GLI EBREI A FERRARA NEL PRIMO RINASCIMENTO
Premessa
La “triade Borgia”, composta dal pontefice Alessandro VI e dai suoi figli Cesare e Lucrezia, caratterizzò
la vita politica e religiosa della penisola italiana nel periodo compreso tra il 1480 e il 1520. Talvolta sinonimo di clientelismo nella gestione della Chiesa, la figura di papa Borgia subì la contestazione della propaganda umanistica e anticlericale che denunciava la simonia e la corruzione nei ranghi ecclesiastici. Invece nel mondo giudaico Alessandro VI è considerato un protettore degli ebrei, per aver egli mostrato
comprensione verso i profughi sefarditi che giunsero a Roma nel giugno 1493 a seguito dell’espulsione
dal regno bipartito di Spagna. In realtà l’ambiguo pontefice rivelò tratti di severità verso la comunità
israelitica romana, alternati a momenti di conciliazione, approfittando non di rado della sua ricchezza
economica e tassandola per finanziare le campagne militari del figlio Cesare.
In questo contributo alla commemorazione di Lucrezia Borgia, di cui quest’anno ricorre il cinquecentenario della morte, si vuol tratteggiare le caratteristiche dell’insediamento ebraico nella capitale estense
lungo gli anni a cavallo tra ultimo Medioevo e primo Rinascimento. L’anello di congiunzione è rappresentato proprio da Lucrezia, non solo figlia di papa Alessandro VI ma anche duchessa d’Este dal 1497 al 1519.
Pertanto, dai brevi accenni biografici sui Borgia si passa ai duchi estensi Ercole I e Alfonso I –rispettivamente suocero e terzo marito di Lucrezia- che accolsero gli israeliti nei loro domini e li protessero a più
riprese nei momenti difficili, per poi esaminare nel dettaglio questa vivace comunità ebraica, illustrando
numerose vicende individuali utili a questa narrazione. Si affrontano in particolare il processo di rafforzamento dell’attività feneratizia ebraica a Ferrara, la struttura e l’organizzazione della collettività che si
stringeva attorno ai banchieri più influenti, l’arrivo e lo stanziamento dei sefarditi, la condizione femminile nella micro-società ebraica e, per concludere, l’influsso della cultura giudaica sulla corrente umanistica ferrarese.
Rodrigo Borgia al soglio pontificio
Roderic Llançol Borja, nato nel 1431 a Xàtiva vicino Valencia, si trasferì giovanissimo in Italia per studiare retorica e giurisprudenza, laureandosi in diritto canonico nel 1456. Quando suo zio, il cardinale
Alonso de Borja, divenne papa Callisto III, il venticinquenne Rodrigo fu da questi elevato alla porpora e
s’italianizzò il nome in Borgia. Approfittando dell’incontrollato nepotismo dello zio papa, Rodrigo conquistò uno smisurato potere nel ruolo di vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, una sorta di primo ministro nella Curia. Tale condotta fu severamente disapprovata dal successivo papa Pio II, l’umanista Enea
Silvio Piccolomini il quale, dotato di profonda fede e salda morale, non tollerava la lussuria e i vizi diffusi
nel clero capitolino ma il Borgia continuò nel suo stile di vita senza mai rinunciare ai privilegi acquisiti.
Nominato legato pontificio in Spagna per la promozione della crociata contro i mori da espellere definitivamente da Granada, tramò nell’ambito delle trattative del matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, celebrato nel 1469. Tornato a Roma, Rodrigo si prodigò nel governo della Chiesa
sostituendo attivamente il mondano Innocenzo VIII, benché conservasse per sé il titolo nominale di vicecancelliere, esercitato in realtà da Giuliano della Rovere. Quando quest’ultimo cadde in disgrazia per via
dell’infelice belligeranza intrapresa contro il regno di Napoli, il Borgia recuperò visibilità fino al decesso
del papa (luglio 1492).
Nel contesto storico della Reconquista della penisola iberica per iniziativa dei sovrani Ferdinando e
Isabella, del decreto d’espulsione degli ebrei dalla Spagna e della scoperta dell’America (tre avvenimenti
dello stesso 1492 con cui si conclude convenzionalmente il Medioevo), Rodrigo Borgia fu eletto nell’agosto di quell’anno come 214° pontefice della storia della Chiesa con il nome di Alessandro VI; egli provvide
prontamente a ricompensare i suoi principali elettori retribuendoli con posti strategici nel conclave e con
doni consistenti in fastose dimore residenziali. Contraddittoriamente al proprio modo di vivere, Alessandro VI era deciso ad estirpare la piaga della corruzione nei pubblici uffici e avocò a sé l’amministrazione
della giustizia. Una nota positiva del suo papato era il mecenatismo delle arti, da lui favorite e apprezzate.
Nelle questioni religiose si dimostrò un diligente difensore dell’ortodossia, evitando di promuovere la
riforma ecumenica del clero invocata da una parte delle gerarchie ecclesiastiche e proteggendo i diritti
della Chiesa contro le prepotenze di duchi e baroni. Due mesi dopo la sua elezione, Alessandro VI fu testimone dell’evento storico della fortunata avventura colombiana e riceveva notizie e aggiornamenti sugli
abitanti e sulle ricchezze del nuovo continente. Dispose misure per evangelizzare le popolazioni indigene
con cui gli esploratori venivano a contatto, anche se questa attività missionaria spesso fu esercitata con
violenza e coercizioni a danno delle tribù locali. I primi coloni portarono malattie ed epidemie e con le
armi da fuoco avevano facilmente la meglio sulle ribellioni. In seguito alcune direttive papali, ricalcando
le orme del predecessore, riguardarono il trattamento da riservare a streghe e cripto-giudei da scovare e
punire per i loro comportamenti non ritenuti rispettosi dell’ortodossia cristiana, sconfessando l’apertura
mostrata verso i profughi spagnoli.
Alessandro VI si impegnò sia per allearsi con Napoli che per siglare un patto con gli aragonesi, poi
sancito dal matrimonio di suo figlio Goffredo con una figlia del napoletano Alfonso II da lui stesso incoronato sovrano (1494). Pertanto Carlo VIII scese in Italia con il suo esercito, minacciando tra l’altro la convocazione di un concilio ecumenico per ottenere la deposizione del dissoluto papa. Il tentativo di creare
una lega italica contro l’invasore fallì per la mancanza di una comune volontà e la corona di Napoli fu
ceduta a Ferdinando II figlio del re dimissionario. Lo stesso papa, inoltre, si trovò in difficoltà a causa
d’una ribellione scatenata da numerose famiglie nobili romane che agevolò la discesa di Carlo VIII verso
Roma. Dopo due settimane di negoziati, Alessandro VI scese a patti, offrendo libero passaggio alle milizie
francesi sul suolo pontificio, in cambio del giuramento di obbedienza del re permettendogli di entrare a
Napoli e conquistarla. Fu però sconfitto nella cruenta battaglia di Fornovo da una coalizione guidata da
Francesco II Gonzaga e riparò in Francia. Acquietatosi il fronte francese, il papa poté dedicarsi a dirimere
la contesa coloniale tra i regni di Spagna e Portogallo, in lite per la spartizione delle aree di influenza in
America Meridionale. L’arbitrato pontificio si risolse con la tracciatura d’una linea di demarcazione, base
per la stipulazione del trattato di Tordesillas.
Nella vita privata il controverso Alessandro VI non si preoccupava di celare la sua scandalosa condotta
libertina che proseguì per tutta la vita, osservando solo una fugace parentesi di ravvedimento; riconobbe
ufficialmente la propria paternità di numerosi figli illegittimi da varie amanti: tre da più madri ignote,
quattro dalla locandiera Vannozza Cattanei tra cui Cesare e Lucrezia, una figlia da Giulia Farnese (sorella
del futuro Paolo III) ossia Laura Orsini. Tale condotta suscitò le critiche del predicatore domenicano ferrarese Girolamo Savonarola, suo nemico e fustigatore dei lascivi costumi; nel 1495 l’irritato pontefice
convocò il predicatore al proprio cospetto tentando invano di ridurlo al silenzio e proibendogli di predicare. Savonarola continuò caparbiamente a lanciare accuse nei confronti del Borgia e pertanto fu scomunicato due anni dopo. Probabilmente l’atto di interdizione dai sacramenti era un falso ad opera di Cesare
Borgia, volto ad annientare il frate. Il papa era succube del figlio e non agì con tutto il potere che aveva né
osò mai rivelare l’inganno perpetrato ai danni di un uomo che, nonostante le critiche da egli ricevute,
stimava come santo. I fiorentini stanchi delle diatribe e intimoriti dalla tensione tra le fazioni politiche
consegnarono il frate nelle mani delle autorità pontificie. Savonarola, dichiarato eretico e scismatico, fu
impiccato con altri suoi due confratelli, arso al rogo a Firenze e infine le ceneri vennero sparse nell’Arno.
Al contrario, l’ambiguo Alessandro VI protesse un gruppo di profughi marrani spagnoli, stremati da
fame e da stanchezza e accampati alle porte di Roma, sulla via Appia. Questi, dopo l’imposizione del battesimo, desideravano tornare al giudaismo ma vennero espulsi dalla Spagna e gli chiedevano asilo nonostante le lamentele degli stessi ebrei romani, preoccupati di dover provvedere al loro sostentamento: la
loro comunità, come sembra, non desiderava dimostrare un sentimento di solidarietà interebraica. L’offerta di mille fiorini per spingere il papa a non ammettere i profughi a Roma dimostra il loro timore di
perdere i privilegi e la tranquillità conquistati a fatica nello stato pontificio. Quando ciò fu riferito ad Alessandro VI, egli avrebbe reagito esclamando: Per me questa è veramente una novità. Fino ad ora sapevo che
è caratteristica degli ebrei solidarizzare tra di loro, ed invece questi si comportano senza compassione! Pertanto ho deciso che anch’essi siano cacciati dai miei territori e non sia più lecito risiedervi. Allora gli ebrei
romani si videro costretti a raccogliere altri 2.000 scudi d’oro da offrire al pontefice affinché mutasse
proposito e, allo stesso tempo, si rassegnarono all’ingresso in città degli esuli iberici. A questo punto,
intervenne l’ambasciatore spagnolo presso il papa, protestando contro l’accoglienza riservata ai profughi,
perché esiliati da un paese cattolico e il capo di quella stessa religione non avrebbe dovuto accoglierli1.
Gli fu replicato che, pur avendo una concezione negativa dell’ebreo in quanto ritenuto deicida, i pontefici
in genere preferivano ricordare che il popolo ebraico era testimone vivente della verità e della superiorità
della dottrina cristiana. Tuttavia, poco dopo, Alessandro VI costrinse i cripto-giudei a dichiararsi apertamente cristiani, traendo un profitto economico in cambio del rifiuto di adottare misure più drastiche che
li avrebbero abbandonati alla mercé del tribunale inquisitorio che dava la caccia a chi avesse subìto il
battesimo ma fosse restio a comportarsi da buon cristiano.
Del resto, anche verso gli ebrei nativi dell’Urbe gli atteggiamenti del Borgia erano contraddittori: da
un lato permise la riduzione del formato del segno giallo obbligatorio per gli israeliti ma dall’altro ordinò
di allungare il percorso che alcuni maschi adulti della comunità ebraica, estratti a sorte, dovevano percorrere nudi durante il carnevale romano in modo da osservarli dalle finestre di Castel Sant’Angelo. Infine
per tre anni impose sugli ebrei capitolini una tassa aggiuntiva del 5%2, considerandoli difatti una utile
fonte di denaro, in quanto il figlio Cesare necessitava di un cospicuo finanziamento per le sue campagne
militari, nell’ambito di una politica tesa a rendere potente la propria famiglia e a creare un regno personale a discapito dello stesso stato papale. Nell’ultima fase del suo pontificato assisté alle conquiste operate dal figlio in Romagna: con notevole sicurezza il giovane Borgia conquistò in successione Pesaro, Cesena, Rimini e poi Faenza, Urbino e Senigallia. Non solo la comunità ebraica, ma anche gli introiti
dell’Anno Santo e la cessione simoniaca delle cariche ecclesiastiche e cardinalizie offrivano i fondi indispensabili per allestire un’armata adeguata. Nel frattempo il papa indebolì la nobiltà romana per favorire
l’ascesa della sua famiglia: un altro figlio, Giovanni di soli due anni, diventò duca di Nepi e suo nipote
Rodrigo divenne duca di Sermoneta. Infine venne fisicamente eliminato il cardinale rivale Giovan Battista
Orsini e decretato il bando dei componenti della sua famiglia.
Solo il decesso del papa (avvenuto nel 1503 in circostanze mai chiarite, forse per avvelenamento) arrestò l’ascesa politica del suo clan familiare. La salma di Alessandro VI subì vicende travagliate: dapprima
tumulata senza alcuna celebrazione funebre in San Pietro, per non acuire i disordini scoppiati all’indomani della sua morte, fu successivamente traslata nei sotterranei vaticani. Nel 1610 le spoglie trovarono
oblio nella chiesa degli Spagnoli in Roma e, dopo secoli, nel 1889 gli fu dedicato un monumento degno di
rilievo.
Ercole I, primo duca rinascimentale
Lo stato feudale estense era governato dalla casata degli Este, investita di tale potere vicario dalla
Chiesa. La capitale Ferrara non godeva di autonomia comunale, essendo stato stroncato già nel XII secolo
il movimento dei governi locali. Pertanto un’evoluzione sociale e politica delle vessate masse urbane e
rurali non ebbe in Ferrara una concreta possibilità di realizzazione. La sopravvivenza dei ceti sociali medio-bassi e il miglioramento della loro condizione di vita dipendevano infatti dall’aristocrazia locale che
vantava diritti sulla proprietà terriera imponendo ricavi dalla gestione affidata ai contadini e talvolta stabilendo alti prezzi sui prodotti agricoli a proprio arbitrario vantaggio. L’amministrazione condotta dai
Dodici Savi era limitata e gestita da personaggi non di rado di scarsa preparazione e competenza, dato
l’uso di vendere le cariche al miglior offerente per rimpinguare le casse ducali.
Al momento della nascita di Ercole (nel 1431), il principe estense Niccolò aveva già alcuni figli illegittimi tra i quali i prediletti Leonello e Borso, nati dalla relazione con Stella Tolomei: il primo fu designato
erede, decisione confermata nel testamento del 1441. Ercole fu addestrato all’arte del combattimento e
della diplomazia, occupandosi come governatore di Modena e partecipando attivamente a numerose dispute che il fratellastro Borso intraprese con i rivali; nel corso della battaglia della Riccardina (intrapresa
nel 1467 al fine di rovesciare il dominio mediceo e di instaurare la signoria del Colleoni su Milano ma
rimasta senza un chiaro vincitore) riportò una pesante ferita al malleolo di un piede che lo lasciò zoppo
L’unica fonte originaria della notizia, peraltro non pienamente attendibile ma ripresa da cronache posteriori, è lo Shevet Yehudah (“Verga di Giuda”), raccolta di cronache e novelle opera di Solomon ibn Verga, marrano nato in Castiglia, rifugiato prima
in Portogallo e poi in Italia dal 1507; cfr. Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 9, “Ibn Verga, Solomon”, pp. 695-696.
2 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 1, “Alexander VI (Borgia)”, p. 619.
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e dolorante per il resto della sua vita, pur se preso in cura dal medico ebreo Iacob, elogiato per aver salvato il principe dalla morte3. Il grave ferimento meritò al principe fama e onori, poi sfruttati al momento
del decesso di Borso. L’altro pretendente alla successione, il nipote Niccolò escluso perché troppo giovane, aveva dalla sua parte Milano, Mantova e Lorenzo de' Medici, ma Ercole ottenne il decisivo appoggio
di Venezia. In un clima di violenze urbane e movimenti di truppe lungo i confini, Niccolò lasciò la capitale
alla volta di Mantova, spinto dalla paura di venir assassinato o su ordine del duca già gravemente ammalato. Ercole così si trovò padrone della città e dopo le esequie di Borso, concesse amnistie ed elargizioni
di cibo al popolo, promettendo al contempo ritorsioni contro i sostenitori di Niccolò, graziati solo nel
1493. Un complotto scoperto qualche mese dopo portò a numerose condanne a morte. Consolidatosi nel
potere, Ercole ricevette dal papa, cui Ferrara era infeudata, il rinnovo del titolo ducale nel 1472 in cambio
di un censo annuo di 7.000 fiorini. Per sentirsi più sicuro sostituì diversi funzionari e adoperò una guardia
armata a propria difesa. Nei rapporti esteri migliorò il legame con Ferrante re di Napoli, ottenendo in
sposa sua figlia Eleonora. A causa delle dispute per via del possesso di Cipro, la Serenissima dichiarò che
questo accordo di matrimonio -raggiunto nel 1472- era un tradimento dell’amicizia tra estensi e veneziani. Per il ducato le conseguenze di tale ostilità risultarono serie: perdite territoriali, migrazioni di
massa da Modena e da Reggio determinate dalla carestia, devastazioni di proprietà e di colture, pesante
indebitamento ed inflazione. Pertanto Ercole scelse una posizione neutrale nei successivi conflitti che
animavano la penisola.
Il duca preferiva occuparsi di alcune problematiche interne allo stato estense fattesi più serie quali il
crescente livello di criminalità e illegalità e la corruzione dei funzionari. La sua tattica consistette in severe misure di polizia, decreti per ridurre i reati connessi ai festeggiamenti di carnevale, il respingimento
di qualsiasi richiesta d’amnistia, la nomina di personaggi notoriamente integerrimi ai gradi più alti della
polizia. Sempre più convinto che la stabilità del suo potere dipendesse dalla serenità dei suoi sudditi, si
dedicò ad attività ludiche e artistiche cui lasciava che partecipasse anche la popolazione ferrarese, dimostrando di possedere un senso di responsabilità verso il benessere spirituale generale. Tale periodo di
distensione consentì ad Ercole di dedicarsi ad altre attività che non fossero quelle militari e politiche,
almeno fino allo scoppio delle ostilità con Venezia nel 1482 concluse due anni dopo con il passaggio del
Polesine di Rovigo alla Serenissima. Nell'Epifania del 1473 iniziò la prassi, dallo stampo tirannico e rinnovata quasi ogni anno forse fino al 1485, di percorrere la città “cercando la ventura”, un giro che quel
giorno il duca compiva con la carretta di corte per sollecitare la popolazione a elargirgli doni e compiere
atti di devozione, non si sa fino a che punto volontari. Questi regali andavano ad arricchire ulteriormente
le voraci dispense ducali. I più prodighi erano il vescovo, che nel 1477 donò due vitelli, un maiale, 10
scatole di confetture e formaggio, la famiglia Trotti e quella dei Calcagnini che offrirono selvaggina,
agnelli, capponi, salsicce. I poeti che detenevano incarichi pubblici erano invitati a mettere a disposizione
la loro parte e Giovanni Savonarola, fornitore della corte e padre del frate Girolamo, regalò un vitello4. In
cambio, in occasione del giovedì santo Ercole inaugurò l’uso di sfamare centinaia di persone, servendo
insieme ai suoi fratelli i pasti ai bisognosi; provvedeva poi personalmente a lavare i piedi dei commensali,
a distribuire abiti e denaro e ad abbracciarli. Siccome amava la caccia, nel 1472 creò un grande parco per
l’attività venatoria a nord della città, il Barco. Nel 1492 diede nuovo impulso all’attività edilizia, ristrutturando il cortile ducale e gli edifici pubblici realizzando un progetto di armonica espansione urbana, poi
chiamata Addizione Erculea, che comprendeva numerose eleganti strade in prospettiva tra cui la via degli
Angeli (poi via dei Piopponi e oggi corso Ercole I d’Este), l’attuale maestoso corso della Giovecca e la
scenografica piazza Ariostea5. Fece infine riedificare le mura di cinta e scavare il fossato sottostante, havendo il duca Hercole facto al tuto deliberatose de fortificare la sua citade de Ferrara, per modo che mai in
eternum venetiani non ge la potesse a lui et suoi heredi tuore6. Il duca spendeva gran parte delle sue entrate
personali in attività culturali e ricreative da lui predilette come teatro, pittura, architettura, musica. La
sua corte amava circondarsi di musicisti valloni e fiamminghi, di letterati di fama come Ludovico Ariosto
e Matteo Maria Boiardo, di teologi e astronomi tra cui il polacco Copernico che studiò a Ferrara laurean-
Chiappini 2001, p. 144; Arieti-Genusso 1993, p. 278.
Caleffini 2006, pp. 32-33.
5 Chiappini 2001, pp. 199-202.
6 Caleffini 2006, p. 849.
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dosi nel 1500 in diritto canonico. Tali attività calamitavano numerosi artisti forestieri, traduttori che facevano conoscere le opere straniere al pubblico ferrarese, impresari teatrali, maestranze ed esperti impegnati nell’allestimento delle rappresentazioni e nell’accoglienza dell’aristocrazia che giungeva a Ferrara da altre parti d’Italia per assistervi. Gli spettacoli teatrali e carnevaleschi, che coinvolgevano anche
gli abitanti della città, rivestivano una funzione strategica dal momento che rendevano la popolazione
partecipe del mecenatismo del duca e la invogliavano a tributargli preziosi consensi.
Dopo il decesso della moglie Eleonora d’Aragona (1493), il sentimento di devozione religiosa divenne
l'elemento predominante dei molteplici interessi artistici, edilizi e musicali del duca. Interessato a conoscere il contenuto delle riforme del Savonarola, ferrarese di nascita, chiese al suo rappresentante a Firenze di esporgli le prediche del frate e di chiederne l’opinione sul probabile corso degli eventi, nonché
di invocarne le preghiere per sé e i suoi sudditi. In seguito intraprese uno scambio epistolare con il frate,
cercando una guida spirituale e ottenendo copia scritta delle prediche da cui trasse ispirazione per nuove
misure che ripulissero la capitale dal vizio, arrivando ad emanare una grida d’urgenza per reprimere le
concubine, i vili giochi e le risse. Negli ultimi dieci anni di governo assisté alle invasioni francesi e all'espansione dei Borgia conservando una fragile neutralità al fine di evitare danni al suo stato, concedendo
soltanto il passaggio dei francesi attraverso i territori estensi e acconsentendo di subentrare allo Sforza
nel governo di Milano durante un’assenza di questi. Quando Luigi XII invase nuovamente l’Italia nel 1499
Ercole mise Ferrante a sua disposizione permettendo il transito delle sue truppe, ma rifiutò di aiutare
Ludovico Sforza durante la sua breve riconquista di Milano nel 1500 evitando così la vendetta francese e
salvandosi dalla minaccia delle scaramucce militari di Cesare Borgia. Inoltre Luigi XII spinse Ercole ad
accettare la proposta del papa che raccomandava un matrimonio dell’erede Alfonso, rimasto vedovo, con
sua figlia Lucrezia ottenendo in cambio una riduzione del censo feudale, l’investitura perpetua della signoria estense sul ducato per tutti i suoi discendenti legittimi e la concessione del possesso di Cento e
Pieve di Cento. Principalmente in funzione antiveneziana, questa unione era anche una sorta di protezione contro le scorrerie di Cesare Borgia signore della Romagna e fratello della sposa. Tali vantaggi durarono poco, fino alla morte di papa Alessandro VI nel 1503. Proprio per un atto di pietas religiosa, il duca
si recò a Firenze nel luglio del 1504 per esaudire un voto fatto alla locale immagine dell'Annunziata ma
questo fu il suo ultimo viaggio, difatti morì nel gennaio 1505.
L’esordio dell’insediamento israelitico a Ferrara
Una iniziale presenza ebraica nella città estense è attestata nel 1088 e il primo privilegio accordato
all’ancora minuscola comunità porta la data del 1275. Lungo il Trecento e il primo Quattrocento il gruppo
ebraico continuò a consolidarsi a un ritmo piuttosto lento ma dal 1451 conobbe un’espansione accelerata,
a seguito del decreto con cui l’estense Borso dichiarò di accogliere e proteggere qualsiasi ebreo raggiungesse i suoi domini7. Alcuni israeliti erano stati espressamente invitati a Ferrara per sostituire i cambiavalute cristiani della Toscana invisi alla popolazione locale per gli alti tassi percepiti: il primo documento
che riporta queste concessioni è forse quello del 1370 emanato dal marchese Nicolò8. I prestatori israeliti
ricevevano così la “condotta” a tempo determinato, una sorta di contratto in cui erano elencati diritti e
obblighi tra cui il permesso di dimora e l’ammontare della relativa tassa, la libertà di pregare e di riunirsi
in un oratorio predisposto ai riti religiosi, l’osservanza delle norme alimentari della kashrut, l’esenzione
dall’attività lavorativa durante il sabato e altre feste giudaiche, la difesa personale in caso di aggressioni
popolari, tutto in cambio di un ragionevole tasso d’interesse. Durante la signoria di Ercole I sul ducato di
Ferrara, gli israeliti trovarono in lui un sincero protettore che s’avvaleva volentieri della disponibilità di
denaro offertagli dai banchieri ebrei, anche per finanziare le opere di riqualificazione urbana. In tal modo
giunsero nuovi feneratori, accompagnati dalla famiglia e da un seguito d’altri ebrei al loro servizio e di
domestici, provenendo perlopiù da diverse contrade della penisola italiana o dalle terre germaniche;
esercitavano generalmente il commercio di denaro nelle stationes ad tendam localizzate in angoli strategici, vicino a mercati e fiere. I più influenti di questi banchieri ante litteram erano anche incaricati di rappresentare il gruppo ebraico che mancava ancora di status giuridico, concesso alla comunità assai più
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Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 6, “Ferrara”, p. 762.
Leoni 2011, pp. 2-5.
tardi, nel 15719.
Appena insediatosi, Ercole I confermò le condotte concesse dal defunto fratellastro Borso ai feneratori
ebrei, tra i quali spiccava Zinatano che prestò al comune di Reggio i 100 fiorini d’oro necessari per festeggiare il matrimonio di Ercole con Eleonora d’Aragona. Nel 1473 il figlio di Zinatano, David, denunciò cinque ladri che gli avevano svaligiato l’abitazione, incoraggiati dalla noncuranza dimostrata dai reggiani
verso i diritti degli ebrei dimoranti nella loro città. I malfattori furono arrestati e consegnati al luogotenente che tuttavia li lasciò deliberatamente fuggire. Un altro figlio del banchiere, Abram, cavalcando nelle
campagne fuori Reggio incontrò uno dei ladri fuggiti, apostrofandolo malamente e questi assassinò
l’ebreo. Per vendicarsi, il padre Zinatano chiese l’intervento di Ercole che ottenne dal duca di Milano la
consegna del malfattore, nel frattempo rifugiatosi nel milanese; così l’omicida fu ricondotto a Reggio e
decapitato, issato a una forca e la sua testa impalata nello stesso luogo dell’efferato delitto10. Qualche anno
dopo, nel 1479, l’ormai anziano Zinatano ottenne il permesso di stipulare con il comune di Reggio una
guarentigia per circolare in sicurezza nella città e un’assicurazione in caso di furti, anche per difendersi
dai tumulti che scoppiavano a seguito delle prediche del frate Giovanni da Prato che sobillava i fedeli nel
duomo reggiano.
Il duca dimostrava una notevole familiarità con il ricco Abram (soprannominato Tusebec - “tu sei cornuto”) introducendolo a corte e che, durante le feste natalizie del 1477, batté in un gioco a carte: Lo illustrissimo duca nostro distribuì li officii soi, e non li dette a le feste de Nadale passate, como solea, per havere
ogni dì attexo zugare con uno Zodio Abbram, il quale ha molti dinari, e lo duca hè remaxo vincitore. Forse
si tratta dello stesso personaggio, Abram Tusello teutonico hebreo alias dicto Abram zugadore, citato nel
1486 come debitore di Guglielmo da Bologna tenutario del banco feneratizio dei Sabbioni11. Abram in
seguito fu compagno di giochi anche del cardinale Ippolito e del principe Alfonso d’Este. Viceversa, un
bombardiere ebreo fu impiccato al palazzo della Ragione con l’assenso di Ercole, perché ritenuto colpevole di spionaggio e di tentata diserzione: il tradimento di un ebreo era giudicato con maggiore severità
dal momento che era rarissimo che fosse abilitato a portare armi e combattere. Gli ebrei erano spesso
oggetto di pregiudizi e tacciati di deicidio, come scrisse lo stesso cronista ducale Caleffini su la sponga et
la cana cum che fu dato bevere per gli malvasi hebrei al nostro Signore Messer Iesu Christo12, in occasione
d’un regalo fatto dal sultano ottomano al papa Innocenzo, la spugna e l’asta con cui Gesù in croce sarebbe
stato dissetato (in realtà la vicenda di questo dono è oscura e presentata in diverse versioni contrastanti).
L’invito dei religiosi a eliminare i banchi ebraici era spesso vanificato dal timore dei governanti che i
poveri non potessero più ottenere a prestito il denaro per l’acquisto di generi di prima necessità: nel 1472
un frate istigò alla soppressione del banco ebraico installato a Tarquinia che, tuttavia, fu riaperto proprio
a seguito delle proteste. L’anno seguente crollò il Monte di Pietà di Assisi e fu urgentemente richiamato
un prestatore ebreo per sopperire alle necessità degli indigenti di quella cittadina. Così l’attività ebraica
aveva una indubbia utilità sociale nell’arginare gli effetti più deleteri del pauperismo endemico in epoca
medievale, anche se talvolta le botteghe dei banchieri erano preda delle mire di ladri e rapinatori che le
svaligiavano del denaro ivi custodito, come accaduto nell’esercizio di cambiavalute di un ebreo ferrarese
in via Grande nel gennaio 149213. Pertanto il duca estense spesso mitigava motu proprio le vessazioni
antigiudaiche; ad esempio impedì al Giudice delle Vettovaglie Francesco Ariosti di multare gli ebrei e
obbligarli a circolare per le vie cittadine con un grande segno distintivo, anche perché questi non era
competente in materia ma responsabile del mercato alimentare, del controllo di pesi e misure e della
repressione delle frodi commerciali. Sempre per controbilanciare le angherie sopportate dai banchieri
ebrei, nel 1473 Ercole decretò l’alleggerimento delle pene pecuniarie e la soppressione di quelle corporali
eventualmente comminate loro nel caso in cui essi avessero intrattenuto rapporti troppo stretti con le
cristiane. I privilegi erano estesi anche ai familiari del concessionario: a favore del banchiere Noè Norsa,
morto nel 1481, fu concesso un ampio privilegio esteso ai suoi quattro figli maschi Emanuele, Salomon,
Elia e Simone abilitati al commercio e al contratto, pur se minorenni. Spesso i Norsa ricevevano anche le
Leoni 2011, pp. 3-5.
Balletti 1930, pp. 42-44.
11 Diario di Bernardino Zambotti, 15 marzo 1478; ASFe, ANA, not. Giorgio Aurelio Romanini, matr. 187, p. 1, 1486, c. 38.
12 Caleffini 2006, p. 845.
13 Caleffini 2006, p. 829.
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10
assoluzioni plenarie, ossia l’esenzione totale dai controlli a carattere civile e criminale. Talvolta pure le
famiglie del ceto patrizio ferrarese avevano bisogno dell’aiuto finanziario ebraico: i quattro fratelli Trotti
conclusero affari con i feneratori israeliti prendendo in prestito ingenti somme e convincendo il duca a
emanare ulteriori provvedimenti a protezione dei loro creditori. Tuttavia i Trotti, che gestivano con arroganza le cariche pubbliche, erano malvisti e la prossimità agli ebrei non li rendeva certamente meno
disprezzati. L’avidità dei Trotti, che usavano maltrattare i servitori e pagarli esiguamente, li rendeva bersaglio di malignità popolari e una voce su occulte trame con i nemici veneziani causò la loro destituzione
dalle cariche; cessarono quindi i loro contatti economici con gli ebrei. Alla notizia si suonarono le campane in segno di giubilo e furono accesi “fuochi d’allegrezza”, usanza tenuta in occasione dei festeggiamenti popolari14.
Gli israeliti ferraresi partecipavano volentieri alla vita cittadina, in occasione dei festeggiamenti del
palio o della ventura, ossia il giro effettuato dal duca Ercole il giorno d’Epifania per sollecitare i sudditi a
offrire doni a lui e alla corte. Gli ebrei meno abbienti preparavano i loro tipici tortoliti de Zudie, dolci di
zucchero e marzapane a forma di piccoli tortelli. Nel 1473 Leon Giudio offrì 4 capponi, 2 fagiani, 4 scatole
di confetti, un marzapane e 14 tortoliti, gli ebrei delle contrade dei Carri, dei Sabbioni e di san Paolo offrirono leccornie, selvaggina e formaggi15. I doni ebraici sono ricordati dall’abate Baruffaldi nella sua canzone satirica “Banchetto fatto dalla Giovecca a tutte le strade di Ferrara”: Il ghetto pur anch’esso / si volle
far vedere / Portando dodici Ocche in un Paniere / e seco avea un sacco / da regalar la mensa di Tabacco.
Per rinserrarsi attorno alle proprie istituzioni comunitarie e ai negozi dei banchieri ricchi e più in vista,
gli ebrei avevano da tempo abbandonato via Centoversuri dove vivevano tra la seconda metà del Duecento e la metà del Trecento, popolando invece la via dei Sabbioni (oggi via Mazzini). In questa strada,
all’attuale numero civico 95, il banchiere romano ser Mele acquistò nel 1482 da ser Angelo da Rimini un
edificio a uso personale per abitarvi e condurre i propri affari finanziari, riservando ai riti giudaici un
locale, già abilitato a tal uso nel 1457 da un decreto dell’inquisizione16. In seguito, nel 1485, ser Mele
decise di destinare alla collettività ebraica, nella persona dei quattro banchieri più in vista che la rappresentavano giuridicamente, gli arredi rituali, i libri sacri e un fondo di mille ducati per l’acquisto dell’edificio, ottenendo da questi e dai loro eredi l’impegno di gestire la sinagoga collocatavi17.
L’amministrazione della giustizia locale spesso non teneva conto dei decreti ducali e, nel 1489, gli ebrei
presentarono una lagnanza riguardo il fatto che erano spesso costretti a comparire dinanzi a diversi tribunali cum maximo servitorum dispendio perché non riuscivano a dimostrare l’esistenza d’una precedente ordinanza che stabiliva l’esclusiva competenza del Magistrato dei Savi sulle questioni che coinvolgessero cristiani ed ebrei; essi quindi chiedevano al duca di ribadire il vecchio principio giuridico che
garantiva alla comunità israelitica un processo equo e, dati i precedenti, il duca concesse quanto sollecitato. Infelice esito ebbe invece la vicenda della ragazzina ebrea sottratta dalla propria abitazione
nell’estate 1491 e condotta nella casa di Daniele Obizi per venir educata a una nuova vita da cristiana. Gli
affranti genitori Elia e Stella, visto che le tre precedenti richieste ai giudici dei Dodici Savi erano rimaste
inascoltate, rivolsero due suppliche al duca affinché costringesse la ragazza a portarsi in un monastero
dove i genitori potessero rivederla e chiederle se avesse un’intenzione realmente spontanea di abbracciare il cristianesimo. Un ulteriore tentativo effettuato dalla duchessa non era andato a buon fine, dal
momento che gli emissari recatisi nella casa dell’Obizi erano stati minacciati e scacciati dai servitori18.
L’arrivo dei profughi spagnoli e portoghesi
Nel 1492 i sovrani Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona completarono il processo di reconquista, inglobando nel loro stato bipartito il regno moro di Granada, l’ultimo baluardo della presenza islamica
Chiappini 2001, p. 185.
Caleffini 2006, p. 211.
16 Leoni 2001, pp. 17-18.
17 Essi erano Lazzaro del fu Salomone da Norsa, Bonaiuto del fu Elia da Monselice, Leone del fu Datilo da Cologna e Manuele del
fu Noè da Norsa, in Leoni 2011, pp. 17-18. Il luogo sarebbe divenuto il principale tempio ebraico a Ferrara, tutt’oggi esistente e
dove ci sono da allora la sede e gli uffici della comunità israelitica ferrarese, tre oratori e oggi anche il museo di oggetti sacri
giudaici.
18 ASMo, ASEst, ApM, Ebrei, busta 19/a.
14
15
in terra iberica. La coppia reale, per meritarsi l’appellativo di Re Cattolici, si determinò di eliminare, almeno formalmente, ogni traccia di giudaismo e islamismo dalla Spagna. Molti ebrei spagnoli, detti anche
“sefarditi”19, pur di non lasciare il paese e le proprietà che detenevano nei luoghi nativi scelsero di convertirsi al cattolicesimo. Però in gran parte conservarono nel cuore il giudaismo avito, andando ad aggiungersi ai “marrani” già presenti sin dai tempi dei massacri del 1390-1391 continuando a vivere tra gli
altri spagnoli ma lottando contro pregiudizi ed emarginazione sociale. Un’altra parte dell’ebraismo spagnolo, la cui consistenza non è mai stata appurata con precisione, scelse l’opzione dell’esilio e si rifugiò in
Portogallo, Navarra, Francia, in diverse città della penisola italiana, nel Nordafrica.
La notizia che questi ebrei erano costretti a partire per non aver voluto abiurare il giudaismo fu riferita
al duca Ercole I d’Este da Giacomo Trotti, suo ambasciatore nella Milano sforzesca che aveva stretti rapporti con Genova, porto nel quale era previsto l’arrivo delle navi che trasportavano una parte dei profughi
che preferivano l’Italia. Ventuno famiglie di esiliati sopravvissuti alla disagevole traversata, appena scesi
dalle imbarcazioni, furono confinati in un’area recintata nel porto da cui poté uscire solo chi avesse accettato il battesimo; alcuni bambini si rifugiarono nelle chiese e, solo dopo essersi lasciati battezzare,
ricevettero cibo. Il governo locale istituì una commissione di otto membri incaricati di concedere o negare
il salvacondotto ai profughi per assicurarsi che nessuno nel frattempo contraesse debiti con cittadini genovesi. Ercole I, che aveva visitato Genova a metà 1492, vide subito quale partito si poteva trarne20 e fece
pervenire già il 20 novembre successivo, tramite Corradolo Stanga suo agente in loco, dei salvacondotti
personali per permettere ai commercianti ebrei espulsi di fare ingresso nel suo dominio e stabilirsi a
Ferrara o in altre città estensi21. Nel documento era espressamente affermato che gli Este sarebbero stati
felici di ospitare chi tra i sefarditi fosse giunto per dimorarvi: noi siamo multo ben contenti che vengano
ad habitare qua, cum le loro famiglie, et che li conducano le sue robe perché da noi sempre serano ben visti
et tractati in tutte quelle cose che poteremo22. Probabilmente fu la duchessa Eleonora d’Aragona, moglie
di Ercole I, a sollecitare l’accoglienza dei profughi ebrei: amante del lusso, era interessata alla loro capacità di avviare un commercio di tessuti preziosi, ornamenti e altri oggetti di valore che potessero venir
acquistati dalla sua corte23. La duchessa era esperta nell’arte d’amministrare lo stato: quando il marito
era assente, lei s’incaricava di assumere le redini del governo, occupandosi anche del cosiddetto “esame
delle suppliche”, una serie di richieste di grazia o di liberazione di prigionieri trattenuti nel territorio
ferrarese. All’inizio del 1493, nel mese di febbraio, il duca Ercole I ripeté ufficialmente le promesse d’accoglienza in una lettera patente, elencando i capifamiglia cui erano accordate le liberalità.
L’invito rivolto alle famiglie sefardite di prendere la via di Ferrara, con la garanzia che non avrebbero
subito il battesimo per poter lasciare il porto genovese, suonava come una buona notizia nella storia
ebraica di quel periodo, piena di espulsioni e persecuzione. Nella sola penisola italiana, infatti, a Ravenna
nel 1491 venne saccheggiato il quartiere ebraico, la sinagoga fu distrutta e nell’anno successivo fu decretato il bando degli ebrei. Nel 1485 gli israeliti furono respinti da Perugia, nel 1486 da Vicenza a seguito
della diceria che i correligionari della vicina Bassano avessero commesso omicidio rituale ai danni di un
bambino cristiano, nel 1488 da Parma, nel 1489 da Milano e Lucca, nel 1494 da Firenze e tutta la Toscana
a seguito della cacciata dei Medici (ma sarebbero rientrati assieme ai prìncipi nel 1513)24. Ancora, nel
1510 furono allontanati da Napoli e da quasi tutta l’area a sud di Roma quando Ferdinando d’Aragona
scacciò i francesi; da Lecce erano già andati via in due riprese, nel 1463 e nel 149525. Nel 1509 lasciarono
Treviso e tra il 1480 e il 1500 avvennero sanguinose sommosse antigiudaiche a Mantova, pur se i Gonzaga
Da Sefarad, termine con cui in ebraico antico e talmudico s’indicava genericamente la penisola iberica. Pertanto sono definiti
sefarditi gli ebrei d’origine castigliana, aragonese, catalana e portoghese che, a seguito dell’espulsione o della fuga
dall’inquisizione, si sono sparsi lungo le coste del Mediterraneo, fondando comunità che hanno conservato lingua e tradizioni
della madre patria.
20 Leoni 2011, p. 23.
21 Muzzarelli in Fregni 1993, pp. 235-242.
22 Leoni 2001, p. 609.
23 Leoni 2011, p. 24.
24 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 7, “Florence”, p. 84; Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 15, “Perugia”, p. 798 e “Parma”,
p. 652; Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 17, “Ravenna”, p. 120; Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 20, “Vicenza”, p. 515. Per
un’analisi generale delle dinamiche del movimento migratorio, sia coatto che volontario, degli israeliti nell’Italia di fine
XV secolo, vedasi ad esempio Bonfil 1991, pp. 24-30.
25 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 14, “Naples”, p. 776; Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 12, “Lecce”, p. 594.
19
erano tolleranti nei loro confronti26. Talvolta erano gli ebrei a non volersi insediare in una città, scoraggiati dal seguito popolare che vi avevano i frati itineranti; altre, come Milano e Genova, pur caratterizzate
da un’economia largamente mercantile e di terziario, rifiutarono esplicitamente di ammettere qualsiasi
presenza ebraica.
Nel dicembre 1496 il nuovo e ambizioso re portoghese Emanuele, poco dopo l’ascesa al trono, firmò il
decreto d’espulsione degli ebrei dal suo regno. Egli desiderava consolidare il potere raggiunto dopo la
morte del cugino Giovanni, rimasto senza eredi maschi, quindi aveva sposato l’infanta spagnola Isabel. La
madre di lei, la regina Isabella, pretese che il Portogallo si liberasse delle sue comunità giudaiche entro il
mese di marzo del 1497. Don Emanuele riuscì a battezzare quasi tutti gli ebrei portoghesi per impedir
loro di lasciare il paese, dal momento che desiderava continuare a servirsi della loro valentia in medicina,
astronomia e commerci internazionali. Tuttavia quasi tutti questi convertiti continuarono a seguire i riti
ebraici in casa propria e tramandandoli ai figli. Circa un secolo più tardi, nel Seicento, quando l’inquisizione si occupò dei cripto-giudei, giudicandoli severamente e facendo torturare e bruciare alcuni di loro,
scelsero di emigrare in Olanda, nelle città francesi e provenzali o in quelle italiane. Le città della penisola
italiana che accolsero il maggior numero di esuli spagnoli e portoghesi furono Venezia, Napoli, Padova e
Verona, Pisa e infine Ferrara.
Infatti, viste le numerose facilitazioni concesse, Ferrara era diventata il solo centro urbano dell’Emilia
Romagna, tra i 32 di questa regione ospitanti comunità israelitiche, in cui s’aggiungevano i profughi sefarditi. Essi si concentrarono in un’area attigua a quella già abitata dagli altri ebrei della città, ossia lungo
via Vittoria e via Vignatagliata. La maggior parte dei nuovi ebrei ferraresi era composta da commercianti,
artigiani, orafi e argentieri; c’erano anche due rabbini e almeno un medico. Il rabbino Santo Abenamias,
ossia Shem Tov ben Nahmias, era il primo dei capifamiglia elencati nel decreto ducale, l’altro rabbino era
David Marich che era anche medico. Essendo due gli esperti nel rituale spagnolo, i nuovi arrivati poterono
continuare a praticare il giudaismo alla loro maniera senza adottare il rito italiano seguito dagli ebrei
locali; si istituì una yeshivah sotto la guida di Mosé Navarro e riservata ai soli sefarditi, trapiantando in tal
modo la cultura religiosa prettamente ebraico-spagnola. Questa accademia fungeva da centro di discussione e decisioni su questioni della quotidianità ebraica, su come gli israeliti dovessero comportarsi nella
prassi legale, commerciale e matrimoniale dando rilevanza al rispetto del prossimo come prescritto dalle
sacre leggi mosaiche. Forse questi profughi non erano i primi arrivati a Ferrara dalla penisola iberica, dal
momento che è attestata nel 1476 la presenza dell’ebreo spagnolo Samuele figlio di Musa e residente
nella contrada ferrarese di san Clemente27. Egli aveva sfidato in duello l’oste correligionario Lazzaro, figlio di Liuzio da Argenta perché si contendevano la stessa donna: ognuno dei due asseriva che Bella fosse
la propria moglie e quindi erano proprietari degli abiti a lei appartenenti. La controversia invece terminò
con la dazione di due lire di marchesani da parte di Lazzaro allo spagnolo, il quale rinunciò sia alla donna
che ai suoi vestiti.
I nuovi arrivati erano equiparati agli altri ebrei già presenti nel ducato ma, in realtà, gli stranieri erano
avvantaggiati economicamente e socialmente rispetto a quelli italiani: i sefarditi potevano eleggere propri dirigenti, farsi giudicare da esperti da sé scelti, godere di riduzioni sulle tasse al fine di incentivare i
commerci che avrebbero giovato all’economia estense. Con Ercole I, gli ebrei stranieri trovarono una benevolente ospitalità anche per la comune avversione nei confronti del potere papale. Difatti quando papa
Pio II chiese di abolire ogni banco di prestito, il duca estense si oppose adducendo la motivazione che la
sua economia ne avrebbe risentito negativamente. Nel 1493 fra’ Bernardino Tomitano da Feltre, chiamato “martello degli usurai”, predicò nel duomo ferrarese contro l’attività feneratizia ebraica, senza successo perché gli ebrei erano protetti dal duca. Però quest’ultimo dispose nel 1496 che gli ebrei indossassero il segno distintivo sugli abiti e sedessero nelle chiese per ascoltare i sermoni; nei suoi ultimi anni di
vita, Ercole I era suggestionato dalle invettive dei predicatori, catastrofiche quanto prive di fondamento.
In occasione di un’epidemia di peste, si credette che i marrani spagnoli ne fossero i responsabili e nel
luglio dello stesso anno fu emessa una grida per obbligare alcuni di loro ad abbandonare Ferrara prima
che le porte venissero sbarrate per limitare il contagio.
26
27
Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 13, “Mantua”, p. 486.
ASFe, ANAFe, notaio Antonio da Carpi matr. 146, pacco 1, prot. 1476, c. 36.
Di solito i marrani che riuscivano a entrare nello stato estense, o in altri stati tolleranti, abbandonavano il cristianesimo che sin allora avevano seguito solo per salvare le apparenze e sfuggire al controllo
ecclesiastico. Alcuni conversos invece non erano propensi a ritornare subito all’ebraismo, in quanto avevano ancora parenti in Portogallo e quindi la propria riconversione avrebbe smascherato i familiari rimasti nel paese dove l’inquisizione esercitava una stretta presa sulla società locale. Altri mercanti marrani invece trovavano utile non essere obbligati al segno giallo che invece avrebbero dovuto portare
sull’abito se fossero tornati ebrei. Pertanto, vista tale libertà d’azione e per via delle pregresse esperienze
in campo commerciale, la prospera e abbiente Nation Portughesa di Ferrara divenne la principale comunità sefardita stanziata in Italia, sfruttando i legami di parentela e di affari intessuti con gli altri ebrei
spagnoli e portoghesi sparsi per l’Europa e il Levante, gettando al contempo le basi per la lenta formazione di un ceto borghese di imprenditori padrona delle leve del potere economico ferrarese, processo
ostacolato dalle asfittiche corporazioni d’arti cittadine e poi rallentato dalla successiva devoluzione della
città allo stato della Chiesa (1598).
La grande maggioranza dei cripto-giudei portoghesi usava il nome ebraico nelle relazioni familiari e
amicali mentre ricorreva a quello cristiano per sottoscrivere i contratti commerciali e gestire le società:
questa ambiguità permetteva ai conversos di portare avanti gli affari pur seguendo la fede giudaica, del
resto il loro reale status religioso era noto a molti cristiani con cui venivano a contatto. Invece l’attività di
usura fu vietata ai portoghesi, perché appannaggio degli ebrei italiani che non desideravano privarsi di
una grande fonte di guadagno e quindi vedevano con sospetto l’arrivo dei correligionari stranieri. Allo
scopo di evitare screzi tra i sefarditi e gli altri ebrei, fu ribadito che l’obbligo di rinegoziare il permesso di
residenza ogni dieci anni per gli ebrei locali era controbilanciato dal permesso di gestire i banchi d’usura,
fonte d’ingenti ricchezze. Sono documentati rarissimi casi di sefarditi tenutari di banchi a Modena che
però dovevano dichiarare di separarsi amministrativamente dalla loro comunità ispanica d’origine e
quindi si sottoponevano alle stesse restrizioni sopportate dagli ebrei italiani. Non potendo esercitare
l’usura e ricavarne guadagni, gli ebrei spagnoli furono esentati dalle tasse che invece ricadevano su quelli
italiani e tedeschi che vantavano la titolarità delle condotte.
Gli homens da Nação, come si definivano loro in portoghese, resero Ferrara un importante punto di
transito per le merci provenienti da Anversa, dove dal 1520 esisteva un apposito consorzio mercantile
lusitano, che dovevano essere trasportate verso Ancona e Ragusa (l’odierna Dubrovnik croata) per evitare di trovarsi in mezzo agli scontri marittimi tra turchi e veneziani. Buona parte delle merci in arrivo
era costituita da spezie indiane che venivano imbarcate ad Alessandria o nelle vicinanze di Aleppo e di lì
portate in Europa. Il commercio dello zucchero, la principale produzione agricola delle isole atlantiche di
Capo Verde e São Tomé, era sotto il controllo dei mercanti lusitani che fecero di Ferrara un importante
centro di redistribuzione del cosiddetto “oro bianco” per qualche decennio nel XVI secolo 28. I sefarditi
portarono tessuti pregiati, lane, sete spagnole e indiane, perle e gioielli preziosi dall’Asia, incentivarono
il commercio mediante i loro rapporti familiari ed economici con i marrani di Anversa, Lione, Napoli,
Venezia e Roma, favorendo l’aumento della popolazione urbana, non solo ebraica. Compivano il percorso
inverso i tessuti pregiati europei, le sete italiane, lane, drappi e altri tessuti di produzione centro-europea.
I nuovi arrivati poterono esercitare l’arte del cerusico anche sui cristiani, la farmacopea, l’artigianato, il
mestiere di gabelliere.
L’incessante movimento di ebrei tra Ferrara e Venezia, dove esisteva una cospicua e abbiente comunità giudaica, è attestato dall’attività di numerosi di loro che impiantavano commerci in laguna. Nel 1497
–anno dell’espulsione degli ebrei da Venezia– molti d’essi supponevano che il decreto sarebbe stato presto revocato e così s’insediarono a Ferrara e in altri centri vicini, per poter tornare indietro appena fosse
stato permesso.
Uno degli ebrei spagnoli giunti a Ferrara era Abram Cohen che nel 1496 risultava residente in città, in
contrada san Romano e attivo nella strazzaria, il commercio degli abiti usati29. Questo mestiere era strettamente connesso a quello dell’usura e la bottega o il banco del prestatore erano collegati a una apotheca,
un magazzino dove lo strazzarolo riponeva e custodiva quanto consegnato dai pignoranti a garanzia del
28
29
Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 19, “Sugar Industry and Trade”, pp. 293-294.
ASFe, ANA, not. G. Biondi, rogito del 16 agosto 1496, maz 1, c. 87.
loro credito verso i proprietari degli abiti. Tali attività parallele a quella principale del prestito erano
ostacolate dall’arte degli strazzaroli cristiani, timorosi di perdere il controllo su questa fetta di mercato,
ma i duchi Alfonso I ed Ercole II concessero volentieri il loro benestare in favore dei postulanti ebrei,
almeno fino al 1534 quando fu approvato lo statuto dell’arte degli strazzaroli che escludeva espressamente gli ebrei e i forestieri dall’esercizio30. La nuova complicazione fu rapidamente aggirata con la concessione ducale, prima al banchiere Isac Norsa poi agli altri ebrei che si trovassero a Ferrara, di tornare
ad esercitare la strazzaria come necessario complemento del prestito su pegno.
Per quanto riguardava la macellazione rituale, i sefarditi avevano a disposizione un locale non utilizzato dagli ebrei italiani e dove potevano rispettare le regole della kashrut secondo la tradizione iberica;
questa facoltà fu confermata dal privilegio ducale ottenuto nel 154431. Essi erano esplicitamente autorizzati anche a possedere schiavi neri che, una volta giunti a Ferrara, erano oggetto di curiosità e timori tra
la popolazione non abituata a vedere persone dalla pelle scura. Questa era una loro vecchia usanza: a
Lisbona di frequente le famiglie ricche dei ceti elevati, anche ebraiche, acquistavano servitù esotica dai
mercanti che si rifornivano nelle colonie africane riservate da papa Nicolò V alle conquiste portoghesi32.
In segno di derisione, alle donne di colore venivano spesso imposti i nomi di Chiara o Luna. I sefarditi
dall’inusuale comportamento si facevano indubbiamente notare non solo tra la popolazione cittadina ma
anche nello stesso ghetto: gli uomini vestivano le braghesse alla sivigliana e il collare inamidato a lattuga,
le donne invece la gonna a campana sulla sottana interna, la faldiglia e il corpetto a punta; in generale gli
abiti spagnoli erano di velluto o broccato e assai colorati. Parlavano castigliano, portoghese o catalano e
scrivevano l’ebraico con un alfabeto modificato oppure un loro dialetto misto giudeo-spagnolo. Essi usavano leggere l’ebraico scritto con le lettere quadrate tipiche della Spagna, come dimostra un prezioso
libro di preghiere stampato a Ferrara nel 1512 e decorato con illustrazioni di stile italiano, un siddur del
rabbino Moshe ‘Aqrish, conservato al Museo di Arte Giudaica di Parigi. In queste lingue iberiche si conversava in tempio, il rabbino teneva i suoi sermoni, si redigevano le decisioni dei giudici comunitari e dei
massari. La pronuncia sefardita dell’ebraico si diffuse anche tra gli altri ebrei di Ferrara tanto che anche
nella sinagoga ashkenazita i salmi e le altre preghiere erano letti “alla spagnola”. Tuttavia, col passaggio
di Ferrara allo stato della Chiesa e del conseguente abbandono della città da parte di pressoché tutti i
lusitani, l’uso corrente della loro lingua decadde mentre lo spagnolo resisté fino alla fine del XVIII secolo,
difatti a Ferrara l’annuncio del digiuno annuale di Tish’ah bê-Av (giorno di lutto per commemorare diversi
episodi dolorosi della storia giudaica) veniva proclamato in spagnolo ancora fino all’Ottocento. I sefarditi
avevano un portamento altero e molti erano realmente nobili perché discendenti di cortigiani ebrei che i
re castigliani avevano premiato per la loro fedeltà e abilità con un titolo principesco; conservavano un
galateo da cui traspariva l’orgoglio d’essere di origine spagnola, nonostante l’umiliazione ricevuta dalla
madrepatria. Gli homens da Nação ritenevano d’essere la parte migliore dell’ebraismo, snobbando gli “inferiori e rozzi” ashkenaziti ritenuti più ignoranti in materia di religione e cultura giudaica, considerati
addirittura “mezzi goim” (ossia “quasi cristiani”), la cui ortodossia giudaica lasciava a desiderare. Pertanto, al fine di rimanere separati, aprirono una propria piccola sala di preghiera in via Gatta Marcia.
Talvolta gli spagnoli amavano ricostruire ambienti che nei dettagli architettonici ricordassero la patria
perduta: oltre ai numerosi patios presenti all’interno degli edifici abitati dai sefarditi, al n. 19 di via del
Carbone, parallela a via Gatta Marcia, esiste un solaio ligneo di manifattura spagnola che non trova esempi
simili in zona ma trae ispirazione da elementi architettonici puramente castigliani.
Negli ultimi anni della sua vita, Ercole perdé la consueta disponibilità verso gli ebrei della sua capitale,
influenzato dall’intento riformatore del Savonarola. Irretito da una predica, il duca dispose nel 1496 che
gli ebrei portassero il segno distintivo sull’abito, applicando quanto già stabilito legalmente nel 1464 ma
non ancora messo in pratica: tutti i maschi israeliti a Ferrara, dopo aver superato il bar mitzwah, quindi
dai 12 anni in su, avrebbero dovuto ostentare un pezzo di stoffa gialla sull’abito e le donne maggiori di 10
anni erano tenute ad applicare particolari cerchietti a entrambe le orecchie, pena il pagamento di una
multa; l’ebrea Allegra fu sorpresa dai Giudici delle Vettovaglie priva di orecchini e così venne condannata
Cazzola 2003, pp. 35-36.
Leoni 2001, p. 135, p. 736.
32 Leoni 2011, pp. 218-219.
30
31
a un obolo di dieci ducati d’oro33. L’orecchino era in genere un distintivo utilizzato dalle prostitute perché
la morale cristiana associava a tale gioiello una valenza peccaminosa e lasciva, simbolo di concupiscenza
e vanagloria; così esso era divenuto simbolo di ciò che non era moralmente virtuoso. Si consideri che le
prostitute cristiane in attività a Ferrara portavano un panno giallo, secondo una prescrizione apposita
del 1458 ed erano accomunate agli ebrei con cui condividevano la posizione marginale. Il frate predicatore Giacomo della Marca, le cui idee si diffondevano nelle chiese dell’Italia centrale a metà secolo XV,
elaborò la simbologia del gioiello femminile affermando che l’anello all’orecchio poteva essere anche interpretato come surrogato della circoncisione. Probabilmente il frate non era informato che gli orecchini
a forma di anello utilizzati come discriminazione religiosa era tipico delle ebree di Avignone già nel secolo
XIII, dell’Italia meridionale e poi anche delle israeliteb di Roma, la cui antichissima comunità fungeva
tradizionalmente da cerniera culturale tra le comunità del nord e del sud della penisola italiana; quindi
l’usanza si era diffusa anche nelle comunità ebraiche padane. Le donne di facili costumi e le cortigiane di
solito amavano adornarsi di molti simboli di lusso come prova della vasta platea di ammiratori. Pertanto
gli anelli passarono a simboleggiare la dubbia moralità delle meretrici per via della loro professione e
delle donne israelite restie ad accettare la fede cristiana. Successivamente, in epoca rinascimentale avanzata, anche le dame dell’aristocrazia indulsero nell’uso degli orecchini perché denotavano superiorità sociale, così alla lunga essi non furono più in uso come segno distintivo per le ebree che dovettero invece,
quando prescritto, adottare una più neutra striscia di stoffa.
Il prodigo mecenate Alfonso I
Il terzo duca estense Alfonso I, nato nel 1476, all’età di appena nove mesi fu promesso sposo ad Anna
Maria Sforza figlia di Galeazzo duca di Milano, con l’intento di saldare la già esistente alleanza politica tra
le due casate; il matrimonio fu celebrato nel 1491. L’indubbio interesse nel mantenere rapporti cordiali
anche con la monarchia francese si palesò in occasione dell’entrata di Luigi XII a Milano nel 1499, accolto
da Ercole I e suo figlio. Anna Maria era già deceduta due anni prima, assieme al bambino che stava partorendo. Al momento di scegliere una nuova consorte, Alfonso rivolse l’attenzione a Lucrezia, figlia di papa
Alessandro VI, per assicurare la continuità del vicariato estense su Ferrara, formalmente feudo dello stato
pontificio. Da lei ebbe sette figli tra cui l’erede Ercole II e il cardinale Ippolito; gli altri invece morirono
nella primissima infanzia; l’amante Laura Dianti invece gli diede due figli, Alfonso marchese di Montecchio -padre di Cesare che avrebbe poi trasferito la capitale estense a Modena- e il più giovane Alfonsino.
Alfonso I non era particolarmente versato negli studi sia profani che ecclesiastici ma si dilettava
proficuamente di tecniche da tiro, fusione e approntamento delle armi facendosi conoscere in seguito
come “duca artigliere”: probabilmente fu lui a inventare la granata e un innovativo sistema di
fabbricazione della polvere da sparo. Appassionato anche di architettura difensiva e fortificazioni,
rinnovò la cerchia muraria della sua capitale, rendendola più sicura e moderna. L’incessante assillo per
la difesa era motivato dalla consapevolezza che il suo dominio era accerchiato dai territori pontificio a
sud e veneziano a nord. Nella cultura il suo apporto fu decisivo per portare al termine la trasformazione
di Ferrara nella città rinascimentale così come la conosciamo oggi. Amante della musica e sempre
attorniato da maestri e letterati, rese la propria corte un centro culturale di importanza europea,
proteggendo e incoraggiando Boiardo, Pietro Bembo, Ariosto (da lui nominato governatore della
turbolenta regione di Garfagnana dal 1522 al 1525), i pittori Tiziano, Dosso Dossi, Giovanni Bellini e
diversi artisti che arricchirono Ferrara di monumenti, giardini, delizie e altre opere urbane, tra cui la Via
Coperta che unisce il castello estense al palazzo ducale.
Nel 1505 Alfonso I successe a Ercole I, giurando in cattedrale lo stesso giorno del decesso del padre e
senza alcun tentativo di ribellione da parte del fratello Ippolito che anzi accettò subito il ruolo di cadetto.
In seguito ai disordini popolari causati dal cambiamento, il nuovo duca, spinto dal risentimento, perseguì
da subito una politica autoritaria di accentramento del potere amministrativo, ridefinendo l’autonomia
dei Dodici Savi ridotti al subordine. Durante il suo regno, Alfonso dovette tenere prigionieri i suoi due
fratelli rivali Ferrante e Giulio, dopo una congiura da questi ordita nel 1506 ma fortuitamente sventata.
Entrambi furono relegati nelle segrete del castello estense da cui solo Giulio uscì ancor vivo nel 1559.
Siccome Alfonso rifiutò di aderire alla pace che il papa s’apprestava a stipulare con Venezia, perché contro
33
Balletti 1930, p. 149.
gli interessi territoriali estensi, fu scomunicato e il suo potere signorile dichiarato decaduto; per ripicca,
si alleò alla Francia nella guerra della Lega Santa. Sostenne da quel momento diverse guerre e battaglie,
tra cui quella celebre della Polesella alla fine del 1509, nel corso della quale i cannoni, fusi e sistemati
sotto la sua diretta sorveglianza tra gli arbusti sulle rive del Po, ebbero la meglio sulla flotta veneziana
che risaliva il corso fluviale con l’obiettivo di raggiungere Ferrara, calcolando adeguatamente una piena
del fiume –causata dalle copiose piogge dei giorni precedenti- che portava le imbarcazioni all’altezza delle
bocche dei cannoni. La debole flotta estense non avrebbe potuto facilmente avere la meglio, se costretta
allo scontro diretto in mare, composta com’era da ganzeruoli, passavolanti, galee, fuste e barconi adattati
alla meglio34. L’avanzata di Venezia era stata arrestata ma non definitivamente fermata: Polesella sarebbe
ritornata sotto dominio veneto fino al 1796, divenendone un importante appoggio strategico per i
trasporti e la difesa. Per ricambiare l’aiuto offerto da Alfonso in occasione del successivo assedio di
Padova, peraltro fallito, l’imperatore Massimiliano lo investì signore di Este e Montagnana. A Ravenna nel
1512 le armate estensi aiutarono i francesi rivali dei soldati pontifici, ottenendo in cambio la revoca della
scomunica a carico del duca. Successivamente, non essendosi visto restituire la sovranità su Modena, alla
morte di papa Leone X Alfonso riuscì a riprendersi con un’azione di forza il controllo di Nonantola e
Reggio con lo scopo di accerchiare Modena. Solo nel 1530 una sentenza dell’imperatore Carlo V riconobbe
il dominio estense su Modena, Reggio, Cotignola e Rubiera in cambio del versamento di 100.000 scudi
d’oro alle casse pontificie e l’innalzamento del censo a 7.000 ducati da versare annualmente allo stato
vaticano. Con un nuovo anatema inflittogli, Alfonso I raggiunse il singolare primato di essere stato
scomunicato per motivi politici da ben tre pontefici: Giulio II, Leone X e Clemente VII.
Il duca si spense nel 1534, dopo un mese di malattia; venne seppellito nel monastero ferrarese del
Corpus Domini, già pantheon estense; gli successe al trono il ventiseienne Ercole II.
La duchessa Lucrezia e il condottiero Cesare
Riguardo Lucrezia Borgia, discussa e controversa figura femminile del Rinascimento italiano, oggi che
ricorre il 500° anniversario della sua morte, si tende a considerare false le accuse a suo carico di aver
commesso incesto col padre e con un fratello e di esser abituata a preparare un micidiale veleno mortifero, la cantarella, per eliminare i nemici versandola nelle bevande o sul cibo. Era più probabilmente una
pedina politica senza esser una vera complice degli intrighi della sua famiglia ma utile alle ambizioni del
padre e del fratello Cesare.
Nata a Subiaco nel 1480, Lucrezia era una dei figli illegittimi di Rodrigo Borgia, in quel momento ancora cardinale, e della mantovana Vannozza Cattanei sua amante per quindici anni; i suoi due fratelli di
sangue maggiori d’età erano Cesare e Juan; due anni dopo si sarebbe aggiunto Jofré. Lucrezia ricevette
un’accurata istruzione e, oltre alla poesia, imparò a discorrere in castigliano, francese, italiano e apprese
il latino, la musica, la danza, il disegno e il ricamo. Fu anche addestrata a esprimersi con eleganza ed
eloquenza35. Ancor piccola, Lucrezia fu promessa in moglie a due pretendenti spagnoli. In seguito all’elezione al trono pontificio con il nome di Alessandro VI, suo padre Rodrigo ruppe entrambi i fidanzamenti
in cambio di un risarcimento in favore delle rispettive famiglie e per aver quindi la possibilità di accasare
la figlia con partiti più altolocati, con l’intento di stringere alleanze politiche con le famiglie principesche.
Così la ragazza fu destinata a sposare Giovanni Sforza signore di Pesaro; dopo una fastosa cena, alla giovane non venne permesso di recarsi al talamo nuziale perché probabilmente suo padre desiderava la
possibilità di annullare il vincolo in caso di cambiamenti nei suoi obiettivi politici. Pur continuando a
passare le giornate dedicandosi allo svago, Lucrezia riceveva anche omaggi, riverenze e richieste di intercessioni presso il papa suo padre che, intanto, aveva mutato strategia, alleandosi con gli aragonesi e respingendo le pretese di Carlo VIII di Francia sulle terre napoletane. Dopo qualche mese, quando Lucrezia
era già andata con il marito a Pesaro conducendovi una vita lussuosa, l’esercito francese scese in Italia.
La Lega Santa del 1495 guidata da Francesco Gonzaga marchese di Mantova sconfisse la Francia. Indi
Lucrezia tornò a Roma ma la posizione del marito s’era fatta ambigua: il papa gli aveva ordinato di lasciare
Pesaro per mettersi al suo servizio, mentre Giovanni intendeva servire Ludovico il Moro. Indispettito, il
Chiappini 2001, p. 246.
Su Lucrezia Borgia esiste una vasta letteratura: cfr. ad esempio Dizionario biografico degli italiani vol. LXVI “Lucrezia Borgia”,
pp. 375-380.
34
35
papa affermò che lo Sforza era impotente e pertanto considerava nullo il matrimonio. Il clamore suscitato
dalla vicenda danneggiò la reputazione di Lucrezia che, pochi mesi più tardi, venne coinvolta in un nuovo
scandalo: nel Tevere fu ripescato il cadavere di Pedro Calderón, giovane servitore spagnolo del papa,
forse assassinato da Cesare per nascondere la presunta relazione tra sua sorella e il morto. Il diario redatto dal maestro cerimoniere in carica durante il pontificato di papa Borgia, il tedesco Johannes Burckardt di Strasburgo, è una fonte attendibile e imparziale per ottenere notizie sulla vita che Lucrezia conduceva a Roma. Egli descriveva particolareggiatamente i rituali e le etichette della corte papale e annotava alcuni eventi di minore importanza ma poco lusinghieri per la famiglia Borgia. Sebbene la visione
puritana potesse distorcere il senso delle loro azioni, non sono espressi nel diario pettegolezzi o accuse
ma una minuziosa descrizione dei fatti, spesso confermati da altri cronisti contemporanei. Peraltro molti
svaghi, ritenuti scandalosi e dal tono scabroso, erano consoni ai costumi rinascimentali e i concetti della
religione, della decenza e della moralità non erano gli stessi che prevalgono oggi.
Come nuovo marito fu scelto Alfonso d’Aragona, figlio illegittimo di Alfonso II di Napoli. Dopo aver
abortito a causa di una caduta, Lucrezia rimase nuovamente incinta e nel novembre 1499 partorì un bambino, battezzato Rodrigo d’Aragona. Qualche mese dopo, Alfonso venne aggredito da uomini armati e gravemente ferito. La moglie Lucrezia e la sorella Sancha lo accudirono, non lasciandolo mai solo e assicurando una scorta armata che sorvegliasse la stanza del duca, chiamarono appositamente da Napoli alcuni
medici fidati e preparavano personalmente il cibo nel timore di un avvelenamento. Il duca non sopravvisse e Lucrezia fu inviata insieme al piccolo Rodrigo a Nepi in attesa che le acque si calmassero36. Tornata
a Roma collaborò alle trattative finalizzate a risposarsi con Alfonso, figlio di Ercole duca di Ferrara, per
supportare il fratello Cesare desideroso di rafforzare il potere già acquisito in Romagna. La famiglia
estense oppose resistenza, visto che sulla donna circolavano voci infamanti, quindi Ercole richiese il raddoppio della dote. Per dimostrare quanto la figlia fosse capace di assumersi responsabilità e quindi degna
di divenire duchessa d’Este, papa Alessandro VI le affidò temporaneamente l’amministrazione vaticana
per potersi recare a Sermoneta.
Il contratto di nozze venne stilato in Vaticano il 26 agosto 1501 e celebrato per procura a Ferrara il 1º
settembre; seguirono grandi festeggiamenti a Roma durante i quali Lucrezia si recò nella basilica di Santa
Maria del Popolo a ringraziare la Vergine. A metà dicembre una scorta guidata dal cardinale Ippolito accompagnò la sposa a Ferrara, dove seguirono giorni di festeggiamenti al Castello Estense. In quegli anni
le prodezze belliche del fratello Cesare portarono la fama della loro famiglia all’apogeo e di riflesso Lucrezia era tenuta in maggior considerazione, tanto che il suocero Ercole decise di aumentarle l’appannaggio e permettendo che ella venisse chiamata «duchessa» essendo già vedovo e lasciandole il posto di rappresentanza nelle celebrazioni pubbliche. Lucrezia tentò di far dimenticare a corte la sua origine illegittima, i precedenti matrimoni e i burrascosi episodi: grazie alla sua bellezza e alla sua intelligenza si fece
accettare dalla nuova famiglia e dalla popolazione ferrarese, seppur mostrando all’inizio preferenza per
le nobildonne spagnole e romane con cui continuava ad essere in contatto. Non tralasciando le pie opere
di devozione, si impegnò nella diplomazia e nella conduzione politica e amministrativa del ducato sostituendo il marito quando questi doveva allontanarsi da Ferrara. La duchessa amava anche l’arte, che proteggeva accogliendo poeti e umanisti, quali Ludovico Ariosto, Gian Giorgio Trissino ed Ercole Strozzi.
Con la notizia della morte di papa Alessandro VI, il periodo favorevole per Lucrezia sembrò volgere al
termine nell’estate del 1503, quando la corte era rifugiata a Medelana per evitare il contagio della peste
che aveva investito alcuni quartieri settentrionali di Ferrara. I timori di Lucrezia erano dovuti al fatto che
non era ancora riuscita a partorire un erede maschio e il marito avrebbe potuto ripudiarla nonostante il
palese favore accordatole dal suocero. La parabola discendente dei Borgia continuò quando il nuovo pontefice Giulio II ordinò la restituzione allo stato della Chiesa di tutte le fortezze romagnole conquistate da
Cesare il quale rifiutò, forte dell’esercito mercenario fornitogli dalla sorella Lucrezia. Affrontando i veneziani entrati in campo, Cesare perse il possesso di molti di quei castelli cedendoli ai precedenti padroni
fedeli al papa, tranne Cesena e Imola. Il duca estense appoggiava segretamente queste azioni e lasciò che
la nuora sovvenzionasse con le proprie tasche i mille fanti e i cinquecento arcieri mercenari, desiderando
infatti che la Romagna fosse frazionata tra piccoli signori piuttosto che lasciata sotto la potestà pontificia
36
Altre fonti sostengono che egli fu strangolato; il piccolo Rodrigo fu inviato a Bari, dove nel 1512 morì ancor molto giovane.
o veneziana. Così Cesare fu fatto prigioniero per ordine di Giulio II e costretto a cedere su parte delle sue
richieste per potersi liberare e rifugiarsi a Napoli, dove venne nuovamente arrestato complice il tradimento di Sancha d’Aragona e della vedova di Juan Borgia e deportato in Spagna.
Quando Ercole d’Este morì all’inizio del 1505, l’erede Alfonso fu subito incoronato duca. Nel settembre
dello stesso anno Lucrezia partorì un figlio che, di gracile costituzione, morì dopo un mese. Lucrezia se
ne addolorò molto ed era anche stata coinvolta dal dramma della gelosia scatenatosi fra il cardinale Ippolito e il fratellastro Giulio a causa di sua cugina Angela Borgia, nonché sua dama, contesa dai due uomini: il cardinale, preferito dalla donna, fu aggredito per vendetta e accecato a un occhio ma l’aggressore
era protetto dalle gerarchie ecclesiastiche che minacciavano l’invasione del ducato estense. Verso la fine
del 1506 le truppe papali sconfissero i Bentivoglio conquistando Bologna. Nel frattempo Cesare Borgia
riuscì a fuggire. Felice per la liberazione del fratello e nuovamente incinta, Lucrezia passò il carnevale del
1507 divertendosi e ballando sfrenatamente tanto da subire un aborto spontaneo. L’erede sarebbe giunto
l’anno seguente: Ercole II nacque nell’aprile 1508.
Intanto il fratello di Lucrezia, Cesare Borgia detto il Valentino, già vescovo e poi cardinale, in seguito
alla morte violenta del fratello Giovanni, chiese la dispensa dalla poco ambita vita ecclesiastica tornando
così alla condizione laicale e, per continuare la politica filo-aragonese, cercò di sposare la figlia del re di
Napoli, venendone tuttavia respinto. Optò pertanto per una principessa francese ottenendo l’alleanza con
il re Luigi XII di Francia e la fine delle sue rivendicazioni su qualsiasi territorio della penisola italiana. Ciò
nonostante, cambiando strategia, portò i francesi a conquistare il ducato di Milano e a invadere Napoli;
per sé riservò la Romagna presa nel 1500. In seguito, venne eletto papa Giulio II che provvide a sottrarre
al duca il governo della Romagna, arrestandolo e recludendolo in Castel Sant’Angelo. Evaso dalla prigione,
Cesare si rifugiò a Napoli, dove fu nuovamente fermato ed esiliato in Aragona. Dopo una rocambolesca
fuga, a seguito della quale si ruppe diverse ossa cadendo da una fune, si recò nel piccolo regno amico di
Navarra dove morì ucciso nel 1507, mentre era impegnato nel compito affidatogli di reprimere una
ribellione locale contro il monarca navarrese.
Il pontefice Giulio II, alleatosi con le maggiori potenze europee e con il marchese di Mantova, dichiarò
guerra a Venezia. A capo dell’esercito papale venne posto Alfonso che intendeva riottenere il Polesine.
Poiché il marito conduceva il conflitto, Lucrezia fu incaricata di governare il ducato aiutata da un consiglio
di dieci cittadini. L’artiglieria pontificia guidata da Alfonso sconfisse i veneziani ma, inopinatamente,
Giulio II ribaltò l’alleanza attaccando la Francia. Pertanto Alfonso si rifiutò di tradire il francese Luigi XII
e venne scomunicato dal papa. Francesco Gonzaga venne nominato gonfaloniere della chiesa e posto a
capo dell’armata col compito di combattere il ducato estense ma trovò il pretesto per non arrecare danno
ai cognati e per dar modo ad Alfonso di difendere Ferrara con l’aiuto del contingente francese,
sconfiggendo le truppe papali. Intanto Bologna fu riconquistata dai Bentivoglio.
Dal 1512, per le sventure che colpirono lei e la casata ferrarese, Lucrezia intraprese una serie di penitenze, mortificandosi con il cilicio, s’affiliò a un ordine francescano e si legò ai seguaci di san Bernardino
da Siena e di santa Caterina, sovvenzionando al contempo il Monte di Pietà per assistere gli indigenti. La
corte estense non la vide più al centro di scandali e pettegolezzi anzi la duchessa, durante gli ultimi anni
della sua vita, finalmente riuscì a cancellare il marchio d’infamia da cui sembrava bollata. Ella s’era trasformata: incline alla devozione, visitava assiduamente le chiese della città e ascoltava letture religiose
durante i pasti. Tutto questo non le impedì di rallentare il ritmo delle sue gravidanze. Dopo Ercole, gli
altri figli che Lucrezia partorì furono Ippolito, Eleonora e Francesco. Nel frattempo la duchessa fu colpita
da nuovi lutti: nel 1516 morì il fratello Jofré, nel 1518 la madre Vannozza e nel 1519 il cugino Francesco
II Gonzaga. Nella primavera 1519, essendo nuovamente incinta ma affaticata, era costretta a letto e, al
momento della nascita di una bambina, battezzata Isabella Maria, si ammalò di febbri puerperali. Dettò
pertanto una lettera per chiedere un’indulgenza plenaria al papa e sottoscrisse il proprio testamento,
affermando poi “Sono di Dio per sempre”. Due giorni dopo, il 24 giugno 1519, morì a trentanove anni
lasciando allibiti la famiglia e la popolazione ferrarese. Venne sepolta nel locale monastero del Corpus
Domini, con indosso l’abito da terziaria francescana, lasciando un mesto e commosso ricordo che controbilanciava il precedente periodo romano, tumultuoso e ricco di scandali.
Sviluppo dell’imprenditoria ebraica sotto Alfonso I
In seguito agli scontri cittadini del 1505 sull’onda del decesso di Ercole I, il nuovo duca adottò un atteggiamento autoritario di accentramento del potere basato sulla sintonia con le più alte cariche ecclesiastiche. In questa nuova ottica, nel 1506 si propose di erigere un banco amministrato dai cristiani che
prestasse denaro ai poveri senza infrangere la morale religiosa. Più tardi, nel dicembre 1507, fra’ Iacopo
Ungarelli da Padova bandì dal pergamo del duomo ferrarese la costituzione del Monte di Pietà, intimidendo gli uditori allo scopo di estirpare le usure delli Giudei… che quelle e quello sono la causa che non si
faci il Monte, et chi favorisse li Giudei non vederanno un anno che morirano di mala morte per giuditio de
Dio37 e inducendoli a passare all’azione per soccorrere i bisognosi con prestiti regolati dai precetti prettamente francescani di povertà e purezza. In tal modo, prima del Natale la nuova istituzione aprì in via
Grande accanto via santo Stefano, nella casa di madonna Sara de Bendedei cui veniva pagato un affitto di
40 lire annuali; a cose fatte il duca concesse di malavoglia il benestare che giunse il 3 gennaio successivo,
concorrendo con duemila ducati38. Dopo un iniziale successo dovuto a un capitale di 4.200 ducati donato
dai contribuenti sedotti dalla persuasione di compiere un’opera santa, il Monte resse stentatamente dal
momento che non prevedeva il rimborso di un interesse da parte del beneficiario del prestito. Inoltre,
non si ricavava un sufficiente risarcimento dall’eventuale rivendita del pegno: spinto dalla fame, il popolano consegnava oggetti di infimo valore come lenzuola lise o un mastello incrinato. A metà tra un istituto
di credito e un ente di beneficenza, il Monte risultò un’esperienza fallimentare almeno nel primo Rinascimento a causa dell’improduttività dei depositi materiali, effettuati sulla base della sola fede, da parte del
benefattore, nelle “ricompense celesti” da riscuotere nella vita ultraterrena; l’introduzione, avvenuta nel
1542, di un interesse da corrispondere al versatario sempre per fini di carità e non di solo lucro legittimò
l’evoluzione del Monte cristiano in banca mercantile39.
D'altra parte Alfonso I era spesso in aperto scontro con i rivali politici, perciò richiedeva grossi prestiti
in tempi rapidi che avrebbe ottenuto solo dagli ebrei che mantenevano così la loro influenza e il duca era
invogliato a trattarli magnanimamente; inoltre la vita a corte presupponeva ampie disponibilità economiche per mantenere il solito sfarzo e finanziare i divertimenti. Pertanto le attività monetarie ebraiche
non furono messe in crisi dalla fiacca competizione del Monte di Pietà cristiano, sorretto pressoché esclusivamente dai lasciti testamentari dei fedeli o dalle elemosine raccolte nelle chiese il lunedì di Pasqua e
provvisto di un ridotto volume d’affari, non bastando infatti i proventi dell’esazione dei dazi su carne,
pesce e acquavite attribuiti all’istituzione. Solo gli ebrei riuscivano a concedere un credito d’esercizio a
favore di chi volesse intraprendere un’attività agricola o commerciale, anticipando la somma necessaria
e imponendo per la restituzione un termine sufficientemente rateizzato. Il loro commercio di denaro continuò a prosperare ed essi potevano agevolmente concedere persino prestiti per i negozianti che volessero chiedere un credito per aprire un esercizio. Qualche tempo dopo, i feneratori ebrei presero addirittura l’abitudine d’affidare al Monte gli oggetti ricevuti dai cristiani e disporre così di ulteriori somme. Il
Monte a sua volta, ricevendo denaro dagli ebrei, si assicurava un maggiore ammontare di liquidità necessaria al finanziamento delle sue pie attività. L’interazione economica tra i banchi di pegno ebraici e il
Monte di Pietà cristiano era vantaggiosa per entrambi e questo intreccio fu favorito dalla successiva concessione al Monte di “prestare per mercatare” a scopo di mero profitto, non più solo per l’opera di carità
inizialmente prefissata e la fondamentale importanza delle attività economiche ebraiche non subì alcun
significativo ridimensionamento. Il noto intellettuale sefardita Abraham Farissol intervenne nella questione, difendendo gli interessi dei feneratori ebrei e giustificando l’usura con la scarsità di professioni
permesse e con il sostanziale ruolo del denaro come mero bene funzionale, sull’esempio dell’agricoltore
pronto a ricevere sementi con l’obiettivo di restituire un valore pari ricavandone altro denaro per sé. I
teologi e i predicatori cristiani, principalmente Antonino da Firenze e Bernardino da Siena, ribattevano
che gli ebrei, figli di Giacobbe fratello di Esaù presunto progenitore degli europei, erano fratelli dei cristiani e quindi ogni forma di prestito a interesse tra di loro era vietata e avrebbe recato danni all’ordine
naturale della società; il prestito sarebbe dovuto esistere solo se a vantaggio dei bisognosi. Dal canto suo,
Farissol statuì che la proibizione deuteronomica sull’usura proveniva dal Signore, non da Mosè, non esistendo alcun legame di fratellanza tra i patriarchi dal momento che Edom –nome ebraico di Esaù– non
era identificabile come il capostipite degli europei, bensì Jafet. Egli aggiunse che i tassi di interesse erano
Santini 2005, p. 13.
Santini 2005, p. 13.
39 Bonfil 1991, p. 35.
37
38
concordati tra ebrei e comunità ospitante, spesso con l’esplicita tolleranza dei pontefici: la transazione
era quindi volontaria e scevra da condizionamenti coercitivi.
Pertanto, la tradizionale accoglienza riservata dagli estensi agli ebrei rimase immutata e furono confermati i privilegi già accordati e i medici sefarditi poterono continuare a esercitare la loro arte sui cristiani. Tuttavia il nuovo duca decise, su sollecitazione dei banchieri ebrei italiani, che tutte le comunità
israelitiche del suo dominio concorressero al pagamento delle tasse per finanziare l’edificazione di eleganti palazzi che abbellissero la capitale, senza che questa imposizione fosse addossata solo a quelli residenti in Ferrara. Emanò inoltre una patente sovrana per equiparare i prelievi fiscali dalle comunità ebraiche di Cento e Carpi a quelli percepiti dai feneratori di Modena, Reggio e Ferrara. Nel dubbio d’aver violato
la legge canonica riguardante il divieto della remunerazione del denaro e per non alienarsi le simpatie
del clero, il duca Alfonso I spiegò in un documento ufficiale del 1507 che l’atteggiamento favorevole verso
gli ebrei era da interpretarsi come mera e generosa concessione e la pratica dell’usura sarebbe stata limitata alle effettive necessità economiche dello stato40. Per questo motivo, si definiva “tolleranza” il documento di concessione del permesso d’esercitare il cambio di denaro e di prestarlo. Il dominio degli Este
rinascimentali divenne, secondo le successive parole di Samuel Usque (nella sua Consolaçam as Tribulaçoens de Ysrael del 1553), il porto più sicuro d’Italia e la settima delle vie che rappresentano un motivo
di sollievo e gioia per il popolo d’Israele41. Si tratta d’un dialogo redatto in portoghese fra i tre pastori
Zicareo, Numeo e Ycabo, quest’ultimo personificazione del popolo ebraico che narra in prima persona le
sue travagliate peregrinazioni; l’obiettivo è la dimostrazione che gli ebrei non erano stati abbandonati
dal Signore che invece faceva trovare agli israeliti perseguitati diverse “vie” di pace e rifugio tra cui Ferrara e altre città italiane ed europee dove avrebbero atteso in pace l’avvento del Messia, secondo gli insegnamenti mistici incentrati sulla visione consolatoria della qabbalah42.
Così veniva consolidato e incoraggiato lo stanziamento d’altri feneratori ebrei. Le richieste di aprire
nuovi banchi dovevano essere più numerose di quelle accolte perché esistevano attività clandestine, i cui
gestori furono però severamente ammoniti nel 1512; il fenomeno del commercio illegale di denaro era
favorito dall’assenza di norme che chiarissero quale autorità fosse in grado di concedere l’autorizzazione,
formalmente il comune cui competeva la giurisdizione sul luogo dove si intendeva installare il commercio
ma, spesso, il principe scavalcava a proprio vantaggio le prerogative d’autonomia locale e conduceva una
trattativa più rapida dietro ricompensa e prestiti personali. Al seguito di questi ebrei giungevano le loro
famiglie, uno stuolo di servitori e di altri ebrei adibiti a mansioni di diverso tipo come calzolai, setaioli e
sarti. È attestata la presenza dei portoghesi nel commercio di bestiame, prodotti agricoli e alimentari e
vino da trasportare ad Ancona, dove i correligionari ivi presenti sorvegliavano l’arrivo e la partenza delle
merci. Isac Bondi “Hagi” commerciava persino in partite di olio d’oliva; egli, uno dei commercianti lusitani
più in vista, acquistava anche lana grezza dai Balcani ricomprando diverse partite di panni rifiniti prodotti
nel lanificio impiantato all’interno del Castel Nuovo ferrarese, per piazzarli ad Ancona utilizzando per il
trasporto la nave ducale Alfonsina. Bondi aprì successivamente un magazzino -descritto come fontego in
cui riporre le merci contrattate- e un’apotheca in via Sabbioni dove si riunivano i mercanti e gli imprenditori più in vista per discutere di affari e siglare contratti43. Infine aprì un banco in società con il mantovano Salvatore Berrettari nel 1556. Tre anni dopo Isac Bondi decise di compiere ‘aliyah, ossia emigrò in
Eretz Israel, forse in compagnia del rabbino Basola e lasciando la conduzione degli affari ai figli Yom Tob
e Aron de Galli, quest’ultimo adottato; tuttavia morì pochi mesi dopo. Alcuni suoi discendenti si trasferirono a Modena al momento della devoluzione di Ferrara alla Chiesa.
Organizzazione comunitaria e misticismo ebraico
Nel 1542 fu accordata ai mercanti portoghesi residenti a Ferrara l’autonomia giuridica, consi stente
nella facoltà d’avvalersi di correligionari –scelti tra i più colti e dall’irreprensibile comportamento etico e
sociale- in qualità di arbitri per risolvere le controversie giudiziarie eventualmente sorte all’interno della
comunità. In caso di impossibilità di dirimere la lite, interveniva il consiglio (detto all’ebraica ma‘amad)
Leoni 2011, p. 35.
Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 20, “Usque Samuel”, pp. 433-434.
42 Leoni 2001, pp. 60-63.
43 Leoni 2011, pp. 150-151, pp. 264-267, p. 637.
40
41
di massari, o probi viri, che decideva in base all’interpretazione dei testi religiosi loro fonte di ispirazione.
Le decisioni più importanti e di carattere generale formavano una sorta di carta costitutiva della comunità sefardita. Talvolta i massari intervenivano anche nei casi di competenza dei rabbini di cui potevano
scavalcare l’autorità, comminando autonomamente sanzioni e multe, persino la scomunica (ḥerem) oppure il bando (niddui) verso chi avesse commesso un reato a carattere civile. Gli inadempienti alle ordinanze sancite dagli arbitri sarebbero stati condannati anche a un’oblazione, di solito 500 scudi in favore
della camera ducale e banditi dalle cerimonie in sinagoga. Il divieto cessava automaticamente nel momento in cui s’eseguiva quanto prescritto. Talvolta, oltre all’impedimento ad entrare in sinagoga, veniva
rotta la seggiola su cui il colpevole era solito sedersi. Persino Isac Abravanel venne minacciato di scomunica dai due rabbini Ya’akov Diena e Barukh Uzziel Forti in merito all’eredità del padre Samuel, sulla quale
la vedova Bienvenida –nominata erede universale– e i fratellastri avevano opinioni contrastanti. Ravvisando nella quota attribuitagli dal genitore una lesione della legittima garantitagli dalla legge ebraica,
Isac e il suo referente rabbi Abraham di Rovigo chiesero il supporto d’un altro autorevole rabbino, il quale
optò per un più imparziale foro civile.
L’eventualità di accese discussioni e violente risse all’interno della comunità non era affatto inesistente: una lite, che vide lunghi strascichi e l’assoldamento di un bastonatore, si scatenò tra il sefardita
Ioseph Bondi e lo strazzarolo ashkenazita Lazzaro Raben. Nove anni prima il padre di quest’ultimo, Abraham, aveva ferito alla mano il rivale Emanuel Butilho per ragioni rimaste ignote44. Non solo le controversie in campo commerciale erano affrontate dal collegio di giudici ebrei ma anche le questioni civili, nelle
quali interveniva un rabbino. Tra i primi personaggi della comunità portoghese a fare ricorso all’arbitrato
compaiono Caterina Fernandes e suo genero Gerolamo Dias a proposito del calcolo dell’esatto valore dei
preziosi che la donna gli aveva affidato quando si trovavano ancora a Lisbona. Invece Sole, nipote di Hiya
Vita Barochas e fidanzata con un giovane di Ancona, venne difesa dallo zio contro il mancato sposo che
non desiderava più ammogliarsi, rappresentato dal noto rabbino Chazaketto: la questione fu chiusa con
il rimborso della dote.
Molti cripto-giudei portoghesi, ancora nei paesi ove il controllo dell’inquisizione cristiana s’era fatto
opprimente, tentavano di mettersi sotto la protezione dei banchieri già riparati a Ferrara ma, per emigrare, spesso viaggiavano a proprio rischio su carri, barche o cavalli e non in comode carrozze, privilegio
dei più abbienti. Se sprovvisti di lasciapassare chiedevano aiuto ai contrabbandieri ma talvolta venivano
fermati da uno speciale corpo di polizia che sequestrava i loro beni finché non intervenisse l’organizzazione di salvataggio messa in piedi dai mercanti ricchi, alla quale contribuivano con elemosine raccolte
nella “Borsa della Sedacà”, un’apposita cassa per la carità rituale da destinare alle spese di riscatto dei
profughi caduti prigionieri e al sostentamento dei nuovi arrivati45. Questi non sempre ritrovavano a Ferrara la serenità: in occasione di sventure e disastri che si abbattevano sulla città, venivano additati dalla
popolazione come i responsabili. Gli ebrei, sia ricchi che poveri, erano indistintamente oggetto di accuse
e ritorsioni “per continuare a rinnegare Cristo”. Durante la pestilenza del 1523, la famiglia di Manuele
Norsa –che gestiva il banco della Ripa– fu la prima a venir colpita e totalmente sterminata dalla malattia;
morirono altri ebrei residenti in via dei Sabbioni e quelli che sopravvissero furono mandati al lazzaretto
di Mizzana46. Quando furono contagiati anche il notaio della Camera Giovan Battista Saracco e una lavandaia che avevano avuto rapporti con la famiglia di Manuele, si vociferò che proprio nella lavanderia degli
ebrei si trovasse l’origine della malattia diffusasi nella città. Contemporaneamente si avanzarono proposte per imporre agli ebrei l’adozione del segno giallo per circolare fuori casa, in modo che fossero identificabili.
Gli israeliti più indigenti subivano il maggior danno dalle ondate di intolleranza venendo depredati e
malmenati dalla folla, non esistendo ancora un ghetto chiuso con cancelli a protezione della comunità. In
loro aiuto interveniva ancora la carità religiosa che, stante una situazione di diffusa miseria nella comunità ebraica ferrarese in stridente contrasto con la presenza di un ceto borghese ante litteram abbiente e
amante dei lussi, redistribuiva parzialmente la ricchezza. Il precetto religioso della carità, tzedaqah in
ebraico, era fino a quel momento eseguito in un modo scoordinato che non garantiva la corretta gestione
Leoni 2011, p. 151, p. 167.
Leoni 2011, pp. 243-244.
46 ASMo, ASEst, ApM, Ebrei, b. 19/b.
44
45
dei fondi a disposizione. Fu così eretto nel 1515 un apposito organismo, la fratria della Gemilut Ḥasadim,
il cui nome ebraico richiama il “riscatto dei pietosi” operato in favore dei correligionari in difficoltà47. In
realtà, secondo il Talmud, si tratta di un’amplificazione della tzedaqah, non il suo sinonimo. Con la prima
il fedele non si attende una ricompensa e il suo è un gesto di pura generosità, mentre con la seconda, la
carità obbligatoria, si sottintende un merito da riscuotere nell’aldilà mediante la deposizione di un obolo
nell’apposita cassella in tempio. La carità rituale destinata ai viventi è pertanto un elemento funzionale
della vita religiosa e consiste sempre in denaro, mentre la gemilut consiste anche in condotte quali la
presenza alla veglia funebre o l’assistenza ai malati, la vestizione degli ignudi, la fornitura di cibo e la
collaborazione alle operazioni di sepoltura, quindi a vantaggio sia dei viventi che dei defunti impossibilitati a contraccambiare e quindi l’atto pertanto non prevede una ricompensa tangibile48. È indubbio il
ruolo della qabbalah e di altre forme di mistica nell’indurre i fedeli ad atti di generosa rinuncia alle ricchezze: la presenza dei poveri diveniva in tal modo una necessità per la salute dell’anima e per la comunità giudaica non rappresentava un vero problema da risolvere, essendo utile sia all’assolvimento del
dovere spirituale di mondare i propri peccati che a tacitare gli scrupoli di coscienza dei ricchi. A differenza
delle numerose confraternite laiche e religiose cristiane di stampo mistico esistenti in gran numero già
dal Medioevo, che richiedevano ai loro membri l’adozione di un consono stile di vita interamente dedicato
alla contemplazione, le fratrie caritatevoli ebraiche iniziarono ad affermarsi in Europa solo dal XVI secolo
ma scarseggiano le notizie in proposito. Tuttavia già nella seconda metà del XIII secolo è documentata a
Lérida, Huesca e Saragozza un’associazione israelitica per la sepoltura, l’annuncio pubblico del decesso e
per il conforto ai parenti in lutto. Almeno per la penisola italiana, sembra che la confraternita ferrarese
fosse la prima di cui si abbia una carta costitutiva esistente in forma scritta. Nei decenni successivi, enti
dal simile ruolo sorsero a Firenze, Mantova (1534), Padova e Roma (1554) per poi assumere connotati
di fenomeno ricorrente nel panorama delle società ebraico-italiane, con statuti ricalcanti un modello base
che privilegiava la soluzione al problema del pauperismo e non la spiritualità individuale. Lo statuto della
Gemilut Ḥasadim ferrarese –redatto da Abraham Farissol– porta la data del 16 di Elul 5275 ossia il 6 settembre 1515 ed è oggi custodito nella biblioteca universitaria di Haifa, in Israele; esiste altresì una seconda versione custodita a Gerusalemme completa dei commi mancanti nella prima ma recante l’anno
1516 e Modena come luogo di redazione49. Il testo dello statuto inizia con la solenne affermazione che
l’opera di carità è di “importanza tale che non può esser misurata”, dal primo verso del trattato talmudico
di Pe’ah50. Pertanto, l’onere del mantenimento della coesione e della concordia tra i membri della fratria
era di massima rilevanza. La gestione era affidata a due delegati –berurim, ossia “chiari, eccelsi” con evidente riferimento al rilievo della carica– nominati dall’assemblea principalmente per amministrare il denaro e incassare il provento delle penali comminate per una lunga serie di infrazioni che i membri eventualmente avessero commesso. La somma che ogni membro doveva versare mensilmente era di un bolognino e quattro denari. Tuttavia anche in occasione del matrimonio o della nascita di un figlio maschio, il
membro versava sei bolognini in segno di ringraziamento al Signore. Ogni disobbedienza alle regole imposte nell’atto costitutivo era sanzionata con due bolognini e molte situazioni di disaccordo erano multate: le liti tra i confratri erano punite con tre bolognini. I compiti precipui dell’associazione erano la presa
in carico dei malati poveri e la fornitura di casse per la sepoltura dei defunti; bisognava garantire sempre
la disponibilità di dieci assi di legno e duecento chiodi per fabbricare in tempi rapidi le bare, la presenza
di volontari per lavare e preparare la salma e avviarla al cimitero, confortando i parenti e preparando
loro i pasti nel periodo della shiv‘ah, i sette giorni di lutto. Nell’ambito dell’organizzazione, grande rispetto
era attribuito alla figura dello shammash, scaccino o custode del tempio, il cui ruolo non si limitava alla
convocazione delle riunioni mensili della fratria e alla pubblicazione su una parete del tempio del nominativo di chi si rifiutava di pagare penalità e oboli dovuti ma ne indirizzava le attività concrete.
È evidente quindi il ruolo esercitato dalla visione esoterica della qabbalah nel modellare uno stile di
vita comunitario. Quello di Ferrara fu infatti uno dei primi nuclei della diaspora sefardita ad aver accolto
le dottrine spirituali dei cabbalisti di Safed, cittadina situata nella Galilea palestinese già allora un centro
Ruderman 1976, pp. 242-244.
Per una trattazione più ampia dei concetti giudaici di carità rituale e soccorso ai bisognosi, cfr. Encyclopaedia Judaica 2a ed.,
vol. 7, “Gemilut Ḥasadim”, pp. 427-428.
49 Ruderman 1976, p. 234.
50 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 15, “Pe’ah”, pp. 704-705.
47
48
propulsore dell’escatologia ebraica sostenuta da rabbini e sapienti d’origine portoghese e da ex marrani
tornati alla religione avita. Cercando una spiegazione alle sofferenze subite e nello sforzo di individuare
quali ragioni potessero far sperare in un’imminente redenzione per opera del Messia, si presupponeva
l’esigenza di scontare la colpa d’aver accettato un battesimo pur di continuare a vivere nei paesi iberici
praticando un culto in onore di divinità estranee raffigurate sotto sembianze umane costruite con legno
o pietra, al pari degli idoli biblici aborriti dalla Torah. Il misticismo ebraico incentrato sul riscatto si trasformò in un movimento popolare che portò un gran numero di persone pie a trasferirsi a Safed. Lì si
dedicavano ad attività caritatevoli e di preghiera che, secondo la loro visuale, avrebbero accelerato il
corso degli eventi e impresso una svolta positiva verso l’avvento dell’era messianica, essenziale per il
ritorno di tutti gli ebrei in Palestina, la loro patria biblica Eretz Israel, dove avrebbero prosperato in pace,
forti della protezione divina.
La condizione sociale delle donne ebree a Ferrara
Gli statuti del comune ferrarese mettevano la donna su un piano giuridico inferiore, limitandosi a rispecchiare una società profondamente maschilista in cui la figura femminile era quasi sempre relegata a
un ruolo defilato rispetto a quello dell’uomo, anche nelle famiglie aristocratiche. Come sempre, c’erano
eccezioni come quella, clamorosa, dell’intelligente duchessa Lucrezia capace di gestire l’amministrazione
dello stato e della diplomazia nei periodi di assenza del duca che sostituiva persino in decisioni di somma
importanza per la collettività. Generalmente le donne erano soggette alla volontà dei parenti più prossimi
o del marito e, in mancanza, anche dei propri figli.
La situazione delle donne ebree nel primo Rinascimento italiano non era affatto diversa, basata su
codici di comportamento etico che ne regolavano la vita quotidiana. In grande maggioranza, esse passavano direttamente dalla casa paterna a quella maritale, essendo l’uomo a farsi carico della loro protezione
ed erano soggette a un rigido regime giuridico al fine di preservare la reputazione sociale della famiglia
d’appartenenza. Il contratto nuziale a volte includeva clausole a vantaggio del marito, nell’eventualità che
l’unione fallisse o fosse inficiata da difetti scoperti o affiorati successivamente. La ferrarese Dolcetta concesse 300 bolognini in dote a Manuel, sposo della propria giovane figlia Sara, a patto che la figlia venisse
accudita e protetta nel caso si fosse “ammalata di malinconia (l’odierna ‘depressione’) o divenisse mentecatta”, il che non avrebbe diminuito il valore della dote51. Le donne, anche se sposate, non potevano
circolare in strada se non accompagnate dal marito, dai figli o da altri parenti. Le ragazze uscivano sempre
in gruppo, anche per recarsi e tornare dal tempio difatti, se sole in strada, venivano additate come esempio di cattivi costumi. Non avevano nessuna possibilità di dedicarsi ad attività frivole, se non al sicuro in
casa propria e, ancor meno, interloquivano con i cristiani. Lo scopo era di impedire i contatti sessuali con
essi, allo stesso modo in cui la Chiesa metteva in guardia i suoi fedeli dall’intrattenersi con gli ebrei. Minor
successo aveva lo sforzo di limitare i rapporti intimi tra ebrei, non rari nell’ambiente congestionato del
loro quartiere dove però non esisteva alcun postribolo, mentre si pensa che a Venezia fosse attiva qualche
prostituta israelita. Nel campo dell’istruzione, le donne erano tenute in disparte e poche partecipavano
alle lezioni nelle scuole comunitarie. La maggior parte, studiando in famiglia al riparo delle mura domestiche, imparava a leggere i testi sacri e comprendeva le preghiere giusto per assolvere ai doveri di buona
ebrea.
Le vedove o le nubili che non avessero consanguinei su cui fare riferimento erano in una situazione
materiale più difficile ma, in cambio, ricevevano anche una maggiore autonomia nelle proprie questioni
legali ed economiche. Tuttavia spesso prevalevano diffidenza e pregiudizi: l’ebrea Raina, venuta a Ferrara
dalla Sicilia e vedova di Abramo, dovette chiedere l’intervento del vicario del podestà per rimborsare a
Isach un prestito di 11 lire di marchesani, non potendo agire per conto proprio52. Anche Fina, vedova di
un ebreo immigrato dalla Germania e senza consanguinei a Ferrara, ottenne il consenso del giudice per
pagare una parcella notarile e chiudere una controversia sorta sui rapporti economici del defunto marito53. Similmente, il giudice comunale di Ferrara tutelò, in mancanza di congiunti, la vedova Anna desiderosa di un prestito di 68 fiorini d’oro da Abraham per garantire la dote a Salomone da Cesena che voleva
Franceschini 2007, p. 169, doc. 461.
Franceschini 2007, p. 233, doc. 614.
53 Franceschini 2007, p. 247, doc. 660.
51
52
sposare la figlia di lei Bellarosa54. Perla, vedova di Datalucio e priva di altri parenti stretti, ottenne il consenso del giudice ferrarese per poter dare al proprio figlio Abramo un tutore, tale Bonaiuto da Monselice,
che rappresentasse i suoi interessi55. Il consenso di due procuratori estranei alla famiglia fu necessario
anche ad Allegra figlia di Iacob e moglie di Marco di Cremona per contrattare con Salomone banchiere ai
Carri un prestito dietro pegno di vesti, gioielli e altri beni: la donna, pur sposata, non aveva parenti presenti in quel momento a Ferrara che garantissero per lei. Ancora, Flora del fu Mandolino aveva ricevuto
un prestito di 200 ducati ma il consenziente fratello Abramo ricevette il denaro e confermò ogni obbligazione assunta dalla donna che si impegnava a estinguere il debito entro un anno pena la cessione al creditore di tutti i propri beni56. Però, stranamente, s’era verificato il caso inverso di Gentile nominata curatrice speciale del marito Isach, un ebreo tedesco residente a san Felice vicino Modena, per i suoi affari da
condurre a Ferrara57. La sefardita Ester Namias, honesta mulier vedova del dottor Fernando Lopes de Pas,
fu nominata tutrice dei suoi tre figli e curatrice del loro patrimonio; suo fratello Ioseph dette il preventivo
consenso alla nomina offrendo una fideiussione a garanzia58. Di simile provvedimento fu beneficiaria
donna Oro, dimorante con i figli nella contrada sant’Agnese in località del Paradiso, che s’impegnava a
gestire con oculatezza e diligenza il patrimonio familiare nell’interesse della prole e promettendo altresì
di redigere un inventario dei beni dell’eredità del defunto marito Salomon Iacchia, dal momento che non
aveva a Ferrara parenti che la tutelassero, perciò affidò preventivamente a un procuratore cristiano l’incarico di rappresentarla in eventuali vertenze59.
Viste le condizioni delle donne dell’epoca, attira grande attenzione la storia di doña Gracia Nasí che,
per il breve periodo della sua permanenza nella città ossia dal 1548 al 1551, ottenne dal duca Ercole II
l’esenzione dai limiti che gli statuti cittadini ponevano all’autonomia delle donne, per continuare a gestire
la grande impresa bancaria e commerciale della famiglia del defunto marito Diogo Mendes. La giustificazione addotta ufficialmente era che ella possedeva “eccezionali doti morali e intellettuali”60. Data l’opinione corrente dell’epoca sulle scarse qualità attribuite al genere femminile, destava scalpore questa
donna, apparentemente l’unica a Ferrara che impartiva ordini e disposizioni a un nutrito stuolo di servitori, fattori e agenti. La vicenda di doña Gracia, sia personale che nel ruolo di catalizzatore della comunità
dei cripto-giudei sefarditi riuniti intorno a lei, esula dall’oggetto del presente lavoro. Basti ricordare che
Gracia –il cui nome cristiano era Beatrice de Luna- nacque a Lisbona nel 1510 dalla famiglia sefardita
Nasí, costretta alla conversione per poter rimanere nel regno portoghese. Con il marito, un facoltoso converso commerciante di spezie, emigrò ad Anversa; rimasta vedova e per sfuggire alle pretese di vari personaggi d’alto rango che volevano mettere le mani sulle sue cospicue ricchezze, si trasferì con la famiglia
in altre città, tra cui Venezia e indi Ferrara. Nella città estense finalmente tornò a un aperto giudaismo,
finanziando la pubblicazione della Torah e di altri testi religiosi in spagnolo per aiutare gli altri conversos
a ritrovare l’originaria identità rieducandoli alla fede giudaica. Il letterato sefardita Samuel Usque, nel
suo volumetto panegirico Consolaçam as Tribulaçoens de Ysrael in lingua portoghese, la elogiava per aver
salvato molti correligionari sostenendoli moralmente e materialmente, definendola “la sesta delle vie
della consolazione del popolo d’Israele”61. Quando le condizioni politiche nel ducato estense non furono
più favorevoli, Gracia lo abbandonò per recarsi a Venezia e da lì nel 1553 salpò alla volta dell’impero
ottomano. A Istanbul venne accolta festosamente dal sultano e dagli ebrei della città che la ammiravano
e le tributavano onori. Continuò a occuparsi degli ebrei poveri con generosa larghezza di vedute, acquistando terreni intorno la città galilea di Tiberiade per stabilirvi chi, tra questi ebrei indigenti, volesse
colonizzare l’antica patria ma il progetto, influenzato dagli ideali ascetici della qabbalah, si scontrava con
le oggettive e dure condizioni materiali e ambientali della Palestina ottomana e pertanto fallì. La munificente donna terminò i suoi giorni tra il 1569 e il 157062. Le epiche vicende di doña Gracia, quasi come
partorite dalla fantasia di un romanziere, sono ancora oggi oggetto di ispirazione per saggi biografici,
ASFe, ANA, not. Giovanni Agolanti, matr. 125, pacco 5, 1461, c. 17b-18; Franceschini 2007, p. 262, doc. 697.
ASFe, ANA, not. Iacobo Vincenzi, matr. 177, pacco 5, 1477, 15 aprile 1477.
56 ASFe, ANA, not. Bartolomeo Goggi, matr. 195, pacco 4, 1486, c. 21.
57 Franceschini 2007, p. 389, doc. 1079.
58 Leoni 2011, pp. 992-993.
59 Leoni 2011, pp. 1136-1141.
60 Leoni 2011, p. 360.
61 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 20, “Usque Samuel”, p. 433.
62 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 14, “Nasi Gracia”, p. 785.
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narrazioni storiche e adesso persino tema di un film del regista israeliano Amos Gitai, ambientato a Ferrara.
L’umanesimo ebraico: fervore di artisti, letterati e medici a Ferrara
La corrente umanistica vantava nella Ferrara della prima metà del secolo XVI un cruciale punto di
appoggio e diffusione che incoraggiò alcuni personaggi di elevata cultura a stabilirsi nella capitale estense
e lavorarvi. L’accoglienza riservata agli ebrei perseguitati per motivi religiosi favorì questo fermento culturale, animato e sostenuto in gran parte da intellettuali sefarditi. Incoraggiati dalle favorevoli condizioni,
alcuni dotti profughi iberici costituirono a Ferrara diversi circoli intellettuali d’elevato livello, come
quello di donna Bienvenida, moglie di Samuel Abravanel. Diversi artisti cristiani, protagonisti del primo
umanesimo ferrarese, furono suggestionati dalla cultura ebraica, inserendo nelle proprie opere vari elementi presi dalla mistica giudaica o dal modo di vivere tipico degli ebrei sefarditi.
Alcune cattedre delle università ferraresi furono affidate a illustri intellettuali ebrei spagnoli, come
don Yehudah Abravanel (1460-1535, altrimenti chiamato Leone l’Ebreo), valido rappresentante del rinascimento ebraico. Egli e il genitore Isac non si convertirono al cristianesimo; conseguentemente vennero
espulsi dalla Spagna e si rifugiarono in Portogallo. Quando anche questo paese si piegò all’ultimatum della
regina Isabella di Castiglia, tutti gli ebrei del Portogallo dovettero abbandonarlo. Molti bambini ebrei invece furono prelevati e battezzati con la forza dagli inviati di re Giovanni II; tra essi c’era Isac figlio di
Yehudah Abravanel, di appena un anno. Il dolore per la perdita del bambino, mai più rivisto, traspare
nella Têlunah ‘al ha-zêman (“Elegia sul destino” che il genitore orbato compose nel 1503)63. La famiglia
Abravanel scelse come prima meta Napoli dove Isac divenne tesoriere di quel regno. Quando la dominazione spagnola arrivò anche in Italia meridionale, la famiglia Abravanel tentò di convincere il sovrano
aragonese a non intimare una nuova espulsione degli ebrei, offrendogli molto denaro; la mossa risultò
vana. Yehudah, ormai giunto a Ferrara, compose in italiano i “Dialoghi d’amore”, trattato filosofico neoplatonico nel 1502 (e stampato nel 1535) che influenzò la coeva letteratura spagnola ed europea.
Nell’opera i gradi dell’amore conosciuti sono espressi in forma poetica e dall’amore fisico umano s’arriva
per gradi sino all’amore del Signore per le creature e per il mondo e infine quello dell’uomo per il suo
creatore.
Primo fra gli intellettuali ferraresi di fede cristiana suggestionati dalla cultura giudaica, lo storico e
astronomo Pellegrino Prisciani compose l’Orthopasca (del 1508, oggi custodita presso la Biblioteca
Estense di Modena), una dissertazione sul corretto calcolo della pasqua cristiana che prosegue con l’analisi della tradizione religiosa ebraica: apud primos patres illos et seniores hebreos : temporibus etiam Moysi
et Aaron : nulla distinctio : nullus ordo : nulla fuit observantia mensium solarium. Per impreziosire il trattato, l’autore disegnò di propria mano alcune vedette in cima a una collina intente ad accendere un falò
dopo aver scorto la luna e vari personaggi in basso annuncianti l’inizio del nuovo mese, oltre ad altre
illustrazioni come la consegna del libro al papa Giulio II e a un antico re degli ebrei. Il testo è in latino
inframmezzato da frasi greche, in puro spirito umanistico, mentre gli annunci divini ai profeti Mosè e
Aronne sono riportati in un ebraico grossolanamente traslitterato: HAHODES AZE LACHEM RHOS HODESIM RISON HU LACHEM LEHDOSE ASANA (“Questo mese sarà per voi il primo dei mesi dell’anno”, Esodo
12.2) ma, sulla questione di quale dei mesi fosse il primo, sono riportate due differenti opinioni: BENYSAN
NIVRA AOLAM (“Nel mese di Nisan è stato creato il mondo”, ossia con l’inizio della primavera e del rinnovo del ciclo agricolo) e BETISIRI NIVRA AOLAM ossia con il mese autunnale di Tishrì, come è comunemente accettato oggi. Segue poi una traduzione a calco di una porzione dell’Esodo 13.4 che differisce dalla
versione proposta dalla Vulgata, dimostrando l’intenzione di mettere in discussione i testi canonici64.
Un’altra pagina dell’Orthopasca è corredata dal disegno di alcuni israeliti assorti nell’osservazione degli
astri in cielo dinanzi alle mura di Ferrara e un’altra illustrazione raffigura un gruppo di ebrei che sacrificano gli agnelli per il Pesach sotto lo sguardo compiaciuto del Signore che li osserva dal cielo. Prisciani
era suggestionato dalla mistica della qabbalah alla quale era stato introdotto dai banchieri Salomone e
Noè Norsa che, come lui, partecipavano alla vita di corte. Gli interventi di Prisciani evidenziano quanta
importanza attribuì, nella scelta dei dettagli architettonici e iconografici da trasporre sugli affreschi del
63
64
Encyclopaedia Judaica 2 a ed., vol. 1, “Abrabanel Judah”, pp. 279-280.
Busi in Fregni 1993, pp. 191-195.
palazzo Schifanoia, ad astrologia e astronomia assecondando la passione provata dai committenti65. Egli
era anche bibliotecario e teorico dell’architettura, quindi un raffinato cortigiano apprezzato al punto da
venir incaricato, dopo la pace di Bagnolo del 1484, di condurre le trattative per la precisa definizione dei
confini territoriali del ducato con Venezia, mutati in seguito alla cessione del Polesine rodigino, possedimento estense e non feudo pontificio come era invece Ferrara. Prisciani approntò una carta corografica
(oggi perduta) di supporto alle sue missioni d’ambasceria per risolvere –tuttavia senza successo- le contese territoriali, aiutandosi con le coordinate tolemaiche da lui ben note in quanto esperto in astronomia.
Successivamente, profittando dell’esperienza maturata nell’arte diplomatica e politica e delle conoscenze
archivistiche, redasse le monumentali Historiae ferrarienses di gran valore storico-documentario almeno
per le parti oggi rimaste, per le quali attinse a larghe mani anche da numerose fonti tra cui assumono
rilievo alcuni autorevoli storiografi del mondo giudaico classico e di quello talmudico, consolidando le
competenze di ebraista66.
Il celebre artista figlio di Ferrara e pittore della corte estense Cosmè Tura -che ispirò la cosiddetta
“scuola ferrarese” ossia un circolo di rinomati pittori rinascimentali che decoravano chiese e dimore di
duchi e prìncipi- dipinse la pala Roverella per la chiesa di san Giorgio, inserendo le tavole dei dieci comandamenti ai lati della Madonna dipingendo abilmente le lettere ebraiche, su consiglio e supervisione
del Prisciani. Un altro lavoro del Tura, la pala Madonna in trono e i santi Apollonia, Caterina, Agostino e
Girolamo per la chiesa agostiniana di san Lazzaro poi andata perduta nel 1945 nei bombardamenti che
devastarono Berlino, dov’era stata trasferita, recava anch’essa caratteri ebraici leggibili e ben disegnati.
Invece il Mantegna disegnò maldestramente le lettere ebraiche nel cartiglio presente nel quadro “Pallade
che scaccia i vizi” (tra 1499 e 1502) per lo studiolo di Isabella d’Este e la frase risulta incomprensibile:
chi lo guidava nella composizione dell’opera forse era l’eclettico mago Paride da Ceresara, non propriamente esperto di lingua ebraica67. Altri artisti rinascimentali, per assecondare la ventata di ecumenismo
culturale della loro epoca, s’erano cimentati nell’ebraico con risultati talvolta non esemplari per mancanza di validi istruttori: Lorenzo Costa (nato a Ferrara nel 1460 e deceduto a Mantova nel 1535) produsse un quadro –oggi custodito alla Gemäldegalerie di Dresda- che mostra san Sebastiano e, ai piedi del
martire, uno scudo recante l’iscrizione in ebraico Opus Laurentzi Qoshta. Anche l’artista ferrarese Ludovico Mazzolino, deceduto di peste nel 1528, dipinse i caratteri della lingua ebraica in alcune delle sue
opere dedicate all’ambiente giudaico o in scene caratterizzate da particolari della vita quotidiana
dell’epoca biblica. Si tratta del “Cristo e l’adultera” (conservato nella Galleria Borghese di Roma) che raffigura alcuni personaggi chini a terra a osservare le parole scritte da Gesù sul terreno ai piedi di un tempietto, come narra il Vangelo di Giovanni 8, 1-11; invece nel quadro “Ecce Homo” (al Musée Condé di
Chantilly) Cristo viene mostrato al popolo e sopra di lui campeggia un ovale con la scritta –tuttavia fuori
contesto- haBayt asher banah Shêlomoh l’Adonai ossia “Il tempio che (il re) Salomone costruì al Signore”;
infine nella “Disputa di Gesù nel tempio” (sempre del Mazzolino, oggi alla Gemäldegalerie di Berlino)
compaiono tre libri sulle cui pagine aperte si notano frasi ebraiche dal senso scarsamente interpretabile.
Gli autorevoli committenti delle opere artistiche destinate ad abbellire i palazzi nobili della capitale,
primi tra tutti il duca Alfonso, il cardinale Ippolito e Sigismondo, accettavano l’introduzione di elementi
ebraici nella composizione e, addirittura, li richiedevano espressamente, irretiti dal vivo ecumenismo
culturale di cui loro stessi erano propulsori e nel quale l’ingrediente ebraico giocava un ruolo di rilievo.
Un’altra prova del reciproco interesse culturale tra ebrei e cristiani è nell’episodio che nel 1512 vide la
principessa Isabella d’Este, figlia di Ercole e sposa di Francesco Gonzaga di Mantova, procurarsi da Emanuel Norsa un libretto di salmi magici che conteneva formule miracolose, il Sefer Shimmush Tehillim di
Farissol (“Libro sull’uso dei Salmi”). La giovane aveva saputo dell’esistenza di questo manuale da Prisciani, suo consulente in materia di astrologia e magia di cui era appassionata tanto da chiedergli di farcilo
tradurre in latino le formule che la incuriosivano68.
Il poliedrico Abraham Farissol fu il rappresentante più in vista della corrente umanistica ebraica a
Busi 1993, p. 201.
Donattini 2007, pp. 212-213; Busi 1993, p. 190.
67 Busi in Fregni 1993, pp. 199-202.
68 Busi 1993, pp. 199-200.
65
66
Ferrara. Nato nel 1452 ad Avignone nella locale comunità sefardita, si trasferì in Italia e risiedette a Mantova prima di giungere verso il 1472 nella capitale estense dove lavorò assiduamente -tra l’altro impiegandosi come ḥazzan, cantore in sinagoga- e vi morì dopo il 1525. Autore di commentari sulla Torah,
trattati filosofici, sermoni religiosi, dissertazioni e lettere, fu anche fecondo copista di manoscritti. Tradusse in ebraico la Logica di Aristotele e il compendio del filosofo greco Porfirio. Tuttavia l’opera del
Farissol ritenuta più interessante è la Iggeret Orḥot ‘Olam (in ebraico “Epistola sui sentieri del mondo”),
in cui argomentava di geografia e cosmografia in ognuno dei trenta capitoli dedicati a una specifica area
del mondo, includendo qualche accenno alle condizioni di vita degli ebrei ivi dimoranti69. Si dice fosse
stato il primo ebreo a redigere dettagliati resoconti della scoperta del continente americano perché nel
suo trattato di geografia riportò la descrizione delle zone visitate dagli esploratori, gli usi delle tribù precolombiane sotto il profilo etnologico, soffermandosi sugli aspetti dell’organizzazione sociale da esse stabilite, la mancanza del concetto di proprietà nelle loro culture, le loro abitudini sessuali e la grande disponibilità di metalli pregiati e gemme nei loro territori. Altri argomenti da egli esaminati erano la questione delle mitiche dieci tribù perdute della biblica Israele, le avventurose vicende del ciarlatano ebreo
David Reuvenì e la nuova rotta che i naviganti portoghesi avevano appena tracciato per giungere nelle
Indie.
Attorno a messer Farissol si riuniva un gruppo di altri dotti ebrei versati nell’arte medica che trovavano nella Ferrara del secolo XV un terreno propizio per le loro attività. Tra questi apprezzati medici
israeliti si trova maestro Guglielmo del fu Isaia –della più ricca famiglia di prestatori di Urbino, protetta
dai duchi di Montefeltro– che si diplomò nello Studio ferrarese nel 1426 dopo anni di studio a Bologna,
Pavia e Siena: si tratta di uno dei primi titoli accademici concessi a un ebreo in Italia, l’unico del genere a
Ferrara perché il diritto canonico escludeva gli ebrei da qualsiasi titolo onorifico ma l’interpretazione di
questa norma era spesso discordante70. Egli probabilmente tornò a Urbino per esercitare l’arte, poiché
non lo si trova più nei documenti ferraresi successivi. Un altro medico, Iacob iudeo fisico, invece curò
Ercole d’Este gravemente ferito a un piede dopo la battaglia della Riccardina contro la Lega Italica nel
1467; come è noto, il principe sopravvisse ma rimase claudicante. Tra i medici-filosofi israeliti assume
rilievo pure l’esegeta e filosofo cesenate Obadiah Sforno (all’italiana Servadio, 1475-1550), laureato a
Ferrara nel 150171. Più tardi il colto Amato Lusitano soggiornò a Ferrara, proveniente da Anversa, in un
periodo compreso tra il 1540 e il 1547 insegnando nella locale accademia come lettore di medicina per
ordine di Ercole II72.
Oltre agli ostacoli nell’accesso alle professioni che presupponessero un contatto fisico diretto con i
cristiani, anche i rabbini più intransigenti frapponevano difficoltà quando un ebreo aspirasse a dedicarsi
a un’istruzione profana; in tal modo, gli ebrei entravano dapprima nelle accademie religiose e poi si dedicavano al latino, al greco e alla filosofia, per poter infine passare dalle lettere umanistiche alla scienza.
La continuazione delle lezioni di livello superiore era tuttavia appannaggio delle classi più abbienti, in
quanto in molti atenei gli ebrei pagavano una tassa tripla di quella normale, perciò gli alunni poveri ne
erano spesso automaticamente esclusi. La sacralità attribuita alla figura del medico e, per traslato, ai relativi studi, può esser compresa ricordando che in tutte le culture il medico è oggetto di alta considerazione per via dell’importanza attribuita alla salute dell’uomo. Il dettame giudaico del piquaḥ nefesh73, la
buona conservazione dell’anima mediante un’efficiente cura del corpo da curare persino a costo d’infrangere il riposo dello shabbat, mostra quanto fosse sentita l’esigenza di salvare la vita e di tutelarla. Ciò
quindi occupa un posto elevato nella gerarchia dei valori tradizionali degli ebrei.
La cerimonia di laurea solitamente prevedeva la presentazione di un libro aperto da chiudere nelle
mani del dottorando, infilandogli al contempo un anello d’oro al dito e ponendogli un berretto in testa
come simbolo dei privilegi e degli onori acquisiti. Di consueto il rito d’investitura di un ebreo a dottore
Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 6, “Farissol Abraham ben Mordecai”, p. 717.
Arieti-Genusso 1993, pp. 276-277.
71 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 18, “Sforno, Obadiah ben Jacob”, p. 333.
72 Encyclopaedia Judaica 2a ed., vol. 1, “Amatus Lusitanus”, p. 34.
73 Per una trattazione generale del concetto etico giudaico del piquaḥ nefesh (“Preservazione dello spirito”), cfr. Encyclopaedia
Judaica 2a ed., vol. 13, “Medicine”, pp. 720-723.
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era tenuto nello Studio stesso o in una sala del vescovado, mentre per i cristiani era celebrato in cattedrale, a garanzia della sacralità della professione, indi seguiva il corteo trionfale di amici e parenti. Il formulario utilizzato per il dottorando ebreo non cambiava sostanzialmente ma talvolta si inseriva l’augurio
che un giorno egli scegliesse la conversione al cristianesimo; alla fine il neodottore doveva sostenere le
spese cerimoniali per i musici, il notaio, il luogotenente e gli addobbi. La qualifica di dottore in medicina
conferiva altresì un’importanza sociale pari a quella dei nobili e il permesso di partecipare alle processioni tenute in particolari occasioni, come la visita dell’imperatore Federico III accolto il 17 gennaio 1452
presso la delizia di Belfiore dal duca Borso accompagnato da uno stuolo di dignitari e doctores prescelti.
Il titolo di magister era riservato a chi fosse abilitato all’esercizio pratico mentre quello di doctor dava la
possibilità di insegnare ed esaminare i candidati. In seguito al dottorato, l’ebreo poteva liberamente curare i correligionari e, previa licenza papale, anche i cristiani. Spesso la conoscenza dell’ebraico e
dell’arabo gli facilitava la comprensione di ostici testi importanti per la professione medica. Avendo dovuto superare maggiori difficoltà rispetto al cristiano, lo specialista ebreo era in genere più preparato e
quindi ricercato nelle corti principesche grazie alla tenacia dimostrata per farsi largo. I medici, percepiti
come dotati di straordinari poteri curativi, ricevevano onori e stima sociale e, come quelli cristiani vestivano capi di seta e mantelli pregiati che indicavano la professione, ottenendo l’esenzione dal segno giallo
o dal tabarro rosso, laddove erano prescritti agli altri israeliti.
I medici ebrei pretendevano generalmente un onorario più basso rispetto ai loro colleghi di religione
cristiana e quindi operavano perlopiù presso gli strati meno agiati della popolazione, anche nei periodi
in cui era formalmente vietato ogni contatto tra medici e pazienti di religioni diverse e quando i frati
predicatori –spesso ignoranti quanto i loro ascoltatori– mettevano in guardia dal pericolo che il medico
ebreo, con le sue arti, potesse nuocere al corpo o all’anima del malato. Pertanto era più frequente che
fossero i doctores iudaei a concedere ai correligionari la patente di esercizio dell’arte medica e chirurgica,
come maestro Leone dottore in Mantova che nel 1471 abilitò Vitale del fu Salomone da Norcia e gli permise di esercitare la medicina a Ferrara.
Per impedire che le salme degli israeliti appena deceduti fossero riesumate di nascosto e portate nello
Studio ferrarese allo scopo di illustrare le lezioni di anatomia, è verosimile che i medici ebrei avessero
introdotto l’usanza di apporre sulla sepoltura un sigillo, recante la parola ( שלוםshalom, “pace”), protetto
con un mattone. Dopo una settimana, quando il corpo in putrefazione non correva più il rischio di venir
utilizzato per gli insegnamenti anatomici, si poteva togliere il mattone. Un modello di tampone per sigillare le sepolture ebraiche è conservato al museo israelitico di Ferrara, assieme a numerosi altri oggetti
per le cerimonie religiose e per la vita casalinga, tangibili testimonianze di una delle più cospicue e fiorenti comunità giudaiche d’Italia.
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