Ortodossia ed eterodossia in Dante
Alighieri
Atti del convegno di Madrid (5-7 novembre 2012)
A cura di
Carlota Cattermole, Celia de Aldama,
Chiara Giordano
Ediciones de La Discreta
Colección Bártulos 13
1ª edición: mayo de 2014
© Los autores
© Ediciones de La Discreta S.L.
Coordinación editorial: Ediciones de La Discreta
Diseño gráfico: Ediciones de La Discreta
Diseño de cubierta: Ediciones de La Discreta
Ilustraciones de cubierta:
Josep Llimona, La Juventud, 1913, Museu Nacional d’Art de Catalunya, Barcelona
Dante Gabriel Rossetti, Oil on panel, 1859, National Gallery of Canada, Ottawa, Ontario
ISBN: 978-84-96322-66-0
Depósito legal: M-11129-2014
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DA PETRARCA A DANTE ATTRAVERSO IL COMMENTO
DEL LANDINO (UNA TAPPA DEL PERCORSO
VERSO L’ORTODOSSIA TRIDENTINA)
CRISTINA BARBOLANI
Conviene anzitutto chiarire il rapporto fra il titolo e il sottotitololo
del presente intervento. Come ha osservato giustamente uno stimato
collega (Varela-Portas 2010: 22-25), i concetti di ortodossia/eterodossia sembrano inappropriati o almeno imprecisi per Dante, la cui fede,
salda senza dubbio, rimane però difficile da definire entro il complesso mosaico delle teologie medievali coeve. Come dire che manca una
unità di misura quale avrebbe approntato, oltre due secoli dopo Dante,
il Concilio tridentino che fissò quel sistema di dogmi tuttora vigente
nel cattolicesimo; sistema nel quale posso riconoscermi per la formazione giovanile ricevuta (deformazione, se preferite!). Tuttavia è proprio da questo anacronistico punto di partenza che intendo affrontare
il percorso indicato dal titolo, incoraggiata da una affermazione letta
in un libro importante ‹‹Visitare il mondo di Dante da pagani equivale
a visitarlo da stranieri›› (Gilson 1985: 173) ma anche dall’esempio, non
letto ma presenziato molti anni fa, di un compianto maestro che, a
volte, cercava di sperimentare di persona il vissuto dell’autore che in
quel dato momento stava studiando.1
Possiedo dunque qualcosa in comune con Dante: quel cristianesimo
‘ortodosso’ che, fra l’altro, viene ribadito tuttora nel mondo cattolico;
per esempio, nel recente volume collettaneo Dante e i papi che racco781
Cristina Barbolani
glie gli Atti di una giornata di studi danteschi tenutasi alla LUMSA,2 un
saggio di Mario Scotti osserva che da parte del papa Paolo VI
non era […] una forzatura celebrare Dante come il poeta principe del
cristianesimo, il figlio di cui era orgogliosa la Chiesa […] l’intento non
era polemico ma parenetico: mirava a sollecitare il mondo cattolico a
conoscere […] il poema che dava potente espressione alle verità della
fede cattolica e proiettava la storia umana sullo sfondo dell’eterno
(Scotti 2009: 30).
Non si trattava, precisa lo Scotti, di sottrarre Dante ad altre impostazioni critiche ‘laiche’; comunque, intenzionale o no, questa appropriazione risulta un dato di fatto poco discutibile.
In quanto poi a Cristoforo Landino (1425-1498), presente nel titolo di questa relazione accanto a Petrarca e a Dante, tralascio la coincidenza puramente aneddotica di essere nata in Toscana,3 non lontano
dal suo paese natale; ma anche a prescindere da ciò, non mancano
ragioni personali per questa scelta. Si tratta infatti di un autore particolarmente vicino al mio ambito di ricerca, non specificamente medievalista, ma incentrato ormai da tanti anni sul Rinascimento e
sull’Illuminismo, per cui sarà (spero) più agevole render conto di come
sia stato letto e commentato il capolavoro dantesco nella Firenze
medicea.
Ebbene, che ruolo dobbiamo attribuire al commento landiniano nei
riguardi dell’ortodossia pre-tridentina? Come ipotesi iniziale, mi è
sembrato credibile che abbia contribuito non poco a far considerare
Dante, oltreché theologus nullius dogmatis expers,4 anche (e soprattutto)
esemplare e devotissimo figlio della Chiesa.
In quest’ordine di cose, nel ricco patrimonio della nostra Biblioteca
Histórica Complutense ho potuto consultare alcuni esemplari della
Commedia col commento del Landino, stampata insieme al Credo ‘di
Dante’, il Paternostro ‘di Dante’, l’Avemaria ‘di Dante’: preghiere che
sappiamo che non sono sue, ma a lui attribuite. Si tratta di tre edizioni: due della fine del Quattrocento e una cinquecentina. Delle due più
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Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
antiche, veneziane, la prima, del 1491,5 è in condizioni assai deteriorate; la seconda, di più agevole consultazione,6 stampata a distanza di
due anni, dimostra che l’opera aveva avuto successo immediato. Ma la
cinquecentina dello stesso testo, anch’essa veneziana,7 indica che ben
45 anni dopo si continuava a sfruttare il prestigio del commento landiniano nella formula miscellanea di poesia, erudizione teologica,
devozione e professione di fede, il tutto riunito in un unico volume
con criterio prettamente contenutistico-dottrinale e proprio di un
clima ormai pre-tridentino.
Peraltro le tre preghiere attribuite a Dante non meritano la stessa
considerazione. Diversamente dal Paternostro e dall’Avemaria,8 la
meno dantesca è proprio la professione di fede: nessun Credo di
Dante, malgrado l’articolo recente che porta proprio questo titolo
(Bianco 2006),9 è ricavabile dalla compagine del poema. Anzi, malgrado la presenza esibita di numerosi ingredienti danteschi, è accertato
che questo Credo in terzine, forse di Antonio da Ferrara (che scrisse
anche un’esposizione dei sacramenti, del decalogo, dei vizi capitali, del
Paternostro e dell’Avemaria) fu ‹‹spesso stampato come opera dantesca››, e ‹‹sorse da una viva ammirazione per Dante e allo stesso tempo
dalla volontà di difendere la sua ortodossia messa in dubbio››. Con profusione di ulteriori notizie e di aneddoti al riguardo, è questa la schedatura di Mario Aurigemma ad vocem «Credo» nell’Enciclopedia Dantesca
(1970: 255). Giova ricordare anche che la questione del Credo o simbolo niceno occupò proprio le prime sessioni del Concilio di Trento e
fu da esso stabilito, nella forma in cui si recita ancora nell’attuale rito
cattolico, proprio in quella sede, nella terza sessione, del 4 febbraio
1546.10 Ebbene, nella falsa attribuzione a Dante del Credo, assai più
che in quella delle altre due preghiere devote, possiamo osservare l’intenzione interessata di liberare il poeta da qualunque sospetto di eterodossia, per una più agevole appropriazione dell’opera dantesca da parte
delle gerarchie ecclesiastiche di quel momento.
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Cristina Barbolani
Non può peraltro stupire che tale finalità appaia contemporaneamente anche in area ispana, come si può constatare nell’iniziativa di
mandare alle stampe, nel 1515 (data equidistante, si badi, fra la prima
e l’ultima delle edizioni citate, dal 1491 al 1536), la peculiare traduzione dell’Inferno in metrica autoctona di Pedro Fernández de Villegas.
Conviene ricordare che già la anteriore traduzione spagnola dell’intero
poema, manoscritta, datata ai primi del Quattrocento e attribuita a
Enrique de Villena, appariva seguita dalle stesse preghiere,11 oltreché
da un sonetto del Petrarca, con una profusa interpretazione e relativo
commento, che recentemente è stato oggetto di accurato studio
(Rubio Tovar 2005). Lo scopo edificante e dottrinale di quella prima
versione quattrocentesca castigliana (scritta ai margini del poema originale) è evidente: all’inizio dell’Inferno l’intestazione prolissa in latino
«Jncipit Comedia Dantis Allegerij Florentini in qua tractat de penis et
punitionibus vitiorum et de meritis et premijs virtutum. Cantus primus
quo canet infernoet in ista prima parte Auctor facit prohemjum suum
super toto opere» viene così riportata a piè di pagina in volgare italiano: ‹‹Incomincia la comedia di dante aldighieri: nela quale tracta dele
pene e punimenti di uicij et di meriti et di premij dele virtudi Canto
primo dela prima pte la quale si chiama Jnferno nel quale l’auctore fa
proemjo a tutta lopera››.
Senza intenzione di sconfinare nel comparatismo, non sarà inutile
tuttavia ricordare che press’a poco contemporaneo a questo manoscritto madrileno è il commento (1415) di Giovanni Bertoldi da
Serravalle, che accompagnò la prima versione in latino della Commedia,
il cui preambolo iniziale recita senza ambagi:
Primum preambulum est, quod tota et totaliter intentio auctoris in
hoc libro est et fuit, homines vitiosos, peccatores et in scelerum sordibus defedatos, seu deturpatos, ab ipsis vitiis et sceleribus retrahere,
et reducere ipsos ad virtutes et ipsarum opera, atque ad penitentiam
faciendam, ut, penas eternas sufficientem notitiam vitiorum, scelerum
et peccatorum, penarum et tormentorum, que talia agentibus a iusto
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Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
iudice tribuuntur, dicente Cassiodoro in libro Variarum […]
(Commenti 1999).12
Ma questo francescano eruditissimo, vescovo di Fano e di Fermo, ci
interessa ora anche perché nel suo commento fa trasparire chiaramente la sua ammirazione per il Petrarca, che cita varie volte, ma in modo
particolarmente elogiativo a proposito di Pd. I, 34-36 in cui attribuisce
a Dante un ruolo profetico assai singolare, che concerne l’eccellenza
poetica:
Parvam favilla grandis fiamma sequitur; forsan retro me cum melioribus
vocibus deprecabuntur, ad hoc ut Cirra respondeat, idest respondere
dignetur- Vult dicere auctor, quia textus fortis est: Ego humiliter
loquens, parvam favillam, scilicet scientie poetice, excitavi, que erat
quasi extincta; sed forte post me, qui hoc opus facio, veniet aliquis,
qui invocabit te melius quam ego, quia faciet melius opus,13 et sic
implebitur voluntas tua, quia tu vis quod multi sint boni poete et theologi, et hoc appetis. Quasi dicat: Ego deficiam morte, et alius veniet post me,
qui erit dignus coronari ramo tuo. Vere hec fuit vera prophetia, quia post hoc, idest
post completum librum istum, satis cito mortuus est auctor, quem subito secutus
est dominus Franciscus Petrarcha, qui fuit eloquentior Dante; sed Dantes erat
sapientior eo. Dante non laureato, morte prevento, ipse dominus Franciscus fuit
florens poeta et laureatus (corsiva mia) (Commenti 1999).
Era cominciato, come vediamo, il confronto assiduo e continuo fra
i due grandi toscani, di cui ora interessa evidenziare che veniva concepito tra l’altro nei termini di una stretta associazione valutativa fra
opera e autore, espressa dal Landino nella sua Prolusione petrarchesca:
‹‹Né crederrò io mai che chi è negligente nello scrivere sia diligente ne’
raccorre la verità›› (Landino 1974: 39). Si tratta di un legame indissolubile su cui insiste l’incipiente umanesimo, e che sarà in seguito una
costante nel classicismo, dal Bembo all’Alfieri.14 Opera esemplare
coincide con autore esemplare, o almeno dovrebbe coincidere.
Petrarca, come è noto, aveva avuto i suoi dubbi al riguardo, espressi
nella tarda lettera (1373) delle Senili XV, 11 a Benvenuto da Imola:
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Cristina Barbolani
Pur troppo, e sono io il primo a dirlo, soventi volte vituperevole è il
linguaggio dei poeti. E qual meraviglia, se spesso vituperevole è ancora la vita loro? E da questo che avrassi a concludere? Senza che io lo
dica, tu già mi intendi. Colpa è questa non della poesia, ma dei poeti:
nè raro è l’abuso delle ottime cose. Sappiamo che famosi teologi insegnarono l’eresia, e filosofi morali sozzarono la vita loro di turpi costumi. Non l’arte, ma chi dell’arte si serve male, di ciò si deve accagionare. Non ho ritegno di dirlo: se a coltivar la poesia si volga un ingegno buono e divoto, essa è degna di sollevarsi fino alle lodi di Cristo,
e all’esaltazione delle verità della fede (cit. in Frasso 2001: 163-164).
Ma inoltre per l’autore dei Triumphi, che forse in quel momento pensava a Dante, l’innocenza dell’arte, postulata più che dimostrata, consentiva di conciliare il cristianesimo con il mondo classico, come appare nell’importantissima lettera al fratello Gerardo nella quale, dopo
aver citato grandi poeti sia dell’Antico Testamento biblico sia della
classicità, il Petrarca finiva per paragonare le verità della religione a un
cibo spirituale che, se è apprezzabile di per sé anche dentro un modesto recipiente di argilla, non diventa da buttare se presentato in un
piatto d’oro: l’oro non toglie nulla alla verità del contenuto, per cui non
bisogna diffidare a priori della poesia: ‹‹Laudare dapem fictilibus appositam, eandem in auro fastidire, aut dementis aut ypocrite est. Avari est
aurum sitire non posse pati pusilli animi est; non fit auro melior cibus
certe, nec deterior›› (cit. in Frasso 2001: 162).
Di conseguenza il Petrarca, privo di dubbi sull’eccellenza della propria opera letteraria, doveva costruire una sua figura esemplare da tramandare ai posteri, esibendosi come persona di quella vita ineccepibile di cui egli stesso offrí la falsariga ai biografi futuri con la famosa epistola Posteritati, dalla quale conviene citare per esteso un passo assai
significativo di tale autopromozione:
Ond’io nacqui in Arezzo nell’esiglio, all’aurora del lunedì primo agosto 1304. Spregiai altamente le ricchezze; non perchè non le curassi,
ma perchè mi veniano a fastidio le fatiche e le brighe che ne sono
inseparabili compagne. Nè meno mi diedi cura di tesoreggiare, per
aver modo ad imbandire splendide mense; dappoichè, contento ad un
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Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
sobrio vitto ed a cibi comuni, vissi assai meglio che non i successori
d’Apicio con tutta la squisitezza di loro vivande. Quelli che si chiamano conviti, e non altro sono che stravizzi, contrarii alla temperanza e al buon costume, ognora mi spiacquero, e stimai cosa non meno
increscevole che vana sia l’invitare altri, sia l’esserne invitato, frattantochè il sedere a mensa cogli amici mi cagionava tanta dolcezza che
nulla m’avessi di più caro; ma, solo, di mia volontà non avrei preso
mai cibo. Al lusso poi non tanto fui avverso perchè sia mala cosa e
nemica dell’umiltà, ma sì ancora per le malagevolezze che incontrano
nel seguitarlo e l’interrompimento della quiete che apporta.
Potentissimo fu l’amore ond’ebbi travaglio nella giovinezza, però
unico ed onesto; più lunga guerra mi avrebbe dato, ove una morte
dolorosa sì ma utile non avesse estinto il fuoco che già rattiepidiva. Ed
oh foss’io stato libero d’ogni cupidigia di sensi! Ma mentirei, se il
dicessi; affermerò solamente che, quantunque il fervore dell’età e
della complessione mi trascinasse al piacere, sempre il mio pensiero
ebbe a schifo cosiffatte turpezze. E non appena toccato il quarantesimo anno, mentre ancor mi sentiva vigoroso e robusto, di tal guisa
m’uscì dall’animo ogni sconcio appetito che ne perdetti sin la memoria, come se non avessi mai guardato donna. Il che annovero tra le mie
più singolari venture e ne ringrazio Iddio […] (in rete).
Dunque, se aveva peccato, se ne era assai pentito, come riferisce
anche in una epistola delle Senili (VIII, I) a Boccaccio.15 E se la frugalità e la temperanza suggeriscono un profilo esemplare laico e stoico,
quale sarà sfruttato nelle biografie posteriori (come quella del Bruni
che lo esalterà come civis), questi pentimenti che cancellano le colpe
umane sono assolutamente di tipo confessionale (in entrambi i sensi);
donde l’insistenza pre-tridentina su questa religiosità del Petrarca, la
cui figura vediamo magnificata come perfetto cristiano, non solo all’epoca delle rime spirituali cinquecentesche ma, a quanto pare, fin da
prima della sua morte.
Ebbene, questa esaltazione tendente all’agiografia verrà applicata
parimenti alla figura di Dante, autore di un egocentrismo, non certamente inferiore a quello del Petrarca, ma senz’altro meno propenso
all’esibizione del suo mondo più intimo, e quindi meno direttamente
responsabile della propria leggenda. Comunque sia, per opera propria
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Cristina Barbolani
e/o altrui, nel Quattrocento i due grandi toscani venivano inevitabilmente abbinati, confrontati, entrambi sottoposti a postuma mitificazione, sia dal lato stoico-politico (ricordiamo che il Bruni scrisse la biografia di entrambi) sia da quello religioso. E se la prima impostazione
prevalse nell’Umanesimo che è stato chiamato ‘civile’, la seconda
acquistò preponderante vitalità nella seconda metà del secolo. Come
verifica di ciò, possiamo osservare il criterio con cui viene considerata
la vita amorosa di Dante: il Bruni in polemica col Boccaccio aveva sorvolato su tali episodi indegni di un ‹‹tanto uomo››;16 l’umanesimo del
tardo Quattrocento (e nella fattispecie il Landino) preferirà invece
interpretarli in chiave platonica. Nella Vita e costumi del poeta che precede il commento landiniano, mediante l’idealizzazione dell’amore per
Beatrice, ivi sostenuta, si riapre la possibilità della lettura (fino allora
sconsigliata) della Vita nuova, che non avrà un’edizione a stampa fino
al 1576 (Firenze, Bartolomeo Sermartelli).
La nuova riabilitazione di Dante era inoltre formale e linguistica: da
poeta criticato, come sappiamo, da un settore del primo Umanesimo
per non aver scritto il poema sacro in latino (nei Dialogi ad Petrum
Histrum), diventava un autore di culto col recupero del prestigio della
letteratura volgare, oggetto della promozione medicea da parte del
Magnifico, come dimostra la sua iniziativa della Raccolta aragonese. E
se qualche problema poteva porsi per le idee politiche di Dante, che
non sempre potevano venire accettate pacificamente, meno discutibile era la sua fede, considerata meno sovversiva in quanto ormai lontana dalle controversie medievali. Il Monarchia, benché tradotto in volgare da Marsilio Ficino nel 1467, non sarà bruciato in piazza come nel
1329, ma rimarrà comunque sospettoso, se pensiamo che Dantis
Monarchia figurerà nel primo Index Librorum prohibitorum del 1559 (in
rete), come unica opera dantesca condannata. Migliore fortuna doveva avere ovviamente il profilo cristiano di Dante già tracciato dal
Bertoldi, che poteva quindi venire sfruttato dall’Accademia ficiniana,
impregnata di una religiosità assai vaga, in funzione di una lettura platonico-cristiana del poema sacro che apparisse senz’altro meglio in
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Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
consonanza con gli aspetti più ortodossi del poeta. Il Dante teologo
già suggerito dall’elogio funebre di Giovanni del Virgilio veniva riproposto da una nuova angolazione, come cercheremo di vedere.
La formula con cui era possibile all’epoca del Landino e
dell’Accademia ficiniana un recupero totale della figura di Dante doveva essere quella dell’equiparazione del bello al buono, o del bellissimo
all’ottimo. Faceva inoltre buon gioco considerare il sacro cristiano e il
profano stoico suscettibili di coincidere in quello che era il fulcro centrale dell’argomentazione landiniana: l’indiscutibile valore supremo
della poesia (comune, ovviamente, a Petrarca e a Dante). Secondo il
Landino l’eccellenza del Petrarca, pur senza escludere l’idea platonica
dell’ispirazione, del furor,17 era dovuta specialmente al fatto di essersi
situato come punto d’approdo della sua perfetta conoscenza e assimilazione dei classici, preparato quindi per iniziare una nuova via futura.
E parimenti, l’eccellenza di Dante (sempre senza escludere il furor) gli
sarebbe venuta dall’essersi appropriato di tutta la poesia antica, profana ma anche sacra, e di averla ricreata in modo nuovo, in un’altra lingua,18 per cui poteva essere considerato il vero fondatore della letteratura volgare, il vero modello da proporsi ai giovani.
Tale argomentazione ha le sue basi teoriche nella Prolusione dantesca
(anteriore al Comento), e nella Praefatio in Virgilio, in cui il Landino propone l’identificazione del teologo con il poeta, o detto altrimenti promuove il sublime poeta al rango di teologo, come prima di lui aveva
affermato il Boccaccio, citando Aristotele, sebbene con molte riserve.19 Ma il discorso landiniano, con assai meno scrupoli, si appoggia
su tre puntelli, dei quali il primo (in parte ispirato al pensiero del
Ficino, autore anche di una Concordia Mosis et Platonis) sostiene l’equivalenza fra poeta e teologo, in base al fatto che quest’ultimo viene definito come colui che utilizza le tre facoltà dicendi, delectandi e permovendi,
nel modo migliore:
Quin, si verius loqui et Aristotelis sententiam sequi volumus, nil aliud poeta est
quam theologus. Facultas vero oratoria neque quantum acuminis in
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Cristina Barbolani
dicendo neque quantum suavitatis in delectando neque postremum
quantum vehementiae in permovendo habeat, antea ostendit quam
orationes Ulyssis et Phoenicis20 aliorumque heroum poetico carmine
expressae essent. Sed quid plura de Graecis, cum apud Hebraeos
populum, ut ipsi volunt et nos concedimus, omnium antiquissimum,
David eorum rex quos Psalmos appellant carmine scripserit? (corsivo
mio) (Landino 1974: 22).
Il secondo gioca altresì sull’equivalenza fra creare e poiein, per cui
Dio è poeta ed è il mondo suo poema:
Ed e’ Greci dissono poeta da questo verbo ‘poiein’, el quale è in mezo
tra creare che è proprio di Dio quando di niente produce in essere
alcuna cosa, e fare, che è degl’ uomini in ciascuna arte quando di
materia e di forma compongono. Imperò che, benché el figmento del
poeta non sia al tutto di niente, pure si parte dal fare e al creare molto
s’appressa. Ed è Iddio sommo poeta, ed è il mondo suo poema››
(Landino 1536: pagina non numerata).
Il terzo puntello è la constatazione che nel poema dantesco la suprema eloquenza è al servizio della propagazione delle verità della fede:
Ma con tale eloquenza non gl’errori d’Ulisse, non le battaglie troiane scrisse, non
la venuta d’Enea in Italia, non lo’mperio de’ Latini, non le lacrime di Venere,
non lo immortale odio di Iunone, non le ferite di Marte riferisce: nelle quali cose
veggiamo Omero e Virgilio essersi tanto affaticati. Ma che ingegno, o immortale
Dio, che profondità di mente! Abraccia il cielo, abraccia la terra, abraccia il
tartareo regno; e dal centro, avendo già espresse l’eterne pene degli
scellerati per spaventare gl’uomini da’ peccati, nel purgatorio salendo,
con aquiline ale vola alle suprerne sedie. Le quali cose, benché sotto
diversi velami nascondino somma scienzia, nientedimeno dalla vera
teologia in nessun luogo si dipartano. E qual teologo con più ordine o con
più manifeste demostrazioni ha potuto a noi mortali esprimere quello che gl’immortali spirti lassù nel lucidissimo fonte della natura contemplano, qual fisico
tutti e’ moti naturali o secondo el luogo o secondo la forma o imperfetti o perfetti o animati o inanimati con più lucide ragioni mai scrisse, qual corso di stella, qual congiunzione, qual revoluzione di cielo è
stata da lui pretermessa, qual trasformazion d’uno in altro elemento,
quale alterazione nell’aere, o di grandine, piove, venti, saette o d’altre
simili, qual composizione di minere sotto la terra concreate hanno
790
Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
dimostro e’ fisici che questo poeta non abbi almanco accennato? (corsivo mio) (Landino 1536: pagina non numerata).
Nel passo sopra citato la ‘fatica’ o merito del poeta teologo, sembra
dunque addirittura superiore a quella di Virgilio e di Omero. Ma per
non semplificare troppo questo approdo landiniano a Dante, e renderci meglio conto degli strumenti critici adoprati per giungervi (fra
cui la importante mediazione del Petrarca, oltre a quella di Virgilio)
conviene dare uno sguardo alla cronologia dell’iter di pensiero e di
docenza del Landino nell’ambito dell’Accademia ficiniana, in connessione con lo Studio fiorentino. Infatti il Landino, che in un certo senso
può essere considerato addirittura precursore di certa critica letteraria
moderna (Cardini 1973: 39), giunge a Dante dopo il commento a
Virgilio e ai R.V.F. di Petrarca, in una crocevia importante dell’attività
svolta allo Studio della Firenze medicea. Il suo commento dantesco, a
quanto pare non abbastanza apprezzato dai dantisti posteriori,21 costituisce la meta finale di chi, a un certo punto della sua vita, abbandona
le prime velleità poetiche presentate al Certame Coronario (nel 1441
aveva 16 anni) e una posteriore tappa sperimentale-petrarchista per
intraprendere, da docente e studioso, un percorso critico particolarmente originale e moderno. Seguendo la cronologia, e semplificando
tale percorso (accuratamente tracciato da Cardini 1973: 15-65) possiamo distinguervi tre tappe: 1) acquisisce una sempre più ampia prospettiva critica attraverso la frequentazione assidua dei classici latini; 2)
come docente inaugura allo Studio fiorentino la lettura del Petrarca
(non dei Triumphi, ma del Canzoniere) alla stregua di un vero e proprio
classico volgare, e 3) attraverso l’idea che sia possibile una letteratura
volgare ‘alta’ e una susseguente importante opera di riflessione filosofica (che dà luogo alla scrittura delle Camaldulenses Disputationes) approda finalmente a Dante. Ecco dunque, come frutto maturo di questo
iter, dopo una meditata ed erudita Prolusione dantesca, il prestigioso
Comento alla Commedia, uscito nel 1481 in edizione di lusso, con una
lettera prologale di Marsilio Ficino, e illustrata nientemeno che da
Sandro Botticelli. Quest’opera, nel cui titolo il Landino insisteva sulla
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Cristina Barbolani
fiorentinità sua e di Dante (Comento di C. Landino fiorentino sopra la
Comedia di Dante Alighieri poeta fiorentino), sebbene ristampata più volte
in Italia con un successo editoriale che durò oltre una quarantina d’anni,22 era sorta però in un momento preciso legato alle contingenze
politiche susseguenti alla congiura dei Pazzi, per iniziativa di un
Lorenzo de’ Medici impegnato nel suo programma di diffusione del
volgare toscano, e anche nella volontà di recuperare (in riparazione
all’ingiusto esilio) la figura di un grande per la cultura fiorentina elitaria e neoplatonica (gli echi della Commedia fra gli strati popolari a
Firenze non si erano mai spenti: valga per tutti l’esempio del Morgante
del Pulci) cioè motivato da un evidente patriottismo letterario.
Fin qui l’approdo landiniano a Dante sembra oltremodo pragmatico. Ma il suo percorso teorico passa, oltreché da Petrarca, da Virgilio,
per ragioni contemporaneamente letterarie e ideologiche. Infatti l’accostamento della Commedia all’Eneide,23 poema supremo su cui il
Landino ha meditato a lungo, lo spinge a riformulare il concetto di
allegoria che, secondo lui, non sarà più la verità previamente conosciuta che si applica a un racconto ‘nascondendola’ in una finzione letteraria, ma al contrario: una creazione sublime che nel suo insieme rinvia ad altro evocando, per l’eroe cantato dai grandi poeti, un processo
formativo etico-religioso esemplare per l’epoca: l’unione della vita attiva e contemplativa per il perfezionamento delle facoltà umane.
Peraltro il Landino fonda su queste due scelte l’impianto delle sue
Camaldulenses Disputationes che, non per caso, nel terzo e quarto libro
espongono proprio la sua interpretazione dell’Eneide. Ernesto Grassi,
filosofo che ha studiato a fondo l’umanesimo, riassume questa lettura
landiniana del poema virgiliano per la quale le avventure di Enea significano una vittoria sulla realtà e i suoi ostacoli alla ricerca del proprium,
per cui dalle diverse azioni imparerà la sua missione di fondare una
comunità storica, nell’unione di prassi e teoria.24
In quest’ordine di idee risulta opportuno citare dal Comento landiniano a Dante una delle prime pagine, in cui, dopo aver esposto le
792
Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
varie interpretazioni del ‹‹mezzo del cammin›› e citato l’ultima dei trentacinque anni, propone per ‹‹sì alto poema›› altro principio:
[…] la comune opinione de gl’uomini seguita Aristotile et David
intendono el mezo della vita trentacinque anni. Ma benché tale expositione non sia al tutto absona al vero, nientedimeno a sì alto poema,
par che si richiegga altro principio. Il che acciò che meglio possiamo
exprimere, ripeteremo con brevità alcune cose più di lontano, le quali
in forma ci apriranno la mente dell’auctore, che facile ci sia interpretare questo principio. È verisimile adunque che Danthe si proponessi
il medesimo fine el quale apresso de’ Greci Homero et apresso de’
Latini Virgilio s`havevono proposto. Et chome quegli l’uno per Ulixe, l’altro per Enea dimostrano in che modo venendosi nella cognitione de’ vitii et conosciutogli, purgandosi da quegli, s’arriva finalmente alla cognitione delle chose divine, chosì Danthe sotto questo figmento per la peregrinatione finge haver facto con
(sic) Virgilio in persona di sè dimostra quel medesimo (corsivo mio)
(Landino 1536: 2v-3r).
In parte questa concezione spiega come e perché la lettura landiniana del poema dantesco comporterà di pari passo una modifica dell’allegorismo, anch’essa in parte di tipo pragmatico in quanto tiene conto
della nuova sensibilità dei presumibili lettori dell’epoca. Questi ultimi
infatti non apprezzano l’oscurità come esibizione di sapienza riposta,
ma anzi ammirano la agevolazione espositiva che renda il testo più
accessibile. E il Comento ne fa un programma chiaro fin dall’inizio:
‹‹non volendo che’l volume cresca sopra modo, a inculcare e inviluppare piuttosto che explicare et distendere, molte cose, et maxime quelle le quali quando ben tacessi, non però ne resterà obscurata la expositione del texto›› (Landino 1536: pagina non numerata). Il Landino
sembra assai vicino a quella ‘facilità difficile’ considerata propria dei
classici, ma anche del Petrarca; perché escluderne il testo dantesco?
Con queste premesse viene giudicata una ricerca a vuoto quella che
vuol rendere conto di ogni minimo particolare oscuro del poema
sacro: infatti l’importante è non perderne di vista l’interpretazione globale. Tale lettura, che si intreccia strettamente con quella dell’Eneide,
condotta parallelamente nelle riflessioni landiniane, viene considerata
793
Cristina Barbolani
alla stregua di quella dei grandi poeti mitici che hanno trasmesso il
sapere e la civiltà. Secondo Roberto Cardini questo nuovo allegorismo
inizia una proposta di lettura senz’altro più moderna, in cui predominano la sensibilità, l’attenzione alla lingua, alla stilistica e alla retorica,
strumenti critici validi anche per Petrarca; il tutto, unito alla capacità di
giudizio sostenuta dalla convinzione del valore universale della ‘grande’ poesia ben oltre i limiti temporali e spaziali in cui si è prodotta. La
lettura del poema dantesco fa tutt’uno con la ‹‹piena e ferma rivendicazione di tutta l’antica poesia pagana […] nel puro e semplice significato “letterale”›› (Cardini 1973: 30).25 In quest’ordine di cose procede
anche La Brasca, che riconosce l’allegoria globale landiniana nelle chiavi interpretative offerte dai primi canti, sottolineando nel Landino
‹‹l’importance du sens allegorique qui fait des deux premiers chants
une sortie de clef permettant de dépasser la simple apparence narrative›› (La Brasca 1986: 21).
In realtà, se ci aspettassimo che nel suo Comento il Landino abbia
buttato via per sempre e del tutto l’allegorismo medievale, a una verifica di lettura vedremmo che le cose non stanno esattamente così. Nei
riguardi dei precedenti commentatori di Dante, spesse volte vediamo
che li utilizza, soprattutto quando non ha da offrire da parte sua un
contributo originale (e in questi casi è pronto a riconoscerlo onestamente). Tiene massimo conto dei commenti anteriori, li soppesa, li
confronta, li segue o li rifiuta, ma sempre dopo averli vagliati criticamente; e questo atteggiamento dubitativo va apprezzato. Ed è anche
vero che aggiunge alla tradizione criteri di critica che possiamo chiamare, con terminologia attuale, semantica, retorico-stilistica, a volte
psicologista, sebbene certamente poco filologica.26
In generale il Landino esprime forti dubbi sulle interpretazioni allegoriche troppo minuziose dei commenti anteriori, come quella della
figura di Metello menzionato in Pg. IX, 130-138,27 sulla quale opina
che ‹‹Sono alchuni che accomodano questa comparatione et quasi tutte
794
Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
l’altre al senso allegorico di Danthe. Ma a me pare che sia cosa troppo
anxia et curiosa›› (corsivo mio) (Landino 1536: 234r).
I termini «anxia et curiosa» ci ricordano che la curiositas è peccato in
Sant’Agostino, il quale nel De Trinitate XV, 9, 15 ha parlato dell’allegoria, distinguendo quella reale da quella verbale (Agustín de Hipona
1948: 861) e soprattutto differenziandola dall’enigma, il che lo porta a
sostenere che non tutto quello che appare narrato è sempre allegorico.
E precisamente a questo santo e a questa opera si riferiva un passo del
De Amore di Marsilio Ficino (1986: 67):
Era costumbre de los antiguos teólogos cubrir con las sombras de las
figuras sus secretos sagrados y puros, para que no fueran mancillados
por los profanos e impuros. Y efectivamente, no pensamos que los
hechos descritos en estas imágenes anteriores y en otras correspondan plenamente al sentido. Y así San Agustín dice que debe pensarse
que no todas las cosas que se representan en las imágenes tienen
algún significado. Pues muchas se han unido a aquellas que tienen un
significado a favor del orden y la consecuencia. La tierra solo se surca con
la reja del arado pero, para poder hacerlo, se añaden al arado los otros elementos
necesarios (corsivo mio).
Non certo per caso, qui siamo nel libro IV del De Amore e queste
parole vengono messe precisamente in bocca al Landino, che interviene nel dialogo ficiniano proprio in qualità di poeta e intenditore di
poesia.
Per concludere, non vorremmo tralasciare di citare un esempio che
ci sembra fra i più significativi di quanto abbiamo esposto. Si è visto
che nel Comento landiniano si afferma un nuovo modo di considerare
il poema sacro, e a ciò contribuisce il culto e mito di un Dante cristiano considerato, in definitiva, esente da eccessive sottigliezze dottrinali, assai meno vincolato al Medio Evo, e avvicinato al Petrarca, con il
conseguente allontanamento di entrambi dalla storia per situarli in una
sfera ideale, e pertanto adattabile a ogni tempo e luogo. A questa lettura contribuiscono, come abbiamo visto, la leggenda della vita esemplare dominata da un amore platonico, così come l’eccellenza della
795
Cristina Barbolani
poesia assunta al rango di teologia, tratti comuni ai due grandi. Il parallelismo con Petrarca, che il Landino cita a ogni piè sospinto, come possiamo osservare dalla consultazione del CD (Commenti 1999), gli fa
accostare i passi della Commedia non tanto alla produzione petrarchesca in latino (che tanto spesso viene presentata come affine all’umanesimo) quanto invece proprio a quella in volgare (i Triumphi e, più
sorprendentemente, anche il Canzoniere, letto e commentato allo
Studio di Firenze dal Landino ancor prima di elaborare il suo commento dantesco). Il Petrarca viene chiamato in causa, per esempio, nel
commentare il passo sull’avarizia dei chierici (If. VII, 37-71), accostato
significativamente ai sonetti antiavignonesi:
Et per due cagioni vitupera e’ preti in questo luogho: prima perché in
questi due vitii sono più involti che tucti gli altri huomini et sanza gli
exempli de’ passati secoli, le querele del nostro Petrarca ‘l’avara
Babyllonia’ et altrove ‘Fiamma dal cielo su le tue trecce piova’. Chi
non ha veduto ne’ nostri tempi huomini, o più tosto mostri d’huomini sanza lettere, sanza costumi, non sufficienti a’ quali si dovessi commettere la chura d’una vile cappella di contado, perché la fortuna gli a
elevati a gran dignità, havere usato in quella ogni estrema avaritia per
accumulare con simonie varie generationi di rapine […] (Landino
1536: 58r.).
Ma c’è di più: probabilmente in questo riferimento a Petrarca non
manca l’intenzione di attenuare e rendere più plausibile l’invettiva dantesca su qualcosa che, in fondo, tutti hanno avuto modo di presenziare (‹‹Chi non ha veduto […]››). E in generale si può dire che la critica
antiecclesiastica nel testo landiniano appare assai mitigata, per il già
osservato pragmatismo sotteso all’iniziativa del Comento promossa dal
Magnifico. In quest’ordine di cose non possiamo tralasciare un’ulteriore ragione, anch’essa pragmatica, del successo quarantennale dell’opera nel clima dell’ortodossia cattolica: la sua abbondanza di riferimenti scritturari.28 Dell’Antico Testamento appaiono citati Isaia, i
Salmi, il libro di Giobbe; del Nuovo i Vangeli, le Epistole, la
Apocalissi. Della patristica i santi Agostino (chiamato sempre
796
Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
Augustino), Ambrogio, Girolamo. Non che questi richiami mancassero nei commenti anteriori (il CD allestito dal Procaccioli, commenti
1999, ce lo dimostra), ma è maggiore la loro profusione nel Landino;
e lo straordinario sincretismo culturale, già osservato, fra paganesimo
e cristianesimo, li mostra spesso accanto ai testi della classicità pagana,
giungendo a volte fino al paradosso di spiegare i testi sacri con quelli
pagani anziché al contrario:29 tutti quanti portatori di una verità condivisa.
Su questo sincretismo insiste il Landino non solo nel prologo ma
anche lungo il commento. Per esempio a proposito di If. IV, 94-96
afferma:
chiama la poesia la quale in optimo e ornatissimo
canto di versi abbraccia tutte le dottrine, et massime la theologia.
Imperocché i primi poeti furono theologi come appare non solamente in Orpheo, Museo et Lino, ma in David et Job et in altri chome più
distesamente scrivemmo nel proemio di questo libro (Landino 1536:
38v.).
ALTISSIMO CANTO
Ma in questa argomentazione, che serve anche a giustificare l’utilizzo del repertorio mitologico classico nel poema sacro, il Landino non
perde occasione di ribadire l’ortodossia di Dante, che suppone sottesa
a tutta la ‘fictione’:
Et se bene attenderemo tutte le fictione che fa il poeta de’ supplicii e
tormenti de’ dannati, conosceremo che mai interviene che in qualche
modo non naschino dalla sacra doctrina christiana. Chosa certo mirabile che delle sententie d’altri faccia fictione propria sua et sia insieme
optimo poeta et optimo christiano (Landino 1536: 96r).
Di fronte a questa nuova prospettiva potremmo concludere con un
paradosso. L’affermazione del personaggio Dante nel secondo canto
dell’Inferno ‹‹Io non Enea, io non Paolo sono››, accettata senza problemi nella letteralità della diegesi, se tradotta al livello, per così dire, di
critica letteraria, veniva ribaltata e smentita. Il Landino, non solo non
differenziava le varie voci dello scrittore e del protagonista del poema
797
Cristina Barbolani
sacro (non esisteva ancora la semiotica!), ma nel concetto della ‘alta’ o
‘vera’30 poesia riuniva il capolavoro e il suo autore in una stretta simbiosi di esemplarità; e in virtù dell’equiparazione fra Commedia ed
Eneide, fra Commedia e testo cristiano proselitista, giungeva alla formulazione opposta: Dante poteva essere ‘letto’ come un nuovo
Enea/Virgilio o un nuovo Paolo di Tarso.
NOTE
1 In un incontro a Madrid dei primi anni Sessanta, Oreste Macrí mi assicurò,
assolutamente sul serio, di aver prenotato una camera di albergo a Soria senza riscaldamento, per poter sperimentare il freddo che aveva sentito in quella città il poeta
Antonio Machado.
2 Il Convegno ebbe luogo nel 2006 per ricordare il 40ennale della Lettera
Apostolica Motu Proprio data, Altissimi cantus del papa Paolo VI; le parole citate si riferiscono alle cerimonie di celebrazione del centenario dantesco del 1965 a cui partecipò lo stesso papa.
3 Risiedo in Spagna da più di cinquanta anni; sia detto per scusarmi di citare a
volte dei testi in traduzione spagnola, ovviamente assai più accessibili.
4 Giovanni del Virgilio dettò per la tomba di Dante l’epitaffio «Theologus
Dantes, nullius dogmatis expers / quod foveat claro phylosophia sinu: / gloria musarum, vulgo gratissimus auctor / hic iacet, et fama pulsat utrumque polum» (citato in
Frasso 2001: 150).
5 Incunabolo (BH INC-I-19) intitolato La Commedia, col commento di Cristoforo
Landino, seguita dal Credo di Danthe, il Pater nostro di Danthe, e l’Ave Maria di Danthe,
Venezia, Bernardino Benagli e Matteo Codecà, 3 marzo, 1491. Il catalogo attuale
avverte che si tratta, per queste tre ultime opere, di uno Pseudo-Alighieri.
6 Con la segnatura BH INC FL-64 e lo stesso titolo La Commedia, col commento di
Cristoforo Landino, seguita dal Credo di Danthe, il Pater nostro di Danthe, e l’Ave Maria di
Danthe, Venezia, Matteo Codecà, 29 novembre 1493.
798
Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
7 Con la segnatura BHFLL Res. 1282, s’intitola Cantica del divino poeta Danthe
Alighieri Fiorentino / col commento di Christophoro Landino: In fine, il credo, il pater nostro et
l’ave Maria di Dante. In Vinegia, per Bernardino Stagnino, 1536. Da questa edizione
citiamo il testo del commento landiniano, con qualche ritocco tipografico.
8 Nel poema dantesco la parafrasi del Paternostro del canto XII del Purgatorio è
un passo centrale, mentre le altre preghiere che accompagnano il commento landiniano, non solo non risultano estratte dalla Commedia ma nemmeno vi prendono
chiaramente lo spunto. Malgrado il canto finale del poema e la devozione mariana di
Dante, neanche l’Avemaria viene parafrasata, ma soltanto evocata in Pg. X, 40 nella
rappresentazione degli esempi di umiltà di cui la Vergine è il primo, e nel trionfo di
Maria in Paradiso XXXII, 95 (gli angeli cantano l’Ave presieduti dall’arcangelo
Gabriele).
9 L’articolo di Michele Bianco si limita a dimostrare che Dante è un buon cattolico, ma quanto cita dimostra soltanto la fede del poeta, cosa risaputa; tra l’altro non
menziona neppure l’esistenza di un Credo ritenuto di Dante.
10 Dati ricavati in rete: Il Concilio di Trento Sesiones I y II: Celebradas el 13 de
diciembre de 1545 y el 7 de enero de 1546 respectivamente. Cuestiones preliminares
y orden del concilio III: Celebrada el 4 de febrero de 1546. Se reafirmó el Credo
niceno-constantinopolitano.
11 Nella fattispecie il Credo occupa i ff. 203-206 ed è così intestato: ‹‹Questo è lo
credo per lo fidelissimo et xpnissimo dante poeta / composto inserto chon la domjnical oratione et Virginal Salutatione››. Alla completissima scheda 653 del Progetto
Boscán, in rete, rimandiamo per la descrizione di quel codice, e della completissima
bibliografia dei numerosi e prestigiosi studi al riguardo.
12 La citazione da Cassiodoro che segue aggiunge autorità a questo principio
esposto dal Bertoldi: l’opportunità di conoscere il bene premiato e il male castigato
per seguire la diritta via: ‹‹Cum opposita sint sibi invicem virtus et vitium, ad huiusmodi fugam, illius vero sequelam, oportet utriusque habere notitiam; ne, cum ad
virtutis celsitudinem tendimus, errore devio, quasi ignari, labamur in vitium: et merito, quia noscentes peccata et tormenta eis debita, virtutes et premia eis convenientia,
abstinent a vitiis et imitantur virtutes, declinantes a malo et bonum facientes››.
13 Queste parole profetiche riecheggiano, forse inconsciamente, il messaggio del
Battista che si proclama precursore di Cristo (Matteo, 3, 8).
14 ‹‹Una moderna opinione, sfacciata ad un tempo e timida e vile, asserisce che il
lettore dee giudicare il libro e non l’uomo. Io dico, e credo, e facile mi sarebbe il pro-
799
Cristina Barbolani
vare; che il libro è, e deve essere la quintessenza del suo scrittore; e che, se non è tale,
egli sarà cattivo, debole, volgare, di poca vita e di effetto nessuno›› (Alfieri 1951: 170).
15 ‹‹Scit me Christus liberator meus verum loqui, qui sepe michi cum lachrimis
exoratus, flenti ac misero dextram dedit secumque me sustulit, iuxta illud poeticum:
“Sedibus ut saltem placidis in morte quiescam”›› (Cit. in Rico 1974: 99).
16 Ecco dalla Vita di Dante del Bruni, in rete: ‹‹[…] dico che Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia: e vorrei che ‘l Boccaccio
nostro di questa virtù più tosto avesse fatto menzione, che dell’amore di nove anni
e di simili leggerezze, che per lui si raccontano di tanto uomo. Ma che giova a dire?
La lingua pur va dove il dente duole, ed a cui piace il bere sempre ragiona di vini››.
17 L’epistola a Peregrino Agli di Marsilio Ficino De divino furore era stata scritta nel
1457 (Ficino 1993: 6).
18 ‹‹Il rapporto di Dante con i classici latini non risiede dunque soltanto nell’essersi riconnesso alla loro lezione d’arte, quanto e piuttosto nell’aver applicato ad una
lingua diversa lo stesso processo umanistico di “ampliamento” e raffinamento culturale, linguistico e stilistico per cui ogni lingua inizialmente rozza e immatura diviene letteratura compiuta e perfetta: risiede cioè nell’essere, al pari di loro, un ‘classico’, in quanto iniziatore dell’umanesimo volgare›› (Cardini 1973: 125).
19 ‹‹[…] no creo que los sublimes efectos de la poesía hayan sido infundidos por
primera vez […] ni siquiera en Museo o Lino u Orfeo, aunque antiquísimos poetas
(a no ser, como piensan algunos, que Museo y Moisés son uno y el mismo), sino más
bien en los profetas, muy consagrados y dedicados a Dios, puesto que leemos que
Moisés, incitado según yo pienso por este deseo, escribió la mayor parte del Pentateuco
no en prosa sino en versos heroicos, dictándolo el Espíritu Santo›› (Boccaccio 1983:
821). Vi si percepisce l’eco del parere agostiniano espresso nel cap. 14 del libro
XVIII del De civitate Dei: ‹‹Existieron también durante este tiempo los poetas que se
llamaron teólogos por haber compuesto poemas sobre los dioses […]. Y si entre las
muchas tonterías y falsedades cantaron algo del único Dios verdadero, honrando
junto con El a otros que no son dioses, prestándoles la servidumbre solamente debida a Dios, no le sirvieron debidamente ni lograron abstenerse de la fabulosa indignidad de sus dioses hasta incluso los mismos Orfeo, Museo, o Lino›› (Agustín de
Hipona 2006: 750).
20 Si riferisce al libro IX dell’Iliade, 430-605.
21 L’importanza storica del commento landiniano in verità non va di pari passo
con la sua valutazione oggettiva: secondo gli addetti ai lavori, non risulta particolar-
800
Da Petrarca a Dante attraverso il commento del Landino
mente originale nel trattamento interpretativo; inoltre, a parte lo scandalo filologico
del fatto che il commento segua un testo diverso da quello pubblicato a fronte, altri
difetti sarebbero il fatto che scarseggino i rimandi alle opere minori di Dante e che
invece si apportino numerose citazioni del Petrarca.
22 Viene considerato fra l’altro l’unico fra i commenti danteschi tradotto in
Spagna, ma su questa traduzione ci sarebbe troppo da dire: sarà oggetto di un prossimo lavoro.
23 Da notare che in Spagna Enrique de Villena si accinse alla traduzione della
Commedia proprio poco dopo quella dell’Eneide; parallelismo assai significativo sebbene sia da escludere per ragioni cronologiche la conoscenza del commento del
Landino da parte dello spagnolo.
24 ‹‹[…] la cuestión de la primacía de la teoría o de la praxis, contenida en los
libros 3º y 4º de las Camaldulenses Disputationes, se resuelve no por medio de consideraciones teoréticas, sino por medio de la interpretación de la praxis de aquel hombre
que constituye el origen de la historia de Roma›› (Grassi 1977: 123 n. 26).
25 Così precisa Roberto Cardini la differenza con l’allegorismo anteriore: «La
difesa che Boccaccio, ma anche e più sistematicamente Salutati, avevano fatto dell’antica poesia era stata tutta volta a ritrovarne – al di sotto, “intestino sensu”, dell’apparente lascivia – la effettiva moralità, donde l’uso indiscriminato dell’allegoria.
Qui si ha invece una piena e ferma rivendicazione di tutta l’antica poesia pagana,
anche della meno casta, nel puro e semplice significato “letterale”: si è cioè del tutto
fuori non solo da qualsiasi giustificazione allegorica ma anche moralistica.
L’allegorismo del Landino sarà tutt’altra (e più storica) cosa: non un sotterfugio (di
cui non c’era più bisogno) per salvare la poesia dagli attacchi dei frati, o dai rimorsi
di una coscienza religiosa, ma un modo – forse allora l’unico modo possibile – per
caricare di un significato eccezionale, di paradigma di una aspirazione “morale” propria del suo tempo, i più grandi poeti ‘mondiali’. Egli non allegorizzerà i poeti per
difenderne la poesia, bensí attraverso l’allegoria filosofica li scioglierà dalla storia per
collocarli su un piano metastorico come interpreti insuperati della condizione e dell’eterno’ destino dell’uomo» (Cardini 1973: 31).
26 Su questo punto gli specialisti riconoscono nel Landino una certa incompatibilità non solo con i commenti medievali, ma anche con la filologia scientifica della
prima metà del ‘400. Ma secondo Cardini (Landino 1974: 29) approdare a Dante
attraverso e soprattutto ‘dopo’ Petrarca vuol dire anche volgere le spalle al Medio
Evo.
801
Cristina Barbolani
27 ‹‹Poi pinse l’uscio alla porta sacrata, /dicendo “Intrate; ma facciovi accorti /
che di fuor torna chi ‘n dietro si guata”. / E quando fuor ne’ cardini distorti/li spigoli di quella regge sacra, / che di metallo son sonanti e forti, / non rugghiò sí nè si
mostrò sì acra / Tarpea, come tolto le fu il buono / Metello, per che poi rimase
macra››.
28 Questi si moltiplicheranno nella traduzione del Villegas, che insiste nel leggere il poema sacro alla stregua di un testo religioso.
29 ‹‹[…] ce sont les textes sacrés qui sont expliqués d’après Hesiode et non le contraire›› (La Brasca 1986: 26).
30 Cardini precisa così il concetto di ‘vera’ poesia nel messaggio landiniano:
‹‹Sintesi e culmine di tutte le discipline liberali e strumento di conoscenza filosofica
più che di formazione pedagogica (e tanto meno puro esercizio di stile o evasivo
divertissement) la ‘vera’ cioè universale poesia debe esprimere l’intera vicenda intellettuale e morale dell’uomo, quella costruzione razionale e autonoma conquista della
nostra ‘dignità’ e ‘umanità’ delineata per l’appunto nei primi due libri delle
Camaldulenses e poi riscoperta nell’ Eneide dei due successivi›› (1973: 192-193).
802
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