Vincenzo Naymo
Fiere e pretese tributarie
nella Calabria del Cinquecento
Santa Maria delle Grazie
nella vallata del Torbido (1566-1572)
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Alla memoria del Cav. Giuseppe Pellicano Spina (1816-1901), mio antico prozio,
raro esempio di coerenza, di fedeltà e di attaccamento agli ideali del suo tempo.
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Vincenzo Naymo
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Fiere e pretese tributarie
nella Calabria del Cinquecento
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Santa Maria delle Grazie
nella Vallata del Torbido (1566-1572)
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© 2008
Edizioni Corab - Gioiosa Jonica.
2a edizione riveduta e ampliata © 2020
ISBN 978-88-89423-30-1
Proprietà letteraria riservata.
Premessa
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Una prima edizione di questo volume è stata data alle stampe da
chi scrive nel corso del 2008. Esauritasi in breve tempo l’intera tiratura, pubblico in questa sede una seconda edizione di quel lavoro,
divenuto introvabile, in forma riveduta e ampliata, soprattutto
nell’appendice documetaria che include numerosi documenti inediti
del XVIII secolo acquisiti nel corso degli ultimi anni.
Non mi è parso opportuno effettuare interventi significativi al
testo del 2008, che rimane sostanzialmente aggiornato nei contenuti,
limitando così le modifiche alla correzione di eventuali sviste e di
refusi e, se necessario, all’aggiunta di notizie e di nuovi particolari
di più recente acquisizione che integrano efficacemente le conoscenze precedenti.
Nel volume sono state inserite pure alcune nuove illustrazioni
che vanno ad arricchire l’essenziale apparato iconografico della
prima edizione.
Gioiosa Jonica, 26 luglio 2020
Vincenzo Naymo Pellicano Spina
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Introduzione
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Fin da tempi molto remoti la consuetudine di allestire fiere in
occasione delle maggiori festività dell’anno fu un fenomeno riscontrabile con una buona continuità in tutto il Regno di Napoli. Le
fonti per il XVI secolo attestano l’esistenza di un numero sorprendentemente elevato di fiere tanto nelle città che nelle terre infeudate1.
Questi eventi si tenevano, per lo più, in concomitanza di festività
patronali, non solo presso i principali luoghi di culto dei vari centri
abitati ma anche accanto alle piccole chiese rurali dei villaggi e delle
campagne.
L’origine di una fiera era solitamente legata all’esistenza di una
festività religiosa che richiamava presso una determinata località un
certo numero di persone. Durante i giorni prestabiliti, solitamente
quelli della ricorrenza del santo titolare, i mercanti vi affluivano numerosi piantando le loro botteghe e bancarelle.
Le feste e le fiere ad esse connesse regolavano la vita delle comunità rurali, scandendo i vari periodi dell’anno e l’avvicendarsi delle
stagioni. Tali ricorrenze costituivano un momento di rottura con la
monotonia della vita quotidiana, divenendo un’occasione nella
quale poteva accadere realmente di tutto. Esse, infatti, rappresentavano il contesto ideale per l’insorgenza di scontri e di discordie ma
anche occasione di gioia e di svago. Scrive Y. M. Bercé trattando dei
fenomeni relativi alla festa nella Francia in età moderna:
«La folla, l’affluenza dei forestieri, il vino che scorre, la fiera in concomitanza con la festa, le parate armate e l’incuria dei magistrati sono sei
1
Sull’argomento cfr. A. GROHMANN, Le fiere del Regno di Napoli in età aragonese, Napoli
1969.
7
cause di tensione e di esplosione di violenza che trasformavano in pericolo
ogni solennità...»2.
E inoltre:
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«Ad ogni festa accorrevano mercanti, si montavano bancarelle. Anche
i pellegrinaggi in località isolate o modeste assemblee di villaggio si trasformavano presto in fiere. Accanto ai venditori di panpepato, di fischietti
di legno per i bambini, di nastri per le ragazze, c’erano soprattutto bettolieri e venditori di tela. Dove c’è scambio c’è imposta; i funzionari di
imposte indirette sul vino, delle tratte di tutti i tipi di mercanzie, seguivano i mercanti. Gli innumerevoli moti antifiscali avvenuti in occasione
dell’esazione delle diverse tasse sul commercio avevano dunque ovviamente per teatro campi da fiera e luoghi di mercato...»3.
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Fatte le opportune distinzioni, si può affermare che i fenomeni
correlati alle festività nel Regno di Napoli non si discostassero molto
dalla situazione francese, eccetto che per il divieto di parate militari
e di porto d’armi, che per il Regno si ritrovava in vigore già durante
il Cinquecento, mentre per la Francia si dovette aspettare che fossero
emanati appositi editi all’inizio del secolo successivo4.
Ma la festa costituiva anche un momento di incontro fra gente
proveniente da località molto distanti l’una dall’altra, con la conseguente instaurazione di un utile interscambio di opinioni e notizie.
Molti matrimoni fra giovani appartenenti a famiglie originarie di
differenti centri erano stati concordati dopo che le parti si erano
conosciute in occasione di una festività. Anche la consegna dei beni
dotali promessi negli atti di capitoli matrimoniali era spesso legata
alla data di svolgimento di una fiera dove gran parte di questi avrebbe dovuto essere acquistata5.
2
Cfr. Y.M. BERCÉ, Festa e rivolta, Cosenza 1985, p. 29.
Ivi, p. 30.
4
Ivi.
5
Cfr. Sezione Archivio di Stato di Locri (= SASL), fondo notarile, not. Melchiorre Muratori, b. 3b, vol. 19, ff. 161v-164v, capitoli matrimoniali, Gerace, 12 dicembre 1594.
3
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Lo svolgimento di simili ricorrenze in città e nei territori infeudati non poteva non richiamare l’attenzione dei signori e dei loro
amministratori insieme a quella delle università regnicole. Le imposte cui erano sottoposti gli ambulanti allorché stipulavano operazioni commerciali nei feudi, sebbene tutt’altro che gravose (al contrario di quanto spesso comunemente si ritiene), rappresentavano
un introito stabile e sicuro su cui le corti feudali avrebbero potuto
contare ogni anno. Ai baroni, infatti, non sfuggiva il ruolo, spesso
determinante, che la fiera esercitava nella nascita e nell’incremento
dei traffici commerciali in particolari aree del territorio con una
conseguente crescita dell’economia locale. Gravare le fiere di balzelli
insostenibili sarebbe equivalso a soffocare una delle principali forme
di commercio del tempo: la scomparsa di una fiera non sarebbe stata
utile ad alcuno. Forse pure per questa ragione, l’azione di taluni feudatari calabresi tendente a favorire l’incremento di fiere e mercati,
specie durante la prima metà del Cinquecento, testimonia concretamente l’esistenza di una politica indubbiamente accorta al riguardo.
Come si avrà modo di evidenziare nelle pagine successive, gli esempi
concreti in questa direzione sono numerosi6.
Tenendo presente quanto fin qui considerato appare facilmente
comprensibile perché, in occasione di una controversia territoriale
fra i signori di due feudi limitrofi, la giurisdizione su una fiera che
si teneva in un’area di confine risultava al primo posto fra i diritti
più aspramente contesi e dibattuti, non solo fra i titolari dei feudi
ma, spesso, anche fra la gente comune dei centri in conflitto. La
vicenda che sarà esposta nel presente contributo è quanto mai emblematica dell’importanza e del ruolo delle fiere nella Calabria del
XVI secolo.
6
Sull’argomento infra, Cap. I, La vallata del Torbido e le sue fiere nel Cinquecento.
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Fig. 1. Veduta della vallata del fiume Torbido, già Pretoriate.
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I
La vallata del Torbido e le sue fiere nel Cinquecento
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Durante il medioevo e l’inizio dell’età moderna, il territorio
dell’attuale vallata del fiume Pretoriate (odierno Torbido)1 si ritrovò
politicamente riunito nella baronia di Grotteria. Questa antica terra,
situata all’interno del versante ionico della Calabria Ultra, ne fu per
secoli il capoluogo. Il suo vasto territorio includeva tutti i centri
abitati della vallata, con una superficie equivalente all’unione di
quelle degli attuali comuni di Agnana, Siderno, Mammola, Grotteria, San Giovanni di Gerace, Martone, Gioiosa Jonica e Marina di
Gioiosa Jonica, per un totale di complessivi 239 Kmq. Fino al 1529
i feudi abitati in capite curie erano soltanto due, Grotteria e Motta
Gioiosa; a questi si aggiunse poco dopo il casale Sideroni che dopo
la muratura ad opera di Giovanni Battista Carafa assunse il nome
di Motta Sideroni2.
Con l’avvento al potere dei Carafa di Castelvetere, verificatosi
nel 1501 in seguito alla scomparsa del conte di Terranova Marino
Correale, la baronia grotterese, staccatasi da Terranova, fu elevata
a contea e suo primo conte fu Vincenzo Carafa († 1526), signore
della limitrofa Castelvetere3. Non è difficile cogliere nella condotta di questo feudatario forti intenti di natura costruttiva e innovativa. Il carattere dell’uomo, da molti ritenuto giusto e pio,
1
È una fra le più grandi vallate del versante ionico della Calabria meridionale, solcata
dal fiume Torbido (ant. Pretoriate) e dai suoi affluenti. Dal punto di vista politico la
vallata e tutti i suoi centri abitati appartennero all’antica baronia di Grotteria sulle cui
vicende nel XVI secolo mi soffermerò nel corso del presente contributo, infra, II. Origine
e cause di una centenaria vertenza.
2
Sull’argomento B. ALDIMARI, Historia Genealogica della famiglia Carafa, Napoli 1691, p.
268.
3
Cfr. M. PELLICANO CASTAGNA, Storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, vol. II,
Cas-Is, CBC Editore, Catanzaro 1996, successione feudale di Grotteria, p. 333.
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emerge evidente in numerose occasioni durante il suo dominio:
nel 1510, il Carafa si schierò apertamente con altri feudatari che
si erano opposti con decisione all’introduzione dell’Inquisizione
spagnola nel Regno di Napoli. Nell’anno 1514 egli emanò nella
contea importanti pandette4, norme che, regolando per iscritto i
rapporti fra il potere feudale e le varie università, sancivano il
riconoscimento ufficiale da parte del feudatario di numerosi diritti che garantivano alle università l’autonomia necessaria per
una accettabile amministrazione delle città. In quegli stessi anni
fu ripresa a Castelvetere l’attività delle ferriere5, edificati nuovi
fondaci, incrementata in misura considerevole la produzione di
seta ed il commercio al di fuori dello stato di Grotteria-Castelvetere. In linea con la tendenza del secolo si registrò un notevole
incremento demografico che portò in cinquant’anni quasi al raddoppio della popolazione. Come segnala il Cingari6, anche la rendita feudale risultò fortemente incrementata, a testimonianza del
generale progresso che lo stato carafesco stava registrando.
Nel segno della continuità con la condotta di Vincenzo si colloca la politica del figlio Giovanni Battista Carafa (1526-1552), il
primo marchese di Castelvetere. Nell’incremento di fiere e mercati,
l’azione del Carafa conseguì ottimi risultati: durante il suo dominio,
infatti, questa tipologia di scambi commerciali si moltiplicarono in
misura considerevole.
Così, nel corso del Cinquecento, le fiere nella vallata del Torbido
e dei suoi centri divennero numerose: nel solo territorio di Motta
Gioiosa è attestata l’esistenza di almeno tre appuntamenti annuali.
Oltre a quella di Santa Maria delle Grazie, di cui si tratterà in modo
4
Alcuni brevi estratti dal testo di tali pandette, riguardanti Motta Gioiosa, sono contenuti
in un Liber Baptizatorum della chiesa Matrice, conservato presso lo stesso luogo di culto.
5
La notizia si ritrova nel privilegio di conferma di Grotteria a favore di Vincenzo Carafa
dell’anno 1505, cfr. J. MAZZOLENI, Fonti per la storia della Calabria nel Viceregno (15031734) esistenti nell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli, Edisud, 1968, p. 176.
6
Cfr. G. CINGARI, Roccella Jonica, Reggio Calabria, Falzea, 2005, p. 57.
12
approfondito nel corso del presente lavoro, è documentata la presenza di una fiera di Santa Maria de Maratà che si svolgeva il sette e
l’otto agosto di ogni anno nella contrada omonima, presso un’antica
chiesetta rurale7 dedicata alla Vergine Annunziata. L’origine della ricorrenza, in passato molto sentita dalla popolazione, doveva risalire
a tempi molto remoti e certamente all’età medievale. Dopo la metà
del XVI secolo, invece, la fiera subì una lenta ma inarrestabile decadenza, come attestava un ecclesiastico della Motta in una deposizione dell’anno 1569 da cui è tratto il seguente passo:
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«... <Epso testimonio> da li antiqui intendeva dire che la exactione de
dicto vaso de creta per ciascuna salma, como la exactione de lo scannagio
et ragione de le poteche et altre cose, se faceva in la festa de Santa Maria
de Maratà, se faceva per li baroni et loro castellani sempre, ogni anno, ma
poi la perdonanza deminuò et non fo facta dicta excactione, excepto
quando epso testimonio, a lo tempo de dicta perdonanza ch’ei in lo dì de
la Annuntiata, se nge va a dire messa et nge veneno dicti orgagni et se fa
dicta exactione de dicto vaso, ma non nge venìa altro ad vendere. Et have
intiso che antiquamente in la festività de Santa Maria de Maratà si nge
portava la bandera regia ogni anno et che nge la havea portata uno misser
Antonio de Linaris lo quale epso testimonio lo conoscecti...»8.
Santa Maria de Maratà è identificabile con l’attuale chiesa gioiosana della SS. Annunziata fuori le mura. L’antica chiesetta, infatti, fu ingrandita durante la seconda metà del
XVI secolo su volontà del locale feudatario Michele Caracciolo che nel 1594, terminati i
lavori, aprì il nuovo luogo di culto conservando l’antico titolo. La denominazione di
contrada Annunziata è sorta in età moderna perché nel suo ambito si trovava la chiesa
omonima. Anticamente, infatti, il luogo era parte integrante della vasta contrada detta
Maratà in mezzo alla quale transitava l’antica strada che conduceva a Gerace e che oggi
segna il confine fra le contrade Annunziata e Maratà. La conferma di ciò si trova nelle
fonti che attestano con frequenza l’esistenza della denominazione La Nunziata di Maratà
e Nunziata alias Maratà, così come si riscontra in vari atti notarili del XVI e del XVII
secolo che descrivono appezzamenti di terreno in quel luogo.
8
Infra, appendice, doc. 18, f. 455r e v., testimonianza del rev. Gaspare Glioti.
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L’ingrandimento della chiesa, voluto e finanziato dal marchese
Michele Caracciolo a partire dal 15949, rinvigorì il culto per la Vergine Annunziata, favorendo la ripresa della fiera che da quel periodo
andò sempre più prosperando fino al presente.
Una seconda fiera rurale era quella di S. Anna, che si teneva annualmente accanto alle omonime chiesa e contrada, sulla sponda
sinistra del fiume Torbido a breve distanza dalla foce. L’apertura e
la chiusura delle celebrazioni erano sancite da una suggestiva cerimonia descritta nel seguente passo, tratto da alcune testimonianze
del 1560:
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«... Et questo llo sa esso testimonio et considera perché essendo capitano in la Motta ut supra, lo capitano et sindico et homini principali de
ditta Motta et altri pigliavano la bandera da lo castello de ditta Motta et
portavano ditta bandera con homini ad cavallo et appedi et lla portavano
ad una ecclesia nominata Santa Anna quale era vecino ad mare et da quella
parte del fiumo Turbolo vecino a lo ditto fiumo circa vinti passi poco più,
donde se faceva una fera et ditta bandera se metteva sopra ditta ecclesia.
Et depoi quella se retornava, finita la fera, a lo ditto castello...»10.
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Come si è potuto facilmente rilevare dalla lettura, il passo risulta
estremamente interessante, giacché, oltre a costituire la più antica
attestazione di una sconosciuta chiesa e di una fiera che erano state
fiorenti in età medievale e che apparivano ormai in decadenza nel
XVI secolo, testimonia l’esistenza di antiche e radicate consuetudini
cittadine degli abitanti gioiosani. Il particolare della solenne sfilata
delle autorità locali e dei notabili per accompagnare la bandiera11
9
Sui trascorsi dell’edificio cfr. nota 7.
Cfr. V. NAYMO, Ragusia da feudo rustico a centro abitato. Vicende storiche e documenti sulle
origini del marchesato di Motta Gioiosa nel Regno di Napoli (secoli XIII-XVI), Corab, Gioiosa
Jonica 2017, p. 120, Motta Gioiosa, 14 novembre 1560.
11
Il fatto che il castello di Gioiosa avesse una propria bandiera era fino ad oggi assolutamente ignorato. Pur non essendo noto alcun particolare circa le caratteristiche della
medesima, è ipotizzabile che raffigurasse una torre, giacché questa si è tramandata nell’attuale stemma municipale e nei timbri dell’Università, utilizzati nei secoli scorsi. Per il
10
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del castello perché fosse issata sulla chiesa nel periodo della festività
di S. Anna, mi sembra altamente suggestivo e interessante. La presenza dell’insegna doveva avere indubbiamente un carattere simbolico, legato alla volontà di palesare e affermare la giurisdizione che
il castello della Motta esercitava in tutto il territorio circostante.
Un’altra fiera gioiosana molto rinomata nel Cinquecento fu
quella di Santa Caterina12, che si svolgeva la prima Domenica di
giugno presso l’omonima chiesa fuori le mura, nella piazza dell’Università. Nel 1534 i diritti di esazione spettavano al marchese di Castelvetere e Signore della Motta Giovanni Battista Carafa.
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«Item habet ius nundinarum in suburbio Moctae Ioyosae in plano
ecclesiae Sanctae Caterinae in primo die dominico iunii, durant per duos
dies»13.
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Al contrario di quelle precedenti, la ricorrenza si teneva in paese
ed è presumibile che richiamasse una gran moltitudine di persone,
anche dai centri limitrofi. L’epoca di origine della festività non può
che essere messa in relazione con quella della stessa chiesa di Santa
Caterina d’Alessandria, della quale non si possiedono notizie anteriori all’anno 153414, ma la cui edificazione doveva risalire almeno
all’inizio del secolo precedente.
Sebbene la nascita di una fiera in seno ad una festa fosse un
fenomeno essenzialmente spontaneo, si verificarono casi in cui questa venne disposta dalla volontà di un feudatario. In Grotteria, durante il Cinquecento, il marchese di Castelvetere Giovanni Battista
Carafa, istituì la fiera di San Domenico, la cui sopravvivenza gli fu
tanto a cuore da indurlo, per accrescerla, ad abolire quella di Santa
castello della Motta cfr. V. NAYMO, Il castello di Gioiosa in Calabria Ulteriore, Gioiosa Jonica 1996.
12
Infra, appendice, doc. 18, ff. 465v-466r, testimonianza del magnifico Giovanni Battista
Ligorio.
13
Ivi, doc. 1, f. 210v.
14
Ivi.
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Maria delle Grazie, provvedimento che, sebbene applicato, come si
vedrà in seguito, non comportò il tramonto di quest’ultima15.
Nello stesso centro di Motta Gioiosa, nel 1529, il marchese determinò personalmente l’istituzione del rinomato mercato sabatodomenicale16.
In Grotteria si teneva l’importante fiera di Santa Maria di Valverde che aveva luogo la prima domenica di luglio presso la chiesa
omonima, sul fiume Caturello, lontano dall’abitato. Il castello di
Grotteria deteneva numerosi diritti di esazione durante la ricorrenza. Nel 1534 risulta che il mastro di fera, nominato dal castellano,
aveva il compito di issare ogni anno sulla chiesa di Valverde il vessillo del castello, di sorvegliare il regolare svolgimento della festività
e di esigere da ogni ambulante, a nome del castellano, due vasi per
ogni salma di terrecotte poste in vendita nella fiera, uno a scelta
dell’esattore, l’altro su preferenza del venditore. Egli esigeva inoltre
un rotolo di carne per ogni bestia che veniva macellata, un barile di
vino per ogni salma messa in vendita ed infine un tornese, o l’equivalente in natura, per ogni salma di fogliame e di frutti17.
Anche nei casali della baronia le fiere costituivano una realtà
ben consolidata: così nei pressi di Martone vi era quella di San Nicola de Vatopedoni, presso l’omonima chiesa dell’antico e scomparso casale di Vatopedoni. La fiera, su cui vantava diritti di esazione Giovanni Battista Carafa, si teneva ogni anno la seconda domenica di giugno e durava due giorni:
«Item habet ius nundinarum in plano ecclesiae Sancti Nicolai de Vatopedoni, in circunferentiis casalis Martoni in secundo die dominico iunii
durant per duos dies»18.
15
A questo proposito si legga il passo della deposizione di un testimone riportato più
avanti nel corso del presente lavoro.
16
Cfr. D. PRATI, Mocta Sideronis, Tip. V. Fabiani, Siderno 1912, p. 33.
17
Infra, appendice, doc. 1, f. 208v.
18
Ivi, f. 210v.
16
In Martone vi era, inoltre, quella di San Giacomo che si svolgeva
presso un’antica chiesetta rurale. La ricorrenza aveva luogo il 26 luglio, in occasione dei festeggiamenti del santo titolare, ed era famosa
per la vendita dei prodotti in seta, giacché il periodo era proprio
quello della notricata.
Nelle campagne della baronia, sulla sponda destra del fiume Torbido era assai rinomata quella che si teneva ogni anno il 2 agosto
presso la chiesa di Santo Stefano Papa, ricorrenza celebre per la vendita dei prodotti in terracotta (agragni)19.
Data
giugno, 1a domenica
giugno, 2a domenica
2-3 luglio
luglio, 1a domenica
26 luglio
26 luglio
2 agosto
agosto, 1a domenica,
per 10 giorni
4 agosto
7-8 agosto
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Fiera
S. Caterina d’Alessandria
S. Nicola de Vatopedoni
S. Maria delle Grazie
S. Maria di Valverde
S. Anna
S. Giacomo
S. Stefano Papa
S. Maria delle Grazie
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Località
Motta Gioiosa
Martone
Motta Gioiosa
Grotteria
Motta Gioiosa
Martone
Grotteria
Motta Gioiosa
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SUCCESSIONE CRONOLOGICA DELLE FIERE ANNUALI
NELLA VALLATA DEL TORBIDO NEL SECOLO XVI
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Grotteria
S. Domenico
Motta Gioiosa S. Maria de Maratà
Note
scomparsa
scomparsa
in vita
scomparsa
scomparsa
scomparsa
in vita
scomparsa
scomparsa
in vita
Il fenomeno delle fiere nel territorio della vallata e, più in generale in quello dell’antica contea grotterese, per vastità e varietà, appare meritevole di essere analizzato per approfondire alcuni aspetti
legati alla conflittualità fra feudi diversi connessa alle fiere non solo
in Calabria, ma più in generale nell’intero Regno di Napoli durante
il XVI secolo.
19
L’esistenza di queste due ultime fiere mi è stata segnalata da Mons. Vincenzo Nadile
perché ne è giunta memoria fino ai giorni nostri. Tuttavia occorre precisare che, sebbene
le due chiese titolari delle festività esistessero già nel Cinquecento, le fonti coeve non
hanno attestato lo svolgimento di fiere dipendenti dalle stesse.
17
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Fig. 2. Formule conclusive e sottoscrizioni di un rogito del 4 febbraio 1559 riguardante
l’assegnazione di alcuni beni integrativi al signore di Motta Gioiosa, Giov. Vincenzo Crispano.
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II
Origine e cause di una centenaria vertenza
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Dopo un lungo periodo di unità e di accettabile amministrazione da parte di una lunga successione di feudatari più o meno
illuminati1, culminato nel dominio del conte di Terranova Marino
Correale (1458-1501), nel corso della prima metà del XVI secolo, la
baronia di Grotteria conobbe un’epoca di profonda decadenza originata sostanzialmente da complesse vicende personali che ne causarono ben presto il definitivo smembramento. Il feudo, infatti, passato in mano alla famiglia Carafa (1501) nella persona di Vincenzo
(† 1526) già signore di Castelvetere e Roccella, dopo un ventennio
di buona amministrazione, pervenne a Giovanni Battista Carafa (†
1552)2, suo figlio. Quest’ultimo, già durante i primi anni di dominio, si era seriamente indebitato, tanto che nel 1540 era stato costretto ad alienare con il patto della ricompra al nobile Giovanni
Gagliego i casali di Mammola e Agnana3. Fu proprio tale episodio a
dare il via al frazionamento della baronia. Nove anni più tardi, infatti, il Carafa, nel frattempo finito in prigione su denuncia dei suoi
vassalli per gli abusi e le violenze ad essi perpetrati, alienava Siderno
a Pirro de Loffredo4. Fino all’epoca dell’arresto (1548) i debiti del
1
Per la ricostruzione della successione feudale di Grotteria a partire dalla seconda metà
del XIII secolo, cfr. M. PELLICANO CASTAGNA, Storia de feudi... cit., vol. II, Cas-I, pp. 330339.
2
Sulla figura di questo importante personaggio decapitato nel 1552 cfr. l’interessante lavoro di F. CARACCIOLO, Il feudo di Castelvetere e i crimini del marchese Giovanbattista Carafa
negli anni del governo del viceré Toledo in «Archivio Storico di Calabria e Lucania», XII
(1973-74), pp. 17-56.
3
Ivi.
4
Ivi, p. 34.
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marchese di Castelvetere ammontavano alla somma di 20.000 ducati5. Durante i seguenti quattro anni le spese per la sua vana difesa
dilatarono il deficit a circa 60.000 ducati. Nel 1552 Giovanni Battista
Carafa veniva condannato a morte, sentenza che fu eseguita il 17
dicembre dello stesso anno, nonostante le suppliche di avere salva la
vita presentate da lui e dai suoi familiari6. Egli più che dei suoi crimini, fu vittima del particolare momento politico, caratterizzato
dall’intento delle autorità di ammonire e impaurire con un esempio
i baroni del Regno al fine di limitarne gli abusi.
Girolamo Carafa, figlio del giustiziato marchese, nel succedere
al padre dovette affrontare una situazione economica disastrosa. I
più importanti creditori del genitore erano due nobili napoletani, il
giovane Giovanni Vincenzo Crispano e Marco Antonio Loffredo.
Dopo la vendita di Agnana, Mammola e Siderno, nel 1555 il Carafa
si vide privare della proprietà di Gioiosa, assegnata con sentenza del
S.R.C. al Crispano7. Ad eseguire quanto decretato il tribunale nominò un commissario nella persona del nobile napoletano U.I.D.
Giovanni Felice Ciaulella. Questi, recatosi in Calabria, prese possesso della Motta e del suo territorio per conto del giovane napoletano. Ma, poiché il valore del feudo era inferiore alla somma accreditata, furono assegnate al Crispano anche le rendite di alcuni beni
posseduti in quella zona dal Carafa, fra i quali la foresta montana
di aglanda detta Sclavo, e alcuni corpi dell’antico feudo di Ragusia,
Ivi, p. 28.
Ivi, pp. 25-34.
7
La posizione di questo personaggio in merito alla proprietà di Motta Gioiosa risulta
controversa. C’è chi sostiene che egli, in virtù dei suoi crediti, fosse stato soltanto usufruttuario delle rendite della Motta la cui proprietà sarebbe rimasta al Carafa fino ad una
presunta vendita all’asta, verificatasi nel 1560 a favore di Gennaro Caracciolo; cfr. F.
CARACCIOLO, Il feudo..., pp. 34-35. La documentazione in mio possesso, tuttavia, evidenzia come il passaggio di proprietà della Motta fra Geronimo Carafa e Gennaro Caracciolo fu in realtà meno diretto di quanto asserito nelle fonti citate dal Caracciolo. Stando
a questi ultimi documenti, infatti, nel 1555 il Sacro Regio Consiglio assegnò a Giovanni
Vincenzo Crispano - e perché all’epoca minore di età al suo procuratore Marco Antonio
Loffredo - il possesso del feudo di Motta Gioiosa.
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che il marchese Giovanni Battista Carafa aveva acquistato negli anni
precedenti dal nobile gioiosano Simone Caracciolo8.
Nel 1557, in seguito ad istanza dei numerosi creditori, il marchese di Castelvetere si vide mettere all’asta la terra di Grotteria che
fu acquistata da Marco Antonio Loffredo per 42.000 ducati insieme
ai casali di Mammola, Agnana, San Giovanni e Martone ed i feudi
di Santa Maria delle Grazie e Romanò9. Nonostante il momentaneo
riaccorpamento di Mammola e Agnana in virtù del patto di ricompra, l’unità territoriale dell’antica baronia era stata definitivamente
frantumata: feudi come Mammola e Motta Gioiosa in seguito non
ne avrebbero mai più fatto parte.
Il frazionamento di uno stato in più entità autonome detenute
da diversi signori, diede ben presto origine ad una lunga serie di
controversie, legate essenzialmente al problema della definizione dei
confini fra i territori dei vari feudi e dunque alla divisione di beni
un tempo appartenuti ad un medesimo signore. Proprio in tale contesto ed epoca va collocata la nascita di una secolare vertenza fra i
feudatari di Grotteria e quelli di Motta Gioiosa per la determinazione del confine comune fra i due territori.
La vertenza insorse dopo l’acquisto di Grotteria da parte di Marco
Antonio Loffredo e il suo arrivo in città avvenuto nel giugno del 1558.
Di tale argomento mi sono occupato in modo approfondito in uno
studio specifico dedicato al feudo di Ragusia10. Qui mi limito a riferire che la controversia, insorta inizialmente fra il Loffredo e il Crispano, dopo una prima e momentanea vittoria di quest’ultimo11,
coinvolse a partire dalla fine del 1559 Girolamo Carafa e Gennaro
Caracciolo. Il primo in qualità di possessore del dominio diretto della
foresta di Sclavo pretendeva che i frutti della medesima, illecitamente
8
Questi era discendente dei Caracciolo Rossi, antichi conti di Gerace ed era vissuto a
Motta Gioiosa fino alla morte, avvenuta intorno dopo il 1545.
9
Cfr. F. CARACCIOLO, Il feudo..., p. 35.
10
Cfr. V. NAYMO, Ragusia da feudo rustico a centro abitato... cit., pp. 9-21; per l’arrivo del
Loffredo, ivi, p. 86, Motta Gioiosa 6 settembre 1560.
11
Cfr. Archivio di Stato di Napoli (=ASN), Sacro Regio Consiglio, inc. 43, f. 125r.
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incamerati dal Loffredo negli anni precedenti, fossero detratti dall’ammontare dei debiti che egli doveva a quest’ultimo; il secondo in
quanto nuovo signore di Motta Gioiosa ed erede dei diritti appartenuti a Giovanni Vincenzo Crispano, si vedeva contendere dal Loffredo un’ampia fascia di territori siti fra i fiumi Torbido e Gallizzi,
lungo tutto il confine comune fra i due feudi, un tempo appartenuti
a Grotteria, nonché il possesso della menzionata foresta di Sclavo, non
inclusa nell’apprezzo di grotterese del 1557 perché la sua rendita si
trovava assegnata al Crispano fin dagli anni precedenti.
Dopo quasi cinque anni di ricorsi in tribunale e di contrasti sul
luogo, presa visione delle deposizioni dei numerosi testimoni presentate dalle rispettive parti in causa, il 10 febbraio 1564, il Sacro
Regio Consiglio, emise una sentenza12 che avrebbe dovuto risolvere
definitivamente la vertenza. Questa dichiarava la foresta di Sclavo
facente parte del territorio gioiosano, perché a suo tempo esclusa
dalla messa all’asta di Grotteria, condannando di conseguenza
Marco Antonio Loffredo alla restituzione della medesima a Geronimo Carafa, suo legittimo proprietario. Con la stessa sentenza, inoltre, si ordinava la determinazione del confine comune fra i feudi di
Grotteria e Motta Gioiosa, a partire dal casale di Martone fino al
mare. La linea divisoria avrebbe dovuto seguire il corso del fiume
Torbido, includendo nel territorio gioiosano tutti i territori contesi
dal Loffredo, compreso il feudo di Santa Maria delle Grazie che, pur
essendo di proprietà di quest’ultimo, avrebbe dovuto restare parte
integrante di tale territorio. La determinazione in loco del confine
sarebbe stata affidata ad un commissario esperto che, su nomina
dello stesso S.R.C., avrebbe dovuto portarsi sul luogo per dare esecuzione al dettato della sentenza. Si trattava di una piena vittoria
delle argomentazioni di Geronimo Carafa e di Gennaro Caracciolo.
Quest’ultimo era frattanto deceduto lasciando erede il figlio Michele
in età minore e, dunque, sotto tutela della madre Lucrezia de Somma
e dello zio Antonio Caracciolo. Nonostante la prevedibile legittima
12
Ivi, ff. 348r-349r, 10 febbraio 1564.
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reclamatio opposta dal signore di Grotteria, il 1° giugno 156513, il
tribunale nominava il commissario nella persona del nobile geracese,
magnifico U.I.D. Giovanni Pietro Gagliardo. Questi, in ottemperanza di quanto decretato dal tribunale, nei giorni 25 e 26 giugno
dello stesso anno, alla presenza degli ufficiali di Grotteria e Motta
Gioiosa nonché di alcuni mastri fabbricatori e agrimensori, percorrendo metro per metro il territorio, fissò i termini fra i due feudi,
da Martone fino al mare, facendo edificare nei punti critici della
linea di confine sei pilastri divisori, di pietra e calce su ciascuno dei
quali fece incidere la seguente iscrizione: «M • G • 1565»14. I grotteresi, alla prima occasione di dissenso con l’operato del commissario Gagliardo, tenutosi peraltro in stretta osservanza del disposto del
S.R.C., per protesta abbandonarono la comitiva.
La sentenza del 1564 e la conseguente definizione dei confini
costituirono il primo punto fermo per la risoluzione della vertenza,
favorendo una relativa distensione nei rapporti fra i cittadini dei due
centri. Tuttavia, il reclamo presentato dal Loffredo, riaccese ben presto gli animi, rinviando di altri otto anni il definitivo epilogo della
lite, verificatosi soltanto con il rigetto delle opposizioni del Loffredo, la morte di quest’ultimo (1572)15 e la conferma della sentenza.
13
Ibidem.
Le due lettere costituivano le iniziali di Motta Gioiosa.
15
Marco Antonio Loffredo morì il 22 agosto 1572, cfr. M. PELLICANO CASTAGNA, Storia
dei feudi... cit., vol. II, Cas-Is, successione feudale di Grotteria, p. 335.
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Fig. 3. La vallata del Torbido da Santa Maria delle Grazie alla foce del fiume nella
carta di T. Rajola (1778) commissionata dal principe Vincenzo Carafa e edita in R. FUDA,
Formazione e immagine di uno stato feudale, Corab, Gioiosa Jonica 1995.
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