Sovrano Militare Ordine Ospedaliero
di San Giovanni di Gerusalemme
di Rodi, di Malta
Gran Priorato di Napoli e Sicilia
Centro Studi Melitensi
Taranto
Centro Studi Melitensi
Palazzo Ameglio – Corso ai Due Mari n. 33
74123 Taranto
Consiglio Direttivo
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Procuratore
Paolo Domenico Solito
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Direttore
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Academia.edu: Centro Studi Melitensi Taranto
Finito di stampare nel mese di dicembre 2020 da Ecumenica Editrice - Bari
Studi Melitensi
Rivista del Centro Studi Melitensi
XXVIII
(2020)
Ecumenica Editrice
Comitato di Redazione
Direttore
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Redazione
Francesco Amarelli, Manlio Corselli,
Angelantonio Spagnoletti, Kristjan Toomaspoeg
Segretari
Antonella Dargenio, Gaetano del Rosso, Paolo Domenico Solito
Bibliografia
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La rivista «Studi Melitensi» segue le procedure internazionali della blind peer review
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o fatto oggetto di abstracts analitici nel seguente strumento di ricerca
Progetto Riviste online
(a cura di F. Testaferri, Italia)
ISSN 2499-0787
ISBN 978-88-85952-23-2
Recensioni
San Luigi dei Francesi. Storia, spiritualità, memoria nelle arti e in letteratura, a cura
di Patrizia Sardina, Roma Carocci editore, 2017, 156 p, ill. (Biblioteca di Testi e Studi.
Studi Storici, 1146).
Quest’opera collettiva curata da Patrizia Sardina, Ordinaria di Storia Medievale
nell’Università degli studi di Palermo, raccoglie i contributi scientifici di numerosi e
qualificati studiosi che hanno partecipato a un Convegno internazionale di studi svoltosi
nell’Arcidiocesi di Monreale su impulso dell’Arcivescovo Mons. Michele Pennisi e con
il sostegno organizzativo di Padre Gaglio, Parroco del Duomo.
I lavori del Convegno, confluiti nel volume, hanno avuto come obiettivo tematico una
aggiornata rivisitazione della figura del Santo Re di Francia attraverso rinnovati strumenti
critico-metodologici e in una prospettiva che si avvale dell’approccio multidisciplinare.
Ne scaturisce, dunque, una ricostruzione ad ampio raggio della personalità e del
ruolo politico di Luigi IX, la quale tiene conto, da un lato, dei risultati acquisiti dalla precedente storiografia e, dall’altro, dei risultati di una lettura innovativa sul piano degli aspetti veicolati dalla sua agiografia politica poggiata, per lo più, su una programmata e manifesta iconografia della sua pietà devozionale.
Fra i temi che assai opportunamente avviano alla lettura di questo volume, va segnalato il saggio di Sardina (Bianca di Castiglia, regina madre di Francia, p.17-31) che si
incentra sul rapporto parentale madre-figlio declinato nel porre in risalto l’influenza di
Bianca di Castiglia come educatrice, reggente e consigliera di Luigi. Lo schema che l’autrice utilizza le consente di mettere a fuoco, al di là degli stereotipi, le intense relazioni
internazionali avviate dalla Regina, il suo forte temperamento di reggente e, non per ultimo, il suo mecenatismo religioso proteso, parimenti, a rafforzare il lignaggio dinastico e
a consolidare il potere politico della Casa reale.
Non meno fondamentale appare il saggio di Henry Bresch (Federico II, san Luigi e
gli ebrei, p. 33-49) a proposito della correlazione tra lo svevo Federico II e il Re francese
in riferimento ai loro rapporti col mondo giudaico del tempo e alle loro politiche messe
in atto nei confronti degli ebrei abitanti nei rispettivi regni di Germania, Sicilia e Francia.
Il medievista francese sottolinea la disparità culturale dei due sovrani, ragion per cui la
più approfondita formazione scientifica, teologica e filosofica induce l’Imperatore ad
una maggiore sensibilità e ad adottare misure di più larga apertura nei riguardi dei propri
sudditi ebrei, mentre un’imperfetta conoscenza delle problematiche religiose giudaiche,
quali, per esempio, il messaggio contenuto Talmud o la decisione della sua messa al rogo
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insieme con gli scritti di Maimonide, determina il Re Luigi IX a circoscrivere la questione delle difficili relazioni di convivenza fra cristiani ed ebrei, risolvendole in azioni e misure politiche di moralizzazione della tipica attività finanziaria allora praticata dai Giudei che
fu, appunto, l’usura, con la conseguenza di apparire animato da antisemitismo.
In realtà Luigi si allineò alle direttive della Chiesa gerarchica ma volle anche esaltare gli interessi della propria gloria nel momento in cui rivolse le sue mire verso Gerusalemme
e l’area del medio oriente musulmano. Marcello Pacifico distingue infatti, nel quadro
dell’iter hierosolymitanum, le differenti fasi delle spedizioni militari del sovrano francese che si modificano radicalmente da una iniziale volutamente “guerra di conquista”
(Damietta), ad una successiva impresa condotta all’insegna di un autentico spirito crociato maturato nell’animo durante la di lui cattività (Luigi IX e la campagna di Damietta:
crociata o guerra di conquista?, p. 51-64).
Se il giudizio complessivo di Pacifico si concentra sulla propaganda della Chiesa,
che ha voluto trasformare un’impresa militare disastrosa per i suoi risultati in un fulgido
esempio di Santa Crociata, l’interesse di Salvatore Vacca si concentra sul tipo di pietas di
stampo francescano che permeò l’ethos del sovrano (Luigi IX tra crociata e francescanesimo, p. 65-80). L’autore infatti sostiene che Luigi IX non fu canonizzato perché miles
Christi, ovvero per ragioni di “santità militare” legate alle sue Crociate, ma per la sua
sincera adesione all’ideale dell’umiltà francescana, per il suo sincero esercizio della carità
e della giustizia e, non per ultimo, per l’intensa obbedienza devozionale professata verso
Cristo e Maria, nel confermato ossequio alla Santa Chiesa, al Vicario di Cristo successore di Pietro, ai Vescovi successori degli Apostoli.
Se, come osserva esattamente Vacca, la santità del sovrano francese non ricalca totalmente la fisionomia di quella del Santo di Assisi per quanto riguarda l’annunzio pacifico
del Verbo nel compito di riguadagnare ai Cristiani la Città Santa, ove fu consumato il sacrificio di Nostro Signore, è pur vero che egli, come preclara virtù della sua regalità che
discende da Dio, volle manifestare la propria prossimità ai poveri, ai malati, ai bisognosi,
ponendo rimedi alle iniquità e alle ingiustizie che angariavano gli ultimi, cioè i più deboli e i diseredati.
I saggi di Daniela Santoro (Il corpo di san Luigi a Monreale, p. 81-95) e Giovanni
Travagliato (San Luigi: reliquie e reliquiari tra Terrasanta, Francia e Sicilia, p. 97-108)
hanno il pregio di trattare, sotto l’aspetto così tanto diffuso tra i credenti dell’età di mezzo
della venerazione del corpo morto in fama di santità, il tema del culto delle reliquie del
Santo Re. La santità di Luigi, infatti, viene certificata dalla fisicità del suo corpo smembrato nei tanti resti mortali che fungeranno, nei luoghi ove essi saranno custoditi, come
pegno di protezione celeste per i suoi sudditi e vincolo ideale della loro fedeltà ai suoi
discendenti.
Lo scritto della Santoro, pertanto, si incentra nella peregrinazione del corpo morto,
mentre il lavoro di Travagliato ha come oggetto la storia e la descrizione dei reliquiari
contenenti i frammenti di quel corpo santo e regale. Seguendo la disseminazione delle
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spoglie di questo sovrano e il suo paradossale destino di diventare da raccoglitore di reliquie esso stesso germinatore di reliquie da venerare, i due studiosi si propongono di verificare cosa resti di questo Santo Re nella memoria della comunità di Monreale.
Carmelo Bajamonte e Maurizio Vitella esplorano poi, rispettivamente, il panorama
iconografico che rispecchia la larga e lunga eco della fama del Rex christianissimus. Il tema
della creazione dell’immagine sacra a supporto della Casa reale angioina viene indagato
da Bajamonte in un puntuale excursus (L’immagine di Luigi IX: testimonianze d’iconografia in Italia fra Medioevo ed età moderna, p. 109-123), lungo il corso dei secoli e
nelle diverse aree culturali della cristianità, rassegna che gli permette di chiosare con
rigore il dispositivo figurativo (in funzione celebrativa angioino-francescana) che riproduce convenzionalmente le sembianze di Luigi. Vitella, invece, perimetra la sua ricerca
iconografica tra Palermo e Monreale attraverso un’accurata lettura iconografica dei dipinti luigini, prediligendo quelli che uscirono dal pennello di Pietro Novelli, detto il Monrealese,
e di Giuseppe Patania, a cui associa un’accurata esegesi dei significati inerenti alla posizione della statua argentea del sovrano posta sulla mensola apicale del gradino dell’altare maggiore del Duomo normanno insieme a quelle degli Apostoli Pietro e Paolo, di San
Benedetto e dei Santi Protettori di Monreale e di Palermo, Castrenze e Rosalia, volendo
con ciò sottolineare che il Valadier intese solennizzare il ricordo della sosta in questa
Cattedrale monrealese delle spoglie mortali del sovrano che facevano ritorno dalla Crociata
in Tunisia (Immagini di san Luigi tra Palermo e Monreale, p. 125-130).
A completamento della pubblicazione i contributi di Maria Gugliotta e di Ida Rampolla
del Tindaro prendono in considerazione i riflessi suscitati dalla figura di Luigi IX nella
letteratura francese. Gugliotta, infatti, si sofferma sull’originalità e sul valore letterario della
biografia del Re ad opera di Joinville, biografia che sta in mirabile fusione con l’autobiografia dell’autore (Le sante parole e le buone opere di san Luigi. Joinville (si) racconta…, p. 131-144), mentre la Rampolla del Tindaro tratteggia, con la consueta finezza critica, le suggestioni evocatrici del finito e dell’infinito che nei poemi di Claudel sono ispirate dalla regalità di Luigi, la quale traluce nella soffusa trasfigurazione poetica e patriottica dell’antica cristianissima Francia (San Luigi nell’opera di Claudel, p. 145-155).
Va pertanto dato atto a Mons. Michele Pennisi di avere voluto riannodare le fila della
memoria del Santo Re francese alla Comunità di Monreale nel segno di una indelebile continuità, attualizzandola nel tessuto vitale della cultura scientifica contemporanea. La lodevole sensibilità dell’Arcivescovo, unita a quella dei suoi sacerdoti custodi del sacro Duomo,
evidenzia che la serietà degli studi perpetua i valori di quella civiltà europea di cui il
Santo Re Luigi IX fu segnalato campione.
Manlio Corselli
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Antonio Musarra, Acri 1291. La caduta degli stati crociati, Bologna, Il Mulino, 2017,
330 p.
Antonio Musarra, Il crepuscolo della crociata. L’Occidente e la perdita della Terrasanta,
Bologna, Il Mulino, 2018, 334 p.
Sulla storia delle crociate si è scritto e si continua a scrivere molto, basti pensare all’opera capitale di Steven Runciman per terminare con gli studi di Franco Cardini sulla
Terrasanta e il mondo arabo. I due libri del giovane studioso genovese, Antonio Musarra,
si iscrivono in questa lunga serie di ricerche svolte con acribia sulle fonti latine e volgari,
siriane e arabe, armene e persiane coeve, oltreché sugli studi più accreditati in materia. Si
tratta dello sviluppo di una ricerca ormai decennale dell’Autore su questi temi; la sua bibliografia conta, infatti, numerosi titoli di argomento variamente attinente al tema delle crociate. Di sicuro interesse è anche la prospettiva da cui parte Musarra, ossia il ruolo della
Repubblica di Genova nelle vicende legate al passagium e, in particolare, le conseguenze
commerciali ed economiche che ne derivarono.
I due libri toccano in modo complementare il momento finale della lunga storia delle
crociate. Il primo volume tratta in forma quasi cronachistica e con grande precisione le
vicende che portarono alla caduta dell’ultimo baluardo del Regno Latino di Gerusalemme,
ridotto ormai alla città di Acri e ad una stretta striscia di costa mediterranea. La città cadde
nelle mani del sultano mamelucco al-Ashraf, il 18 di maggio 1291.
L’altro volume si concentra sui vani tentativi di riscossa e delle trattative intraprese
dai Mongoli in vista di un’azione comune contro i Mamelucchi, di quanto portò alla caduta di San Giovanni d’Acri, e poi sui tentativi, tutti falliti, di riconquistare la Terrasanta, nonché sulll’evoluzione dell’idea di crociata, fino a toccare uno dei suoi sviluppi: il giubileo,
proclamato per la prima volta da Bonifacio VIII nel 1300 a seguito della spinta popolare.
Il primo dei due volumi si articola in dodici capitoli inquadrati da un prologo e un
epilogo. Musarra inizia introducendo il lettore nel contesto storico e geopolitico e spiega il
senso dell’avventura crociata con le sue componenti militari, commerciali e religiose.
Prosegue trattando la situazione dell’Egitto sultaniale e delle questioni relative alle lotte di
potere per la successione sul trono. Nel terzo capitolo si occupa invece della situazione creata dall’irruzione dei Turchi sulla scena. La situazione della città di Acri viene illustrata nel
quarto capitolo, dove l’Autore narra l’intervento per il rafforzamento della città e le iniziative diplomatiche intraprese da Luigi IX di Francia. Musarra descrive, quindi, la difficile
situazione che si creò quando i Mongoli iniziarono a spingersi verso occidente. Anche nel
regno latino le cose non erano né facili né scontate; la corona di Gerusalemme era contesa
tra numerosi pretendenti, finché non venne attribuita ad Ugo di Lusignano, il quale tornò a
risiedere ad Acri, dando in tal modo una certa sicurezza alla popolazione. Le speranze di una
riconquista non erano svanite e, nel settimo capitolo, Musarra illustra i tentativi di imbastire una nuova crociata. Il problema della successione al trono si ripresentò presto e nel
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capitolo seguente ritroviamo la città di Acri in attesa di un nuovo sovrano, il quale era
sempre sottoposto, suo malgrado, alle rivalità tra i potentati occidentali, le famiglie nobili
di Cipro, Acri stessa e degli stati crociati di Terrasanta. L’Autore racconta, nel nono capitolo, il tentativo del genovese Benedetto Zaccaria di conquistare il Libano, nel 1289. Altri
tentativi furono fatti per la riconquista, spinti anche dal papa Niccolò IV, bloccati però da
accordi sottobanco tra i protagonisti; se ne parla nel decimo capitolo. L’undicesimo e il dodicesimo capitolo trattano, infine, dell’ultimo tentativo di riconquista, organizzato da Veneziani
e Genovesi, e dalla risposta devastante del sultano mamelucco, al-Ashraf. Alcune tavole
fuori testo arricchiscono il racconto, chiarendolo ulteriormente.
Il crepuscolo della crociata presenta la medesima struttura: dodici capitoli con un’introduzione ed un epilogo. Musarra prende le mosse da dove aveva terminato il precedente volume, riassume le vicende che avevano portato alla caduta della città ed esamina il
desiderio di riconquista espresso in profezie e visioni di poco successive. Ripercorre l’intenso lavoro diplomatico intessuto dai Mongoli, rappresentati in Occidente dall’inviato dell’īl-khān (khān dipendente) Arġun, il presbitero nestoriano Rabban Sauma. I sovrani occidentali e il papa appena eletto, Niccolò IV, però non presero in seria considerazione l’offerta di Arġun e il suo piano strategico. D’altra parte, la situazione della Terrasanta alla
fine degli anni ’80 del XIII secolo non era certo favorevole per i cristiani, in particolare
per i pellegrini latini, gli Ifranj (Franchi), come venivano chiamati dai musulmani; di
questo e d’altro parla Musarra nel terzo capitolo del libro. Nel seguente, invece, si sofferma sulle motivazioni della disfatta, così come furono comprese dai contemporanei; si
tratta di un interessante studio di un particolare esempio di teologia della storia, che acquista presto toni profetici e apocalittici. Il testo prosegue illustrando la situazione così come
si presentava all’indomani della presa di Acri: l’ultimo baluardo di ciò che era stata la Terrasanta latina era ridotto all’isola di Cipro, soprattutto dopo che anche la roccaforte armena
di Cilicia, Qal‘at al-Rūm cadde nelle mani del sultano al-Ashraf, nel 1292. A quel punto,
di crociata, più che organizzarla dal punto di vista militare, si iniziò a parlare e a scrivere.
Musarra esamina, nel capitolo sesto, alcuni progetti di riconquista tra i quali quello preparato dal francescano Fidenzio da Padova. Nel settimo capitolo, invece, l’Autore si sofferma sulla figura di Raimondo Lullo, sul suo soggiorno a Genova e sul suo grandioso
progetto di riconquista missionaria. Il capitolo seguente è dedicato alle ragioni della disfatta, per lo più risolte in chiave provvidenziale con l’argomento del «nostris peccatis exigentibus», ossia alla dissolutezza degli abitanti di Acri, ma anche alla confusione di poteri ivi presenti e concomitanti. Nel nono capitolo Musarra analizza il comportamento degli
italiani, divisi e litigiosi, più interessati al proprio benessere che di impegnarsi con serietà
per la crociata. Le repubbliche marinare erano ansiose di consolidare la propria egemonia, i loro mercanti ad accrescere ricavi e ricchezze; tutti erano spasmodicamente alla ricerca di un monopolio sempre insidiato da qualche rivale, pronti a stringere accordi con chiunque garantisse libertà di commercio e guadagno sicuro. Il decimo capitolo si apre con
l’esame delle critiche mosse agli Ordini militari e prosegue con la narrazione del tentati-
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vo di passare all’azione, sempre nella speranza di avere l’appoggio dei Mongoli. Anche
questa avventura non ebbe, però, il successo sperato e ciò contribuì a far rimanere l’idea
della riconquista della Terrasanta un pio desiderio. Il progetto venne riproposto, di tanto
in tanto, nei concili, a partire da quello di Vienne (1312), durante il quale si concluse il
processo contro i Cavalieri del Tempio, il cui Ordine venne soppresso amministrativamente.
Alcuni anni prima, nel 1300, si era intanto creato quel movimento, inizialmente spontaneo poi assunto e organizzato da Bonifacio VIII, che avrebbe sostituito l’indulgenza crociata con quella giubilare. La mutazione si stava concretando, così stava aprendosi la strada per forme sussidiarie o surrogate di pellegrinaggio ai Luoghi Santi: chiese del Santo
Sepolcro, santuari e sacri monti avrebbero preso il posto di un più difficile, benché mai
cessato, pellegrinaggio in Terrasanta. Il libro si conclude con la narrazione degli ultimi
tentativi di spedizione, in genere orientati piuttosto verso le isole antistanti la costa e il regno
armeno di Cilicia. La conquista dell’isola di Rodi da parte degli Ospitalieri e l’insediamento
dei Frati Minori in Terrasanta con il consenso del governo mamelucco finirono con il raffreddare del tutto le velleità di riconquista. L’anelito crociato si sarebbe rivolto da allora
in poi verso altre mete: i territori arabi della penisola iberica, le terre dell’Europa nord orientale e in mano turca.
La scelta editoriale di collocare le note non a piè di pagina, ma alla fine del testo (p.
217-269 in Acri 1291 e p. 245-305 in Il crepuscolo della crociata), per non appesantire la
lettura e rendere più snella l’impaginazione, non costituisce un gran problema, visto che
le note sono quasi esclusivamente destinate a indicare le fonti e solo raramente danno informazioni aggiuntive a quanto narrato dal testo. Tuttavia, ciò costringe il lettore interessato
a sfogliare spesso le pagine per cercare questo o quel riferimento. Il volume sulla caduta
di Acri è corredato anche da alcune cronologie (p. 273-275) e da una serie di carte (p.
278-284). La composizione della bibliografia dei due volumi è abbastanza differente. In
Acri 1291 essa copre le p. 287-317, con una suddivisione tra fonti e studi, mentre in Il
crepuscolo della crociata (p. 309-320) vengono indicate soltanto le fonti, mentre si rinvia al sito della casa editrice per l’elenco completo degli studi consultati, alcuni dei quali
di notevole interesse. Si tratta di una scelta discutibile, forse dettata dalla necessità editoriale di non aumentare troppo le pagine e mantenere il volume nella misura consueta per
la collana. Le fonti, d’altra parte, sono assai abbondanti in ambedue i volumi e il loro uso
sapiente garantisce la qualità dei due testi. Gli studi di riferimento e di confronto vengono comunque indicati anche nelle note. Ambedue i volumi, infine, sono corredati da indici dei nomi, sempre utili in opere come queste.
Giovanni Grosso
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Franco Cardini – Simonetta Cerrini, Storia dei Templari in otto oggetti, Milano, UTET
- DeA Planeta Libri, 2019, 368 p. ill.
La letteratura, scientifica e non (per non parlare di quella fantastica), sull’Ordine dei
Poveri Cavalieri di Cristo (pauperes milites Christi) e del Tempio di Salomone (Templi
Salomonis) è praticamente sterminata. Ne danno testimonianza eloquente l’ampia “Appendice bibliografica” posta alla fine del volume (p. 347-365), così come l’apparato di note
(p. 289-346), ricchissimo di approfondimenti, che, talvolta, costituirebbero materia per
altrettanti capitoli. E non si tratta certamente di tutto quanto si può reperire nelle biblioteche e sul mercato riguardo ai Templari.
L’originalità del volume sta nell’aver scelto di parlare di questo discusso ordine militare a partire da una serie di otto oggetti che costituiscono parte dell’eredità lasciata dalla
disciolta Milizia del Tempio, fondata da Ugo di Payns poco prima del 1120. Si tratta di
una campana, di una chiave, di un cucchiaio, di una pergamena con una formula, di un
portale, di un reliquiario, di un sigillo e di una tiara (se ne vedano le immagini nell’inserto fotografico). Ognuno di questi oggetti, autentico o falso che sia, racconta una parte
della storia dell’Ordine. Essi non soltanto sono testimoni di qualche evento particolare o
rinviano a qualche personaggio notevole, ma sono tutti oggetti solo apparentemente inerti e muti, mentre l’abilità degli autori riesce a liberare il loro desiderio di narrare. Per cui
a partire dalla storia, forse insignificante in sé, di ogni oggetto, si dipana un racconto che
tocca praticamente tutti gli aspetti della vita dei cavalieri del Tempio, offrendone un’immagine senz’altro viva e, soprattutto, scevra di quell’aura di mistero esoterico di cui si è
voluto ammantare la loro storia e in particolare la loro fine. A quest’ultimo aspetto e alle
vicende intricate che sono all’origine della leggenda nera dei Templari sono dedicate le
pagine finali del libro (p. 243-284). Questo capitolo, l’ottavo, parte dalla descrizione
della tiara conservata a Parigi, negli Archives Nationales (AE/VI/a/89 n.1), fabbricata all’inizio del XIX secolo per il medico Bernard Raymond Fabré-Palaprat (1773-1838), che
aveva voluto risuscitare l’ordine pretendendo di essere depositario di ciò che ne era rimasto clandestinamente in vita, dopo l’esecuzione di Jacques de Molay e degli altri dignitari del Tempio, il 18 marzo 1314.
Il libro inizia con una “Premessa” (p. 7-9), nella quale gli autori giustificano la finalità del proprio lavoro di condensazione dei risultati di ricerche e studi di anni. Segue poi
una lunga “Introduzione” (p. 11-75), che ripercorre in rapida sintesi, ma con puntigliosa
precisione storiografica e critica, le vicende dell’Ordine. Di particolare interesse è anche
la descrizione del contesto storico-culturale nel quale poterono sorgere gli ordini militari
e, particolarmente, la fraternitas dei pauperes milites Chrisiti et Templi Salomonis, che ricevettero dal re di Gerusalemme, Baldovino II, alcuni ambienti del palazzo reale, in cui era
stata riconvertita la moschea al-Aqsa, ritenuta coincidente con il Tempio di Salomone: da
qui il nome popolare di Templari.
Gli altri oggetti, invece, autentiche reliquie della vita templare, servono ciascuno a
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narrare un aspetto di questa storia, ma offrono anche l’occasione per interessanti excusus
su altri luoghi, usi e tradizioni correlati ad essi o ad essi simili.
Si inizia con la campana (p. 77-95), oggi perduta, di cui restano però alcune fotografie scattate negli anni 1938-1943, quando furono demoliti alcuni ambienti di epoca crociata nella moschea al-Aqsa sulla spianata del Tempio di Gerusalemme (Gerusalemme, Israel
Antiquity Authority, Archives, n. 21087). La campana costituisce un segno della vita di
preghiera dei cavalieri, obbligati per professione all’ufficiatura corale e ad altre preghiere,
secondo la loro condizione di milites (cavalieri), sergenti o chierici. È anche interessante il
fatto che, negli ambienti del Templum Salomonis abitati dai cavalieri ci fosse anche uno
spazio dedicato alla preghiera degli ospiti islamici. In effetti, pur essendo noti da tempo i
rapporti tra i franchi (come venivano chiamati i crociati latini) e i musulmani, non manca
chi ancora immagina il periodo crociato come un periodo di conflitto continuo e cruento.
Il secondo capitolo (p. 97-110) prende spunto da una chiave pertinente alla commenda di Avalleur, situata a Bar-sur-Seine (Aube nella Champagne) ed oggi conservata in una
collezione privata. La semplice e comune chiave di ferro apre la porta alla considerazione
delle abitazioni dei cavalieri, commende e magioni, come anche dell’uso delle chiavi per
la conservazione dei beni, sia economici che dei titoli e dei documenti di maggiore importanza da conservare in appositi forzieri. Un uso, questo, certamente non esclusivo dei
Templari, ma in quell’epoca comune a tutti, laici e religiosi. Sembra, inoltre, che furono
proprio i Templari ad iniziare a raffigurare, nella chiesa di San Bevignate in Perugia, le chiavi decussate, che sarebbero divenute il simbolo del papato.
Il libro prosegue con la descrizione di un cucchiaio rinvenuto durante gli scavi nel
convento cappuccino del Monte di Torino, nel 1992 (p. 111-135). L’oggetto, assieme agli
altri provenienti dalle sepolture medievali scoperte accanto alla chiesa, è oggi temporaneamente conservato nel convento cappuccino di Santa Maria degli Angeli in Bra (CN).
Nel cavo del cucchiaio si riconosce l’impronta di una croce patente, propria dell’iconografia e della simbologia templare. L’ovvio riferimento alla tavola e al cibo favorisce l’illustrazione delle abitudini alimentari dei cavalieri.
Un ambito completamente differente viene propiziato dai due fogli di guardia del codice pergamenaceo contenente la regola e gli statuti dei Poveri Cavalieri di Cristo e del Tempio
di Salomone conservato a Parigi (Bibliothèque Nationale de France, fr. 1977, f. 1v-2r).
Infatti, il quarto capitolo (p. 137-153) tratta della regola dell’Ordine e dei codici giunti
fino a noi che ne offrono il testo e prosegue con l’analisi descrittiva delle righe scritte sui
due fogli in questione con caratteri apparentemente strani, che furono interpretati, nel secolo XVIII, come un presunto “alfabeto templare”. In realtà, la stranezza delle lettere si è
dissolta alla luce della lampada di Wood, che ha rivelato le parti che sembravano mancanti permettendo così di leggere i testi. Si tratta di formule di benedizione, di preghiere
o esorcismi, per curare i cavalli: un segno importante del legame esistente tra il cavaliere
e la sua beste, il cavallo appunto, un binomio essenziale per l’efficiente espletamento
della funzione militare dell’Ordine.
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Il portale di cui si parla nel capitolo quinto (p. 155-192) ha avuto una storia intrigante. Originariamente esso apparteneva alla chiesa di Beaune, in Borgogna, fu smontato e
trasferito negli Stati Uniti dai Cavalieri di Colombo e collocato ora nel Metropolitan Museum
of Arts di New York, The Cloisters. L’importanza storica di questo manufatto sta nel fatto
di essere stato attraversato, nel 1265, dal giovane fra’ Jacques de Molay, in procinto di entrare nell’Ordine. Tuttavia, il ricordo del portale offre il destro agli autori per un discorso
sugli edifici templari e sulla questione delle architetture ottagonali (cf p. 167-192), che tocca
anche la Cappella palatina di Aquisgrana e il Castel del Monte federiciano in Puglia.
Il racconto prosegue (p. 193-216) prendendo spunto da un prezioso reliquiario, oggi
conservato nel Museum of Art di Cleveland (Ohio) (n. 1952.89). Si tratta di una lipsanoteca in legno, argento, argento dorato, niello e pietre preziose, realizzata a Brindisi, nel 1214
con ogni probabilità per i Templari, contenente una stauroteca e altre trenta reliquie insigni e significative. L’oggetto costituisce il punto di partenza per un discorso sulle reliquie e il loro culto nel Medioevo. In particolare, si parla delle reliquie della Vera Croce,
di quelle mariane e dei santi.
Il settimo capitolo (p. 217-233) prende le mosse da un sigillo plumbeo apposto ad un
atto magistrale del 1167. Il documento e il relativo sigillo si trovano ad Amberg, Staatsarchiv,
Kloster Waldlassen Urkunden 7/1. Il sigillo, tondo e bifacciale, ha, sul dritto, l’immagine
di due cavalieri che montano lo stesso cavallo («una raffigurazione unica in campo sfragistico» secondo Bascapè, citato a p. 218), mentre sul rovescio è rappresentato un edificio a pianta centrale, con colonnato e cupola e la legenda “+ CHRISTI DE TEMPLO”. Il sigillo offre l’opportunità di presentare varie tipologie di sigilli in uso nell’Ordine, il loro uso
e alcune particolarità, come la questione della presunta cedula che Jacques de Molay avrebbe scritto e sigillato per sciogliere i frati dal giuramento di segretezza intimando loro di confessare. La successiva ritrattazione del de Molay e la tavoletta cerata con l’invito ai frati a
fare altrettanto sembrano smentire quanto affermato a proposito della cedula da Filippo
IV il Bello in una lettera al re di Aragona, Giacomo II. Comunque, le due immagini del sigillo di Amberg rinviano, da una parte, al titolo della milizia (il Tempio e il nome di Cristo)
e, dall’altra, all’identità dei frati-cavalieri, i quali si consideravano commilitones, ossia
fratelli in Cristo e d’armi, obbligati al reciproco sostegno in pace e in battaglia.
Prima dell’ultimo oggetto, un capitolo (p. 235-242) è dedicato a presentare la vicenda di uno dei templari più famosi, quel brindisino Ruggero di Flor (o Roger de Flor), già
sergente templare e, dopo lo scioglimento dell’ordine, corsaro e capitano della Gran
Compagnia catalana, o degli almogàvers. Egli mise la propria competenza militare a servizio prima del re di Sicilia, Federico, fratello di Giacomo II d’Aragona, poi del basileus
di Bisanzio, del quale sposò una nipote. Sarebbe morto assassinato ad Adrianopoli per aver
suscitato l’invidia dell’erede al trono imperiale, Michele Paleologo. Un esempio, forse il
più avventuroso, di ciò che accadde a molti ex templari. Più fortunati sarebbero stati quelli portoghesi, riconvertiti dal sovrano nell’Ordine di Cristo, che sarebbe diventato la longa
manus dei re lusitani nei viaggi di esplorazione e nelle seguenti conquiste coloniali.
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Dell’ultimo capitolo e della tiara si è già detto; tuttavia, queste pagine finali rendono
conto in modo chiaro e sufficientemente documentato dell’evoluzione della leggenda
templare in tutte le sue ramificazioni fino ai nostri giorni. Non sarebbe male se, prima di
dar credito a fantasiose leggende senza alcun fondamento, si passasse un po’ di tempo
utile a comprendere come si siano formati tali racconti e come essi siano stati abilmente
strumentalizzati da tanti che, per i motivi più diversi, hanno cercato di trarne profitto materiale o morale.
Un buon libro insomma; e non avrebbe potuto esser diverso da così, vista la competenza scientifica e le conoscenze dei due autori, dei quali non occorre certo ricordare la
vastissima opera, in parte richiamata anche dalla bibliografia.
Se proprio occorre trovare un difetto in questo libro, si potrebbe dire che qua e là ci
sono alcune ripetizioni e qualche sovrapposizione, evidentemente frutto del lavoro a due
mani e del carattere composito del libro, nato a partire da indagini e lavori diversi assemblati, comunque, in maniera piacevole e interessante.
Giovanni Grosso
Marcos Fernández de Béthencourt, La Orden de Malta. Estatuto jurídico internacional, Madrid, Editorial Sanz y Torres, 2019, 500 p., ill. (Colleción Historia, 20).
Il volume è inserito nella collana “Colleción Historia”, che pubblica lavori di ricerca di alta qualità scientifica di specialisti nei rispettivi ambiti di storia culturale, politica,
istituzionale economica, religiosa e sociale, sotto la direzione di un Comitato scientifico,
formato da Cattedratici di Università ed Accademici ordinari della Reale Accademia di storia, specializzati nelle diverse aree storiche. Il tema trattato dall’autore, giurista madrileno, riguarda lo statuto giuridico internazionale dell’Ordine di Malta e concerne una problematica specifica: se l’Ordine di Malta è esistito come stato sovrano dal Medioevo
molto prima dell’apparizione dell’attuale diritto internazionale moderno, con una preesistenza dei diritti di sovranità, oggi è annoverato tra i soggetti con rango di Stato, anche se
privo del territorio. Si tratta quindi di un soggetto sovrano della comunità internazionale,
in tutto equiparato a uno Stato (anche se non è uno Stato), e che si serve dei privilegi dell’extraterritorialità per adempiere ai fini istituzionali stabiliti dalla propria Carta Costituzionale. Nel 1994 l’ammissione all’ONU come membro permanente è stata accordata
in virtù del riconoscimento della sua sovranità.
Lo studio relativo allo statuto giuridico internazionale dell’Ordine di Malta ha come
punto di partenza l’Art. 3 della Carta Costituzionale, intitolato Sovranità, che nel §1 recita: «L’Ordine è soggetto di diritto internazionale ed esercita le funzioni sovrane». Esso
non può prescindere dal fissare l’essenza e la natura dell’Ordine stesso, che realizza i suoi
fini e carismi nel contesto della vita cristiana, così come si esprime l’Art. 2 §1: «In osse-
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quio alle secolari tradizioni l’Ordine ha il fine di promuovere la gloria di Dio mediante la
santificazione dei membri, il servizio alla Fede e al Santo Padre e l’aiuto al prossimo». Per
quanto riguarda i rapporti con la Sede Apostolica, questi sono esplicitati nell’Art. 4, laddove,
al §6, si precisa che: «La natura religiosa non esclude l’esercizio delle prerogative sovrane
spettanti all’Ordine in quanto soggetto di diritto internazionale riconosciuto dagli Stati».
Si deve ricordare, inoltre, che lo statuto giuridico internazionale è parte costitutiva
dell’Ordine di Malta, che a sua volta è inserito fra le persone giuridiche previste dal Codice
di Diritto Canonico del 1983: si tratta di un Istituto di vita consacrata, cioè un Ordine religioso ospedaliero, laicale, tradizionalmente militare, cavalleresco e nobiliare. Così, sempre sul modello canonico, è conformata l’attuale Carta Costituzionale del 1997 dell’Ordine:
nel Titolo II, Art. 8 tratta dei membri suddivisi in tre Ceti, e per quanto riguarda i loro diritti e i loro doveri, questi sono stabiliti nell’ Art. 9. Nella sua articolazione dei tre ceti di
membri l’Ordine prevede: il I Ceto, di cui fanno parte i Frati che emettono la professione
religiosa; il II Ceto con i Cavalieri e le Dame in Obbedienza, laici; e infine il Terzo Ceto
con tutti gli altri membri, laici ed ecclesiastici. L’attuale Carta costituzionale, avendo presente l’universale vocazione cristiana alla santità, in cui si inseriscono la vocazione religiosa
e gli impegni ad essa inerenti, ha mantenuto la tradizionale suddivisione dei membri
dell’Ordine: si tratta della visione unitaria di una famiglia spirituale, con gli stessi carismi,
ma diversità di vocazioni particolari al servizio una dell’altra. I tre ceti sono tra loro legati
indissolubilmente in una unità giuridico-spirituale dell’Ordine stesso, di testimonianza ed
annuncio (missionario) con la difesa della Fede e la dedizione ai poveri, che non scinde o
esclude né la componente religiosa dei professi né la componente ecclesiastica e laicale
dei non professi, pena la costituzione di un’altra istituzione giuridico-canonica autonoma.
Solo in tal senso si può parlare dell’Ordine di Malta come famiglia melitense.
A questo punto subentra il concetto di patrimonio, nel nostro caso di un Ordine religioso, prima che di una entità internazionale, che ha la sua origine nella santità del fondatore e di tutti i membri che, nei secoli, si sono prodigati verso la santità nell’impegno
delle qualità personali e spirituali che hanno trasmesso il carisma a coloro che lo hanno
fatto proprio. Per cui le intenzioni e i progetti, la carità, la preghiera e la santificazione,
insieme alla natura religiosa, il vivere il carisma e ministeri, lo scopo, lo spirito e il carattere, approvati dalla Chiesa, unitamente alle solide tradizioni, sono il patrimonio di un
Ordine e in ultima analisi della Chiesa universale. Questi elementi – come ben si esprime
l’Art. 2 §1 della Carta Costituzionale – costituiscono il patrimonio di un Ordine, pa-trimonio da preservare religiosamente e da trasmettere fedelmente ai posteri nella comunione
della Chiesa. Il termine “patrimonio” nell’ambito ecclesiale ha superato il concetto materiale, anche se non esclude i beni temporali di valore economico. Tuttavia, si può intuire
che la nozione di patrimonio di un Ordine religioso comprende necessariamente un insieme di elementi e valori, quali quelli liturgici propri, teologici, spirituali e disciplinari, avendo presente la cultura e la storia di cui esso è stato ed è partecipe. In tal modo, è bene
ribadirlo, lo statuto giuridico internazionale dell’Ordine di Malta afferisce il patrimonio
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di quest’Ordine religioso nel seno della Chiesa. Anche lo statuto giuridico internazionale
dell’Ordine di Malta è parte del suo “patrimonio” nel seno della Chiesa.
Per avere un quadro completo, in uno studio storico-giuridico secondo l’angolatura
del diritto internazionale dell’Ordine di Malta, si deve tener presente lo speciale rapporto
con la Sede Apostolica a cui fa riferimento l’Art. 4 della Carta Costituzionale. Qui sono
presenti due ambiti: quello propriamente internazionale (Art. 4 § 5-6) e quello di natura
propriamente ecclesiale e religiosa (l’Ordine è membro della Chiesa come societas e partecipa del Popolo di Dio), la compagine, i fini e gli interessi spirituali che l’Ordine stesso
si proporne e vuole realizzare.
Con queste premesse si può inquadrare lo specifico studio di diritto internazionale e
l’angolazione argomentale scelti da Marcos Fernández de Béthencourt, anticipando come
l’Autore arrivi per gradi al cuore di questa speciale soggettività internazionale, che è
parte del “patrimonio” dell’Ospedale di S. Giovanni Battista.
Avendo presente tali presupposti, si comprende la partizione dei capitoli del volume. Esso si apre con l’introduzione a cui fa seguito il primo capitolo, che mette a fuoco
l’esigenza di una corretta comprensione del tema, relativo alla comunità internazionale.
Il capitolo II prende in esame l’Ordine di Malta nelle sue vicende storiche e la sua evoluzione giuridica attraverso la rilettura dei fatti e degli avvenimenti del passato, con un
sapiente dialogo tra il compiuto della storia ed il presente in divenire. Il volume prosegue
nel capitolo III con l’esposizione e descrizione del carattere dell’Ordine di Malta. Qui il
lavoro di Marcos Fernández de Béthencourt ha compiuto l’analisi dello sforzo, talora coraggioso, dell’Ordine di Malta di essere membro attivo nella vita della Chiesa con tutte le
sue peculiarità, nella concretizzazione dei diritti e doveri propri di un ente ecclesiale. Questa
appartenenza alla Chiesa si è espresso con la redazione di una normativa sia costituzionale che derivata, sempre nell’alveo del diritto canonico (che è la fonte primaria), talora
in modo estensivo, se non addirittura precursorio (si veda il rapporto vita fraterna e vita
comunitaria), che la Chiesa stessa avrebbe ripreso come modello per le nuove forme di vita
consacrata dopo il Concilio Vaticano II.
La panoramica degli Ordini militari e cavallereschi è il tema del cap. IV con una descrizione che potrebbe essere definita ambientale nella collocazione nel tempo e nello spazio
dell’Ordine stesso.
Si entra in medias res con il cap. V, valutando il rapporto tra l’Ordine di Malta ed il
diritto internazionale. L’autore fa sua l’opinione secondo cui l’Ordine di Malta possiede
una soggettività internazionale non soltanto sui generis, perché si inserisce propriamente
in un’unica categoria, quale soggetto atipico ed unico, in quanto Ordine religioso di origine medievale, in seguito militare, che raggiunse lo status di potenza sovrana e che, malgrado la perdita territoriale, gode tuttora del riconoscimento internazionale della sua sovranità. Quindi l’Ordine di Malta è ritenuto pienamente un soggetto di diritto internazionale
dotato – almeno in parte – della struttura di uno Stato, al quale, nonostante la mancanza
di territorio, la comunità internazionale riconosce una sovranità equiparabile, ma non iden-
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tica, a quella degli Stati, che si serve dei privilegi della extraterritorialità delle sue sedi
per adempiere ai suoi fini istituzionali. L’indagine si sviluppa nel capitolo successivo
(cap. VI), che analizza l’Ordine di Malta e le sue relazioni internazionali.
Ulteriore passo viene compiuto nei capitoli seguenti (cap. VII-VIII) relativi all’Ordine
di Malta e il diritto melitense, insieme all’analisi che approfondisce in maniera sintetica i rapporti tra l’Ordine di Malta ed il diritto canonico (p. 409-416). Il quadro storico-giuridico ed
ecclesiale, ma soprattutto internazionale offertoci dall’Autore è completo e argomentato.
Terminano il volume un Epilogo (p. 417-420), le illustrazioni e i crediti, a cui fanno
seguito le fonti, divise in bibliografia con articoli, opuscoli ed opere, per arrivare alla documentazione e gli annessi insieme all’appendice documentale e un glossario. Il tema di
studio si confronta con un gran numero di autori che potremmo dire fondamentali, segnati dalla dialettica tripartita: Ordine religioso e diritto internazionale da una parte e Sede
Apostolica - Chiesa cattolica dall’altra.
L’indagine relativa all’Ordine di Malta e al suo statuto giuridico internazionale si
può leggere in filigrana con la consapevolezza della posta in gioco esistente dietro la
chiamata in causa della Chiesa cattolica e della Santa Sede, in relazione alle azioni di
coloro che agiscono a nome e per conto dell’Ordine di Malta in un contesto internazionale, nell’intimo legame al fattore ecclesiale e alla vita della Chiesa. L’Autore ha risposto puntualmente alla questione relativa alle ricadute operative nell’ambito dell’Ordine, sia in chiave di rapporti interordinamentali in ambito internazionale, sia a livello di azione nella Chiesa,
e consente un giusto giudizio circa la riferibilità di tali atti nella compagine ecclesiale. In
sintesi, l’azione internazionale dell’Ordine di Malta non si esaurisce in un rapporto interordinamentale tra uno Stato o Ente e l’Ordine sovrano, ma riverbera la sua vitalità anche
in seno e a beneficio della Chiesa universale.
In tale contesto l’Ordine di Malta, con la sua azione internazionale, contribuisce alla
missione della Chiesa universale, sia nella sua dinamica di rapporti con gli Stati e alle
organizzazioni internazionali, sia, specialmente, con il cuore dell’Ordine rappresentato dalla
vita religiosa realizzata dai Frati. In tal modo l’Ordine di Malta si colloca pienamente nella
missione della Chiesa stessa, partecipando una testimonianza a favore dei malati, dei poveri, dei rifugiati e con l’aiuto alle necessità di intere popolazioni, attraverso la costituzione
ed il rafforzamento di strutture giurisdizionali su base internazionale sia cattolica che di altre
religioni.
Il lavoro compiuto da Marcos Fernández de Béthencourt si apprezza per la documentazione e la ricchezza dell’apparato storico e critico. L’Autore ha utilizzato le molteplici risorse a disposizione, dalle fonti pubbliche a quelle pubblicate negli atti pontifici,
insieme ai documenti più importanti. La bibliografia appare ricca e diversificata, dalle
numerose monografie soprattutto storiche, nonché gli articoli pubblicati in riviste, atti di
convegni, voci enciclopediche oppure collettanee.
Il merito del lavoro sta nell’aver distinto attraverso la ricostruzione storica e la legislazione ecclesiale l’esperienza internazionale dell’Ordine di Malta, traendo dalla lettura
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delle fonti quelle conclusioni che possono essere di riferimento per uno sviluppo dell’Ordine
attraverso il diritto internazionale, verso la coscienza viva di essere un Ordine religioso
ospitaliero della Chiesa cattolica che concorre alla missione ecclesiale della stessa, in comunione di intenti verso la salus animarum, manifestando così l’universalità della Chiesa.
Natale Loda
Philippe Josserand, Jacques de Molay. Le dernier grand-maître des Templiers, Paris,
Les Belles Lettres, 2019, 592 p., ill.
Il volume che si presenta all’attenzione del pubblico italiano è il frutto di un lungo e
paziente lavoro di ricerca condotto a tutto tondo sulla figura dell’ultimo gran maestro
dell’Ordine del Tempio da Philippe Josserand, che introduce in questo modo la sua impresa editoriale: «en 2013, sentant qu’il y avait matière, je me suis saisi de Jacques de Molay
avec l’idée de produire du neuf» (p. 5). Specialista della storia della Militia Templi nei regni
di Castiglia e di Francia, Josserand fa parte a pieno titolo della seconda generazione di
studiosi francesi dediti a ripercorrere la storia dell’Ordine del Tempio e a meglio inquadrare le complesse vicende connesse all’affaire dei Templari sulla scia degli studi pionieristicamente avviati, ormai oltre trent’anni fa, da Alain Demurger. Non a caso, è soprattutto
con Demurger che Josserand, lungo tutto lo svolgersi della trattazione, intrattiene un fitto
“colloquio a distanza” – le decine di occorrenze censite nell’indice dei nomi ne danno la
misura –, talvolta in sintonia, più spesso in disaccordo con il suo “devancier”, tra le altre
cose autore nel 2002 di Jacques de Molay. Le crépuscule des Templiers, prima vera biografia scientifica sul personaggio.
Lo spirito di questa ambiziosa e per molti versi innovativa biografia è ben riassunto
già nel titolo dell’introduzione (p. 7-25): quelli che Josserand vuole andare a delineare e,
nella misura del possibile, a meglio definire e afferrare sono il percorso, l’azione e la
figura d’«un inconnu célèbre dans l’histoire». Uno sconosciuto, giacché di Jacques de Molay
si ignorano non soltanto la data e il luogo di nascita, ma anche le tappe del suo cursus
honorum all’interno dell’Ordine e la data esatta della sua elezione a gran maestro dopo l’effimero Thibaud Gaudin, succeduto al valoroso Guillaume de Beaujeau, caduto in battaglia nella difesa di Acri il 18 maggio 1291. Altresì, un personaggio storico assai celebre e
divisivo, visto che dei nomi dei ventitré gran maestri attestati nelle fonti, quello di Jacques
de Molay è senza ombra dubbio il più noto e citato, a onor del vero anche in contesti che
poco hanno a che fare con la storia e la storiografia e molto più, invece, con un immaginario collettivo che da secoli fa leva su inossidabili, inconciliabili ossimori. Al di fuori,
infatti, della più affidabile produzione storiografica, i Templari – a seconda dell’appartenenza al fronte innocentista, colpevolista o filomassonico di chi si ostina a scriverne ignorando le fonti – sono rappresentati come vittime dell’avido Filippo IV il Bello e del pavi-
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do Clemente V o nelle vesti di eretici peccatori; come poveri commilitoni di Cristo o ricchissimi banchieri; come illetterati servitori della Chiesa sotto l’insegna della vermiglia
croce patente o, all’opposto, depositari di saperi arcani e, come tali, precursori delle società
segrete moderne, fattesi promotrici, a partire dalla metà del Settecento, di esoterici percorsi
sapienziali.
Ed è proprio nella consapevolezza di tutto ciò che le tre sezioni in cui l’opera si articola – Images, Parcours, Reliefs –, sono programmaticamente disposte dall’autore nell’ordine esattamente inverso a quello che ci si potrebbe attendere in una biografia intesa
nel senso più classico del termine. Non si comincia, cioè, dalla vita dell’ultimo gran maestro della Milizia del Tempio, ma con tre densi capitoli rispettivamente dedicati alla sfera
della memoria, dell’immaginario e della capacità mitopoietica che da secoli caratterizza
il quanto mai controverso tema dei templari. Ecco dunque che, in questa impalcatura narrativa sapientemente costruita à rebours, la sezione Images prende avvio con il capitolo
Jacques de Molay entre en scène, utile a dimostrare come, dopo «un long purgatoire», è
negli anni iniziali dell’Impero che i Templari e il loro ultimo gran maestro hanno potuto
«faire retour sur le théâtre de l’histoire» (p. 47), divenendo addirittura un soggetto alla moda
sul versante iconografico, drammaturgico e musicale; senza peraltro dimenticare le risorgenze neotemplari che presero avvio da quel personaggio sui generis che è stato BernardRaymond Fabré-Palaparat.
Forte degli abbondanti risultati ottenuti da un “censimento” di tipo fortemente erudito
mai prima tentato e dagli esiti di una paziente operazione di decostruzione di immagini del
gran maestro tra loro contraddittorie, e ancora oggi dure a morire anche in sede storiografica, Josserand giunge alla conclusione per cui «cette représentation, qui, en elle-même, est
un formidable objet d’histoire» (p. 87), costituisce il risultato di una lunga e complessa
elaborazione, nella quale il XIX secolo risulta assolutamente centrale. Ma siamo soltanto a
un terzo del lavoro, e l’autore, a dispetto dell’enorme mole di materiale reperito, non può
fare a meno di constatare come, al di là del personaggio, «toujours l’homme échappe».
Ecco allora che Josserand, entrato appieno nel suo ruolo di medievista, abborda le successive sezioni Parcours e Reliefs immergendosi nelle fonti storiche in senso stretto per
ricostruire l’esistenza di Jacques de Molay, a partire dall’origine geografica del suo lignaggio, individuata sulla base di una serie di indizi nella Franca Contea. E tutto ciò mettendo
meglio a frutto fonti già individuate e utilizzate da Demurger, ma anche introducendo nuovi
tasselli – come, ad esempio, nel caso della scoperta di un primo viaggio compiuto in Italia
dal neoeletto gran maestro nell’inverno 1292-1293, di cui Josserand ha trovato traccia
nell’Archivio Apostolico Vaticano – in grado di fornire significativi apporti a un quadro
d’insieme ancora in molte parti lacunoso. Ma soprattutto ciò che preme all’autore è di
confutare la cattiva fama storiografica di cui troppo a lungo Jacques de Molay è stato vittima, anche a seguito di giudizi non sempre fondati pronunciati nei riguardi della persona
e del dignitario da una storiografia, definita senza mezzi termini pigra, che ha stigmatizzato a più riprese il suo essere illetterato, debole, maldestro e irresoluto.
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Quello che viene tratteggiato nella parte finale di questa biografia è invece il comportamento tenuto nella vita istituzionale e pubblica da un uomo tutto sommato capace,
non certo sprovveduto e con una spiccata attitudine alla mediazione. Un uomo che, a
fronte della sfavorevole congiuntura venutasi a creare con la perdita di Acri e ulteriormente
contrassegnata dallo scontro senza esclusione di colpi fra il re di Francia e Bonifacio
VIII, ha saputo mostrarsi fermo nell’agire, intraprendente nelle relazioni diplomatiche
intrattenute in Occidente e con una certa capacità di adattamento alle circostanze.
È con l’esplodere dell’affaire dei Templari – culminato nell’arresto a sorpresa del
13 ottobre 1307 e tradottosi, di lì a poco, negli inconcludenti processi, nel rogo di Sens,
nella lunga prigionia dei Templari e del loro gran maestro e nelle deliberazioni sfavorevoli alla Milizia del Tempio assunte dal concilio di Vienne –, che i margini d’azione di de
Molay si riducono inesorabilmente sul piano della procedura e del diritto. Ma, a ben guardare, una via d’uscita esisteva e, a dispetto di tutto e di tutti, la strategia scelta ha dimostrato di contenere in sé la capacità di dispiegare i suoi effetti nei secoli. Con la ritrattazione
delle confessioni estortegli sei anni e mezzo prima sotto tortura, l’11 marzo 1314 Jacques
de Molay, in qualità di relapso inesorabilmente destinato alla morte sul rogo, riprende
fermamente in mano il proprio destino con una scelta estrema tramite cui riabilitare l’onore della Milizia del Tempio e, nel contempo, tramandare in eterno la memoria di sé
nelle vesti di “un héros tragique” circondato da un’aura eroica e mistica.
Questa la tesi con cui si conclude la “biographie totale” di Josserand, ispirato in tal
senso dall’illustre modello propostone a suo tempo da Jacques Le Goff per il suo Saint
Louis e sostenuto dalle innovative riflessioni sul ‘genere biografia’ proposte dallo storico
François Dosse. Da qui la sfida, a parere di chi scrive ottimamente portata a termine, di
restituire, come si legge nelle appassionate Conclusions (p. 225-236), i tratti e le vicende
di «un homme-monde sur le fil du temps». Jacques de Molay è, insomma, molto più di
un personaggio passato alla storia per essere spirato tra le fiamme riscattando se stesso e
il suo Ordine grazie a un gesto estremo giudicato da certa storiografia tardivo e velleitario. E merita dunque di essere noto al grande pubblico non soltanto per la presunta maledizione che avrebbe pronunciato in punto di morte contro Clemente V, Guillaume de Nogaret
(al tempo peraltro già morto, stando agli studi di Sébastien Nadiras) e Filippo IV il Bello,
come si legge nel celeberrimo passo del primo romanzo della saga Les Rois maudits, pubblicato da Maurice Druon nel 1955. Josserand, con questa nuova biografia dell’ultimo Gran
Maestro del Tempio, lo ha ampiamente dimostrato.
Sonia Merli
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La Russie et l’Ordre de Malte. 1697-1817, Moscou, Éditions Koutchkovo Polié, 2019,
360 p., ill.
La pubblicazione di questo libro è avvenuta in concomitanza con un’occasione
che sottolinea ancora una volta i rapporti tra l’Ordine di Malta e la Russia, ovvero il XXV
anniversario del Servizio di Emergenza dell’Ordine di Malta a Mosca, volto ad aiutare
le persone in difficoltà.
Presentato a Mosca, nella sede del Ministero degli Affari Esteri, il volume è il risultato di un intenso lavoro che raccoglie numerosi documenti (in parte inediti) conservati
negli archivi del Gran Magistero del Sovrano Ordine Militare di Malta, nella National
Library of Malta, negli Archives Nationales de France, negli Archives Diplomatiques
du Ministère Français des Affaires Étrangères e nell’Archivio Segreto Vaticano. Ad essi
si sommano i molteplici documenti provenienti dall’Archivio del Ministero degli Affari
Esteri della Federazione Russa e dell’Archivio della Politica Estera dell’Impero russo
risalenti all’epoca di Pietro I il Grande (1672-1725). Si deve alla lungimiranza dell’imperatore russo se, il 28 febbraio 1720 (10 marzo 1720)1, i documenti di carattere finanziario e degli Esteri furono conservati nel Collegio degli Affari Esteri (Collège des Affaires
Étrangeres), culla degli attuali Archivi di Mosca e San Pietroburgo. Il volume, inoltre,
comprende un ricco corredo fotografico relativo ai documenti, ai luoghi e ai protagonisti delle vicende di cui sono testimoni, ed è aperto da un Avant-propos di Yulia Bassenko
(p. 11-16) e un saggio di Petr Vladimirovič Stegny (Les relations de la Russie avec l’Ordre
de Malte 1697-1817, p. 19-28).
Gli interessi russi per l’Ordine di San Giovanni risalgono al XVII secolo con lo
Zar Pietro I, la cui politica imperiale aveva manifestato interesse per l’arcipelago maltese. Gli avvenimenti politici che seguirono con l’inizio dei rapporti con l’Impero russo
e l’Ordine (1697) sfociarono nel tentativo dello Zar di assicurarsi il possesso di Malta per
le sue ambizioni nel Mediterraneo e per la lotta contro l’Impero Ottomano (p. 19-20).
Inoltre, le mire imperiali volgevano anche ai regni della Georgia nel tentativo di ottenere
sempre più influenza nel Caucaso e nel Mar Nero contro l’Impero Ottomano. La penetrazione russa stava portando profondi cambiamenti agli equilibri di quelle regioni di confine. Personaggio di spicco in questa fase fu il duca di Serracapriola Antonio Maresca
Donnorso (1750-1822), Gran Croce dell’Ordine di Malta e ambasciatore di Napoli a San
Pietroburgo, che non tralasciò di annotare eventi e notizie legate al Caucaso. Il governo
napoletano era interessato a sviluppare e rafforzare la sua posizione commerciale nel Levante
e nel Mar Nero, e il Caucaso, per la sua posizione geografica tra Europa e Asia, svolgeva
un ruolo importante per stabilire future strategie commerciali (p. 27). Il maggiore utilizzo di lettere cifrate del duca di Serracapriola mette in evidenza la coscienza che il diplo-
1 Nella maggior parte dei casi i documenti riportano la doppia datazione: la prima secondo il
calendario giuliano, mentre la seconda segue quello gregoriano.
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matico aveva del suo delicato incarico e di come la comunicazione cifrata sia stata uno strumento di lavoro imprescindibile per trasmettere i propri pensieri e confidenze.
Attraverso la lettura dei documenti pubblicati emergono gli intrecci diplomatici
tra il Gran Maestro fra’ Raymond Pelleros y Roccaful (1697-1720) e lo Zar di Russia. Nel
1697-1698, su ordine di Pietro I, il nobile russo Boris Petrovič Cheremetiev (16521719) si recò a Malta (ma lo scopo era di ispezionare la flotta giovannita e le fortificazioni de La Valletta) e fu il primo russo a diventare Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine
di Malta (p. 33). Cheremetiev fu un personaggio di spicco della politica imperiale russa.
Egli combatté coraggiosamente nella Guerra del Nord (1700-1721); sconfisse gli Svedesi
al comando di Wolmar Anton von Schlippenbach (1653-1721) nella battaglia di Esterfer
(1701-1702) nella Livonia/Лифляндия, per poi entrare nell’Ordine di Sant’Andrea e ricevere la nomina a Feldmarschall (p. 19, 21, 33) e fu il primo nobile in Russia a ricevere il
titolo di Graf (conte, in tedesco e russo).
L’interesse per l’Isola di Malta si rinnovò durante il regno di Caterina II di Russia
(1762-1796), la quale comprese l’importanza strategica dell’isola posta al centro del
Mediterraneo, inviando il marchese Giorgio Cavalcabò in veste di chargé d’affaires (p. 1213). Cavalcabò sarà poi cacciato dall’Isola, sospettato di fomentare le rivolte contro l’Ordine
e perché in casa sua furono ritrovate numerose munizioni e armi. Durante il regno di Caterina,
dal 1768 al 1774, si svolse la guerra russo-turca (una delle dodici guerre russo-turche)
che rappresentava solamente un episodio del lungo processo di espansione dell’Impero
russo verso Sud e Ovest nel corso dei secoli XVIII e XIX, tuttavia fu la prima in cui la marina russa svolse un ruolo importante ed ebbe lo scopo di annettere definitivamente l’Ucraina,
il Caucaso settentrionale e la Crimea all’Impero (p. 33). Com’è noto la guerra fu scatenata a seguito dei disordini verificatisi in Polonia contro il re Stanislao II Augusto Poniatowski
(1732-1798) che si era insediato con il sostegno delle truppe russe. L’influenza russa in
Polonia era già da lungo tempo considerata dagli Ottomani scomoda perciò ne approfittarono per sostenere i rivoltosi polacchi (p. 31). Mentre questo accadeva nel Nord, la flotta russa nel Mediterraneo, comandata dal conte Aleksej Orlov (1737-1807), ebbe notevole successo contro gli Ottomani (p. 21, 107) nel 1770 nella Battaglia di Çeşme (p. 20,
83). Serracapriola fu informato che l’imperatrice aveva ordinato ad Antonio Costantinovich
Psaro (ufficiale di marina e incaricato d’affari russo a Malta, il quale era stato nominato
intendente generale delle Cicladi da Orlov in qualità di ministro plenipotenziario) di preparare magazzini e provviste necessarie per la flotta che si sarebbe diretta dal Baltico nel
Mediterraneo per l’estate del 1788. Nel 1783 Caterina II inviò Psaro come suo rappresentante a Malta nel tentativo di organizzare uno scalo navale russo per un futuro intervento in Grecia (p. 13).
L’imperatrice iniziò una trattativa segreta con l’allora Gran Maestro fra’ Emmanuel
de Rohan-Polduc (1775-1797), al fine di persuaderlo a schierarsi a fianco della Russia
contro gli Ottomani. In un primo momento, il Gran Maestro strinse un’alleanza con
l’Imperatrice, ma poi, dietro forti pressioni della Francia e del Regno di Napoli, l’Ordine
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si dichiarò neutrale. Per i Cavalieri di Malta fu un periodo duro: con lo scoppio della
Rivoluzione Francese, l’Assemblea Nazionale Costituente confiscò tutte le proprietà
dell’Ordine esistenti in Francia (p. 21). Soltanto l’Imperatore Paolo I (1754-1801), successore di Caterina II, restò solidale con i Cavalieri di Malta. La motivazione era determinata dal far rientrare, due mesi dopo la sua intronizzazione (1796), il Priorato di Polonia
nel Gran Priorato di Russia, mentre con il nuovo ambasciatore dell’Ordine in Russia, il conte
Giulio de Litta, fu consegnata allo Zar una lettera in cui l’Ordine di Malta chiedeva ufficialmente a Paolo I di essere il loro protettore. Paolo I accolse la richiesta e dal 20 novembre 1797 prese il titolo di Protettore dell’Ordine (p. 23). Questo, in termini diplomatici, significava che anche dopo l’occupazione di Malta da parte di Napoleone Bonaparte (1769-1821),
lo Zar poteva ancora avanzare diritti sull’Isola e in casi estremi esser nominato egli stesso
gran maestro. Con la convenzione del 1798 Paolo I fondò un altro Gran Priorato di Russia
per accogliere tutti i cavalieri nobili russi di fede ortodossa (p. 175).
Sono questi gli anni in cui si ebbe l’occupazione di Malta, durante la “campagna
nel Mediterraneo del 1798”, al comando di Napoleone. L’obbiettivo di Bonaparte era di
conquistare l’isola (con un inganno) e costringere il Gran Maestro Ferdinand von Hompesch
zu Bolheim (1744-1805) a consegnare l’intero arcipelago, che avrebbe garantito ai Francesi
il controllo strategico del Mediterraneo centrale2. Costretto a lasciare l’isola, l’Ordine fu
saccheggiato dei suoi beni, mentre, trovando rifugio in Russia, i Cavalieri portarono con
loro numerosi documenti e libri oltre ad alcune reliquie e all’icona della Vergine del Filerimos
(p. 23-26, 169-173). Il 27 ottobre 1798 il Consiglio dell’Ordine proclamò lo Zar Russo
70° Gran Maestro dell’Ordine. Sebbene Paolo non fosse cattolico, Pio VI (1775-1799)
in una lettera speciale benedisse la sua elezione. Paolo I donò all’Ordine uno dei palazzi di San Pietroburgo che da allora prese il nome di Palazzo dei Cavalieri di Malta: Palazzo
Vorontsov, ora Scuola Militare Suvorov (p. 23, 249-253). In questo palazzo furono custoditi i documenti e la cassa dell’Ordine. Qui si trovava anche una chiesa cattolica dedicata a San Giovanni Battista. Paolo I sottoscrisse una convenzione per lo stanziamento
dell’Ordine in Russia, lo pose sotto la protezione della Russia e lo dichiarò provincia
dell’Impero Russo (p. 179, 190); quindi commissionò la creazione di un Trono di Malta
allo scultore Giacomo Quarenghi (ora nel Museo dell’Ermitage, p. 221).
La nomina dell’Imperatore a Gran Maestro fu riconosciuta ufficialmente dai principali Priorati di Germania, Baviera, Boemia, Portogallo, Napoli, Sicilia, Venezia, Lombardia
e Pisa, nella speranza che la protezione dello Zar avrebbe garantito la sopravvivenza
dell’Ordine. Soltanto il Priorato di Spagna e quello di Roma rifiutarono di riconoscerlo perché di fede ortodossa (p. 27, 282). Il 9 marzo 1801 il nuovo Papa Pio VII (1800-1823) comu-
2 Sulla storia melitense e la perdita di Malta durante il gran magistero di Hompesch si vedano Ferdinand von Hompesch, der letzte Grossmeister auf Malta: Ausstellung im Maltesermuseum
Mailberg, Mailberg 1985 e Hompesch and Malta: A New Evaluation, a cura di M. EMINYAN, San
Gwann-Malta 1999.
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nicò di rifiutare la conferma a Paolo I del titolo di Gran Maestro dell’Ordine anche se lo
Zar non lo era de jure, mentre lo governava de facto3. In questi anni l’isola di Malta fu bloccata dalle navi russe, inglesi e napoletane. Tuttavia l’Inghilterra aspirava al dominio del
Mediterraneo, pertanto il 25 agosto 1800, le truppe inglesi sbarcarono sull’isola. Seguì la
rottura dei rapporti con la Russia, alle navi inglesi fu vietato l’accesso ai porti russi e
furono bloccate le esportazioni verso l’Inghilterra. Inoltre l’avvicinamento dello Zar
Paolo I alla Chiesa cattolica non piaceva alla Chiesa ortodossa russa e la politica dello
Zar in favore dell’Ordine di Malta fu una delle tante altre cause che, nella notte tra l’11 e
il 12 marzo del 1801, portarono al suo omicidio nel castello di Mikajlovskij a San
Pietroburgo. Probabilmente il complotto fu ordito dai conti Pëtr Alekscevič Palhen (17451826), presidente del Collège des Affaires Étrangeres dal 1763 al 1781, da Nikita Petrovič
Panin (1770-1837), entrambi cavalieri giovanniti, e dall’ammiraglio don José de Ribas y
Boyons (1751-1800) Gran Cancelliere dell’Ordine (p. 275).
Il nuovo Zar, Alessandro I (1777-1825), promulgò un manifesto con cui prendeva
sotto la sua protezione l’Ordine di Malta, ma declinava il titolo di Gran Maestro (p.
275), in questo modo egli continuò la politica mirante a trattenere l’Ordine di Malta
nell’orbita della Russia. Si adoperò per il ritiro delle truppe inglesi e per la restituzione
dell’isola all’Ordine. Chiese ufficialmente al Papa di legalizzare gli atti del suo predecessore emanati in qualità di Gran Maestro e continuò a insistere affinché il gran maestro dell’Ordine fosse eletto a San Pietroburgo (p. 15, 316-317). La decisione dello Zar
non fu accolta favorevolmente dalla Santa Sede, come non fu gradito il fatto che la
maggioranza dei membri del Gran Priorato di Russia fosse ortodossa. Nel 1802 fu sottoscritto il Trattato di Amiens tra la Francia Repubblicana e la Gran Bretagna, firmato
tra Londra e Parigi, che prevedeva la restituzione dell’arcipelago maltese all’Ordine e
l’elezione del Gran Maestro nell’isola. La Russia, non potendo impedirlo, rifiutò di
riconoscere il Trattato. Per l’Ordine cominciò un nuovo periodo di crisi: i Gran Priorati
di Russia furono soppressi, mentre il 20 novembre 1817 un decreto imperiale vietò ai
cittadini russi di accettare o portare le decorazioni melitensi (p. 340-341). Intanto il Re
di Svezia offrì all’Ordine l’Isola di Gotland, la seconda isola per dimensioni del Mar
Baltico, per il trasferimento della sede istituzionale dell’Ordine (p. 307). Con il tentativo di prendere Malta sotto il controllo dalla Russia l’Ordine ebbe il vantaggio di non essere liquidato e continuò ad esistere pur in assenza di un territorio.
Dunque, come sottolineano le date riportate nel titolo, 1697-1817 segnano l’arco
cronologico nel quale si inseriscono gli eventi descritti. Dai documenti pubblicati emerge
anche una particolarità per quanto concerne le vicende che portarono l’Ordine ospedalie-
3 Interessante, sotto questo profilo, è la storia dell’Ordine descritta nei due libri dello storico
V. A. ZAKHAROV, L’empereur Paul Ier et l’Ordre de Saint-Jean de Jérusalem, Saint-Pétersbourg
2007; e l’Histoire de l’Ordre de Malte, Moscou 2012, nei quali l’autore narra le vicende dell’Ordine
e della politica imperiale dal punto di vista strettamente russo.
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ro di Sant’Antonio di Vienne ad esser incorporato nel 1774 nell’Ordine Giovannita assieme a quello canonicale del Santo Sepolcro. La piena unione dei due ordini con quello
melitense fu definitivamente sancita con la bolla Rerum humanorum condicio di Pio VI del
16 dicembre 1776. In particolare gli Antoniani diventavano cappellani dell’Ordine di Malta,
mentre lo stemma giovannita divenne composito con l’aggiunta delle insegne antoniane
e il Gran Maestro dell’Ordine di Malta fu intitolato Magister Hospitalis Hierusalem Sancti Sepulcri et Sancti Antonii Vinennensis e con questi titoli si firmarono i Gran Maestri
Pinto (p. 59, 91) e Rohan (p. 117, 133, 153, 155). Il volume non racconta la storia dell’Ordine nel suo periodo russo, ma pone il lettore a diretto contatto con i documenti dell’epoca e l’intenso intreccio di rapporti diplomatici tra le maggiori potenze del XVIII secolo, un periodo vivace anche dal punto di vista sociale: il secolo delle “rivoluzioni”.
Gaetano del Rosso
Simona Negruzzo, La «cristiana impresa». L’Europa di fronte all’Impero Ottomano
all’alba del XVII secolo, Milano, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, 2019, 480
p., ill. (Acta et Studia, 16).
Da qualche tempo, la storiografia sulle crociate ha abbandonato il tradizionale contesto medievale, prolungandosi nell’età moderna, quando il mito rivive, evolve i suoi caratteri e si fa pluralista, tanto da fare indicare come “crociate tardive” quelle iniziative che
si svilupparono dal tardo medioevo non più per il recupero della Terrasanta, bensì per la
salvaguardia dell’Europa cristiana, pressata dalla rapida espansione dell’Impero ottomano. Alla lunga storia dell’opposizione anti-ottomana, segnata da molti insuccessi dopo la
drammatica disfatta di Nicopoli del 1396, il recente libro di Simona Negruzzo aggiunge
un nuovo, interessante capitolo.
La ricerca ha preso le mosse da un manoscritto della Biblioteca Queriniana di Brescia,
che si è rivelato copia di un duplice originale, conservato presso la Biblioteca Universitaria
di Salamanca e, con qualche significativa variante, presso l’Archivio Segreto Vaticano.
Si trattava di una Relatione dell’Imperio Turchesco, redatta da un frate domenicano, originario di Cattaro, che si firmava Domenico Bisanti. Appartenente a una famiglia di un
certo peso sulla costa dalmata per aver espresso noti uomini d’arme, di lettere e di Chiesa,
era stato in giro per l’Oriente e si era trattenuto qualche tempo a Costantinopoli fino al 1606.
Nella capitale dell’Impero Ottomano egli dovette avere i primi contatti con Gaspare Spinelli,
allora addetto alla cifra presso il bailo di Venezia Ottaviano Bon, ma più tardi residente
veneto a Napoli. E a Napoli si stabilì anche Bisanti nel 1606, nella piccola vicarìa curata
di Santa Lucia a Mare, chiesa delle monache domenicane dei Santi Pietro e Sebastiano a
poca distanza dal palazzo vicereale, da dove firmò la Relatione nell’estate del 1614. A
Napoli, Bisanti collaborò da “confidente” con il residente veneto Spinelli, dal quale veni-
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va retribuito per fornire alla Serenissima informazioni strategiche sull’Oriente grazie alle
sue buone conoscenze della regione.
La Relatione di Bisanti, che l’autrice pubblica integralmente in appendice dalla copia
spagnola segnalando le varianti rispetto a quella vaticana (p. 213-326), non era tuttavia
per il Senato veneto, ma per il viceré di Napoli Pedro Fernández de Castro y Andrade, conte
di Lemos. Era, infatti, uno dei vari dossier che il frate era solito inviare al conte di Lemos,
per la corte madrilena già quando soggiornava a Costantinopoli. Doveva trattarsi, in origine, di un documento riservato di carattere informativo su questioni strategico-militari.
Ma, con il medesimo intento, lo stesso frate ne aveva poi personalizzata una seconda versione fornita al cardinal-nipote di papa Paolo V, Scipione Borghese, con il quale era in
confidenza perché protettore dei domenicani.
La Relatione, composta tra 1606 e 1614, certamente durante il sultanato di Ahmed I, che
regnò a Costantinopoli dal 1603 al 1617, è suddivisa in nove capitoli. Essa offre un quadro
complessivo sui possedimenti ottomani, distribuiti su tre continenti, descrive l’organizzazione politica, amministrativa, economica, militare e religiosa dell’Impero del «Gran Turco»,
offre un breve ragguaglio sui vari sultani succedutisi sul trono costantinopolitano e tratteggia la composizione della corte ottomana, non senza dettagli sull’harem del sultano.
L’interessante e inedito documento permette all’autrice di ricostruire un quadro complessivo sui rapporti tra Europa cristiana e Imperio Turchesco nella prima età moderna (p.
19-60), quando nel Mediterraneo del dopo-Lepanto lo spirito della crociata era tenuto vivo
dal lavoro di diplomatici, ambasciatori e spie. Era il tempo in cui l’Impero ottomano passava dalla prosperità del sultanato di Solimano il Magnifico (p. 61-117) al lento declino
dei suoi successori (p. 119-153) sia per le loro personali inettitudini, sia per i limiti amministrativi del sistema para-feudale dei tımar sia per l’invadenza della corte sul sultano. La
fluida situazione politica di Costantinopoli non impediva, tuttavia, il dilagare ottomano lungo
la Penisola balcanica, dove non era sempre efficace l’isolata opposizione asburgica (p.
165-192). Né era stata utile ai principi cristiani la “scoperta” dell’Impero persiano dei Safavidi,
con i quali pure aveva pensato di allearsi la Spagna e si era messo in contatto il papa, nell’ingenuo tentativo di stringere tra due fronti la potenza turca (p. 193-204).
La densa e articolata Relatione dell’Imperio Turchesco di Bisanti sviscerata dalla
Negruzzo rientra nel genere letterario dei “consigli”, quelli che papi e sovrani chiedevano ai loro collaboratori più fidati e competenti. Alla stregua dei tecnici diplomatico-militari del tempo, fra Domenico Bisanti offriva le sue indicazioni strategiche, auspicando un’alleanza tra Spagna e Papato, all’epoca i due perni fondamentali per un possibile contrasto
alla potenza ottomana. Egli, che intendeva essere gli occhi e le orecchie di Spagna e Papato
sul Bosforo, riteneva essere quello il tempo propizio per una decisiva, vittoriosa guerra
contro il Turco, benché cogliesse il disimpegno dei principi europei, inclusi i Cavalieri di
Malta, di cui si ricordava il prezioso apporto passato, ma si rilevava anche la debolezza
del momento a controllare e frenare la marineria ottomana. Ai suoi corrispondenti raccontava quel che sapeva e aveva visto in Oriente, sperando di convincere i suoi potenti
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interlocutori circa la necessità, l’opportunità e l’urgenza di una «honorata impresa» bellica contro il giovane sultano. Poiché dubitava che i principi cristiani volessero davvero la
sconfitta dei Turchi, Bisanti riteneva che la soluzione finale si potesse raggiungere solo con
tre decisive circostanze: evitando di trattare con il sultano la pace allora in discussione
per la cosiddetta Lunga guerra (1593-1606), rinsaldando l’unità fra i principi cristiani e
sfruttando militarmente quella particolare stagione di debolezza della corte costantinopolitana all’alba del XVII secolo.
Come rilevato e approfondito dall’autrice, il piano di guerra di Bisanti era ingenuo,
e forse per questo motivo i suoi due interlocutori non gli diedero esecuzione, magari
diversamente informati da altre fonti e anche su altre urgenze di politica internazionale.
La sua Relatione, tuttavia, offre informazioni utili e di prima mano sulla suddivisione amministrativa nell’Impero ottomano dei territori acquisiti dalle recenti conquiste, sulla sostanziale tolleranza religiosa garantita ai cristiani dall’istituto islamico della dhimma, sull’inaffidabilità del clero greco-ortodosso, incapace di opposizione interna e fieramente antiromano (come si ripeteva a Costantinopoli con un adagio popolare: “Meglio il turbante che
la tiara”). La Relatione, inoltre, mostra uno spessore politico non comune. Al di là della
fredda lucidità del frate, che, indirizzandosi contemporaneamente a Spagna e Papato,
cercava di far ritrovare da diversi versanti i due potentati intorno al suo progetto, dal testo
emerge un’analisi politica di buona modernità sulla situazione complessiva dell’Impero
Ottomano. Individua reali punti di debolezza dell’esercito della Mezzaluna. Coglie la
fragilità dell’area medio-orientale da dati economico-commerciali. Rileva il diverso grado
di fedeltà dei popoli entrati di recente nei possedimenti del sultano. Rappresenta realisticamente la condizione del Paese, impoverito dal ristagno economico, dal controllo delle
ricchezze da parte di ristretti circoli di potenti, da una giustizia corrotta e dall’inesistente
fiducia popolare. Descrive principalmente la crisi di leadership per l’instabilità psicologica e morale del sultano e i forti condizionamenti da parte dell’harem.
La concretezza dell’analisi politica di Bisanti colloca il suo discorso a grande distanza dalla contemporanea visione di altri osservatori del tempo, a cominciare dal suo più illustre confratello Tommaso Campanella, che auspicava una monarchia universale sotto la
guida della Spagna e dava per vantaggiosa la divisione religiosa dell’Impero asburgico.
Né Madrid né Roma, comunque, dettero ascolto a Bisanti: l’auspicata crociata – la «cristiana impresa» – non fu messa in campo. Come opportunamente rileva Simona Negruzzo,
solo dopo più di mezzo secolo, quando il continente avrebbe provato di nuovo l’attacco
al fianco del Turco con un secondo, drammatico assedio di Vienna (1683), la guerra antiottomana si sarebbe rinfocolata e giunta a risoluzione. Ma allora sarebbe stata incisiva anche
senza la Spagna, promossa e sostenuta stavolta da un papa vigoroso come Innocenzo XI
Odescalchi, capace di riunire in lega un rilevante numero di principi europei disposti a ritrovarsi in unità per la stabile protezione dell’Europa cristiana.
Il volume documenta che ci sono ancora fonti da ricercare sull’Europa d’età moderna, e che anche quelle pubblicate con dovizia di erudizione alla fine dell’Ottocento, forse,
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meritano di essere rilette con occhi diversi e critici. Con questo spirito, la Negruzzo mette
a disposizione degli storici una nuova e utile fonte di ampio respiro, edita con accuratezza di note di contenuto al testo, arricchite di belle immagini d’epoca, accompagnata da
un utile dizionario dei luoghi, che consente di seguire l’ampia messe di informazioni geografiche offerte nella prima parte del documento, e chiusa da una ricca bibliografia. Al
termine della lettura resta solo il desiderio che l’autrice prosegua nelle sue ricerche per dare
qualche maggiore spessore biografico all’intraprendente autore domenicano, il semi-sconosciuto fra’ Domenico Bisanti di Cattaro, e continui a sviluppare il tema del confronto
culturale, militare e religioso nell’area mediterranea in età moderna, nonché i risvolti
della politica internazionale del Papato, che poteva contare sui religiosi distribuiti nel
Mediterraneo come preziosa fonte d’informazione, e della Spagna, che non diverse incombenze affidava anche ai viceré di Napoli.
Ugo Dovere (†)
Charles Savona-Ventura, The Hospitaller Knights of Saint-Lazarus, Malta, Grand
Priory of the Maltese Islands-Military & Hospitaller Order of St-Lazarus of Jerusalem,
2019, 615 p.
Si tratta della seconda edizione aggiornata del libro, pubblicato dall’autore nel 2006.
Savona-Ventura, rinomato medico maltese, è membro di uno degli attuali Ordini di San
Lazzaro che si pongono in continuità con quello medievale, abolito dalla Sede Apostolica
alla fine del XV secolo. Oggi non si tratta più di un Ordine religioso-militare come in epoca
medievale, ma di un Ordine cavalleresco, consacrato alla carità e al soccorso dei malati e
dei bisognosi. L’autore presenta una storia illustrata dei Lazzariti dal Medioevo sino ad
oggi, corredata di note bibliografiche ed archivistiche. Diciamo subito che non si tratta
del lavoro di un professionista e che esso contiene non pochi errori e sviste, ad esempio,
quando attribuisce il possesso dell’ospedale di San Giovanni dei Lebbrosi di Palermo ai
Lazzariti (p. 104-105), trattandosi in realtà di un lebbrosario dell’Ordine Teutonico. Questi
errori derivano, come nota il saggio di Raphaël Hyacinthe in questo numero della rivista,
da tentativi di glorificazione del passato, realizzati dai Lazzariti moderni e, tendenzialmente, si attribuisce all’Ordine di San Lazzaro il monopolio di cura dei Lebbrosi nel
Medioevo, che in realtà esso non ha mai posseduto. Il libro è dunque da utilizzare con dovute precauzioni e, dal punto di vista scientifico, è consigliabile fare riferimento ai lavori dello
stesso Raphaël Hyacinthe e di François-Olivier Touati sulle origini dell’Ordine e sulla cura
dei lebbrosi, di David Marcombe sulle loro vicende in Terra Santa e in Inghilterra, nonché alla storia generale dell’Ordine scritta da Kay Peter Jankrift, opere citate in coda a
questa recensione. Le singole domus dell’Ordine sono poi spesso state oggetto di ricerche locali. Il libro di Savona-Ventura non è tuttavia privo di utilità, grazie al ricco appa-
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rato illustrativo, e se si ha l’intenzione di approfondire le vicende dei Lazzariti in epoca
moderna e contemporanea.
Alcuni riferimenti bibliografici: Raphaël Hyacinthe, L’Ordre de Saint-Lazare de
Jérusalem au Moyen Âge, Millau 2003; Kay Peter Jankrift, Leprose als Streiter Gottes,
Münster 1996; David Marcombe, Leper Knights: The Order of Saint Lazarus of Jerusalem
in England, London 2003; François-Olivier Touati, De prima origine Sancti Lazari
Hierosolymitani, «Chemins d’outr-mer. Études d’histoire sur la Méditerranée médiévale
offertes à Michel Balard», Paris 2004, p. 801-812.
Kristjan Toomaspoeg
«Tuitio Fidei et Obsequium Pauperum». Studi in onore di Fra’ Giovanni Scarabelli
per i cinquant’anni di sacerdozio, a cura di Lorenzo Benedetti – Bianca Maria Cecchini
– Marco Gemignani – Tommaso Maria Rossi, Viareggio, Edizioni La Villa, 2019,
414 p., ill.
L’elegante volume della collana “Studi Storici” diretta da Bianca Maria Cecchini raccoglie venti studi appositamente redatti da ventuno studiosi (uno è a quattro mani) e offerti a Mons. Fra’ Giovanni Scarabelli, in occasione del cinquantesimo anniversario di ordinazione presbiterale, per omaggiarne la figura di sacerdote e storico. I saggi, tutti inediti
e di grande rigore scientifico, si riferiscono ai principali filoni di ricerca ai quali Mons.
Giovanni Scarabelli si è da sempre dedicato: la storia della Chiesa e particolarmente degli
Ordini militari, il Mediterraneo quale terreno di incontro e scontro di popoli, la spiritualità dell’Oriente Cristiano, le scienze storico-documentarie, le vicende della dinastia Borbone
in età moderna.
Il volume si divide in tre sezioni: Storia degli Ordini Religiosi (p. 35-236), Storia
religiosa dell’Oriente cristiano (p. 237-354) e Storia, archivi e studi borbonici (p. 355-410).
Nella prima, la più corposa, sono raccolti undici contributi: Giuseppe Perta, Le fonti
dei Miracula giovanniti attraverso un inedito della Corsiniana (p. 37-50); Gino Fornaciari
– Antonio Fornaciari, L’Ordine degli Ospitalieri e la cura della lebbra nel Medioevo (p.
51-64; l’Ordine dell’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme contribuì soprattutto, grazie all’esperienza maturata in Terra Santa, a far comprendere che la malattia era scarsamente contagiosa e che poteva essere curata nei normali ospedali, senza isolare necessariamente i malati in appositi lebbrosari); Antonino Terzo, Roselina de Villeneuve, una santa
certosina protettrice degli Ospitalieri (p. 65-82); Luigi Ingaliso, L’insegnamento delle
matematiche di Giacomo Masò ai cavalieri di Malta: dai Problemi al Corso matematico
(p. 83-94; lo studio della matematica era finalizzato alla balistica e all’architettura militare); Luigi Michele de Palma, Jean-Baptiste le Marinier de Cany, un maestro della spiritualità giovannita (p. 95-118); Marco Lenci, La dura prigionia barbaresca di tre cavalieri di Malta (p. 119-126; fra’ Francesco Lanfreducci, Pompeo Rospigliosi, zio di Clemente
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IX, e fra’ Biagio Nicolò Balbani, rispettivamente prigionieri nel Maghreb nei periodi 15651572, 1606-1607 e 1707-1720); Paolo Emilio Tomei, I medicamenti a bordo dei vascelli
dell’Ordine di Malta agli inizi del Settecento: la nave San Giovanni (p. 127-138); Bruno
Martin, «Conformément à notre institut». Vie religieuse et activité hospitalière dans l’Ordre
de Malte à la fin du XVIII siècle (p. 139-150); Filippo Ruschi, L’ideale di crociata nella
formazione dello stato moderno: il caso della Toscana medicea (p. 151-176); Marco
Gemignani, Le Marine degli Ordini di San Giovanni e di Santo Stefano e la loro prima convenzione per operare congiuntamente (p. 177-204; l’accordo fu stipulato il 5 maggio 1584);
Gioacchino Quadri di Cardano, A proposito del Ritratto di generale spagnolo di Giovanni
Boldini: appunti genealogici su una nobile famiglia genovese (p. 205-236).
La seconda sezione, dedicata alla storia religiosa dell’Oriente cristiano, accoglie cinque contributi di: Guido Agosti, Brevi note sulla figura ed il ruolo dell’archimandrita (p. 239250); Tommaso Maria Rossi, Lo «spinosissimo affare del Collegio Pontificio di Leopoli».
Nuove indagini nell’Archivio della Congregazione di Propaganda Fide (p. 251-276); Federico
Marti, The Ruthenians in America: genesis of the most important case of Oriental Catholic
Diaspora in the West (p. 277-294); Clemente Riva di Sanseverino, I profughi del genocidio
armeno e il soccorso dell’Ordine di Malta (p. 295-332; l’Ordine organizzò in Italia e in Grecia
opere per assicurare cure, lavoro, istruzione e ospitalità ai profughi armeni) e Iwan Dacko,
Primato e sinodalità della Chiesa di Kyiv nel secondo millennio e oggi (p. 333-354).
Chiudono il volume i quattro saggi della sezione Storia, archivi e studi borbonici e
precisamente: Lorenzo Benedetti, L’archeologia come scienza ausiliaria della Storia. Verso
l’elaborazione di un nuovo canone (p. 357-370); Bianca Maria Cecchini, Figli di un dio
minore. La dinastia dei Borbone Parma tra Risorgimento e “revisionismo” (p. 371-388);
Amedeo Angeli, Un fregio lucchese con monogramma e corona (p. 389-396) e Otello Lenzi,
Di un documento dell’Episcopato toscano a Vittorio Emanuele II (1863) (p. 397-410).
Trattandosi di un volume miscellaneo sarebbe eccessivamente lungo esaminare ogni
singolo contributo, ci limitiamo quindi a segnalare la “sotto-sezione” che, all’interno
della parte dedicata alla vita degli Ordini Religiosi, si concentra in particolare sulla spiritualità melitense attraverso quattro saggi.
Il primo, di Giuseppe Perta (Università per Stranieri “Dante Alighieri” di Reggio
Calabria), si basa su un codice conservato nella Biblioteca Corsiniana (presso l’Accademia
dei Lincei a Roma) che riporta una breve redazione del racconto agiografico delle origini
dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, tratta da una notizia di Isidoro di Siviglia,
che l’arcivescovo aveva tratto, a sua volta, da fonti più antiche.
Antonino Terzo (Università degli Studi di Catania) si concentra sulla monaca certosina santa Roselina de Villeneuve (?-1329), sorella del XXVI Gran Maestro Hélion de
Villeneuve e protettrice degli Ospitalieri; e in particolare su una complessa incisione settecentesca realizzata dai fratelli Joseph Sebastian e Johann Baptist Klauber, che operavano presso la Corte Palatina ad Augusta. L’immagine, secondo i canoni artistici dell’epoca
e lo stile dei due incisori, si suddivide in cinque sezioni e vuole veicolare attraverso gli
episodi più rappresentativi della sua vita un piccolo trattato di teologia.
Recensioni
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Luigi Michele de Palma (Pontificia Università Lateranense e Pontificio Comitato di
Scienze Storiche), si sofferma su Jean-Baptist le Marinier de Cany (1645-1689), frate cavaliere dell’Ordine di Malta, Segretario per le lettere francesi del Gran Maestro Gregorio
Carafa, autore di una summa della spiritualità giovannita, rimasta capostipite di una serie
di opere analoghe – redatte quasi interamente in seno all’Ordine – che ha pervaso i secoli dell’età moderna. Le sue Réflexions d’un chevalier de Malta […] sur la grandeur de
son état (1689) sono tuttora inedite (sia nell’originale francese, sia nella coeva traduzione italiana). Diviso in cinque sezioni (riguardanti la storia dell’Ordine; lo stato dei Cavalieri;
il cavaliere considerato come religioso e ospedaliere; la professione del Cavaliere: i tre voti
di obbedienza, povertà e castità; l’abito, il suo simbolismo e le otto beatitudini), il testo
mette a fuoco il precipuo cammino ascetico di chi professa i voti nell’Ospedale Gerosolimitano. In appendice sono riportati gli indici dell’opera (in francese e in italiano), per
far conoscere la sua articolazione, nonché gli argomenti trattati.
Bruno Martin si concentra sulla vita spirituale nel XVIII secolo, sottolineando la
presenza dello spirito religioso delle origini attraverso l’analisi di numerosi regolamenti
della chiesa conventuale di Malta, dell’ospedale ed anche di numerose lettere di Cavalieri
professi, come quelle scritte in occasione della spedizione di soccorso dopo il terremoto
di Messina del 1783. Simili esempi si trovano anche in seguito ai tristi eventi della
Rivoluzione francese e della perdita dell’isola di Malta, come nella corrispondenza del balì
Auguste d’Estourmel, ultimo ricevitore del Gran Priorato di Malta in Francia, di cui viene
pubblicata una commovente lettera inedita.
Va infine segnalata anche la biografia e l’accurata bibliografia di Fra’ Giovanni Scarabelli (p. 15-34).
Gianandrea de Antonellis
William Urban, The Last Years of the Teutonic Knights. Lithuania, Poland and the
Teutonic Order, Barnsley, Greenhill Books, 2019, 334 p., ill.
William Urban è, insieme al compianto Eric Christiansen (Northern Crusades, London
1980), uno dei rari autori del mondo anglosassone che si sono occupati della storia
dell’Ordine Teutonico. Quello dei Teutonici è senza dubbio l’Ordine religioso-militare
più studiato fra tutti, ma la sua storiografia è prima di tutto tedesca e polacca e bisognava
aspettare sino al 2009 per vedere apparire un altro autore di madrelingua inglese, Nicholas
Morton (Teutonic Knights in the Holy Land) che si interessasse all’Ordine. A cominciare
dalla sua Tesi di dottorato sulla Crociata Baltica, discussa nel 1967, Urban ha trattato
molti argomenti inerenti al passato dell’Ordine Teutonico, soprattutto dal punto di vista
della storia militare, ma non solo. Si tratta dunque di uno studioso serio e rispettato e, di
più, di un ottimo divulgatore.
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Recensioni
Il presente volume consiste nell’adattamento al grande pubblico di un’opera edita
nel 1999, Tannenberg and After, e intende riassumere le complesse vicende dell’ultimo
secolo e mezzo dei Teutonici in Prussia, prima della trasformazione del ramo prussiano
dell’Ordine in un ducato laico ad opera di Albrecht di Brandeburgo nel 1525. Senza descrivere in dettaglio ciascuno dei tredici capitoli del libro, possiamo notare che l’autore si muove
in numerosi contesti, tra cui il primo e quello politico dell’Europa centrale dopo la conversione dei granduchi di Lituania al cattolicesimo e la salita del duca lituano Jogaila al
trono polacco (come Ladislao II) nel 1386. Questo evento cambiò completamente “le
carte a tavola”, visto che la lotta contro la Lituania, un enorme stato che andava dal Mar
Baltico al Mar Nero, l’ultimo in Europa a non aver fatto del cristianesimo una religione di
stato, aveva fornito la giustificazione ideologica per la stessa esistenza dell’Ordine Teutonico
dopo la perdita della Terra Santa. Peraltro, l’unione tra Lituania e Polonia creò un nuovo
e potente nemico per i Teutonici. Le vicende non erano, però, così semplici e lineari come
potrebbero sembrare e vi fu un periodo di riavvicinamento tra l’Ordine e il duca lituano
Vytautas ancora dopo la fatale battaglia di Tannenberg del 1410. Dopo tutta una serie di evoluzioni, si creò, all’inizio del XVI secolo, un nuovo contesto politico, caratterizzato dalla
presenza di nuovi nemici comuni, ovvero i principi di Moscovia e gli Ottomani.
Il secondo contesto è quello della cristianità occidentale, osservato ad esempio nel
caso delle vicende del Concilio di Costanza (sia dal punto di vista della ricerca di una
soluzione al Grande Scisma della Chiesa che da quello della lotta diplomatica e propagandistica tra i Teutonici e la corona di Polonia); passando per la politica dell’imperatore
Sigismondo e la lotta contro i Turchi e gli Hussiti (a questi ultimi è consacrato un intero
capitolo del volume). In numerosi passaggi si riflette anche sul concetto della crociata e
le sue evoluzioni durante “l’autunno del Medioevo”. Poi, lo stesso Ordine Teutonico è
oggetto di uno studio approfondito, a cominciare dalla sue imprese belliche nel XIV e all’inizio del XV secolo (come la conquista dell’isola di Gotlanda e la lotta contro i pirati del
Baltico), senza dimenticare la sua ideologia e la sua spiritualità (con accenno ai tentativi
di riforma dell’Ordine e ai culti da esso promossi in Prussia). Per finire, si descrive la
crisi dell’Ordine dopo la sconfitta nella guerra contro Ladislao II e dopo la Guerra dei
tredici anni (1450-1463) contro le città della Prussia, senza dimenticare la conversione della
Prussia teutonica al protestantesimo e la fine dello Stato dei Teutonici.
Tutti questi contesti, ovvero quello dell’Europa centrale, quello della Chiesa
d’Occidente e quello dell’Ordine Teutonico e dei suoi antagonisti vengono presentati in
un modo intrecciato, in relazione di causa ed effetto. Allo stesso tempo, l’autore non fornisce solo un ragionamento teorico, ma offre alcune descrizioni coinvolgenti ed accattivanti degli eventi, come la battaglia di Tannenberg, oggetto di un intero capitolo, e dei
personaggi storici, quali l’imperatore Sigismondo o il re Ladislao II di Polonia. L’ultimo
capitolo del libro fornisce una serie di considerazioni conclusive, sottolineando l’importanza di questo particolare periodo storico per l’evoluzione della regione e trattando anche
la questione di come quest’epoca e i suoi eventi cruciali fossero poi stati ricordati e uti-
Recensioni
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lizzati in chiave ideologica. L’ammonimento di Urban è di evitare una semplificazione
eccessiva della “complessità del passato”, un avvertimento che rimane sempre attuale.
Si tratta dunque di un’ottima descrizione della storia dell’Europa centrale – e non solo
– alla fine del Medioevo, scritta per il grande pubblico colto. Il format è quello classico
anglosassone di libro senza note, il che rende il volume inutilizzabile per gli storici di
professione, e l’autore ci fornisce solo un breve elenco di “lettura consigliata” (p. 325-326),
ma, evidentemente, non è un’opera destinata all’uso accademico. Quello che forse potrebbe invece servire al lettore sarebbe una cronologia finale, assente dal libro, mentre vi
sono presenti numerose carte geografiche e una piccola serie di illustrazioni a colori. Sarebbe
in ogni caso auspicabile una traduzione italiana del libro, magari con una rassegna bibliografica aggiunta.
Kristjan Toomaspoeg