eb. 9,3 si parla di un «secondo velo» che separa il santo dal
santissimo, per questo καταπέτασµα, quando usato da solo, potrebbe
essere un riferimento all’entrata nel tabernacolo nel suo insieme, dove
Cristo è entrato dopo la sua morte112. Le ricerche di G. Rice, come
abbiamo visto, si concludono con quest’ipotesi.
b. La cortina che separa le due stanze principali del santuario.
Il testo di Ebrei riprende il linguaggio della LXX e conferma che
καταπέτασµα sia un riferimento al secondo velo. Diversi studiosi
sostengono la validità di questa comprensione113.
110
G. DORIVAL, κάλυµµα, in LEH, I, 257.
FILONE, De vita Mosis, iii, 5; FLAVIO, Antiq. vii, 3.3, citati in THAYER,
Greek-English Lexicon, 335.
112
Marcheselli-Casale, riprendendo il pensiero di George Rice, afferma nella
nota che «con questa posizione si esclude la traduzione maggiormente sostenuta di
katapetasma con “secondo velo” e di “esoterion” con “santo dei santi”»:
MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 310.
113
Buchnan (BUCHANAN, To the Hebrews,116) afferma: «Il contesto richiede
che il luogo deve essere inteso come il santo dei santi perché fa riferimento al
comportamento di Aronne nel Giorno dell’Espiazione»; Altri sostenitori sono:
Attridge (ATTRIDGE, Hebrews, 184); Westcott (B.F. WESTCOTT, The Epistle to the
Hebrews, Grand Rapids, 1970, 163); Ellingworth (ELLINGWORTH, The Epistle to the
Hebrews, 347); Dos (M. DOS, The Epistle to Hebrews in The Expositor’s Greek
Testament, a cura di W.R. NICOLL, Grand Rapids 1956, IV, 305); Moffat (MOFFAT,
Exegetical Commentary, 89); Bruce (BRUCE, Hebrews, 199 n. 14); Gane (GANE, ReOpening Katapetasma, 6). Young, confrontando Eb 6,19-20 e Eb 10,19-20, conclude
111
39
Alcuni teologi, sostenitori di una visione letteralista del santuario
celeste, hanno visto in Eb 6,19 la prova per una cortina materiale, fisica,
nel cielo, trovando così sostegno alla loro comprensione del santuario
celeste come identico o fortemente simile alla tenda di Mosè.
Quest’opinione ha costituito la base per la teologia millerita del 1843, che
riprenderemo in seguito nel nostro studio.
c. Un velo al di là della letteralità. La nostra opinione è che, dal
punto di vista esegetico-grammaticale, il termine sia un riferimento alla
cortina interna del tabernacolo. Riteniamo però che l’intenzione
dell’Autore non sia quella di attirare l’attenzione su questo velo inteso
letteralmente, ma sull’«oltre», dove Cristo è il nostro πρόδροµος114, il
nostro sommo sacerdote che opera per la nostra salvezza. In altre parole,
per citare F. Nicole, l’uso di καταπέτασµα «non sarebbe visto in termini
tecnici, ma come una figura retorica per descrivere ciò che separa il
visibile dall’invisibile, il terreno dal celeste»115. Pertanto, nella frase,
«oltre il velo» potrebbe significare semplicemente «essere alla presenza
di Dio». In questo senso il testo è un riferimento e un’anticipazione di Eb
8,2; 9,11-12.
1.4.2.3. Prima posticipazione: un santuario non fatto da mani
d’uomo. Eb 9, 24-25
che «il parallelismo tra i due testi lascia pochi dubbi: in entrambi si tratta dello stesso
velo interno» (N. YOUNG, Katapetasma in Hebrews 6,19-20, in AUSS 2001, 172).
114
La troviamo due volte (Nm 13,20 e Is 28,4) nei LXX mentre è un hapax
nel NT. In particolare fa riferimento a uno che «viene inviato prima a prendere posto,
ad osservare o agire come spia, un esploratore. Questo è il senso in Eschilo, Erodoto,
Tucidide, Polibio, Diodoro, Plutarco»: THAYER, Greek-English Lexicon, 538. Per
Louw – Nida è uno «che corre avanti» J.P. LOUW – E.A. NIDA, Greek – English
Lexicon of the New Testament, New York 19892, I, 466.
115
F. NICOLE, Bible Commentary: Hebrew, Hagerstown 1978, VII, 167.
40
Testo
Οὐ γὰρ εἰς χειροποίητα εἰσῆλθεν ἅγια Χριστός, ἀντίτυπα τῶν ἀληθινῶν,
ἀλλ᾽ εἰς αὐτὸν τὸν οὐρανόν, νῦν ἐµφανισθῆναι τῷ προσώπῳ τοῦ θεοῦ
ὑπὲρ ἡµῶν· οὐδ᾽ ἵνα πολλάκις προσφέρῃ ἑαυτόν, ὥσπερ ὁ ἀρχιερεὺς
εἰσέρχεται εἰς τὰ ἅγια κατ᾽ ἐνιαυτὸν ἐν αἵµατι ἀλλοτρίῳ. Eb 9,24-25.
Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura
di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio
in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo
sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui. Eb 9,2425.
Per la loro vicinanza ad Ebrei 9,11-12, cui fanno riferimento e al
quale sono organicamente legati, possiamo solo marginalmente
considerare i vv. 24-25 come una loro posticipazione. Tuttavia li
esaminiamo qui, a parte, per poterci poi concentrare sui testi centrali
dell’Epistola.
Questo testo fa riferimento ad Eb 9,11. Lo sfondo, centrato sul
santuario, affidato a una sintassi di tipo οὐ-ἀλλά 116 , è antitetico e
dualistico in maniera platonico-filoniana: «santuario non fatto da mani
d’uomo» - «il quale è antitipo del vero» (ἀντίτυπα τῶν ἀληθινῶν)117. Il
testo continua la frase con la dichiarazione che il santuario vero è «nel
cielo stesso». Nonostante la semplicità e la chiarezza di questa
affermazione, ci si può chiedere cosa voglia veramente dire. Certamente
intende che il santuario «nel cielo» non fa parte della realtà terrestre ma
celeste; possiamo però spingerci a pensare che corrisponda al cielo stesso
116
Il termine viene utilizzato da MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei,
406.
117
Teofilatto, nelle sue annotazioni, riporta una correzione per rendere più
visibile l’effeto antitetico: «santuario fatto da mano d’uomo» - «il quale è anti tipo del
vero» - «cioè tipo del celeste» (τύπος τοῦ οὐρανοῦ): TEOFILATTO, Expositio in
epistolam ad Hebraeos 9, in PG 125, 313a.
41
fino a supporre una identità assoluta tra la sostanza dei due termini? La
risposta non è semplice e la considereremo nel capitolo successivo.
Analisi del testo
Il testo contrappone in modo netto il santuario «fatto da mani
d’uomo» con i suoi (sommi) sacerdoti e il sangue dei suoi sacrifici
animali, alla realtà celeste il cui unico (Sommo) sacerdote svolge il suo
ministero grazie al sangue versato in virtù del sacrificio di se stesso.
Questo concetto è espresso attraverso l’uso di alcune parole chiave:
ἅγιος, Χριστός, θεός, οὐρανός, αἷµα, ἀρχιερεύς. Tutti questi termini
ruotano attorno alla frase centrale τῷ προσώπῳ τοῦ θεοῦ, «faccia di Dio»
(24c), e sono intimamente collegati alla realtà del tempio.
Riferimenti al santuario celeste
Ἅγια - τὰ ἅγια è la traduzione del termine ebraico qōdeš, «santo»,
«separato». Nel NT, la parola ἅγιοj compare, in riferimento al tempio,
dieci volte e solo nell’epistola agli Ebrei: 8,2; 9,1.2.3.8,12.24; 19,19;
13,11. Come si può notare, il termine è ripreso più volte nel capitolo 9;
per questo dedicheremo più spazio alla sua analisi nel prossimo capitolo.
Ἅγια e Χριστός sono elementi strutturali molto forti in Ebrei. Tutti e due
sono in relazione con οὐρανός e θεός.
Οὐρανός, «cielo», ha molteplici significati118: può essere lo spazio
cosmico, opposto alla Terra (Eb 1,10)119, l’universo (Mt 5,18), lo spazio
sacro (Lc 15,21), il luogo dove si trovano «le camere della pioggia» (Sal
147,8), il firmamento (Mt 6,26; Lc 17,24), il luogo verso cui si «alzano
118
Ampio studio in G. ABBOTT-SMITH, A Manual Greek Lexicon of the New
Testament, New York 1999, 328.
119
«In principio tu, Signore, hai fondato la terra (γῆ) e i cieli (ouvranoi,) sono
opere delle tue mani» (Eb 1,10).
42
gli occhi» (Lc 9,16; Is 51,6), ma è stato visto anche come «la sede dove
abita Dio e gli altri esseri celesti» (Lc 24,51), la «casa di Cristo» (Gv
3,13).
Per diversi teologi120, «cielo» è, nel linguaggio neotestamentario,
un riferimento alla dimora celeste di Dio121, il santuario celeste. Tra gli
argomenti avanzati a sostegno della loro tesi, il primo è il divieto di
giurare sul trono di Dio: «Ma io invece vi dico: di non giurate affatto né
per il cielo perché è il trono di Dio» (Mt 5,34)122, dove «trono» indica
anche l’insieme del santuario celeste. Lo stesso concetto si trova nel
discorso di Stefano che riprende il testo di Isaia 66,1123: «Il cielo è il mio
trono e la terra lo sgabello dei miei piedi» (At 7,49). Nell’Apocalisse, Dio
stesso viene chiamato «Dio del cielo»124. Questa sua dimora-trono è il
posto dove si manifesta la sua gloria e da dove egli governa il mondo125.
120
Ad esempio F. Bleek, O. Michel, J. Héring citati da J. HÉRING,
Eschatologie biblique et idéalisme platonicien, in The Background of the New
Testment and its Eschatology, a cura di W.D. Davies – D. Daube, Cambridge 1956,
167.
121
«Il cielo è detto tabernacolo di Dio alludendosi all’antico tabernacolo,
tipo e figura del cielo»: B. BELLINI, Apocalisse di San Giovanni Apostolo ed
Evangelista ridotta in terza rima, Casalmaggiore 1816, 129; «Il luogo celeste siderale
dove abita Dio, insieme ai esseri celesti» cfr. THAYER, Greek-English Lexicon, 464465; «Casa di Dio» cfr. G.W. BROMILEY, The Internationl Standard Bible
Enciclopedia, Grand Rapids 1991, IV, 536-537.
122
Anche Mt 2,22; Ap 4,1; Sal 11,4; 113,24; 115,16.
123
Il testo di Is 66 pur essendo in un contesto dove si parla della sovranità
universale di Dio, noi intendiamo vedere il perché dell’idea che si sta discutendo, e
Isaia identifica, sul piano letterario il cielo con il trono.
124
Ap 11,13.16.11.
125
Il rapporto tra Dio e il mondo fisico non è semplice da analizzare. Dio
non è parte del mondo ma ne è comunque il Creatore ed entra in rapporto con esso
nel processo di rivelazione. Notiamo un studio interessante di Wendelin Knoch: V.
KNOCH, Dio alla ricerca dell’uomo; rivelazione, scrittura, tradizione, in Manuale di
teologia cattolica, IV, Lugano 1999.
43
Un secondo argomento usato dai sostenitori dell’equivalenza
santuario-cielo sarebbe dato dal fatto che il Re Cristo-Messia è «disceso»
dal cielo126 come se questo cielo fosse il luogo della sua dimora.
Anche l’epistola agli Ebrei potrebbe fare riferimento al cielo come
trono di Dio: Gesù, infatti, vi viene descritto come il «sommo sacerdote
grande, che è passato attraverso i cieli» (Eb 4,14 ), come colui che «non è
entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel
cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore»
(Eb 9,24). Per l’Autore, οὐρανός sembra essere collegato ad ἅγιος127, lo
spazio sacro, dove Gesù è il «sommo sacerdote che si è assiso alla destra
del trono della maestà nei cieli» - (Eb 8,1). Gesù si presenta nel tempio
alla «faccia di Dio» per espiare i nostri peccati:
Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mano d’ uomo, anti
tipo del vero, ma nel cielo stesso, allo scopo di presentarsi ora davanti
alla faccia di Dio per noi ( Eb 9,24)128.
Infine Stefano, prima della sua morte, «fissando il cielo vide la
gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio» (At 7,55), dove eivj
potrebbe avere un valore ingressivo: «guardando fisso dentro il cielo».
In quel luogo, Cristo riconcilia e compie «l’espiazione-perdonopurificazione dei peccati del popolo»129 (Eb 2,17). Il termine greco è
ἱλάσκοµαι, «conciliarsi», ed è strettamente collegato alla parola ἱλάσθητί,
«aver pietà», «essere benigno»130. Nell’uso alessandrino significava «fare
126
«Nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio
dell’uomo, che è in cielo» (Gv 3,13).
127
Eb 9,2; 9,3; 9,12; 9,24; 9,25; 13,11.
128
Eb 2,17 in Edizioni Paoline (1995).
129
Nostra traduzione di τὸ ἱλάσκεσθαι τὰς ἁµαρτίας τοῦ λαοῦ - «allo scopo
di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17).
130
Ἱλάσθητί µοι τῷ ἁµαρτωλῷ. - «O Dio, sii benigno con me, peccatore» (Lc
18,13). Della stessa sfera semantica fa parte anche ἱλαστήριον
- «luogo di
44
espiazione» soprattutto quando era seguita dalla parola τὰς ἁµαρτίας «peccati»131.
Possiamo dunque considerare il cielo come il santuario o dobbiamo
vederlo solo come il luogo dove il santuario si trova? Diversi teologi
credono nell’identificazione cielo - tempio celeste: F. Bleek, O. Michel, J.
Héring 132 , P. Andriessen 133 o W. Michaelis 134 , Westcott, Montefiore,
Rigenbach, Laub e altri lo negano135. La nostra opinione, che esporremo
ampiamente nel prossimo capitolo, è che «cielo» sia solo una forma di
ipallage che l’Autore usa per attribuire all’uno le qualità dell’altro.
Αἷµα. Cristo è il nostro sommo sacerdote, che inaugurando un
patto nuovo ed eterno, con il suo sangue, (Eb 9,15-23; 20, 20), libera
l’umanità dalla schiavitù del peccato. La sua morte genera vita, fiducia
nel Padre, dimostra che il Dio della gloria è anche il Dio della grazia, del
perdono, e che la strada per l’eternità è sempre libera (Eb 4,16)136.
espiazione» (Eb 9,5) F. BÜCHSEL - J. HERRMANN, ἱλαστήριον, in TDNT, III, 301-323;
T.W. MANSON, ἱλαστήριον, in JTS 46 (1945) 1-10. Il termine ci porta nel luogo più
intimo del santuario, il santo dei santi, dove si trovava l’arca del patto. Il coperchio
che era spruzzato con il sangue della vittima espiatoria nel giorno dello Iom-kippur,
era il coperchio di espiazione, il propiziatorio (Vulgata - propitiatorium in Eb 9,5).
Flavio parla di un monumento costruito per la propiziazione divina - µνῆµα
ἱλαστήριον (FLAVIO, Antiquities xvi, 7, 1). Da questo luogo provenivano il perdono e
la purificazione divina. Tutti i peccati erano cancellati. Nel Nuovo Testamento Paolo
parla di Gesù «esposto pubblicamente come ἱλαστήριον – propiziatorio» (Rm 3,25).
131
FILONE, Alleg. 3,61 cit. in THAYER, Greek-English Lexicon, 301.
132
HERING, Eschatologie biblique et idéalisme platonicien, 167.
133
P. ANDRIESSEN, En lisant l’épître aux Hébreux, Vaals 1977, 78.
134
W. MICHAELIS, Skènè, in TDNT, VII, 376f .
135
Citati da P. Ellingworth in ELLINGWORTH, The Epistle to the Hebrews ,
446. Vedi anche W.R.G. LOADER, Christ at the Right Hand, in NTS 24 (1978) 199217. Il problema del cielo come santuario è stato trattato anche da A. CODY, Heavenly
Sanctuary and Liturgy in the Epistle to the Hebrews, St. Meinrad, Illinois 1960,150159 e H. ZIMMERMANN, Das Bekenntnis der Hoffnung. Tradition und Redaktion im
Hebräerbrief, Köln 1977, 191.
136
Sul sacerdozio di Cristo nell’epistola agli Ebrei e la sua posizione nel
santuario celeste vedi R.J. MCKELVEY, Pioner and Priest, Jesus Christ in the Epistle
to the Hebrews, Eugene (Or) 2013, 40-41.
45
In virtù della sua sofferenza, Cristo è entrato in «un santuario non
fatto da mani d’uomo»137 (Eb 9,24). Il soffrire di Cristo è collegato a
concetti importanti nell’epistola agli Ebrei. Primo tra tutti è l’offrire, il
soffrire–offrire di Gesù138, espresso col verbo πάσχω (Eb 2,18; 7,27;
9,28). Questo «soffrire» non è soltanto un «sopportare dolori» (cfr. in Lc
17,25) ma ha anche il senso di offrire la vita in un atto di sacrificio
supremo (Eb 2,9). Il suo sangue, essendo volontariamente offerto, ed
appartenendo al Figlio di Dio incarnato, non è paragonabile a nessun
altro tipo di sangue: è perciò l’unico in grado di purificare la nostra vita e
la coscienza dalle opere morte (Eb 9,24). Guardando con attenzione si
può notare una similitudine tra il Servo sofferente di Isaia 53139 e l’Unto
di Ebrei: entrambi offrono se stessi per la salvezza del popolo e sono la
stessa Persona. L’accostamento tra Gesù e il Servo sofferente era già stata
notata da diversi teologi come Cullmann140, Brown141, Burney142 e altri.
Il soffrire di Cristo è strettamente collegato anche al concetto
d’umiltà (Eb 5,4): egli riconosce che il sacerdozio non gli appartiene per
diritto personale ma deriva da Dio che glielo ha attribuito143. Il suo
sacerdozio (Eb 2,17; 5,4-5; 6,20; 7,15-16; 9,11) è presentato come atto
d’ubbidienza al Padre che desiderava che il Figlio fosse solidale con gli
137
Eb 9,24 in Edizioni Paoline (1995).
«Solo alla luce della sua sofferenza è possibile dare un significato
compiuto alla nostra», S. LEONE, Nati per soffrire? Per un’etica del dolore, Roma
2007, 48.
139
Per degli studi sulla sofferenza di Gesù Cristo in Ebrei vedi A. FEUILLET,
Études d’Éxégése et de Théologie Biblique. Ancient Testament, Paris 1975, 175; M.
CICCARELLI, La sofferenza di Cristo nell’epistola agli Ebrei, Bologna 2008, 215.
140
O. CULLMANN, Christologie du Nouveau Testament, Neuchâtel 19683, 55-62.
141
R.E. BROWN, Giovanni, I, 82.
142
C.F. BURNEY, The Aramaic Origin of the Fourth Gospel 107-108 in K.F.
Awad Hanna, La Passione di Cristo nell’Apocalisse, Roma 2001, 327.
143
F. URSO, «Imparò l’obbedienza dalle cose che patì» Eb 5,8: Il valore
educativo della sofferenza in Gesù e nei cristiani nella Lettera agli Ebrei, Roma 2004,
287.
138
46
uomini 144 . Per rendere esplicita quest’idea l’Autore di Ebrei ricorre
all’esempio di Aronne (Eb 5,4) che non si attribuì da sé il sacerdozio, ma
gli fu conferito da Dio che lo aveva scelto ( Es 25,8).
Quest’esperienza di umiltà ci porta ad un terzo aspetto molto
importante: la relazione tra Cristo e il Padre. È grazie alla relazione tra il
Padre e il Figlio sofferente e prediletto (Eb 1,5-6), l’unico che può vedere
la sua faccia (Gv 1,18), che l’uomo può essere introdotto alla presenza di
Dio nel Santuario celeste.
In altri termini, Cristo non conclude la sua missione con il
sacrificio, ma la prosegue nel cielo attuando l’espiazione dei peccati e
offrendo il perdono (Eb 2,17). Diventa così mediatore della nuova
alleanza (Eb 9,15) e autore della nostra salvezza (Eb 2,10; 5,9). Il suo
soffrire
145
continua con il suo offrire «alla presenza di Dio»,
un’espressione che ci porta al centro del santuario celeste. Non è infatti,
un’espressione esclusiva per indicare il trovarsi alla presenza di Dio nel
suo santuario, ma viene ripetutamente usata anche per questo scopo.
Certamente indica una condizione di vicinanza a Dio, così come si
manifestava in modo del tutto speciale nel santuario: (1Sam 1,21.2,11;
Sal 16,15; 41,3 (2); 139,14 LXX).
144
MANZI, Lettera agli Ebrei, 146.
Sul valore della sofferenza di Cristo, F. URSO, Imparò l’obbedienza dalle
cose che patì, 320-325.
145
47
1.4.2.4. Seconda
posticipazione:
entrare
nel
santuario
celeste. Eb 10,19.20
Dopo la grande esposizione dottrinale, nella conclusione 146 ,
l’Autore fa uso di una paraclesi particolare, strutturata in cinque manifesti
di esortazione (Eb 10,22-25). Prima di presentarli, posticipando e
concludendo la parte teologica, riprende per l’ultima volta il tema del
santuario celeste147.
Testo
Ἔχοντες οὖν, ἀδελφοί, παρρησίαν εἰς τὴν εἴσοδον τῶν ἁγίων ἐν τῷ
αἵµατι Ἰησοῦ, ἣν ἐνεκαίνισεν ἡµῖν ὁδὸν πρόσφατον καὶ ζῶσαν διὰ τοῦ
καταπετάσµατος, τοῦτ᾽ ἔστιν τῆς σαρκὸς αὐτοῦ. Eb 10,19.20.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo
del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi
attraverso il velo, cioè la sua carne. Eb 10,19.20.
Struttura del testo
Il testo, chiaro e molto preciso, sorprende per l’affermazione che
«possiamo entrare nel santuario». La costruzione della paraclesi,
sviluppata a partire dal verso 22, inizia con il participio ἔχοντες e il
vocativo plurale ἀδελφοί (Eb 10,19), e si esprime alla prima persona
plurale «noi». Il messaggio non è soltanto un’operazione retorica148 ma
anche la riproposta contestuale iniziale: «fratelli santi, partecipi di una
vocazione celeste» (Eb 3,1). La «partecipazione alla vocazione celeste»,
annunciata al capitolo 3 dopo aver goduto della missione sacerdotale di
146
Crocetti usa l’espressione «esortazione conclusiva». G. CROCETTI, La
Lettera agli Ebrei, Bologna 2005, 140,
147
L’ultimo riferimento è in Eb 12,21-23. Per le sue connotazioni tipologiche
abbiamo deciso di analizzare questo testo quando ci occuperemo della tipologia.
148
MARCHESELLI-CASALE, Lettera agli Ebrei, 473.
48
Cristo, trova la sua compiutezza al capitolo 10,19 nella libertà di entrare
nel santuario celeste.
Il termine παρρησία, che la CEI ha tradotto con «libertà», ha un
campo semantico abbastanza ampio. Potrebbe infatti significare
«fiducia», «libertà», «libertà di parlare»149. È stato tradotto in maniera
molto elegante dalle Edizioni Paoline (1995) con la parola «confidenza»:
«Avendo dunque, o fratelli, la confidenza di entrare nel santuario» (Eb
10,19). Noi abbiamo scelto il termine «fiducia» perché ha una maggiore
corrispondenza con il contesto dell’epistola: in Eb 3,6; 4,16; 10,35 ha il
senso di «fiducia», in Ef 3,12 di «fede», di «sicurezza» in 1 Tm 3,13; 8,1;
Gv 2,28; 3,21; 4,17.
Dal punto di vista strutturale i due versi sono in parallelo. Due fatti
lo confermano:
Entrambi riportano la parola ỏδός
v.19a. «entrare nel santuario»
εἴσ-οδον τῶν ἁγίων
v. 20a. «via nuova e vivente»
ὁδὸν πρόσφατον
Entrambi hanno un legame con l’idea di sacrificio
v. 19c. «del sangue di Gesù»
ἐν τῷ αἵµατι Ἰησοῦ
v. 29c. «il velo, cioè la sua carne»
καταπετάσµατος,
τοῦτ᾽
ἔστιν
τῆς σαρκὸς αὐτοῦ
149
H.G. LIDDEL – R. SCOTT, Greek - English Lexicon, New York 19969,
1344.
49
Riferimenti al santuario celeste
Due parole rivestono una particolare importanza in rapporto al
santuario: ỏδός e καταπέτασµα.
Ὁδὸν πρόσφατον καὶ ζῶσαν è apposizione di εἴσοδον. «La strada
aperta» ὁδὸν πρόσφατον 150 sta in opposizione all’impenetrabilità del
καταπέτασµα: nessuno poteva normalmente passare oltre la cortina ad
eccezione del sommo sacerdote. Per Otto Kuss «il sangue di Gesù è
venuto ad aprire l’accesso al santuario celeste» 151 , accesso che
rappresenta «la salute perfetta» in Cristo152. Con la stessa immagine
l’Autore suggerisce che la via al santuario celeste era precedentemente
chiusa, «non manifestata» (Eb 9,8) fino alla venuta di Cristo.
L’apertura di questa via da parte di Gesù e la disponibilità che ce
ne viene offerta costituiscono, nella nostra comprensione, un processo in
quattro tappe:
Via chiusa - non era stata ancora manifestata la via del santuario (9,8)
Accesso privato - Gesù è entrato come precursore per noi, (6,20)
Lavori in corso - al cospetto di Dio in nostro favore, (9,24)
Via libera - piena libertà di entrare nel santuario
(10,19)
150
Πρόσφατον (Eb 10,20) è un hapax del NT. Si trova in LXX Ec 1,9 e in
Sal 80,10 con il significato di «cosa nuova», «mai esistita», «niente di nuovo»: W.A.
BAUER, Greek-English Lexicon of the New Testament, tradotto da W.F. Arndt, F.W.
Gingrich e F.W. Danker, Chicago – London 20003, 172.
151
O. KUSS, La lettera agli Ebrei, Brescia 1966, 174.
152
KUSS, Ebrei, 174.
50
L’ingresso al santuario è stato aperto da Cristo con un’azione
personale, diretta e trasformatrice. Il «divieto di transito» diventa una
nuova via «vivente», che in quanto tale può darci vita153.
Vivente è usato spesso in Ebrei come attributo di Dio (Eb 3,12;
10,31; 12,22) e delle cose divine (Eb 4,12). Di Cristo in particolare viene
detto che vive o che è vivente (Eb 7,8,25). Il giusto vivrà per fede (Eb
10,38). Il santuario celeste è luogo di incontro col Dio vivente (Eb 9,14) e
soprattutto il luogo della vita eterna (Eb 9,12).
Di καταπέτασµα abbiamo già parlato. La funzione liturgica di
Cristo si svolge «oltre» questa cortina. Qui, a differenza di Eb 6,19,
l’Autore la interpreta come il corpo o la carne di Cristo.
1.4.2.5. Conclusione su anticipazioni e posticipazioni dirette
Analizzando tutti questi testi, osserviamo che tra tutti libri del NT ad eccezione dell’Apocalisse che utilizza però un altro linguaggio
(prevalentemente metaforico) - l’epistola agli Ebrei, nonostante si
dilunghi estesamente soprattutto sul significato dei suoi servizi e della
Persona che vi ufficia, è quello che offre il contributo più importante per
una teologia del santuario celeste in sé.
Riassumendo quanto abbiamo visto in questa sezione - e ci siamo trovati
ancora solo di fronte a testi marginali rispetto al cuore dell’Epistola! - notiamo
l’esistenza di diverse parole ed espressioni chiave che presuppongono l’esistenza di
un santuario celeste, la cui natura cercheremo di individuare più avanti, con un suo
ruolo quale centro celeste di gloriosa maestà e dispensazione della grazia divina.
Espressioni come «alla destra della Maestà» (Eb 1,3), «il trono della grazia»
(Eb 4,16), «tenda» (Eb 9,11), «il monte Sion» e «la città del Dio» (Eb 12,22; 13,14),
«la Gerusalemme celeste» (Eb 12,22), «entrare nel santuario» (Eb 10,19), «entrato nel
santuario» (Eb 9,24), «(speranza) che penetra nell’interno del velo» (Eb 6,19), «più in
153
KUSS, Ebrei, 174.
51
alto dei cieli» (Eb 7,25), sono tra i riferimenti più importanti e sono ben distribuiti in
tutta l’Epistola, con una maggiore densità nei capitoli 8, 9 e 10, a conferma del fatto
che l’Autore non vede l’esistenza del santuario come un fatto marginale della sua
teologia, ma come una realtà diffusa che la sostiene. La nostra comprensione per la
descrizione del santuario in Ebrei non è da intendere in senso letterale ma come una
metafora per la Nuova Gerusalemme.
1.4.3. Anticipazioni indirette
Oltre alle anticipazioni e alle posticipazioni dirette, esplicite, che
abbiamo appena trattato, ne abbiamo alcune indirette: il «trono» (Eb1,8;
4;16) e «sopra i cieli» (Eb 7,26), che abbiamo in parte già analizzato ma
che riconsideriamo ora più compiutamente.
1.4.3.1. Prima anticipazione indiretta: il tema del «trono» – Eb
1,8154
Testo
Πρὸς δὲ τὸν υἱόν· ὁ θρόνος σου ὁ θεὸς εἰς τὸν αἰῶνα τοῦ αἰῶνος, καὶ ἡ
ῥάβδος τῆς εὐθύτητος ῥάβδος τῆς βασιλείας σου. Eb 1,8.
Al Figlio invece dice: Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli; e: Lo
scettro del tuo regno è scettro di equità155. Eb 1,8.
Analisi del testo
154
Il tema del trono è presente anche in Eb 4: «Avviciniamoci dunque con
sicurezza al trono della grazia» (Eb 4,16a).
155
Molto diversa la traduzione ARV: «Il tuo trono è Dio» - «Thy throne is
God» (Eb 1,8). Altre traduzioni: «Thy throne, O God» (ASV, NOR, NIV); «Your
throne, God» (NJB); «Thy throne, Aloha» (ETH); «Filium autem thronus tuus Deus»
(VUL e VUC). Cheyne dice che l’espressione «scettro del tuo regno» non concorda
con il testo ebraico e «con la religione del salmista»: T.K. CHEYNE, The Book of
Psalm, London 1888, 127.
52
Il binomio trono–scettro costruito sull’antitesi πρὸς µέν (1,7) πρὸς δέ (1,8)156, oltre a essere un riferimento esplicito alla regalità di
Cristo, fa indirettamente riferimento anche alla dimora di Dio. La coppia
θρόνος - ῥάβδος 157 fa parte di un discorso più ampio (Eb 1,7-12) e
rappresenta lo sviluppo e la spiegazione finale di quanto già asserito nel
v. 6: «E lo adorino tutti gli angeli di Dio». L’adorazione di fronte al trono
della gloria, è un tema prediletto dalla letteratura mistica. I libri profetici
di Ezechiele, Daniele e Apocalisse, oltre ai mistici della letteratura
hekhalot vi fanno diversi riferimenti158.
Il v. 8 è inserito in un contesto dove si parla degli angeli (vv 57)159, ma solo per dare «maggior rilievo all’infinita differenza che c’è tra
essi e il Figlio»160. Πρὸς δὲ τὸν υἱόν conferma che le parole sono dette a
Cristo.
Il testo è un frammento del Sal 44,7ab LXX (Sal 44,8ab.9), che a
sua volta è un poema celebrativo per il matrimonio reale (Sal 45 nelle
versioni correnti). Le prime otto strofe sono dedicate allo sposo, le ultime
nove alla sposa. Il salmo non fa riferimento a Dio ma al re161 e alla sua
famiglia. Non abbiamo quindi, nel salmo, un riferimento diretto al trono
156
BRUCE, Hebrews, 59: «È senza dubbio una forte antitesi».
Potrebbero costituire una paronimia, anche se non sono accostati
direttamente.
158
R. ELIOR, Heikhalot Literature and Merkavah Tradition Ancient Jewish
Mysticism and its Sources, Tel Aviv 2004, 84. Nel secondo capitolo, dedichiamo un
excursus al tema del trono nella letteratura mistica heikhalot.
159
Il contrasto tra gli angeli e il Figlio è stato notato da James Thompson e
Kenneth L. Schenck: J.W. THOMPSON, Hebrews, Grand Rapids 2008, 53-54 e K.L.
SCHENCK, Cosmology and Eschatology in Hebrews: The Settings of the Sacrifice,
New York 2007, 123.
160
F. OGARA, Christus Rex in throno sedens: Angeli ministri (Hebr. 1,7), in
Verbum Domini 13 (1933) 41-50. Stesso pensiero anche in TEODORICO, L’Epistola
agli Ebrei, 47.
161
Non sappiamo a quale re specifico si riferisca. Oesterlev crede che la
frase «la figlia di Tiro» potrebbe essere un indizio per il matrimonio di Achab:
W.O.W. OESTERLEY, The Psalms, London 1953, 250.
157
53
di Dio. Nonostante questo, l’autore dell’Epistola agli Ebrei riprende il
testo dei LXX, inserendolo nel contesto del trono celeste:
ὁ θρόνος σου ὁ θεός εἰς τὸν αἰῶνα τοῦ αἰῶνος (Sal 44,7 LXX)
θρόνος, σου ὁ θεὸς εἰς τὸν αἰῶνα τοῦ αἰῶνος (Eb 1,8)
Riferimenti al santuario celeste
Come abbiamo già detto, θρόνος è una anticipazione di quanto
ritroveremo in Eb 8,1, e può avere vari significati. Il termine, in sé, può
riferirsi al trono regale, a quello del giudice (Eb 12,2; Ap 20,11), della
gloria (Is 22,23), della grazia (Eb 4,16), della salvezza (Ap 21,3). Per il
significato che assume nel nostro testo abbiamo scelto i testi che si
riferiscono a Dio e alla sua dimora.
a. Trono di giudizio/mediazione/grazia. Nel contesto dell’AT il
profeta Daniele vede l’Antico dei giorni, con «[…] La sua veste candida
come la neve […] il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote
come fuoco ardente» (Dn 7,9). Il contesto giuridico è molto chiaro: «[…]
La corte sedette e i libri furono aperti» (Dn 7,10). Ezechiele nell’AT, e
l’Apocalisse nel NT descrivono le scene di adorazione sempre come
svolte «davanti al Trono» (Ap 4,4-6; 5,1.6.7; 6,6; 7,17; 8,3; 14,3; 19,5;
20,12; 21,3; 22,1).
Nella lettera agli Ebrei il termine θρόνος rivela un contesto forense.
Fa infatti riferimento al «trono della grazia», (Eb 4,16), dove il nostro
Sommo sacerdote è assiso alla destra del trono di Dio (Eb 8,1; 12,2).
b. Trono di gloria. «[…] io vidi il Signore seduto su un trono
alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio» (Is 6,1): è
l’immagine della regalità gloriosa di Dio, e anche Cristo un giorno si
54
siederà su quel trono: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria,
e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31).
Nella Nuova Gerusalemme ci sarà un trono condiviso da Dio e
dall’Agnello: θρόνου τοῦ θεοῦ καὶ τοῦ ἀρνίου (Ap 22,1).
Il trono menzionato in Eb 8,1 e 12,2 rispecchia il significato già
evidenziato che ha in Eb 1,8 e 4,16. Approfondiremo questi significati
quando analizzeremo in dettaglio il cap. 8.
1.4.3.2. Seconda anticipazione indiretta: «elevato sopra i
cieli». Eb 7,26162
Testo
Τοιοῦτος γὰρ ἡµῖν καὶ ἔπρεπεν ἀρχιερεύς, ὅσιος ἄκακος ἀµίαντος,
κεχωρισµένος ἀπὸ τῶν ἁµαρτωλῶν καὶ ὑψηλότερος τῶν οὐρανῶν
γενόµενος. Eb 7,26.
Questo era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza
macchia, separato dai peccatori ed elevato sopra i cieli. Eb 7,26.
Nel capitolo 7 troviamo una serie di tre riferimenti al sacerdozio
inseriti nelle tre sezioni del lungo testo rapportato a Melchisedek (Eb
6,28-7,28). In queste tre sezioni troviamo, successivamente, un primo
riferimento al «sacerdozio di Melchisedek» (Eb 6,28-7,10), un secondo
ad «un altro sacerdote» (Eb 7,11-16), e un terzo al «sommo sacerdote per
sempre» (Eb 7,17-28). Le tre parti sono tematicamente collegate tra loro
162
In uno studio molto accurato, Garuti conclude che Eb 10,11-18 «rientra
[più] nell’“orbita“ del capitolo settimo che in quella dei capitoli 8 e 9»: GARUTI,
Ebrei, 257-285. Per le divergenti opinioni dei commentatori vedi VANHOYE, Ebrei,
1976, 162, nota 1.
55
dalla frase: «secondo l’ordine di Melchisedek» (Eb 6,20; 7,11; 7,17).
L’ultima sezione ripropone, oltre a questa proposizione di collegamento,
anche la tesi del capitolo: «Tu sei sacerdote per sempre». Dopo
quest’affermazione, i versi 18-21 sviluppano, con forma molto curata e
logica, la costruzione dell’argomentazione che troverà il suo κεφάλαιον
nel capitolo 8. Questi quattro versi ci interessano particolarmente perché
gettano le ultime pietre delle fondamenta sulle quali è costruito il capitolo
8.
Analisi del testo
Questi quattro versi (Eb 7,18-21) hanno una forma chiastica,
antitetica, e rappresentano la base dell’argomentazione complessiva della
terza sezione. I versi 25-26, in forma ascendente e affermativa,
rievocando gli aggettivi di gloria giù usati in 1,2-3 e ancora prima nel Sal
101, costituiscono la parte centrale. Gli ultimi versi (26-28) sono da
conclusione riassuntiva di tutti i temi precedentemente trattati: la legge, il
giuramento, la temporaneità del sacerdozio levitico, il sacerdozio di
Cristo.
Ecco in breve la configurazione logica dei vv. 18-21
18 A. Infatti da una parte (µέν)
B. Il precedente ordinamento
19 A’. Dall’altra parte (δέ)
B’. [...] è stata fatta entrare nel
è stato abrogato [...]
(ἐντολῆς)163
20 A. Altri […] divenuti sacerdoti
B. Senza giuramento
mondo una speranza […]
(ἐλπίδος)
21A’. (Cristo) Sacerdote in eterno
B’. Con giuramento da parte di
Colui che gli ha detto
[…]164.
163
Nel senso generico di comandamenti.
Il diagramma è elaborato sulla base del testo delle Edizioni Paoline
(2005) con nostre note.
164
56
L’antitesi οἱ µέν … ὁ δέ (v. 18-19 e 20-21)165 crea una cadenza
specifica, antitetica, ripresa nei testi successivi166. L’ Ἐντολῆς del verso
18 (ἀθέτησις µὲν γὰρ γίνεται προαγούσης ἐντολῆς) è in antitesi con
l’ἐλπίδος nel verso 19 (δὲ κρείττονος ἐλπίδος). Il verso 21- [...] ὤµοσεν
κύριος καὶ οὐ µεταµεληθήσεται· σὺ ἱερεὺς εἰς τὸν αἰῶνα, rappresenta la
base per il verso 22 - τοσοῦτο [καὶ] κρείττονος διαθήκης γέγονεν ἔγγυος
Ἰησοῦς. Lo stesso procedimento ricompare costantemente nei capitoli 8, 9 e
10167.
Le prime parole del verso 20 - kαὶ καθ᾽ ὅσον οὐ χωρὶς ὁρκωµοσίας
(Eb 7,20), come afferma Sampson168, formano una struttura ellittica169
con le ultime del verso 22 - γέγονεν ἔγγυος Ἰησοῦς (Eb 7,22): «Inoltre ciò
non avvenne senza giuramento» (v.20), e consegue che «Gesù è diventato
garante di un’alleanza migliore» (22). È come se la prima affermazione
del v. 20 fosse la protasi che trova risposta nell’apodosi del v. 22: «Tutto
quello che viene tra protasi e apodosi», continua Sampson, «è parentetico
confermando l’asserzione che Cristo è onorato con il giuramento».170
Questo «giuramento» di Dio - ὁρκωµοσία (v. 20,28) è un termine forense
che richiede l’esistenza di «un’aula di tribunale» o di una sala del trono.
165
Secondo Garuti, il testo è una composizione di 6 antitesi affiancate da
diverse figure stilistiche: Eb 7,1-3 narratio con enumerazione; 7,4 allocuzione; 7,5
prima antitesi; 7,8 seconda antitesi; 7,9.10 opposizione con ossimoro; 7,11 quæstio
rhetorica; 7,15-16 constatazione con antitesi; 7,18-19 terza antitesi; 7,20-22 quarta
antitesi; 7,23-25 quinta antitesi; 7,25-26 entopea; 7,28 sesta antitesi. GARUTI, Ebrei,
157.
166
L’antitesi µέν … ὁ δέ è utilizzata tre volte (Eb 7,18-19; 20-21 e 23-24). La
sua presenza imprime lo stile antitetico nei v.18-28, ad eccezione dell’etopea nei v.2527.
167
Eb 8,13; 9,1; 10,10 e 10,11. Il procedimento suggerisce l’idea di
successione o di continuità tematica.
168
SAMPSON, Critical Commentary, 275.
169
Noi segnaliamo una struttura ellittica nei vv. 20-21: «Non è avvenuto
senza giuramento […] sono stati fatti sacerdoti senza giuramento».
170
SAMPSON, Critical Commentary, 275.
57
La sala del giuramento diventa, nell’ottica di questo passo, la sala del
patto.
L’antitesi οἱ µέν … ὁ δέ, riflessa in tutto il testo, realizza nei versi
23-24, attraverso il gioco dei contrasti, «le tre colonne» per l’etopea dei
versi 25-26 che culmina con la dichiarazione/anticipazione del sacerdozio
del Figlio nell’«alto dei cieli». Le tre colonne sono: l’unicità, l’eternità e
l’immutabilità del sacerdozio del Figlio.
v. 23
v. 24
οἱ µέν [...] da un lato
A. Sacerdoti in gran numero
B. La morte impediva loro di durare
C. Sacerdozio che tramonta
[…] ὁ δέ dall’altro
A’. Lui ( uno)
B’. Resta per sempre
C’. Sacerdozio che non
tramonta
L’inizio del verso 25 con l’avverbio ὅθεν causale - «perciò» o
«pertanto» - introduce l’etopea chiave dei versi 25 e 26, che a sua volta,
prepara, la strada verso «il santuario» (26b); Salva perfettamente Sempre vivo - Intercessore - Santo - Innocente - Senza macchia Separato dai peccatori - Elevato sopra i cieli
«Elevato (ὑψηλότερος)
171
sopra i cieli» oltre a essere un
riferimento alla Ascensione è anche un riferimento indiretto al tempio
celeste, come «luogo di ascensione». In At 5, 31 il testo dice che Dio «ha
esaltato immensamente» Cristo: il verbo ὑψόω «esaltare», lo stesso che
troviamo in Ebrei è diverso di 1 Tim 3,16 dove abbiamo ανεληφθη «fu
assunto»172. Ὑψηλός non è soltanto un riferimento all’ascensione ma
171
Hapax nel NT.
Per approfondimenti vedi G. CAVALCOLI, La gloria di Cristo.
Risurrezione, ascensione, pentecoste, parusia, Bologna 2002,132.
172
58
anche alla gloria e l’onore di Cristo alla presenza del Padre. Il termine
οὐρανός ritorna in Eb 9,24 con l’affermazione precisa, «Cristo infatti non
è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma
nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore»
(Eb 9,24).
1.4.3.3. Conclusione sulle anticipazioni indirette
Pur essendo diverse come struttura e messaggio tematico, le
anticipazioni indirette, portano l’attenzione verso il «funzionamento» del
santuario. Questo è un luogo di espiazione, dove Cristo intercede in loro
favore (Eb 7,25) per purificare anche «le realtà celesti» (Eb 9,23; 12,14),
è luogo di realizzazione di «un sacerdozio che non tramonta» (Eb 7,22),
da parte di Cristo il nostro «sommo sacerdote […] santo, innocente» (Eb
3,1; 7,24. 26), è luogo del giuramento perché il «Signore ha giurato e non
se ne pentirà» (Eb 7,21), un luogo di adorazione e partecipazione alla
«alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all'adunanza festosa»
(Eb 12,22-24), un luogo «un’alleanza migliore» (Eb 7,22), luogo di
rifugio, di «grazia» (Eb 4,16), e infine, luogo dove troviamo «una
speranza migliore, grazie alla quale noi ci avviciniamo a Dio» (Eb 7,19).
1.5. Il contesto tipologico del santuario
1.5.1. Introduzione alla tipologia in Ebrei.
La tipologia come metodo di studio esegetico173 è di fondamentale
importanza per la nostra ricerca. A nostro parere è l’itinerario obbligato
173
Vedi K.J. WOOLCOMBE, The Biblical Origin and Patristic Development of
Typology, Essays on Typology, 1957, 39; A. BERKELEY MICKELSEN, Interpreting the
Bible, Typology, Grand Rapids 19724, 112-113; L. GOPPELT, Typos: The Typological
Interpretation of the Old Testament in the New, Grand Rapids 1982, 35; G.R.
59
da percorrere per trovare la strada verso il santuario celeste. Vista la sua
importanza, è necessario rivolgere preliminarmente un breve sguardo a
questo metodo di lettura.
La scuola tradizionalista, rappresentata da J. Cocceius e K.
Woolcombe, ha visto in Ebrei una tipologia strettamente radicata nella
storia. Per gli allievi di Cocceius174, l’AT e il NT sono due parti distinte
della stessa realtà e la comprensione del NT deve necessariamente
passare attraverso l’AT. Il τύπος di Cocceius è predittivo e prefigurativo,
anche nei minimi dettagli.
Al lato opposto abbiamo la scuola critica, rappresentata da
Marshian 175 e Fairbairn 176 , che nella tipologia vedono piuttosto una
retrospettiva: le prefigurazioni sono solo delle analogie, senza regole
precise di interpretazione e senza essere così fortemente radicate nella
storia177.
L’epistola agli Ebrei è costruita su diverse categorie tipologiche178,
abbiamo una tipologia storica, ecclesiologica, teologica e soteriologica
con riferimenti179 al Cristo-sacerdote, al santuario, alla sua struttura180, al
sacerdozio, alle feste, ai sacrifici, al patto e alla salvezza. Sono usati gli
OSBORNE, Type; Typology, ISBE, a cura di G.W. Bromiley, Grand Rapids 1988, IV,
930-932; R.R. ANDERSON, Types in Hebrews, New York 2007, 37-45.
174
«The Cocceian mode» dal nome del suo ideatore Johannes Cocceius, in
R.M. DAVIDSON, Typology in the Book of Hebrews, in Issues in the Book of Hebrews,
a cura di F.B. Holbrook, Silver Spring 1989, 126.
175
«The Marshian mode» dal nome di Herbert Marsh in DAVIDSON,
Typology, 126.
176
Patrick Fairbairn, più moderato, è l’espositore di una teoria del «buon
senso» sostenuta dai principi dell’ermeneutica: DAVIDSON, Typology, 15-114.
177
C.R. SEITZ, Figured Out: Typology and Providence in Christian
Scripture, Louisville 2001, 13.
178
SWAGGART, Hebrews, 448.
179
Eb 8,2.5; 9,2.3.6.8.11.21; 13,10.
180
Ci sono vari riferimenti al santo e al santo dei santi, all’altare
dell’olocausto, alla cortina, al candeliere, alla tavola dei pani, all’altare dei profumi e
all’arca del patto in Eb 8,2.5; 9,2.3.6.8.11.21; 10,20; 13,10.
60
stessi concetti che troviamo nell’AT, a volte anche le stesse parole
tradotte in greco: ad esempio pārōket con καταπέτασµα e qōdeš o
miqdāš, con ἅγιος.
La complessità della tipologia e le controversie che suscita non ci
consentono comunque di ignorarla nel nostro studio di Ebrei. C’è «un
accordo generale tra i ricercatori» sul fatto che «l’epistola agli Ebrei
contenga strutture tipologiche» 181 . «Tutti i commentatori», continua
Smith, «riconoscono l’esistenza della tipologia in Ebrei»182. Il consenso
generale riguarda soprattutto Eb 8,5 e 9,24.
Τύπος, che letteralmente significa «marchio», «immagine»,
«forma»183, per metonimia è anche l’impronta lasciata da un marchio o da
un sigillo. In Gv 20,25 è «il segno dei chiodi» lasciato sulle mani e sul
petto di Gesù, oppure sono le immagini degli dei in At 7,43. In Rm 6,17 è
la «forma di insegnamento» (τύπον διδαχῆς) che è stata tramandata e
accolta; mentre in At 23,25 è la forma, il tenore di una lettera. Τύπος è
anche l’esempio o il modello in conformità al quale doveva essere eretta
una struttura (At 7,44; Eb 8,5). In senso etico è un esempio da imitare (1
Cor 10,6.11; 1 Tm 4,12; 2 Pt 5,3; 2 Ts 3,9).
Τύπος si trova venti volte nel NT, in sei delle quali è menzionato in
ambiente ermeneutico, che richiede cioè una interpretazione fornita nel
testo. Di questi sei riferimenti, tre riportano la forma τύπος (Rm 5,14; 1
181
J. SMITH, A Priest Forever: A Study of Typology and Eschatology in
Hebrews, London 1969, 10 -30.
182
SMITH, Typology and Eschatology in Hebrews, 30.
183
Vedi anche lo studio molto accurato: L. GOPPELT, τύπος in TDNT, VII,
246-259. Vedi anche J.H. MOULTON - G. MILLIGAN, Vocabulary of the Greek
Testament, London 1930, 645 e A. VON BLUMENTHAL, Τύπος und παράδειγµα dans
Hermes, 63 (1928) 391-414, cit. in BDAG 674. Στίβου τύπος «l’orma di un passo»,
Soph: -. τύποι «segni», «lettere», Plat. ὁ τ. τῶν ἵππων «il suono del loro battistrada»,
Xen.; Per Horst Blaz è «esempio» o «modello» in H. BLAZ – G. SCHNEIDER,
Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, a cura di O. Soffritti, Brescia 1998 II,
1668.
61
Cor 10,6; Eb 8,5); due la forma ἀντίτυπος (Eb 9,24; 2 Pt 3,21), e uno la
forma τυπικῶς (1 Cor 10,11).
Richard
Davidson
individua
cinque
tipi
di
«strutture»
tipologiche184. Poiché la nostra ricerca non ha lo scopo di analizzare il
metodo tipologico in generale, non considereremo qui queste strutture in
quanto tali, ma prenderemo spunto da esse per organizzare gli elementi
tipologici presenti in Ebrei.
1.5.1. Elementi tipologici in Ebrei collegate al santuario celeste
1.5.1.1. «La città di Dio»
L’espressione «città di Dio» non è semplice da collocare. Per il suo
avvicinamento all’idea di Chiesa abbiamo scelto di considerarla parte
della
struttura
ecclesiologica
di
cui
analizzeremo
qui
alcune
componenti185.
a. Abramo e la patria celeste - Eb 11,16
Testo
Νῦν δὲ κρείττονος ὀρέγονται, τοῦτ᾽ ἔστιν ἐπουρανίου. διὸ οὐκ
ἐπαισχύνεται αὐτοὺς ὁ θεὸς θεὸς ἐπικαλεῖσθαι αὐτῶν· ἡτοίµασεν γὰρ
αὐτοῖς πόλιν. Eb 11,16.
184
Davidson individua le seguenti: storiche, cristologico-soteriologiche,
escatologiche, ecclesiologiche, profetiche: DAVIDSON, Typology, 126-133.
185
All’interno di questa struttura possiamo individuare i seguenti temi: Typos:
seme di Abramo» (Eb 2,16) σπέρµατος Ἀβραὰµ; Anti typos: Chiesa (ἀδελφοῖς Eb 2,17) e il popolo «seme di Abramo» [Ἀβραὰµ (τὸν Ἰσαὰκ) κληθήσεταί σοι σπέρµα
– Eb 11,18]. Typos: Mosè e la casa di Dio (Μωϋσῆς ἐν [ὅλῳ] τῷ οἴκῳ - Eb 3,2); Anti
typos: Cristo e la Chiesa Eb 3,6). Typos: Abramo nella ricerca della «la città di Dio»
ἐξεδέχετο γὰρ τὴν τοὺς θεµελίους ἔχουσαν πόλιν ἧς τεχνίτης καὶ δηµιουργὸς ὁ θεός –
Eb 11,10.16); Anti typos: «noi» (Eb 11,40). Typos: Mosè è il Monte Sinai (Eb
12,18.21); Anti typos: «Monte Sion, Gerusalemme celeste» (Ἰερουσαλὴµ ἐπουρανίῳ
-Eb 12,22-23).
62
Ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per
questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato
infatti per loro una città. Eb 11,16.
Analisi del testo
Dopo la promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza per una
nuova «città» e una «patria migliore» (Eb 11,16), al versetto 18 viene
ribadita la promessa della «discendenza», di un seme, «σπέρµα». Questo
concetto del «seme» è molto importante. Di esso si era già parlato in Eb
2: «Egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di
Abramo» (Eb 2,16), σπέρµατος Ἀβραάµ, che dovrebbe riferirsi,
storicamente, al popolo d’Israele, ma Eb 2,17 lo usa come sinonimo di
quegli uomini di cui Gesù si è reso fratello - τοῖς ἀδελφοῖς - e per i quali,
in quanto loro sommo sacerdote, provvede a fare l’espiazione dei peccati.
È dunque chiaro che per Ebrei, il «seme d’Abramo» acquista il
significato di
Chiesa cristiana con la quale stabilisce un rapporto
tipologico. L’espressione σπέρµατος Ἀβραάµ non è nuova nel NT186 e
non è da escludere che l’Autore si sia ispirato all’uso neotestamentario
già attestato. Un testo al di fuori di Ebrei, che offre un importante
sostegno al rapporto tipologico con la Chiesa è dato da Gal 3,29: «Se
appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo [Ἀβραάµ
σπέρµα ἐστέ]».
Il rapporto tipologico tra vecchio Israele e Chiesa si sviluppa anche
attorno al seme d’Abramo: Abramo e i suoi primi discendenti vissero
nella terra promessa come forestieri, «egli aspettava infatti la città dalle
salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (Eb 11,810), «[patria] migliore […] celeste» (v. 16). Nella conclusione del
186
L’espressione σπέρµατος Ἀβραάµ è riportata varie volte nel NT (Rm 9,7;
11,1 2 Cor 11,22).
63
discorso si ribadisce il fatto che questa città tanto attesa è quella che «Dio
[…] ha preparato loro» (Eb 11,16), ma poi, al v. 40, si aggiunge che
quella stessa patria-città, Dio l’ha preparata anche «per noi» (v. 40). Il
«loro» e il «noi» stanno all’estremità di un’unica linea di promesse, di
speranza, di realizzazione. L’uno porta all’altro e lo include.
Un altro aspetto tipologico che si rivela in questi testi è nel
rapporto tra la speranza dei Padri e quella della Chiesa. Entrambi
aspettano una patria, una città migliore, ma Ebrei osa definire celeste
anche quella attesa dai patriarchi. Come se fosse del tutto naturale che la
speranza antica, fosse, di fatto, l’immagine, il tipo di quella nuova.
Notiamo infine, per ora solo en passant, come l’aggettivo
ἐπουράνιος attribuito alla nuova città attesa (v.16) da Abramo con i suoi
figli e dalla Chiesa, serva anche a definire la Gerusalemme celeste (Eb
12,22). Tale aggettivo fa evidentemente riferimento alla dimora vera di
Dio, in opposizione con l’aggettivo-sostantivo κοσµικόν (Eb 9,1) riferito
al santuario terreno.
b. Mosè e «la città di Dio» - Eb 12,18.21-22
Testo
Οὐ γὰρ προσεληλύθατε ψηλαφωµένῳ καὶ κεκαυµένῳ πυρὶ καὶ γνόφῳ
καὶ ζόφῳ καὶ θυέλλῃ […]ἀλλὰ προσεληλύθατε Σιὼν ὄρει καὶ πόλει Θεοῦ
ζῶντος, Ἱερουσαλὴµ ἐπουρανίῳ, καὶ µυριάσιν ἀγγέλων, πανηγύρει καὶ
ἐκκλησίᾳ πρωτοτόκων ἀπογεγραµµένων ἐν οὐρανοῖς, καὶ Κριτῇ Θεῷ
πάντων, καὶ πνεύµασι δικαίων τετελειωµένων, καὶ διαθήκης νέας
µεσίτῃ Ἰησοῦ, καὶ αἵµατι ῥαντισµοῦ κρεῖττον λαλοῦντι παρὰ τὸν
Ἄβελ… Eb 12,18.22-24.
Voi infatti non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco
ar-dente né a oscurità, tenebra e tempesta […] voi invece vi siete
64
accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme
celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei
primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli
spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al
sangue purifica-tore, che è più eloquente di quello di Abele. Eb
12,18.22-24.
Analisi del testo
Il brano è sostanzialmente composto dalla celebre antitesi tra la
teofania del monte Sinai e la Gerusalemme celeste. Attraverso la
negazione οὐ γὰρ (Eb 12,18), l’Autore descrive il superamento delle
realtà terrene visibili contrapponendovi la realtà nuova delle realtà
invisibili, celesti. L’antica realtà è descritta come: 1. monte che si poteva
toccare con mano, 2. che ardeva col fuoco, 3. pieno di caligine, 4.
tenebre, 5. tempesta, 6. squillo di tromba, 7. suono di parole (Eb
12,18.19). Sette
caratteristiche
cui
si
contrappongono
le
sette
caratteristiche della realtà celeste: 1. «Monte Sion», 2. «città del Dio
vivente», 3. «Gerusalemme celeste» (Ἰερουσαλὴµ ἐπουρανίῳ), 4.
«festante riunione delle miriadi angeliche», 5. «assemblea dei primogeniti
che sono scritti nei cieli», 6. «Dio giudice di tutti», 7 «spiriti dei giusti
resi perfetti» (Eb 12,22-23).
È evidente come i singoli elementi di questi due settenari non
corrispondano
pienamente
l’uno
all’altro,
ma
l’insieme
vuole
evidentemente contrapporre la realtà terrena materiale e terrifica a quella
celeste piena di fraternità e gioia. Desideriamo anche attirare l’attenzione
sul fatto che le due serie sono accomunate da una idea comune, fondante
di entrambe: quella del Monte Sinai, stranamente non esplicitamente
chiamato così all’inizio del primo settenario, come invece avviene
all’inizio del secondo, dove ce lo aspetteremmo, visto il desiderio
dell’Autore di superare la realtà antica, il passaggio diretto all’idea di
65
«città del Dio vivente». È evidente che l’Autore vuole recuperare l’idea
di «monte», ma facendo del «Monte Sinai» veterotestamentario il tipo
della realtà celeste che poi ampiamente descrive.
L’apertura del nostro testo, visto nella sua interezza - è costruita
con una seria di omeoteleuti
187
facenti rima: ψηλαφωµένῳ/καὶ
κεκαυµένῳ; καὶ γνόφῳ/καὶ ζόφῳ (Eb 12,18). Seguono le strutture
sindetiche con ripetizioni del καὶ e le strutture binarie, composte dai
chiasmi che alternano genitivi e dativi. La conclusione è centrata sul
verbo λαλέω (Eb 12, 25). L’andamento a tratti binario può essere
osservato molto bene nel diagramma elaborato da P. Garuti:
Il monte Sinai
12,18
Οὐ γὰρ προσεληλύθατε ψηλαφωµένῳ
…
12,19
καὶ σάλπιγγος ἤχῳ …
12,20
οὐκ ἔφερον γὰρ τὸ διαστελλόµενον
κἂν θηρίον θίγῃ τοῦ ὄρους,
λιθοβοληθήσεται
12,21
καί, οὕτω φοβερὸν ἦν τὸ
φανταζόµενον, Μωϋσῆς
εἶπεν·ἔκφοβός εἰµι …
187
-
καὶ κεκαυµένῳ πυρὶ
καὶ γνόφῳ καὶ ζόφῳ
καὶ θυέλλῃ
καὶ φωνῇ ῥηµάτων,
ἧς οἱ ἀκούσαντες
παρῃτήσαντο µὴ
προστεθῆναι αὐτοῖς
λόγον,
- καὶ ἔντροµος.
GARUTI, Ebrei, 150.
66
Sinai celeste
12,22
ἀλλὰ προσεληλύθατε Σιὼν ὄρει …
- καὶ πόλει θεοῦ
ζῶντος,
- Ἰερουσαλὴµ
ἐπουρανίῳ,
- καὶ µυριάσιν ἀγγέλων,
12,23
πανηγύρει …
- καὶ ἐκκλησίᾳ
πρωτοτόκων
ἀπογεγραµµένων ἐν
οὐρανοῖς
- καὶ αἵµατι ῥαντισµοῦ
κρεῖττον λαλοῦντι
παρὰ τὸν Ἅβελ188
καὶ κριτῇ θεῷ πάντων καὶ πνεύµασι
δικαίων τετελειωµένων καὶ διαθήκης
νέας µεσίτῃ Ἰησοῦ …
Il collegamento tra Eb 12 e Eb 8 e 9 è realizzato attraverso parallelismi
verbali e di significato:
Σιὼν ὄρει (12,22)
[...] ἐν τῷ ὄρει (8,5)
κριτῇ θεῷ πάντων (12,23)
τῷ προσώπῳ τοῦ θεοῦ (9,24)
ἐκκλησίᾳ πρωτοτόκων ἐν οὐρανοῖς ἐν τοῖς οὐρανοῖς (9,23)
(12,23)
διαθήκης νέας µεσίτῃ Ἰησοῦ (12,23)
διαθήκης καινῆς µεσίτης ε (9,15)
αἵµατι ῥαντισµοῦ (12,23)
εἰς ἀθέτησιν [τῆς] ἁµαρτίας διὰ τῆς
θυσίας αὐτοῦ πεφανέρωται. (9,26)
κριτῇ θεῷ πάντων (12,23)
τοῦτο κρίσις, (9,27)
L’andamento a tratti binario è molto evidente. Valorizzeremo
maggiormente queste corrispondenze al capitolo 4.
188
GARUTI, Ebrei, 151.
67
c. La Gerusalemme celeste189
L’Autore, iniziando la sua lista descrittiva della realtà celeste con
«il monte Sion», seguito dalla «città del Dio vivente», cioè la
«Gerusalemme celeste»; vuole dirci che il vero Monte Sinai, il vero luogo
di incontro, di alleanza, di salvezza, è la realtà celeste centrata sulla vera
città di Dio. Questa è il luogo dove veramente «soggiorna» Dio (1 Re
8,27-49). Una città ben fondata, della quale l’«architetto e costruttore» è
«Dio stesso» (Eb 11,10.14-16). Essa è la «città che deve venire» (Eb
13,14), non ancora quindi visibilmente manifestata. Paolo parla anche
altrove della «Gerusalemme celeste» e dice che «è la nostra madre«
(Gal 4,24-26). L’Apocalisse la chiama «la nuova Gerusalemme che
discende dal cielo» perché è celeste (Ap 3,12; 21,2.10). L’immagine di
Gerusalemme celeste si fonda sul valore tipologico della Gerusalemme
terrena di cui è l’antitipo.
Considerando i riferimenti alla città di Gerusalemme, vale la pena
di osservare un piccolo dettaglio connesso a Melchidesek 190 , figura
centrale di tutto il libro, ricordato con Abramo e Mosè per il fatto che
sono τύποi di Cristo. Melchidesek era re e sacerdote di ‘El’eljôn, il «Dio
altissimo», «creatore del cielo e della terra» (v. 22), che benedisse
Abramo e, «ed egli diede a lui la decima di tutto» (Gn 14,18-20).
Secondo gli scritti rabbinici191, Melchidesek esercitava il suo sacerdozio
189
Alcuni paragrafi sono stati pubblicati nella revista Il Messaggero
Avventista (vedi nota 3).
190
Malkî-ṣeḏeq šālēm (Gn 14,18 ). LXX Μελχισεδέκ. Scritto: Malchizedek,
Melchisedech, Melchisedek, Melchisedeq o Melkisedek. Il nome potrebbe essere
tradotto: «Re di giustizia» (FRIBERG, Greek Lexicon, 257); «Re di Salem» (THAYER,
Greek -English Lexicon, 397).
191
Tg Neifiti, Gn 14,18 GenR. 43,6 56,10, MidrPss 76,3 in E. GRYPEOU – H.
SPURLING, The Book of Genesis in Late Antiquity: Encounters between Jewish and
Christian Exegesis, Leiden 2013, 229.
68
in un antico luogo sacro in Uru-Salem, identificata dagli stessi rabbini192
con Gerusalemme. Quest’opinione sarà sostenuta anche da alcuni
esponenti della prima Chiesa cristiana valorizzatida alcuni studiosi
dell’Ottocento 193 . Tale interpretazione si ritrova comunque anche tra
autorevoli studiosi contemporanei.194
Questa tradizione, molto conosciuta ai tempi della redazione del
nostro testo, giustifica, e in un certo senso anticipa l’equazione tra la
«città di Abramo» (Eb 11,10), la «città di Mosè» (Eb 11,26b), e la «nuova
Gerusalemme» (Eb 12,22-23; 13,14).
1.5.1.2. Il patto
Il concetto di «patto» fa parte della struttura soteriologicocristologica che include anche quelli riguardanti il sacrificio e il
sacerdozio. Esamineremo qui brevemente solo il primo, anche se gli altri
hanno comunque un rapporto stretto col santuario: «secondo la legge,
192
Secondo i commenti rabbinici, Melchidesec sarebbe Sem, il primo dei tre
figli di Noè, menzionati al capitolo dieci della Genesi (Gn 10,1,.22) il quale avrebbe
assegnato il nome Shalem a questa città» (Sota 12 a, Tan B Noah 5,6, Berešit 11,
Midr.Pss 9,7 in GRYPEOU, The Book of Genesis, 229).
193
PROCOPIO DI GAZA (Comm.Gen. in PG 87, 333); TEOFILO DI ANTIOCHIA
(Ad Autolycum Ii.31); CIRILLO DI ALESSANDRIA (Glaphira, in PG 69,81) e EPIFANIO
DI SALAMINA (Pan. 55:21) in GRYPEOU, The Book of Genesis, 221-222. «Standocene
però alla comune degli autori ne sarebbe stato il fondatore Melchidesecco […] si
dovrebbe fissare intorno l’anno 2023 dalla creazione del mondo» F. CASSINI DA
PERINALDO, Storia di Gerusalemme, Tomo 1, Roma 1857, I, 17. «Fondato da
Melchidesecco da 1900 anni a.C., a dodici leghe dal Mediterraneo, Gerusalemme si
chiamò da principio Salem (Pace)[…] Da quel tempo in poi questa città fu consacrata
al culto del Signore» B. HENRION, Storia universale delle missioni cattoliche, Tomo
1, Torino 1846, 153. «(Gerusalemme) fu edificata da Melchisedech l’anno del Mondo
2013» M. ZAPPULLO NAPOLITANO, Histoire dei Quattro principali Città del Mondo,
Gerusalemme, Roma, Napoli e Venezia, Vicenza MDCIII, 2. Secondo Grypeou,
«Efrem il Siro (Comm. Gen XI, 2) e Theodore Bar Konai (Lib.Schol. M. II. 124) non
credono che Sem fosse ancora in vita ai tempi di Abramo; Giulio Africano, Girolamo
ed Epifanio di Salamina credono che fosse un sommo sacerdote cananeo. Girolamo fa
riferimento a Ippolito, Ireneo, Eusebio di Cesarea, Apollinaire, Eustatico di Antiochia
che condividono tale ipotesi» GRYPEOU The Book of Genesis, 239.
194
Ad es. G. Ravasi, Il Libro della Genesi, Roma 2001, 29-30.
69
quasi tutte le cose vengono purificate col sangue […] era dunque
necessario che le cose raffiguranti le realtà celesti fossero purificate con
tali mezzi» (Eb 9,22-23).
Il vecchio patto con Israele (Eb 9,1) è il τύπος per un «patto
migliore», κρείττονός ἐστιν διαθήκης (Eb 8,6), con il «suo popolo» (Eb
8,10). Il primo prepara lo spazio per il secondo e quest’ultimo supera
grandemente le condizioni naturali del primo. I credenti possono ora
avvicinarsi «a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova, e al sangue
purificatore, che è più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24). Notiamo
come il sangue d’Abele stia in opposizione e, allo stesso tempo in
corrispondenza, con il sangue di Cristo. Il primo è il τύπος, il secondo è
l’ἀντίτυπος. Anche il sangue degli animali aἷµα τράγων καὶ ταύρων (Eb
9,13) è in corrispondenza tipologica con il sangue di Cristo che
«purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al
Dio vivente» (Eb 9,14).
1.5.1.3. La tenda
Per il nostro studio, il significato tipologico della tenda riveste un
significato fondamentale. È però importante notare due caratteristiche
essenziali di queste relazioni.
Il rapporto tra il τύπος e l’ἀντίτυπος si basa su elementi di
similitudine ma non di eguaglianza. Ad esempio: Melchisedek, «senza
padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di
vita» (Eb 7,3) è soltanto «fatto simile al Figlio di Dio», non è uguale al
Figlio che «rimane sacerdote per sempre» (Eb 7,3). Se Melchisedek
diventa tipo del Cristo è solo perché di lui, per una casualità, non
vengono narrate le origini e gli antenati, apparendo come se non avesse
origini. Nonostante questo era un essere umano, nato in un certo periodo
70
storico e a differenza della realtà del Cristo, aveva avuto un inizio ed una
fine.
La relazione τύπος-ἀντίτυπος prevede non soltanto un legame ma
anche un’escalation, un’intensificazione di natura e di valore tra quanto
prefigurato nell’AT e quanto esistente in Cristo195. Un esempio è dato in
Mt 12,41.42 dove Giona e Salomone sono il τύπος di Cristo: «tuttavia qui
c’è più che Giona!» (v. 41); «qui c’è più che Salomone!» (v. 42). In Ebrei
il ministero di Cristo è «tanto più eccellente (Eb 8,6) in quanto è basato
sull’alleanza «più eccellente» (Eb 8,6), con sacrifici «perfetti» (Eb 9,23) e
con sangue migliore (Eb 9,13-14).
È evidente la rilevanza di questo fatto per comprendere anche il
significato che Ebrei attribuisce alla tenda-tabernacolo celeste.
Esaminando τύπος e ἀντίτυπος in Eb 8,5 e Eb 9,1-8, troviamo un
fatto sorprendente: nei testi che non appartengono ad Ebrei (ad esempio
Mt 12; Rm 5; 1 Cor 10), il τύπος inferiore risiede nell’AT mentre il suo
ἀντίτυπος superiore nel NT. Quest’equazione, nell’epistola agli Ebrei, è
rovesciata: dall’AT viene l’ἀντίτυπος inferiore, mentre la perfezione
risiede nel τύπος che «fa riferimento alla realtà NT (celeste)»196. Questo
fatto non elimina comunque il rapporto precedentemente descritto tra tipo
e antitipo, ma lo ripete a termini rovesciati.
1.5.1.4. Conclusione sugli elementi tipologici in Ebrei
In Ebrei 8 e 9 troviamo corrispondenze tipologiche orizzontali e
verticali. Le strutture orizzontali presentano correlazioni storiche con
elementi del culto ebraico: la tenda (Eb 8,2.5), il sacerdozio (Eb 8,3), il
patto (Eb 8,8.9), e il sacrificio (Eb 9,12-14.28). Le strutture verticali
195
196
DAVIDSON, Typology, 130.
DAVIDSON, Typology, 150.
71
presentano gli stessi elementi ma disposti pazialmente in modo diverso,
correlati alla divinità. L’esistenza storica del tempio o del sacerdozio è
«giustificata» in base a una rivelazione divina. Anche i rituali sono
«aggrappati alla realtà» 197 celeste. La tenda, nata in corrispondenza
verticale come ὑποδείγµατι καὶ σκιᾷ «immagine e ombra» (Eb 8,5),
conosce la sua vera natura «intensificata» nella presenza di Dio (τῷ
προσώπῳ τοῦ θεοῦ -Eb 9,23-24) , il sensus plenior198 della descrizione
del tempio celeste «non fatto da mano d’uomo» (Eb 9,24) di cui è
l’anticipazione.
1.5.2. Rapporto tra τύπος e tabnît
Il progetto del santuario199 vede il suo inizio con una richiesta
precisa da parte di Dio: «Mi faranno un santuario e abiterò in mezzo a
loro. […], secondo il modello della Dimora e il modello di tutti i suoi
arredi» (Es 25,8.9)200. In Eb 8,5 l’Autore collega il santuario celeste in
linea orizzontale alla sua «copia» [...] « secondo quanto fu dichiarato da
Dio a Mosè, quando stava per costruire la tenda: “Guarda – disse - di fare
ogni cosa secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte”» (Eb 8,5).
Il vocabolo modello nell’ebraico di Es 25,9 è tabnît 201 che Ebrei 8,5,
197
JOHNSSON, Absolute Confidence, 91, in DAVIDSON, Typology, 130.
W.S. LASOR, Prophecy, Inspiration and Sensus Plenior, in TyndB 29
(1978) 49-60. Per la corrispondenza tra tipologia e sensus plenior vedi D.A. HAGNER,
Encountering the Book of Hebrews, in Encountering Biblical Studies 47 (2007) 32-34.
199
Della sua costruzione si parla in due sezioni del libro dell’Esodo, entrambe
attribuite alla tradizione sacerdotale P. In Es 25-31 troviamo le istruzioni, e in Es 3540 il racconto dell’esecuzione. Vedi gli studi: L.G. GUILLEBAUD, The Tent over the
Tabernacle, EQ 31, 90-96; J. MORGENSTERN, The Ark, the Ephod, and the Tent, in
HUCA 17, 153-265 e 18,1-52; ID, The Tent of Meeting, in JAOS 38, 125-39; G.
PAXIMADI, E io dimorerò in mezzo a loro, Bologna 2004, 32-41.
200
Anche la Nuova Riveduta e la Diodati traducono tabnît con «modello» in
Es 25,8.
201
Tabnît è sostituito in alcuni testi dal vocabolo temȗnat - «sembianza»,
«forma» (Dt 4,16.23.25) in Vedi tabnît in BDB, 125; «forma», «immagine» in Nm
12,8: «Egli (Mosè) contempla l’immagine del Signore». HOLLADAY, tabnît, in HOL,
198
72
diversamente dalla LXX rende con τύπος. Il significato di tabnît è
molto complesso e richiede un’analisi particolare che può essere
determinante per la comprensione del nostro discorso.
1.5.2.1. Il significato di tabnît
Tabnît
è un nome femminile, derivato dal verbo bānāh,
«costruire»202. Compare per 20 volte203 nel TM con varie possibilità di
interpretazione. BDB, Hebrew and English Lexicon offre tre traduzioni
base204: «costruzione», «modello», «forma»205.
1. «Struttura», «costruzione». Abbiamo l’esempio dell’altare che i
Giudei «costruirono (bānāh) […] presso il Giordano» che era la copia
(tabnît) dell’altare che Dio ordinò sul monte Sinai (Gs 22,10.28.29)206. In
Salmi in maniera poetica vengono descritte le nostre figlie «come
colonne scolpite ( tabnît ) per adornare un palazzo» (Sal 144,12).
2. «Progetto», «modello tridimensionale di un progetto» 207 . Il
tabernacolo doveva essere costruito sulla base di una tabnît specifica
391. Per lo studio di tabnît vedi anche J. BARR, The Image of God in the Book of
Genesis: a Study of Terminology, in BJRL 51 ( 1968-1969) 11-26.
202
S. WAGNER, «bānāh», in TDOT, 2, (1977) 166-179. Vedi anche bānāh in
F. BROWN – S.R. DRIVER – C.A. BRIGGS, A Hebrew and English Lexicon of the Old
Testament, Oxford 1906, 124; Harris afferma che compare 376 volte: HARRIS,
Theological Wordbook of OT, 255; mentre DAVIDSON, (Typology, 150) 370 volte.
203
S. MANDELKERN, Veteris Testamenti concordantiae Hebraicae atque
Chaldaicae, Berlin 19252, 225.
204
L. Koehler e W. Baumgartner propongono sei traduzioni: «Prototipo» (Es
5,9); «copia» (Dt 4,10-18); «modello» (2 Re 16,10); «immagine» (Sal 106,20; Is
44,13); «qualcosa di simile» (Eb 8,3; 10,8) e «progetto d’architetto» (1 Cr 28,19). L.
KOEHLER e W. BAUMGARTNER, Lexicon in Veteris Testamenti Libros, Leiden 19582,
1018.
205
BROWN, tabnît in BDB,125.
206
«Guardate la forma (tabnît) dell’altare del Signore che costruirono i nostri
padri» (Gs 22,10.28.29).
207
HOLBROOK, Light in the Shadows, 6 e G.N. KNOPPERS, First Chronicles,
New York 2004 XII, 931.
73
che Dio avrebbe mostrato: «[…] la dimora che io ti mostrerò» (tabnît
hammiškān we’et tabnît - Es 25,9 (Edizioni Paoline 1995)208.
Nella nostra discussione con Prof. Paximadi abbiamo notato che Es
25,9 può essere anche inteso nel senso di «esempio», ossia, «Mosè è
ammesso alla presenza di YHWH, il quale è pensato come intronizzato in
una tenda sacrale (che però, a differenza di altri esempi mitologici, non è
celeste, ma è piuttosto collocata sul Sinai), secondo un’immagine diffusa
nella mitologia del Vicino Oriente Antico, ed è invitato a riprodurre
quanto vede»209. È chiaro nota il Prof. Paximadi che il testo non deve
essere inteso come esprimente una qualche realtà metafisica. Piuttosto si
utilizza un qualche linguaggio mitologico, adattandolo alla monolatria
aniconica di Israele e, soprattutto, alla teologia dell’Alleanza.
Tornando al senso di «progetto» abbiamo il tempio di Salomone
che aveva la sua tabnît preparata dal re Davide. Il testo dice che Davide
«consegnò a Salomone […] il progetto»,
tabnît , (1 Cr 28,11) 210 .
Abbiamo anche l’esempio del re Acaz che «inviò al sacerdote Uria le
misure dell’altare» di Damasco e «il suo modello (tabnît )» (2 Re 16,10).
3. «Figura», «immagine», «forma». Il comandamento divino
vietava di farsene: «non fatevi l'immagine (tabnît) scolpita di qualche
idolo, la figura di maschio o di femmina» (Dt 4,16), e Isaia ironizza
sull’ingegnosità e la fatica dei costruttori di idoli «a forma (ketabnît)
d’uomo» (Is 44,13). Il profeta Ezechiele vede in visione i cherubini che
«sembravano avere la forma di una mano d’uomo sotto alle ali
208
«Un progetto nei minimi detagli» Cfr. Benson Commentary, 325; «un
modello», Cambridge Bible for Schools and Colleges, 69.
209
PAXIMADI, E io dimorerò in mezzo a loro, 53-54.
210
John Day, citando i manoscritti di Qumran (11QT 3-13), fa riferiemto ad
una possibile rivelazione di Dio: «Tabnît è il progetto del tempio di Solomone rivelato
da parte di Dio, a Davide». J. DAY, Temple and worship in biblical Israel, in Old
Testament Seminar, Oxford-London 2005, 448.
74
(lakkerubîm tabnît yad’adam)» (Ez 10,8). Tra i testi di Qumran, i Canti
per il Sacrificio di Sabato descrivono la presenza di Dio con il termine
tabnît - «forma». In 4Q405 vengono presentate la «forma» (tabnît) del
trono divino (4Q405 20,21,22.ii.8); la «gloriosa forma» (tabnît) dei leader
(4Q403 2.3); le benedizioni offerte agli esseri in «forma di Dio» (tabnît
elohim) (4Q403 2,16) e «a tutte le forme (tabnît ) spirituali che sono in
armonia con Dio» (11Q17 5-6,2)211.
4. «Copia». La sfera semantica di tabnît si estende anche al
significato di «copia», «replica». Dei venti testi che abbiamo elencato,
dodici possono essere tradotti in questa maniera. Ad esempio: copia «di
animali» (Dt 4,16-18) o «di esseri umani» (Ez 10,10.21).
1.5.2.2. Origine verticale della tenda di Mosè
Un elemento molto importante per la comprensione teologica della
tenda mosaica, anzi quello che le dà significato teologico, è il fatto che
venga costruita per comando di Dio in seguito ad una sua rivelazione
personale. Cinque testi biblici lo affermano chiaramente: Es 25,9; 25,40;
26,30; 27,8; Nm 8,4. Tutti e cinque hanno caratteristiche comuni e fanno
parte di un unico blocco tematico. I primi quattro fanno riferimento alla
costruzione come progetto da realizzare, l’ultimo è un riepilogo di quello
che è stato già fatto. La seguente tabella mostra questi testi suddivisi nelle
loro componenti base. La tabella non ha pretese di parallelismi formali tra
le varie parti dei testi ma serve solo a individuarle meglio.
211
F. GARCÍA MARTÍNEZ, – E.J.C. TIGCHELAAR, Dead Sea Scrolls Study
Edition, Leiden-New York-Köln 1999, 1226-1305.
75
In base a tutto
Es 25,9
Es 25,40
Guarda
( rā’āh ) e
Il PROGETTO
( tabnît )
della dimora
che io ti
e al
così voi
Mostrerò
PROGETTO
FARETE
( rā’āh )
( tabnît ) di
tutti suoi
oggetti
FA
(’ăšer)
(’ăšer)
‘secondo il
loro
che hai
PROGETTO
sul monte.
Osservato
( tabnît )
Es 26,30
INNALZERAI
la dimora
(qûm)
Lo
Es 27,8
FARAI
(’ăšer)
vuoto
all’interno, di
tavole
secondo il
che ti è stato
Modo
Mostrato
come ti è
stato
Mostrato
sul monte
(rā’āh )
Nm 8,3-4
Così
d’oro
secondo la
FECE
Aronne […] massiccio[…] Visione
Il
candelabro
era FATTO
(’ăšer)
il Signore
aveva
Mostrato
Guardando la tabella si può osservare che compaiono alcune parole
portanti: «progetto» (tabnît), «mostrare» (rā’āh) e «fare» (’ăšer). Per
quanto riguarda il «fare», fa eccezione Es 26,30 che usa la parola qûm
«alza» al posto di «fare». Tutti questi testi impiegano lo stesso verbo
rā’āh, per «vedere», in forma causativa, e fanno riferimento alla parola
chiave tabnît . Nei primi due i riferimenti sono diretti, negli ultimi tre
indiretti.
L’insieme di questi testi conferma che la tenda fu costruita in base
alla relazione verticale tra il progetto celeste (tabnît) e la sua immagine
terrena. Resta da definire quali siano i termini di questa relazione
verticale. Cos’è la tabnît ?
76
1.5.2.3. Varianti strutturali di tabnît
Il sostrato semantico di tabnît in Es 25,9.40 è stato variamente
inteso. Presentiamo qui appresso sei varianti. Lo facciamo ispirandoci
alla proposta fatta da Davidson 212 cui aggiungiamo alcune nostre
considerazioni:
1. Piccolo modello 3D del santuario invisibile per il santuario
terrestre visibile213.
Santuario
celeste
2.
Immagine
visibile
Santuario
terreno
Tabnit
del
santuario
celeste
invisibile,
modello/progetto per il Santuario terreno214.
Santuario
celeste
Tabnit
Santuario
terreno
3. Progetto architettonico per il santuario terreno215.
Tabnit
Santuario
terreno
212
DAVIDSON, Typology, 160-161, propone un diagramma composto da sei
parti: modello tridimensionale, progetto d’architetto, piccola copia come modello
tridimensionale, progetto copia, santuario, ispirazione suggestiva.
213
R.A. COLE, Exodus: An Introduction and Commentary, Tyndale Old
Testament Commentaries, 1973, 190.
214
«Una rappresentazione dipinta dell’insieme»: G. RAWLISON, Exodus in
Bible Commentary, a cura di C.J. Ellicott, London-Paris-New York-Melbourne, I,
280-281; F.J. SCHIERSE, Lettera agli Ebrei, Roma 19902, 67.
215
H.A. EBRARD, Biblical Commentary on the Epistle to the Hebrews,
Edinburgh 1853, 248-250; J. M’CAUL, The Epistle to the Hebrews, London 1871, 98.
R. DI TROYS, Commento all’Esodo, a cura di S.J. Sierra, Genova 19882, 225
77
4. Copia in scala del santuario celeste che funziona come piccolo
modello/progetto per il santuario terreno216.
Santuario
celeste
Tabnit
Santuario
terreno
5. Copia del santuario celeste che funziona come progetto
architettonico per il santuario terreno217.
Tabnit
Santuario celeste
Santuario
terreno
6. Il santuario celeste modello per il santuario terreno218.
Tabnit
Santuario celeste
Santuario
terreno
Qual è la variante giusta? Per William G. Moorehead «non
possiamo saperlo»219. Può essere un progetto architettonico (n° 2 e 5)?
216
J.H. DAVIES, A Letter to Hebrews, Cambridge 1967, 201; BRUCE,
Hebrews, 165-166; HOLBROOK, Light in the Shadows, 5.
217
«Il tempio non è una struttura con camere. A Mosè fu presentato un
progetto, un modello, sul monte Sinai» (H. ALFORD, The Greek Testament: With a
Critically Revised Text, a Digest of Various Readings, Marginal References to Verbal
and Idiomatic Usage, Prolegomena, and a Critical and Exigetical Commentary,
London 1868, IV, 150). Stessa opinione ha anche J. SWAGGART, Hebrews, Baton
Rouge (Louisiana) 2001, 43.
218
Opinione di: H.D.M. SPENCE-JONES (Pulpit Commentary, New York Toronto 1897, 259-260); U. CASSUTO (A Commentary on the Book of Exodus,
Jerusalem 1967, 322) e D.N. FREEDMAN (Early Israelit History in the light of Early
Israel Poetry, in Unity and Diversity, a cura di H. Goendicke – J.M.M. Roberts,
Baltimore-London 1975, 26).
78
Un modello tridimensionale (n° 1 e 4)? Una semplice immagine (n° 2)? Il
santuario stesso? (n° 6). Allo stato della ricerca attuale neppure noi ci
sentiamo in grado di fare una scelta assoluta. Allo stesso tempo, tuttavia,
pensiamo che ci sia la possibilità di chiarire almeno alcuni aspetti del
significato di tabnît:
1. Il verbo rā’āh che, nei testi elencati, accompagna il nome tabnît
, è generalmente tradotto con «vedere», «guardare» (qualcosa di reale),
«avere un’esperienza visuale». In altri testi ha il senso di «visione» (2 Re
6,17, 20, Is 6,10; 29,18; 42,18; Ger 5,21)220 o «comprensione» (Ger 5,21;
Dt 29,3; Ez 12,2)221. La traduzione «comprensione» potrebbe aprire la
strada per interpretare tabnît in chiave metaforica222 (come suggerito dal
punto 8), però, nei testi menzionati (Ger 5,21; Dt 29,3; Ez 12,2), questa
possibilità è giustificata dal fatto che il termine è inserito in un contesto
metaforico. Non sempre è però così, ed altri contesti possono portare a
interpretazioni legittimamente diverse. Il numero dei testi dove rā’āh
significa «vedere» è elevato. A questo si aggiunge un altro elemento: il
TM usa per «comprensione» la parola bîn «intendere»223 (Is 6,9; 28,9;
Ger 9,12; Dn 9,23), mentre rā’āh vi resta come termine specifico per
«vedere». Il suo uso indica che tabnît deve essere interpretato come
qualcosa che è stato rivelato in forma visibile.
219
W.G. MOOREHEAD, Studies in the Mosaic Institutions: The Tabernacle,
the Priesthoof, the Sacrifices, the Feasts of Ancient Israel, Dayton 1896, 16, in
DAVIDSON, Typology, 162.
220
«Una cosa non perceputa con gli occhi» H.W.F. GESENIUS, Gesenius'
Hebrew and Chaldee Lexicon to the Old Testament a cura di P. Tregelles, Grand
Rapids 19797, 749.
221
Rā’āh in BDB, 907.
222
Victor (Avigdor) Hurowitz, non prende in considerazione questo
elemento e vede tabnît solo come una «copia», una rappresentazione, che non «deve
essere considerata un riferimento alla sede celeste di Dio» V. HUROWITZ, Excursus
tabnît, in I Have Built You an Exalted House, Sheffield 1992, 169.
223
BROWN, bîn, in BDB, 106 e KOEHLER-BAUMGARTNER, bîn, in HALOT, I,
193.
79
2. Gli elementi della struttura grammaticale del nostro testo
incoraggiano quanto abbiamo detto. Tutto contribuisce a descrivere una
rivelazione del tutto visiva e concreta. L’uso della preposizione ke «in
base a» (Es 25,9), prima di kōl «tutto» punta alla visione di qualcosa di
chiaro, diretto, ben definito. La preposizione be che accompagna il nome
tabnît ha molteplici significati che potremmo considerare come
convergenti sull’idea generale di «vicinanza» più o meno stretta. In Es
25,40, be (seguita dalla composta tabnîtām - «il loro modello») è
generalmente tradotta «secondo»224. Il verbo rā’āh all’hopal («ti è stato
mostrato») seguito dal nome maschile bāhār «sul monte» (Es 25,40),
indicano che
tabnît
è un riferimento a qualcosa di reale, «un
modello/progetto del santuario terrestre»225. La stessa forma plurale del
pronome possessivo suffisso in tabnîtām dà l’idea che la visione
intendesse trasmettere un’immagine dettagliata, non solo del tabernacolo
in generale ma dei suoi singoli elementi.
3. Più della metà dei venti testi che usano tabnît fanno riferimento
esplicito ad una struttura reale, solida, tangibile. Il concetto di «modello»
è in armonia con questa asserzione. A sostegno di questa tesi, Koehler e
Baumgartner credono che tutti i 20 riferimenti siano in relazione con un
«modello» costituito da una struttura solida226.
224
L’uso della preposizione be in tal senso è ben visibile in Gn 5,1: «lo fece a
somiglianza di Dio» (Gn 5,1 Edizioni Paoline), e Gn 5,3 «un figlio a sua
somiglianza».
225
DAVIDSON, Typology, 150.
226
Riferimento a Koehker e Baumgartner in DAVIDSON, Typology, 162.
Nello stesso articolo Davidson fa riferimento a vari studiosi che considerano la tabnît
di Es 25,9.40 un «modello fisico» (ID Typology, 162). Consultando il HALOT (L.
KOEHLER - W. BAUMGARTNER - J. J. STAMM, The Hebrew and Aramaic Lexicon of
the Old Testament, a cura di M. E. J. Richardson, 5 vols., Leiden 1994) abbiamo
notato che HALOT fa riferimento agli studi di J. BARR, The Image of God in the Book
of Genesis: a Study of Terminology in BJRL 51 (1968-1969) 11-26 e S. SCHROER, In
Israel gab es Bilder, in OBO 74 (1987) 336f. Anche Hamerton elenca diversi studiosi
80
Insistiamo sulla letteralità e sulla concretezza di quanto visto da
Mosè sul monte, perché questo è essenziale per cogliere l’importanza e il
significato del santuario. Tuttavia, questo non significa necessariamente
che la visione, per quanto letterale e concreta sia, corrisponda
necessariamente a quanto vuole rappresentare - la realtà (celeste) della
dimora di Dio - in senso strutturale-architettonico. In questa prospettiva,
la nostra comprensione di tabnît come modello oggettivo può fare
spazio anche ad elementi dell’interpretazione allegorica.
1.5.3. Conclusione generale per la parte tipologica
La nostra analisi dei testi veterotestamentari prescinde dall’analisi
corrente in ambito critico storico perché, indipendentemente dalle nostre
convinzioni personali, non servirebbe a comprendere il discorso di Ebrei
(elemento centrale del nostro studio) che ignorava la critica storica
moderna e si fondava sui testi biblici nella loro immediatezza.
Per il Pentateuco Mosè non è l’ideatore del tabernacolo, ma colui
che lo edificò sulla scorta delle indicazioni divine ricevute sul monte (Es
26,30; 27,8; Nm 8,4). Il santuario terreno doveva essere costruito sulla
base del «modello» originale (Es 25:9,40). La parola ebraica tabnît
veicola proprio l’idea di modello o copia; dobbiamo quindi presumere
che per la tradizione biblica, Mosè ebbe la possibilità di vedere una
specie di progetto o modello in miniatura rappresentante il santuario nel
cielo. Tale modello servì come riferimento per la costruzione di quello
terreno e in tal senso comprende anche Cornelis Houtman che afferma:
che hanno espresso la stessa opinione su Es 25,9.40 (R.G. HAMERTON–KELLY, The
Temple and the Origin of Jewish Apocaliptic, VT 20 (1970) 6, 1).
81
«in Es 25,9.40 si tratta di un piano di costruzione-un progetto
architettonico»227
Il progetto visto da Mosè ha valore architettonico in rapporto alla
costruzione oggettiva da lui realizzata, ma non implica necessariamente
una corrispondenza architettonica con il vero santuario celeste. La natura
di
quest’ultimo
santuario
dovrà
essere
teologicamente
dedotta
dall’insieme della rivelazione biblica, sia nei suoi sviluppi vetero che
neotestamentari. E tuttavia, Ebrei trova nell’antico santuario la base per
volgere lo sguardo verso la realtà celeste più gloriosa. La corrispondenza
tipologica e funzionale tra santuario terreno e celeste risalta con evidenza
anche dal fatto che Ebrei chiami quest’ultimo «vero tabernacolo» (Eb
8,2), oppure «una tenda più grande e più perfetta» (Eb 9,11), mentre
quello terreno viene definito «immagine e ombra delle cose celesti» (Eb
8,5). In quanto ombra, il santuario terreno altro non è che una mera
rappresentazione imperfetta e debole del celeste228. Potremmo dire che,
per Ebrei, il santuario terreno, in quanto ombra, pur con la sua
consistenza materiale visibile e tangibile, è meno reale del solo vero,
anche se a noi invisibile e intangibile, santuario celeste: la vera e
consistente realtà è quella celeste.
La realtà del santuario celeste non implica però necessariamente
una somiglianza formale con quello terreno. Quello che per Ebrei è
importante non è il santuario in sé ma ciò che Cristo vi realizza per la
salvezza del suo popolo. La tenda di Mosè aveva lo scopo di anticipare
profeticamente e spiritualmente, per il popolo giudeo, il significato della
227
C. HOUTMAN, Exodus in Historical Commentary on the Old Testament, a
cura di C. Houtman-G.T.M. Prinsloo-W.G.E. Watson-A.Wolters, Leuven 2000, III,
345.
228
Il progetto realizzato da Mosè su indicazione divina, poteva avere un valore
simbolico che corrisponde ad una funzione divinamente ispirata, ma
non
necessariamente alla struttura architettonica del santuario celeste.
82
salvezza nel suo complesso, salvezza che trova la sua realtà ultima nel
Cristo quale sommo sacerdote ufficiante nelle realtà celesti. La «copiaombra» non era una riproduzione architettonica del tempio celeste, ma
una sua immagine spirituale e teologica. Condividiamo in tal senso il
pensiero di Holbrook quando, sottolineando l’originalità del santuario
israelitico, afferma che «era […] il simbolo visibile dei pensieri
divini»229.
1.6. Analisi dei vocaboli
1.6.1. Breve introduzione
Studiando il contesto veterotestamentale del santuario non
possiamo non prendere in considerazione i vocaboli rappresentativi che lo
riguardano; miškān, qōdeš, miqdāš, hêkal, bêt’ Ělôhim, bēt-zubūl, mā’ôn,
mā’ôz e bîrā sono alcuni esempi che necessità uno studio più
approfondito.
Già il numero di questi termini ci dà un’idea di quanto sia
complesso l’argomento. Cos’è veramente, nella sua natura più profonda il
santuario terreno? una tenda? una casa? un palazzo? un riparo? la dimora
di Dio? il simbolo della Chiesa? Nessun parola è sufficiente a descrivere
il pieno significato di quello che Dio voleva offrire ai suoi figli. Se è già
difficile comprendere pienamente le parole che descrivono il santuario
terreno, possiamo ben comprendere quanto sia ancora più difficile
comprendere quelle che descrivono la tenda celeste.
229
F.B. HOLBROOK, Light in the Shadows & Walking in the Light, in BRI,
Silver Spring 1973, 5.
83
1.6.2. Dimora di Dio
Es 25,9230 - miškān
Esamineremo qui due testi fondamentali. Il primo è Es 25,9:
«Eseguirete ogni cosa secondo quanto ti mostrerò, secondo il modello
della Dimora e il modello di tutti i suoi arredi». È uno dei principali testi
in cui si parla di un tabernacolo celeste qualificato come dimora di
YHWH, e quindi come sede della sua presenza. Lo studio di questo testo
non è importante solo perché fa riferimento al (tabnît), ma anche per il
fatto che Mosè vi appare come qualcuno che ha visto la «dimora» di Dio
- miškān.
Il termine miškān 231 è tradotto normalmente con «abitazione»,
«tenda»232. La parola non era collegata esclusivamente al tabernacolo,
però faceva parte dell’espressione hammiškān miškān hā‘ēdut233, «dimora
della Testimonianza». Nel Salmo 74, nel riferimento a quelli che «hanno
dato alle fiamme il tuo santuario, hanno profanato e demolito la dimora
del tuo nome» (Ps 74,7), si manifesta un parallelismo sinonimico tra
miškān (dimora) con miqdāš (santuario). «In Palestina, dice Haran,
(miškān) era il termine per il tempio ma nello stesso tempo aveva anche il
230
Abbiamo consultato diversi commentari: M. NOTH, Esodo in Antico
Testamento, edizione italiana a cura di G. Cecchi, Brescia vol. V. J.I. DURHAM,
Exodus, in Word Biblical Commentary, a cura di G.W. Baker, Dallas 1987. U.
CASSUTO, A Commentary on the Book of Exods, 19673, 321-322. C. HOUTMAN,
Exodus in Historical Commentary on the Old Testament, a cura di C. HoutmanG.T.M. Prinsloo-W.G.E. Watson- A.Wolters, Leuven 2000, III, 315-144.
231
Per dettagli vedi: MICHAELIS, skènè, in TDNT, VII, 368. «The Concept of
God and the Divine Abode», in THAT, II, 904-908. Vedi anche HARRIS, TWOT
Lexicon, 238.
232
L.W. HOLLADAY, A Concise Hebrew and Aramaic Lexicon of the Old
Testament, Leiden 19884 , 219.
233
«Dimora della Testimonianza» in Es 38,21; Nm 1,50.53; 10,11. HALOT
Lexicon (KOEHLER- BAUMGARTNER, Miškān in HALOT Lexicon, 243) dice che «dai
130 occurenze 74 sono dedicate al santuario».
84
significato di abitazione, dimora»234. Nel Salmo 26,8 miškān è «la dimora
della tua casa, il luogo, dove ha sede (miškān kebôdekā) la tua gloria»235.
Il termine richiama la «tradizione della tenda» o il tabernacolo di
Mosè. Tuttavia «si può supporre, dicono Jenni e Westermann, che gli
israeliti abbiano conosciuto la parola con il significato speciale di
“abitazione di Dio” a Gerusalemme, e quindi all’inizio della
monarchia» 236 . Comunque sia, in tutto l’AT, la parola si riferisce
chiaramente al tempio o al santuario in quanto luogo religioso.
Chiarito che miškān si riferisce alla «dimora» di Dio, bisogna
chiedersi in che misura questo fatto possa avere implicazioni
antropomorfiche. Possiamo ipotizzare un santuario celeste identico?
Umberto Cassuto afferma che la tenda di Mosè era simile al Santuario
celeste237. Anche Houtman nota nel suo commentario all’Esodo: «L’idea
che il santuario terreno sia una copia di quello celeste ha più difensori di
quanto ci saremmo aspettati» 238 . I milleriti O.R.L Corosier, William
Miller e Andrews condivevano questo pensiero. A nostro parere, tuttavia,
che la miškān celeste di Dio sia identica alla tenda di Mosè non
corrisponde né all’intenzione del testo né alla teologia biblica.
1 Re 8,30 - makōm
Il secondo testo si trova in 1 Re 8,30239: «Ascolta la supplica del
tuo servo e del tuo popolo Israele, quando pregheranno in questo luogo.
234
HARAN, Temples,14.
B. CHILDS, The Book of Exodus, Westminster 1974, 512; F. CROSS, «The
Priestly Tabernacle», in Biblical Archaeologist Reader, 1, 201-228.
236
WESTERMANN, Dizionario Teologico AT, 820.
237
CASSUTO, A Commentary on the Book of Exods, 321.
238
HOUTMAN, Exodus, 323.
239
Abbiamo consultato i commentari di C.F. KEIL, 1 and 2 Kings, 1 and 2
Chronicles, in Commentary on the Old Testament, a cura di C.F. Keil-F.Delitzsch,
Peabody, 20012, 90-91; J.A. MONTGOMERY, A Critical and Exegetical Commentary
235
85
Ascoltali nel luogo della tua dimora, in cielo; ascolta e perdona!» In
questo passo Salomone, rivolto a Dio, parla della sua «dimora» meco
sibtekā che è «nei cieli» . Il vocabolo makōm - «dimora» in diversi testi rappresenta un luogo sacro. Il primo tra tutti, carico di significato, e il
«luogo che Dio aveva indicato» ad Abramo per sacrificarvi suo figlio (Gn
22,3). Davide Kimchi nel suo commento ai Salmi afferma che «il Monte
Moria era il luogo, dove fu costruito il santuario» 240 . Marek Vaňuš
sostiene la stessa idea: «Sul monte Moria, in un certo senso, si fonda o
meglio si prefigura il Sinai, con la rivelazione e la torah, che la Sion,
luogo della promessa presenza divina e del culto»241 .A.E. Killevrew:
«Sul monte Moria dove Abramo offrì suo figlio fu costruito il Tempio»242
. Queste affermazioni dipendono da 2 Cr 3,1: «Salomone cominciò a
costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Mòria».
Il significato carico di sacralità di makōm è rafforzato anche dalla
presenza di altri luoghi sacri definiti con lo stesso termine. In Gen 28,11
si parla del «luogo», dove Giacobbe fece il sogno della scala che
«raggiungeva il cielo» e incontrò Dio: «Io sono il Signore, il Dio di
Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la
terra sulla quale sei coricato» (Gen 28, 11-13). Il libro di 1 Samuele parla
del «luogo sacro di Betel, Gàlgala e Mispa» (1 Sam 7,16), e Geremia
della «dimora sacra di Silo» (Ger 7,12). Il termine sembra riferirsi ai
luoghi sacri dove Dio incontrava il popolo (Es 29,31) .
Allo stesso tempo il vocabolo fa anche riferimento alla dimora di
Dio come santuario. Il profeta Michea parla del Signore che «esce dalla
on The Books of Kings, Edinburgh, 126 e non danno largo spazio all’analisi del nostro
testo.
240
D. KIMCHI, Commento ai salmi, a cura di L.Cattani, Roma 1991, 343.
241
M. VAŇUŠ , La presenza di Dio tra gli uomini, Roma 2015, 71.
242
A.E. KILLEVREW, Jerusalem During the First and Second Temple, in The
Temple of Jerusalem From Moses to the Messiah, a cura di L.H. Feldman, Leiden
2011, 365.
86
sua dimora e scende e cammina sulle alture della terra» (Mic 1,3). Anche
Isaia riprende lo stesso argomento: «il Signore esce dalla sua dimora» (Is
26,21). La preghiera di Salomone, «ascoltali nel luogo della tua dimora,
in cielo» è la conferma della tradizione che vedeva una «residenza» di
Dio anche nei cieli.
Questa dimora celeste può essere compresa meglio attraverso la
descrizione del santuario terreno e i vocaboli che ne descrivono le
prerogative.
1.6.3. Qdš, qōdeš, qādôš
Non conosciamo con certezza l’origine di qōdeš243. La radice qdš
era conosciuta anche tra le lingue semitiche nordoccidentali244 che a sua
volta ha origine dalle due consonanti qd «separare». Tradotto
semplicemente con «santo», era largamente diffuso e poteva essere
applicato a qualsiasi cosa: oggetto, tempo, spazio, rituale o persone. Il
testo ebraico fa la distinzione tra il sostantivo qōdeš («santità») e
l’aggettivo qādôš.
In quanto sostantivo, il termine è associato principalmente al
sacerdozio (Lv 21,6.8)245, al santuario246 con i suoi oggetti247ai sacrifici248
243
La radice di questa parola può assumere diverse forme vedi W. WILSON,
Wilson’s Old Testament Word Studies, Peabody (Massachusetts) 1978, 865.
244
«Il nome personale bn qdš unito a amrr designava una divinità maschile
[…] l’espressione bn qdš ha il significato di “figlio della santità”, “santo”; questo
significato astratto si sarebbe poi secondariamente concretizzato nel più frequente qdš
“santuario“ (inteso come nome di luogo)» J. AISTLEITNER, Wörterbuch der
ugaritischen Sprache, 1967, n. 2394, in E. JENNI - C. WESTERMANN, Dizionario
Teologico dell’Antico Testamento, Casale di Monferrato 1982, II, 530-549.
245
2 Cr 23,6; 31,17-18.
246
«Dimora santa» (Es 40,9); «luogo santo» (Lv 6,26), «il Santo e il Santo
dei Santi» (Es 26,33).
247
«L’unzione» (Es 30,25,31; 37,29); «le cose santissime» (Es 30,29); «il
profumo» (Es 30,35.37); «tunica» (Lv 16,4); «l’altare» (Es 40,20).
248
Particolare accento sui sacrifici che dovevano essere consumati dai
sacerdoti (Lv 7,1-6; 10,12-13; 14,13).
87
(Lv 7,1) e ai rituali («il rito espiatorio» Es 30,10), ma è utilizzato anche
per descrivere il «popolo santo» (Is 62,12 63,18) oppure «il seme santo»
(Is 6,13). Anche il sabato è santo (Es 31,14; 35,2).
In quanto aggettivo è meno diffuso però è accostato ai grandi temi:
«la nazione», «il popolo santo»(Ez 19,6) 249 , «l'accampamento» deve
essere santo (Dt 23,15), il «nome grande e terribile di Dio. Egli è santo!»
(Sal 99,3.11.9), Dio è santo (Sal 21,4; 99,5; Is 6,3), il «Santo d’Israele»
(Is 12,6)250.
Occorre poi anche prendere in considerazione anche la forma
verbale qds: con il senso di «essere messo da parte, consacrato»251.
consacrazione della dimora (Es 40,9-11)
252
La
, dei sacerdoti (Es
28,3)253oppure l’osservanza del sabato (Ez 20,20)254. Toccando l'altare,
una persona diventa sacra (Es 29,37; 30,29), «diventa cosa sacra» (Dt
22,9; Is 5,6). Il suo significa basilare è «essere consacrato», per una data
funzione. Eichrodt sostiene che il concetto di separazione legato alla
santità corrispondeva alla frontiera che separava l’area sacra del tempio
da quella profana: nell’oltrepassarla si rischiava la morte255.
[…] il santo viene separato dal profano, a propria protezione e a
protezione da esso256.
249
Dt 7,6, 14,2.21; 28,9.
Is 30,11; 43.14; 45,11; 47.4; 48,17; 54,5; 60,14.
251
Qādaš in BDB, 872.
252
Lv 8,10.11.15; Nm 7,1.
253
Es 28,41;29,1.33.44; 30,33;4013; Lv 8,12,30.
254
Ger 17,22.24.27; Ez 44,24.
255
W. EICHRODT, Teologia dell’Antico Testamento, 1979, I, 271-273.
256
Per Jenni e Westermann, «“separato” è soltanto una derivazione dal senso
più generale di sacro»: WESTERMANN, Dizionario Teologico AT, 531.
250
88
Qōdeš fa dunque riferimento al santuario come a un luogo che
dovrebbe essere libero dal peccato, dall’idolatria o da qualsiasi forma di
contaminazione.
Anche nella religiosità cananea il termine ha il senso di essere
separato per una missione speciale. Qedēšā identificava infatti anche la
prostituta templare, considerata «santa», cioè separata (Gn 38,21; Os
4,14).
Sembrerebbe evidente che l’ebr. qedēšā indichi la prostituzione, se si
tiene presente Gn 38,21s.; mancano però in questo passo riferimenti
cultuali (H.L. Ginsberg, F.S. Baumgartber 1967,75 n.2), e quindi il fatto
non può essere accettato senza difficoltà. Nell’accusa profetica di Os
4,14 qedēšot è parallelo a zōnōt “meretrici” e il rapporto che si ha con
loro è collegato al sacrificio; in Osea 12,1 i qedēšim sono in relazione
con il culto di El in Giuda257.
Ci sono vari testi in cui qdš è collegato al luogo più santo della
terra: il santuario di Dio è «la sua santa dimora» (Sal 68,6); tale è il luogo
da cui proviene il divino oracolo di salvezza (Sal 60,8); verso di esso si
elevano le mani dell’orante che supplica l’Altissimo (Sal 28,2); qui ci si
prostra davanti a Dio trovandosi nel suo «tempio santo» (Sal 5,8; 13,8).
L’espressione enfatica haqqōdeš mibbêt è collegata a pārōket e
descrive la parte più interna del santuario (Lv 16,2; Ez 41,21.23). In Es
26,33-34; 1 Re 6,16; 7,50; 8,6 l’espressione
qōdeš haqqōdešîm, indica la
cella interna del Santuario. In 2 Cr 3,8.10 si parla di «casa del luogo
santissimo» (’et bêt qōdeš haqqodāšîm). In Ez 43 e 45 si usa il
257
J. WELLHAUSEN, Die kleinen Propheten, 128, in WESTERMANN,
Dizionario Teologico AT, 536.
89
superlativo santo dei santi riferito al nuovo tempio, «separato» dal luogo
santo258.
Qōdeš, oltre a definire il sacro terreno, qualifica anche il sacro
celeste, il tempio divino di Dio, da dove Egli sta a «guardare» il suo
popolo259, a tal punto che sembra a collegare la realtà celeste e quella
terrena.
1.6.4. Miqdāš
Miqdāš260 è tradotto con «luogo santo», «tempio», «tabernacolo»,
«santuario». Molto spesso miqdāš è sinonimo di qōdeš, e sia miqdāš sia
qōdeš provengono dal verbo qādaš «essere santo», da cui abbiamo
l’aggettivo qōdeš «santo». Pur descrivendo anche altre cose, miqdāš è
comunque un termine particolarmente usato per «santuario».
1. «Saranno ridotti in rovina i santuari d'Israele (mīqdaš)» (Am
7,9); «(miqdāš) un santuario e io abiterò in mezzo a loro» (Es 25,8);
«santuario (miqdāš) che le tue mani hanno fondato» (Es 15,17; Lv 16,33);
«rende impuro il santuario» (Lv 20,3; Ez 21,7; Ger 51,51).
2. Con lo stesso nome venivano identificati anche i santuari
costruiti senza una richiesta speciale da parte del Signore: il miqdāš di
258
«Queste sono le istruzioni sul tempio; sulla cima del monte, tutto il suo
perimetro da ogni lato, è la parte santissima…» (Ez 43,12; 45,3).
259
«Guarda dal cielo e osserva dalla tua santa e splendida dimora!» (Is
63,15).
260
Miqdāš ha diversi significati: 1. Santuario. La Vulgata traduce il termine
«sanctuarium» nelle sue varie forme per definire il tabernacolo (ad esempio: Es 15,17;
25,8; Lv 4,6; 5,15; 6,30; Nm 3,28.31, Dt 26,15; Gs 24,26; 1 Re 8,4.8.10; 1 Cr 9,29;
22,19; 2 Cr 5,5.11; 20,8; 26,18; 29,5.7.21; Sal 72,17; 73,7; 82,13; 88,40; 4,1; Ez 7,24;
8,6; 9,6; 21,2; Dn 8,13-14; 9,17.26; 11,30-3). La parola non era usata soltanto in
ambiente cristiano, ma anche in quello pagano; c’era, ad esempio, il santuario di
Sarmisegetuza oppure quello Diana Nemorensis a Roma. Nel suo significato figurato
significa luogo in cui si custodiscono le memorie, i sentimenti più sacri e più intimi. 2.
Tempio dal latino templum conserva lo stesso significato in varie lingue moderne. In
sintesi, il «miqdāš » designa un’area speciale, una porzione di spazio tagliato dal
mondo, «recintata» e destinata ad ospitare una presenza celeste.
90
Sichem (Gs 24,25-26)261 , il miqdaš yiśrā’ēl di Bethel (Am 7,9.13), i
miqdāš moabiti Is 16,12 o quelli di Tiro (Ez 28,18).
3. Il miqdaš di Mosè, diverso da tutti gli altri, fu costruito per
ordine divino in basse alla promessa: «abiterò in mezzo a loro» (Es 25,8),
e gode della presenza del Signore. La gloria faceva la differenza, tra i
santuari idolatrici e il miqdaš di Mosè.
Il miqdaš haqqōdeš 262 era la «casa santa di Dio» (Lv 16,33; Ger
51,51; Sal 73,17), «il tempio» (Es 25,8), «il ricinto» (Es 21,23), ma
rappresentava anche i posti sacri vicino al tempio. L’espressione miqdaš
haqqōdeš «santuario santo» si riferisce al santo dei santi, «la parte più
santa del santuario» (Lv 16,33).
1.6.5. Hêkāl
Il termine hêkāl è tradotto con «palazzo», «tempio», «santuario».
Roland de Vaux propone di intenderlo anche come una stanza di
preghiera263. Le sue radici sono molto antiche: provengono dall’akkadico
êkallu (palazzo), e probabilmente dalla parola sumeriana ê-gal (casa
grande palazzo)264. Nella sua forma ebraica hêkāl era il palazzo reale265,
il santuario266, la tenda di Mosè (1 Sam 1,9; 3,3) e «l’abitazione celeste»
di Dio. «Ma il Signore sta nel suo tempio santo, il Signore ha il trono nei
261
H. REVIV, The governmental Shechem in the El-Amama Period and in the
Days of Abimelech, in Israel Exploration Journal, nr°16, 252-257. G.R.H. WRIGHT,
Shechem and the League Shrines, VT 21:572-603.
262
«Consacrato con rito espiatorio», «il santuario consacrato».
263
R. DE VAUX, Ancient Israel: Its Life and Institution, Grand Rapids 1977,
311.
264
M. HARAN, Temples and Temple-Service in Ancient Israel, Winona Lake
1985, 13.
265
«Nel palazzo del re di babilonia» (2 Re 20,18; 1 Re 21,1; Na 2,7; Am 8,3;
Os 8,14; Gl 4,5; Sal 45,16; Dn 1,4; Prv 30,28; Is 13,22; Sal 144,12).
266
«Samuele dormiva nel tempio del Signore (hêkāl), dove si trovava l’arca
di Dio» (1 Sam 3,3); «fece dieci candelabri d’oro … e li pose nel (hêkāl) tempio» (2
Cr 4,7.8); «nel santuario (be hêkāl) del Signore» (2 Cr 29,16; Ger 7,4; 24,1; Ez 8,16).
Il discorso si trova in HARAN, Temples, 14.
91
cieli. I suoi occhi osservano attenti, le sue pupille scrutano l'uomo» (Ps
11:4). «Ma il Signore sta nel suo tempio santo. Taccia, davanti a lui, tutta
la terra!» (Ab 2,20) »267 Anche in Sal 11,4 il termine è chiaramente
applicato al tempio celeste.
Con la stessa parola s’identificava tutto il tempio o solo alcune sue
stanze come ad esempio il vestibolo di fronte all’aula del tempio (1 Re
6,3), la prima stanza (2 Cr 4,7-8), il santo268. Il greco distingue invece tra
ναός per la stanza specifica dove si manifesta la presenza di Dio (Lc
23,45; At 17,24) e i`erόn che designa invece tutta la città-tempio, mura,
spazi, cortile, altare inclusi (Mt 21,12; Ez 28,18).
1.6.6. ’Ōhel
Questo termine è generalmente tradotto con «tenda», «abitacolo»,
può riferirsi sia a una tenda ordinaria usata come abitazione (Gn 4,20;
25,27), sia alla tenda del convegno (Lv 24,3; Nm 1,1; 4,4.15.23.28).
Questo termine è arcaico e riflette le condizioni di vita ai tempi di Mosè
quando vivevano nelle tende (Ger 6,3; 49,29), e la «casa di Signore» era
anch’essa una tenda anche se diversa dagli altre. La parola viene citata
diverse volte nel Tanak269 in riferimento a un’abitazione; in particolare ci
si riferisce alla tenda di Abramo270 di Giacobbe o dei figli di Israele.
267
L’affermazione che troviamo nella seconda parte del testo «taccia, davanti
a lui tutta ela terra» è un indizio che non si tratta della dimora terrestre ma alusione
alla dimora celeste, come in Ps 11:4.
268
«Hêkāl e Debir erano utilizzate anche per santo e santo dei santi»: DE
VAUX, Ancient Israel, 313.
269
Nei testi sacri dell’ebraismo, le tre lettere TNK, componenti il termine
Tanak sono le iniziali dell’espressione Torah, Nevi’im, Ketuvim.
270
«Corse loro incontro dall’ingresso della tenda» (Gn 18,2); «Allora Labano
entrò nella tenda di Giacobbe» (Gn 31,33).
92
1.6.7. Bêt ’Ělôhîm
Bêt ’Ělôhîm è una delle più belle espressioni dell’Antico
Testamento. Viene tradotta con «casa di Dio»271 o «casa di YHWH»272. Il
Signore Dio, YHWH attraversa tutta la storia della Salvezza con la sua
regalità e Bêt ’Ělôhîm è il nome per la sua «dimora» divina, il punto più
santo della terra273.
1.6.8. Mākôn
Mākôn è utilizzato prevalentemente nella poesia ebraica e nei testi
profetici di Isaia e Geremia. Deriva dal verbo kûn («gettare le fondamenta
di uno stabile»), e ha il senso generale di «posto» o «fondamenta» (Is 4,5)
da cui anche «abitazione», «luogo d’appoggio». Mākôn viene usato con
riferimento alla «dimora terrestre» di Dio: «Ho voluto costruirti una casa
eccelsa, un luogo (mākôn) per la tua dimora in eterno» (1 Re 8,13). Vedi
anche 2 Cr 6,2; però, più di una volta, fa anche riferimento alla «dimora
celeste», dove l’Unico ha la sua Sancta Sedes274. È utilizzato in alcuni
testi con il senso del luogo di base o fissa dimora, come la Terra, il Trono
di Dio, l’altare del tempio (Sal 89,15; 97,2; 104,5; Esd 2,68).
271
«Casa di Dio», «casa divina», l’espressione al singolare fa riferimento a
qualsiasi luogo sacro ad esempio: Gn 28,17.22; Gs 9,23; 1 Cr 9,11. 13.26f; 10,10; 2
Cr 3,3; 4,11.19; 5,1.14; 25,24; 28,24; 31,13.21; 32,21.
272
«Casa di IHWH» si trova più di 259 volte nell’AT.
273
L’espressione bêt’Ělôhîm così intimamente legata alla presenza divina
non ha un unico significante: sempre tradotta con casa di Dio, l’unica differenza è
che, può riferirsi anche a santuari di altri ’ělôhîm; il miglior esempio è in Gdc 17,5
dove bêt ’Ělôhîm è la «casa degli dèi». C.F. KEIL, Commentary in the Old Testament,
Grand Rapids 1968, I, 281.
274
«Ascolta dal cielo, luogo della tua dimora» (1 Re 8,39.43.49; 2 Cr
6,30.33.39); «Dal luogo della sua dimora (mākôn) guarda tutti gli abitanti della terra»
(Sal 33,14); «Resterò tranquillo e mirerò dalla mia (mākôn) dimora» (Is 18,4); «Salì
fino all’altezza del Principe […] e fu rimosso il fondamento (mākôn) della sua
oblazione» (Dn 8,11).
93
1.6.9. Bêt zebul
«Casa alta (signorile)», «un’eccelsa dimora». Il termine è arcaico,
poetico, e si riferisce al tempio di Salomone: «costruirti una casa (bêt)
eccelsa» (1 Re 8,13; 2 Cr 6,2); «Guarda dal cielo e osserva dalla tua
dimora santa e gloriosa» (Is 63,15).
1.6.10. Mā‘ôn
Il termine nasce con il senso di «tana per leoni o sciacalli»275.
Accompagnata da qādoš non è più una tana ma l’abitazione santa di Dio
- mā‘ôn qodšô (Sal 68,6). In Salmo 26 la parola mā‘ôn accompagna il
termine miškān descritto come «la casa dove tu dimori e il luogo dove
abita la tua gloria» (Sal 26,8)276.
Mā‘ôn acquista anche il significato di «aiuto», «supporto» 277 .
Questo significato si mescola facilmente col primo suggerendo l’idea di
un riparo, un rifugio in cui si trova protezione e sicurezza quando si ha
paura o si è in pericolo: «Sì, il tuo rifugio è nel Signore, hai posto
nell’Altissimo la tua dimora» (Sal 91,9). Il termine si riferisce al
santuario celeste278: «taccia ogni mortale davanti al Signore, poiché egli
si è destato dalla sua santa dimora (mime‘ôn)» (Zc 2,17); «e la loro
preghiera raggiunse la sua (mā‘ôn qodšô) santa dimora nel cielo» (2
Cr 30,27).
275
«[…] una tana (mā’ôn) di sciacalli» (Ger 10,22; 49,33; 51,37); «riempie di
preda le sue (mā’ôn) tane» (Na 2,12).
276
Mā‘ôn fa riferimento al santuario ebraico: Sal 26,8; 76:3; 2 Cr 36,15.
277
«Tu sei stato per noi un rifugio» (Sal 90,1).
278
«Volgi lo sguardo dalla dimora (mime’ôn) della tua santità, dal cielo» (Dt
26,15; 2 Cr 30,27); «Il Signore ruggisce dall'alto, dalla sua santa dimora (mime’ôn
qodšô) fa udire la sua voce» (Ger 25,30).
94
1.6.11. Mā‘ôz
«Fortezza», «rocca», «rifugio»279. Tale termine è talvolta applicato
a Dio280, al tempio281 oppure al luogo dove doveva essere costruito un
altare282. Isaia sovrappone foneticamente e semanticamente mā‘ôn con
mā‘ôz creando una parola nuova: mā‘uznêhā283, tradotta con «rifugio»,
«fortezza», «città di salvezza».
1.6.12. Bîrāh
«Cittadella», «acropoli» 284 . Bîrāh è stato preso in prestito
probabilmente dai babilonesi (birtu, biranatu, era la città murata)285 ed è
usato esclusivamente nell’ebraico postesilico, con il senso di una città
normale come Gerusalemme o Susa286. Nel libro delle Croniche, bîrāh
descrive la cittadella del tempio di Salomone 287 o la «cittadella de
tempio» ai tempi di Neemia.
1.6.13. Conclusione sull’analisi dei vocaboli
Considerando i termini qōdeš, miqdāš, hêkal, miškān, ’ōhel, mākôn,
bêt ’Ělôhîm, bêt zebul, mā‘ôn, mā‘ôz, bîrāh, possiamo percepire una sfera
semantica molto ampia. Qōdeš è il luogo «santo», libero dal peccato o da
qualsiasi forma di contaminazioni. Miqdāš, spesso sinonimo di qōdeš, è
tradotto con «luogo santo», «tempio» «tabernacolo», mentre hêkāl, è il
279
280
Mā‘ôz in BDB, 731 e in THAT, II, 221-223.
«[…] Roccia (mā‘ôz) di rifugio, un luogo fortificato che mi salva»
(Sal 31,3).
281
«[…] a profanare il santuario (mā‘ôz) della cittadella» (Dn 11,31).
«Costruirai […] sulla cima di questa roccia (mā‘ôz)» (Gdc 6,26).
283
«Il Signore ha ordinato […] di abbattere le sue fortezze (mā‘uznêhā)» (Is
282
23,11).
284
HOLLADAY, bîrāh, in HOL, 38.
La fonte armaica in KOEHLER- BAUMGARTNER, bîrāh, in HALOT, 91.
286
2 Cr 17,12; 27,4; Nm 1,1; 7,2; Est 1,2.5; 2,3.5.8; 3,15; 8,14; 9,6.11f; Dn
285
8,2
287
«L'edificio (bîrāh) non è per un uomo ma per il Signore Dio» (1 Cr 29,1);
«della città (bîrāh) e la casa dove andrò» (Ne 2,8).
95
«palazzo», «tempio», «stanza di preghiera». Miškān e ’ōhel sono «la
tenda» con riferimento alla «dimora della testimonianza», bêt ’Ělôhîm è
la «casa di Dio». Molto belli anche i significati di bêt zebul, mā‘ôn,
mā‘ôz, bîrāh, che suggeriscono, oltre alla «abitazione» o «dimora», il
«riparo», il «rifugio» con il significato di aiuto dato nel momento di
bisogno.
Si potrebbe obiettare che il santuario celeste nell’AT ha una
presenza marginale, essendo un semplice espediente letterario per parlare
della dimensione trascendente di Dio e che la maggioranza dei riferimenti
prendono in considerazione il santuario terreno. Infatti grande parte di
questi testi vanno applicate in primis al santuario terreno e non affermano
direttamente l’esistenza di una struttura «tabernacolo celeste» nel
Pentateuco. Nel loro ruolo, «relativamente marginale» per fondare una
propria e vera teologia del santuario celeste in AT, comunque non negano
la possibilità di intravedere una «dimora celeste di Dio». I testi profetici
e del salterio che ne parlano, anche si sono interpretabili in senso
metaforico, sono nella stessa linea. I testi non negano, ma l’incontrario,
affermano la sua esistenza.
1.7. Conclusione
Il tema del santuario celeste, per i suoi legami con i grandi temi
della teologia e per la sua complessità, non può essere analizzato da un
unico punto di vista. Il nostro tentativo ha preso finora in considerazione
quattro aspetti principali: i riferimenti anticipativi, la terminologia, le
corrispondenze tipologiche e l’espiazione/giudizio.
Rivedendo i riferimenti al santuario celeste, diretti o meno,
abbiamo scoperto che il testo principale del nostro studio (Eb 8,1-2; 9,1112) è ben accompagnato da diverse anticipazioni e posticipazioni, il cui
96
scopo è di sottolinearne la centralità. Tutte queste anticipazioni non ci
forniscono una descrizione letterale del tabernacolo celeste ma una serie
di rappresentazioni specchio, in forma d’immagini, così come sono state
infuse nella mente del profeta.
Le corrispondenze tipologiche orizzontali e verticali di Ebrei 8 e 9
hanno permesso di individuare le correlazioni esistenti con elementi del
culto ebraico: la tenda (Eb 8,2.5), il sacerdozio (Eb 8,3), il patto (Eb
8,8.9), il sacrificio (Eb 9,12-14.28). È da notare che pure le
corrispondenze tipologiche orizzontali riflettono comunque anche una
dimensione verticale in quanto rappresentano in ogni caso un legame tra
la realtà terrestre e quella celeste. Tutte le anticipazioni e tutti gli elementi
tipologici convergono nel sacerdozio di Cristo nel santuario celeste (Eb
8,1.2; 9,11-12) dove, alla presenza del Padre (alla «destra della Maestà»,
Eb 1,3), Egli continua il servizio espiatorio del grande giorno dell’Yom
Kippur.
Analizzando la terminologia ebraica relativa al santuario, abbiamo
la conferma di quanto importanti il santuario e il suo servizio fossero per
il popolo ebraico. Le parole che lo descrivano come casa, tenda, recinto,
fortezza, vadano oltre l’idea di un semplice luogo di culto. Il loro
significato va esteso in maniera simbolica al santuario celeste che diventa
«luogo di riposo» (Eb 4,11), «di grazia e misericordia» (Eb 4,16), «di
speranza (Eb 6,19), «casa di Dio» (Eb 3,6).
La centralità del sacerdozio di Cristo nel santuario è l’elemento di
partenza per il nostro secondo capitolo dove ci proponiamo di analizzare
il testo base del nostro studio, prestando particolare cura agli elementi che
fanno riferimento al santuario celeste.
97