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2.3. La rappresentazione dei lussuriosi fra il XIX e il XX secolo
di Giulia Depoli
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«Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →
Nell’esplosione della fama di Paolo e, soprattutto, Francesca nell’Europa del xix secolo, gli artisti che si sono confrontati con la trasposizione
figurativa di Inf. v sono stati tanto sedotti dalla coppia riminese che «hanno relegato in secondo piano o cancellato del tutto il giudizio morale
implicato dall’Alighieri» (Battaglia Ricci 2018, p. 167). Del resto, autorevoli critici quali Ugo Foscolo scagionavano completamente la bella
fanciulla del secondo cerchio: Dante l’avrebbe collocata all’inferno solo per obbedienza ai dettami della Chiesa e per tutelarsi da un Gianciotto
ancora vivo e vegeto e possibilmente vendicativo, «but he introduces her in such a manner, that human frailty must pity her. Nature had given to
her character the poetic cast» (Foscolo 1818, p. 346). Nel moltiplicarsi delle illustrazioni dedicate al soggetto, dunque, scompaiono
progressivamente gli elementi strettamente infernali, pressoché onnipresenti nelle rappresentazioni medievali e rinascimentali, lasciando spazio a
una commovente storia di amore e morte e alla trionfale bellezza dei due amanti sfortunati. In questo processo, la prima metà del canto viene
sostanzialmente eclissata dallo spazio figurativo insieme ai suoi protagonisti, ovvero la «schiera ov’è Dido» (Inf. v, 85) e, con lei, «più di mille /
ombre» di illustri lussuriosi puntualmente identificati da Virgilio. Mentre si consolidano diversi moduli iconografici interamente dedicati alla
coppia (il bacio della storia seconda, la morte, l’ascensione di fronte al pellegrino) gli altri dannati, cui Dante dedicava ben quattrodici terzine (Inf.
v, 31-72), nei rari casi in cui sono ancora presenti vengono relegati a una posizione del tutto marginale. Ne è un esempio il dipinto di Ary Scheffer
datato intorno al 1835, in cui il riflettore è puntato su Paolo e Francesca e sulla reazione di Dante e Virgilio alle loro parole, mentre gli altri
lussuriosi sono ridotti a un fondale indistinto sul lato destro del quadro, appena abbozzati e completamente messi in ombra [fig. 1].
Un notevole ridimensionamento, se pensiamo che i primi illustratori della Commedia dedicavano addirittura un’intera tavola alla sola visione
della schiera infernale. Tra gli esempi più celebri, si possono ricordare il codice Italien 2017 (f. 63v) della BNF e i codici Egerton 943 (f. 10v) e
Yates Thompson 36 (f. 9r) della British Library. Nell’Ottocento, l’unico caso notevole del recupero di questo modulo è la seconda tavola che Paul
Gustave Doré dedica al canto [fig. 2], in cui una gigantesca scia di anime riempie il cupo orizzonte infernale contemplato da Dante insieme alla sua
guida, snodandosi a perdita d’occhio.
Nei pochi casi in cui la caotica schiera dei lussuriosi è presente, il tasso di identificabilità nelle rappresentazioni moderne è variabile, ma è per
lo più rara una descrizione specifica per «le donne antiche e ’ cavalieri» menzionati da Dante. Un espediente che ricorre in alcuni dipinti
ottocenteschi, già sperimentato con frequenza nelle miniature medievali, è quello delle corone che distinguono dalla turba indefinita tutte o alcune
delle tre regine ricordate da Virgilio ai vv. 52-63. L’assoluta preminenza di queste figure è un dato interessante: mentre nel testo dantesco sono
indicati anche Elena, Achille, Paride e Tristano, quasi sempre solo le prime tre lussuriose vengono rilevate nell’iconografia. Non si tratta
semplicemente di riprodurre lo spazio che a ciascun personaggio viene dedicato dal poeta; se così fosse, Cleopatra passerebbe in secondo piano
rispetto a Elena e ad Achille, eppure la regina attrae molto più gli artisti per la memorabile icasticità della sua morte, che Dante nemmeno
menziona. Si veda a tal proposito il dipinto del 1876 di Andrea Cefaly, pittore di formazione napoletana [fig. 3]. In questo caso, in un paesaggio
arido sotto un cielo plumbeo, fra i corpi lividi svettano cromaticamente le corone dorate di due regine, rilevate anche dai colori accesi dei drappi
che le coprono. Se la donna sul lato sinistro, tesa in avanti alla ricerca di un appiglio impossibile da trovare nel groviglio di corpi squassati dal
vento, resta di difficile identificazione, è invece immediato il riconoscimento di Cleopatra nella sovrana in rosso, sul cui seno destro si intravede la
coda dell’aspide mortale.
Un’eccezione significativa alla generale scarsa attenzione per gli illustri dannati è il Dante e Virgilio nel secondo cerchio dell’Inferno di Joseph
Anton Koch (1823) [fig. 4]. Il pittore dimostra in realtà una più diffusa tendenza didascalica a rappresentare i diversi snodi del canto v in un
medesimo pannello, non diversamente da quanto proponevano autori come Stradano nel Cinquecento, in un ordine che va dal fondale al primo
piano con un andamento serpentino. Sullo sfondo, peraltro, a introdurre la scena del giudizio di Minosse compare anche il passaggio dal prato degli
Spiriti Magni alla «parte ove non è che luca» menzionata alla fine del canto precedente (Inf. iv, 151). La porzione centrale dell’opera è occupata dai
lussuriosi sospinti da demoni e nubi tempestose, da cui emergono Paolo e Francesca, riconoscibili per l’abbigliamento più moderno, per l’abbraccio
e per la maggiore prossimità a Dante e Virgilio, collocati in preminenza. In questa riproduzione delle sequenze del canto che portano dall’ingresso
al dialogo con gli amanti di Rimini, non manca l’individuazione delle regine, posizionate sotto a Francesca. Le donne sono in questo caso ben
identificabili: Didone siede sul rogo e si punta la spada al collo, Cleopatra porta l’aspide al seno e Semiramide viene ritratta nelle vesti maschili con
cui, secondo la tradizione riportata da Giustino, avrebbe preso il potere al posto del figlio Nino (Orosio invece, la fonte di Dante, si limita a
definirla «virum animo, habitu filium gerens» I, iv 4). Si noti come, ancora una volta, tutti i dettagli identificativi non provengano in alcun modo
dal testo dantesco che l’artista illustra: solo di Didone si menziona la morte, qui inscenata, ma senza il dettaglio delle modalità che invece si
trovano rappresentate nel dipinto di Koch. Anzi, la riconoscibilità iconografica delle regine tramite questi elementi è stata senz’altro privilegiata
anche a scapito della resa della dinamica del canto: pur di inserire la pira, Didone viene goffamente sottratta alla bufera per essere bloccata in una
posizione statica sul terreno, così come Cleopatra, che completa il gruppo appoggiandosi alla stessa legna. Si tratta di una scelta rarissima, quasi
mai impiegata dagli artisti che hanno voluto cimentarsi con questo canto così caratterizzato dal travolgente moto di corpi nel vento, fonte di
inesauribili fantasmagorie di incastri anatomici sospesi nell’aria.
Questa tendenza, come si anticipava, è senz’altro minoritaria. Nell’iconografia dantesca moderna, prevale senza dubbio la scelta di dipingere la
schiera come massa anonima di uomini e donne, spesso completamente privi di abiti o di qualsivoglia altro segno distintivo. Prima dell’opera di
Gustave Doré, un esempio notevole di questa modalità è l’acquerello dedicato ad Inf. v di William Blake, che fra 1824 e 1827 realizzò centodue
illustrazioni per la Commedia in un progetto interrottosi a causa della morte dell’autore [fig. 5]. La critica ha rilevato con puntualità come tale
raffigurazione di Paolo e Francesca «si allontani notevolmente, e profondamente, dal testo dantesco» (Battaglia Ricci 2018, p. 185) a causa del
disaccordo di Blake con la condanna dell’amore carnale operata dalla Chiesa: basti uno sguardo alla storia seconda del bacio galeotto, promossa
addirittura entro una mandorla luminosa e accecante. È il trionfo di quella che Farina (2013) definisce come una «Francesca eroina», bellissima e
innocente fanciulla innamorata protagonista di una storia d’amore e morte che ha appassionato i lettori romantici e non solo, mettendo del tutto in
secondo piano la condanna morale di Dante. Lo stesso, credo, può dirsi anche per la rappresentazione del sinuoso vortice di dannati che, «faccendo
in aere di sé lunga riga» (Inf. v, 47), scorrono sotto ai pellegrini oltremondani. Anzitutto, la stilizzata nudità rende ogni figura virtualmente identica
alle altre, tutte trasfigurate in corpi ideali di amanti ideali, giovani e belli nelle eteree proporzioni quasi classicheggianti. Ma è la sintassi con cui
sono articolati i corpi ad essere diametralmente in contrasto con le pene infernali inflitte dalla penna di Dante: non più uomini e donne contorti,
disordinatamente sbattuti «di qua, di là, di su, di giù» (Inf. v, 43) e incastrati fra loro, ma flessuose anime che sembrano quasi danzare en l’air in
un’aggraziata e armonica coreografia. Meritano uno sguardo anche i volti, dall’espressione trasognata se non sorridente, ben lontana dagli strazianti
lamenti e dalle bestemmie così intensamente descritti nella Commedia. Un mistico trionfo di un amore eterno, insomma, che attraverso la carnalità
permette di sfiorare il divino nella caratteristica interpretazione di Blake.
L’indistinzione dei dannati non è, però, sempre trasfigurazione idealizzante. Vive parallelamente negli artisti anche l’ambizione a rappresentare
i lussuriosi come creature che hanno perso tutto fuorché il proprio corpo martoriato, ormai riconoscibili solo come peccatori e non più come
individui. Se da un lato questo va a sacrificare la sezione del canto in cui Virgilio segnala a Dante i più illustri, dall’altro è una visione più
‘ortodossa’ delle anime infernali, che di fatto non dovevano essere più riconoscibili agli occhi del pellegrino (di cui si adotta il punto di vista) che
ne chiede l’identità alla guida. Gli illustratori del xx secolo si sono spesso cimentati nel rendere tale confuso groviglio accomunato dal peccato e
dalla lontananza della grazia divina; ci si limita qui a due casi.
Nel Paolo e Francesca di Gaetano Previati del 1909 [fig. 6], il taglio della scena è ristretto sugli amanti riminesi, situati però ancora nella
bufera insieme agli altri lussuriosi. La sinuosità del vortice è solo apparente, spezzata al suo interno dagli angoli acuti formati dagli arti dei dannati
contratti dal dolore. I corpi, che appena si intravedono delinearsi nel magma continuo di carne, mostrano di essere tesi e contorti in una catena
umana nella pena infernale, e una figura sotto Paolo rovescia il capo all’indietro per urlare la propria agonia. Anche i protagonisti, per quanto uniti
dall’affettuoso abbraccio, portano i segni di una faticosa contrazione nell’essere trascinati dal vortice che li drappeggia. I «peccator carnali»,
dunque, non sono più regine, cavalieri ed eroi del mito, ma semplici uomini e donne dalle irriconoscibili sembianze sconvolte dal dolore,
scomodamente avvinghiati tra loro in un’indistinta massa sofferente.
L’arte contemporanea ha portato agli estremi questo processo, in ultima analisi, disumanizzante. Ne è un esempio l’impressionante
trasposizione visiva di Bernhard Gillessen, artista di origine tedesca naturalizzato italiano [fig. 7]. Come Doré sceglie di realizzare più illustrazioni
per il canto, in una sequenza quasi cinematografica, ma le sue soluzioni non potrebbero essere più lontane dalle realistiche incisioni del celebre
predecessore. Anzitutto, la prospettiva è invertita: non ci troviamo più con Dante sulla rupe a osservare i dannati in lontananza, ma nel bel mezzo
della schiera, in tutto il suo caotico dinamismo. È appunto il caos la cifra stilistica della resa, che darebbe allo spettatore l’impressione, quasi, di
una scena di guerra alla Guernica, se non fosse per il delicato abbraccio di Paolo e Francesca che emerge appena dall’intrico di linee e forme
spezzate. I protagonisti del canto si distinguono solo per essere gli unici corpi rappresentati nella loro completezza, circondati da dannati di cui non
restano che brandelli scomposti e completamente destrutturati. Ma non è dato vero rilievo alla coppia, che è quasi inghiottita dal magma di linee e
forme spezzate, segmenti anatomici in continua collisione su direttrici che davvero ricordano la violenza della rapinosa bufera evocata da Dante.
Non c’è spazio per alcun idillio romantico o simbolista: nell’orgiastico intreccio di corpi, si riescono a intuire qua e là solo volti urlanti, torsi
ripiegati su sé stessi, seni e genitali confusamente combinati, in un vero e proprio contrappasso: così in vita, così in morte, con drammatica
inversione di segno ma medesima riduzione alla carne di uomini e donne che hanno rifiutato l’ordine divino. Paolo e Francesca, individuati fra
molti nel testo dallo sguardo di Dante e nell’illustrazione da chi la osserva, non prevalgono, e la loro struggente passione è pienamente inserita e
contestualizzata nel peccato della lussuria, che invade la tela con violento e inedito predominio.
Bibliografia
L. Battaglia Ricci, Il commento illustrato alla Commedia: schede di iconografia trecentesca, Roma, Salerno, 2001.
L. Battaglia Ricci, Dante per immagini: dalle miniature trecentesche ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2018.
F. Farina, ‘Dall’inferno al paradiso: appunti sulla trasformazione di Francesca da Rimini nelle arti visive tra xv e xx secolo’, in Women in Hell.
Francesca & Friends Between Sin, Virtue and Heroism, Rimini, Romagna Arte e Storia, 2013, pp. 207-226.
U. Foscolo, ‘Secondo articolo’, The Edinburgh Review, xxx, 1818, pp. 317-351.
G. Ghirardini, Iconografia dantesca del pittore Giuseppe Antonio Koch, Valdagno, Galla, 1904.
S. Schütze, Due maestri del «visibile parlare»: Dante e Blake, in Id. e M.A. Terzoli (a cura di), William Blake. La Divina Commedia di Dante,
Colonia, Taschen, 2017, pp. 40-65.